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SOLUZIONI LAVORO
OSSERVATORIO PERMANENTE IN MATERIA DI LAVORO, SINDACATO E PREVIDENZA SOCIALE COORDINATO DA XXXXX XXXXXXX XXXXXXX DIRETTO DA XXXXXX XXXXXX
Il patto di non concorrenza
MONOTEMA N. 6/2018
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Il patto di non concorrenza
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Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
Sommario: 1. Nozione e funzione - 2. Ambito di applicazione e caratteristiche - 3. Condizioni temporali per la stipula - 4. Requisiti di validità – 5. Oggetto – 6. Luogo e tempo – 7. Corrispettivo – 8. Risoluzione - 9. Violazione.
1. Nozione e funzione
Nozione. Il c.d. patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.) è l’accordo che regola, limitandolo, lo svolgimento dell’attività del lavoratore subordinato nel periodo successivo alla cessazione del contratto di lavoro.
Con il ricorso a questo istituto il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro od altra utilità al lavoratore, affinché quest’ultimo non svolga, per il periodo susseguente alla cessazione del rapporto, un’attività in concorrenza o a favore di imprese concorrenti (con il proprio ex datore di lavoro).
Nello specifico, l’art. 2125 c.c. prevede che “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura su indicata”
Tale particolare patto, pur se caratterizzato da una speciale autonomia, resta, comunque, ancorato al rapporto principale, che è di lavoro subordinato, e, pertanto, non è estensibile a rapporti diversi, come i rapporti di lavoro autonomo e parasubordinato (l’orientamento della Corte di Cassazione è consolidato: x. Xxxx. 6 novembre 2000, n. 14454, GI, 2001, I, 1113;
Cass. 2 ottobre 1998, n. 9802), ai quali si applica l’art. 2596 c.c. (x. Xxxx. 21 marzo 2013, n.
7141, GLav, 2013, n. 22, 39 e Trib. Trieste 19 febbraio 2014, ivi, 2014, n. 32-33, 57, secondo cui il patto di non concorrenza, “al di fuori del lavoro subordinato, è valido laddove siano presenti, in via alternativa, l’uno o l’altro dei due presupposti previsti dal primo comma dell’art. 2596 c.c., cioè: o quello relativo alla delimitazione spaziale o quello relativo alla delimitazione dell’attività economica”).
Funzione. La disciplina del patto di non concorrenza tutela gli interessi sia dell’imprenditore nei confronti della divulgazione del patrimonio immateriale costituito dalla sua organizzazione tecnica, amministrativa e produttiva, sia del prestatore di lavoro, poiché la previsione di regole specifiche impedisce l’apposizione discrezionale di limiti ulteriori, rispetto al rapporto di lavoro, ed eccessivi rispetto all’esercizio delle attitudini professionali del lavoratore ed alla ricerca di una nuova occupazione (Cass. 2 marzo 1988, n. 2221, NGL, 1988, 560).
2. Ambito di applicazione e caratteristiche
Ambito di applicazione. Il patto di non concorrenza può essere stipulato con tutte le categorie di prestatori di lavoro (ad es. dirigenti, impiegati, operai, commessi alle vendite, ecc.); non solo, dunque, con i dipendenti che si collocano ai vertici della scala gerarchica (e, quindi, sono a conoscenza di delicate nozioni aziendali ed in possesso di particolari professionalità), ma anche con chi svolge mansioni meramente esecutive, qualora, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, il datore di lavoro possa subire un concreto pregiudizio in termini di capacità concorrenziale (Cass. 19 aprile 2002, n. 5691, LG, 2003, 29, secondo cui è ammissibile la stipulazione del patto da parte del commesso alle vendite, in quanto portatore di elementi di conoscenza ed esperienza tali da influire sulle scelte dei consumatori).
Il patto, inoltre, “copre” la concorrenza esercitata dal lavoratore in proprio, ossia come lavoratore autonomo o imprenditore.
Misure specifiche sono previste per particolari categorie di lavoratori -
Dirigenti. La particolarità relativa ai dirigenti, circa il patto di non concorrenza, consiste nella differenza della durata massima prevista, che è di 5 anni (art. 2125, co. 2, c.c.).
Sportivi. Nel contratto riservato agli sportivi dalla L 23 marzo 1981, n. 91, e successive modifiche ed integrazioni, viene esclusa l’applicabilità della clausola di non concorrenza o, comunque, clausole limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto (art. 4, co. 6, L n. 91/1981).
Collaborazioni. Un patto accessorio di non concorrenza può essere apposto anche ai contratti di collaborazione, la cui durata inizia alla cessazione del rapporto (Cass. 6 maggio 2009, n. 10403).
Socio di s.r.l. Secondo Xxxx. 12 novembre 2014, n. 24159, è nullo il patto con il quale il socio di una s.r.l., cedendo la sua quota di partecipazione al capitale sociale (e, con ciò, uscendo dalla società), si vincoli a non svolgere attività concorrenziale con la società stessa, quando questo patto di non concorrenza precluda in modo assoluto all’obbligato l’esplicazione della sua capacità professionale in un dato settore economico.
