Tiziano Treu
Trasporto pubblico locale: verso un federalismo contrattuale?
Xxxxxxx Xxxx
(Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Documento di Ricerca – Gennaio 2006
Trasporto pubblico locale: verso un federalismo contrattuale?
Redatto con la collaborazione di:
Xxxx. Xxxxxxx Xxxx, Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx, Avv. Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Studio Legale Simmons & Xxxxxxx
1. L’ATTUALE STRUTTURA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Il Protocollo del 23 luglio 1993. 5
La Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993 (Commissione Giugni) 8
La contrattazione decentrata nel lavoro privato 12
La contrattazione integrativa nel lavoro pubblico 16
Le proposte contenute nel “Libro Bianco” 30
Il “Memorandum per la crescita e lo sviluppo” 32
Le posizioni in campo 35
Le proposte di Confindustria. 49
2. IL QUADRO NORMATIVO NEL TRASPORTO PUBBLICO LOCALE
Il quadro normativo di riferimento 55
La disciplina legale del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri 62
I profili di criticità del quadro normativo e le prospettive di modernizzazione 67
3. LA STRUTTURA CONTRATTUALE NEL TRASPORTO PUBBLICO LOCALE
Fattori di influenza di una struttura contrattuale 72
La struttura della contrattazione del settore TPL 73
La partecipazione sindacale nei contratti del settore TPL 78
La struttura della contrattazione tra gerarchia e funzione: gli istituti previsti dai CCNL. 78
I contratti aziendali: principali tendenze 81
Le principali caratteristiche del settore TPL: la dimensione pubblica nella normativa di riforma 83
La situazione finanziaria del settore 84
La dimensione istituzionale: soggetti istituzionali coinvolti e ruoli svolti 85
Il costo del lavoro 86
Le caratteristiche organizzative e gestionali 88
Struttura della rappresentanza datoriale 90
4. MODELLO CONTRATTUALE E TRASPORTO PUBBLICO LOCALE: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Il parere dei responsabili del personale 91
Valutazioni generali sulla base della situazione delineata. 92
Scheda: sistema di relazioni industriali di livello non nazionale (Trasporto pubblico locale) 108
5. SINTESI DELLE CONCLUSIONI
1. L’attuale struttura della contrattazione collettiva.
Il Protocollo del 23 luglio 1993.
Il modello contrattuale attualmente adottato dalle parti sociali trova origine nel “Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo” siglato tra con il Governo il 23 luglio 1993.
Il Protocollo contiene una serie di obiettivi molto ampi ed ambiziosi, accomunati dall’intento di condividere, in una logica tripartita, una serie di interventi e di misure necessarie per consentire al Paese di uscire dallo stato di crisi in cui esso si trova.
In particolare, il Protocollo individua nella politica dei redditi lo strumento indispensabile per contenere l'inflazione ed i redditi nominali e, in tal modo, difendere il potere d'acquisto delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici.
Al fine di valorizzare tale strumento, il Governo assume l’impegno, d'intesa con le parti sociali, di realizzare politiche di bilancio finalizzate al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
- ottenimento di un tasso di inflazione allineato alla media dei Paesi comunitari economicamente più virtuosi:
- riduzione del debito e del deficit dello Stato;
- raggiungimento della stabilità valutaria.
In coerenza con questa finalità, le parti sociali assumono l‘impegno di perseguire comportamenti, politiche contrattuali e politiche salariali coerenti con gli obiettivi di inflazione programmata.
Funzionale al raggiungimento di questi obiettivi ambiziosi è la definizione di un “modello” di assetti contrattuali imperniato su due livelli di contrattazione, uno nazionale ed uno decentrato (aziendale o alternativamente territoriale, laddove previsto, secondo la prassi dei diversi settori).
La durata del CCNL viene fissata in quattro anni per la materia normativa e due anni per la materia retributiva.
Inoltre, si prevede che la dinamica degli effetti economici del contratto dovrà essere coerente con i tassi di inflazione programmata assunti come obiettivo comune.
Per la definizione di detta dinamica si conviene di tenere conto dei seguenti elementi:
- delle politiche concordate nelle sessioni di politica dei redditi e dell'occupazione;
- dell'obiettivo di salvaguardare il potere d'acquisto delle retribuzioni;
- delle tendenze generali dell'economia e del mercato del lavoro;
- del raffronto competitivo e degli andamenti specifici del settore. In sede di rinnovo biennale dei minimi contrattuali;
- della comparazione tra l'inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel precedente biennio.
Il Protocollo definisce poi le regole che governano la ripartizione di materie tra i due livelli contrattuali.
In particolare, esso prevede (con una disposizioni nella prassi contrattuale più volte disattesa, direttamente o indirettamente) che la contrattazione aziendale riguarda “materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL”, specificando che le erogazioni del livello di contrattazione aziendale debbono essere strettamente correlate ai seguenti fattori:
- risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e competitività;
- risultati legati all'andamento economico dell'impresa.
Inoltre, il Protocollo definisce anche una “gerarchia” tra le fonti contrattuali, in quanto prevede che la contrattazione aziendale o territoriale potrà agire entro i seguenti limiti:
- modalità ed ambiti di applicazione definiti dal CCNL;
- rispetto della tempistica, delle materie e delle voci previste dal CCNL;
- rispetto delle procedure definite dal CCNL di categoria per la presentazione delle piattaforme contrattuali nazionali, aziendali o territoriali.
Il Protocollo disciplina poi il periodo di vacanza contrattuale, stabilendo che dopo 3 mesi a partire dalla data di scadenza del CCNL, ai lavoratori dipendenti ai quali si applica il contratto medesimo non ancora rinnovato sarà corrisposto, a partire dal mese successivo ovvero dalla data di presentazione delle piattaforme ove successiva, un elemento provvisorio della retribuzione.
L'importo di tale elemento sarà pari al 30% del tasso di inflazione programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti, inclusa la ex indennità di contingenza.
Dopo 6 mesi di vacanza contrattuale, detto importo sarà pari al 50% dell'inflazione programmata. Dalla decorrenza dell'accordo di rinnovo del contratto l'indennità di vacanza contrattuale cessa di essere erogata.
La Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993 (Commissione Giugni)
Il Protocollo del 1993 è stato sottoposto ad una prima procedura di verifica a partire dal mese di settembre 1997, quando il Presidente del Consiglio dei Ministri ha incaricato una Commissione, presieduta da Xxxx Xxxxxx, di valutare i risultati prodotto dal modello di politica dei redditi e degli assetti contrattuali previsti dall’accordo e di proporre eventuali modifiche.
In particolare, alla Commissione viene assegnato il compito di analizzare il funzionamento delle prime due parti del Protocollo (principi e contenuti della politica dei redditi, gli assetti contrattuali) mentre rimane fuori dal campo di indagine la verifica delle politiche per il mercato del lavoro e per il sistema produttivo.
Per preparare la propria relazione, la Commissione si è avvalsa delle ricerche e dei lavori pubblicati sull'accordo del luglio 1993 e sui suoi effetti, ha realizzato una serie di audizioni con i maggiori centri di ricerca pubblici e privati e si è confrontata con le parti sociali.
All’esito di questa istruttoria, la Commissione ha osservato, innanzitutto, che gli obiettivi delle prime due parti dell'accordo del luglio 1993 sono:
- la tutela del potere di acquisto dei salari attraverso la concertazione nazionale e l'assegnazione al livello decentrato, principalmente aziendale, ma anche territoriale, della contrattazione sul salario variabile;
- la valorizzazione, tramite il livello decentrato, della flessibilità salariale legata ai risultati di produttività e redditività delle imprese.
In questo quadro, prosegue la Commissione, il coordinamento dei due livelli contrattuali era assicurato, oltre che dai rimandi specifici del contratto nazionale, dall’attività di coordinamento delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), come definite dall'accordo stesso.
La Commissione ritiene che la politica dei redditi abbia consentito di raggiungere i seguenti risultati:
- il contenimento dell'inflazione;
- la salvaguardia dei redditi reali delle famiglie;
- il risanamento della finanza pubblica;
- il rispetto dei criteri per l'adesione all'Unione Monetaria;
- il rilancio della competitività delle imprese, creando le premesse per un incremento degli investimenti ed il miglioramento dei livelli occupazionali;
Per quanto riguarda il nuovo assetto contrattuale introdotto dall'accordo del 1993, la Commissione osserva che esso:
- ha favorito un clima di bassa conflittualità sociale;
- ha creato le premesse per l'affermazione di un modello di relazioni industriali concertativo e maggiormente partecipativo.
La Commissione, conformemente al mandato ricevuto, non si limita alla parte di valutazione, ma tenta di individuare i possibili adeguamenti che potrebbero essere apportati al modello del 1993, sulla base dell'esperienza dei primi quattro anni di applicazione.
In generale, osserva che:
- il modello italiano di concertazione deve essere sostenuto con grande vigore;
- il metodo concertativo deve essere esteso anche a livello locale, sia per assecondare le tendenze verso un decentramento del sistema contrattuale, sia per sostenere i processi di determinazione e di realizzazione delle politiche del lavoro e di sostegno all'attività economica;
- alla luce dei risultati positivi raggiunti nella politica dei redditi e con la definizione della struttura contrattuale, si dovrebbe affrontare la questione della riduzione della settimana lavorativa a 35 ore all'interno della concertazione, in quanto tale metodo garantirebbe meglio la sostenibilità economica e gli effetti occupazionali delle riduzioni di orario.
Accanto a queste osservazioni di carattere generale, la Commissione individua le seguenti possibili modifiche da apportare all'accordo del luglio 1993:
- un maggior decentramento contrattuale;
- una maggiore specializzazione funzionale dei due livelli di contrattazione. Il contratto nazionale dovrebbe rimanere una parte
determinante del sistema contrattuale ma potrebbe essere ridimensionato quantitativamente e qualitativamente. Il ruolo fondamentale del contratto nazionale potrebbe essere quello di definire i minimi normativi e di orientare e controllare la contrattazione decentrata;
- il livello decentrato dovrebbe acquisire competenze maggiori in temi quali la flessibilità organizzativa, l'orario di lavoro ed il salario per quanto si riferisce all quota variabile e per obiettivi;
- ricorso (alternativo) alla contrattazione territoriale per favorire il decentramento laddove la contrattazione aziendale è poco diffusa, ad esempio nei settori o nelle aree in cui sono particolarmente diffuse le piccole imprese;
- possibilità di prevedere nel CCNL ‘clausole di uscita’, che consentano entro certi limiti di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina contrattata a livello nazionale. Tali deroghe sarebbero soggette al consenso ed alla supervisione delle organizzazioni firmatarie dei contratti derogati e sarebbero in ogni caso di natura transitoria;
- previsione di meccanismi specifici di composizione delle eventuali controversie di attribuzione o sovrapposizioni tra i diversi livelli contrattuali;
- incentivazione della diffusione di organismi bilaterali con funzioni sia di sostegno e orientamento della contrattazione collettiva, sia di composizione di eventuali conflitti di merito;
- rafforzamento del modello di rappresentanza dei lavoratori inserito dalle Rsu;
- introduzione di strumenti di misurazione della rappresentatività utilizzando due indici obiettivi come il numero di iscritti ed i voti conseguiti nelle elezioni delle Rsu, sul modello della recente riforma nelle pubbliche amministrazioni;
- risoluzione, dopo la riforma della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro e della rappresentatività, della questione dell'efficacia ‘erga omnes’ dei contratti collettivi, almeno per quanto riguarda i settori dove più alta è la frammentazione contrattuale e della rappresentanza (ad esempio, commercio e turismo).
La contrattazione decentrata nel lavoro privato
Nella struttura delineata dal Protocollo del 1993 il CCNL riveste i caratteri di una disciplina tendenzialmente rivolta a tutti, di carattere generale e di durata prefissata; il contratto aziendale tende invece ad essere canalizzato verso oggetti prestabiliti e riguarda un'area delimitata del sistema delle imprese (l'incidenza maggiore si ha nelle imprese del Nord ed in quelle con più di 50 dipendenti).
Abbiamo visto che in merito alla contrattazione decentrata, il Protocollo individua alcune regole precise che debbono presiedere alla sua struttura:
- il principio di non sovrapposizione tra le competenze dei due livelli;
- i contenuti della contrattazione di secondo livello (aziendale/territoriale) laddove esistente, vengono individuati nei premi di produttività o redditività e nella gestione degli effetti sociali delle trasformazioni aziendali.
La struttura della contrattazione collettiva definita dal Protocollo si articola quindi su due livelli contrattuali, l’uno nazionale di categoria, l’altro aziendale o alternativamente territoriale, legati tra loro da un rapporto che si presenta, per un verso, di tipo gerarchico, in quanto è il CCNL che determina per rinvio le materie di competenza della contrattazione decentrata, e, per altro verso, di tipo funzionale, in quanto ciascun livello ha anche una propria specializzazione, come dimostra in particolare la clausola sulla non ripetibilità, nonché l’attribuzione alla negoziazione decentrata della competenza sui premi per obiettivi e sulla gestione degli effetti sociali delle trasformazioni aziendali.
Il modello prescelto dal Protocollo è quindi orientato a promuovere un decentramento organizzato o coordinato della contrattazione collettiva, perché è il contratto di categoria che definisce i minimi di trattamento e individua le materie da rinviare alla contrattazione decentrata e, dunque, svolge da un lato una funzione di guida e di coordinamento della negoziazione di secondo livello e, dall’altro, può creare le condizioni perché questa possa efficacemente adeguare la disciplina nazionale agli interessi aziendali e locali, flessibilizzando, come si suol dire, le condizioni di lavoro.
L’applicazione dei principi e delle regole del 23 luglio ’93 nelle discipline di categoria – ciascuna delle quali risente di caratteristiche produttive ed organizzative, tradizioni, prassi contrattuali ed interessi, oltre che di rapporti di forza, notevolmente diversi – ha fatto emergere una pluralità di tipologie regolative e, quindi, di sistemi contrattuali di categoria.
Con riferimento alla scelta del livello di decentramento, la previsione relativa all’alternatività tra contrattazione aziendale e territoriale è stata interpretata dai contratti di categoria almeno in due modi diversi.
In alcuni casi, infatti, le parti hanno ritenuto che essa imponesse di scegliere solo uno dei due livelli decentrati, o quello aziendale o quello territoriale; in altri, invece, che consentisse nella stessa categoria lo svolgimento della contrattazione decentrata a livello sia aziendale sia territoriale, a condizione che fosse comunque esclusa qualsiasi ripetizione di discipline e di costi.
Su questa base è possibile distinguere almeno tre tipologie di sistemi contrattuali.
La prima è individuabile nei contratti che prevedono solo il decentramento aziendale della contrattazione; questa è la soluzione che, in teoria, può consentire il più ampio decentramento del sistema negoziale, anche se le discipline di categoria inducono esiti ben diversi nel momento in cui, richiamando la prassi in atto, in sostanza escludono le piccole imprese dall’ambito di applicazione della contrattazione decentrata.
La seconda tipologia di sistema contrattuale emerge nei contratti che prevedono il decentramento solo territoriale della contrattazione. Tale scelta è più idonea ad estendere la copertura della contrattazione decentrata a tutte le imprese, comprese quelle di minori dimensioni, soprattutto nei casi in cui il contratto di categoria agevola ulteriormente tale obiettivo, prevedendo che l’ambito contrattuale possa essere regionale, provinciale, di distretto, ecc. a
seconda delle specificità locali della struttura produttiva e delle esigenze delle parti.
Questa scelta, tuttavia, presenta un risvolto negativo. Infatti, se la contrattazione territoriale è prevista quale livello esclusivo di contrattazione decentrata, formalmente sottrae al sindacato ed alle stesse aziende maggiori la possibilità di utilizzare il negoziato diretto come risorsa per rafforzare l’efficienza e la competitività, per migliorare e flessibilizzare le condizioni di lavoro, per tutelare o ampliare l’occupazione.
La terza tipologia di sistema contrattuale emerge, infine, dai contratti di categoria che consentono la compresenza di contrattazione aziendale e territoriale.
A tal fine, alcuni contratti distinguono e specializzano le competenze dei due livelli decentrati e prevedono un ambito di applicazione comune; Altri contratti, invece, riconoscono ad entrambi i livelli le medesime competenze, ma ne distinguono nettamente l’ambito di applicazione (a seconda, per esempio, dei comparti produttivi, della dimensione delle imprese, ecc.), oppure lasciano che sia la singola impresa a decidere se applicare il contratto territoriale o, in alternativa, stipulare un contratto aziendale.
Tali ricostruzioni sono confermate dalle poche rilevazioni statistiche disponibili, le quali evidenziano un radicamento molto diseguale della contrattazione di secondo livello, con una copertura nell’industria di circa il 30-35% delle imprese e il 50-60% dei lavoratori nelle imprese al di sopra dei 20 dipendenti, valori che
scendono se si includono le imprese più piccole e il settore dei servizi.
