REDDITO “DI CITTADINANZA” E POLITICHE DI CONTRASTO ALLA POVERTÀ. RIFLESSIONI ALLA LUCE DEI PIÙ RECENTI SVILUPPI NORMATIVI**
Rivista N°: 3/2020 DATA PUBBLICAZIONE: 03/08/2020
AUTORE: Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx*
REDDITO “DI CITTADINANZA” E POLITICHE DI CONTRASTO ALLA POVERTÀ. RIFLESSIONI ALLA LUCE DEI PIÙ RECENTI SVILUPPI NORMATIVI**
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Questioni definitorie e ambiguità semantiche. Verso la realizzazione di una proposta politica. - 3. Finalità generali del Rdc e contesto normativo in cui la misura si colloca. - 4. Cosa e per chi: profili soggettivi e oggettivi del Rdc. - 5. “Ti aiuto, a patto che...”: i cardini normativi della condizionalità. - 6. Quale lavoro nella normativa sul Rdc? - 7. Quale (contrasto alla) povertà nella normativa sul Rdc? - 8. I “progetti utili alla collettività”, tra logica della condizionalità e (mera) evocazione di un welfare generative. - 9. Alcune considerazioni conclusive (anche alla luce dell’impatto dell’emergenza COVID-19).
1. Introduzione
Con riguardo all’introduzione, ad opera del decreto-legge n. 4/2019, convertito in leg- ge ad opera della legge n. 26/2019, del Reddito di cittadinanza (d’ora in poi Rdc), è stato af- fermato che «non possiamo oggi non riconoscere che con il RdC la lunga marcia verso una rete protettiva di base a vocazione universalistica compia un oggettivo salto di qualità» e che
«il RdC è la prima vera misura generale fondamentale di contrasto della povertà di cui si sia dotata la Repubblica italiana per onorare l’impegno che le affida – sempre e prima di tutto –
* Associato di Diritto Costituzionale nell’Università degli Studi del Sannio di Benevento.
** Una parte delle riflessioni presentate in questo lavoro sono state sottoposte all’attenzione dei lettori nel contributo “Reddito di cittadinanza e politiche di contrasto alla povertà. Riflessioni alla luce del volume Quale red- dito di cittadinanza? a cura di Xxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx ed Xxxxx Xxxxxxx”, pubblicato, come recensione al volume, nella Rivista del Gruppo di Pisa il 14 luglio 2020. Nel presente lavoro quelle riflessioni sono state ulte- riormente sviluppate e arricchite da riflessioni diverse, oltre che inserite nel contesto di una analisi più ampia e organicamente approfondita delle questioni affrontate.
1 X. XXXXXXXX, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X'An- tona”.IT –**nU. n4a01p/a2r0te19d,epll.e2r3if.lessioni presentate in questo lavoro sono state sottoposte all’attenzione dei lettori nel contributo2 “GR.eFdOdNitToAdNiAc, iRttaedidniatonzmaineimpo,litdicishuegduiacgolinatnrazestosoaclilalipeovneurotàv.oRdifirleitstosidoenli lalvlaorluoc. eFrdaepl avoslsuamtoe, Qprueaslenrtede- dito di cittadinanza? a cura di Xxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx ed Xxxxx Xxxxxxx”, pubblicato, come recensione al volume, nella Rivista del Gruppo di Pisa il 14 luglio 2020. Nel presente lavoro quelle riflessioni sono state ulte- riormente sviluppate e arricchite da riflessioni diverse, oltre che inserite nel contesto di una analisi più ampia e organicamente approfondita delle questioni affrontate.
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ca in ordine ai contenuti della normativa recentemente introdotta non si è mancato di rilevare che «bisogna valutare questo intervento legislativo, e le sue caratteristiche, alla luce del “de- serto” di iniziative finora promosse contro la povertà e la disuguaglianza (salvo il Rei, misura troppo limitata e “povera”), tenendo anche conto del fatto che i “cedimenti” all’impostazione più regressiva delle politiche sociali potranno essere rivisti in un contesto culturale e politico migliore»2. Non si può innanzitutto trascurare, a tal proposito, la rilevanza dello stanziamento finanziario messo in campo in questa occasione, quadruplicato rispetto a quello connesso al Reddito di Inclusione (d’ora in poi ReI), cioè alla misura di cui il Rdc ha raccolto, per così di- re, il testimone, introdotta nel 2017 (legge delega n. 33/2017 e d.lgs n. 147/2017)3.
Una prima premessa rispetto ad un’analisi che – lo anticipo – porrà in evidenza diver- si limiti e criticità dell’innovazione qui al centro della mia attenzione è dunque costituita dal riconoscimento della portata tutt’altro che trascurabile dell’intervento, finalizzato a rispondere a bisogni pressanti e crescenti di un’ampia fascia della popolazione italiana, tra cui, in primo luogo, la porzione che vive in povertà assoluta. Si tratta di locuzione che indica, secondo la definizione posta alla base delle indagini dell’Istat, la condizione delle persone che non sono in grado di acquisire un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali al conseguimento di un livello di vita minimamente accettabile e dignitoso. Basti qui limitarsi a ricordare come l’incidenza percentuale degli individui assolutamente poveri sia passata tra il 2007 e il 20184 dal 3,1 al 8,4% (in numeri assoluti, si è passati da 1.789.000 a 5.040.000 persone)5, per su- bire poi, per la prima volta dopo diversi anni, un calo di una certa entità nel 2019, anno in riferimento al quale è stato stimato il numero di 4,6 milioni di persone in povertà assoluta, pari al 7,7% della popolazione6.
1 X. XXXXXXXX, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X'An- tona”.IT – n. 401/2019, p. 23.
2 X. XXXXXXX, Reddito minimo, disuguaglianze sociali e nuovo diritto del lavoro. Fra passato, presente e futuro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X'Xxxxxx”.IT – n. 389/2019, pp. 22-23.
3 Così X. XXXXXXX-X. XXXX, Il reddito di cittadinanza, in il Mulino, n. 2/2019, p. 269, i quali notano che «il Rdc aumenta enormemente i fondi per il contrasto della povertà: circa 6 miliardi di euro annui addizionali, che permettono di passare dai 2 già previsti per il Rei a 8 miliardi in totale». Sul Rdc si veda, ampiamente, E. INNO- CENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza? Criticità e prospettive delle politiche di contra- sto alla povertà, Bologna, il Mulino, 2019, passim.
4 Si tratta, come è noto, dell’arco temporale che ha visto dispiegarsi gli effetti della crisi economico- finanziaria la quale ha conosciuto il suo esordio nell’ultimo scorcio del primo decennio del secolo in corso. A tali effetti si sommeranno quelli, per la cui misurazione si dovrà attendere, del fortissimo rallentamento del ciclo eco- nomico prodotto dalle misure di contenimento della diffusione della pandemia da COVID-19 adottate, in Italia co- me in molti altri Paesi, nei primi mesi del 2020.
5 Il riferimento è ai dati aggiornati alla situazione relativa al 2018, reperibili in ISTAT, La povertà in Italia. Anno 2018, in xxx.xxxxx.xx, 2019, p. 2.
6 I dati sono reperibili in ISTAT, La povertà in Italia. Anno 2019, in xxx.xxxxx.xx, 2020, p. 2, ove si afferma che «l’andamento positivo si è verificato in concomitanza dell’introduzione del Reddito di cittadinanza (che ha sostituito il Reddito di inclusione) e ha interessato, nella seconda parte del 2019, oltre un milione di famiglie in difficoltà», per aggiungersi poi, a p. 13, che «le famiglie che avrebbero diritto di percepire il Reddito di Cittadinan- za (RdC) e quelle in condizione di Povertà Assoluta (PovAss) sono due universi solo parzialmente sovrapponibi- li», dal momento che «l’accesso a questa integrazione al reddito (RdC) […] tiene conto di criteri diversi rispetto a quelli utilizzati per la stima delle famiglie in condizione di povertà assoluta».
coli in grado di limitare di fatto la libertà e l’eguaglianza delle persone (ricorrendo alle parole usate dall’art. 3, comma 2, Cost.), l’introduzione di una misura specificamente finalizzata al contrasto alla povertà come il Rdc risponde all’esigenza, fondata su una lettura sistematica, principalmente, degli artt. 36 e 387, alla luce degli artt. 2, 3 e 4 Cost., che sia garantito il dirit- to a conseguire (almeno) l’essenziale ai fini di una vita libera e dignitosa, nei casi in cui il raggiungimento di tale obiettivo non sia assicurato attraverso il lavoro8. Se questo è senz’altro vero, la multidimensionalità della povertà (alla povertà economica si associano molto spesso altri fattori di fragilità) richiede, in vista di un suo efficace contrasto, che ci si ponga seriamente la questione del «coordinamento tra le politiche esplicitamente mirate a contrastare la povertà e le politiche generali su famiglia, casa e lavoro, per fermarsi alle voci principali»9.
Il rilievo appena operato è di particolare rilevanza, aprendo lo sguardo su uno scena- rio che va tenuto ben presente sullo sfondo di una riflessione in ordine ad una specifica mi- sura di sostegno al reddito delle persone in condizioni di povertà, quale quella che in questa sede mi propongo di svolgere. Ciò tanto più alla luce della notoriamente scarsa efficacia del complessivo sistema italiano delle misure assistenziali, fortemente sbilanciato peraltro a fa- vore delle mere erogazioni monetarie, nel ridurre i tassi di incidenza ed intensità della pover- tà, in ragione del suo elevato livello di categorialità e frammentarietà (con il conseguente prodursi di numerosi vuoti di tutela), nonché della frequente previsione di requisiti che non consentono alle misure di “intercettare i (più) poveri” o, addirittura, consentono l’accesso alle stesse a chi povero non è affatto. Si tratta di un aspetto su cui ha focalizzato l’attenzione, anche di recente, tra gli altri, la Corte dei conti, la quale ha evidenziato che «in tale quadro il problema di un appropriato targeting è tutt’altro che risolto; del resto, secondo dati Inps, su una spesa complessiva riguardante cinque schemi di contrasto della povertà, tra cui assegni
7 Senza trascurare, accanto a quelle richiamate nel testo, altre disposizioni costituzionali che, in vario modo, richiamano la condizione di povertà come ostacolo all’esercizio di diversi diritti, una povertà da non consi- derarsi peraltro soltanto nella sua forma di povertà economica, come notato da X. XXXXXXXXXX, Il senso della Costituzione per la povertà, in Osservatorio costituzionale, n. 1-2/2019, p. 7 ss.
8 Si veda, in questo senso, con differenti sfumature, tra gli altri, X. XXXXXXXXX, Il minimo vitale. Profili co- stituzionali e processi attuativi, Xxxxxxx, Milano, 2004, passim, X. XXXXXXXXX, Il diritto ad un’esistenza libera e digni- tosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di cittadinanza, Xxxxxxxxxxxx Torino, 2013, passim, X. XXXXXX, Il red- dito di inclusione attiva: note critiche sull’attuazione della legge n. 33/2017, in RDSS, n. 3/2017, in partic., p. 428 ss, X. XXXXXXX, Il reddito minimo. Tra universalismo e selettività delle tutele, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2018, in partic, pp. 81-100 e, volendo, X. XXXXXXXXXXX-X. XXXXXXX, Ius existentiae e politiche di contrasto alla povertà, in Quad. cost., n. 1/2018, pp. 115 ss. e, in partic., pp. 117-124. Contra X. XXXXXXXX, Diritti fondamentali, Torino, Giappichel- li, 2018, p. 443, il quale nel soffermarsi sulle ipotesi del reddito minimo e del reddito di cittadinanza (stricto sen- su), non ritiene che da una lettura degli artt. 36 e 38 Cost. alla luce delle norme costituzionali di principio e, in particolare, dei principi desumibili dall’art. 3, comma 2, Cost., possa derivare un obbligo costituzionale ad integra- re le misure categoriali, radicate nella lettera di specifici disposti costituzionali, con una misura universalistica di contrasto alla povertà, ma afferma che «dall’art. 3.2 si può al più desumere una abilitazione costituzionale al legi- slatore ad operare una di queste scelte – indicando, ex art. 81.4 Cost., i mezzi con cui farvi fronte […]».
9 E. RANCI ORTIGOSA, Ridefinire e integrare misure, connettere politiche, in X. XXXXX XXXXXXXX-X. XXXXX- XX-X. XXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXX-X. XXXX, Reddito di cittadinanza e oltre. Per contrastare la povertà combina- re più politiche, il punto di welforum, Supplemento a xxxxxxxx.xx, 2019, reperibile in xxxxx://xxxxxxxx.xx/xx- content/uploads/2019/11/PdW-RdC_combinare_politicheNUOVO.pdf, p. 2.
nenti al 30 per cento delle famiglie con l’ISEE più elevato»10.
La constatazione degli evidenziati squilibri e carenze del nostro sistema di interventi e servizi sociali, per varie ragioni mai approdato a quel livello di “integrazione” (ed efficacia) prefigurato dalla legge n. 328/200011, soprattutto in ragione dell’inerzia del legislatore statale rispetto al compito di definire organicamente i livelli essenziali delle prestazioni come richie- sto dall’art. 117, comma 2, lettera m), Cost., non poteva che far convergere molte aspettative in ordine ai contenuti di un intervento legislativo finalizzato a superare, dopo neanche due anni dalla sua entrata in vigore, la normativa relativa al ReI. Si poteva, in altri termini, sperare che, nell’elaborare la disciplina di una nuova misura di sostegno al reddito delle persone po- vere, potesse essere colta l’occasione per affrontare, almeno in parte, la più sopra richiama- ta questione del coordinamento tra le differenti politiche (e misure) di contrasto alla povertà.
Xxxxxx parlando di una questione nel nostro Paese da sempre non adeguatamente affrontata (e di rado anche seriamente tematizzata) dai decisori politici, con la conseguenza di una scarsa capacità complessiva di “vedere la povertà” e, dunque, di contrastarla effica- cemente. E che purtroppo neanche in questa circostanza è stata oggetto della necessaria considerazione, dal momento che, come è stato notato, «anche il RdC […] introduce una nuova misura senza rivedere e riordinare coerentemente neppure le altre misure previste dal sistema assistenziale a integrazione di redditi ritenuti insufficienti, più di 18 miliardi, a comin- ciare da pensioni e assegni sociali, per continuare con decine e decine di erogazioni e sgravi fiscali, alcuni individuati, altri che si cerca di scovare»12. Ciò peraltro non priva affatto, come già si è detto, di rilevanza l’innovazione operata in materia di politiche contro la povertà con il decreto-legge n. 4/2019. È il caso a questo punto di entrare senza indugio in medias res, de- dicando alcune considerazioni, innanzitutto, ai profili gravitanti intorno alle questioni definito- rie e al percorso che ha condotto all’introduzione di una misura denominata “reddito di citta- dinanza”.
2. Questioni definitorie e ambiguità semantiche. Verso la realizzazione di una proposta politica
Se nel significato ampio a tale locuzione assegnato da Xxxxx Xxxxxxxxx e Xxxxx Xxx- zoni, «per reddito di base […] intendiamo un trasferimento monetario, finanziato dalla collet- tività attraverso le imposte, e volto ad assicurare a tutti uno zoccolo di reddito, liberamente
00 XXXXX XXX XXXXX. SEZIONI RIUNITE IN SEDE DI CONTROLLO, Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica, Roma, 2019, p. 166.
11 Tale legge, significativamente intitolata appunto “legge quadro per la realizzazione del sistema inte- grato di interventi e servizi sociali”, stabilisce all’art. 22, comma 1, che «il sistema integrato di interventi e servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servi- zi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l’efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte».
00 X. XXXXX XXXXXXXX, op. cit., p. 3.
ta indispensabile operare poi una distinzione all’interno di questo insieme. Mi riferisco, natu- ralmente, alla distinzione tra quello solitamente definito, in senso proprio, “reddito di cittadi- nanza” e quello che si è soliti definire “reddito minimo”.
Il primo è «un trasferimento erogato a ciascun cittadino, a intervalli regolari, durante l’intero corso della vita, prescindere dalle risorse detenute, nonché dallo status lavorativo o da altre condizioni comportamentali»14, caratterizzato, in altri termini, come è stato affermato, dal fatto che «a) è corrisposto su base individuale anziché familiare; b) è erogato a prescin- dere dal reddito posseduto dal beneficiario; c) non dipende dalla quantità/qualità del lavoro prestato o dalla eventuale disponibilità a lavorare, nel caso in cui chi lo percepisce sia disoc- cupato»15. Il secondo, invece, lasciando qui da parte il peculiare istituto dell’“imposta negati- va”, si configura come «un trasferimento di ultima istanza, erogato a intervalli regolari, e fina- lizzato alla protezione dalla povertà» e che è specificamente connotato dalla previsione della
«prova dei mezzi, ossia a verifica che le risorse dei beneficiari siano sotto la soglia di pover- tà»16. In concreto, quest’ultimo, la cui disciplina può variare sensibilmente, non solo con ri- guardo al quantum dell’erogazione, ma anche a diversi altri profili della sua architettura, è molto spesso contraddistinto, oltre che dalla previsione della prova dei mezzi, da quella di programmi di reinserimento nel mondo del lavoro (e della c.d. “attivazione” quale condizione di accesso alla misura di sostegno al reddito).
Calandoci nel contesto italiano, premesso che il nomen “reddito di cittadinanza” evo- ca il concetto di un’erogazione monetaria a beneficio di tutti i componenti di una determinata comunità17, sappiamo che, oltre a costituire un’idea al centro di un ampio dibattito scientifico in cui sono reperibili posizioni fortemente favorevoli alla introduzione di un istituto di questo tipo18, la nozione di reddito di cittadinanza (o, meglio, la corrispondente locuzione) è entrata con forza nel dibattito pubblico italiano a partire dagli anni in cui è divenuta una delle “parole chiave”, per così dire, del programma di una forza politica, il Movimento Cinque Stelle (M5S). Entrata massicciamente in Parlamento in seguito alle elezioni del 2013, essa ha posto la
13 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXX, Il reddito di base, Roma, Ediesse, 2016, p. 9, ove si afferma che «è questa una definizione più generale e al contempo più stringente rispetto a molte definizioni presenti nella letteratura e nel discorso pubblico».
14 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXX, op. cit., p. 33.
15 X. XXXX, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Bologna, il Mulino, 2016, p. 14.
16 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXX, op. cit., p. 16.
17 L’espressione inglese basic income o, in italiano, “reddito di base”, in un senso più ristretto di quello in cui la usano, come si è visto, Xxxxxxxxx e Xxxxxxx, rende meglio l’idea di una misura non ancorata al presupposto della cittadinanza in senso formale.
18 Cfr., per tutti, P. VAN PARIJS-X. XXXXXXXXXXXX, Il reddito minimo universale, II ed., Milano, Università Bocconi Editore, 2013. Un quadro, a livello teorico, delle posizioni favorevoli all’introduzione di un reddito di base esteso a tutti si può trovare in BASIC INCOME NETWORK ITALIA, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globa- le, manifestolibri, Roma, 2009. Si vedano inoltre, su un piano più attento anche, tra gli altri, ai profili più stretta- mente giuridici, BIN ITALIA (a cura di), Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Edizioni Gruppo Xxxxx, 2012, X. XXXXXXXX, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, Edi- zioni Gruppo Xxxxx, Torino, 2011 e X. XXXXXXXX, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Torino, Edizioni Gruppo Xxxxx, 2017.
discussione.