Caratteristiche. La regolamentazione contenuta nell’art. 2125 c.c. stabilisce che il patto di non concorrenza è un contratto che prevede una limitazione della libertà contrattuale del dipendente nei rapporti con i terzi ed è:
• a titolo oneroso (essendo previsto un compenso);
• a prestazioni corrispettive: il rapporto di sinallagma contrattuale riguarda l’omissione della prestazione, da parte del prestatore e la corresponsione, da parte del datore di lavoro, di un “vantaggio” al lavoratore;
• a valenza autonoma, in quanto è:
a) distinto dal rapporto contrattuale di lavoro corrente tra le parti (v. X. XXXXXXX, Obbligo di fedeltà ed il patto di non concorrenza, in X. XXXXXXX (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, Trattato di diritto del lavoro, diretto da X. XXXXXXXX e X. XXXXXXX, IV, Cedam, 2012, 1021);
b) concettualmente indipendente dalla previsione dell’art. 2105 c.c. in materia di obbligo di fedeltà;
c) non coincidente con la fattispecie prevista dall’art. 2596 c.c., che regola gli accordi di non concorrenza tra imprenditori (soggetti che, dal punto di vista della forza contrattuale, sono posti sullo stesso piano);
d) non inquadrabile nella disciplina prevista per le clausole vessatorie, sul presupposto che le condizioni previste dall’art. 2125 c.c. offrono maggiori garanzie rispetto a quelle stabilite dall’art. 1341 c.c. (condizioni generali di contratto) e stante la tassatività delle ipotesi contemplate nel secondo comma di quest’ultima disposizione (v. X.
XXXXXXXXX, Il patto di non concorrenza: contenuto e sanzioni, nota a Trib. Roma 24 ottobre 2001, MGL, 2002, 147).
3. Condizioni temporali per la stipula
Il patto di non concorrenza può essere sottoscritto:
• all’atto della stipulazione del contratto individuale di lavoro;
• ovvero nel corso del rapporto di lavoro. Com’è intuibile, infatti, il datore di lavoro potrà ottenere facilmente il consenso del lavoratore alla sottoscrizione del patto di non concorrenza solo in due ipotesi e cioè: alla stipulazione del contratto, ponendolo come condizione dell’instaurando rapporto di lavoro; oppure, in corso di rapporto, collocandolo come contropartita di miglioramenti di carriera o di affidamento di nuove responsabilità al lavoratore;
• o, anche, successivamente alla cessazione del medesimo. Al riguardo, parte della dottrina nega la validità del patto sottoscritto successivamente alla risoluzione del contratto di lavoro, sul presupposto che verrebbe a mancare, in questo modo, uno dei requisiti basilari su cui fa perno il patto stesso e cioè l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e, quindi, di squilibrio tra le parti del contratto di lavoro, che rappresenta il fondamento dell’istituto in esame.
In caso di stipula dopo la fine del rapporto, l’indirizzo prevalente ritiene che il patto rientri comunque nella disciplina dell’art. 2125 c.c., e non in quella l’art. 2596 c.c., purché stipulato “in occasione del regolamento dei reciproci interessi economici che ha origine e causa dalla cessazione del rapporto di lavoro” (Xxxx. SU 10 aprile 1965, n. 630, RGL, 1965, II, 163).
4. Requisiti di validità
Il patto di non concorrenza, ai sensi dell’art. 2125 c.c., deve:
• essere stipulato in forma scritta, in deroga al principio generale della libertà di forma che ispira il diritto del lavoro. Da tale requisito formale, imposto anche al fine di rendere consapevole il lavoratore in merito al vincolo che assume, discende che non è sufficiente, per la sua validità, la semplice manifestazione di volontà del datore di lavoro e del lavoratore, espressa oralmente o anche per fatti concludenti; inoltre, ai fini probatori, stante il carattere costitutivo della forma scritta, non è possibile dimostrare l’esistenza della pattuizione in assenza di una sua stipula scritta;
• stabilire un corrispettivo a favore del lavoratore. Il corrispettivo ha natura indennitaria e la sua mancanza è causa di nullità del patto (Cass. 4 aprile 2017, n. 8715, GLav, 2017, n. 19, 38);
• prevedere un vincolo contenuto entro determinati limiti di oggetto, luogo e tempo. La dottrina esclude l’ammissibilità di una interpretazione integrativa del patto, volta a precisare i limiti di attività oggetto del patto medesimo. Ciò, non solo per impedire che esso presenti eccessivi margini di genericità, bensì per garantire che il prestatore di lavoro fin dal momento della stipula, abbia presente le limitazioni di oggetto, spazio e tempo e possa compiere una scelta congrua circa i futuri sbocchi occupazionali. Tuttavia, il principio di conservazione del contratto induce ad ammettere la possibilità per le parti di una sorta di autocorrezione aggiuntiva. In questa direzione, si è orientata la
giurisprudenza, ammettendo la possibilità della suddetta interpretazione integrativa (x. Xxxx. 22 luglio 1978, n. 3687, MGL, 1979, 651).
Nel caso in cui manchi la forma scritta, la determinazione del corrispettivo, dell’oggetto o del luogo, il patto di non concorrenza è nullo (V. Trib. Udine 24 luglio 2012, n. 159, GLav, 2013,
n. 16, 53). Pertanto, la fissazione dei suddetti limiti (oggetto, luogo e corrispettivo) deve essere scritta anche quando i termini del patto risultino già da un contratto collettivo (X. XXXXXXX, op. cit., 1023).