Inoltre, il grado di copertura dei lavoratori sarebbe dell’80% per i comparti del petrolio e dell’energia e del 60% per i chimici, scenderebbe al 50% per i metalmeccanici e, addirittura, al 25% per i tessili (comparto del cotone).
Ancora limitato è stato, in generale, il ruolo della contrattazione decentrata in materia di premi per obiettivi, anche se il numero degli accordi in materia e dei lavoratori che percepiscono voci retributive legate ai risultati di impresa risulta in crescita .
Inoltre, questa contrattazione non sembra incidere su una quota di retribuzione complessiva rilevante attestandosi, mediamente, intorno al 3-5%, ma con differenze elevatissime a seconda delle dimensioni delle imprese e dei settori.
Va considerato, peraltro, che le ricerche statistiche, oltre ad essere basate su campioni spesso non comparabili e non rappresentativi di tutte le classi dimensionali di imprese, soprattutto di quelle piccole e piccolissime, non sempre sono in grado di distinguere in modo soddisfacente tra le diverse voci retributive in relazione alla loro specifica disciplina e, quindi, tendono a sovrastimare le dimensioni del fenomeno.
La contrattazione integrativa nel lavoro pubblico
La contrattazione di secondo livello, nel settore del lavoro pubblico assume caratteristiche e funzioni diverse a seconda del comparto contrattuale del quale è articolazione.
Sotto il profilo legislativo, la disciplina comune è contenuta nell'art.
40 del Decreto legislativo 165/2001. In esso si afferma che la contrattazione di secondo livello necessita di raccordarsi con quella di comparto e non può contenere disposizione incompatibili con quelle previste dal CCNL, pena la nullità delle disposizioni difformi. A fronte di questa disposizione comune, il quadro si articola maggiormente in ragione delle caratteristiche istituzionali ed organizzative dei diversi comparti, non solo per quanto riguarda il numero dei livelli da considerare "secondo livello di contrattazione", ma anche per quanto riguarda l'ampiezza delle materie contrattabili. Sotto il profilo del raccordo tra i livelli di contrattazione, le principali caratteristiche dei diversi comparti possono essere considerate le seguenti:
- i comparti Ministeri, Aziende ed Enti pubblici non economici prevedono per quasi ogni Amministrazione (e, cioè, per quelle provviste di articolazioni territoriali, regionali e/o provinciali) due livelli di contrattazione sub-comparto: il livello di Amministrazione (cd. contratto integrativo) e l’eventuale livello territoriale (cd. livello integrativo decentrato);
- i comparti Università, Enti di ricerca, Regioni ed autonomie locali e Sanità prevedono un secondo livello unico coincidente con la singola Amministrazione: possono però essere presenti livelli regionali di contrattazione (Sanità, prevalentemente per la definizione delle disponibilità finanziarie) o territoriali (Regioni ed autonomie locali, soprattutto per i Comuni di piccole e piccolissime dimensioni);
- il comparto della Scuola prevede accanto ad un livello integrativo di amministrazione centrale (Ministero della pubblica amministrazione), livelli territoriali di ambito provinciale e livelli interni alle singole istituzioni scolastiche. In questo senso, il comparto Scuola è quello con il maggior numero di livelli negoziali nella definizione della struttura della contrattazione.
Queste prime annotazioni evidenziano come il secondo livello di contrattazione non sia omogeneo tra i diversi comparti e come, di conseguenza, il livello più periferico possa considerare un numero maggiore o minore di materie a seconda dell'articolazione complessiva della singola Amministrazione.
Una ulteriore considerazione riguarda la diffusione della contrattazione di secondo livello: a differenza di quanto avviene nel settore privato, essa nel settore pubblico presenta, per così dire, le caratteristiche dell’atto dovuto". Infatti, le Pubbliche amministrazioni non possono concedere trattamenti accessori ulteriori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi (art. 45 del decreto legislativo 165/2001); ciò significa che l'utilizzo del Fondo - quale leva di incentivazione economica e di gestione delle risorse umane - è condizionata, quanto meno per la definizione dei criteri di corresponsione, alla stipulazione di un contratto collettivo.
Da questo punto di vista, la contrattazione collettiva abbraccia teoricamente il 100% delle Amministrazioni, anche se non necessariamente ciò si realizza, sia perché alcune Amministrazioni si limitano ad applicare le disposizioni dei CCNL (o anche degli integrativi nazionali di amministrazione), sia perché i tempi della
firma del contratto integrativo sono spesso molto lunghi e possono giungere al termine della vigenza contrattuale quadriennale.
Ultima considerazione da svolgere riguarda la rilevanza del numero dei dipendenti: proprio per quanto detto, il dato numerico degli occupati non sembra in grado di determinare la diffusione della contrattazione per due motivi di fondo:
- la contrattazione si svolge tendenzialmente in tutte le Amministrazioni;
- in tutte le Amministrazioni, a prescindere dal numero degli occupati, sono presenti gli interlocutori sindacali (RSU e organizzazioni territoriali dei sindacati firmatari il CCNL).
I quattro istituti maggiormente contrattati al livello di singola amministrazione sono quelli relativi alle procedure della contrattazione collettiva, all'intero sistema di relazioni sindacali (forme di partecipazione, diritti sindacali, prerogative delle rappresentanze, diritto di sciopero), al trattamento economico accessorio (costituzione e distribuzione del fondo), al sistema di inquadramento; a seguire, si collocano gli istituti relativi all'orario di lavoro e sue articolazioni e quelli riferiti all'organizzazione del lavoro. Questa distribuzione appare fortemente influenzata dai contratti nazionali, ma in parte anche da una tradizione della contrattazione nel settore pubblico. Infatti, sotto il primo profilo, bisogna considerare che i contratti nazionali contengono forti innovazioni proprio in materia di nuovo ordinamento e collegamenti con il sistema retributivo: il raccordo tra questi due istituti è, nei contratti nazionali, particolarmente forte ed è quindi naturale che esso si
riscontri anche nella contrattazione integrativa, facendo lievitare (in modo significativo rispetto alle analisi svolte negli anni precedenti) anche l'attenzione per l'organizzazione del lavoro.
La particolare attenzione posta alla proceduralizzazione delle relazioni sindacali, a volte ridondante rispetto agli stessi CCNL, è tipico della contrattazione pubblica anche degli anni passati, quasi a marcare una continua ricerca di reciproca credibilità tra le parti del contratto integrativo.
Inoltre ed indubbiamente, in questa tornata contrattuale il dato è alimentato da alcuni elementi nuovi quali: la ridefinizione della formazione delle delegazioni trattanti (soprattutto per la costituzione delle RSU), la redistribuzione delle prerogative sindacali tra RSU e altri soggetti sindacali, l'articolata e a volte complessa distribuzione delle materie tra le diverse modalità di confronto partecipativo.
Da questa distribuzione degli istituti contrattuali si ricava - con riferimento all'universo dei contratti esaminati - una influenza positiva dei CCNL sulla contrattazione integrativa con effetti di indubbio interesse soprattutto per quanto riguarda la rilevanza attribuita ad istituti organizzativi e di gestione della prestazione lavorativa.
Le considerazioni svolte appaiono confermate anche da una analisi dell'incidenza degli istituti. Infatti spicca soprattutto la grande attenzione posta sull'ordinamento professionale, anche maggiore rispetto a quella posta sul trattamento economico. Gli stessi istituti relativi all'organizzazione del lavoro superano in termini di dettaglio della disciplina quelli dell'orario, e le voci riferite alle relazioni
sindacali ed alla contrattazione collettiva appaiono ridimensionate rispetto al dato ricavabile dalla presenza.
In altri termini, ciò che si vuole sottolineare è che una volta costruito un canovaccio dei contratti integrativi che non si discosta sostanzialmente da quello seguito dai contratti nazionali di comparto, si evidenzia come le parti si siano però concentrate, nella definizione di dettaglio delle discipline, su quegli istituti che maggiormente permettessero la soluzione di tensioni organizzative e di rappresentanza interne alle amministrazioni.
Secondo quali logiche e con quali effetti sulla coerenza interna ai contratti lo vedremo in seguito, soprattutto per quanto riguarda la preminenza dell’inquadramento sulle politiche retributive.
Al termine di questa prima modalità di indagine, possono essere svolte alcune considerazioni che conservino le caratteristiche di scenario cui accennavamo in precedenza.
In primo luogo, sembra evidente come la contrattazione integrativa sia influenzata ed ispirata dalle caratteristiche della struttura della contrattazione dei diversi comparti.
Questo aspetto può essere spiegato con diversi motivi. Il ruolo che svolge il CCNL è molto importante nel settore pubblico e, per alcuni versi, originale rispetto al settore privato.
L'elemento di similarità con il settore privato è dato dal modello bipolare definito per entrambi i settori nel 1993 e che, seppure in una prospettiva di specializzazione di ruoli, pone l'esigenza della coerenza e della non ripetibilità delle materie ai diversi livelli.
L'elemento che diversifica il settore pubblico da quello privato è la funzione normativa specifica che caratterizza il CCNL; infatti, per il decreto 165/2001, molti istituti normativi "privatistici" si applicano al settore pubblico secondo le modalità previste dai contratti nazionali. La funzione di guida che assumono i contratti nazionali è quindi rilevante e influenza la contrattazione integrativa sia per quanto riguarda le materie contrattate (si pensi ad alcune forme flessibili di lavoro, poco negoziate in assenza di una normativa nazionale soprattutto per tipologie quali l'interinale, il telelavoro, ecc., al momento della rilevazione), sia per quanto riguarda la "filosofia" della contrattazione, cioè il raccordo tra prestazione e organizzazione, il contemperamento tra organizzazione e tutela.
Ma i CCNL, come accennato, influenzano quelli integrativi anche sotto il profilo della struttura. Comparti con un unico livello di contrattazione nazionale (sede ARAN) consentono una maggiore ricchezza dei contratti integrativi; al contrario, comparti che prevedono un doppio livello nazionale (ARAN + Ente) favoriscono una specializzazione maggiore del livello locale e, in ultima analisi, una concentrazione delle parti su un minor numero di materie. Emblematico a questo proposito è il caso del comparto Scuola, per il quale si può dire che il contratto ARAN e quello di amministrazione hanno la stessa dignità: i contratti provinciali si limitano a gestire un minor numero di aspetti del rapporto di lavoro.
Significativa è anche l'esperienza INPS che, nonostante rientri nella logica appena descritta, riesce a coniugare insieme un buon numero di istituti anche al livello locale.
Una considerazione simile a quella svolta a proposito della quantità degli istituti negoziati può svolgersi anche per quanto attiene alla loro “qualità": in questo senso si nota come quanto più la struttura della contrattazione è complessa, minori sono le discipline di dettaglio che ritroviamo al livello locale. In altri termini, le Amministrazioni centrali, soprattutto in ragione di una omogeneità organizzativa e normativa su tutto il territorio nazionale, tendono maggiormente ad accentrare la completezza della normativa. Ma questa è una mera constatazione di fatto, assolutamente logica e coerente sotto il profilo organizzativo.
Una seconda considerazione riguarda la connessione tra istituti di tutela e organizzazione: la contrattazione di secondo livello è molto ispirata dai CCNL.
Il lavoro pubblico e la contrattazione di secondo livello sembrano essere ormai incamminati sulla strada del contemperamento tra esigenze di tutela del lavoro e tutela dei servizi: seppure con soluzioni differenziate tra comparti, tra settori di comparti e tra Amministrazioni, la visibilità di questo intreccio è molto maggiore che nel passato.
E' probabile, per quanto riguarda soprattutto l'inquadramento, che l'attenzione su questi istituti sia stata dettata anche dalla esigenza di dare risposta a situazioni di stallo ereditate dal passato (ad esempio, mansioni superiori) e che le opportunità offerte dai CCNL abbiano sollecitato la negoziazione su istituti in grado di recuperare in termini professionali ed economici un disagio diffuso tra i pubblici dipendenti.
E’ sempre difficile esprimere valutazioni sull’operato delle forze sociali, soprattutto quando si tratta di commentare il risultato dell’attività negoziale; se consideriamo un dato certo il senso di responsabilità degli attori, il contemperamento degli interessi raggiunto, di cui è termometro il contratto collettivo, non può che ritenersi quello più idoneo a garantire l’organizzazione nella quale quegli attori operano. Ugualmente, però, non si può correre il rischio di assumere un atteggiamento che, travalicando l’opportuno ambito del “senso della realtà”, finisca per sconfinare nel giustificazionismo ad ogni costo, abdicando ad ogni responsabilità di analisi e giudizio. È importante allora definire il parametro di riferimento dei giudizi espressi.
Per l’oggetto di queste pagine il parametro può in primo luogo essere rintracciato nella previsione legislativa che definisce la struttura della contrattazione nel settore delle pubbliche amministrazioni: il terzo comma dell’art. 40 del decreto legislativo 165/2001 è, sotto questo profilo, più problematico dell’analoga disposizione prevista per il settore privato dal Protocollo del 23 luglio 1993. Da un lato “diversità e non ripetitività” di “materie ed istituti”, dall’altra coerenza con i vincoli risultanti dai CCNL assistita dalla sanzione di nullità per le clausole difformi. I contratti integrativi del settore pubblico sembrano potersi ricavare un maggiore spazio “interpretativo” sulle materie già previste dai contratti nazionali, soprattutto nel caso di istituti e materie per i quali il contratto nazionale non utilizzi un linguaggio di “certezza” ed immediata vincolatività.
Come abbiamo visto nell’analisi svolta, il contratti integrativi hanno una tendenziale predisposizione alla rielaborazione dell’intero testo del contratto nazionale di comparto, anche nelle parti in cui non si ponga l’esigenza di un adeguamento alla struttura organizzativa, mentre sono rispettosi del loro dettato vincolante ed esclusivo. In questo senso, la mancanza di coerenza è rintracciabile nella funzione della contrattazione integrativa piuttosto che nel mancato rispetto della disciplina nazionale; non di esorbitanza dal ruolo assegnato si dovrebbe parlare, quanto di tradimento del modello teleologico e riformistico dell’organizzazione sottesa ai contratti di comparto. Se il problema è questo, sarebbe sufficiente che i contratti nazionali mantenessero al proprio livello un maggior numero di decisioni, soprattutto quelle più direttamente incidenti sull’organizzazione (criteri di inquadramento e delle progressioni, criteri per la retribuzione di risultato, massimali nella determinazione delle funzioni del Fondo, criteri per la valutazione delle prestazioni). Certo ne risentirebbe la possibilità di una flessibilità della normativa in base alla flessibilità dell’organizzazione; e, d’altra parte, la ricerca di un equilibrio tra controllo e responsabilità, tra accentramento ed autonomia è da sempre un problema delicato nella definizione degli ingredienti delle riforme, soprattutto quando si tratta di risorse pubbliche e, a maggior ragione, quando queste carenti.
In altri termini si tratta di procedere ad una valutazione fredda della situazione reale e di cercare le soluzioni idonee al nostro modello istituzionale ed amministrativo.
La maggioranza dei contratti integrativi raggiunge il risultato di un incremento della tutela “statica” del lavoro, sia rispetto all’organizzazione, sia rispetto ai parametri indicati dai contratti nazionali di comparto. Questa diffusa omogeneità di effetti testimonia di una residualità di esercizio di “potere datoriale” da parte dei dirigenti; residualità che, come abbiamo visto, giunge fino al punto di rinegoziare le regole delle relazioni sindacali in senso incrementale per il “contropotere” sindacale e, per questa via, rideterminando gli ambiti di competenza dei livelli all’interno della struttura della contrattazione. Di “ruolo residuale e marginale” e di “debolezza strutturale” del potere datoriale parla già un’indagine specifica condotta dall’ARAN che ne sottolinea sia l’ambito di rapporto con il responsabile politico, sia quello della competenza professionale. Appare indubbio che la responsabilità gestionale stenti ad affermarsi, soprattutto quando:
- non è superata la pervasività della politica all’interno dell’amministrazione,
- la funzione di mediazione sociale svolta (condivisibilmente) dai partiti politici non lega in maniera diretta ed indissolubile le sorti del responsabile politico di un’amministrazione al funzionamento ottimale e sociale della stessa,
- un sistema elettorale fondato su un bipolarismo di coalizione, attenua ulteriormente la responsabilità politico-amministrativa,
- la internalizzazione degli strumenti di controllo può dare l’impressione di una più agevole gestione “domestica” delle tensioni organizzative e gestionali.
In tale situazione può essere comprensibile (anche se non condivisibile) che almeno in parte l’approccio professionalizzante richiesto ai dirigenti si converta in una sensibilità politica, anche nei confronti delle istanze sindacali, percepite anch’esse come dimensione politica di garanzia di consenso, piuttosto che come rappresentanza di interessi da contemperare organizzativamente.