Sin dall’inizio, peraltro, il riferimento ad una misura così definita ha scontato un eleva- to tasso di ambiguità semantica. Veniva utilizzata infatti con riguardo ad un istituto che, una volta discesi dal livello delle generali enunciazioni politico-programmatiche a quello delle proposte concrete, si rivelava distante dal figurino di un reddito di cittadinanza inteso come misura operante secondo i principi di un universalismo pieno. A quest’ultimo si richiamavano, ferma l’enfasi posta sul contrasto alla povertà19, gli scenari evocati in numerosi interventi di importanti personalità del M5S, a cominciare da Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx: in una società caratterizzata da una decisa (e crescente) riduzione della quantità di lavoro ri- chiesta – si argomentava – doveva essere introdotta, a garanzia della dignità della persona, l’erogazione di un reddito, svincolato dalla previsione di qualunque forma di “selettività” e di “condizionalità”. Si trattava di prospettazioni coerenti con l’idea secondo cui la risposta alle trasformazioni della società e del mondo del lavoro, consisterebbe nell’«assicurare in qual- che forma un reddito di base al cittadino; non all’individuo in quanto lavora o svolge una qualche attività entro una comunità politica, ma all’individuo in quanto membro di quella co- munità»20.
A fronte di ciò, la misura delineata nel disegno di legge A.S. 1148 (di iniziativa dei se- natori Catalfo e altri del M5S), recante nel titolo Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario (comunicato alla Presidenza del Senato il 29 ottobre 2013), si qualificava, invece, quale strumento contraddistinto, tra l’altro, dalla natura “selettiva” (avendo come destinatari i soli poveri e non tutti i componenti della comunità) e da una evidente collocazione nell’area delle misure finalizzate (anche) all’inserimento lavorativo, come attestato dalla prevista condizione, tra le altre, di «fornire immediata disponibilità al lavoro» (art. 9). Previsioni, queste, che lasciavano sullo sfondo di un lontano orizzonte quel «reddito di cittadinanza universale e incondizionato», al quale la relazione di accompagnamento al progetto di legge si riferiva come alla prospettiva futura verso la quale muovere21.
19 Un’enfasi, questa, che lasciava intuire che non si pensasse probabilmente ad un intervento assoluta- mente indifferente alle condizioni reddituali/patrimoniali dei beneficiari.
20 P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, in G.G. BALANDI-X. XXXXXX- TA, Diritti e lavoro nell’Italia repubblicana. Materiali dall’incontro di studio. Ferrara 24 ottobre 2008, Milano, Xxxxxxx, 2009, p. 58.
21 Nella relazione si affermava infatti che «il fine del presente disegno di legge è quello di raggiungere a un primo livello, non ancora ideale, l’introduzione del reddito di cittadinanza, ossia di quelle misure sociali ed eco- nomiche volte a realizzare l’obiettivo – più volte ribadito dall’Unione europea – di una ridefinizione del modello di benessere collettivo adottato dallo Stato italiano, abbandonando per sempre l’attuale organizzazione frammenta- ria e assistenzialistica e indirizzando le scelte politiche verso l’adozione di un sistema volto a ridurre l’esclusione sociale e ad accrescere la possibilità di sviluppo di ciascun individuo nell’ambito della moderna società organizza- ta» (corsivo mio) e si aggiungeva che ci si proponeva di raggiungere tale obiettivo attraverso «una misura unica, in grado di svolgere una doppia funzione: da un lato garantire un livello minimo di sussistenza e dall’altro incenti- vare la crescita personale e sociale dell’individuo attraverso l’informazione, la formazione e lo sviluppo delle pro- prie attitudini e della cultura». Per una sintetica panoramica delle proposte di legge presentate nel periodo a cui risale quella del M5S, cfr. X. XXXXXXX-X. XXXXXXXX, Il minimo vitale tra tentativi di attuazione e prospettive future, in Diritto e Società, 1/2014, pp. 115 ss., in partic., pp. 137-143. Per un approfondimento sul dibattito italiano in mate-
prendere come i contenuti di quel progetto si ponessero comunque ad una certa distanza dall’impostazione fatta propria, come si vedrà, dal legislatore nel 2019.
In primo luogo, si deve rilevare che, quale soglia di povertà (intesa come povertà “re- lativa”), veniva assunta la «soglia di rischio di povertà», il cui valore era «definito secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione europea, pari ai 6/10 del reddito media- no equivalente familiare» (art. 2, comma 1, lettera h), del d.d.l. in esame). Il previsto stan- ziamento di quasi 17 miliardi di euro, a copertura delle spese connesse con attuazione della normativa introdotta, confermava che gli estensori del progetto avevano in mente una platea di persone molto ampia (circa 10 milioni di poveri relativi secondo la definizione adottata dall’Eurostat)22.
Il testo del d.d.l., in secondo luogo, pur prendendo in considerazione, ai fini della quantificazione complessiva dell’erogazione monetaria a beneficio dei componenti di un nu- cleo familiare collocato al di sotto della individuata soglia di povertà, il reddito (ma non anche il patrimonio) familiare, poneva, cionondimeno, l’accento sulla natura individuale dell’erogazione. Si prevedeva infatti il diritto di ciascun componente maggiorenne a ricevere la quota di reddito al medesimo spettante, in base ai criteri precisati in un allegato all’articolato, e la suddivisione, in parti eguali, tra i due genitori della quota riferita ai figli mi- nori a carico (art. 3). E, all’art. 8, fermo il rispetto degli obblighi previsti dalla legge, era poi significativamente assicurata la continuità nella percezione del reddito, dal momento che – si stabiliva – «il reddito di cittadinanza è erogato per il periodo durante il quale il beneficiario si trova in una delle condizioni previste […]». Risultava così chiaramente affermato il principio della continuità nella fruizione della misura, in presenza delle condizioni richieste, senza la discutibile previsione di periodi di sospensione.
Un altro aspetto significativo era dato, come non si è mancato di evidenziare, dall’adozione di «una visione monodimensionale della povertà, considerata esclusivamente come una conseguenza della mancanza di occupazione»23, come emerge dalle disposizioni di cui agli artt. 9, 11 e 12 del d.d.l., esclusivamente attinenti, quanto agli obblighi dei benefi- ciari della misura, al reinserimento lavorativo, salva la previsione, come vedremo sostan- zialmente riprodotta nella normativa sul Rdc, secondo cui «il beneficiario è tenuto ad offrire la propria disponibilità per la partecipazione a progetti gestiti dai comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni» (art. 9, comma 4).
ria di misure di contrasto alla povertà e sulle proposte susseguitesi nel corso dell’ultimo ventennio, cfr. X. XXXXXX- XX, Tra assistenza e solidarietà: la liberazione dal bisogno nel recente dibattito politico parlamentare, in X. XXXXX- XXXX (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2018, pp. 101 ss.
22 A fronte di ciò, la normativa introdotta nel 2019, in ragione dei requisiti previsti (che tengono conto di uno stanziamento di risorse più che dimezzato rispetto a quello ipotizzato nel 2013), si rivolge ad una platea di persone molto più ridotta (che non comprende tutti i circa 5 milioni di poveri “assoluti”).
00 X. XXXXXXX-X. XXXX, Xx reddito di cittadinanza, in il Mulino, n. 2/2019, p. 270.
non ne era previsto alcuno concernente la durata della residenza, risultando la misura ac- cessibile a tutti i cittadini italiani e degli altri Stati dell’U.E., mentre discutibilmente restrittiva era la previsione riguardante i cittadini di Paesi terzi24, la quale contribuiva a far pendere la “bilancia definitoria”, per così dire, dal punto di vista dei requisiti in esame, verso la configu- razione della misura come reddito “di cittadinanza (europea)”, piuttosto che come reddito “di base”, esteso tendenzialmente a tutti i componenti di una concreta comunità politica.
3. Finalità generali del Rdc e contesto normativo in cui la misura si colloca
Se quella brevemente descritta nel precedente paragrafo era, trascurando molti altri, pur rilevanti, aspetti, la sostanza della proposta iniziale del M5S (cioè di quella formulata al momento dell’ingresso di tale forza politica nell’arena parlamentare), a quale “reddito di citta- dinanza” ci pone di fronte il decreto-legge n. 4/2019? Al fine di rispondere a questa doman- da, è opportuno soffermarsi sulla definizione che il succitato atto normativo fornisce del Rdc
«quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro» (art. 1, comma 1). Si tratta di una definizione articolata, da cui è possibile desumere le finalità attribuite dal legislatore a tale misura.
Se, guardando anche al panorama offerto dal diritto comparato, deve rilevarsi che la lotta alla povertà e l’inserimento lavorativo costituiscono le due essenziali finalità, alternati- vamente o congiuntamente, perseguibili da uno strumento di sostegno al reddito25, la sopra richiamata definizione del Rdc è apparsa inadeguata a tracciarne un chiaro profilo, a chi nota che l’intenzione del legislatore sembra essere stata quella di «“sparare nel mucchio”, indi- cando una serie di obiettivi – costituzionalmente rilevanti – che si intendono perseguire, sen- za indicare puntualmente la corretta finalizzazione dell’istituto»26. Fermo restando che una misura di sostegno al reddito che non voglia risolversi in una mera erogazione monetaria tende necessariamente ad assumere natura non monodimensionale, è indubbio che il tasso, per così dire, di polifunzionalità della misura risulta significativamente accentuato rispetto a quello proprio del ReI.
24 L’art. 4 del ddl prevedeva che ad accedere alla misura, oltre ai cittadini italiani e a quelli di altri Paesi dell’U.E., fossero i «soggetti provenienti da Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza socia- le».
25 Come ricordato da X. XXXXX, Il «reddito di cittadinanza» introdotto dal decreto-legge n. 4 del 2019: prime considerazioni, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza? Criticità e prospettive delle politiche di contrasto alla povertà, cit., pp. 23-24, il quale evidenzia che la prima finalità si con- nette all’«obiettivo generale indicato dal combinato disposto dagli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost. (in quanto tendente a garantire i diritti inviolabili della persona e a ridurre le disparità di fatto in un’ottica di uguaglianza so- stanziale), nonché, più specificamente, quale attuazione dell’art. 38 Cost.», mentre la seconda trova un fonda- mento, oltre che, anche in questo caso, nell’art. 2, nell’art. 4 Cost. sul diritto al lavoro.
26 X. XXXXX, op. cit., p. 25.
mento alla finalità di «favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura», la quale, salvo naturalmente quel che concerne i profili connessi alla formazione professionale (strettamente connessi al lavoro), appare di carattere puramente ipotetico ed esemplificativo, e dunque – si è rilevato – in sostanza xxxxxxx00. In secondo luogo, è vero che anche in riferimento al ReI le due macro-finalità più sopra indicate convivevano, essendo es- so definito «una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 147/2017), tanto da far parlare in dottrina, a proposito del Rdc, di mera riforma del ReI28. In quel caso, però, lo scopo del contrasto alla povertà appariva comunque l’unica finalità com- plessiva della misura, mentre il riferimento all’attivazione e all’inclusione (sociale e) lavorativa erano configurati espressamente come strumentali, nel quadro del «progetto personalizza- to», alla succitata finalità, nei termini in cui il legislatore aveva inteso connotarla. Nel caso del Rdc, invece, la natura di misura di politica attiva del lavoro è affiancata a quella di misura di contrasto alla povertà, quale finalità distinta, probabilmente in coerenza con la visione, dive- nuta dominante nei mesi iniziali della XVIII legislatura, del Rdc come istituto primariamente finalizzato (nelle proclamazioni politiche dei sostenitori della misura) alla riduzione del livello di disoccupazione.
Se in dottrina non si è mancato di evidenziare che tali due fondamentali finalità pos- sono comunque, anche con riguardo al Rdc, essere ricondotte ad unità29, mi pare, in ogni caso, fuor di dubbio che la configurazione della misura delineata dall’indicazione delle sue finalità, ancora più accentuatamente di quella del ReI, sia espressiva di una concezione mol- to riduttiva della povertà (e, in particolare, di quella assoluta). Una povertà vista quale condi- zione determinata preminentemente, se non esclusivamente, da mera carenza di opportunità lavorative e non anche, e molto spesso soprattutto, da ulteriori fattori che collocano frequen- temente le persone povere ai margini della società e, quindi, anche del mondo del lavoro. Se, come si dirà meglio più avanti, tale approccio è foriero di significative criticità e risulta
27 Così X. Xxxxx, op. cit., p. 35.
28 Così X. XXXXX, Contrasto alla povertà e politiche attive del lavoro: reddito di cittadinanza, reddito mi- nimo garantito e regime delle condizionalità, in Dir. pubbl. comp. eur., n. 2/2019, p. 441, il quale afferma che «il reddito di cittadinanza non è altro che una riforma del reddito di inclusione attraverso cui si incide poco sui tratti caratterizzanti la sua disciplina: una riforma che incrementa il numero dei destinatari del beneficio unitamente alla sua entità, senza tuttavia mettere in discussione il regime delle condizionalità in quanto fondamento della misu- ra».
29 X. XXXXXXX, Il reddito di cittadinanza nel d.l. 28 gennaio 2019, n. 4: precedenti, luci e ombre, in RDSS,
n. 3/2019, p. 562, nota infatti che «benché riferibili ad ambiti diversi della protezione sociale, queste finalità – e tutte le altre richiamate all’art. 1, d.l. n. 4/2019: il diritto all’istruzione, all’informazione, alla formazione e alla cultu- ra – ben possono essere ricondotte all’unità sistematica, perché appaiono la declinazione in dettaglio della finalità unica e comprensiva di inclusione sociale, ovvero – impiegando termini costitutivi dell’ordinamento – della parte- cipazione alla vita politica, economica e sociale del paese che, agli artt. 1-4 Cost., è vista come esclusiva conse- guenza del lavoro», trattandosi – aggiunge l’autrice – de «la stessa inclusione/partecipazione che, per universali- tà e parità della cittadinanza sociale (art. 3, cc. 1 e 2), la Repubblica – la collettività tutta – assicura anche agli inabili al lavoro privi di mezzi con la prestazione unica e comprensiva di mantenimento e assistenza sociale con- tenuto del diritto soggettivo perfetto ex art. 38, c. 1.».
o lavorista che dir si voglia del nostro reddito di cittadinanza (come già del reddito di inclu- sione) risponde, al netto delle irrisolte inefficienze e delle tare storiche del sistema italiano, a una comune matrice politica, che è profondamente europea»30.
Innovativa rispetto ai contenuti dei più diretti antecedenti del Rdc è stata certamente la decisione di affiancare a quest’ultimo, «quale misura di contrasto alla povertà delle perso- ne anziane», la «Pensione di cittadinanza» (d’ora in poi Pdc), «per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni», la quale «può essere concessa anche nei casi in cui il componente o i componenti del nucleo familiare di età pari o superiore a 67 anni […] convivano esclusivamente con una o più persone in condi- zione di disabilità grave o di non autosufficienza […] di età inferiore al predetto requisito ana- grafico» (art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 4/2019)31. Se peraltro la fascia anziana della popolazione è tra quelle su cui già in precedenza maggiormente si concentravano gli inter- venti di sostegno al reddito32, a fronte di interventi molto meno consistenti a vantaggio delle famiglie giovani (e con figli), tra le quali i dati più recenti ci dicono che la povertà alligna con maggiore intensità e diffusione33, l’introduzione della Pdc, caratterizzata da criteri di selettivi- tà sovrapponibili (salvo alcune, modeste, variazioni) a quelli, di cui si dirà più avanti, previsti per il Rdc ha comportato, cionondimeno, senza dubbio un non trascurabile rafforzamento del sistema delle misure di contrasto alla povertà delle persone anziane.
In proposito, si può senz’altro affermare che la previsione della Pdc, a cui non si cor- relano gli obblighi di attivazione che contraddistinguono il Rdc e su alcune ulteriori peculiarità della quale ci si soffermerà nel corso della trattazione (sempre in chiave di comparazione con il Rdc), consente di colmare dei vuoti lasciati da precedenti misure destinate a sostenere gli anziani con redditi bassi. Come è stato, inoltre, rilevato, la Pdc, il cui importo massimo mensile, per i più distanti dalle soglie previste, ammonta a 780 euro (comprensivi delle due componenti, di integrazione al reddito tout court e di integrazione destinata a nuclei familiari
30 X. XXXXXXXX, op. cit., p. 9, secondo il quale «reclamare un adeguamento alle raccomandazioni e agli standard prevalenti all’interno dell’Unione, come si è fatto a ragione per anni, ed insieme lamentare lo schiaccia- mento del reddito di cittadinanza su questa visione indubbiamente ‘riduzionistica’ della povertà, che è, però, esat- tamente la visione accolta e propalata – per lustri – dalle istituzioni sovranazionali». Su strumenti e politiche euro- unitarie di contrasto alla povertà, si veda ampiamente X. XXXXXX, Il coordinamento delle politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale nell’ambito dell’Unione europea e i suoi limiti di efficacia alla luce del caso italia- no, in E. ROSSI-X. XXXXXXXXXXX (a cura di), La politica sociale europea tra armonizzazione normativa e nuova governance, Pisa, Pisa University Press, 2013, pp. 197 ss.
31 Suscita, a tal proposito, invero qualche perplessità la limitazione al solo caso di convivenza con per- sona disabile/non autosufficiente infrasessantasettenne (escludendosi, per esempio, il caso di convivenza con minori di età) della derogabilità del previsto requisito anagrafico.
32 Il riferimento è a misure come assegno sociale, integrazione al minimo della pensione, maggiorazioni sociali, tutte variamente modulate a partire dalla considerazione del reddito individuale (o anche del coniuge) del destinatario, senza tenere conto del patrimonio.
33 Così E. RANCI ORTIGOSA, Contro la povertà. Analisi economica e politiche a confronto, Milano, France- sco Brioschi Editore, 2018, pp. 70-71, il quale rileva che «i giovani, e le giovani famiglie con figli risultano presso- ché esclusi oltre che dagli ammortizzatori sociali, anche dalle più ingenti e continuative misure di sostegno al red- dito» (p. 70), questi risultando «gli esiti di una selettività basata essenzialmente sull’età e su pregressi percorsi lavorativi formalizzati, non sul reddito e sul patrimonio familiare, quello assunto dall’Isee, ma sul reddito individua- le del beneficiario e del suo coniuge, ignorando comunque l’aspetto patrimoniale».
al trattamento minimo, che dal 2019 ammonta a 513 euro al mese, che le maggiorazioni so- ciali sulla pensione» ed inoltre la Pdc «è riconosciuta anche a quei pensionati ai quali ad og- gi l’integrazione al minimo non spetta, come coloro il cui trattamento è calcolato col sistema contributivo»34. La possibilità che la Pdc (come il Rdc) possa superare l’importo del tratta- mento minimo pensionistico, senza che il titolare di quest’ultimo abbia diritto, in quanto tale, ad accedere al maggiore trattamento ha peraltro sollecitato le riflessioni critiche di chi rileva il prodursi di una sorta inversione quantitativa, rispetto a quanto consolidato in via giurispru- denziale, tra «mezzi adeguati alle […] esigenze di vita», che l’integrazione al minimo mira ad assicurare ex art. 38, comma 1, Cost., e «mantenimento» e «assistenza sociale», ex art. 38, comma 1, a cui le misure assistenziali di contrasto alla povertà concettualmente si connetto- no (ferma la possibilità per il legislatore di andare oltre il livello corrispondente al «manteni- mento» costituzionalmente dovuto)35.