5. Oggetto
Premesso che l’attività concorrenziale vietata (cui fa riferimento l’art. 2125 c.c.), in seguito alla stipula del patto, è quella lecita e non riguarda il compimento di eventuali atti illeciti riconducibili alla concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., va precisato che l’accordo con cui il lavoratore accetta un vincolo limitativo degli spazi di ricerca di una nuova occupazione consente la preclusione di attività in concorrenza con il datore di lavoro, riferite allo specifico settore in cui si inserisce l’opera dell’ex dipendente (X. XXXXXXX, op. cit., 1031) e non a settori diversi o anche affini (x. Xxxx. 23 aprile 1991, n. 4383, AC, 1991, 1268, con nota di X. XXXXXXXXX, Fondamento, contenuto e limiti del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., per la quale è nullo il patto esteso ad un intero settore merceologico comprendente anche imprese non concorrenti; Trib. Milano 8 giugno 2002, RCDL, 2002, 958 e Pret. Milano 13 gennaio 1999, OGL, 1999, 162, secondo cui è nullo, in quanto indeterminato nell’oggetto, l’atto che escluda qualsiasi attività nel settore proprio dell’impresa datrice di lavoro).
Inoltre, il divieto di svolgere attività uguali all'oggetto della prestazione lavorativa comporta che l’ambito di inibizione dell’attività concorrenziale posteriore possa estendersi fino a ricomprendere sia le mansioni svolte dal dipendente nel corso del rapporto di lavoro, che ogni altro genere di attività in competizione con quella del datore di lavoro al momento della cessazione del rapporto (conseguendone l’illegittimità delle sole restrizioni riguardanti ambiti estranei a quelli dell’impresa d’origine (Cass. 10 settembre 2003, n. 13282, MGL, 2004, 94 e Trib. Ravenna 24 marzo 2005, LG, 2006, 169). Tale divieto, tuttavia, incontra un duplice limite: 1) anzitutto il patto non può impedire al dipendente di utilizzare le capacità (pur “concorrenziali”) che egli abbia interiorizzato come know how oramai facente parte integrante della sua professionalità (si pensi ad un tecnico informatico addetto alla cura e manutenzione dell’hardware), con la conseguenza che ciascun patto andrà valutato tenendo in considerazione, congiuntamente, l’estensione oggettiva delle attività inibite, il rapporto fra queste e le mansioni svolte dal lavoratore e la sua professionalità (x. Xxxx. 11 ottobre 2002,
n. 14479, GC, 2003, I, 679, la quale distingue fra le conoscenze riconducibili al bagaglio professionale del lavoratore - “che costituiscono parte indistinguibile” della sua personalità, “la cui tutela ha valore costituzionale” e sono spendibili nel nuovo rapporto di lavoro, pur se sviluppate nel corso del vecchio rapporto lavorativo -, e quelle che, invece, appartengono al patrimonio aziendale dell’impresa firmataria del patto e che continuano ad essere oggetto di riservatezza e sono dunque coperte dal patto); 2) in secondo luogo è inammissibile il patto che comporti l'esaurimento delle opportunità occupazionali del lavoratore: questo, cioè, non deve comprimere “eccessivamente” le possibilità del lavoratore di “dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti”, ovvero rendere estremamente difficoltoso, per il lavoratore, l’esercizio di ogni attività lavorativa coerente con le proprie attitudini professionali (Cass. 19 novembre 2014, n. 24662, GLav, 2014, n. 48, 20; Cass. 4 aprile 2006, n. 7835, MGL, 2007, 562, con nota di X. XXXXXXXXXXX, Contenuto e limiti del patto di non concorrenza; Trib. Pordenone 4 novembre 2014, GLav, 2015, n. 21, 58, secondo
cui il “patto di non concorrenza deve essere tale da non comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del dipendente stesso in limiti che ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita”; Trib. Bologna 12 novembre 2009, LG, 2010, 204, secondo cui “il patto di non concorrenza è nullo qualora il vincolo non sia contenuto entro determinati limiti di oggetto e di luogo, cioè quando lo stesso comporti una compressione della concreta professionalità del lavoratore a tal punto da annullarla in pratica, precludendo a quest’ultimo ogni possibilità lavorativa nel suo campo professionale”; App. Torino 12 giugno 2009, RGL, 2010, II, 293, con nota di X. XXXXXXXX, Il patto di non concorrenza tra orientamenti giurisprudenziali e nuove esigenze di mercato; Trib. Milano, 4 marzo 2009, RCDL, 2009, 183: nella fattispecie, è stato ritenuto nullo un patto di non concorrenza della durata di un anno esteso a tutto il territorio italiano e avente a oggetto lo svolgimento di qualsiasi attività in concorrenza con la datrice di lavoro, attiva nel settore somministrazione di lavoro e selezione del personale, stipulato con un lavoratore che aveva maturato esperienze professionali solo in quel campo, stante l’impossibilità per il lavoratore di utilizzare all’estero tale professionalità in considerazione della normativa specifica applicabile alla realtà italiana; Trib. Milano, 12 luglio 2007, ivi, 2007, 1125: nella fattispecie è stato ritenuto nullo il patto di non concorrenza che prevedeva il divieto per il lavoratore di svolgere l’attività di programmatore informatico a favore sia di imprese clienti della ex datrice di lavoro - società di fornitura di servizi informatici - sia di imprese che utilizzassero un comune software fornito dalla stessa, nei territori di Lombardia, Lazio e Campania). In altre parole, occorre escludere dal possibile ambito del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale, allo scopo di non comprimere eccessivamente le possibilità dell’ex dipendente di dirigere la propria attività verso altre occupazioni con retribuzioni adeguate alle esigenze di vita proprie e della sua famiglia.