Sul fronte della rappresentanza dei lavoratori, bisogna considerare che già da qualche anno è in crisi la convinzione che il contratto nazionale riesca a fungere da autorità di governo sostanziale del potere d’acquisto. Percepita o reale che voglia considerarsi, l’insufficienza della retribuzione a far fronte alle esigenze ed incombenze della vita quotidiana rafforza la spinta a “stabilizzare” e “generalizzare” le quote di retribuzione, anche se gestite dalla contrattazione di secondo livello. Soprattutto nelle aree a maggiore diffusione di famiglie monoreddito (mezzogiorno) e/o in quelle a più alto costo della vita (città metropolitane).
Quali siano le modalità attraverso le quali ciò si realizzi lo abbiamo visto nelle pagine precedenti; come anche i modi in cui gli istituti dell’ordinamento professionale possano essere prestati alla stessa funzione.
Dalle considerazioni svolte risulta evidente come la contrattazione integrativa possegga ancora eccessivamente i caratteri di una procedura domestica di adattamento delle risorse. La spinta propulsiva all’innovazione, indubbiamente contenuta nei contratti nazionali, si affievolisce mano a mano che il modello organizzativo
si concretizza nell’ambiente di interessi specifici delle singole amministrazioni.
Ciò non significa che manchino importanti ed interessanti esperienze di innovazione, senz’altro in via di diffusione con il passare degli anni; ma bisogna convenire sul fatto che esse non riescono ancora ad acquisire una rilevanza statistica minima nell’analisi dei grandi numeri e si devono accontentare di rappresentare stimolanti case studies.
Eppure, questa consapevolezza non deve suggerire di considerare finita e – peggio – fallita l’esperienza riformatrice realizzata nel corso dell’ultimo decennio e, nella sostanza, entrata a regime solo con la tornata che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti. E ciò perché:
- ogni riforma, soprattutto che investa le organizzazioni, ha anche bisogno di sedimentazioni e stabilità sia per poter esprimere tutte le proprie potenzialità, sia per convincere gli attori organizzativi che da quel quadro di riferimento non si esce con cadenza decennale (non dimentichiamo che - nel corso del 900 - nei primi anni ’70 furono approvate le prime leggi di settore di contrattualizzazione di singoli aspetti del rapporto di lavoro, nei primi anni ’80 fu approvata la cosiddetta legge quadro, nei primi anni ’90 è stata approvata la riforma della contrattualizzazione piena del rapporto di lavoro);
- come detto, non mancano esperienza positive ed innovative che sarebbero mortificate da un mutamento del quadro
normativo di riferimento e che vanno invece valorizzate per il loro ruolo di modello di riferimento;
- è possibile riequilibrare il modello vigente senza necessità di stravolgimenti normativi e senza precipitosi pentimenti. Anche nel settore del lavoro pubblico, il dibattito sulle misure da adottare si deve misurare con quello già in corso sul nuovo modello di relazioni industriali anche nel settore privato e che entrerà nel vivo nei prossimi mesi. Se è vero che allo stato attuale le previsioni contenute nel decreto 165/2001 sono filiazioni coerenti del modello previsto dal Protocollo del 23 luglio 1993, è altrettanto vero che non necessariamente la prossima riforma debba mantenere lo stesso tasso di coerenza.
Tutte le indagini che hanno esaminato la contrattazione integrativa nel settore pubblico, hanno evidenziato i rischi di un eccessivo decentramento, soprattutto quando ad esso non corrisponde una visibile interrelazione tra organizzazione e ruolo sociale assolto dall’amministrazione in funzione di verifica e controllo (in termini aziendalistici si direbbe tra organizzazione e mercato): le soluzioni domestiche diventano meno praticabili se è facilitato questo tipo di trasparenza. E, inoltre, bisogna assumere come vincolo il maggiore tasso di politicizzazione che caratterizza le nostre amministrazioni per quelle ragioni di carattere istituzionale alle quale abbiamo accennato e che non possono essere modificate attraverso la normativa sulle relazioni sindacali e sul rapporto di lavoro.
Le proposte contenute nel “Libro Bianco”
Il dibattito sul modello contrattuale, avviato dalla verifica sull’applicazione del Protocollo del ’93 affidata alla commissione Giugni, è rimasto infruttuoso in occasione del Patto di Natale del ’98, e si è riacceso solo in occasione della pubblicazione del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, presentato nell’ottobre 2001 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Questo documento ha esplicitamente messo in discussione l’utilità della politica dei redditi ed ha proposto un metodo di confronto tra governo e parti sociali alternativo alla concertazione, il c.d. dialogo sociale, e un’ipotesi di modifica della struttura contrattuale.
Tali proposte implicano una (piuttosto radicale) soluzione di continuità rispetto alle tradizioni ed ai principi cui si ispira il nostro sistema di relazioni industriali.
Il Libro Bianco si propone, innanzitutto, di incidere sulle dinamiche retributive per realizzare differenziazioni salariali consistenti, attraverso la riduzione del trattamento economico riconosciuto dal CCNL e l’estensione del decentramento contrattuale, al quale si affida la funzione di definire un più «stretto legame tra retribuzione e performance dell’impresa».
Il contratto nazionale di lavoro, dunque, «potrebbe sempre più assumere il ruolo di “accordo quadro” capace di salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni minime, di fissare standard minimi comuni» (p. 82): avrebbe, insomma, la funzione di fissare una sorta di equivalente del salario minimo legale. Cruciale, da
questo punto di vista, è innanzitutto la specificazione del grado di protezione delle retribuzioni che dovrebbe assicurare.
Il riferimento al potere d’acquisto delle retribuzioni minime potrebbe perfino far pensare ad un valore intorno al 50% del salario medio effettivo, discretamente al di sotto di quanto sinora garantito dal contratto nazionale. Non è chiaro, tuttavia, se l’adeguamento dovrebbe tenere conto dell’inflazione reale o di quella programmata e, in quest’ultima ipotesi, delle modalità di recupero dell’eventuale differenziale rispetto a quella reale, visto che tale contratto dovrebbe avere «un periodo di validità diverso dall’attuale […] eliminando, eventualmente, il momento contrattuale intermedio».
Il depotenziamento della funzione del contratto nazionale in materia di retribuzione è poi accentuato dal fatto che ad esso è sottratta la fondamentale funzione – viceversa riconosciuta nel Protocollo - di aumentare i minimi in relazione agli andamenti medi della produttività di settore.
Sempre secondo il Libro Bianco, la contrattazione decentrata dovrebbe essere rafforzata per «rendere più flessibile la struttura della retribuzione. [… Essa] non dovrebbe produrre un effetto di sommatoria sulla dinamica complessiva delle retribuzioni e quindi generare aspettative inflazionistiche. A questo fine occorrerebbe che la contrattazione decentrata, pure non prevedendo trattamenti inferiori ai minimi previsti dal CCNL, fosse concepita in senso non sovrapponibile allo stesso per facilitare la riemersione del “sommerso” e per superare temporanee crisi occupazionali, in
particolare nelle piccole e medie imprese o in determinate aree territoriali».
La struttura contrattuale proposta, dunque, si basa su due livelli contrattuali ad applicazione alternativa dei rispettivi trattamenti, senza raccordi di competenza né di tipo gerarchico, né di specializzazione, ma con il solo il vincolo per la contrattazione decentrata di fornire trattamenti non inferiori a quelli minimi nazionali.
E’ evidente la differenza con il modello del ’93, nel quale le discipline dei due livelli contrattuali si integrano sulla base di rapporti gerarchico-funzionali, in modo da non provocare sovrapposizione di discipline e sommatorie di costi.
In base al Protocollo, minimi retributivi nazionali ed erogazioni di risultato – competenze specializzate, e non ripetitive, rispettivamente del primo e del secondo livello – si sommano ai fini della dinamica complessiva delle retribuzioni (pur non incidendo sull’inflazione).
Nel Libro Bianco, invece, il trattamento retributivo può essere disciplinato a qualunque livello, ma ciascuna azienda è tenuta ad applicare o quello previsto dal contratto nazionale o regionale che salvaguarda solo il potere d’acquisto delle retribuzioni minime - o, in alternativa, quello del contratto decentrato.
Il “Memorandum per la crescita e lo sviluppo”
Dopo la pubblicazione del Libro Bianco, il tema dei possibili correttivi da apportare al Protocollo del 1993 riemerge in maniera esplicita
con la sottoscrizione del “Memorandum per la crescita e lo sviluppo”, sottoscritto il 14 luglio 2004 tra CONFINDUSTRIA e Cgil, Cisl e Uil, il quale individua le priorità condivise per la crescita e lo sviluppo del Paese.
Il documento osserva innanzitutto che il modello concordato con il Protocollo del luglio 1993 ha rappresentato un capitolo fondamentale nella evoluzione della politica economica e delle relazioni industriali nel nostro Paese.
Attraverso quell’accordo è stato definito un sistema di regole, di procedure e di comportamenti che hanno permesso all’Italia di contenere le dinamiche dell’inflazione, salvaguardando i redditi delle famiglie; di risanare la finanza pubblica, rispettando così gli obiettivi per la partecipazione all’Unione Europea; di rilanciare la competitività delle imprese, creando in questo modo le premesse per un avvio degli investimenti e per un miglioramento della situazione occupazionale.
Allo stesso modo, l’assetto di sistema di contrattazione collettiva definito da quell’accordo ha permesso l’instaurarsi di un clima di bassa conflittualità sociale, ponendo le basi per l’affermazione di un modello maggiormente partecipativo.
A distanza di oltre dieci anni, prosegue il Memorandum, è necessario riflettere sulla attualità degli impegni complessivamente assunti, rispetto al mutato contesto economico derivante anche dalla riduzione dell’inflazione e dagli effetti della moneta unica.
Il documento prosegue osservando che la concertazione – cioè una vera politica di confronto per definire e costruire insieme un progetto
per lo sviluppo equilibrato del paese – è la strada migliore per raggiungere obiettivi condivisi.
Al fine di valorizzare questo modello, le parti individuano i capitoli principali su cui dovrà essere avviato (con tempi diversi) il confronto. Questi capitoli riguardano:
- le priorità in materia di politiche per la ricerca ed innovazione, le infrastrutture, la formazione e il Mezzogiorno;
- la “questione” inflazione, per individuare – nell’ambito di un processo di concertazione centrale e territoriale – ragioni, cause strutturali e possibili rimedi circa l’andamento di un fenomeno che se non rimosso, rischia di vanificare gli effetti della politica dei redditi;
- il sistema di previdenza complementare; lo sviluppo dei fondi pensione viene ritenuto necessario non soltanto per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale di base, senza penalizzare il livello del trattamento complessivo spettante alle giovani generazioni, ma anche per rafforzare e stabilizzare i mercati finanziari ed offrire, anche in questo modo, una prospettiva di sviluppo al paese;
- una diversa modulazione degli assetti contrattuali in coerenza con le esigenze di rigore e di adattabilità imposte nel rilancio dello sviluppo, con l’obiettivo di ridurre in misura sensibile il numero dei contratti nazionali e semplificare la loro struttura settoriale.
Il confronto su questo ultimo punto non ha prodotto risultati concreti, in quanto alcuni contrasti preliminari hanno impedito il rispetto dei tempi concordati nel Memorandum.
Le posizioni in campo
Nonostante la brusca interruzione del dialogo verificatasi dopo il Memorandum, il tema della revisione degli assetti contrattuali è ormai progressivamente entrato al centro del dibattito sulle relazioni industriali.
Tale dibattito ha visto sino ad oggi emergere posizioni che, seppure ancora poco strutturate, risultano molto diverse tra le diverse organizzazioni sindacali e tra queste e le associazioni dei datori di lavoro, sia per quanto riguarda il metodo con cui la revisione dell’accordo del 1993 dovrebbe essere attuata, sia con riferimento ai correttivi concreti che ad esso dovrebbero essere apportati.
Tale dibattito non è sfociato – ad eccezione della posizione assunta nei mesi scorsi da Confindustria – in proposte strutturate; ciò rende difficile una completa sistematizzazione delle diverse posizioni in campo.
Pur in questo quadro ancora non definito, è possibile tentare una ricostruzione delle diverse posizioni delle organizzazioni sindacali; a tal fine, riportiamo una efficace analisi (elaborata da CGIL) che si caratterizza per la sua ampiezza e per la puntualità della ricostruzione delle diverse posizioni, con l’avvertenza che queste ancora non possono ritenersi definitive.