A ben vedere, senza poter qui approfondire la questione, ciò può reputarsi manifesta- zione di un limite proprio, già rilevato all’inizio di questo scritto, dell’intervento, complessiva- mente considerato, operato con il decreto-legge n. 4/2019. Nel caso specifico, ci si riferisce al fatto che la Pdc, peraltro di impatto quantitativamente più limitato rispetto a quanto inizial- mente prospettato36, senza che si proceda ad un riordino delle stesse, «si aggiunge al siste- ma di misure assistenziali già in vigore e dunque rischia di aumentarne il grado di complessi- tà»37, con il corollario, in alcuni casi, di differenziazioni di trattamento a dir poco discutibili alla luce del quadro costituzionale. E non si può affermare, a fronte di ciò, che, ampliando poi lo sguardo verso l’insieme dei più recenti e significativi interventi normativi in vario modo inci- denti sul sistema di welfare (e, in particolare, sul sistema previdenziale), se ne possa trarre l’impressione di orientamenti univocamente intesi a perseguire finalità coerenti con l’obiettivo di lottare contro la povertà o, comunque, di incidere in maniera rilevante sugli elevati livelli di diseguaglianza riscontrabili nel nostro Paese.
Non può reputarsi orientata in tal senso l’introduzione della c.d. “quota 100”, cioè del- la possibilità, introdotta dall’art. 14 del decreto-legge n. 4/2019 (lo stesso che ha introdotto Rdc e Pdc), di accedere, «in via sperimentale per il triennio 2019-2021», al trattamento pen- sionistico «con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi». Lungi dall’affrontare le impor-
34 X. XXXXXX, Pensione di cittadinanza, «quota 100» e tagli alle «pensioni d’oro»: come cambiano le poli- tiche pensionistiche, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit. p. 209.
35 Così X. XXXXXXXX, op. cit., pp. 20-21, secondo cui «una sperequazione che, in termini di “adeguatezza relativa” (sub specie di giustizia distributiva), sembra contraddire la logica che presiede al rapporto tra il 1° ed il 2° comma dell’art. 38 Cost., capovolgendola in modo inammissibile». Si veda sul punto anche X. XXXXXXX, op. cit., p. 573, la quale nota che in questo modo si determina la situazione paradossale per cui «mentre i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi ottengono, in vecchiaia, i mezzi necessari per vivere (oggi PDC), coloro che hanno contribuito al progresso sociale col lavoro (e contribuzione) sia pure minimo ottengono, in vecchiaia, una tutela inferiore; e, peraltro, solo se si trovano nelle condizioni previste per l’accesso all’integrazione al minimo».
36 Xxxx infatti constatarsi che, a dispetto dei toni trionfalistici con cui la misura era stata annunciata, co- me tale da coprire un’ampia fascia di persone anziane (si era parlato di circa tre milioni), i criteri restrittivi effetti- vamente previsti hanno ridotto di moltissimo la platea dei suoi potenziali fruitori (quantificata in circa 150.000 per- sone), come notato da X. XXXXXX, op. cit., p. 212.
37 Così X. XXXXXX, op. cit., p. 212.
xxxxx ha risposto ad una, certo legittima, esigenza di flessibilità nell’uscita dal mondo del la- voro avvertita dai lavoratori più vicini all’età pensionabile. Si tratta, però, di un intervento che, a prezzo di un elevato dispendio di risorse finanziarie, «ha toccato una platea tutto sommato limitata di lavoratori prossimi alla pensione», peraltro senza previsione di misure volte a so- stenere i lavoratori economicamente meno forti, ma, anzi, «con un effetto potenzialmente regressivo», dal momento che «la misura agevola l’uscita di lavoratori con diritti pensionistici elevati, carriere continue e redditi alti», effetto a cui si aggiunge, data la sua natura tempora- nea, l’attitudine a generare nuove forme di differenziazioni tra differenti categorie di lavoratori (e di pensionati)39.
Analogamente, non è possibile riconoscere particolare importanza dall’angolo visuale proprio di questo saggio all’introduzione del c.d. “contributo di solidarietà” (si è parlato in pro- posito, enfaticamente, di “taglio delle pensioni d’oro), che l’art. 1, comma 261, della legge n. 145/2018 (legge di bilancio per il 2019) ha previsto sia prelevato, con aliquote crescenti, sui trattamenti pensionistici di importo superiore ai 100.000 euro lordi su base annua, né, per altro verso, alle disposizioni in materia di rivalutazione automatica del trattamento pensioni- stico (la c.d. “indicizzazione”), la quale il comma 260 del medesimo articolo ha previsto che per le pensioni di importo superiore al triplo di quello mimino avvenga in maniera ridotta (e sempre più ridotta al crescere dell’importo del trattamento pensionistico)40. Quanto al contri- buto di solidarietà, sebbene certamente improntato alla logica della progressività, fondata, come è noto, sull’art. 53 Cost., tocca una piccola parte dei pensionati, con effetti modesti sul- la spesa pensionistica e senza la previsione di vincoli di destinazione delle risorse a fini redi- stributivi. L’intervento sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici infine, di impatto finan- ziariamente non trascurabile, si configura, per parte sua, di fatto come una misura, che, con finalità essenzialmente di riduzione della spesa pubblica, scende maggiormente verso il bas- so, per così dire, toccando sostanzialmente, oltre a quelli elevati, anche i ceti medi, mentre “salva” (non “sostiene”, ma appunto “salva”) i lavoratori che percepiscono le retribuzioni più basse.
Sono sufficienti questi brevi cenni ad alcuni interventi normativi adottati nel primo scorcio della legislatura in corso (e il quadro non cambia, ma si limita ad articolarsi ulterior- mente se si amplia lo sguardo al livello della normazione regionale)41, per delineare – lo si
38 Le riforme realizzate in ambito previdenziale nel corso dell’ultimo quarto di secolo, contraddistinte dal preminente obiettivo del contenimento della spesa, avevano lasciato sostanzialmente invariato il livello (molto elevato) di frammentazione delle prestazioni previdenziali e inaffrontata le enormi questioni dei divari inter- generazionali e dell’adeguatezza delle future pensioni degli attuali giovani.
39 X. XXXXXX, op. cit., pp. 315-216.
40 In merito a misure analoghe la Corte si è pronunciata in passato nel senso della loro conformità a Co- stituzione (si veda, per tutte, la sentenza n. 173/2016), ma va rilevato che pende davanti alla Consulta una que- stione di costituzionalità sollevata dalla Corte dei conti avente ad oggetto proprio le previsioni della legge di bilan- cio per il 2019 richiamate nel testo, sul presupposto di un’asserita loro diversità rispetto a precedenti interventi non censurati dal giudice delle leggi.
41 Una ricognizione critica dei più recenti interventi normativi, statali e regionali, che hanno inciso sul si- stema di welfare si trova in LABORATORIO WISS DELLA SCUOLA SUPERIORE SANT’XXXX DI PISA, La recente normativa
«sociale» e le potenzialità del welfare generativo, in FONDAZIONE XXXXXXXX XXXXXX (a cura di), La lotta alla pover-
cativamente intaccati limiti e carenze che da sempre lo caratterizzano. È all’interno e alla lu- ce di questo scenario che deve essere letta e compresa la disciplina del Rdc, su cui torno adesso, senza indugi, a soffermarmi.
4. Cosa e per chi: profili soggettivi e oggettivi del Rdc
La prima domanda a cui una normativa che introduce una misura di contrasto alla povertà deve fornire una risposta è evidentemente quella che riguarda la definizione dell’ambito dei suoi destinatari, di coloro, cioè, che possono considerarsi “poveri” ai fini dell’accesso al sussidio. Stiamo parlando, in altri termini, delle previsioni che concorrono a delineare il tasso di selettività delle norme concernenti l’accesso e dunque la distanza che separa l’universalismo che impronta una determinata misura da un universalismo assoluto, ovvero indifferente rispetto al bisogno, quale sarebbe, come si è precedentemente ricordato, quello proprio di un reddito di base assicurato a tutti i componenti di una comunità politica, in quanto tali.
Già dall’art. 1, che delinea, pur fornendo, come si è rilevato in precedenza, allo stesso un’identità forse troppo incerta, le finalità del Rdc, si desume chiaramente che si sta parlando di una misura che, a dispetto del suo nome, prende le distanze dal modello del reddito “di cittadinanza”, arrivando a far affermare in dottrina, a tal proposito, che «la via italiana al red- dito di cittadinanza pare ictu oculi un inganno lessicale»42. D’altronde, il riferimento, nel suc- citato art. 1, a «soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro», sebbene testualmente a proposito soltanto di alcune finalità della misura, è da questo punto di vista inequivocabile. È però all’art. 2, dedicato ai «beneficiari» che bisogna guardare per approfondire le questioni accennate.
Con riguardo alla disposizione appena richiamata, è opportuno, in primo luogo, foca- lizzare l’attenzione sugli elementi da cui può desumersi, almeno nei suoi tratti fondamentali, la definizione di povertà fatta propria dal legislatore o, in altri termini, da cui può desumersi indirettamente il profilo quantitativo e qualitativo dei bisogni che il legislatore ha inteso indivi- duare in vista dell’apprestamento delle risposte (ritenute) adeguate. Si tratta di un aspetto essenziale, come è evidente, ai fini della formulazione di valutazioni in ordine tanto alla ca- pacità della misura di operare efficacemente quale strumento di contrasto alla povertà, quan- to alla coerenza con le prescrizioni costituzionali rilevanti in materia. I requisiti reddituali e patrimoniali previsti per poter fruire della misura da parte dei nuclei familiari rendono il Rdc,
tà è innovazione sociale. La lotta alla povertà. Rapporto 2020, Bologna, il Mulino, 2020, p. 41 ss. e, per una con- siderazione generale alla luce dell’analisi svolta, pp. 85-86, ove si può leggere che «una preoccupazione che emerge come evidente dal quadro che si è proposto riguarda non soltanto la estrema parcellizzazione degli inter- venti, e neppure la disarticolata relazione tra Stato e Regioni nella garanzia dei diritti propri di un modello di welfa- re state: ancora di più, si deve rilevare come in relazione a ciascun intervento che si introduce manchi anche solo un tentativo di metterlo a sistema con gli altri già in essere».
42 X. XXXXXX XXXXX, Il reddito di cittadinanza tra workfare e metamorfosi del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – n. 402/2019, p. 4.
vive in una abitazione in locazione a fini della definizione del quantum del beneficio econo- mico.
Ai fini dell’accesso, oltre ad ulteriori requisiti attinenti al patrimonio e al godimento di beni durevoli, sono richiesti infatti, salvo incrementi previsti per casi particolari, un valore dell’ISEE inferiore a 9360 euro (per il ReI il valore corrispondeva a 6000) e un valore del reddito familiare inferiore a 6000 euro annui, elevati a 7560 ai fini dell’accesso alla Pdc (per il ReI si parlava di Indicatore della Situazione Reddituale Equivalente – ISRE non superiore a 3000 euro). Si tratta di valori che costituiscono il punto di riferimento, considerata la logica di funzionamento della misura, per la quantificazione della sua componente monetaria, sta- tuendo l’art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 4/2019 infatti che «il beneficio economico del Rdc, su base annua, si compone dei seguenti due elementi: a) una componente ad integra- zione del reddito familiare […] fino alla soglia di euro 6.000 annui […]; b) una componente, ad integrazione del reddito dei nuclei familiari residenti in abitazione in locazione, pari all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto in locazione, come dichiarato a fini ISEE, fino ad un massimo di euro 3.360 annui». A fronte di indubbi passi avanti rispetto al suo immediato precedente normativo dal punto di vista dell’entità del beneficio erogabile, non si può però dire che, approfondendo l’esame della normativa, non emergano anche si- gnificative criticità.
Il riferimento è, innanzitutto, al funzionamento della scala di equivalenza mediante la quale si tiene conto della composizione del nucleo familiare ai fini della determinazione della soglia di reddito familiare oltre la quale l’accesso alla misura risulta precluso. L’art. 2, comma 4, a tal proposito stabilisce che «il parametro della scala di equivalenza […] è pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare ed è incrementato di 0,4 per ogni ulteriore compo- nente di età maggiore di anni 18 e di 0,2 per ogni ulteriore componente di minore età, fino ad un massimo di 2,1, ovvero fino ad un massimo di 2,2 nel caso in cui nel nucleo familiare sia- no presenti componenti in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza […]». Si trat- ta di una scala che penalizza le famiglie numerose (e, in particolare, quelle con molti figli mi- nori), che sono peraltro anche quelle in cui statisticamente si concentrano i più elevati livelli di incidenza della povertà, rispetto a quelle mono-personali, o comunque poco numerose, cosa che, come è stato condivisibilmente rilevato, «se riguardato alla luce della ratio del d.l.
n. 4/2019, pare irragionevole, poiché è proprio tra i nuclei familiari numerosi che si concen- trano livelli maggiori di povertà in termini assoluti, quelli che il Reddito di cittadinanza si pro- pone, appunto, di contrastare»43.
00 X. XX XXXXXXX, Il reddito di cittadinanza: beneficiari, requisiti oggettivi, principio di condizionalità, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 178. Cfr., in relazione ai dati sull’incidenza della povertà (assoluta), ISTAT, La povertà in Italia. Anno 2019, cit., p. 3, ove si afferma, evidenzian- do la condizione particolarmente difficile delle famiglie più numerose che «nel 2019 si conferma un’incidenza di povertà assoluta più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti: 9,6% tra quelle con quattro componenti e 16,2% tra quelle con cinque e più. Si attesta invece attorno al 6% tra le famiglie di tre componenti, sostanzialmente in linea con il dato medio».
nanziario decisamente superiore, la normativa sul Rdc ha compiuto dei passi indietro rispetto a quella sul ReI, che rinviava alla scala di equivalenza valida ai fini ISEE, la quale tiene maggiormente conto delle esigenze delle famiglie numerose44. E particolarmente criticabile mi pare la sottovalutazione che la normativa sul Rdc opera della condizione delle famiglie in cui siano presenti minori di età, sia in ragione della discutibilità (e tendenziale irragionevolez- za), già in astratto, della valutazione di cui sono oggetto i minorenni ai fini della quantificazio- ne dell’erogazione monetaria45, sia in ragione della scarsa, per non dire nulla, considerazio- ne in cui è tenuta la peculiare gravità delle conseguenze della povertà minorile, la quale si riferisce ad una condizione in cui si determina un pernicioso rapporto di reciproco condizio- namento tra povertà (strettamente) economica e povertà educativa46.
Un altro aspetto da tenere presente è costituito dall’attenzione rivolta dalla normativa sul Rdc alla condizione delle persone con disabilità, condizione, come è noto, specificamente considerata dalla Costituzione all’art. 38 (oltre che, naturalmente, in termini generali, dalla statuizione dei principi personalista e dell’eguaglianza sostanziale). Già si è accennato a come le prescrizioni relative alla Pdc consentano l’accesso alla stessa anche ad ultrasessan- tasettenni componenti di nuclei familiari comprendenti, oltre a persone che abbiano più di sessantasette anni, una o più persone con disabilità grave o non autosufficienti. A ciò devo- no aggiungersi previsioni come quella che, ai fini della scala di equivalenza di cui sopra si è detto, accordano una, per quanto limitata considerazione, alla presenza nel nucleo familiare di persone con disabilità, come, per altro verso, quella che stabilisce un incremento delle so- glie massime relative al patrimonio mobiliare in ragione della presenza nel nucleo familiare di persone in condizione di disabilità e, infine, come quelle – vi accenneremo nello specifico più avanti – che prendono in considerazione la presenza di componenti disabili ai fini della appli-
44 La scala di equivalenza applicata in riferimento al ReI infatti prevedeva che i coefficienti corrispondes- sero a 1 per nuclei familiare con un solo componente, a 1,57 per nuclei composti da due componenti, a 2,04 per un nuclei fino a tre componenti, a 2,46 per nuclei fino a quattro componenti, a 2,85 per nuclei di cinque compo- nenti e 3,20 per nuclei di sei o più componenti.
45 E.M. XXXXXXXXXX, Uno sguardo dalla luna sul reddito di cittadinanza (d.l. n. 4/2019), in RDSS, n. 3/2019, p. 611, rileva che «in caso di minorenni presenti nel nucleo familiare, il valore attribuito per costoro non trova fondamento in dati empirici», dal momento che «non si capisce né perché il valore attribuito ai minorenni dovrebbe essere la metà del valore per un maggiorenne, né perché non si differenzi secondo l’età dei minorenni, non essendo i bisogni esistenziali (inclusi i bisogni socioculturali) gli stessi per un adolescente di 16 anni e per un bambino di 3 anni».
46 X. XXXXXXXX, Politiche per le famiglie e per i minori come strumento di contrasto alla povertà, in X. XXXXX XXXXXXXX-X. XXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXX-X. XXXX, Reddito di cittadinanza e oltre, cit., p. 19, dopo aver notato che, trascurando di considerare i bisogni specifici di bambini e ragazzi (e le conseguenze parti- colari e di lungo periodo della povertà minorile), rileva che «sia le politiche di contrasto alla povertà, sia quelle per le famiglie tendono a concentrarsi sugli adulti e a considerare i bambini e ragazzi come “bagaglio appresso”, le cui condizioni migliorano o peggiorano a seconda di che cosa avviene ai genitori», mentre «è ampiamente noto che gli svantaggi nello sviluppo cognitivo legati alle origini familiari si cumulano e consolidano nei primi anni di vita e sono sempre più difficile da compensare man mano che si diventa grandi. A quindici anni, il divario nelle competenze cognitive tra adolescenti in diversa condizione socioeconomica è molto ampio (figura 2). Insieme alle condizioni economiche della famiglia, determina inevitabilmente che cosa faranno (e verrà loro suggerito di fare) al termine della scuola dell’obbligo».
sono tenuti.
A fronte di norme, come quelle appena richiamate, finalizzate ad assicurare tutela alle persone con disabilità, in coerenza con la logica della “rimozione degli ostacoli” di cui all’art. 3, comma 2, Cost. e con la specifica considerazione in cui l’art. 38 Cost. tiene le suddette persone, colpisce invece in modo negativo il disposto di cui all’art. 2, comma 6, del decreto- legge n. 4/2019, ai sensi del quale «ai soli fini del Rdc, il reddito familiare, di cui al comma 1, lettera b) numero 4), è determinato […] al netto dei trattamenti assistenziali eventualmente inclusi nell’ISEE ed inclusivo del valore annuo dei trattamenti assistenziali in corso di godi- mento da parte dei componenti il nucleo familiare, fatta eccezione per le prestazioni non sot- toposte alla prova dei mezzi»47. In conseguenza dell’applicazione di tale previsione, i nuclei familiari in cui siano presenti persone con disabilità finiscono per risultare significativamente penalizzati in relazione all’importo della componente monetaria del Rdc rispetto a ogni altro nucleo familiare che versi in analoghe condizioni di povertà, come giustamente notato e stigmatizzato da chi afferma che «risulta poco oculata la scelta di considerare reddito tutti quei supporti erogati dallo Stato alle persone disabili e non autosufficienti, trattandosi di emo- lumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di disabilità, che certo non possono rientrare nella nozione di reddito»48.