In questo quadro, “deve considerarsi nulla la clausola che limiti eccessivamente la libertà di esplicazione dell’attività professionale del dipendente, con riferimento a un vasto settore merceologico vietandone qualsiasi prestazione lavorativa, anche occasionale” (nella specie, attività di costruzione, commercio e utilizzazione di determinati apparecchi: x. Xxxx. 23 aprile 1991, n. 4383, cit.). Mentre è valido il limite apposto alla capacità professionale intesa come mansioni svolte, vale a dire il patto stipulato con un’impresa operante nel settore della produzione di articoli per giardinaggio e irrigazione che precluda all’ex direttore commerciale lo svolgimento in Italia, Francia, Svizzera, Germania e Austria, per un biennio, di qualsiasi attività lavorativa alle dipendenze di imprese operanti nel medesimo settore e di qualsiasi attività indipendente con essa concorrente, sul principale rilievo che la capacità professionale specifica del lavoratore non deve essere posta in relazione all’esperienza lavorativa nel suddetto settore merceologico, ma vada individuata nel nucleo significativo delle mansioni svolte di direttore commerciale (Cass. 3 dicembre 2001, n.15253, NGL, 2002, 243); e risulta altresì non violato il patto di non concorrenza del lavoratore che svolga mansioni diverse rispetto a quelle esercitate nel pregresso rapporto (Trib. Milano 5 settembre 1990, OGL, 1990, 3, 103, relativa ad un venditore poi assunto presso un ufficio acquisti senza alcun contatto con la clientela), ovvero il patto in cui la capacità professionale del lavoratore è più ampia dell’attività temporaneamente vietata e tale “residuo” abbia ragionevoli possibilità di utilizzazione nel mercato del lavoro (Pret. Milano 10 febbraio 1981, ivi, 1981, 422).
In realtà appare assai arduo, alla luce della moderna organizzazione del lavoro in un mercato altamente informatizzato e globalizzato, correlare l’area produttiva di origine del lavoratore con le sue competenze e mansioni al fine di identificare con precisione l’area dei divieti, prestando particolare attenzione al corretto bilanciamento fra vantaggi del datore di lavoro e obblighi del lavoratore, allo scopo di evitare una violazione del diritto al lavoro, garantito dalla Costituzione (art. 4). È incontestabile, infatti, che, per fare un esempio, in un’azienda
farmaceutica, il lavoratore che svolge ricerche su un farmaco non potrà andare a svolgere la medesima attività di ricerca per un’altra casa farmaceutica, ma è altresì vero che se chi stipula il patto di non concorrenza svolge “funzioni organizzative dei cicli produttivi e del personale” appare arduo identificare l’oggetto del patto senza estenderlo a tutti settori, a tutte le aziende ed all’intera professionalità del lavoratore (Nel senso che le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da “qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, ecc.) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti”, x. Xxxx. 19 novembre 2014, n. 24662, cit.).
6. Luogo e tempo
Luogo. L’art. 2125 c.c. impone la fissazione di un limite territoriale del patto di non concorrenza. E, anche se la formula utilizzata dalla norma, per cui il relativo “vincolo… va contenuto entro determinati limiti”, rimette la concreta specificazione alla libera determinazione delle parti, la mancata indicazione dei limiti spaziali nel patto di non concorrenza, non essendo possibile alcuna scelta alternativa, produce inevitabilmente la nullità della convenzione (Cass. 2 maggio 2000, n. 5477, NGL, 2000, 492; e Trib. Ravenna 24
marzo 2005, cit.).
L’ambito territoriale entro cui può essere inibita la prestazione potenzialmente concorrenziale del prestatore di lavoro non rileva di per sé, ma valutato:
• nel quadro dell’equilibrio negoziale realizzato dalle parti con riferimento all’oggetto, alla durata ed al confine territoriale;
• alla luce della ratio della disposizione codicistica, la quale è finalizzata a garantire al lavoratore lo svolgimento delle attività confacenti alle sue attitudini e capacità in linea con il dettato costituzionale (art. 4, Cost.);
• e, di conseguenza, con particolare riguardo alla limitazione più o meno penetrante dell’attività consentita (X. XXXXXXX, Il patto di non concorrenza, DPL, 2005, 2163).
A tale riguardo, dottrina e giurisprudenza hanno a lungo considerato nullo il patto con cui si impedisca al lavoratore di esercitare le proprie mansioni sull’intero territorio nazionale (X. XXXXXXXXXX, Xxx requisiti di legittimità del patto di non concorrenza, nota a Xxxx. 26 novembre 0000, x. 00000, XXXX, 0000, XX, 000; Cass. 4 febbraio 1987, NGL, 1987, 384; Trib.
Pordenone 5 giugno 2014, GLav, 2014, n. 36, 32, secondo cui il patto di non concorrenza esteso a tutto il territorio dell’Unione europea e ad un intero settore merceologico e nullo, con caducazione dei relativi obblighi e diritto per l’azienda di ripetere quanto erogato in ragione del patto medesimo).