CGIL | CISL | UIL |
LA CONCERTAZIONE E POLITICA DEI REDDITI | LA CONCERTAZIONE E POLITICA DEI REDDITI | LA CONCERTAZIONE E POLITICA DEI REDDITI |
Le relazioni sindacali devono determinare il confronto fra le parti sociali a partire a una nuova politica di tutti i redditi e una diversa politica di sviluppo. Fisco, politiche contributive, prezzi, tariffe, welfare basato su qualità, equità e solidarietà. Una fiscalizzazione degli oneri sociali sui bassi salari e sul lavoro dequalificato. La fiscalizzazione al contrario della decontribuzione non riduce i diritti previdenziali dei lavoratori. Rivedere il meccanismo di calcolo dell’inflazione, agendo sulle voci di composizione del paniere e ridefinendo il peso specifico di ogni singola voce, per avvicinarsi il più possibile al reale costo della vita. | Va ripristinata la politica di concertazione tra Governo e parti sociali per la regolazione delle politiche macroeconomiche e delle politiche sociali, con regole e modalità definite sia a livello nazionale che ai livelli decentrati. In particolare va realizzata una concertazione efficace della politica dei redditi, con le sessioni preventive al DPEF e alla legge finanziaria che definiscano l’inflazione prevista in riferimento all’inflazione europea e gli strumenti di attuazione sul piano del contenimento dei prezzi, tariffe e coerenti politiche fiscali che rendano realistiche le previsioni. In caso di assenza della concertazione sociale, l’inflazione prevista sarà concordata dalle parti sociali. | Va rilanciata la politica di concertazione di cui, anche nel prossimo futuro, ci sarà bisogno. Occorre, però, mutuarne gli obiettivi ed ampliare le sedi in cui essa può trovare applicazione. Oggi, la concertazione può e deve essere funzionale ad una politica di crescita e di sviluppo, bisogna trasferire questo modello di relazione anche a livello regionale. Va sostituita all’inflazione programmata quella realisticamente prevedibile, e proposte nuove mete che puntino alla redistribuzione della ricchezza, attraverso: ▪ La valorizzazione del lavoro, sia quello stabile, sia quello flessibile; ▪ Una lotta ancora più determinata all’evasione fiscale e contributiva; ▪ La trasformazione di una parte del cuneo fiscale in spazi di contrattazione per il welfare; ▪ Un’ampia defiscalizzazione dei salari più bassi, insieme a misure d’incentivazione all’emersione del lavoro nero; ▪ Il sostegno e la valorizzazione dei risultati della contrattazione di secondo livello. |
CGIL | CISL | UIL |
LA CONTRATTAZIONE INTERCONFEDERALE | LA CONTRATTAZIONE INTERCONFEDERALE | LA CONTRATTAZIONE INTERCONFEDERALE |
Europa Un’attenzione particolare va riservata alla dimensione sovranazionale dell’impresa anche alla luce delle nuove direttive sulla società europea e sulla responsabilità sociale delle imprese, nonché al ruolo dei CAE. Promuovere a livello europeo azioni sindacali per pretendere coesione sociale e per contrastare il dumping sociale basato su bassi costi e sulla negazione dei diritti collettivi ed individuali. | ▪ Per il recepimento e l’attuazione delle direttive europee e per l’attuazione degli accordi europei tra le parti sociali. ▪ Accordi interconfederali per l’attuazione delle normative in materia di lavoro previste dalla legislazione nazionale. | Il livello di contrattazione interconfederale è fondamentale per le materie che riguardano tutto il mondo del lavoro ed in particolare per la definizione del sistema di relazioni sindacali e delle regole di struttura dei contratti. Queste materie necessitano infatti di una generale armonizzazione, al fine di garantire l’omogeneità tra i diversi settori lavorativi in particolare su diritti e trattamenti normativi quali, ad esempio, la flessibilità, l’orario di lavoro e la sicurezza. Naturalmente l’accordo interconfederale può fissare delle linee guida che il successivo livello categoriale provvederà ad integrare e specificare, sulla base delle singole realtà. Un particolare ed importante oggetto del livello interconfederale attiene alle materie inerenti le direttive comunitarie da recepire nella normativa nazionale. In questo caso, peraltro, l’attinenza oggettiva all’intero mondo del lavoro rende quasi obbligatorio questo percorso, che in ogni caso ha una sua valenza ed utilità poiché, anche in altre circostanze, snellisce consistentemente i tempi della contrattazione e garantisce coerenza ed omogeneità al sistema delle relazioni sindacali. |
LE SCELTE CONTRATTUALI | LE SCELTE CONTRATTUALI | LE SCELTE CONTRATTUALI |
CGIL | CISL | UIL |
I livelli contrattuali | I livelli contrattuali | I livelli contrattuali |
É essenziale una politica rivendicativa per l’aumento del potere d’acquisto delle retribuzioni e per questo va riconfermato un modello contrattuale su due livelli (nazionale e decentrato), con funzioni distinte sia per il salario che per la parte normativa. I due livelli contrattuali sono complementari e insostituibili. Vanno sostenuti valorizzando specificità, compiti e ruoli. | La struttura della contrattazione è basata sulla riconferma dei due livelli, nazionale e decentrato. Il CCNL deve svolgere il ruolo di garanzia generale sul piano normativo e salariale. La contrattazione decentrata dovrà diventare pienamente esigibile per tutti i lavoratori. I contratti nazionali hanno la funzione di regolare le condizioni d’impiego e la tutela di tutti i lavoratori di intere filiere produttive e dei servizi, mediante consistenti aggregazioni degli attuali 420 contratti nazionali. Si potranno così creare i contratti nazionali di grande area o filiera. Il campo di applicazione riguarderà tutti i lavoratori che operano all’interno della filiera nelle diverse tipologie di rapporto di lavoro e dovrà consentire la tutela dei lavoratori coinvolti nei processi di outsourcing. | Riconferma del doppio livello di contrattazione: livello nazionale di categoria e contrattazione di secondo livello sono essenziali per il governo di una politica salariale coerente con la politica dei redditi. Il contratto nazionale è e resta un valore centrale a garanzia e tutela del potere d’acquisto e di livelli normativi uguali per tutti. La contrattazione di secondo livello, invece, ha come obiettivo centrale la redistribuzione della produttività. Nel pubblico impiego vanno migliorati e snelliti i percorsi contrattuali diffondendo più ampiamente la contrattazione aziendale, che è possibile basare sugli elementi della professionalità, flessibilità e qualità. Vanno ristrutturate le aree contrattuali, quasi più nessun settore merceologico è uguale a prima, in modo speciale quelli investiti dai processi di liberalizzazione e privatizzazione. |
CGIL | CISL | UIL |
Il contratto nazionale | Il contratto nazionale | Il contratto nazionale |
La funzione universalistica del CCNL deve essere confermata e rivalorizzata, in quanto il contratto nazionale è per noi uno strumento indispensabile di equità redistributiva per l’aumento dei salari. Non può essere alterato né depotenziato, ma al contrario deve recuperare autorità salariale e normativa, evitando qualsiasi forma che determini un federalismo contrattuale basato su differenze di diritti e salari fra i territori del nostro paese. | I compiti dei CCNL riguarderanno: ▪ La politica industriale e di sviluppo della filiera, la promozione degli interventi congiunti per la responsabilità sociale dell’impresa, la qualificazione del sistema di relazioni sindacali attraverso la sistematizzazione dei diritti di informazione, consultazione e l’introduzione dei diritti di partecipazione (consigli di sorveglianza); ▪ La tutela del salario (in una percentuale pari a quella attuale) in base all’inflazione prevista; ▪ I diritti individuali, i diritti collettivi, i diritti sindacali e la disciplina generale dell’orario (il CCNL potrà introdurre misure di prevenzione e composizione delle vertenze individuali e collettive, rinviandone l’applicazione in sede decentrata); ▪ La definizione di linee guida relativamente alle tipologie dei rapporti di lavoro, alla regolazione delle flessibilità, alle politiche di conciliazione, a pari opportunità, ai sistemi di classificazione professionale, prevedendo il rinvio alla contrattazione decentrata per la specifica attuazione; ▪ La promozione della bilateralità; ▪ L’attivazione delle procedure per la contrattazione diretta decentrata, in particolare la esigibilità e le clausole di garanzia. In previsione del superamento del biennio per la parte economica, la durata del CCNL può variare da quattro a tre anni. | Va riconfermato il valore del contratto nazionale, come strumento per definire diritti omogenei e per determinare la tutela del salario reale. Occorre, tuttavia, renderlo più flessibile nei contenuti e nelle forme concrete di funzionamento. A tal fine va: ▪ Ripristinata la cadenza triennale del rinnovo del contratto nazionale di categoria; ▪ Unificata la parte economica e normativa; ▪ Superato il biennio; ▪ Riorganizzata la contrattazione di secondo livello assumendo i principi della flessibilità e della non ripetività. |
CGIL | CISL | UIL |
La semplificazione contrattuale | La semplificazione contrattuale | La semplificazione contrattuale |
Conveniamo sulla necessità di razionalizzare il numero dei contratti, non solo per una questione di semplificazione, ma per ridisegnare l’ambito di applicazione dei contratti nazionali alla luce dei processi avvenuti, e per respingere la logica montante sia nei servizi che nell’industria dei supermarket contrattuali, che produce dumping a sfavore dei lavoratori. Occorre partire da aggregazioni interne ai settori. | Riaggregazione dei contratti nazionali per grande area o filiera, superando progressivamente l’attuale frammentazione. | La semplificazione e la riduzione del numero dei contratti nazionali, rientra nella titolarità delle Categorie. Va perseguita, sia accorpando ed unificando i trattamenti di contratti diversi aventi le stesse caratteristiche produttive, sia spostando alcuni settori da un contratto all’altro per ridurre la frammentazione dei cicli produttivi. |
CGIL | CISL | UIL |
I contenuti normativi | I contenuti normativi | I contenuti normativi |
▪ Rafforzare il ruolo e il potere contrattuale delle RSU e del sindacato, per acquisire il diritto all’informazione, alla conoscenza preventiva al fine di intervenire a monte dei processi di ristrutturazione, per intervenire sulle politiche industriali per evitare che i nuovi assetti societari e la frantumazione del ciclo cancellino diritti conquistati con la contrattazione e lo Statuto dei lavoratori. ▪ Democrazia economica quindi quale obiettivo per incidere sulle scelte e sugli indirizzi di politica industriale , sviluppo e crescita, e non per rivendicare la partecipazione del sindacato nei Consigli di Amministrazione delle aziende o la partecipazione azionaria dei lavoratori. ▪ Orario – Xxxxx individuate normative in grado di contrastare e contenere la deregolamentazione introdotta dalla legge 66. Istituire strumenti di sostegno per la contrattazione e il controllo del sistema degli orari nelle singole aziende e unità produttive. ▪ Inquadramento – Professionalità - Nel contratto nazionale va definita, partendo dallo spirito dell’inquadramento unico , una struttura del sistema classificatorio in grado di cogliere oltre alle professionalità anche un sistema di regole e di rimandi per individuare nelle aziende la capacità, la responsabilità, l’esperienza, l’autonomia, ed il saper fare dei lavoratori. ▪ Difesa ed ampliamento di diritti individuali e collettivi, su tutto ciò che attiene i lavoro, i rapporti di lavoro, il controllo dell’organizzazione del lavoro. ▪ Rafforzare gli istituti contrattuali su ambiente, salute e sicurezza. ▪ Azioni positive per pari opportunità per donne, uomini e giovani dei nuovi lavori. ▪ Vanno contrastati gli effetti del decreto 276, sia rispetto alle nuove tipologie di lavoro che producono precarietà e | Xxxx compiti del contratto collettivo nazionale di lavoro | ▪ Piena esigibilità ed estensione dell’area della tutela contrattuale. ▪ Rilancio della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. |
doppi regimi, sia rispetto al ruolo improprio del sindacato e degli Enti bilaterali. ▪ Va ridefinito il lavoro subordinato come elemento di chiarificazione nel ginepraio delle decine di forme di accesso al lavoro. |
CGIL | CISL | UIL |
I contenuti economici | I contenuti economici | I contenuti economici |
▪ Sul salario i livello nazionale deve recuperare l’inflazione reale e ridistribuire quote di produttività di settore, e un secondo livello per la contrattazione del salario per obiettivi, lasciando la prerogativa ai sindacati di categoria, di decidere autonomamente le modalità con cui perseguire questi obiettivi, sia per riconquistare autorità salariale che per sostenere qualità e autorità della parte normativa. ▪ Per determinare la richiesta salariale riferita all’inflazione del periodo di vigenza contrattuale, occorre partire dall’inflazione prevedibile, superando la programmata dei DPEF e garantendo il recupero degli eventuali scostamenti dentro la durata dei CCNL (evitando qualsiasi forma o obiettivi che portano al federalismo contrattuale.) ▪ Rivedere il meccanismo di calcolo dell’inflazione, agendo sulle voci di composizione del paniere e ridefinendo il peso specifico di ogni singola voce, per avvicinarsi il più possibile al reale costo della vita. ▪ Aprire una riflessione sull’opportunità di definire strumenti nei CCNL, affinché la parte di produttività da destinare alla contrattazione aziendale, possa essere usufruita anche nei posti di lavoro ove la contrattazione decentrata non sia stata realizzata. | Vedi compiti del contratto collettivo nazionale di lavoro | ▪ Il rapporto tra reddito da capitale e salari si è modificato a svantaggio di questi ultimi. ▪ Oggi, l’obiettivo è quello di aumentare i salari reali. |
CGIL | CISL | UIL |
La contrattazione decentrata di categoria (aziendale, territoriale, di distretto) | La contrattazione decentrata di categoria (aziendale, territoriale, di distretto) | La contrattazione decentrata di categoria (aziendale, territoriale, di distretto) |
Fermo restando la riconferma dei due livelli di contrattazione e la scelta prioritaria della contrattazione aziendale, occorre individuare criteri e indirizzi per poter realizzare ovunque la contrattazione decentrata utilizzando tutti gli strumenti disponibili: la contrattazione territoriale, di area, di filiera, di distretto. Dobbiamo individuare una dimensione di contrattazione di secondo livello territoriale che abbia come finalità l’estensione della stessa, la ricomposizione del ciclo produttivo, ma che non sia né aggiuntiva né alternativa o contrapposta alla contrattazione aziendale. I temi e modalità saranno definiti nel CCNL Può sostituire per alcune categorie (pubbliche e private) e per gli artigiani la contrattazione aziendale (o di posto di lavoro), sui contenuti e sulle materie che i contratti nazionali di categoria intendono demandare a quel livello. Questo livello di contrattazione non può modificare istituti propri dei CCNL Per noi il 2° livello va esteso, riqualificato e rafforzato nei contenuti, individuando nel CCNL le materie da demandare | La contrattazione decentrata si svolge nell’arco del periodo di vigenza del CCNL, in ogni luogo di lavoro. Alternativamente ove ciò non sia possibile per la frammentazione delle imprese dovrà svolgersi a livello territoriale, di distretto omogeneo, di settore specifico, secondo procedure definite dalle parti. Rispetto all’accordo del 93 va resa pienamente legittima la contrattazione territoriale, anche indicando una soglia numerica entro la quale essa va realizzata (es. Fino a 50 dipendenti). Ciò rende necessario anche esaminare le modalità di validità della contrattazione territoriale, per evitare che possa diventare un fattore distorsivo tra aziende di uno stesso territorio. Per quanto riguarda il salario nella contrattazione decentrata si prevede la distribuzione dei benefici della produttività e della redditività delle imprese, secondo parametri definiti dalle parti. Per i servizi pubblici si farà riferimento anche agli standard qualitativi dei servizi. Se necessario, la contrattazione decentrata provvede ad integrare la tutela del salario rispetto all’inflazione recuperando lo scostamento tra l’inflazione prevista e quella | Va valorizzata la contrattazione di secondo livello per consentire un’effettiva ripartizione delle produttività, e per renderla capace di adattarsi alle diverse realtà ed alle differenti situazioni. La sua esigibilità non può essere imposta, ma può essere opportunamente incentivata. La contrattazione territoriale può svilupparsi al fine di garantire l’esigibilità della contrattazione di 2° livello, per tutte quelle realtà ove – soprattutto per dimensioni d’impresa – non viene esercitata. |
a questo livello, e individuare spazi di autonomia da praticare, purché non si introducano deroghe in pejus al contatto nazionale. La contrattazione aziendale non può essere ridimensionata e resta per noi il punto centrale per riappriopriarci di un ruolo incisivo delle RSU sull’organizzazione del lavoro, sulle condizioni di lavoro, sulla qualità del lavoro e per distribuire quote di produttività aziendale. Per questo è importante che nel CCNL siano chiare ed esigibili i rimandi alla contrattazione aziendale affinché si possa sviluppare vera contrattazione per la formazione, il riconoscimento delle professionalità, il governo degli orari e le condizioni di lavoro per la sicurezza ambientale e personale e per ridurre drasticamente la precarietà. Dobbiamo rimodellare la contrattazione di gruppo, cercando di concentrare la contrattazione a livello centrale sulle informazioni di strategia economica che il gruppo vuole realizzare. | reale. Inoltre la contrattazione decentrata: ▪ Definisce il salario professionale, dando applicazione alle linee guida dei sistemi di classificazione previsti dai CCNL ▪ Definisce i piani formativi; ▪ Regola le condizioni d’impiego, con specifico riferimento alle modalità di utilizzo delle diverse tipologie di lavoro e della flessibilità sia dei rapporti di lavoro che dell’orario di lavoro; ▪ Tutela i lavoratori atipici e promuove politiche d’inserimento ed inclusione delle fasce deboli del mercato del lavoro in rapporto con le comunità locali; ▪ Realizza le politiche per la prevenzione degli infortuni e malattie professionali e per la sicurezza dei luoghi di lavoro; ▪ Costituisce i sistemi di bilateralità; ▪ Regola l’attuazione della partecipazione dei lavoratori nell’impresa e favorisce gli interventi in materia di responsabilità dell’impresa; ▪ Garantisce l’applicazione di standard contrattuali definiti congiuntamente alla catena della subfornitura, anche con l’adozione di codici di condotta che escludano il lavoro nero e il dumping contrattuale. |
CGIL | CISL | UIL |
La contrattazione sociale territoriale (confederale) | La contrattazione sociale territoriale (confederale) | La contrattazione sociale territoriale (confederale) |
Va incentivata la contrattazione sullo sviluppo, sul ruolo dei distretti, sulle politiche dei servizi, sui bisogni sociali fondamentali e su tutto ciò che investe la politica economica e sociale di un territorio o di una regione. Si tratta di una sfida alta del Sindacato perché deve affrontare in stretto rapporto con le categorie tutte, compreso lo SPI, i temi legati allo sviluppo locale, di progetti industriali, di diritti generali, di formazione e fabbisogni formativi. Di politiche ambientali e dei servizi dentro un concetto di programmazione negoziata, ma anche di vera e propria rivendicazione. | Va valorizzata ed estesa la positiva esperienza della concertazione delle politiche sociali nel territorio. |
Le proposte di Confindustria
Il 22 settembre 2005 CONFINDUSTRIA ha pubblicato un documento che contiene le proposte dell’organizzazione per rilanciare la competitività delle imprese e favorire lo sviluppo dell’occupazione e la crescita dal Paese; all’interno di questo testo trovano collocazione anche alcune sintetiche indicazioni sui possibili correttivi da apportare al protocollo del 1993.
Il documento, dopo una breve ricognizione dei problemi che affliggono il sistema industriale italiano (bassa competitività, costo del lavoro, bassa crescita della produttività), evidenzia che uno dei problemi più attuali consiste nella crescita delle retribuzioni reali in misura maggiore rispetto ai guadagni medi di produttività.
Per invertire questa tendenza, il documento osserva che il recupero di competitività richiede la riattivazione del circolo virtuoso “maggiore produttività - maggiore crescita”, per cui tutti gli sforzi devono concentrarsi sull’aumento dell’efficienza delle imprese e del sistema nel suo complesso.
In questo contesto, secondo Confindustria, la relazioni industriali devono perseguire le seguenti finalità:
- consentire alle imprese di rispondere con tempestività alle mutevoli esigenze dei mercati anche attraverso una migliorie organizzazione del lavoro;
- favorire il conseguimento di retribuzioni più elevate in quanto collegate a livelli di maggiore efficienza nella prestazione ed alla redditività dell’impresa;
- concorrere alla riduzione del costo del lavoro (obiettivo per il quale viene evidenziata la necessità di interventi del Governo);
- valorizzare la capacità della contrattazione collettiva, nelle diverse sedi, di consentire sempre più di realizzare le condizioni per favorire la produzione di quel maggior valore aggiunto che possa poi essere distribuito fra i fattori che hanno contribuito a crearlo: lavoro, capitale e attività imprenditoriale.
- assegnare alla contrattazione collettiva il compito di adattare alle esigenze di maggiore competitività i principali istituti che regolamentano la prestazione lavorativa (orario di lavoro, struttura delle retribuzioni, differenti tipologie di rapporto individuale di lavoro);
- stabilire regole precise fra le diverse sedi di contrattazione in modo che sia definito con esattezza il grado di specializzazione cui deve essere destinata la contrattazione in ciascun livello, e che quanto viene concordato in sede nazionale non sia rimesso in discussione agli altri livelli previsti.