Una certa ambivalenza mostra anche l’approccio della normativa sul Rdc nei confron- ti dei bisogni abitativi, i costi per soddisfare i quali costituiscono una delle voci principali all’interno dei bilanci delle famiglie in generale e, ancor più, delle famiglie povere49, costi la cui eventuale insostenibilità rappresenta, a sua volta, una delle maggiori concause di pover- tà. Per un verso, infatti, è da ritenersi apprezzabile il riconoscimento della specificità dei bi- sogni abitativi, sotteso alla previsione di una specifica componente del Rdc destinata (even- tualmente) a sostenere i costi connessi al canone di locazione, fino ad un importo massimo di 3.360 Euro (pari a 280 Euro al mese). Per un altro, non si può non rilevare l’inadeguatezza del Rdc (e della sua “componente abitativa”) a fornire risposte all’altezza della diffusione e dell’intensità dei bisogni di cui adesso si discute.
Da questo punto di osservazione, emergono innanzitutto i limiti derivanti dalla com- plessiva struttura del Rdc, che rendono la misura incapace di rispondere ai bisogni di quelli che sono stati definiti «gli abitanti dell’“informale”» (coloro che vivono in baraccopoli o inse- diamenti abusivi o che semplicemente sono privi di un regolare contratto di locazione), di
47 Tra le prestazioni non sottoposte alla prova dei mezzi si colloca, come è noto, l’indennità di accompa- gnamento.
48 X. XXXXXXX, Uguali tra diseguali. Reddito di cittadinanza e persone disabili, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 169. In generale, sullo sguardo riservato dalla nostra Costituzione alla condizione delle persone disabili, cfr. X. XXXXXXXXXX, Diritti dei disabili e Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011 e, con un’attenzione specifica anche ai più recenti sviluppi normativi, X. XXXXXXX, Disabi- lità e prospettive di riforma. Una lettura costituzionale, Milano, Xxxxxxx, 2017.
49 X. XXXX, Il reddito di cittadinanza e la povertà abitativa, in X. XXXXX ORTIGOSA-X. XXXXXXX-X. XXXXXXXX-
X. XXXXXXXX-X. XXXX-X. XXXX, Reddito di cittadinanza e oltre, cit., p. 35, rileva a tal proposito che « Nel 2017 il peso dei costi abitativi è pari al 17,6% del reddito disponibile (+3,0); per i nuclei poveri è pari al 36,8% (+6,3). I nuclei interessati da “sovraccarico dei costi abitativi” (costi abitativi che superano il 40% del reddito) sono l’8,2% (+9,3 tra il 2007 e il 2017); per i nuclei poveri l’incidenza sale al 32,9% (+25,6)».
ne si tornerà più avanti) e di poveri di nazionalità non italiana, penalizzati, come avremo mo- do di approfondire in seguito, dal requisito della residenza ultradecennale sul territorio italia- no50. Ed emergono, inoltre, limiti connessi alla struttura eccessivamente rigida (oltre che alla consistenza non particolarmente elevata) della componente abitativa del Rdc, non in grado di coprire in maniera adeguata i variabili bisogni abitativi delle famiglie povere51, limiti che, a ben vedere, esigerebbero innovazioni volte non semplicemente ad operare una revisione puntuale della normativa sul Rdc, ma ad un rafforzamento complessivo delle politiche abita- tive, nel quadro di un approccio “integrato” alle politiche contro la povertà (già qui evocata nell’Introduzione), che miri a raggiungere l’obiettivo di un contrasto efficace alla povertà at- traverso l’operatività funzionalmente raccordata di misure (erogazioni monetarie e servizi) finalizzate a tale specifico fine e misure miranti a rispondere a bisogni riferibili a diversi ambiti settoriali delle politiche sociali52.
Se quelli considerati nelle pagine precedenti sono profili di criticità che ci hanno indot- ti a concentrare l’attenzione sull’esigenza, ineludibilmente discendente dalla statuizione dei principi personalista e di eguaglianza (artt. 2 e 3 Cost.), di riconoscere le specificità delle di- verse condizioni personali e socio-economiche che possono contraddistinguere ciascuna persona in vista della predisposizione di risposte adeguate (e, quindi, giuste) a bisogni propri (anche) dei poveri, è alla luce dei medesimi principi costituzionali che dobbiamo considerare un altro aspetto della normativa sul Rdc, già peraltro, incidentalmente, richiamato in prece- denza. Si tratta di quello attinente ai requisiti di accesso al Rdc relativi alla cittadinanza, alla residenza e al soggiorno sul territorio nazionale, di cui deve essere in possesso il componen- te richiedente il beneficio. In proposito, l’art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 4/2019 stabili- sce che quest’ultimo deve essere «in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea, ovvero suo familiare, come individuato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permes- so di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», nonché, in aggiunta, «residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Un primo profilo di criticità, che, ad una lettura non sufficientemente attenta della suc- citata disposizione, rischierebbe di non ricevere adeguata considerazione, riguarda lo iato che può determinarsi tra il vivere di fatto in un determinato luogo e il “risiedervi” giuridica- mente, ai sensi della legislazione sull’iscrizione nei registri anagrafici dei Comuni. Tale di- screpanza può determinarsi in relazione alle persone senza dimora e a quelle senza fissa dimora, le prime certamente (anche) in condizioni di grave deprivazione economica e sociale
50 X. XXXX, op. cit., p. 36.
51 A parere di E.M. XXXXXXXXXX, op. cit., p. 612, «stupisce la scelta di una misura unica non variabile a seconda dei costi reali dell’affitto, soprattutto in caso di famiglie numerose che di solito hanno bisogno di abita- zioni più grandi di un nucleo unipersonale e perciò con costi più alti» e «c’è da dubitare che una misura unica che non rispecchia i costi reali ed adeguati sia in grado di garantire il fabbisogno abitativo di queste famiglie».
52 Così X. XXXX, op. cit., p. 39.
anagrafica. Il rischio concreto è che, in ragione di ciò, possa risultare precluso l’accesso al Rdc proprio a persone che si trovano a vivere in condizioni di povertà estrema e di emargi- nazione sociale, in evidente contraddizione con la ratio della misura in esame e con le istan- ze sottese al principio personalista e a quello di eguaglianza sostanziale e di pari dignità so- ciale (artt. 2 e 3 Cost.).
Alle gravi criticità appena rilevate il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha cercato di porre almeno in parte rimedio con una nota del 19 febbraio del 2020. In tale nota, premessi riferimenti alle prescrizioni della legge n. 1228/1954 che riguardano l’iscrizione anagrafica dei senza fissa dimora53, si precisa che «qualora una persona senza dimora in- tendesse presentare la richiesta di accesso al Rdc, ma non risultasse iscritta nei registri anagrafici […], il Comune dovrà in primo luogo provvedere, all’esito degli accertamenti volti a confermare l’abituale presenza del richiedente sul territorio comunale, a riconoscere l’iscrizione nei registri anagrafici secondo le modalità previste dalla legge». Mentre, però, in relazione al requisito della continuatività della residenza per i due anni che immediatamente precedono la richiesta di accesso al Rdc, la nota fa presente che si potrà dare rilievo a dati sostanziali indicativi della permanenza continuativa in un comune di un senza fissa dimora54, non si può fare a meno di rilevare quello che appare in ogni caso un “buco” nella tutela della condizione dei senza dimora, in vista dell’accesso al Rdc. Considerandosi infatti comunque necessaria l’esistenza di un luogo fisico a cui fare riferimento ai fini della iscrizione anagrafi- ca e non avendo i comuni, se non in pochi casi, seguito il consiglio di ricorrere all’istituto del- la “residenza fittizia” al fine di consentire comunque l’iscrizione anagrafica, con riguardo ai senza dimora non accolti da organizzazioni che si occupino di venire incontro alle loro esi- genze, si deve constatare che, «in mancanza di una dimora abituale o del domicilio, l’unica strada astrattamente percorribile sembrerebbe quindi essere quella dell’iscrizione anagrafica nel Comune di nascita, che tuttavia presuppone la permanenza stabile sul territorio e quindi non risolve la questione della continuità biennale di cui all’art. 2, comma 1, lett. b)»55.
Se si considera poi la normativa sull’accesso al Rdc specificamente applicabile ai cit- tadini di Stati diversi dall’Italia, il riconoscimento della possibilità di accedervi a cittadini di altri Stati dell’Unione europea e ai loro familiari titolari del diritto di soggiorno o del diritto di sog- giorno permanente trova un fondamento diretto nel diritto primario e derivato dell’Unione. Lo stesso dicasi per la previsione, in riferimento ai cittadini di Paesi terzi, del necessario pos-
53 L’art. 2, comma 3, di tale legge stabilisce, ai fini dell’iscrizione anagrafica dei senza fissa dimora: «la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune dove ha stabilito il proprio domicilio. La persona stessa, al momento della richiesta di iscrizione, è tenuta a fornire all'ufficio di anagrafe gli elementi ne- cessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio. In mancanza del domicilio, si considera residente nel comune di nascita».
54 Si afferma in particolare che «nei casi di irreperibilità sopra indicati e a condizione che non sia avvenu- to un trasferimento all’estero, si ritiene che il requisito della residenza in Italia, in via continuativa, per almeno due anni, possa considerarsi soddisfatto qualora, pur in mancanza di una continuità della residenza anagrafica sia dimostrabile l’elemento obiettivo della permanenza continuativa in un Comune Italiano, che per i senza fissa di- mora occorre individuare avuto riguardo ai luoghi nei quali hanno svolto abitualmente la maggioranza dei rapporti sociali nella vita quotidiana».
00 X. XX XXXXXXX, op. cit., p. 178.
preciso ancoraggio normativo nella direttiva 2003/109/CE. L’art. 11 di tale direttiva assicura infatti agli stranieri lungo-soggiornanti parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali per quanto riguarda, tra l’altro, l’accesso a «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la prote- zione sociale ai sensi della legislazione nazionale». Non avrebbe dunque potuto il legislatore italiano escluderne normativamente la possibilità di accedere al Rdc, se non a prezzo di una palese violazione del diritto dell’Unione europea. Ci si deve chiedere, però, se la previsione di un requisito come quello in esame possa considerarsi compatibile con l’impianto di una Costituzione, come quella italiana, che, come già si è avuto modo di ricordare all’inizio di questo saggio, richiede che sia garantito a tutte le persone il diritto ad una vita libera e digni- tosa e, quindi, che siano apprestati, tra l’altro, interventi e misure miranti a contrastare effica- cemente la povertà ed, in particolare, le sue manifestazioni più gravi.
Se guardiamo alla giurisprudenza costituzionale degli anni passati, diverse sono le decisioni della Corte con cui è stata dichiarata illegittima la previsione del necessario pos- sesso del permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti ai fini dell’accesso a misure rite- nute dal giudice delle leggi attinenti a «bisogni primari» della persona umana. Si pensi, tra le altre, a quelle relative alla pensione di invalidità civile per sordi e indennità di comunicazione (sent. n. 230/2015), all’indennità di accompagnamento per non vedenti (sent. n. 22/2015), a pensione di inabilità civile e indennità di accompagnamento (sent. n. 40/2013), all’indennità di frequenza per minori invalidi (sent. n. 329/2011) e all’assegno mensile di invalidità (sent. n. 187/2010). In riferimento alla normativa sul Rdc, come rilevato in dottrina56, mentre la natura di misura di contrasto alla povertà (a cominciare da quella estrema) propria del Rdc ne evi- denzia la connessione con la garanzia di bisogni primari della persona, con conseguente censurabilità – se ne dovrebbe dedurre – del requisito ora in esame, il caratterizzarsi dello stesso Rdc (anche) come misura di politica attiva del lavoro, rende un po’ più incerti in ordine alla conclusione a cui pervenire.
Anche qualora, peraltro, non si volesse, come a me pare invece doversi fare, risolve- re in radice la questione riconducendo la misura nel novero di quelle volte a soddisfare biso- gni essenziali connessi con un diritto inviolabile della persona, si potrebbe dubitare fortemen- te circa la ragionevolezza della previsione, ai fini dell’accesso al Rdc, del necessario posses- so di un titolo di soggiorno quale il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo pe- riodo. Il suo conseguimento infatti, oltre a presupposti difficilmente collegabili alle finalità del- la misura in esame, come un soggiorno sul territorio nazionale prolungato per almeno cinque anni e la conoscenza della lingua italiana, ne conosce altri, quali la disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e di un alloggio dotato dei requisiti di idoneità legislativamente previsti, che paiono entrare frontalmente in conflitto con la ratio del Rdc. Si finisce infatti per esigere da parte del richiedente la fruizione di una misura di contra- sto alla povertà di dimostrare la disponibilità di un certo reddito (oltre che di un alloggio con
56 X. XXXXXX DAL MONTE, Quale cittadinanza per il «Reddito di cittadinanza»?, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., pp. 137-138.
poveri tra i poveri, salvo che non si tratti di persone che abbiano visto deteriorarsi la propria situazione socio-economica in un tempo successivo a quello (in cui non erano povere o lo erano meno) dell’ottenimento del succitato titolo di soggiorno, valido a tempo indeterminato.
Non si può peraltro trascurare il fatto che, a fronte di decisioni in cui la Corte ha rite- nuto irragionevole subordinare l’accesso a determinate prestazioni al possesso di un titolo di soggiorno la cui titolarità è condizionata, tra l’altro, alla disponibilità di un certo reddito57, il giudice delle leggi ha di recente emesso una decisione significativa proprio in ordine ad una misura di contrasto alla povertà (e, in particolare, alla povertà delle persone anziane ultra- sessantasettenni), con i cui contenuti non si può evitare di confrontarsi. Si tratta della sen- tenza n. 50/2019, con cui, sul presupposto che non si tratterebbe di misura volta a soddisfare un bisogno primario della persona, la Consulta ha “salvato” la norma che subordina al pos- sesso del permesso UE per lungo-soggiornanti l’accesso all’assegno sociale.
Viene, in altri termini, ritenuto non irragionevole subordinare la possibile fruizione del sussidio alla titolarità di un documento di soggiorno che attesti un elevato grado di radica- mento sul territorio nazionale. Sul presupposto che la misura di cui adesso si discute appar- tenga al numero delle provvidenze ulteriori rispetto a quelle connesse con bisogni primari della persona, la Corte pare conferire rilievo ad un concetto di solidarietà declinata sotto for- ma di corrispettività tra quanto si può richiedere e quanto in precedenza si è contribuito a quel progresso materiale o spirituale della società al quale si riferisce l’art. 4 Cost.58. E non ritiene il giudice delle leggi che a tale conclusione osti il fatto che, al fine di ottenere il per- messo UE per soggiornanti di lungo periodo, sia richiesto il possesso di un reddito corri- spondente proprio all’importo dell’assegno sociale.
La Consulta ammette dunque, in sostanza, che soltanto chi abbia in passato contri- buito al progresso (e deve intendersi, parrebbe, solo a quello «materiale») del Paese sia me- ritevole, da anziano, di essere sostenuto attraverso l’accesso all’assegno sociale, allorquan- do, come affermato al punto 8 del Considerato in diritto, «la vocazione solidaristica dell’assegno sociale torna a manifestarsi, in quanto esso soccorre chi, nonostante l’ingresso stabile nella collettività nazionale, sia poi incorso in difficoltà che ne hanno determinato
57 Il riferimento è per esempio alle sentenze nn. 306/2008 (sull’indennità di accompagnamento) e 11/2009 (sulla pensione di inabilità).
58 Si veda il punto 7 del Considerato in diritto ove, a supporto della ammissibilità della previsione per gli stranieri del requisito del possesso del permesso per lungo soggiornanti, si afferma, in relazione ai beneficiari dell’assegno sociale, che «tali persone ottengono […], alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offer- to al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.)». X. XXXXXXXXXX, Obbligo o parità? Ancora in tema di prestazioni assistenziali in favore degli stranieri extracomunitari, ma per l’assegno sociale ci vuole il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, in Giur. cost., n. 2/2019, pp. 765-766, nota che «il richiamo alla solidarietà in questa decisione è a un’idea di solidarietà ‘contro’, che esclude più (o prima) che includere, e la decisione sembra far propria una severa “condizionalità” nell’accesso alle prestazioni, riconducibile a una “ricostruzione produttivista della solidarietà” che richiede “attivazione” e “meritevolezza” al potenziale destinatario delle misure di welfare, specie di quelle agganciate alla condizione di lavoratore, e tanto più se il destinatario è extracomunita- rio».
manifestarsi» la Corte implicitamente ammette che quella che si manifestava prima non era una vocazione qualificabile come (pienamente) solidaristica. E ci si spinge sino a legittimare anche la previsione, ai fini dell’assegno sociale, dell’ulteriore requisito della residenza alme- no decennale in Italia, pur non dedicando la Corte espressamente molto spazio a tale aspet- to nella parte motiva della sentenza in esame.
A fronte di ciò, mi pare possibile affermare che, se tali argomentazioni risultano già molto discutibili in ordine ad una misura, come l’assegno sociale, comunque destinata al contrasto alla povertà in vista della tutela di un diritto costituzionale60, per quanto venga in rilievo in questo caso una povertà misurata in maniera diversa (e meno accurata) da quanto richiesto dalla normativa sul Rdc (dato il riferimento al solo reddito e non anche al patrimo- nio), le sopra richiamate argomentazioni adoperate dalla Consulta risulterebbero ancora più difficilmente accettabili in rapporto al Rdc (e alla Pdc). Quest’ultimo, per configurazione nor- mativa, parrebbe infatti qualificarsi in modo difficilmente equivocabile, nonostante la sua “doppiezza” quanto agli scopi indicati, come sussidio finalizzato a rispondere a “bisogni pri- mari” della persona61, non diversamente da quanto la Corte ha avuto modo di affermare – è cosa notissima – nella sentenza n. 10/2010, a proposito della carta acquisti introdotta nel 2008 (la c.d. social card), ritenuta in quella occasione, se pure adottandosi un approccio che è stato definito «bifronte»62, strumentale alla tutela di un diritto fondamentale «strettamente inerente alla tutela irrinunciabile della dignità della persona umana»63.
59 Si veda, criticamente, sul questo passaggio della parte motiva della sentenza in esame, X. XXXXXXX, Straniero e prestazioni di assistenza sociale: la Corte fa un passo indietro e uno di lato, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 3/2019, p. 262, il quale afferma che «se è vero, infatti, che la carta di soggiorno è un titolo di soggiorno permanente e che il venire meno dei requisiti dei redditi non ne comporta la revoca in occasione dell’aggiornamento periodico del documento, questa circostanza non toglie che nella generalità dei casi sia illogi- co subordinare il godimento di una prestazione assistenziale al peggioramento di una condizione economica, negandolo a coloro che erano o sono rimasti indigenti». Su posizioni analoghe X. XXXXXXX, Cittadini, stranieri e reddito di cittadinanza, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 1/2020, pp. 208-209.
60 Così anche X. XXXXXXX, op. cit., p. 259, il quale sostiene che «pare difficile negare che l’assegno so- ciale configuri una prestazione oggetto di un diritto fondamentale, e precisamente dall’art. 38, co. 1, Cost.», dal momento che «l’assegno sociale […] è prestazione assistenziale – come ha ricordato da ultimo la sent. n. 12 del 2019 della Corte costituzionale – «erogata agli ultrasessantacinquenni, istituita in attuazione dell’art. 38 Cost. per far fronte “al particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza, risultando altre prestazioni − assistenza sanita- ria, indennità di accompagnamento − preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da grave invalidità o non autosufficienza, insorte in un momento nel quale non vi è più ragione per annettere significato alla riduzione della capacità lavorativa, elemento che, per contro, caratterizza le prestazioni assistenziali in favore dei soggetti infrasessantacinquenni” (sent. n. 400 del 1999)».