Più recentemente, invece, si è ritenuto valido l’accordo che prevede un simile limite poiché, pur comprimendo la professionalità del lavoratore, non ne compromette in senso assoluto la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo per la presenza di alternative occupazionali (X. XXXXXX, Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, DPL, 2001, 902, sulla legittimità di un patto esteso all’intero territorio comunitario; X. XXXXXX, Patto di non concorrenza e risarcimento del danno, DPL, 1998, 1054; Cass. 10 settembre 2003, n. 13282, cit.; Cass. 2 maggio 2000, n. 5477, cit., secondo cui l’indicazione dell’Italia e della Svizzera nel patto di non concorrenza deve essere intesa come divieto di svolgere l’attività lavorativa dedotta nel patto, all’interno del territorio dei due Stati, e non come divieto
di prestare la suddetta attività, alle dipendenze di imprese che abbiano sede in Svizzera e in Italia, in qualsiasi luogo il lavoratore si trovi; App. Torino 12 giugno 2009, cit.).
Addirittura, per taluna giurisprudenza, «nella dimensione globalizzata dell’economia e, in particolare, delle società coinvolte, un patto di non concorrenza non può quasi mai limitarsi al territorio nazionale, ma deve investire almeno la dimensione europea» (Trib. Milano, 3 maggio 2005, OGL, 2005, 315 - con nota di X. XXXXX, Ancora sul patto di non concorrenza: il limite territoriale nel nuovo mercato, le modalità di pagamento del corrispettivo, i limiti alla pattuizione e all’esercizio del potere di recesso - , relativa a società coinvolte nella vicenda concorrenziale che operavano in ambito non solo nazionale, ma anche estero).
Tempo. Il legislatore determina la durata massima del patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.) in cinque anni per i dirigenti e tre anni per i lavoratori (la ratio della diversità dei termini previsti per le due categorie è tradizionalmente individuata nella maggiore “pericolosità della concorrenza che il dirigente è in grado di operare, a causa del più penetrante contatto di questi con la sfera giuridica dell'imprenditore”).
Se è pattuita una durata maggiore del termine di legge, essa è ridotta nella misura indicata, non determinando, quindi, la nullità della convenzione, ma l’applicazione delle condizioni di legge (art. 2125, co. 2, c.c.).
Ne consegue, per un verso, la possibilità di concludere patti per periodi inferiori alla durata massima, e, per l’altro, la possibilità di prorogare il patto, a condizione che: a) la somma delle durate non superi la soglia massima complessiva prevista dalla legge; b) il nuovo patto sia siglato per iscritto; c) vi sia un “adattamento/aumento” del corrispettivo (X. XXXXXX, Il patto di non concorrenza nel diritto del lavoro, Xxxxxxx, 1976, 129).
Circa l’assenza in toto della previsione della durata, l’orientamento della dottrina è nel senso della nullità del patto (anche sul presupposto che l’art. 2125 c.c., a differenza dell’art. 2596 c.c., non contempla espressamente l’ipotesi di mancata determinazione della durata del patto). Tuttavia, si può affermare che il silenzio delle parti in ordine al limite di tempo, deponga nel senso che queste abbiano inteso riferirsi alla durata massima stabilita dal co. 2, dell’art. 2125 c.c., con conseguente ricorso alla tecnica dell’integrazione contrattuale (ex art. 1374 c.c.) (così, Cass. n. 3687/1978, cit.)
7. Corrispettivo
La previsione del corrispettivo a favore del prestatore, fra i requisiti essenziali richiesti dall’art. 2125 c.c. per la validità del patto di non concorrenza, qualifica l’accordo come contratto a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, nel quale quanto dovuto al lavoratore si pone “in una relazione di stretta sinallagmaticità con la prestazione omissiva del lavoratore, di cui costituisce controprestazione” (X. XXXX, Il divieto di concorrenza del prestatore di lavoro, XX, 0000, I, 92). Il compenso erogato al lavoratore in virtù del patto di non concorrenza rappresenta, però, un elemento distinto dalla retribuzione, in quanto riguarda un’obbligazione successiva al rapporto e non un’obbligazione di lavoro. Esso è infatti previsto in funzione di riparazione del pregiudizio, anche solo potenziale, subìto dal lavoratore in ragione della restrizione alla sua libertà di lavorare.