- coinvolgere i lavoratori sugli obiettivi dell’azienda ed alla partecipazione economica attraverso il “salario variabilità”;
- agevolare la capacità della contrattazione collettiva di flessibilizzare l’organizzazione produttiva;
- consentire alle imprese di fare affidamento su una maggiore quantità complessiva di ore effettive di prestazione ed anche sulla possibilità di distribuire i nastri orari nell’arco della settimana, del mese, dell’anno, secondo le esigenze del mercato;
- adeguare la durata media e la durata massima settimanale degli orari di lavoro alle differenti esigenze produttive così come le misure di utilizzazione del lavoro straordinario, le deroghe in tema di pause, lavoro notturno, ecc.;
- garantire la flessibilità delle retribuzioni, e cioè il diretto collegamento delle erogazioni economiche derivanti dalla contrattazione collettiva di secondo livello, sia a parametri di efficienza della prestazione che di produttività e redditività dell’impresa.
- consentire la reale variabilità dei premi di secondo livello ed una crescita del loro peso percentuale nella struttura della retribuzione individuale, fermo restando l’adeguato riconoscimento economico alle professionalità specifiche;
- valorizzare quelle tipologie contrattuali (quali la somministrazione, il part--time o glia appalti) che consentono alle imprese, con totale garanzia di tutele per i lavoratori, di far fronte con tempestività alle mutevoli esigenze dei mercati interni ed internazionali;
- dare piena attuazione a tutte le iniziative finalizzate a sostenere l'inserimento ed ili reinserimento nel mercato del lavoro.
Queste linee guida di carattere generale costituiscono la premessa alle proposte concrete che il documento formula in merito ai possibili correttivi da apportare al modello contrattuale.
In proposito, il testo conferma la scelta di un modello articolato su due livelli, ma afferma anche l’esigenza di avere un sistema “regolato” e quindi in grado di dare certezze non solo riguardo ai
soggetti, ai tempi ed ai contenuti della contrattazione ma anche sull'affidabilità ed il rispetto delle regole.
Questo obiettivo, secondo Confindustria, può utilmente essere perseguito mediante l’adozione delle seguenti misure:
- impegno delle parti stipulanti ad intervenire affinché le rispettive istanze, ai vari livelli, osservino e rispettino le condizioni pattuite;
- revisione ed aggiornamento delle regole pattizie che disciplinano la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, anche al fine di superare le situazioni di frammentazione della rappresentanza che, specie nei settori dei trasporti, sono causa di una vertenzialità continua ed indifferente alle ragioni dell'economia e del mercato;
- introduzione di idonee procedure di conciliazione ed arbitrato che, assistite da sanzioni, siano in grado di intervenire in caso di mancato rispetto delle clausole concordate;
- rispetto del principio del “ne bis in idem” (garanzia che i sindacati non promuovano azioni o rivendicazioni intese a modificare, integrare, innovare quanto ha già formato oggetto di accordo ai diversi livelli);
- ampliamento delle clausole di tregua sindacale; durante tale periodo ogni azione “a sostegno” delle piattaforme aziendali dovrebbe configurarsi come “danno ingiusto”;
- definizione di nuove regole per il ricorso alle azioni di sciopero (ed anche per la proclamazione e l’effettuazione delle forme di autotutela), tanto nell'industria manifatturiera che in quella dei servizi, in modo che tale strumento costituisca effettivamente l'extrema ratio;
- maggiore specializzazione delle diverse sedi negoziali;
- confermare, per conseguire l’obiettivo di cui al punto precedente, l’attribuzione al contratto collettivo nazionale di settore del compito di definire la dinamica dei trattamenti economici minimi per ciascun livello di inquadramento professionale;
- specificare che la salvaguardia del potere d’acquisito delle retribuzioni non rappresenta un automatismo bensì costituisce un obiettivo da considerare unitamente alle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, al raffronto competitivo ed agli andamenti specifici del settore, ivi compreso l’andamento delle retribuzioni di fatto;
- attribuire, in attuazione del meccanismo appena citato, al contratto nazionale di settore il compito di determinare gli aumenti dei minimi tabellari in coerenza con i tassi di inflazione programmata da applicare sulle vocii retributive determiniate nel contratto nazionale medesimo;
- ridefinire le tempistiche della contrattazione al fine di evitare la sovrapposizione dei cicli negoziali;
- valorizzare nella contrattazione di secondo livello con contenuti economici, aziendale o alternativamente territoriale, l’effettiva variabilità dei premi in funzione dei risultati ottenuti nella realizzazione di obiettivi concordati fra le parti;;
- confermare la sovraordinazione gerarchica del contratto nazionale sulla contrattazione di secondo livello, la quale si esercita tra i soggetti, nelle sedi, nei tempi e per le matterie stabiliti dalla contrattazione nazionale;
- configurare il livello interconfederale come specifica sede di raccordo non episodico anche ai fini di orientamento per i comportamentali ai vari livelli.
2. Il quadro normativo nel trasporto pubblico locale
Il quadro normativo di riferimento
Il settore dei trasporti pubblici locali è stato oggetto, negli ultimi anni, di una assidua attività di legificazione, tesa ad attuare, in un primo momento, il decentramento amministrativo mediante il trasferimento alle Regioni di funzioni e compiti statali e, successivamente, la trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi in società di capitali ovvero in cooperative a responsabilità limitata, anche tra dipendenti, o l’eventuale frazionamento societario derivante da esigenze funzionali o di gestione.
In particolare, con le Leggi 15 maggio 1970, n. 281 e 22 luglio 1975,
n. 382 è stata conferita la delega al Governo per regolare il passaggio alle regioni delle funzioni ad esse attribuite dall’art. 117 Cost. e del relativo personale dipendente dallo Stato. Tale delega è stata attuata con D.P.R. 14 gennaio 1972, n.5 e con D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616.
Con la Legge 10 aprile 1981, n. 151 è stato conferito alle regioni il potere di definire la politica regionale dei trasporti, di predisporre i piani regionali dei trasporti e di adottare i programmi poliennali o annuali di intervento. Tale provvedimento ha previsto l’assunzione di una parte degli oneri finanziari delle aziende di trasporto pubblico locale a carico del bilancio dello Stato, tramite l’istituzione presso il Ministero dei trasporti di un Fondo nazionale per il ripiano dei
disavanzi di esercizio delle aziende di trasporto pubbliche e private. I finanziamenti, determinati annualmente in sede di Legge Finanziaria, venivano ripartiti tra le Regioni e da queste erogate alle aziende stesse. Tale legge ebbe scarso successo in quanto, pur valorizzando il ruolo delle Regioni, prevedeva che il trasferimento di risorse alle singole Regioni avvenisse in base alla spesa effettivamente erogata nell’anno precedente. Tale sistema non consentiva di ripianare i deficit di bilancio.
La Legge 15 marzo 1997, n. 59 ha successivamente delegato il Governo a emanare uno o più decreti legislativi, volti a conferire alle regioni ed agli enti locali funzioni e compiti amministrativi nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella stessa legge. Per ciò che concerne la materia in esame, è stato previsto che il Governo provvedesse a:
- delegare alle regioni i compiti di programmazione in materia di servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale;
- attribuire alle regioni il compito di definire, d’intesa con gli enti locali, il livello dei servizi minimi qualitativamente e quantitativamente sufficienti a soddisfare la domanda di mobilità dei cittadini, servizi i cui costi sono a carico dei bilanci regionali, prevedendo che i costi dei servizi ulteriori rispetto a quelli minimi siano a carico degli enti locali che ne programmino l’esercizio; prevedere che l’attuazione delle deleghe e l’attribuzione delle relative risorse alle regioni siano precedute da appositi accordi di programma tra il Ministro dei trasporti e della navigazione e le regioni medesime;
- prevedere che le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolino l’esercizio dei servizi con qualsiasi modalità effettuati e in qualsiasi forma affidati, sia in concessione che nei modi di cui agli artt. 22 e 25 L. 8.6.1990, n. 142, mediante contratti di servizio pubblico, che rispettino gli artt. 2 e 3 del regolamento CEE n. 1191/69 ed il regolamento CEE n. 1893/91, che abbiano caratteristiche di certezza finanziaria e copertura di bilancio e che garantiscano entro il 1° gennaio 2002 il conseguimento di un rapporto di almeno 0,35 tra ricavi da traffico e costi operativi, al netto dei costi di infrastruttura previa applicazione della direttiva 91/440/CEE del Consiglio del 29 luglio 1991 ai trasporti ferroviari di interesse regionale e locale;
- definire le modalità per incentivare il superamento degli assetti monopolistici nella gestione dei servizi di trasporto urbano ed extraurbano e per introdurre regole di concorrenzialità nel periodico affidamento dei servizi;
- definire le modalità di subentro delle regioni entro il 1° gennaio 2000 con propri autonomi contratti di servizio regionale al contratto di servizio pubblico tra Stato e Ferrovie dello Stato S.p.A. per servizi di interesse locale e regionale.
Il Decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422 (c.d. decreto Burlando) ha attuato la legge delega di cui sopra, avviando un processo di generale trasferimento di funzioni, compiti, beni, strutture e risorse umane, finanziarie e organizzative mediante il conferimento di tutti i compiti e tutte le funzioni relativi al servizio pubblico di trasporto di interesse regionale e locale, in atto esercitati
da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrale o periferica, anche tramite enti o altri soggetti pubblici tranne quelli rimasti di competenza esclusiva dello Stato, quali:
- gli accordi, le convenzioni ed i trattati internazionali relativi a servizi transfrontalieri per il trasporto di persone e di merci;
- le funzioni in materia di sicurezza;
l- ’adozione delle linee guida e dei principi quadro per la riduzione dell’inquinamento derivante dal sistema di trasporto pubblico.
L’art. 18 del decreto Burlando, come modificato dal successivo d.lgs. 400/1999, stabilisce che l’esercizio dei servizi di trasporto pubblico regionale e locale, con qualsiasi modalità effettuati e in qualsiasi forma affidati, è regolato mediante contratti di servizio di durata non superiore a 9 anni.
La norma chiarisce che tale esercizio deve rispondere a principi di economicità ed efficienza, disciplinati con regolamento dei competenti enti locali. Inoltre, allo scopo di incentivare il superamento degli assetti monopolistici e di introdurre regole di concorrenzialità nella gestione dei servizi di trasporto regionale e locale, per l’affidamento dei servizi le regioni devono garantire il ricorso alle procedure concorsuali per la scelta del gestore del servizio sulla base degli elementi del contratto di servizio ed in conformità alla normativa comunitaria e nazionale sugli appalti pubblici di servizio.
La norma esclude che, in caso di mancato rinnovo del contratto alla scadenza o di decadenza dal contratto medesimo, ogni forma di indennizzo al gestore che cessa dal servizio. Tale norma pone dei
problemi in quanto disincentiva il concessionario, negli ultimi anni di gestione, dal fare investimenti.
La norma prevede altresì che, in caso di cessazione dell’esercizio, sia necessario il trasferimento di beni strumentali e del personale dipendente dal precedente gestore del servizio all’impresa.
Il comma 3 dell’art. 18 del decreto in esame prevede infine che le regioni e gli enti locali attuino la trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi in società di capitali, ovvero in cooperative a responsabilità limitata, anche tra dipendenti, o l’eventuale frazionamento societario derivante da esigenze funzionali o di gestione. Le regioni possono inoltre prevedere un periodo transitorio, da concludersi comunque entro il 31 dicembre 2003, nel corso del quali vi è la facoltà di mantenere tutti gli affidamenti agli attuali concessionari ed alle società derivanti dalle trasformazioni sopra descritte, ma con l’obbligo di affidamento di quote di servizio o di servizi speciali mediante procedure concorsuali, previa revisione dei contratti di servizio in essere, se necessaria. Le regioni possono altresì procedere all’affidamento della gestione dei relativi servizi alle società costituite allo scopo dalle ex gestioni governative, fermo restando quanto previsto dalle norme in materia di programmazione e di contratti di servizio. Trascorso il periodo transitorio, tutti i servizi dovranno essere affidati esclusivamente tramite le procedure concorsuali di cui al comma 2, lett. a, dell’art. 18.
Successivamente al decreto Burlando, è stato emanato il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, contenente il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
L’art. 112 del suddetto decreto stabilisce che «gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali». Ai sensi dell’art. 113-bis, ferme restando le disposizioni previste per i singoli settori, i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale sono gestiti mediante affidamento diretto a:
- istituzioni;
- aziende speciali, anche consortile;
- società di capitali costituite o partecipate dagli enti locali, regolate dal codice civile.
L’art. 113 del decreto delinea le modalità di gestione delle reti e l’erogazione di servizi pubblici locali di rilevanza nazionale. In particolare, si prevede la possibilità di separare la gestione delle reti, degli impianti e delle altri dotazioni patrimoniali dall’attività di erogazione dei servizi. In tale ipotesi, gli enti locali, anche in forma associata, si avvalgono:
- di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, cui può essere affidata direttamente tale attività;
- di imprese idonee, da individuare mediante procedure ad evidenza pubblica.
L’erogazione del servizio, da svolgere in regime di concorrenza, avviene secondo le discipline di settore, con conferimento della titolarità del medesimo a società di capitali individuate attraverso
l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica. Alla scadenza del periodo di affidamento, e in esito alla successiva gara di affidamento, le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali di proprietà degli enti locali o delle società per azioni sono assegnati al nuovo gestore. Sono, inoltre, assegnati al nuovo gestore le reti o loro porzioni, gli impianti e le altre dotazioni realizzate dal gestore uscente. A quest’ultimo è dovuto, da parte del nuovo gestore, un indennizzo pari al valore dei beni non ancora ammortizzati, il cui ammontare è indicato nel bando di gara. I rapporti degli enti locali con le società di erogazione del servizio e con le società di gestione delle reti e degli impianti sono regolati da contratti di servizio, allegati ai capitolati di gara, che dovranno prevedere i livelli dei servizi da garantire e adeguati strumenti di verifica del rispetto dei livelli previsti (art. 115, comma 11, D.lgs. 267/2000).
L’art. 115 del decreto stabilisce poi che i comuni, le province e gli altri enti locali possono, per atto unilaterale, trasformare le aziende speciali in società di capitali, di cui possono restare azionisti unici per un periodo comunque non superiore a due anni dalla trasformazione.
L’art. 35, comma 8, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) prevede infine che gli enti locali, entro il 31 dicembre 2002, trasformino le aziende speciali ed i consorzi che gestiscono i servizi pubblici locali in società di capitali. L’art. 9 del medesimo articolo stabilisce che gli enti locali che alla data dell’entrata in vigore della presente legge detengono la maggioranza del capitale sociale delle società per la gestione di servizi pubblici
locali, che siano proprietarie anche delle reti, degli impianti e della altre dotazioni per l’esercizio di servizi pubblici locali, provvedono ad effettuare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, anche in deroga alle disposizioni delle discipline settoriali, lo scorporo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni. Contestualmente la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali, oppure dell’intero ramo d’azienda è conferita ad una società avente le caratteristiche definite dal comma 13 dell’art. 113 d.lgs. 267/2000.
La disciplina legale del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri
Il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è disciplinato, in primo luogo, dal Regio Decreto 8 gennaio 1931, n. 148, intitolato Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione, e dal regolamento Allegato A) della medesima legge.
Con Legge 24.5.1952 n. 628, tale normativa è stata estesa al personale delle filovie urbane ed extraurbane, dei servizi automobilistici urbani esercitati da aziende municipalizzate e privati, nonché al personale di tali aziende addetto a servizi automobilistici extraurbani che siano riconosciuti dal Ministero dei Trasporti come accessori e direttamente complementari, nell’ambito della stessa azienda, di quelli esercitati nei centri urbani.
Con Legge 22.9.1960, n. 1054, la disciplina del regio decreto è stata estesa altresì al personale addetto agli autoservizi di linea extraurbani, anche se non direttamente dipendente da azienda concessionaria, purché il numero del personale occorrente per le normali esigenze di tutti gli autoservizi, anche se urbani, ovunque esercitati dall’azienda, risulti superiore a 25 unità.
Relativamente all’ambito di applicazione, le imprese destinatarie del
R.D. 148/1931 e del relativo regolamento allegato A) sono dunque quelle che occupano più di 25 dipendenti. A tutte le altre imprese, si applicano le norme codicistiche e legislative che regolano il rapporto di lavoro subordinato in generale.
Il Regio Decreto 148/1931 definisce i soggetti destinatari delle sue norme, escludendo dal suo ambito di applicazione il personale addetto ai servizi che, secondo l’ordinamento dell’azienda e con l’approvazione del Governo, siano affidati a privati appaltatori, o addetto ai servizi che siano soltanto sussidiari del servizio dei trasporti.
Con riferimento all’inquadramento, la normativa in esame distingue il personale in tre categorie:
a) personale di ruolo;
b) personale ordinario;
c) personale straordinario.
Alla prima categoria appartiene il personale il cui rapporto di lavoro è disciplinato dal Regolamento di cui all’All. A del regio decreto. Appartengono alla seconda categoria: gli agenti assunti per bisogni continuativi dell’esercizio in qualità di operai, aiuto operai, cantonieri,
ecc.; il personale di aziende esercenti ferrovie private autorizzate al pubblico servizio; il personale di aziende esercenti linee per le quali sia sufficiente un numero di agenti non superiore a 24, per assicurarne la regolarità e la sicurezza dell’esercizio.