61 Come sappiamo, all’art. 1 del decreto-legge n. 4/2019, nell’indicare in termini generali i destinatari del- la misura, ci si riferisce a «soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro». Cfr. in que- sto senso X. XXXXXXX, op. cit., p. 34, secondo cui «le misure di contrasto alla povertà, condizione che impedisce il diritto ad una vita dignitosa, rappresentano la risposta ad un bisogno che va considerato come “primario”, per il cittadino come per il non cittadino, per lo straniero come per il nativo, che non tollera discriminazioni» e il quale aggiunge che «anche a voler ammettere la discrezionalità legislativa in materia, non potrebbero e non dovrebbe- ro ammettersi requisiti tali da contraddire la stessa ratio legis ed escludere irragionevolmente persone stabilmen- te residenti sul territorio italiano, che pure contribuiscono sotto diversi profili allo sviluppo e alla crescita economi- ca e sociale di tutta la comunità nazionale».
62 Così L. VIOLINI, I dilemmi irrisolti delle politiche di contrasto alla povertà. Solo centralismo?, in Le Re- gioni, n. 3/2018, p. 364, secondo la quale «la Corte ha, da un lato, evocato la (temporanea) congiuntura econo- mica particolarmente negativa quale fattore a sostegno dell’intervento del legislatore nazionale, quasi si trattasse
Rdc, della residenza ultradecennale sul territorio nazionale (e, inoltre, della necessaria conti- nuatività della residenza negli ultimi due anni), decisiva, anche in questo caso, ai fini della formulazione di una valutazione circa la conformità alla Costituzione, risulta la reperibilità di una connessione con la garanzia di diritti legati al soddisfacimento di bisogni primari della persona. Inoltre, sullo specifico versante della compatibilità con il principio di eguaglianza, è stato recentemente ribadito che «i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei benefi- ciari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio» (punto 3.1. del Considerato in diritto della sentenza n. 44/2020, relativa a norme di una legge della Regione Lombardia in materia di accesso all’edilizia residenziale pubblica)64.
Alla luce di ciò, in considerazione di natura e finalità della misura, credo sia difficile non considerare incongruo rispetto all’accesso al Rdc, e perciò illegittimo, il requisito della residenza ultradecennale in Italia65. Un requisito che peraltro, sommandosi a quello della tito- larità del permesso per lungo-soggiornanti, lascia fuori dall’area della garanzia apprestata dalla normativa un numero elevato di persone pur in possesso di tutti gli altri requisiti previsti dal decreto-legge n. 4/2019. Anche chi non concordasse con la qualificazione del Rdc come finalizzato a tutelare un diritto fondamentale, corrispondente ad un bene “primario” della per- sona, non parrebbe poter trovare fondate argomentazioni contro la tesi della irragionevolez- za della previsione in esame, considerato che, alla luce di consolidati orientamenti della Cor- te costituzionale, «devono certamente considerarsi sospetti (e potenzialmente incostituziona-
di porre rimedio ad una emergenza temporalmente limitata ma, dall’altro, ha identificato il fondamento costituzio- nale di tale intervento nella tutela della dignità di soggetti in un particolare stato di bisogno: un diritto fondamenta- lissimo (e quindi da tutelare in modo permanente) che giustificava l’accentramento delle competenze in capo allo Stato (e il parallelo restringimento dell’autonomia regionale) affinché si realizzasse una tutela uniforme (ma anche appropriata e tempestiva) su tutto il territorio nazionale».
63 Cfr., in questo senso, oltre a X. XXXXXX DAL MONTE, op. cit. p. 140, S. GIUBBONI, op. cit. p. 22, secondo il quale «poiché il RdC – che lo stesso art. 1 della legge n. 26/2019 assume come misura fondamentale di contra- sto alla povertà, volta al sostegno economico e all’inserimento dei soggetti a rischio di emarginazione nella socie- tà e nel mondo del lavoro – è, per l’appunto, ben più dell’assegno sociale, prestazione essenziale-esistenziale, che attiene al nucleo duro incomprimibile della tutela della dignità della persona, anche in nome della Realpolitik e del self-restraint difficilmente la Corte costituzionale potrebbe ripetere gli stessi argomenti usati dalla sentenza
n. 50/2019 per sancire la conformità a Costituzione dell’assai esigente requisito, richiesto ai cittadini di Paesi ter- zi, del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
64 Si veda per un commento a tale decisione X. XXXXXX, Uno sviluppo della saga della “doppia pregiudi- ziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Consulta online, n. 1/2020, pp. 173 ss.
65 Secondo X. XXXXXXXX, op. cit. p. 21, oltre a notarsene la dubbia compatibilità con la Costituzione, «si deve affermare che la condizione di residenza legale decennale sul territorio italiano imposta per l’accesso al RdC appaia […] in contrasto con il diritto dell’Unione europea: per i cittadini di Paesi terzi […] quantomeno con la direttiva 2003/109/CE; per quelli europei […] con la direttiva n. 2004/38/CE […], nella misura in cui questa fissa in cinque anni il periodo in cui il cittadino dell’Unione acquista la qualità di soggiornante permanente (art. 16), con conseguente piena parità di trattamento nell’accesso al sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitan- te» e si deve «ritenere che la draconiana condizione di residenza decennale […] costituisca una classica discri- minazione indiretta a danno dei cittadini dell’Unione (o di Paesi terzi) e che essa – costituendo il RdC una misura essenziale per il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale (e dunque un diritto fondamentale afferente al nucleo minimo di tutela della dignità della persona) – sia palesemente sproporzionata, se considerata alla luce degli artt. 16 e 24 della direttiva 2004/38/CE».
prolungata sul territorio o richiesta esclusivamente per i non cittadini»66.
5. “Ti aiuto, a patto che...”: i cardini normativi della condizionalità
L’impostazione complessiva fatta propria dal legislatore, che emerge dalle indicate fi- nalità del Rdc, tra le quali, come si è visto, sono affiancati gli obiettivi del contrasto alla po- vertà e dell’inserimento lavorativo in maniera meno “integrata”, per così dire, di quanto fosse fatto dalla normativa sul ReI, trova un suo risvolto “operativo” nella collocazione dei profili organizzativi e gestionali del Rdc all’interno dell’area di pertinenza primaria dei soggetti re- sponsabili del funzionamento delle politiche attive del lavoro, e in particolare ai Centri per l’Impiego. Questi ultimi rappresentano senza ombra di dubbio lo snodo organizzativo essen- ziale di tutto il sistema. A differenza di quanto previsto in riferimento al ReI, si attribuisce in- vece un ruolo di secondo piano, sebbene pur sempre rilevante, alle strutture responsabili dei servizi sociali, in primo luogo comunali. Se già una scelta organizzativa di questo tipo risulta indicativa di un orientamento decisamente favorevole ad un’impostazione improntata ad una logica marcatamente “lavoristica”, una chiara conferma della preminenza di tale logica si de- sume dalla .-considerazione della struttura normativa della misura.
Si stabilisce infatti, all’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 4/2019, che l’erogazione del beneficio è condizionata, oltre che al possesso dei requisiti attinenti alla situazione reddi- tuale e patrimoniale del richiedente (nonché di cittadinanza e residenza), «alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni […]» e «all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento la- vorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualifica- zione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale». Fatti salvi coloro i quali sono esclusi dagli obblighi di attivazione connessi alla fruizione del Rdc, in ragione delle peculiari situazioni in cui si trovano67 e coloro che possono, eventualmente, es- serne esonerati (riconoscendosi, tra l’altro, così rilievo agli oneri connessi allo svolgimento di lavoro di cura)68, il richiedente della misura e gli altri componenti del nucleo familiare benefi-
66 X. XXXXXX DAL MONTE, op. cit. p. 143.
67 Ai sensi dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 4/2019, sono esclusi da tali obblighi i componenti del nucleo familiare che: siano minorenni; siano occupati; frequentino un regolare corso di studi; siano beneficiari della pensione di cittadinanza; siano titolari di pensione diretta; siano persone di età pari o superiore a 65 anni, a prescindere dalla fruizione di un trattamento pensionistico; siano persone con disabilità, come definita ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68 e accertata dalle competenti commissioni mediche, «ferma restando per il com- ponente con disabilità interessato la possibilità di richiedere la volontaria adesione a un percorso personalizzato di accompagnamento all'inserimento lavorativo e all'inclusione sociale, secondo quanto previsto al comma 1, es- sendo inteso che tale percorso deve tenere conto delle condizioni e necessità specifiche dell'interessato» e che «i componenti con disabilità possono manifestare la loro disponibilità al lavoro ed essere destinatari di offerte di lavoro alle condizioni, con le percentuali e con le tutele previste dalla legge 12 marzo 1999, n. 68».
68 Ai sensi dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 4/2019, come interpretato e attuato mediante l’Accordo in Conferenza unificata del 1° agosto 2019, possono essere esonerati dagli obblighi di partecipazione a un percorso di inserimento lavorativo o di inclusione sociale, connessi alla fruizione del Rdc le seguenti categorie
ma 569, devono dunque rendere dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro e sono in- dividuati e resi noti ai Centri per l’Impiego per il tramite di un’apposita piattaforma digitale, in vista della successiva stipula di un Patto per il lavoro di cui all’art. 4, comma 7, contenente una serie di obblighi e di impegni da rispettare70.
Quanto ai nuclei familiari beneficiari del Rdc in cui non siano presenti componenti (te- xxxx agli obblighi a cui sopra e) in possesso dei requisiti di cui all’art. 4, comma 5, ai sensi dell’art. 4, comma 11, sono individuati e resi noti ai comuni, perché siano convocati dai servi- zi competenti per il contrasto alla povertà e possano accedere agli interventi connessi al Rdc, incluso il percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo, previa «valutazione multidimensionale» effettuata da operatori sociali a ciò adibiti, disciplinata dall’art. 5 del d.lgs.
n. 147/2017, finalizzata ad identificarne i xxxxxxx00. Se in relazione ai nuclei familiari appena citati, all’esito della «valutazione preliminare»72, i bisogni riscontrati risultano «prevalente- mente connessi alla situazione lavorativa», i beneficiari sono chiamati a sottoscrivere, al pari di quelli in possesso dei requisiti di cui al comma 5, il Patto per il lavoro presso i centri per l’impiego (art. 4, comma 12).
di persone: i componenti con carichi di cura, valutati con riferimento alla presenza di soggetti minori di 3 anni di età, con la precisazione che non può essere esonerato più di un componente del nucleo familiare; i componenti con carichi di cura, valutati con riferimento alla presenza di persone con disabilità grave o non autosufficienza, come definiti a fini ISEE, con la precisazione che il rapporto tra componenti con carico di cura e beneficiari della cura non può essere superiore ad uno ad uno; i lavoratori che conservano lo stato di disoccupazione in caso di svolgimento di attività di lavoro dipendente o autonomo, che impegni per almeno 20 ore settimanali (o che impe- gni, sommando tempo di lavoro e tempo degli spostamenti verso il luogo di lavoro, più di 25 ore settimanali) e da cui ricavino un reddito corrispondente a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. 917/1986 - Testo unico delle imposte sui redditi (per i lavoratori dipendenti reddito pari o inferiore ad €. 8.145,00 annui e per i lavoratori autonomi reddito pari o inferiore ad €. 4.800,00); coloro che frequentano corsi di formazione per il raggiungimento della qualifica o del diploma professionale.
69 Ai sensi dell’art. 4, comma 5, al momento della richiesta della misura si deve essere in possesso di uno o più dei seguenti requisiti: «a) assenza di occupazione da non più di due anni; b) essere beneficiario della NASpI ovvero di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria o averne terminato la fruizione da non più di un anno; c) aver sottoscritto negli ultimi due anni un patto di servizio attivo presso i centri per l'im- piego ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150; d) non aver sottoscritto un proget- to personalizzato ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147».
70 Si tratta, in primo luogo, di quelli elencati all’art. 4, comma 8, lettera b): «1) registrarsi sull'apposita piattaforma digitale di cui all'articolo 6, comma 1, anche per il tramite di portali regionali, se presenti, e consultarla quotidianamente quale supporto nella ricerca attiva del lavoro; 2) svolgere ricerca attiva del lavoro, verificando la presenza di nuove offerte di lavoro, secondo le ulteriori modalità definite nel Patto per il lavoro, che, comunque, individua il diario delle attività che devono essere svolte settimanalmente; 3) accettare di essere avviato alle attivi- tà individuate nel Patto per il lavoro; 4) sostenere i colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione fina- lizzate all’assunzione, su indicazione dei servizi competenti e in attinenza alle competenze certificate; 5) accetta- re almeno una di tre offerte di lavoro congrue […]».
71 Alla valutazione multidimensionale si procede anche in riferimento a nuclei familiari in cui pur siano presenti componenti assoggettati agli obblighi, «nel caso in cui l’operatore del centro per l'impiego ravvisi che nel nucleo familiare dei beneficiari nelle condizioni di cui al comma 5 siano presenti particolari criticità in relazione alle quali sia difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro» (art. 4, comma 5-quater, del decreto-legge n. 4/2019).
72 Sebbene la discrepanza terminologica avrebbe opportunamente potuto essere evitata, si deve senz’altro ritenere che, la «valutazione preliminare» di cui all’art. 4, comma 12, del decreto-legge n. 4/2019, coin- cida con l’«analisi preliminare» di cui all’art. 5, dell’art. 5 del d.lgs. n. 147/2017, a cui il decreto n. 4 fa rinvio.
rappresentava “la porta di accesso”, ubicata presso i comuni, coordinati a livello di ambiti ter- ritoriali, attraverso cui dovevano passare tutti i beneficiari della misura di contrasto alla po- vertà, diventa adesso, per così dire, una “porta secondaria”, successiva a quella di accesso, verso cui sono indirizzati coloro i quali non risultino in possesso di una serie di requisiti og- gettivi, all’esito di una verifica, di competenza dei centri per l’impiego, in grado di fotografare in maniera soltanto parziale l’effettiva condizione dei nuclei familiari73. La già accennata tor- sione in senso accentuatamente lavoristico della normativa, su cui si tornerà diffusamente più avanti, ha prodotto dunque una soluzione organizzativa, in ordine all’accesso, la quale rinuncia irragionevolmente ad evidenziare sin dall’inizio del percorso dei richiedenti la misu- ra, in quanto persone in condizioni di povertà, l’esigenza di una comprensione piena della situazione in cui versano e di una conoscenza articolata, per usare il linguaggio dell’art. 3, comma 2, Cost., degli «ostacoli» che si collocano sulla via della realizzazione dei loro pro- getti di vita74.
Pare inoltre indicativo dell’approccio (parzialmente) differente adottato nel 2019 ri- spetto a quello che caratterizzava la normativa sul ReI il fatto che si faccia riferimento, a pro- posito dell’esito della più sopra citata valutazione preliminare a cui sono sottoposti i nuclei non immediatamente avviabili alla stipula del Patto per il lavoro, a bisogni prevalentemente connessi alla situazione lavorativa. L’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 147/2017, disposizione che ha peraltro, in riferimento a questo aspetto, conservato la formulazione propria del suo testo originario75, (si riferiva e) si riferisce invece ad una «situazione di povertà», la quale
«emerga come esclusivamente connessa alla sola dimensione della situazione lavorativa» (corsivi miei): il legislatore del 2019 amplia la porta di ingresso al percorso di impronta più marcatamente lavoristica, con l’obiettivo di far confluire su quella strada il numero maggiore possibile di beneficiari della misura (compresi quelli rispetto ai quali si registrino rilevanti criti- cità in relazione al possibile avvio ad un percorso di inserimento lavorativo). Se, invece, il bisogno risulta essere «complesso e multidimensionale», «i beneficiari sottoscrivono un Pat- to per l’inclusione sociale» (art. 4, comma 12)76, il quale «ove non diversamente specificato,
73 Mentre l’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 147/2017, stabiliva infatti che, previa valutazione multidimensio- nale, «finalizzata ad identificare i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti, tenuto conto delle risorse e dei fattori di vulnerabilità del nucleo», si accedesse «agli interventi di cui al presente decreto» (cioè a tutti gli in- terventi, volti al reinserimento lavorativo o all’inclusione sociale di persone e famiglie in ordine a cui emergesse un quadro più articolato di criticità), la stessa disposizione, dopo le modifiche introdotte nel 2019, stabilisce che si acceda previa valutazione multidimensionale ai soli «interventi di cui al Patto per l’inclusione sociale»
00 Xxx. X. XXXXXXX-X. XXXX, op. cit., p. 275, i quali rilevano che, poiché i parametri oggettivi alla luce dei quali si compie una prima differenziazione all’interno della platea dei richiedenti il Rdc «spesso non riescono a riflettere le effettive condizioni delle famiglie, un numero significativo tra loro sarà indirizzato verso un approdo inappropriato», con la conseguenza che «nei territori […] i diversi servizi dovranno compiere uno sforzo particola- re per sopperire a questa criticità del disegno del Rdc, rafforzando il loro coordinamento, così da agevolare il più possibile i passaggi dell’utenza dall’uno all’altro e incrementare l’appropriatezza delle risposte».
75 Ciò probabilmente in ragione di una criticabile dimenticanza del legislatore in sede di coordinamento contenutistico con la nuova normativa sul Rdc.
76 La stessa disposizione precisa che in questo caso «i servizi si coordinano in maniera da fornire rispo- ste unitarie nel Patto, con il coinvolgimento, oltre ai centri per l’impiego e ai servizi sociali, degli altri servizi territo- riali di cui si rilevi in sede di valutazione preliminare la competenza».
vo n. 147 del 2017» (art. 4, comma 13).
6. Quale lavoro nella normativa sul Rdc?
A parte quanto sopra accennato a proposito dei sottoscrittori del Patto per l’inclusione sociale, centrale risulta, nell’ambito del percorso normativamente disegnato per i beneficiari del Rdc, l’impegno ad accettare almeno una di tre offerte di lavoro «congrue». Si prevede in proposito, all’art. 4, comma 8, che la congruità sia valutata ai sensi dell’articolo 25 del decre- to legislativo n. 150 del 2015, recante normativa in materia di servizi per il lavoro e di politi- che attive77, con variazioni che operano, restrittivamente, a svantaggio dei beneficiari del Rdc. Il riferimento è soprattutto alla previsione di parametri stringenti con riguardo alla di- stanza dalla residenza dell’offerta di lavoro ricevuta, che, salvo eccezioni o attenuazioni in caso di nuclei familiari con persone disabili o figli minori, cresce con il numero delle offerte (cento chilometri per la prima, duecentocinquanta per la seconda, qualunque distanza nell’ambito del territorio nazionale, per la terza offerta). Draconiana poi è la previsione con- cernente coloro per i quali il beneficio sia stato oggetto di rinnovo e si configurino quindi, per così dire, come beneficiari di (più) lungo corso: in questo caso, la decadenza dallo stesso scatta al rifiuto della prima offerta utile di lavoro congrua, salvo deroga per i componenti di nuclei familiari in cui siano presenti persone con disabilità o figlio minori (art. 4, comma 9, lettere d) e d-bis), del decreto-legge n. 4/2019), deroga peraltro operante, nel secondo caso (quello dei figli minori), «esclusivamente nei primi ventiquattro mesi dall’inizio della fruizione del beneficio, anche in caso di rinnovo dello stesso».