La facoltà di determinare l’entità del corrispettivo è rimessa alle parti (art. 2125 c.c.). Secondo la giurisprudenza (Cass. 14 maggio 1998, n. 4891, RIDL, 1998, II, 72), il corrispettivo da versare per il patto deve essere, a pena di nullità ed indipendentemente dalla utilità che il datore di lavoro tragga dal patto di non concorrenza, proporzionato ed adeguato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore oltre che necessariamente determinato nel suo ammontare (anche se non si applicano i criteri di cui all’art. 36 Cost., riferibili alla retribuzione); la somma, quindi, non può essere né simbolica, né manifestamente iniqua o sproporzionata, ma
congrua. In generale, quindi, il compenso sarà tanto maggiore, quanto più: a) è elevata la posizione gerarchica o la competenza professionale del lavoratore (e dunque la retribuzione media percepita); b) è ampio il vincolo territoriale; c) è vasto il novero delle attività e dei datori concorrenti individuati nel patto; d) è esteso il vincolo temporale (cfr. Cass. 15 maggio 2007,
n. 11104, LG, 2007, 1223, secondo cui il corrispettivo da riconoscere per l’assunzione dell’obbligo di non concorrenza deve essere «congruo» in relazione al sacrificio imposto al lavoratore nel periodo successivo alla conclusione del contratto di lavoro; Xxxx. 14 maggio 1998, n. 4891, cit. La congruità del corrispettivo deve essere valutata caso per caso alla luce delle mansioni espletate e dell’oggetto dell’attività lavorativa. Ad es., alcune sentenze hanno ritenuto «congruo» un corrispettivo pari al 40% della retribuzione – v. Trib. Milano 25 marzo 2011, RCDL, 2011, 625 -; mentre, in altri casi, è stata ritenuta sufficiente la percentuale del 10% - x. Xxxx. n. 7835 del 4 aprile 2006, cit. -; cfr., poi, Trib. Padova 18 dicembre 2016, ADL, 2016, 1300, con nota di X. XXXX, Patto di non concorrenza: il labile confine tra (in)determinatezza e (in)determinabilità del corrispettivo, secondo cui il corrispettivo in questione, costituendo il prezzo di una rinuncia al diritto al lavoro e alla libera esplicazione della professionalità costituzionalmente garantiti, deve essere idoneo e proporzionato a quanto richiesto al lavoratore; la valutazione di congruità deve essere fatta con riferimento alla posizione del lavoratore, indipendentemente da ogni considerazione circa l’utilità che ne trae il datore di lavoro, secondo Xxxx. 8 novembre 1997, n. 11003, GC, 1998, I, 2889; sull’invalidità del corrispettivo meramente simbolico, considerata la necessaria proporzionalità del compenso necessaria proporzionalità del compenso rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore, cfr. Trib. Modena 12 febbraio 2000, GLav, 2001, n. 2, 18. In relazione al quantum ed al quomodo del versamento del corrispettivo dovuto al dipendente, parte della giurisprudenza di merito ha affermato che il legislatore ha inteso riconoscere ampia autonomia negoziale ai soggetti parti stipulanti, evitando di predeterminare sia limiti minimi sia criteri di liquidazione (Pret. Milano 22 febbraio 1999, RIDL, 2000, II, 329, con nota di X. XXXXXXXX, Osservazioni in tema di patto di non concorrenza). Pertanto, in assenza di una espressa pattuizione delle parti, vigono le regole generali in materia di contratti (art. 1372 e ss. c.c.): Trib. Torino 27 luglio 2001; Trib. Torino 18 aprile 2000, GLav, 2001, n. 6, 32. Ma nessun compenso, per quanto elevato sia, può rendere valida la rinuncia del lavoratore ad ogni possibilità di reimpiego, in quanto si configurerebbe una violazione del diritto al lavoro e della libertà d’iniziativa economica protetti dalla Costituzione (artt. 4, 35, e 41) (Cass. 26 novembre 1994, n. 10062, cit.).
L’iniquità del compenso potrebbe essere determinata dalla progressiva svalutazione monetaria. È consigliabile, pertanto, prestabilire una modalità di rivalutazione del patto di non concorrenza. Infatti, il lavoratore, qualora il corrispettivo, con il passare del tempo, diventi incongruo, potrebbe chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), ovvero agire per ottenere la rescissione per lesione (art. 1448 c.c.) o richiedere una valutazione di congruità del compenso (Cass. 26 novembre 1994, n. 10062, cit., che ha escluso la possibilità che il giudice del merito possa compiere l’adeguamento di corrispettivo in misura troppo bassa).
La mancata previsione del compenso, come la sua incongruità dovuta a compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati, comportano la nullità del patto di non concorrenza (Nel senso che l’inadeguatezza della somma pattuita non rende nullo il patto, ma consente al lavoratore di avvalersi dei rimedi offerti dal diritto comune, v. X. XXXXXXX X’XXXX, Concorrenza (III) - Patto di non concorrenza, EGT, 1988, 3; Cass. 21 aprile 1966, n. 1027, FI, 1966, I, 1520). Ed il compenso è irripetibile nell’ipotesi in cui l’obbligazione assunta dal lavoratore divenga inesigibile, ad es. in seguito alla morte del lavoratore stesso (Cass. 13 maggio 1975, n. 1846, FI, 1975, I, 2248).
Quanto alla modalità di corresponsione del compenso, l’art. 2125 c.c. lascia ampia libertà alle parti. (cfr. Pret. Milano 22 febbraio 1999, cit.). Cosicché esso può:
• essere previsto in cifra fissa o in percentuale e deve essere determinato o determinabile al momento della stipulazione del patto (Xxxx. 4 aprile 2006, n. 7835, cit.);
• essere corrisposto durante lo svolgimento del rapporto (Xxxx. 10 settembre 2003, n. 13282, cit.; Trib. Roma 11 aprile 2016, Trib. Milano 28 settembre 2010, RCDL, 2010, 1080 non ha ammesso il pagamento del compenso in corso di rapporto, in quanto il compenso non risulterebbe determinato, ma sarebbe aleatorio) insieme alla retribuzione, rateizzandolo per tutto il periodo di vigenza del patto (data la loro natura mista, risarcitoria e retributiva, le somme in questione, ove erogate in misura fissa e con cadenza mensile, sono computabili nella base di calcolo del TFR: Cass. 4 aprile 1991, n. 3507, NGL, 1991, 499.; Trib. Brescia 4 maggio 1994, RIDL, 1995, II, 341);
• essere versato in un’unica soluzione alla cessazione del rapporto di lavoro (X. XXXXXXX, L’obbligo di fedeltà e il patto di non concorrenza, in X. XXXXXX (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in Diritto del lavoro. Commentario diretto da X. XXXXXXX, vol. II, Utet, 1998, 740).