Infine, fa parte delle terza categoria il personale dipendente da aziende esercenti linee soltanto in alcune stagioni dell’anno e quello assunto per bisogni saltuari ed eccezionali (stagioni balneari, feste, fiere, disastri, nevicate, inondazioni, lavori stagionali; sostituzione agenti assenti per congedi, malattie, aspettative; costruzione di nuove linee e altri lavori di carattere temporaneo e straordinario).
Il Regio Decreto si preoccupa altresì di rimettere alle autorità competenti le decisioni delle controversie individuali e a indicare la procedura da esperire contro i provvedimenti dell’azienda.
Il Regolamento di cui all’allegato A del Regio Decreto, contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione, disciplina nello specifico il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri. In particolare, il titolo I contiene alcune disposizioni generali aventi ad oggetto l’iscrizione nella matricola, i cambiamenti di qualifica, l’esercizio di altri mestieri, l’obbligo di domicilio nei locali dell’azienda, la prevenzione e la cura delle malattie malariche. Il titolo II regola le assunzioni in servizio, stabilendone le modalità e le condizioni. Il titolo III disciplina il servizio in prova, definendone la durata ed i casi di esonero. Il titolo IV riguarda gli avanzamenti ed i connessi aumenti di stipendio, l’adibizione a funzioni di grado superiore, la gerarchia tra agenti. Il titolo V contiene norme in
materia di traslochi, missioni, congedi, assenze per malattia ed esoneri temporanei e definitivi. Il titolo VI indica le sanzioni disciplinari previste a carico dei dipendenti ed i comportamenti ritenuti censurabili, nonché la composizione del Consiglio di disciplina. Il titolo VII si preoccupa di regolamentare la previdenza del personale.
In considerazione della disciplina prevista dal suddetto Regio Decreto e dal relativo Regolamento, il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è stato considerato come un tertium genus rispetto al lavoro pubblico ed a quello privato; una normativa speciale in cui il personale addetto ai pubblici servizi di trasporto si trova in una posizione intermedia tra quella dei dipendenti pubblici e quella dei comuni prestatori d’opera. La specialità della suddetta normativa sta nel fatto di essere finalizzata a compensare gli interessi dei prestatori di lavoro con quelli dei datori di lavoro, allo scopo di soddisfare le obiettive esigenze del servizio pubblico di trasporto.
Altra fonte del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è la contrattazione collettiva.
Già il Regio Decreto 148/1931 prevedeva, all’art. 1, comma 2, che
«gli stipendi, le paghe, le competenze accessorie e ogni altra indennità fissa o temporanea di qualsiasi natura, spettanti al personale, sono sempre, dalle competenti associazioni sindacali, stabilite contrattualmente azienda per azienda». L’inserimento di tale rinvio nel contesto della legge ha reso la contrattazione medesima parte integrante della organica disciplina speciale ed ha
conferito ai contratti collettivi lo stesso carattere di autonomia e di specialità che caratterizzano la disciplina in esame.
A livello di contrattazione collettiva, un primo importante intervento è stato costituito dal Testo Unico del 23 luglio 1976. Con i successivi accordi nazionali del 12 luglio 1985 e del 24 aprile 1987, modificativi del CCNL 23.7.1976, la contrattazione collettiva ha esteso la propria parte normativa ad ulteriori materie rispetto a quelle previste dal Regio Decreto.
Un ruolo particolarmente importante nei rapporti tra Regio Decreto e contrattazione collettiva è stato svolto dalla legge 12 luglio 1988, n. 270, che ha definitivamente sancito la derogabilità del primo ad opera della seconda.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, infatti, a partire dal novantesimo giorno successivo alla sua stessa data in vigore, «le disposizioni contenute nel regolamento allegato A al R.D. 8.1.1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive ed aggiuntive a tale regolamento, possono essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non possono derogare ai contratti collettivi».
Ed effettivamente, nel corso degli ultimi anni, la contrattazione collettiva ha disciplinato la materia, lasciando al regio decreto limitati spazi di applicabilità, con ciò favorendo la progressiva conformazione del quadro normativo al processo di trasformazione e riforma del settore (v. infra).
I profili di criticità del quadro normativo e le prospettive di modernizzazione
Abbiamo visto che il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è dunque disciplinato dalla contrattazione collettiva, in virtù del principio di derogabilità al regio decreto previsto dalla Legge 270/1988, nonché dal Regio decreto, nelle materie non coperte dal contratto.
Relativamente a quegli aspetti del rapporto di lavoro non disciplinati dalla contrattazione collettiva, la vigenza del Regio Decreto appare tuttavia anacronistica e inadeguata in considerazione della evoluzione della legislazione nella materia dei trasporti pubblici locali e del rapporto di lavoro in generale.
Si pone pertanto il problema della applicabilità delle norme di diritto comune ai rapporti di lavoro degli autoferrotranvieri. A tale proposito, occorre distinguere a seconda che il riferimento a esse sia o meno contenuto nella contrattazione collettiva. Nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva rinvii alle norme di diritto comune, non sembra esservi alcun dubbio in ordine alla loro applicabilità ai rapporti di lavoro in questione.
In mancanza di tale espresso richiamo, la giurisprudenza sembra invece concorde nel ritenere applicabile al rapporto di lavoro in questione unicamente la normativa prevista dal regio decreto e dalle successive leggi di interpretazione, modificazione ed estensione, anziché le normative del comune rapporto di lavoro.
La cristallizzazione della disciplina del rapporto di lavoro nei trasporti pubblici locali impone alcune riflessioni. Come è già stato rilevato, il
rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri costituisce, in virtù del Regio decreto, un tertium genus di rapporto di lavoro, a metà strada tra il pubblico ed il privato.
Occorre tuttavia considerare che la netta distinzione tra impiego pubblico e impiego privato non esiste più a seguito del processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, iniziato con il d.lgs. 29/1993 e culminato nel Testo Unico sul pubblico impiego di cui al d.lgs. 165/2001. L’art. 2 d.lgs. 165/2001 ha attuato l’unificazione delle due discipline, stabilendo testualmente che «i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa».
La previsione di una unica disciplina tra i due settori dovrebbe rendere automaticamente uniforme agli stessi la disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri che si poneva in una posizione intermedia tra gli stessi.
L’opportunità di estendere la normativa dei rapporti di lavoro pubblico e privato anche a quello degli autoferrotranvieri emerge dalla stessa ratio del processo di privatizzazione, consistente, tra l’altro, nel realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del diritto privato.
Un primo passo verso la modernizzazione del quadro legale dei trasporti pubblici legali sembra dunque essere proprio quello della applicazione delle norme di diritto comune ai rapporti di lavoro.
Si consideri, inoltre, che con la legge finanziaria del 2002 è stata prevista la trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi che gestiscono i servizi pubblici locali in società di capitali. La natura privatistica delle imprese concessionarie dei pubblici trasporti non dovrebbe porre alcun dubbio in ordine all’assoggettamento dei relativi rapporti di lavoro alle norme del codice civile e dello statuto dei lavoratori. Ciò posto, occorre chiedersi come possa essere attuata la procedura di modernizzazione dell’attuale quadro legale.
L’inadeguatezza del testo normativo vigente – dovuta alle mutate caratteristiche giuridiche e strutturali del settore dei trasporti pubblici locali rispetto al momento storico della sua entrata in vigore – rende necessario lo sviluppo di strategie che consentano di superare l’impasse normativa inserendo anche il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri nel processo di privatizzazione in atto.
Dal punto di vista evolutivo, una prima erosione delle norme di cui al Regio Decreto è avvenuta ad opera della legge 270/1988, che ha introdotto un particolare meccanismo di deroga tramite la contrattazione collettiva. Nonostante lo strumento della delegificazione per contratto collettivo sia stato previsto, esso non è stato tuttavia utilizzato sino in fondo. Infatti, l’attuale contratto collettivo, pur fornendo una ampia disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, continua a prevedere rinvii alle norme del regio decreto.
Al fine di usufruire sino in fondo dello strumento della delegificazione sarebbe sufficiente che la contrattazione collettiva rinviasse, per tutto ciò che non è espressamente disciplinato nel contratto, alle norme di diritto comune in materia di rapporto di lavoro. D’altronde tale formula è stata utilizzata come norma finale dell’All. A del CCNL vigente, contenente «disposizioni integrative per gli addetti ai servizi ausiliari per la mobilità».
Una seconda strada percorribile nella rimozione della disciplina prevista dal regio decreto potrebbe essere quella dell’abrogazione della suddetta normativa speciale. In tal modo verrebbe eliminato il carattere di specialità del rapporto di lavoro nel settore dei trasporti pubblici locali con la conseguente sua equiparazione al rapporto di lavoro pubblico e privato. Tale soluzione consentirebbe di riportare in maniera limpida, senza equivoci o esitazioni, i rapporti di lavoro degli autoferrotranvieri nell’alveo delle norme di diritto comune, con notevole beneficio in termini di modernizzazione del rapporto di lavoro e di equità, formale e sostanziale, con gli altri lavoratori.
Infine, un terzo strumento, che appare essere tuttavia il più flebile, potrebbe consistere nello svuotamento, in via interpretativa, della vigenza del Regio decreto, in considerazione delle conseguenze derivanti dal passaggio delle aziende di trasporto pubblico locale a soggetti privati in ordine al regime applicabile ai rapporti di lavoro.
Rispetto al sistema degli accessi all’impiego il punto problematico è quello rappresentato dalla distinzione tra personale “ordinario” e personale “straordinario” o “avventizio”.
La distinzione è nota e risalente ad una configurazione del rapporto di lavoro in termini pubblicistici che non rispecchia la realtà attuale e la più recente evoluzione dei modi di lavorare e organizzare il lavoro altrui. E soprattutto essa impone una pressoché impossibile operazione di continuo adattamento della disciplina degli avventizi contenuta nel Regio Decreto alla disciplina dei rapporti c.d. flessibili via via in vigore nel nostro ordinamento.
3. La struttura contrattuale nel trasporto pubblico locale
Fattori di influenza di una struttura contrattuale
La struttura della contrattazione di un settore va condotta attraverso l’analisi delle variabili o determinanti che, storicamente, ne hanno influenzato la conformazione; soprattutto quando nel settore esaminato si siano succedute modifiche strutturali della sua composizione, è necessario verificare in che modo quelle determinanti siano cambiate e se la tradizionale struttura della contrattazione sia ancora in grado di essere funzionale alle caratteristiche del settore.
Inoltre, la struttura della contrattazione è influenzata dagli obiettivi che il settore intende perseguire o, quanto meno, che le associazioni di rappresentanza delle aziende del settore si prefiggono in termini di sviluppo e di efficacia. Il modificarsi degli obiettivi necessita di una funzionale modifica della struttura della contrattazione per consentire le condizioni ed i luoghi idonei in cui costituire tavoli di negoziazione e partecipazione con le rappresentanze dei lavoratori per il contemperamento di quegli obiettivi con le istanze di tutela del lavoro.
Gli elementi o determinanti che influenzano maggiormente la struttura della contrattazione sono considerati:
- la struttura del sistema produttivo, in termini di caratteristiche dimensionali e tecnologiche delle aziende,
caratteristiche e composizione della dimensione datoriale e della sua rappresentanza;
- la struttura del mercato del lavoro, in termini di caratteristiche qualitative e quantitative dell’offerta di lavoro;
- il ritmo dello sviluppo economico, generale e specifico del settore;
- il ruolo eventualmente svolto dall’intervento pubblico
nel settore.
La struttura della contrattazione del settore TPL
Ma prima di condurre questa ricognizione, è utile ricordare le linee principali che caratterizzano l’attuale struttura della contrattazione nel settore del trasporto pubblico locale, così come esso si ricava dalla disciplina contrattuale vigente, precisando fin d’ora che:
- si tratta di una disciplina che si compone di norme che si sono succedute e aggiunte nel tempo senza modificare il dettato (e forse lo spirito) di quelle precedenti; e ciò anche quando il percorso sia stato attraversato dallo spartiacque costituito dal Protocollo del 23 luglio 1993;
- in generale, è utile tenere conto dell’intero assetto delle modalità di confronto che costituiscono uno specifico sistema di relazioni industriali e non solo della modalità tradizionalmente più rilevante rappresentata dalla contrattazione.
La norma di sistema dell’intero assetto delle relazioni industriali è, a tutt’oggi, rappresentato dall’art. 1 dell’accordo nazionale 12 luglio 1985; secondo questo articolo, ed in coerenza con la prefigurazione
del rapporto tra livelli in vigore in quel decennio, il contratto collettivo nazionale regolamenta gli istituti propri della contrattazione nazionale e fissa, nei limiti specificatamente previsti, l’area di competenza aziendale.
La logica centralizzante della struttura è anche confermata dagli articoli successivi dello stesso accordo (anch’essi tuttora vigenti): l’art. 2 che elenca istituti e materie di competenza esclusiva della normativa nazionale e l’art. 3 che prefigura un più complesso sistema di livello aziendale di relazioni industriali che però, per quanto riguarda le materie di contrattazione, rinvia a pochi e marginali istituti (se si escludono quelli relativi all’orario di lavoro), peraltro mai attivati dal momento che le parti nazionali “non hanno ancora definito i limiti entro i quali può svolgersi il negoziato aziendale” e pertanto “non risulta ancora soddisfatta la condizione di procedibilità per la trattativa relativa agli accordi previsti…”1. Quanto detto è valido anche a seguito delle modifiche apportate al suddetto art. 2 dall’art. 7 dell’accordo nazionale 25 luglio 1997 che specifica ulteriormente, anche ampliandole, le materie di competenza esclusiva del CCNL.
Per quanto invece riguarda il livello aziendale sparisce l’originaria ipotesi anche di contratti integrativi sul trattamento di produttività e le materie di contrattazione sono integrate dal premio di produttività (art. 6 dell’accordo del 1997). Questo istituto, come vedremo, assume una rilevanza centrale nel sistema di relazioni industriali
1 Sempre in una logica di marginalità degli istituti, fa eccezione il solo trattamento economico dei guardabarriere che una nota a verbale espressamente rinvia alla contrattazione aziendale da stipularsi con “le organizzazioni sindacali stipulanti territorialmente competenti.
complessivamente inteso ed è di fatto l’unico legittimato ad essere regolamentato dalla contrattazione aziendale.
Come evidenziato, le innovazioni di sistema (peraltro non scardinanti il modello del 1985) sono apportate dall’accordo nazionale del 1997, successivo, quindi all’innovazione del modello di relazioni industriali sancito dal protocollo del 23 luglio 1993. quest’ultimo Protocollo viene recepito dal settore attraverso il protocollo di intesa trilaterale del 10 aprile 1997 che traccia le linee guida per il rinnovo contrattuale cui provvederà l’accordo del luglio dello stesso anno.
Per completezza di indicazione dei dati e per poter operare il necessario rinvio alle pagine successive, va ricordato che prima del 1997 era già stato siglato l’accordo nazionale del 28 marzo 1996 per la costituzione delle RSU; ma sulle forme di rappresentanza datoriale e dei lavoratori al livello nazionale e aziendale torneremo in seguito.
A proposito del ruolo e delle caratteristiche del secondo livello di contrattazione, il protocollo dell’aprile del 1997 si limitava a ribadire che “la contrattazione aziendale sarà attuata in coerenza con l’accordo del 23 luglio 1993” e a rinviare alla stesura del CCNL per la definizione dei criteri e delle modalità di attuazione. Questa previsione era stata preceduta dall’art. 16 dell’accordo nazionale 11 aprile 1995 che può essere considerato il primo strumento di recepimento del protocollo del 23 luglio 1993 all’interno del comparto del trasporto locale. Nell’ambito di tale norma programmatica, le parti non ipotecano il meccanismo di regolazione
del rapporto tra contratto nazionale e contrattazione aziendale, limitandosi a prefigurare la finalità della struttura della contrattazione, che deve “evitare sovrapposizioni e duplicazioni con il livello nazionale”.
Come abbiamo visto in precedenza, è il CCNL del 1997 che, poiché si limita a sua volta a confermare la struttura della contrattazione prevista dall’accordo del 1985, conferma con essa anche la relazione gerarchica tra livelli propria di quel modello centralizzato tipico delle relazioni industriali degli anni ’80 (e che il protocollo del 1993 intendeva flessibilizzare in una prospettiva di specializzazione di ruolo dei diversi livelli); infatti, tranne che per quanto riguarda la regolamentazione della retribuzione di risultato, non solo non delega istituti o materie alla contrattazione aziendale, ma conferma la gerarchizzazione con delega esplicita per quanto riguarda gli spazi riconosciuti al secondo livello.