Emerge dunque la nodalità della previsione di un’ampia disponibilità, richiesta ai be- neficiari del Rdc, a rispondere ai “bisogni del mercato” (se e nelle forme in cui tali bisogni do- vessero in concreto manifestarsi). Considerato anche quanto appena detto in relazione al rigore delle previsioni concernenti gli obblighi di attivazione e quanto più avanti si dirà a pro- posito del rigoroso sistema di sanzioni previste per varie violazioni addebitabili ai beneficiari del Rdc, ciò appare coerente con una tendenza generale, che pare prevalente nella normati- va lavoristica più recente, a definire il lavoro essenzialmente come “bene” di cui si è, per così dire, individualmente “proprietari” (e che si vende e si compra sul mercato)78. Si è, in partico- lare, evidenziato come tali previsioni contribuiscano a produrre un appiattimento della valuta-
77 Tale disposizione stabilisce che la congruità, in relazione all’accesso all’«assegno di ricollocazione», sia valutata in base ai seguenti principi: «a) coerenza con le esperienze e le competenze maturate; b) distanza dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico; c) durata della disoccupazione; d) retribuzione superiore di almeno il 20 per cento rispetto alla indennità percepita nell'ultimo mese precedente, ov- vero, per i beneficiari di Reddito di cittadinanza, superiore di almeno il 10 per cento rispetto al beneficio massimo fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente ad integrazione del reddito dei nuclei residenti in abita- zione in locazione» (corsivo mio).
78 Così C. BUZZACCHI, Il lavoro. Da diritto a bene, Milano, Xxxxxx Xxxxxx, 2019, p. 37, la quale pone in evidenza «una crescente “rimercantilizzazione” delle attività lavorative, che accentua il valore di scambio delle stesse».
oggettiva svalutazione della rilevanza delle attitudini e delle aspirazioni personali, parametro pur contemplato dalla già citata legge n. 150/2015, a cui la normativa sul Rdc fa espresso rinvio79.
È vero, peraltro, che la stessa previsione di una misura del Rdc, anche per questo in ogni caso apprezzabile, «è in grado […] di costituire un forte disincentivo ad accettare pro- poste lavorative in cui non siano rispettati i minimi salariali dei contratti collettivi»80. Deve, però, considerarsi, in primo luogo, il puntuale rilievo critico che, se, come fa il legislatore, si reputa congrua un’offerta di lavoro (anche se a molte centinaia di chilometri dal luogo di resi- denza, con il corollario di elevati costi da sostenere in ordine alla permanenza sul luogo di lavoro) corredata della remunerazione mensile di 858 Euro, «in caso di famiglie numerose, i genitori sono obbligati a trasferirsi a distanze importanti per accettare un lavoro con un sala- rio che può essere inferiore al RdC spettante al nucleo familiare»81, senza che siano tenute nel dovuto conto neanche le peculiari esigenze dei genitori di figli minorenni. E, più in gene- rale, bisogna rilevare che l’ottica in cui ci si muove pare quella evocata dalla locuzione “nor- me anti-divano”, di pessimo conio politico-giornalistico, espressiva di una marcata diffidenza nei confronti dei possibili destinatari della misura. Non si può certo sottovalutare l’opinione di chi afferma che, considerato, tra l’altro, che sugli effetti concretamente esplicabili dalle norme introdotte è destinato ad incidere in modo significativo la qualità dell’impegno nel potenzia- mento dei servizi per l’impiego, «sarebbe sbagliato e prematuro formulare giudizi critici aprio- ristici su pretese curvature “workfaristiche” della condizionalità nel RdC»82. Cionondimeno, dalle previsioni sopra richiamate sembra trasparire abbastanza chiaramente, a mio parere, una concezione del lavoro che tende ad assumere prevalentemente le sembianze del mero oggetto di un obbligo da adempiere rigorosamente, insieme agli altri obblighi costitutivi del Patto per il lavoro, al fine di poter accedere al (o di poter continuare a godere del) Rdc.
Si tratta di un’idea di lavoro che credo non si possa temere di definire non pienamen- te in linea con quella radicata nel tessuto di una Carta costituzionale come la nostra, la quale individua nel lavoro, quale fondamento della Repubblica, ai sensi dell’art. 1, «un elemento profondamente egalitario e addirittura universalistico» e «un dato insuperabilmente uma- no»83, oltre che il cardine di un modello sociale in cui la persona è «considerata alla luce di
79 X. XXXXX, op. cit., p. 28.
80 X. XXXXXXX, op. cit., 24, il quale nota che «in quest’ottica il reddito è misura che incentiva concreta- mente la responsabilità sociale dell’impresa, e, dunque, se non può dirsi misura attuativa dell’art. 36 della Costi- tuzione, può quanto meno ritenersi collegata con il principio costituzionale, o meglio con il diritto ad una retribu- zione sufficiente e proporzionata».
81 E.M. XXXXXXXXXX, op. cit., p. 616.
82 X. XXXXXXXX, op. cit., p. 19, il quale non manca comunque di notare che «che la condizionalità incorpo- rata nel criterio di congruità testé ricordato risulti sbilanciata su un versante più sanzionatorio che effettivamente promozionale».
83 X. XXXXXXX, Xxxxxx e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, in Argomenti di Diritto del Lavoro, n. 3/2010, p. 634.
dato, infatti, ponendosi al livello della Costituzione, «il significato della nozione di lavoro va […] ricercata a partire da quel nucleo di senso comune rappresentato dall’indivisibile triade degli artt. 1, 2 e 3, secondo comma, Cost.»85.
Il lavoro non è, in altri termini, assunto dalla nostra Costituzione (meramente o anche solo principalmente) come attività da svolgere al mero fine di procurarsi una quantità, più o meno rilevante, di risorse materiali necessarie per condurre la propria esistenza (sotto forma di “retribuzione” da lavoro subordinato o di altro vantaggio economico), né, tanto meno, co- me una “merce” che si compra e si vende all’interno di un “mercato” secondo le cui pure lo- giche se ne decide il prezzo86. Dalla lettura sistematica dei primi quattro articoli della Costitu- zione emerge il volto di un lavoro inteso come via maestra attraverso cui la persona può “svi- lupparsi”, esprimendo se stessa e le proprie potenzialità, e, al contempo, partecipare piena- mente alla vita del Paese, in coerenza con l’idea di relazione persona-società ben delineata dall’art. 3, comma 2, Cost. È questo il lavoro di cui si è voluto fare la pietra angolare del no- stro edificio costituzionale: nel conferire ad ogni possibile espressione della laboriosità uma- na, comprese quelle da sempre considerate invece alla stregua di “pietre di scarto”, la dignità di un valore costituzionale87, è stata affermata l’esigenza, ribadita e specificata poi nelle di- sposizioni del Titolo III della Parte seconda del testo costituzionale, di garantire, in tutti i modi possibili, che le sembianze del lavoro concretamente svolto corrispondano a quelle sopra delineate.
84 C. BUZZACCHI, op. cit., p. 15. Sul lavoro nella Costituzione italiana si veda, in generale, X. XXXXXXXXX, Lavoro (principio costituzionale del), in Enc. Giur., vol. XX, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Treccani, 2009.
85 M.A. GLIATTA, Le misure di sostegno al reddito nel sistema costituzionale di garanzia sociale, in X. XXXXXX (a cura di), La doverosità dei diritti: analisi di un ossimoro costituzionale?, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, p. 234.
86 Riflettendo sul significato costituzionale del lavoro e sul ruolo svolto dallo Statuto dei lavoratori del 1970 in vista del concreto inveramento di tale significato, X. XXXXXXXXX, Dalla cittadinanza industriale alla cittadi- nanza industriosa, in X. XXXXXXXXX (x xxxx xx), Xx Xxxxxxxxxxxx, 00 anni dopo, Xxxx, Xxxxxx, 0000, p. 175, afferma che «issandosi nelle zone alpine del diritto costituzionale fino a diventare, da noi, il formante dello Stato, il lavoro è entrato nell’età della sua de-mercificazione», aggiungendo che «non era mai successo che il diritto del lavoro – né quello legificato né quello giurisprudenziale né quello di cui è artefice il sindacato – fosse sospinto a ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino».
87 C. MORTATI, Art. 1, in Commentario alla Costituzione, a cura di X. XXXXXX e continuato da X. XXXXX- RUSSO, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1975, p. 12, evidenzia bene il ruolo storico dei processi di emancipazione socio-politica di fasce amplissime della popolazione quale base fattuale delle trasformazioni poi impresse nella Carta costituzionale ricorda, a proposito del lavoro quale fattore fondativo della Repubblica, che
«porre a fondamento dell’assetto sociale un determinato valore si risolverebbe in vana formula se non si avesse riguardo alle forze sociali portatrici degli interessi ad esso collegati e pertanto sollecitate ad operare a suo soste- gno e difesa», interessi storicamente corrispondenti, sebbene assunti dalla Costituzione in una prospettiva non restrittivamente classista (ma volta a valorizzare ogni genere di lavoro), agli interessi di quella «parte della popo- lazione che, pur più numerosa, rimaneva assoggettata da una situazione di inferiorità, bene espressa dalla de- nominazione di “proletariato” che la contrassegnava». Come di recente rilevato da X. XXXXXXXXXXX, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Torino, Einaudi, 2013, p. 13, «quello che, all’inizio della storia, era un criterio di discriminazione dalla vita politica – l’essere lavoratore – è diventato fondamento della vita comune, della res publica. È diventato il principio dell’inclusione».
del lavoro inteso, oltre che come diritto, (anche) come dovere, dimensione che si rivela alla lettura dell’art. 4, comma 2, Cost., ai sensi del quale «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Ed è impossibile non concordare con chi af- ferma che «la scelta di costruire il lavoro anche come dovere si giustifica innanzitutto sull’assunto della sua centralità etica: il lavoro è l’espressione primaria della partecipazione del singolo al vincolo sociale ed è attraverso il lavoro che ciascuno restituisce alla società, in termini di progresso generale, ciò che da essa ha ricevuto e riceve in termini di diritti e di servizi, contribuendo a costruire e rinsaldare il comune vincolo sociale»88.
Il lavoro così configurato si qualifica, però, in contrapposizione, sul piano storico e giuridico-costituzionale, ad ogni genere di assetto socio-economico basato appunto non sul lavoro, ma sulla rendita e dunque – non va mai dimenticato lo strettissimo legame tra le af- fermazioni della democraticità della Repubblica e del suo fondarsi sul lavoro – sul potere del- la ricchezza connessa con la (mera) proprietà89. In altri termini, in contrapposizione, nell’ottica generale dell’art. 1 Cost., a quella del lavoratore si pone la figura del rentier, il qua- le vive, in quanto tale, senza lavorare, contando sul potere che deriva dalla ricchezza impro- duttiva (potere in grado di proiettare la sua forza anche sulla sfera pubblica), non, tout court, quella di chi non corrisponde, per le più variegate ragioni, alla definizione di lavoratore stricto sensu. Ecco che dunque il significato dell’art. 4, comma 2, Cost. deve enuclearsi, raccordan- do tale disposizione con (e leggendola alla luce del)la più generale enunciazione del princi- pio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., a sua volta in stretta connessione con il principio per- sonalista (artt. 2 e 3, comma 2, Cost.), e riconoscendo il giusto rilievo al fatto che la norma desumibile dal secondo comma dell’art. 4 incorpora chiaramente anche il profilo della libertà e del rispetto delle attitudini e delle possibilità di ciascuna persona e, in ultima analisi, della dignità che la connota come essere umano.
Si tratta di un principio, quello della necessaria garanzia della dignità umana, che, in coerenza con la “logica della concretezza”, molto ben delineata dall’art. 3, comma 2, Cost.,
88 F. XXXXXXXXXX, Principi costituzionali e reddito minimo di cittadinanza, in xxxxxxxxxxx.xx, n. 5/2019, p. 23.
89 Così X. XXXXXXXXXX, Democrazia, antifascismo, lavoro, in X. XXXXXXXXX (x xxxx xx), Xx Xxxxxxxxxxxx, 00 anni dopo, cit., p. 46, il quale, dopo aver ricordato che, secondo l’opinione prevalente, il lavoro di cui all’art. 1 Cost. è il lavoro di tutti (e dunque ogni genere di lavoro), ricorda altresì che la Repubblica, all’art. 4, comma 2, sancisce il dovere di concorre «al progresso materiale e spirituale della società», afferma: «Con chi si polemizza in tal modo? Qual è il modello economico – e la figura sociale – censurato, presentato come radicalmente contra- rio al testo costituzionale? Si tratta del modello della rendita: sulla quale peraltro si erano basate pressoché tutte le società nei secoli precedenti. E cosa significa mettere al centro il lavoro e non la rendita? Questo evidenzia l’intenzione di permettere alle persone, con il proprio lavoro – chi in veste di imprenditore, chi di lavoratore subor- dinato o autonomo – di incidere sulla società e modificarla». Cfr. anche X. XXX, Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi, in G.G. BALANDI-X. XXXXXXXX, Diritti e lavoro nell’Italia repubblicana, cit., pp. 280-281, il quale afferma che «quando è stato scritto l’art. 1, “La Repubblica si fonda sul lavoro”, si intendeva in fondo esprimere […] che lo Stato nuovo, repubblicano e democratico, non si sarebbe fondato più sulla proprietà privata e sul suf- fragio censitario, come era stato per la monarchia liberale; non più – come avrebbe detto Xxxx – una “dittatura” della borghesia e della proprietà, che si regge sull’esclusione delle masse popolari dalla rappresentanza e dei diritti sociali dagli scopi dello Stato, ma un regine che nell’integrazione politica e nella “missione” sociale dell’eguaglianza sostanziale avrebbe riconosciuto i suoi capisaldi».
“valore” di ciascuna persona, nella sua unicità di “homme situé”, lungi, dunque, da approcci che indulgano a indifferente astrattezza anche nel riempire di contenuti la nozione di dovere di cui all’art. 4, comma 2, Cost. Inoltre, se è vero che, nella Costituzione, «elemento trainante dei diritti, il lavoro è anche il veicolo della responsabilità sociale del soggetto» o, detto in altre parole, esso è «il punto di equilibrio fra soggettività e socialità, fra libertà e responsabilità, fra diritti e doveri»90, non deve giungersi alla conclusione che la responsabilità possa esercitarsi soltanto attraverso (la disponibilità al)l’inserimento nel “mercato” del lavoro. È necessario in- fatti riconoscere che il secondo comma dell’art. 4 Cost. non si riferisce (esclusivamente) al lavoro stricto sensu, bensì, come è stato affermato, più ampiamente, «all’impegno del polítēs per le sorti della politéia, non in termini di rapporto sinallagmatico, di necessaria corrispettivi- tà tra prestazione e controprestazione, per cui a un fare o un dare deve corrispondere ne- cessariamente un avere», dal momento che «il concorso al progresso della società può ben realizzarsi […] attraverso lo svolgimento di un’attività o una prestazione che non si traduca, necessariamente, in rapporto lavorativo»91, non essendo casuale il mancato utilizzo del ter- mine “lavoro” nella disposizione in esame92.
Valorizzandosi il nesso dell’art. 4, comma 2, Cost. con l’inciso conclusivo dell’art. 1, comma 1 (relativo al lavoro come fondamento della Repubblica) e con l’art. 3, comma 2, espressivo di una virtuosa circolarità tra cittadinanza (e quindi partecipazione democratica alla vita del Paese) e lavoro93, è stato evidenziato come la Costituzione italiana abbia deter- minato un «rovesciamento del binomio tra ruolo sociale e libertà»94: se in passato era lo sta-
90 Così P. XXXXX, op.cit., p. 30. Analogamente, X. XXXXXXX, Il diritto dimenticato. Il lavoro nella costitu- zione europea, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2007, p. 27, afferma che nel testo costituzionale italiano «il lavoro è conside- rato non come una qualsiasi attività dell’uomo ma come strumento di realizzazione della personalità e di adem- pimento del dovere di solidarietà». Di recente, sul lavoro nella Costituzione, come diritto e come dovere, si veda
X. XXXXXX, Non ossimoro, ma endiadi: il diritto-dovere al lavoro, in X. XXXXXX (a cura di), La doverosità dei diritti. Analisi di un ossimoro costituzionale?, cit., pp. 181 ss.
91 X. XXXXXXX, Eguaglianza e pari dignità sociale: Appunti per una lezione, in Revista juridica de los De- rechos Sociales, n. 2/2013, p. 17. Si veda anche X. XXXXXXX, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici pote- ri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Dir. Pubbl., n. 2/2011, pp. 411- 412, ove si afferma che «il secondo comma riferisce la doverosità allo svolgimento, “secondo le proprie possibilità e la propria scelta” di “una attività o una funzione” – non dunque, necessariamente, di una prestazione lavorativa
– che concorra al progresso materiale o spirituale della società», costituendo semmai il fondamento di quel prin- cipio di sussidiarietà orizzontale poi formalizzato nell’art. 118, ultimo comma, Cost.» (corsivi dell’autore).
92 Il fatto che il lavoro (strettamente inteso) costituisca un sottoinsieme dell’insieme più ampio ricom- prendente tutte le attività con cui si può concorrere al progresso materiale e spirituale della società è evidenziato molto bene da G. U. XXXXXXXX, Lavoro e Costituzione, in Dir. Pubbl., n. 1/2009, pp. 25-26, il quale nota che «nella logica del testo costituzionale i lavoratori, quale che sia la definizione del termine lavoro o lavoratori, svolgono comunque “una attività o una funzione che concorre al progresso materiale o spirituale della società” […], mentre è ipotizzabile l’inverso, e cioè che vi siano persone le quali svolgono “una attività o funzione che concorre, etc.”, ma non sono qualificabili lavoratori», il che significa che «in altre parole l’insieme “lavoratori” è compreso entro l’insieme “persone che svolgono una attività o funzione, etc.”, che dunque è un insieme più ampio».
93 Una circolarità ben evidenziata anche da X. XXXXXXXXX, I sentieri costituzionali della democrazia, Ro- ma, Xxxxxxx, 2019, p. 64, il quale afferma che «il lavoro è il fondamento della Repubblica democratica proprio perché rappresenta il contributo che ogni cittadino è chiamato a dare alla costruzione cooperativa della conviven- za».
94 X. XXXXXX, Dal «principio lavorista» al diritto costituzionale sull’attività umana: xxxxx xxxxxxx, in M.
DELLA MORTE-F.R. DE XXXXXXX-X. XXXXXXXXX (a cura di), L’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione dopo settant’anni, Bologna, il Mulino, 2020, p. 175.
libertà socio-economicamente “condizionata” e, dunque, per pochi o comunque certamente non per tutti), adesso prioritaria è la libertà (della persona in quanto tale, cioè di tutti), attra- verso l’esercizio della quale ciascuno costruisce il proprio ruolo sociale, contribuendo al pro- gresso della società. In quest’ottica, il lavoro non solo si libera dallo stigma negativo che per secoli aveva contraddistinto chi “era costretto a lavorare per vivere”, ma trova collocazione costituzionale nell’ambito della più ampia sfera di un’«attività umana» («attività» è il termine adoperato dall’art. 4, comma 2, Cost.) latamente considerata, in quanto tale libera da anco- raggi ad una logica puramente economicistica, dal momento che «il termine attività umana rimanda a tutto lo spettro della vita, ben oltre le funzioni meramente economiciste»95. Una collocazione, questa, che colora delle tonalità sopra richiamate la stessa statuizione sul fon- damento lavoristico della Repubblica di cui all’art. 1 Cost., la cui lettura è chiamata, a sua volta, ad oltrepassare i confini del riferimento al lavoro stricto sensu, stimolando, come in dottrina si è rilevato, una lettura meno tradizionalmente “lavoristica” dello stesso art. 35, comma 1, Cost., ai sensi del quale «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed ap- plicazioni»96.