Il compenso non deve essere necessariamente una prestazione in denaro, ma potrebbe anche consistere, ad esempio, in una remissione del debito (X. XXXXX XXXXXXXX, Patto di non concorrenza e tutela del lavoratore, DL, 1995, II, 40; Cass. n. 2221/1988, cit.) o in una prestazione in natura, come consentire al lavoratore di permanere in un appartamento (GIAN. XXXXXXXXXXXX e X. XXXXXXXXXXXX, voce Concorrenza, DDP comm, vol. III, Torino, 1988, 703; Trib. Torino 19 febbraio 1964, MGL, 1964, 412).
8. Risoluzione
Il patto di non concorrenza, avendo natura contrattuale, può essere sciolto soltanto con il consenso di entrambe le parti. E’ stata ammessa, all’atto della stipulazione, la previsione di una facoltà di recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, alla condizione che siffatta clausola di opzione (art. 1331 c.c.) preveda un termine per lo scioglimento della riserva che cada in un momento antecedente alla risoluzione del rapporto (Trib. Milano 30 maggio 2007, OGL, 2007, 533), ovvero, al più tardi, al momento della comunicazione del recesso dal contratto di lavoro (Trib. Milano 15 dicembre 2001).
In generale, invece, sebbene in passato sia stata affermata la legittimità di una clausola che attribuiva al datore di lavoro la facoltà di recedere dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto (Cass. n. 1686/1978, cit.; Trib. Milano 27 settembre 1971, GDI, 1972, 176), gli orientamenti giurisprudenziali più recenti escludono la possibilità, rimessa all'arbitrio del datore, di risoluzione del patto dopo la cessazione del rapporto lavorativo, con conseguente riconoscimento al prestatore di lavoro del diritto a percepire quanto dovuto a titolo di corrispettivo in forza del patto medesimo (Sulla nullità della clausola, si v. X. XXXXXXX, Patto di non concorrenza e nullità della clausola di recesso. Spunti di riflessione su corrispettività delle obbligazioni e fidelizzazione del lavoratore, MGL, 2005, 42; Cass. 8 gennaio 2013, n. 212, ivi, 2013, 591, con nota di X. XXXXXXXXX, Patto di non concorrenza e clausole di recesso: la necessità di una predeterminazione temporale; RGL, 2013, II, 466, con nota di X. XXXXXXX, Nullità della facoltà di recesso unilaterale dal patto di non concorrenza; DRI, 2013, 494, con nota di X. XX XXXXXXXXX, Sul recesso datoriale dal patto di non concorrenza; DML, 2013, 591, con nota di X. XXXXXXXXX, Alcune considerazioni sull’opzione di recesso datoriale contenuta nel patto di non concorrenza;
Cass. 13 giugno 2003, n. 9491, GC, 2004, I, 1035; Trib. Torino 18 aprile 2000, cit. V. anche L.
C. XXXXXX, Recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza, DPL, 2013, 1660).
In particolare, è nulla, con conseguente obbligo di versare il pattuito al lavoratore, la clausola di recesso discrezionale del datore di lavoro, ossia la clausola apposta al patto di non concorrenza che preveda un diritto di opzione a favore del datore di lavoro stesso, consentendogli in qualunque momento di recedere dal patto in questione (Cass. 2 gennaio 2018, n. 3, GLAV, 2018, n. 12, 71, annotata, in questo sito, da M. N. BETTINI. Nel senso che la scelta del datore di lavoro di non avvalersi del patto di non concorrenza e, quindi, di liberare il lavoratore dagli obblighi connessi, anche se interviene al termine del rapporto, integra un’opzione e non un recesso unilaterale, Cass. 26 ottobre 2017, n. 25462, annotata da X. XXXXXXX, Esercizio del diritto d’opzione e inefficacia del patto di non concorrenza, in GL, 2018, 7, 33). Ciò, in quanto: a) la suddetta clausola risulta produttiva di una indeterminatezza temporale dell'obbligo assunto dal prestatore di lavoro e di quello del datore di pagare il corrispettivo (Cfr. Cass. 8 gennaio 2013, n. 212, cit.; Cass. 13 giugno 2003, n. 9491, cit.); b) ammettendo tale opzione, si impedisce al lavoratore la possibilità di esercitare il suo diritto di scelta sulle ulteriori occasioni di lavoro con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e grave nocumento per l’ex dipendente.
9. Violazione
L’inadempimento del patto di non concorrenza da parte di uno dei contraenti incrina la validità causale del patto stesso, alterando l’equilibrio sinallagmatico del negozio e, di conseguenza, costituisce fonte di responsabilità contrattuale con applicazione delle regole civilistiche in materia di inadempimento delle obbligazioni (Cass. 10 luglio 2008, n. 19001, LG, 2009, 81).