In altri termini, tra le diverse modalità utilizzate dalla contrattazione collettiva nazionale per l’attuazione dei principi del protocollo del 23 luglio 1993, il CCNL del settore del trasporto pubblico locale sembra privilegiare quella che conferma il maggiore tasso di centralizzazione, non solo per quanto in precedenza detto, ma anche perché – almeno sotto il profilo della contrattazione – non valorizza la dimensione territoriale di secondo livello.
Scelta peraltro non isolata, se si pensa che le conclusione della Commissione per la verifica del protocollo del 23 luglio presieduta da Xxxx Xxxxxx nel 1998 auspica – nella revisione della struttura – che si persegua l’obiettivo di garantire una maggiore adattabilità del
sistema…, confermando il sistema contrattuale costruito su due livelli, ma rafforzandone la differenziazione funzionale …, contemplando una maggiore specializzazione normativa e retributiva della contrattazione decentrata”.
Del resto una conferma all’impressione per cui la struttura della contrattazione del settore del trasporto pubblico locale non abbia voluto utilizzare in modo significativo le aperture previste dal protocollo del 23 luglio 1993, si ricava anche dalla palese contraddizione logica e terminologica contenuta nell’art. 1 dell’accordo del luglio del 1997, quando si afferma che la contrattazione aziendale concerne materie esplicitamente delegate dal CCNL e pertanto riguarda materie ed istituti “diversi e non ripetitivi” rispetto a quelli già definiti dal contratto stesso. Appare evidente nella locuzione riportata in corsivo come le due modalità di raccordo in essa contenute siano ispirate a canoni diversi di raccordo; l’esplicita delega da parte del CCNL evita in re ipsa la ripetitività di istituti e materie, mentre la regola della non ripetitività vale solo se al secondo livello si riconosce una sia pur coordinata funzione autonoma di regolamentazione.
D’altra parte una chiara norma di conferma della struttura centralizzata della contrattazione è contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7 dell’accordo nazionale 25 luglio 1997, per il quale, oltre alle materie (38) affidate alla esclusiva competenza del contratto nazionale, appartengono alla stessa area negoziale “gli istituti e le materie non espressamente demandati all’area aziendale”.
La partecipazione sindacale nei contratti del settore TPL Piuttosto, le innovazioni maggiori sul piano delle relazioni industriali e rispetto all’accordo nazionale del 1985 sono realizzate con
riferimento alle forme di partecipazione sia di livello nazionale che
locale. E, infatti, il modello partecipativo è valorizzato dall’art. 1 dell’accordo nazionale del 25 luglio 1997, poi ripreso ed ampliato dagli artt. 1 e 7 dell’accordo nazionale 27 novembre 2000, sia nella dimensione concertativa ai livelli nazionale e regionale, sia nella dimensione partecipativo/paritetica, attraverso la costituzione di Osservatori e sedi di confronto ai diversi livelli, compreso quello aziendale.
Ecco, quindi, che l’ambito aziendale di contrattazione, pur restando di per se sostanzialmente limitato all’istituto della retribuzione di risultato, con le sole aggiunte previste dall’accordo nazionale del 14 dicembre 2004 in materia di lavori flessibili, è di fatto inserito in un sistema concertativi/partecipativo più ampio ed articolato che la tabella allegata sintetizza per aree di materie.
La struttura della contrattazione tra gerarchia e funzione: gli istituti previsti dai CCNL.
Procedendo ad una analisi della struttura della contrattazione, così come ricavabile dai CCNL vigenti, si nota come essa, pur limitata nel numero di materie, sia di fatto circondata da una cospicua struttura partecipativa che si svolge talvolta coinvolgendo anche le strutture territoriali delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto nazionale.
Se la prevalenza delle modalità di confronto partecipativo rispetto a quelle contrattuali è del tutto lineare e comprensibile per quanto riguarda la definizione di “politiche gestionali” e “politiche di settore” (ed anzi su questi temi la contrattazione collettiva è del tutto assente), in buona sostanza meraviglia il limitato ricorso allo strumento contrattuale anche per quanto concerne il rapporto di lavoro e l’organizzazione del lavoro.
In questo senso – e con le precisazioni che faremo tra poco – la struttura gerarchica del rapporto tra livelli appare non solo nel modello ricavabile dalle specifiche norme dedicate alle relazioni industriali, ma anche confrontando lo spazio riconosciuto alla contrattazione aziendale attraverso l’individuazione delle materie.
I due aspetti finiscono per coincidere del tutto in materia di orario di lavoro e, in particolare di governo del cd. nastro lavorativo, aspetto fondamentale del rapporto di lavoro in questo settore. Infatti, tutta questa parte di contrattazione non appare ancora attivata, dal momento che non sono stati ancora definiti gli ambiti ed i limiti entro i quali essa possa svolgersi e la gestione di questo istituto sembra essere uno dei principali fattori di turbolenza sindacale a livello aziendale.
Se si escludono altri aspetti marginali del rapporto di lavoro, solo di recente integrati con limitati istituti riguardanti le tipologie flessibili di lavoro (cfr. accordo nazionale 14 dicembre 2004), la contrattazione aziendale è consentita quasi esclusivamente per la determinazione del premio di risultato.
In questo caso, infatti, il rapporto tra contrattazione e partecipazione risulta essere completamente invertito: il premio di risultato assume un ruolo strategico non solo per quanto riguarda il sistema retributivo aziendale, teso a coinvolgere tutti i lavoratori nel processo di miglioramento progressivo dei risultati aziendali, ma anche con riferimento all’assetto delle relazioni industriali aziendali, dal momento che il CCNL prevede una informazione strumentale ad esso, ma che non viene determinata nei contenuti, nelle periodicità, nelle forme, nei tempi, nelle verifiche.
Del resto anche solo l’analisi letterale della disposizione nazionale sul premio di risultato consente di far comprendere come, al di là della più volte sottolineata struttura gerarchica della contrattazione del settore TPL, questo istituto – nel bene e nel male – costituisca un vero “cavallo di Troia” per far transitare la contrattazione collettiva anche in ambiti organizzativi e gestionali che il CCNL vorrebbe propri delle prerogative datoriali.
Recita l’accordo nazionale: “Al fine di acquisire elementi di comune conoscenza per la definizione degli obiettivi e dei programmi predetti nonché del premio di risultato le parti, a livello aziendale, valutano le condizioni dell'impresa e del lavoro, le sue prospettive di sviluppo anche occupazionale, tenendo conto dell'andamento e delle prospettive della competitività e delle condizioni essenziali di redditività”.
Questa apertura ad ampio raggio alla contrattazione aziendale “vendica” la timidezza delle norme riguardanti la struttura della contrattazione e consente di fatto una negoziabilità completa
dell’organizzazione del lavoro, anche forse a prescindere di alcune delle componenti nazionali firmatarie del contratto; anche perché – è sempre il CCNL a precisarlo – “Gli accordi aziendali individueranno: i fattori di miglioramento cui riferire gli obiettivi del premio di risultato; le condizioni per l'attribuzione del premio di risultato e i relativi criteri di quantificazione; i parametri e i criteri di misurazione della performance generale o delle performance specifiche sulle quali può eventualmente essere articolato il sistema di corresponsione del premio (per settori, comparti, impianti, uffici, reparti, ecc.); l'eventuale modalità di valutazione delle prestazioni individuali; i criteri di rimodulazione del premio per l'ipotesi di ottenimento solo parziale dei risultati previsti; i criteri di ripartizione del premio di risultato”.
I contratti aziendali: principali tendenze
Verificati i canali attraverso i quali la contrattazione aziendale possa riuscire ad ampliare i suoi ambiti di competenza rispetto a quelli riconosciutigli dal contratto nazionale (slittamento delle modalità partecipative, presupposti per la definizione di programmi per l’attivazione del premio di risultato, orario di lavoro, occorre dire che ad una lettura dei contratti disponibili non si percepisce un ampliamento delle materie della contrattazione aziendale; almeno per quanto riguarda quella formalizzata in accordi.
Anche perché gli accordi aziendali disponibili riguardano quasi esclusivamente i premi di risultato, al di là della naturale espansività dell’istituto (peraltro, come visto, autorizzata dal contratto
nazionale), la tendenza principale ravvisabile sembra essere quella della generalizzazione della corresponsione del premio ed una sua stabilizzazione di fatto come voce fissa della retribuzione, con pochi margini di variabilità. Questo processo si realizza attraverso vari strumenti quali, la rilevanza della presenza e/o della riduzione dell’assenteismo, la verifica effettuata direttamente dalle parti contraenti, la frammentazione della corresponsione del premio in fasce temporali troppo brevi per il monitoraggio dei risultati.
Questo fenomeno si verifica anche in altri settori, soprattutto caratterizzati da incertezza di finanziamenti per il rinnovo dei contratti e/o dalla “percezione” che il contratto nazionale non riesca a governare in modo soddisfacente il potere d’acquisto delle retribuzioni. In tali situazioni la funzione di riequilibrio del salario viene svolta di fatto dalla contrattazione aziendale attraverso lo svilimento degli istituti retributivi incentivanti performance organizzative o di produttività.
Nel settore delle TPL l’incertezza del finanziamento del settore si avverte ad entrambi i livelli della struttura bipolare, soprattutto quando si tratti di aziende di dimensioni ridotte o senza prospettive di sviluppo del trasporto locale nell’ambito territoriale di competenza. Soprattutto in tali situazioni, l’organizzazione non è in grado di sostenere stress continui o rilevanti e si afferma più facilmente la tentazione ad incentivare il lavoro o la presenza attraverso una maggiore soddisfazione salariale.
Le principali caratteristiche del settore TPL: la dimensione pubblica nella normativa di riforma
A questo punto la domanda da porsi è se la struttura della contrattazione che abbiamo ricostruito sia coerente e compatibile con le caratteristiche del settore del trasporto pubblico locale e con gli obiettivi posti dalle parti sociali (e non solo da esse).
La riflessione non può che ricollegarsi al tema posto all’inizio di questo capitolo e, quindi all’indagine sulle determinanti della struttura della contrattazione.
Tra quelle individuate in precedenza, è evidente che l’intervento pubblico ricopra in questo settore un ruolo fondamentale e per molti versi influenzi anche le altre determinanti. appare utile, quindi, partire dalla riforma del settore sviluppatasi nel 1997 a seguito della legge delega 15 marzo 1997 n. 59.
Come è noto con questa legge e soprattutto con i decreti delegati che ne sono derivati (in particolare, 422/97 e 400/99) il settore è stato completamente riformato. È utile ricordare le principali caratteristiche della riforma, dal momento che esse contribuiscono fondamentalmente a definire le caratteristiche organizzative del settore.
La legislazione nazionale giunta alla fine degli anni ’90 si basa sui seguenti pilastri:
- l’unificazione delle responsabilità di programmazione e finanziamento dei servizi di trasporto locale presso le Regioni (compreso il trasporto ferroviario, il cui livello di servizio viene garantito alle stesse condizioni del triennio precedente alle Regioni
subentranti in base all’accordo quadro approvato dalla Conferenza Stato-Regioni del 18 giugno 1999);
- il trasferimento agli enti locali (province e comuni) di tutte le funzioni che non richiedano esercizio unitario a livello regionale;
- la netta separazione tra le funzioni di programmazione e regolazione affidate alle autonomie locali da quelle di gestione industriale, attribuite ad aziende trasformate in società di capitali o cooperative;
- l’obbligo di utilizzare meccanismi concorrenziali per l’affidamento dei servizi attraverso le gare a partire dal 2004;
- l’obbligo di stipulare contratti di servizio tra enti locali ed aziende, dotati di certezza e copertura finanziaria per il periodo di validità.
La situazione finanziaria del settore
Per quanto riguarda la situazione finanziaria del settore, l’obiettivo di coprire almeno il 35% dei costi di gestione attraverso i ricavi da traffico appare di problematico raggiungimento, tanto che quota maggiore di costi è coperta con sussidi ordinari e/o addizionali da parte delle amministrazioni pubbliche coinvolte, compreso lo Stato. La media nazionale sfiora il 30, frutto di una situazione molto frastagliata che vede le Regioni del Centro-Sud, compreso il Lazio, collocarsi largamente al di sotto della soglia prevista dalla legge. Campania, Puglia e Calabria viaggiano al di sotto del 20 per cento. (Per la cronaca la media europea si colloca intorno al 47 per cento).
La dimensione istituzionale: soggetti istituzionali coinvolti e ruoli svolti
Le caratteristiche istituzionali del modello scaturito dalla legge “Bassanini 1” non hanno al momento subito modifiche, ma si sono anzi rafforzate a seguito della riforma apportata al titolo V della Costituzione dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 e per la quale le competenze in materia di trasporto pubblico locale rientrano nella competenza esclusiva delle Regioni; assetto di competenze confermato da ultimo dalla sentenza della Corte costituzionale 6 giugno 2005 n. 222.
La competenza esclusiva riconosciuta alle Regioni non comporta necessariamente una regionalizzazione anche dell’autonomia finanziaria per quanto riguarda le risorse necessarie al funzionamento del servizio; come ha riconosciuto la stessa sentenza della Corte Costituzionale, le eccezioni all’autonomia finanziaria sono previste nel primo comma dell’art. 118 e nel quinto dell’art. 119; ma nel caso specifico, in assenza di un assetto definitivo delle competenze finanziarie, l’intervento statale è consentito ancora in attuazione dell’art. 20 del d. lgs. 422/1997.
Dell’intervento finanziario pubblico (Stato, Regioni ed autonomie locali) il settore continua ad avere una vitale necessità, anche per far fronte alle fisiologiche e periodiche esigenze di rinnovo contrattuale.
Esplicitamente, i punti cinque e sei della Premessa all’accordo nazionale 14 dicembre 2004 precisano che “La crisi economica in cui versa il settore impone la necessità di urgenti interventi strutturali
sul piano delle risorse e della certezza delle regole, tali da consentire la ripresa del processo di risanamento ed efficientamento delle aziende finalizzato allo sviluppo del TPL, avviata con l’accordo nazionale 27 novembre 2000” e che “L’attuazione in ciascuna delle sedi istituzionali coinvolte degli impegni contenuti nel verbale di riunione sottoscritto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 18 novembre 2004, con particolare riferimento a quelli assunti dal Governo (200 milioni di euro) e dalle Regioni (60 milioni di euro), in ordine ai finanziamenti previsti per il settore per gli anni 2005 e seguenti, consente di acquisire un quadro di compatibilità finanziaria nell’ambito del quale risolvere almeno le partite contrattuali di natura economica relative al rinnovo 2004-2005”.
Questa situazione di ripresa di interventi finanziari da parte dello Stato, legittimati dalla legge 350/2003, viene con preoccupazione vista come un affievolimento del vincolo di bilancio forte per le aziende e come un freno alla razionalizzazione dello stesso costo del lavoro.
Il costo del lavoro
È proprio il costo del lavoro che viene considerato uno dei punti maggiormente dolenti per il settore, sia per il contenuto di alcuni istituti normativi (v. la recente vertenza per l’indennità di malattia), sia perché a fronte di situazioni di privilegio, si riscontra l’assenza assoluta di applicabilità di ammortizzatori sociali (CIG) e questo aspetto costituirebbe un freno enorme alla razionalizzazione del costo del lavoro.
Allo stato attuale, la flessibilizzazione della risorsa umana sembra perseguita principalmente attraverso una politica di saturazione dell’orario di lavoro e razionalizzazione delle pause, e attraverso l’introduzione di forme atipiche di contratti di lavoro.
Ancora con riferimento al costo del lavoro, occorre ricordare che lo squilibrio tra costi e ricavi necessita costantemente di finanziamenti pubblici allo scopo di garantire anche solo retribuzioni indicizzate, quali quelle previste dall’attuale sistema di relazioni industriali; le modalità di intervento pubblico – in presenza di bilanci in sofferenza per tutte le amministrazioni – giungono fino a previsioni di aggravio di imposte sui prodotti petroliferi (cfr. d.l. 21 febbraio 2005 n. 16, convertito nella legge 22 aprile 2005 n. 58); del resto sul piano della contrattazione aziendale, le aziende non sono in grado di garantire miglioramenti di produttività tali da finanziare i costi.
Questa prassi rapsodica di ricerca dei finanziamenti per i rinnovi contrattuali, non garantendo la certezza e la fisiologicità dei finanziamenti può influenzare alcune prassi della contrattazione aziendali, quali la generalizzazione e la stabilizzazione delle quote di retribuzione flessibile (cfr. analisi dei contratti).
Questa situazione pone l’esigenza di verificare se la dimensione aziendale (il nanismo richiamato dal rapporto CNEL) e la struttura della contrattazione (esclusivamente di livello aziendale, per quanto riguarda il secondo livello) non possano essere modificate ai fini di creare ambiti di produttività più ampi e razionalizzati.
Le caratteristiche organizzative e gestionali
Sotto il profilo dell’assetto organizzativo e gestionale, il modello predisposto alla fine degli anni ’90 ha subito i più accentuati ritocchi di ripensamento.