Alla luce di quanto appena detto deve considerarsi il rapporto fra diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.), di cui la Repubblica deve impegnarsi ad assicurare l’effettività, e dovere di cui all’art. 4, comma 2, Cost., anche ai fini, che qui precipuamente interessano, di una va- lutazione da formularsi in ordine a misure finalizzate a rimediare agli effetti della disoccupa- zione e/o a contrastare la povertà, come nel caso del Rdc. E una lettura sistematica dei prin- cipi costituzionali rilevanti quale quella sopra delineata induce a rivolgere uno sguardo, quan- to meno, fortemente perplesso nei confronti di previsioni come quelle che disciplinano, da questo punto di vista, l’accesso al Rdc. Esse, in sostanza, rileggendo il diritto-dovere di svol- xxxx un’attività che concorra al progresso materiale e spirituale della società all’interno di coordinate concettuali evocate dalla nozione di “occupabilità” e “attivazione”, finiscono per collocarlo pressoché interamente entro l’area dominata dai “principi del mercato” (del lavoro) e dalle esigenze dello stesso, a cui l’aspirante beneficiario della misura deve essere prepara- to a rispondere prontamente, al fine di non perdere il godimento della misura di sostegno al reddito.
In questo modo, però, si finisce per intaccare quell’unità sistematica tra le istanze ri- conducibili ai principi personalista, solidarista e lavorista di cui si è provato ad evidenziare i tratti essenziali e si tende a collocarsi così al di fuori dell’ottica del lavoro/attività umana co- me via di promozione umana e di inclusione piena e attiva nella vita della comunità a cui si
95 X. XXXXXX, op. cit., p. 177.
96 Cfr. in tal senso X. XXXXXXX, La Costituzione interpretata dalle parti sociali, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, n. 2/2018, p. 13, la quale afferma che «l’art. 35 Cost. imprime all’ordinamento una spinta verso un’opera di costante “costituzionalizzazione del lavoro”, inteso quest’ultimo come “categoria” dotata della massima estensione, così da poter abbracciare i lavoratori subordinati e quelli autonomi, ma anche «gli occupati, i sottoccupati, gli inoccupati e coloro che perdono o rischiano di perdere il loro posto»40: tutti i lavoratori, secondo la formula con cui l’art. 3, c. 2, Cost. si riferisce tanto a coloro che, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, contribuiscono al progres- so materiale o a quello spirituale della collettività (art. 4, c. 2, Cost.), quanto a coloro che vorrebbero contribuirvi, ma non ci riescono per la presenza di ostacoli “di ordine economico e sociale”».
te con un’interpretazione dei succitati principi e neanche in grado, per altro verso, di porsi in sintonia con evidenti risvolti di recenti trasformazioni dei tipi e dei modi di lavoro, che sono andate nel senso, tra l’altro, di una diffusa precarizzazione dello stesso e di una accentuata frammentazione degli statuti contrattuali. Trasformazioni che dovrebbero spingere a focaliz- zare l’attenzione sulla «protezione dello status di cittadinanza indipendentemente dallo svol- gimento del lavoro “regolare” la protezione del quale è stata memorizzata da intere genera- zioni nell’arco di due secoli di esperienza industriale e anzi indipendentemente dalla stessa occupabilità»97, così da contribuire ad arginare, e se possibile, ad rovesciare quello che è stato definito un processo di «de-costituzionalizzazione del lavoro», in grado di incidere non solo sulle condizioni materiali delle persone, ma sulla stessa tenuta del tessuto democratico di una comunità98. Si tratta di una visione del lavoro, quella economicistica sopra richiamata, che pare essere stata sostanzialmente accolta (anche) dalle norme sul Rdc adesso oggetto di attenzione e alla luce della quale – si è rilevato in dottrina – «il dovere di lavorare si tra- sforma […] in una sorta di potere di disciplinamento dello Stato nei confronti del lavoratore il quale, se decide di non mettere a remunerazione la propria “occupabilità” al fine di percepire un reddito, potrà certamente usufruire di qualche misura di sostegno sociale, ma questa pre- stazione gli verrà erogata temporaneamente e soltanto a patto che si impegni a trovare al più presto un’occupazione»99.
Tale visione, assiologicamente distante dalle istanze valoriali espresse dai principi costituzionali e dall’idea di lavoro (e di cittadinanza) delineata dalla Carta del 1948, risulta poi totalmente inadeguata a riconoscere, come è doveroso fare, il dovuto rilievo all’articolazione interna dei potenziali destinatari del Rdc, tra cui, ferma la comune qualificabilità come “pove- ri” (secondo i criteri a tal fine introdotti dal legislatore), si collocano persone, a seconda dei casi, più o meno assimilabili a quelli che possono definirsi disoccupati, per così dire, “ordina- ri”, in rapporto ai quali cioè i profili strettamente occupazionali (come per i fruitori degli am- mortizzatori sociali) svolgono un ruolo preminente, se non esclusivo, nel definirne la condi- zione. Siamo di fronte ad un’articolazione che impone, a mio parere, di diversificare, almeno in parte, anche le valutazioni operabili in ordine alle norme sul Rdc che delineano il volto del- la condizionalità ivi prevista.
97 X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 133.
98 Così X. XXXXXXX, op. cit., p. 15, la quale nota che «il venir meno della sicurezza socio-economica per le fasce della popolazione impreparate ad affrontare una simile evenienza, unitamente alla diffusione della preca- rietà dovuta alla frammentazione e flessibilizzazione delle esperienze lavorative, hanno […] determinato il propa- garsi di un senso di impotenza e di frustrazione: chi si scopre impoverito senza nemmeno capire bene perché e/o si ritrova alla perenne ricerca di un lavoro, constatando l’esiguità delle proprie opportunità di condurre “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), perde la fiducia nelle istituzioni e smarrisce la sensazione dell’appartenenza ad una comunità» e, quale riga oltre, considera che «la “de-costituzionalizzazione del lavoro”, insomma, non comporta soltanto i disagi materiali legati all’espansione delle disuguaglianze socio-economiche per una parte (peraltro, non esigua) della popolazione, ma si riverbera in un’incisione preoccupante sul progresso spirituale della collettività (art. 4, c. 2, Cost.) e sul grado di democraticità complessiva dell’ordinamento».
99 X. XXXXXX, Il lavoro fuori dalla Costituzione. Un percorso di lettura nella più recente dottrina costituzio- nalistica, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, n. 1/2020, pp. 39-40.
In relazione a disoccupati che si sono definiti “ordinari” mi parrebbe (costituzional- mente) accettabile l’operatività di previsioni che raccordino l’accesso ad un’erogazione mo- netaria con la predisposizione di percorsi ispirati alla logica dell’“attivazione”. Ciò almeno en- tro certi limiti. La previsione infatti di una rigida condizionalità declinata in senso workfaristi- co, il rispetto dei cui vincoli sia presupposto di accesso a prestazioni (quasi sempre peraltro, fuori dall’area del contrasto alla povertà, di natura previdenziale-contributiva) qualificate co- me corrispondenti ai livelli essenziali di cui all’art. 117, comma 2, lettera m), Cost. non sem- brerebbe pienamente coerente con la stessa logica della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti (sociali). Ammettere la revoca della erogazione monetaria co- me sanzione per la violazione di obblighi previsti dal patto di servizio, significa, in sostanza, ammettere la possibilità di lasciare il diritto senza garanzia con riferimento al suo livello es- senziale, facendosi implicitamente leva su una lettura dell’art. 4, comma 2, Cost., che rischia di porre tale disposto non in armonia, bensì in conflitto con il primo comma del medesimo articolo della Costituzione, letto alla luce del principio personalista, soprattutto se non è assi- curata effettività al diritto della persona ad un lavoro dignitoso, rispettoso dei diritti “nel” lavo- ro e confacente alle proprie attitudini100. Come non si è mancato di evidenziare in dottrina, dall’adozione di un approccio marcatamente workfaristico alle politiche occupazionali (e a quelle di contrasto alla povertà), pare trasparire la forza di un approccio che ad un atteggia- mento moralistico, «che intende chiaramente colpevolizzare l’inoccupato per la situazione in cui si trova»101 (profilo su cui si tornerà più ampiamente in seguito) associa l’intento di ridurre il costo degli interventi102.
Se accordiamo il dovuto rilievo alla collocazione della normativa sul Rdc nel contesto delle politiche contro la povertà, non si può naturalmente negare pregio costituzionale alla collocazione del reinserimento lavorativo tra gli obiettivi delle politiche (e delle misure) di con- trasto alla povertà e all’esclusione sociale. Trattasi inoltre, come è noto, di una finalità su cui si insiste molto anche nell’ambito di documenti di varia natura e valenza adottati al livello dell’Unione europea. Va, però, altresì adeguatamente evidenziato che destinatari della misu- ra di cui si discute non sono quelli che più sopra si sono definiti disoccupati “ordinari”, ma appunto persone disoccupate/inoccupate/sottooccupate in condizioni di povertà. Si tratta di condizioni alle quali può connettersi (e molto spesso si connette) una pluralità di criticità e molti di quegli «ostacoli» a cui si riferisce l’art. 3, comma 2, Cost.
100 Così C. BUZZACCHI, op. cit., p. 94, la quale afferma, a proposito delle misure di sostegno al reddito destinate ai disoccupati, basate sull’applicazione del principio di condizionalità, che «da un lato il meccanismo può essere giudicato come assai virtuoso, perché volto a stimolare i fruitori di provvidenze finanziarie a farsi re- sponsabili ed artefici di un percorso di reinserimento nel contesto lavorativo. E tuttavia esso appare meno virtuo- so nel momento in cui non funziona da sistema incentivante, ma produce veri e propri effetti sanzionatori in as- senza di comportamenti attivi e responsabili dei soggetti disoccupati».
101 X. XXXXXXX, Contrasto alla povertà e reddito di cittadinanza: spunti critici, in X. XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXX, Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 118.
102 X. XXXXXXX, op. cit., p. 118. Analogamente, C. XXXXXXXXX, op. cit., p. 94, evidenziando e stigmatizzan- do gli effetti dell’applicazione del principio di condizionalità, nota che «nel momento in cui le prestazioni di politica attiva non vengono fruite dagli aspiranti lavoratori, tali diritti possono essere negati, e in tal modo il vero vantaggio conseguito è quello di una minor spesa pubblica, che si configura come l’effettiva priorità della politica del lavoro nella sua interezza».
Come è stato infatti evidenziato, «il target dei cittadini a cui il Governo dichiara di vo- ler rivolgere primariamente il Reddito di cittadinanza presenta problematiche complesse, nel cui ambito la mancanza di occupazione è solo una delle cause della condizione di povertà (ad essa si aggiungono spesso problemi familiari – si pensi a soggetti a capo di famiglie mo- noparentali e con più figli giovani a carico –, malattie gravi o croniche, emarginazione, bas- sissimi livelli di istruzione al confine con l’analfabetismo di ritorno, scarsa conoscenza della nostra lingua ed a volte, nei casi estremi, anche problemi di tossicodipendenza o alcoli- smo)»103. A fronte di ciò, l’impianto normativo predisposto dal decreto-legge n. 4/2019, incar- dinato sull’idea della assoluta preminenza del reinserimento lavorativo come via d’uscita dal- la povertà, «è idoneo a dispiegare i suoi effetti essenzialmente in favore di un segmento (probabilmente limitato) dei destinatari» del Rdc, apparendo le misure introdotte utili «per sostenere la ricollocazione di soggetti colpiti da disoccupazione “fisiologica o frizionale”, cioè quei lavoratori che, pur in possesso di competenze ricercate dalle imprese, per le normali vicende del mercato sono temporaneamente in disoccupazione»104. A questo tipo di destina- tari potrebbe giovare il sistema di incentivi economici per le imprese che assumono benefi- ciari del Rdc, servizi di orientamento e servizi intensivi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro disciplinati dalla normativa sul Rdc, reputati nel complesso presumibilmente di scarsa efficacia, invece, per la gran parte dei destinatari della misura di cui si discute105.
Lo stesso decreto-legge n. 4/2019 mostra, peraltro, consapevolezza di una simile ete- rogeneità interna dei possibili beneficiari della misura, nella parte dell’art. 4 in cui, come sap- piamo, accanto a quello incentrato sul Patto per il lavoro, individua un percorso differente, pensato proprio per i beneficiari del Rdc meno corrispondenti alla species dei disoccupati “ordinari”. Si tratta di quella parte della succitata disposizione che ha fatto affermare alla Cor- te dei conti che «l’articolo in questione sembra […] costituire quello spartiacque senza il qua- le politiche di contrasto alla povertà attraverso l’aiuto per la ricerca di un lavoro rischiano di essere inefficaci essendo la povertà un problema che va spesso oltre il tema del lavoro e richiede dunque soluzioni in linea con la sua multidimensionalità»106. Ed è ancora la Corte dei conti a rilevare che «con l’articolo 4 del DL e la sostanziale separazione del programma
103 P.A. XXXXXX, Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro, tra ambizioni e gracilità, in E. INNO- CENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX, Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 241.
104 P.A. XXXXXX, op. cit., p. 255.
105 Verso questa valutazione conducono, tra l’altro, oltre ai limiti di fondo dell’approccio complessivo adottato dal legislatore, la constatazione dell’inadeguatezza degli interventi in tema di formazione professionale e della discutibilità di quanto previsto a proposito dell’utilizzo delle risorse finanziarie destinate all’acquisto di servizi di assistenza intensiva per la ricerca del lavoro, veicolate attraverso l’Assegno di ricollocazione conferito ai sotto- scrittori del Patto per il lavoro. In conseguenza della previsione, ad opera di una delibera dell’ANPAL (la n. 5/2019) che l’importo dell’Assegno di ricollocazione sia riconosciuto e assegnato al soggetto erogatore del servi- zio in una determinata quantità (variabile in base ad una serie di parametri) in caso di conseguimento del risultato occupazionale e soltanto invece limitatamente ad una quota fissa inferiore, a copertura delle azioni minime realiz- zate, in caso di mancato conseguimento del risultato, senza che la pubblica amministrazione si accolli una parte significativa del rischio. Secondo P.A. XXXXXX, xx.xxx., x. 000, xxxx xxxx xx xxx, xx può ragionevolmente ritenere che
«nessun operatore accreditato si accollerà il rischio di investire su costosi servizi intensivi per i soggetti con scar- se probabilità statistiche di ricollocazione», cioè appunto proprio per i beneficiari tipici dell’Rdc.
000 XXXXX XXX XXXXX. SEZIONI RIUNITE IN SEDE DI CONTROLLO, Rapporto 2019 sul coordinamento della finan- za pubblica, Roma, 2019, p. 154.
di trasferimento di spesa sociale in due tronconi, uno per il finanziamento del contrasto dell’esclusione sociale e l’altro per quello delle politiche attive per il lavoro e la formazione, è stato attenuato il rischio di confondere la lotta contro la povertà con le politiche attive per il lavoro», cosa che non può che essere approvata, dal momento che «ai fini del successo del- le politiche avviate è cruciale tenere distinti i due aspetti, promuovendo, quando necessario, la dovuta interazione, ma essendo consapevoli, al contempo, che si tratta di problemi dalle separate sfaccettature per i quali occorrono strumenti diversi»107.
Ma, appunto, si può affermare (e, nel caso, in quali termini) che il legislatore sia riu- scito a tenere adeguatamente distinti questi aspetti, caricati cumulativamente (e, probabil- mente, con eccesso di pretese quanto agli obiettivi da raggiungere) sulle spalle di un unico provvedimento normativo? E, soprattutto, quale idea della povertà e del contrasto alla pover- tà emerge complessivamente dall’architettura normativa di quest’ultimo? Su tali questioni è necessario soffermarsi, approfondendo aspetti non ancora richiamati, o sinora soltanto ac- cennati.
7. Quale (contrasto alla) povertà nella normativa sul Rdc?
Nelle pagine precedenti hanno cominciato a delinearsi i principali tratti identificativi dell’impianto della normativa relativa al Rdc, non privi di limiti e criticità. È adesso il caso di approfondire l’analisi di tale impianto, ponendo mente in maniera più attenta alla finalità co- stituzionale delle misure di contrasto alla povertà, comprese quelle di sostegno al reddito, coincidente con la garanzia, a favore delle persone che versano in condizione di povertà, di quanto risulti indispensabile per condurre una vita libera e dignitosa, ove il lavoro non vi sia o non basti.
Un primo aspetto da considerare, in via preliminare, concerne la maniera in cui la normativa sul Rdc declina attuativamente la clausola di cui all’art. 117, comma 2, Cost., sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. A tal proposito, rilevato che il decreto- legge n. 4/2019 qualifica come livelli essenziali delle prestazioni sia il Rdc complessivamente considerato (art. 1, comma 1), sia «il Patto per il lavoro e il Patto per l’inclusione sociale e i sostegni in essi previsti, nonché la valutazione multidimensionale che eventualmente li pre- cede» (art. 4, comma 14), è stato notato che gli stessi sono assoggettati ad «una condiziona- lità “doppia”». Si tratta, da una parte, del condizionamento, tout court, al limite delle risorse finanziarie disponibili, a cui entrambe le disposizioni sopra citate fanno riferimento108, ciò sol- levando legittimi dubbi circa la compatibilità con il principio, ribadito nella recente giurispru-
000 XXXXX XXX XXXXX. SEZIONI RIUNITE IN SEDE DI CONTROLLO, op.cit., p. 163.
108 L’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 4/2019 stabilisce, nel suo ultimo periodo, che «il Rdc costitui- sce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili» e analoga previsione è reperibile nell’art. 4, comma 14.
denza costituzionale109, della subordinazione delle esigenze di bilancio a quella di garanzia dei diritti fondamentali incomprimibili (e non viceversa). Si tratta, dall’altra, del condiziona- mento «rispetto alla predisposizione di una serie di risorse organizzative, professionali, uma- ne»110. Ne deriva un’evidente incertezza quanto alla garanzia dell’effettività di un diritto costi- tuzionale, di cui il legislatore mette espressamente ne conto la possibile ineffettività, dal mo- mento che, all’art. 12, comma 9, dopo la statuizione che «in caso di esaurimento delle risor- se disponibili per l'esercizio di riferimento […], con decreto del Ministro del lavoro e delle poli- tiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro trenta giorni dall'esaurimento di dette risorse, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimo- dulazione dell'ammontare del beneficio», si trova quella, inequivocabile, che «nelle more dell'adozione del decreto di cui al terzo periodo, l'acquisizione di nuove domande e le eroga- zioni sono sospese» (corsivo mio).
L’estrema criticità della subordinazione della garanzia dei livelli essenziali al vincolo delle risorse disponibili risulta, oltre che molto preoccupante per le ragioni appena richiama- te, purtroppo coerente con una tendenza di lungo periodo in tema di garanzia dei livelli es- senziali delle prestazioni, a fronte dei noti e marcati divari inter-territoriali quanto a risorse finanziarie ed organizzative finalizzate alla tutela dei diritti sociali, che il legislatore statale non è stato nel corso del tempo in grado di contribuire efficacemente a colmare111. E sempre in tema di rapporti tra Stato e autonomie territoriali, non si può poi trascurare un riferimento al funzionamento del sistema di governance delle politiche di contrasto alla povertà, che, evidentemente, incide anche sull’an e sul quomodo della garanzia dei (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i) diritti “governati” mediante i meccanismi propri del succitato siste- ma. Deve rilevarsi, in particolare, che, con il decreto-legge n. 4/2019 sono state abrogate le disposizioni del d.lgs. n. 147/2017 relative al Piano nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale (art. 8), nonché quelle riguardanti le funzioni di Comuni, ambiti territo- riali, Regioni e Province (artt. 13 e 14). In questo modo, si è privata, tra l’altro, la «Rete della protezione e dell’inclusione sociale», quale «organismo di coordinamento del sistema degli interventi e dei servizi sociali di cui alla legge n. 328 del 2000» (art. 21), del «Comitato per la lotta alla povertà» (art. 16), sostituito, nelle vesti di «organismo permanente tra i diversi livelli di governo», da una più modesta «cabina di regia», “nascosta” in un comma aggiuntivo dell’art. 21 (il comma 10-bis), quasi a voler attestare, anche in questo modo, la dequotazione
109 L’affermazione di tale principio è, come è noto, reperibile in maniera chiara nella sentenza n. 275/2016, laddove si afferma che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (punto 11 del Considerato in diritto).