In caso di violazione del patto di non concorrenza, è perciò sempre applicabile il generale rimedio previsto dall’art. 1453 c.c. (risolubilità del contratto per inadempimento), avente ad oggetto la richiesta di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno; è stata altresì ammessa la tutela cautelare del datore di lavoro per evitare un pregiudizio irreparabile come il rischio di sviamento della clientela (Trib. Roma 24 ottobre 2001, MGL, 2002, 145), con ordine di inibizione dell’attività lavorativa contraria al patto (Trib. Milano 12 febbraio 2002, RIDL, 2002, II, 353).
Violazione da parte del datore di lavoro. Nello specifico, qualora il patto venga violato dal datore di lavoro, l’ex dipendente può agire sia per ottenere il compenso che per risolvere il contratto, oltre al risarcimento dei danni (si pensi al danno per la perdita di occasioni di lavoro più vantaggiose). In particolare (soprattutto nell’ipotesi di corresponsione del compenso nel corso del rapporto di lavoro), il lavoratore potrà intimare per iscritto al datore di lavoro di adempiere entro un congruo termine (di regola non inferiore a 15 giorni), con l’avvertimento che, in caso contrario, il contratto s’intenderà risolto (art. 1454 c.c.) (Cass. 21 febbraio 2006,
n. 3742); ovvero invocare l’eccezione di inadempimento (ex art. 1460 c.c.) (fra le tante, x. Xxxx. 27 aprile 2007, n. 10086, NGL, 2007, 329; Cass. 2 aprile 2004, n. 6564, RGL, 2004, II, 697). Invece, una volta chiesta in giudizio la risoluzione del contratto, il prestatore non potrà chiedere l’adempimento del contratto medesimo (v. art. 1453, co. 2, c.c.).
Violazione da parte del lavoratore. La violazione del patto di non concorrenza posto a carico del lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2105 c. c. riguarda la concorrenza che il prestatore di lavoro, dopo la cessazione del rapporto, svolge illegittimamente nei confronti del precedente datore di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto con quest’ultimo (Xxxx. 29 agosto 2014, n. 18459, MGL, 2015, 246 (M)). Ma non vi è inadempimento del patto se l’impresa per la quale il lavoratore
inizia a prestare la propria opera entra in concorrenza con quella di provenienza (e firmataria del patto) solo in un secondo momento. In tal caso, infatti, il proseguimento, da parte del lavoratore, dell’attività concorrenziale non configura un inadempimento del patto (v. X. XXXXXXXX Il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro, RDI, 1960, 229).
Il patto di non concorrenza può prevedere la corresponsione di una penale nel caso di inadempimento da parte dell’ex dipendente (Trib. Milano 28 marzo 2002, GLav, 2002, n. 38, 32; X. XXXXXX, Violazione del patto di non concorrenza ed inibitoria, DPL, 2004, 1208; X. XXXXXXXXX, op. loc. cit.).
Tale penale: a) ha funzione risarcitoria e sanzionatoria; b) può essere determinata in un importo forfetario e con riserva del diritto alla liquidazione del danno eventualmente sofferto; è riducibile dal giudice se eccessiva in base alla generale disposizione dell’art. 1384 c.c. (Cass. 4 aprile 2006, n. 7835, cit.).
Non v’è dubbio poi che il datore di lavoro potrà chiedere l’adempimento, oppure la risoluzione del contratto, nonché la restituzione della somma versata a titolo di corrispettivo del patto (ex art. 1453 c.c.), in aggiunta al risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del lavoratore (Trib. Milano 18 novembre 1992, RCDL, 1993, 349; Pret. Lecco 10 giugno 1992, GC, 1993, I, 1937; X. XXXXX, Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale, Profili giuridici, Xxxxxxx, 2004, 193-194, secondo cui nell’ipotesi di nullità del patto il lavoratore dovrà restituire interamente le somme ricevute).
Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene, inoltre, che il datore possa ricorrere ad un’azione di inibizione del comportamento concorrenziale, purché ricorrano entrambi i presupposti del periculum in mora e del fumus boni iuris, necessari alla tutela in via d’urgenza (v. Trib. Milano 24 febbraio 1999, MGL, 1999, 456; Pret. Milano 16 novembre 1992, RCDL, 1993, 349, per la quale, però, ottenuta l’inibitoria, il datore non può ottenere anche la restituzione del corrispettivo; Trib. Perugia 24 febbraio 1962, RGU, 1963, 40; X. XXXXXX, Violazione del patto di non concorrenza ed inibitoria, loc. cit. In senso difforme, cioè per l’inammissibilità dell’inibitoria, cfr. Pret. Torino 8 febbraio 1979, NGL, 1979, 474; Trib. Milano
20 dicembre 2002, RCDL, 2003, 332; Trib. Milano 17 dicembre 2001, ivi, 2002, 497, per il quale sussiste il periculum in mora nella mera inosservanza del patto, senza che sia necessaria anche la prova del danno effettivo.
La competenza del giudice del lavoro si estende a tutte le pretese che hanno fondamento nel rapporto di lavoro, anche se relative a fatti verificatisi dopo la sua cessazione, quali i comportamenti del lavoratore che integrino la violazione di un patto di non concorrenza (Cass. 10 luglio 2008, n. 19001, cit.).
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