Tra questi il più significativo è previsto dall’art. 14 della legge 24 dicembre 2003 n. 350 che “ribalta” la normativa precedente poiché viene consentito l’affidamento della gestione delle reti a società a totale partecipazione pubblica, oltre che a imprese idonee scelte con procedure di evidenza pubblica, mentre l’erogazione del servizio, qualora separata dalla gestione della rete, viene affidata sia a società di capitali, individuate mediante ricorso a procedure ad evidenza pubblica, sia a società a capitale misto pubblico-privato nelle quali il socio privato sia stato scelto con gara, sia a società a capitale pubblico con un affidamento in house. La situazione iniziale viene ripristinata, almeno per quanto riguarda l’obbligo di indire gare, dalla legge 15 dicembre 2004 n. 308 a partire dalla fine del 2005.
L’esigenza di ripristinare le condizioni di partenza della riforma è condivisa anche dal CNEL nel documento approvato il 28 aprile 2005. In esso si denuncia anche un altro dato strutturale del settore: il nanismo delle dimensioni aziendali, per superare il quale, il CNEL propone di prevedere l’introduzione di meccanismi premiali che stimolino gli Enti proprietari pubblici e le Aziende private a forme di aggregazioni di tipo cooperativo. In particolare si propone che gli Enti proprietari siano autorizzati a fare più investimenti di quanto
previsto nel Patto di stabilità, nel caso procedano ad accorpamenti, fusioni, integrazioni di aziende. “Ciò permetterebbe di attivare buone pratiche basate su Aziende più forti, vantaggi per clienti, maggiori investimenti per gli Enti Locali. L’ottica industriale di tale processo porterebbe sicuramente ad una riduzione dei costi, poiché consentirebbe alle imprese di cogliere benefici significativi in termini di incremento della competitività, per effetto dell’aumento della massa critica, dello sfruttamento di sinergia, di maggiore presidio su territorio”.
Secondo uno studio della Fondazione Xxxxxxx Xxxxxxxxxx del 2004, il mercato del TPL è caratterizzato, in Italia, dalla prevalenza di un elevato numero di imprese di piccola dimensione, con una maggiore concentrazione nelle Regioni meridionali. Più del 47% delle aziende italiane, infatti, utilizza soltanto da uno a cinque mezzi e, considerando il numero degli addetti, più del 46% delle imprese si situa nella classe 1-5 addetti. Dai dati emerge chiaramente che al centro-sud il numero delle aziende di dimensione medio-piccola è assai più elevato rispetto alle regioni del nord, dove invece è maggiore la presenza di imprese di grandi dimensioni, sia per quanto attiene la flotta autobus, sia con riferimento al numero degli addetti.
A questo aspetto occorre aggiungere quello della tendenza alla multimodalità che può essere garantita solo da grandi gruppi e che può consentire la ricerca di ulteriori spazi di produttività.
Struttura della rappresentanza datoriale
La frammentazione delle aziende non sembra influenzare la composizione della rappresentanza datoriale; dal punto di vista di una struttura della contrattazione decentrata questa situazione rappresenta una condizione favorevole. Infatti, la sostanziale generalizzazione del secondo livello può consentire una maggiore articolazione delle materie tra livello nazionale e secondo livello, senza il rischio di una carenza di tutela per lavoratori impiegati in aziende non affiliate.
Questa condizione è di fatto garantita da due elementi convergenti:
- la provenienza pubblica dei finanziamenti, che rende meno praticabile la prassi di fuga dalla contrattazione aziendale, come meccanismo di ricerca di costi del lavoro più bassi;
- la rappresentanza, sostanzialmente generalizzata di società, imprese ed enti coinvolti, garantita al livello nazionale da ASSTRA ed ANAV. Per quanto riguarda i dati ASSTRA si tratta di circa il 100% delle aziende di trasporto pubblico urbano e circa il 75
% delle aziende di trasporto extraurbano e regionale; in termini assoluti, si tratta di 210 operatori di trasporto pubblico locale e di trasporto ferroviario regionale che occupano circa 100.000 addetti su un totale di addetti del settore pari a 116.500.
4. Modello contrattuale e trasporto pubblico locale: problemi e prospettive
Il parere dei responsabili del personale
In occasione dello svolgimento della presente ricerca, è stato realizzato un momento di confronto e dialogo con i responsabili del personale delle aziende di trasporto pubblico locale.
Tale confronto ha consentito di identificare alcuni problemi sentiti in maniera comune in tutte le realtà territoriali (pur se con accenti diversi).
Le esigenze e le criticità segnalate con maggiore ricorrenza dai responsabili del personale sono le seguenti:
- mutamento, dopo gli scioperi del Natale 2003, del contesto negoziale;
- ricaduta negativa sulla capacità negoziale delle aziende dell’arresto del processo di liberalizzazione;
- difficoltà di frenare una struttura contrattuale che, di fatto ed in deroga alle regole vigente, tende ad essere costruita come “sommatoria” dei due livelli (nazionale e aziendale);
- difficoltà a gestire il “doppio regime” retributivo (giovani e anziani pagati con criteri molto diversi), che crea alcuni scollamenti nel personale;
- difficoltà di usare una disciplina comune – il CCNL – per soggetti sottoposti a regole diverse sul territorio;
- esigenza di un nuovo modello contrattuale che distribuisca a livello nazionale solo la corretta applicazione del Protocollo del 1993 (rivalutazione minimi contrattuali secondo l’inflazione programmata),
assegnando ai contratti aziendali il compito di “scambiare” prestazioni e remunerazioni;
- esigenza di trovare regole certe in grado di “separare” i due livelli contrattuali, e di valorizzare l’aderenza al territorio;
- necessità di garantire una effettiva complementarità tra i due livelli, con un grosso rilievo a quello aziendale. Solo così si potrebbe favorire anche la liberalizzazione, perché il contratto nazionale rischia di essere una gabbia per alcune aziende;
- esigenza di far coincidere il modello contrattuale con le prassi applicative;
- necessità di utilizzare il contratto aziendale anche per la gestione della flessibilità, senza che questo tema diventi oggetto di scambio retributivo;
- esigenza di individuare momenti precisi della contrattazione, al fine di prevenire una trattativa costante.
Valutazioni generali sulla base della situazione delineata.
Nelle pagine precedenti abbiamo visto come la struttura della contrattazione del settore del trasporto pubblico locale sia fortemente influenzata non solo da fattori endogeni al sistema di relazioni industriali ed alle caratteristiche organizzativo-produttive del settore, quanto anche da una dimensione politico-istituzionale che rende più complessa la ricerca di soluzioni appropriate; ciò soprattutto perché i soggetti da coinvolgere nell’opera di revisione del modello non necessariamente condividono uno stesso sistema
di interessi o, quanto meno, sistemi di interessi contemperabili sul solo piano della ragionevolezza organizzativa.
Ripercorrere i principali momenti organizzativi che vedono agire i diversi soggetti coinvolti contribuisce a definire la griglia di revisione dell’attuale assetto.
a) il trasporto pubblico locale è stato coinvolto in un completo processo di regionalizzazione, in ragione del quale il servizio rientra oggi tra le competenze esclusive delle Regioni. Ciononostante le risorse finanziarie continuano a dipendere in buona parte dallo Stato che peraltro non dispone di uno strumento fisiologico di finanziamento del servizio.
Questo primo aspetto influenza negativamente la struttura della contrattazione e, ancor prima, le relazioni sindacali. La normale attività di negoziazione e stipula del contratto collettivo esce, infatti, ancor prima di iniziare, dall’alveo delle convenienze dello scambio organizzativo e si incardina in quello del rapporto (più o meno conflittuale, soprattutto in fasi di carenza di risorse) tra livelli istituzionali diversi.
In questo secondo alveo si verifica una frammentazione (in tre spezzoni) della funzione datoriale tra soggetto finanziatore (Stato), soggetto organizzatore del servizio sociale (Regioni e sistema delle autonomie) e soggetto gestore del servizio di trasporto (aziende).
A questa tripartizione della funzione datoriale corrisponde una tripartizione dell’interesse negoziale: lo Stato sarebbe interessato a contenere i finanziamenti ma non può resistere eccessivamente alle
pressioni delle Regioni; le quali non avendo completa responsabilità finanziaria, sono interessate a garantire il servizio sociale, scaricando al centro le tensioni sindacali; le aziende devono organizzare il servizio senza avere la completa disponibilità delle risorse e del bilancio (su questo aspetto dovremo ritornare in seguito). Qui, per il momento va solo riconfermato il principio della responsabilità finanziarie delle decisioni politiche; principio in ragione del quale, le autonomie locali che dovessero richiedere servizi aggiuntivi rispetto a quelli compatibili con i bilanci aziendali, sono tenute ad intervenire al loro finanziamento secondo meccanismi che possono andare dall’adeguamento delle tariffe al finanziamento diretto con voci di bilancio.
Questa situazione di incertezza finanziaria sui soggetti e sugli strumenti non può che influenzare la struttura della contrattazione. Infatti, tutti i soggetti coinvolti di livello locale, ma anche le organizzazioni sindacali hanno interesse ad un accentramento della contrattazione, sia per semplificare le procedure negoziali, sia per scaricare quanto più possibile sul bilancio centrale gli oneri dei rinnovi; nello stesso tempo la rapsodicità dei finanziamenti consente soluzioni più praticabili al livello centrale, piuttosto che ricercare articolate soluzioni di livello locale.
E’ evidente che questa prospettiva può tranquillizzare ma non soddisfare le aziende, chiamate a garantire quotidianamente il servizio. Tranquillizzare ma non soddisfare, perché mentre l’eventuale accentramento rende possibili accordi “politici” che garantiscano almeno le disponibilità economiche necessarie al
mantenimento del consenso, complica la flessibilità della gestione del personale a causa delle caratteristiche di generalizzazione e automaticità che spesso le discipline nazionali determinano.
Un primo elemento di chiarezza da ricercare riguarda quindi la definizione di linee di finanziamento del servizio che, basate su principi di certezza ed indicizzazione, consentano anche al contratto nazionale di svolgere il proprio ruolo all’interno di una struttura della contrattazione basata sul modello bipolare, quanto meno per far assolvere solo a questo livello il compito di salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni. In altri termini, sia per la incertezza delle fonti di finanziamento che di fatto vengono individuate e definite in occasione dei rinnovi contrattuali e quasi “a valle” del tavolo negoziale, sia per la labile relazione che si instaura tra costo del lavoro e bilancio aziendale (anche per quanto diremo tra poco) il costo del lavoro nel settore del TPL finisce per essere uno degli ultimi esempi di “variabile indipendente” della contrattazione collettiva.
Una prospettiva del genera contiene due importanti corollari che potrebbero completare il progetto di raccordo tra i due livelli di contrattazione:
- la riduzione del voci retributive che sono negoziate al livello nazionale e quindi indicizzate, evitando principalmente le voci collegate direttamente alla produttività e alle specifiche prestazioni richieste dall’organizzazione del lavoro;
- l’esclusione di quote di produttività di settore da negoziare, e quindi indicizzare, al livello nazionale.
b) Altra caratteristica del settore è il regime di sostanziale monopolio nel quale operano le aziende, coniugato con un rallentamento del processo di privatizzazione e, soprattutto con quello del ricorso alle gare per l’assegnazione del servizio (che recentemente sembra avallato anche dalla proposta di Regolamento dello scorso luglio). Questa situazione che, allo stato attuale ha rilanciato la prassi dell’assegnazione in house, elimina dalle esigenze del settore quello della competitività delle aziende da perseguire anche attraverso una struttura della contrattazione ed un sistema di relazioni sindacali coerente. A questo riguardo va ribadita la convinzione per cui solo una azione di riorganizzazione del settore basata sui due pilastri dell’aggregazione delle aziende piccole e del riavvio delle procedure delle gare possa introdurre criteri di razionalizzazione in grado di rendere più evidenti i vincoli di bilancio sia per le tariffe sia per il costo del lavoro.
I due elementi, coniugati a loro volta con la carenza di risorse, la funzione sociale delle tariffe e la dipendenza delle aziende dai finanziamenti pubblici, comportano una tendenziale indifferenza al costo del lavoro che stenta a raggiungere le percentuali programmate sui costi e sul bilancio. Anche questo elemento incide sulla struttura delle relazioni sindacali e su quella della contrattazione, dal momento che all’associazione di rappresentanza datoriale viene richiesto quanto meno di garantire la copertura dei costi determinati dalla contrattazione nazionale per una sostanziale
invarianza del deficit di bilancio e, ancora una volta, è quest’ultimo il livello che finisce per essere privilegiato.
Una possibile modifica su questo fronte riguarda la necessità di governo del meccanismo di determinazione delle tariffe, affidando alle parti del contratto aziendale il vincolo di rispettare nella definizione del contratto il peso che sul bilancio hanno sia le tariffe, sia l’inflazione di settore.
c) gli aspetti esaminati sub a) e b) possono definirsi strutturali – anche se esterni – alla revisione dell’equilibrio tra livelli della contrattazione. Di fatto essi non sono determinati dalle parti sociali, ma comunque inducono in esse comportamenti concludenti miranti a non restare vittime di una situazione di indeterminatezza degli assetti finanziari ed amministrativi dei servizi. Questo significa che, per quanto i contratti di settore dichiarino esplicitamente di voler favorire il decentramento della contrattazione, di fatto questo intento non si realizza dal momento che mancano le condizioni di base perché i soggetti di livello aziendale possano assumersi le responsabilità della gestione di questo livello di contrattazione.
A questo punto è possibile esaminare gli aspetti più propri di un sistema di relazioni sindacali e soprattutto quelli relativi agli equilibri interni definiti dal contratto nazionale.
A questo proposito abbiamo già detto che dall’analisi dei contratti nazionali deriva una situazione contraddittoria; da un lato la previsione di un alto numero di materie attribuite al contratto nazionale ed una esigua delega esplicita di materie affidate alla
contrattazione aziendale; dall’altra una regolamentazione della retribuzione di risultato che di fatto funge da cavallo di Troia per la riapertura di tutti gli istituti al livello aziendale.
Questo rimessa in discussione dell’assetto degli equilibri tra livelli della contrattazione svolto dal “premio di risultato” merita qualche spiegazione aggiuntiva.
Come abbiamo specificato nell’analisi, il dettato contrattuale specificamente riferito alla struttura della contrattazione si è andato formando per successive stratificazioni che non hanno però messo in discussione (nemmeno dopo il Protocollo del 23 luglio) il sistema della rigida “clausola di rinvio”. Ciò significa che fino ai rinnovi contrattuali che hanno previsto il “premio di risultato”, la struttura della contrattazione aveva un assetto gerarchico con poche deleghe al secondo livello.
Il contratto del 1997 ha di fatto, pur senza modificarlo sul piano contrattuale, scardinato quel modello consentendo la contrattabilità di fatto ed indiretta di molti istituti normativi che a stretta logica del contenuto contrattuale non rientrerebbero nella competenza del contratto aziendale. Ciò che si vuol dire e che attraverso la retribuzione accessoria si è riaperta la porta per la ricontrattabilità di istituti già negoziati al livello nazionale, ma senza che su questi ultimi si sia intervenuti per poter depotenziare il ruolo del CCNL (vedi orario, reperibilità, riposi e istituti economici in generale; una situazione analoga sembra possa determinarsi con il contenuto del recente CCNL sulla flessibilità delle tipologie di lavoro.
A questa situazione si aggiunge un sistema di partecipazione molto ampio ed articolato che di fatto richiederebbe una tenuta del management aziendale alle rivendicazioni sindacali che gli aspetti strutturali prima evidenziati non facilitano.
Un ulteriore elemento è possibile aggiungere riferito alla struttura della retribuzione così come definita dai contratti.
I contratti nazionali definiscono una retribuzione “normale” da gestire al livello nazionale, da corrispondere in 14 mensilità; per quanto riguarda questa retribuzione si può discutere se – ai fini del governo del costo del lavoro – sia possibile espungere qualcuna delle voci nel momento in cui occorra adeguare gli importi ai tassi di inflazione, ma quello che è certo è che la struttura delle voci retributive crea le condizioni di una duplicazione di negoziazione sia al livello nazionale, sia a quello aziendale.
Sul piano terminologico generale è significativo ad esempio che le indennità “legate ad effettive e/o particolari prestazioni” regolamentate anche per quanto riguarda gli ammontari dal CCNL, siano poi ugualmente affidate alla contrattazione aziendale da parte dall’art. 3, punto 4 a. n. 27 novembre 2000; ed è naturale che questo spazio sia stato utilizzato dalla contrattazione di secondo livello nella revisione degli istituti, in quella della determinazione dei costi ed, infine, nella previsione di ulteriori voci retributive.
Ancora una volta, questa situazione è affrontabile attraverso due percorsi alternativi: perseguendo una centralizzazione della struttura che prenda atto della stasi nella quale si trova la riforma del settore e, quanto meno, unifichi l’autorità salariale in grado di parlare con