110 X. XXXXXXX, La via italiana al contrasto alla povertà: una prima analisi della riforma che ha introdotto il Reddito di cittadinanza, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 68.
111 Così X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 95, la quale rileva che «le modalità sinora adottate per la determinazio- ne di livelli essenziali di assistenza in ambito sociale vedono ancora prevalere le istanze di razionalizzazione, o meglio di contenimento della spesa pubblica, rispetto a quelle di perequazione sociale e territoriale e di parità di trattamento». In modo analogo, X. XXXXX, op. cit., p. 33, nota che «deve essere rilevata criticamente la scelta di qualificare – all’interno del medesimo provvedimento – una misura come livello essenziale e al contempo limitar- ne l’erogazione alla sussistenza delle risorse per alimentarla».
del ruolo delle autonomie territoriali al rango di attori di processi decisionali di rilevanza tec- nico-operativa, piuttosto che eminentemente politico-programmatica112.
Se si torna poi a focalizzare l’attenzione specificamente sull’articolazione e sul fun- zionamento del Rdc, emergono ulteriori spunti di riflessione.
In contraddizione con il richiamo all’idea di “personalizzazione” degli interventi, chia- ramente evocata, tra l’altro, in relazione al Patto per l’inclusione sociale, dalla locuzione
«progetto personalizzato» (all’art. 4, comma 13, del decreto-legge n. 4/2019, che rinvia all’art. 6 del d.lgs. n. 147/2017) si pone la persistente inattuazione, a quanto mi consta, dell’art. 3, comma 7, del decreto-legge n. 4/2019, il quale statuisce che «con decreto del Mi- nistro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle fi- nanze, da adottarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono stabilite le modalità di erogazione del Rdc suddiviso per ogni singolo componente maggio- renne del nucleo familiare […]»113: in conseguenza di ciò, risulta compresso il diritto all’autonomia personale nell’uso delle risorse dei componenti del nucleo familiare diversi dal richiedente e rischia di risultare di fatto potenzialmente leso, tra l’altro, il diritto di entrambi i genitori ad accedere, in posizione di parità, a risorse indispensabili a fare fronte, oltre che alle proprie esigenze personali, alle necessità dei figli (con tendenza al determinarsi, presu- mibilmente, di squilibri ai danni delle persone di genere femminile).
Un profilo che va poi senz’altro preso in considerazione si connette alla previsione (di cui all’art. 3, comma 6, del decreto-legge n. 4/2019) ai sensi della quale il Rdc, riconosciuto per il periodo durante il quale ne sussistano i requisiti in capo al beneficiario «e, comunque, per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi», «può essere rinnovato, previa sospensione dell’erogazione del medesimo per un periodo di un mese prima di ciascun rin- novo» (corsivo mio), sospensione che «non opera nel caso della Pensione di cittadinanza». Come è stato condivisibilmente rilevato114, desta perplessità la previsione della sospensione dell’erogazione del Rdc per un mese, in caso di rinnovo. Pare infatti molto discutibile che si sia prevista una sospensione dell’erogazione del Rdc (non è chiaro se la sospensione ri- guardi anche della componente non monetaria dello stesso), con la conseguenza eventuale di lasciare privo di tutela il diritto, pur se per un breve periodo, anziché organizzare il proce- dimento finalizzato all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il rinnovo (e, in particolare, dei requisiti reddituali e patrimoniali per l’accesso al Rdc), in maniera tale da as- sicurare continuità nel godimento del diritto (naturalmente, in caso di permanenza dei requi- siti). Tale previsione infatti, oltre che dalla volontà di ottenere un risparmio in termini finanzia- ri, pare essere motivata solamente dall’intenzione di “sanzionare” chi, pur avendo ottenuto il
112 X. XXXXXXX, op. cit., pp. 60-61, nota che, a fronte della evidente perdita di ruolo complessivo, nel si- stema del Rdc, da parte delle autonomie territoriali, pur dotate, come è noto, di un ruolo essenziale in materia di politiche sociali, organismi come la Rete della protezione e dell’inclusione sociale e la (nuova) cabina di regia «se da un lato consentono di valorizzare in modo strutturale le connessioni con le politiche per il lavoro, dall’altra han- no una funzione più tecnico-operativa che non di governo complessivo delle politiche, dimensione che resta com- pletamente sotto traccia nel nuovo assetto che si va delineando».
113 In riferimento alla Pdc, la stessa disposizione invece prevede essa stessa che «la Pensione di citta- dinanza è suddivisa in parti uguali tra i componenti il nucleo familiare».
114 X. XXXXX, op. cit., p. 33.
Rdc, “si sia ostinato a restare povero”, È inutile dire come ciò appaia in netta contraddizione con le istanze sottese alla garanzia di un diritto pur riconosciuto, stante la sussistenza dei presupposti legislativamente previsti, in quanto funzionale alla protezione di un bene costitu- zionalmente tutelato.
Ulteriori profili di criticità quanto alla coerenza dell’impianto normativo del Rdc con le istanze sottese tanto al principio personalista quanto a quello solidarista (ma anche a quello lavorista rettamente inteso) emergono focalizzando nuovamente l’attenzione sul nodo della condizionalità, in rapporto al funzionamento dell’articolato sistema di sanzioni previste dal decreto-legge n. 4/2019 per violazione degli obblighi posti in capo ai beneficiari della misura.
Innanzitutto, l’art. 7, relativo alle «sanzioni», fa derivare (come già faceva, del resto, la normativa sul ReI), sia nella cornice del Patto per il lavoro sia in quella del Patto per l’inclusione sociale, da comportamenti tenuti anche da un solo componente del nucleo fami- liare la comminazione appunto delle sanzioni previste (comprese la revoca del beneficio o la decadenza dallo stesso), con conseguenze a carico di tutti i componenti, compresi quelli che non hanno in alcun modo concorso a tenere i comportamenti sanzionati. Come in proposito condivisibilmente sottolineato, «se i beneficiari sono una pluralità di persone, come nella maggior parte dei casi, alcune delle quali magari in condizioni di maggiore vulnerabilità, co- me i figli minori, non sembra opportuno né ragionevole privare di un sostegno economico l’intero nucleo per il comportamento omissivo o negligente di un suo solo membro, soprattut- to alla luce degli obiettivi posti a fondamento dell’intervento assistenziale complessivamente inteso»115.
Come già precedentemente accennato, l’apparato di sanzioni introdotto dal decreto- legge n. 4/2019 è particolarmente ampio e articolato. Si tratta, in primo luogo, di sanzioni da comminarsi in relazione ad una serie di reati (false attestazioni e di omesse informazioni e comunicazioni), introdotti mediante previsioni che appaiono deficitarie sul piano del rispetto del principio di tassatività/determinatezza delle norme penali116, dalla cui considerazione emerge un atteggiamento duramente (e unicamente) negativo nei confronti di chi lavora “in nero” e percepisce al contempo il Rdc. Tale condizione viene infatti in rilievo soltanto come connessa alla comminazione di pesanti sanzioni, «senza alcuna previsione di interventi di recupero, senza che venga garantito alcun supporto al soggetto e alla sua famiglia, senza alcuna differenziazione in base alla natura e alla gravità della condotta, riassumendo in una stessa previsione penalmente rilevante (dotata, si ripete, di una sanzione durissima che può arrivare fino ad una condanna a sei anni di reclusione), situazioni di diversa importanza e durata»117. Ad essere sanzionate sono, in secondo luogo, violazioni degli obblighi normati-
115 E. INNOCENTI, Continuità e discontinuità nel passaggio dal Reddito di inclusione al Reddito di cittadi- nanza, in E. INNOCENTI-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 98. X. XXXXXXX, op. cit., p. 27, ha in proposito notato che «dietro queste numerose disposizioni, in cui la legge esige un comporta- mento conforme e orientato all’osservanza della norma da parte del singolo, ma con sanzioni a carico di tutti i familiari, si nasconda una forma di condizionamento e di repressione affidata alla famiglia dei comportamenti in- dividuali trasgressivi o devianti».
116 Come notato da X. XXXXXX SCALA, op. cit., p. 13.
117 X. XXXXXXX, op. cit., p. 35, il quale nota che «la condizione del lavoratore irregolare diviene così, in un certo senso, una “colpa”, che vede il lavoratore protagonista e artefice della violazione, e non, invece, vittima e
ciale. E si parla di sanzioni peraltro da comminarsi ai beneficiari del Rdc in maniera com- plessivamente ancora più rigida di quanto previsto dalla normativa sul ReI118, pur espressiva di rilevante rigore nel delineare l’apparato sanzionatorio119.
Non può poi trascurarsi quanto previsto dall’art. 7, comma 11, del decreto-legge n. 4/2019, ai sensi del quale, salvo il caso di revoca del beneficio in conseguenza della con- danna relativa ad alcune fattispecie di reato, per il quale è prevista una disciplina ancora più restrittiva120, «il Rdc può essere richiesto dal richiedente ovvero da altro componente il nu- cleo familiare solo decorsi diciotto mesi dalla data del provvedimento di revoca o di deca- denza, ovvero, nel caso facciano parte del nucleo familiare componenti minorenni o con di- sabilità, come definita a fini ISEE, decorsi sei mesi dalla medesima data». La previsione di tale “sospensione lunga”, la quale svolge il ruolo di una sorta di “sanzione accessoria” a cari- co del destinatario della sanzione principale della decadenza da o della revoca del Rdc in conseguenza dell’inadempimento (in alcuni casi una tantum e in altri dopo tre mancanze) di una amplissima gamma di obblighi previsti dal decreto-legge n. 4/2019 (o da normative alle quali esso rinvia) appare alquanto discutibile e, in particolare, di dubbia compatibilità con le istanze sottese al principio personalista e con la garanzia della dignità della persona.
Se già non sembra accettabile infatti che il mancato rispetto di un impegno possa condurre alla perdita completa del sussidio a fronte della permanente sussistenza dei requi- siti di accesso allo stesso, lo è ancor meno che tale perdita sia altresì accompagnata, per usare una similitudine calcistica, da una “squalifica lunga”. Ciò sembra tanto più vero se si considera che, tra i comportamenti così sanzionati, al quarto richiamo formale (dopo una progressiva decurtazione dell’erogazione monetaria), vi è anche il «mancato rispetto degli impegni previsti nel Patto per l’inclusione sociale relativi alla frequenza dei corsi di istruzione o di formazione da parte di un componente minorenne ovvero impegni di prevenzione e cura volti alla tutela della salute, individuati da professionisti sanitari». In altri termini, la sanzione della decadenza dal beneficio è comminabile anche ai sottoscrittori del Patto per l’inclusione sociale, cioè ai componenti di nuclei familiari in condizioni di povertà i cui bisogni non siano
parte lesa», aggiungendo che «le abnormi conseguenze dei dispositivi di controllo e sanzione previsti dalla legge sono probabilmente la vera ragione che ha dissuaso molti poveri e soggetti bisognosi dal fare domanda, con un effetto di esclusione anch’esso in contrasto con lo scopo insito in queste misure nei confronti di chi è inserito, senza altra responsabilità che quella di cercare la liberazione dal bisogno, in un circuito di lavoro privo di tutela e protezione sociale».
000 X. XX XXXXXXX, op. cit., p. 185, confrontando le conseguenze dell’inadempimento degli obblighi deri- vanti dall’adesione dei beneficiari della misura al percorso personalizzato normativamente delineato, rispettiva- mente, dalla disciplina del RdC e da quella del ReI, nota che «nel primo caso la decadenza dal beneficio è con- seguenza immediata della mancata partecipazione alle iniziative di politica attiva obbligatoriamente previste; nel secondo, invece, conseguiva ad un duplice richiamo da parte della figura di riferimento del progetto e alla so- spensione».
119 In riferimento allo specifico aspetto della mancata accettazione di offerte di lavoro congrue, la norma- tiva sul ReI risultava, anzi, più inesorabilmente severa di quella sul Rdc, se è vero che l’abrogato art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 147/2017 stabiliva che la decadenza dal beneficio conseguisse tout court alla mancata accettazio- ne anche di una sola offerta di lavoro congrua.
120 L’art. 7, comma 3, stabilisce che in questo caso «il beneficio non può essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi dieci anni dalla condanna».
mensionali, in conseguenza dell’inadempimento di impegni relativi all’istruzione dei minori e alla tutela della salute. Si fa così derivare l’uscita dal circuito dell’intervento assistenziale e di supporto dalla violazione di obblighi previsti in vista della tutela di beni costituzionali fonda- mentali ascrivibili ai beneficiari della misura, violazione che rivela – pare di poter dire – con particolare forza la gravità della situazione in cui versano il nucleo familiare e le singole per- sone che lo compongono, nonché la loro esigenza di (continuare ad) essere supportati nell’ambito di un percorso di inclusione sociale.
A trovare ulteriore conferma in previsioni di questo genere pare essere una compren- sione non pienamente adeguata della realtà della vita dei poveri, in quanto persone, con tutti i suoi limiti e le difficoltà che essa comporta. Il legislatore, nell’introdurre una misura, che, nonostante le sue numerose criticità, ha comunque rafforzato significativamente il sistema delle politiche di contrasto alla povertà, mentre ha avuto il merito di «promuovere una visione del contrasto alla povertà non limitato al solo intervento assistenziale», ha, però, come non si è mancato di rilevare, «proposto una visione forse eccessivamente semplificata, se non semplicistica, del fenomeno della povertà, come limitatezza di mezzi economici, mancato contributo alla produzione della ricchezza e al consumo di beni e servizi»121. Una visione cor- redata dai tratti distintivi di un «paternalismo legislativo», ancora più accentuato di quello proprio della previgente normativa sul ReI122, che, oltre a contraddistinguere, come si è visto, il funzionamento del sistema dei “patti” (e delle sanzioni), caratterizza anche il regime delle modalità di prelievo e di utilizzo della componente monetaria del Rdc123.
Si è restati, in un certo senso, succubi della forza dell’approccio proprio di chi, nel cri- ticare il Rdc (già prima della sua introduzione), ne ha biasimato l’asserita caratterizzazione puramente “assistenzialistica”. Non senza peraltro, come già accennato, porsi in continuità con orientamenti già presenti nel nostro ordinamento, si è in sostanza finito per accogliere, in parte, un atteggiamento di diffidenza preconcetta nei confronti dei poveri, in maniera pater- nalistica considerati fortemente a rischio di fare un uso cattivo del sussidio riconosciuto e sot- toposti ad un rigido regime di obblighi e sanzioni, così da evitare che possano “adagiarsi” o variamente “approfittare” della situazione, forse sull’implicito presupposto che la condizione
121 E. INNOCENTI, op. cit., p. 103.
122 Così X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 99, la quale afferma che «il decreto legge n. 4 del 2019 può essere considerato una forma di paternalismo legislativo forte, poiché non offre terze vie in merito alle opzioni definite in sede di patto, a cui la persona è chiamata ad aderire e ottemperare, sotto il controllo diretto e digitale dell’amministrazione, pena la comminazione delle varie sanzioni», aggiungendo che «lo spazio di autodetermina- zione del beneficiario del Reddito di cittadinanza è limitato non solo nei rapporti con le amministrazioni coinvolte e nello svolgimento delle attività prescritte nei patti, ma anche nella autodeterminazione delle scelte di utilizzo delle risorse economiche trasferite, come dimostra il dettaglio delle disposizioni in merito alla limitazione del ricorso ai contanti, alla selezione dei beni e dei servizi acquistabili (art. 5, comma 6)».
123 È significativo da questo punto di vista che il decreto interministeriale (del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze) del 19 aprile 2019, all’art. 2, relativo agli «utilizzi della Carta Rdc», contenga un lungo elenco di beni e servizi non acquistabili ovvero: «a) giochi che prevedono vincite in denaro o altre utilità; b) acquisto, noleggio e leasing di navi e imbarcazioni da diporto, non- ché servizi portuali; c) armi; d) materiale pornografico e beni e servizi per adulti; e) servizi finanziari e creditizi; f) servizi di trasferimento di denaro; g) servizi assicurativi; h) articoli di gioielleria; i) articoli di pellicceria; l) acquisti presso gallerie d’arte e affini; m) acquisti in club privati».
ri124. Paiono, in altri termini, riecheggiare tra le righe di alcune parti del decreto-legge n. 4/2019, così come nel dibattito pubblico, sebbene frammiste a parole indicative anche di istanze e impostazioni differenti, le parole di Xxxxxxx Xxxxxx, nel suo libro su Le nuove po- vertà, laddove, richiamato l’orientamento storicamente consolidato ad individuare nelle finali- tà della difesa della legge e dell’ordine, nonché della realizzazione del vero interesse dei po- veri (che gli stessi non sarebbero in grado di comprendere da soli), il fondamento etico delle politiche di contrasto alla povertà125, si stigmatizza «l’ostinazione con cui si tende a ribadire, nonostante le prove schiaccianti del contrario, che la violazione della norma universale, se- condo la quale si deve lavorare per vivere è, oggi come ieri, la causa principale della pover- tà, un male il cui rimedio consiste nel reinserire i disoccupati nella vita produttiva»126. È su- perfluo evidenziare quanto le impostazioni stigmatizzate, al livello della riflessione teorica, da Xxxxxx siano distanti anche dalle istanze sottese ai principi della Costituzione italiana e, in primis, al principio personalista.
E, d’altra parte, se consideriamo, tra l’altro, soprattutto la carenza di concrete oppor- tunità di lavoro dignitoso, tanto più a vantaggio dei poveri e i limiti delle nostre politiche attive del lavoro, oltre a quanto desumibile dalle previsioni relative agli esoneri dagli obblighi di cui
124 Sull’intensità della presenza di questo tipo di approccio nel discorso pubblico, con ricadute sul piano normativo, cfr. X. XXXXXXX-X. XXXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, «Poveri e imbroglioni». Dentro il Reddito di cittadinanza, in il Mulino, n. 1/2020, passim, i quali, sottolineando i risvolti positivi dell’introduzione del Rdc e stigmatizzando, come frutto di una tendenza a ragionare sulla base di stereotipi negativi e di una scarsa capacità/volontà di com- prendere la durezza dei contesti in cui molti poveri sono costretti a vivere, il porre ricorrentemente (e quasi esclu- sivamente) l’accento sulle irregolarità riscontrate e sulla possibilità che il sussidio si accompagni, soprattutto al Sud, al contestuale svolgimento di lavoro “nero”, rilevano che «l’attenzione dovrebbe essere concentrata […] su chi […] ha visto in questo provvedimento una possibilità effettiva di miglioramento per sé e per i propri figli, aspi- razione che rischia di rimanere insoddisfatta in assenza di politiche di occupazione ed economiche ordinarie e straordinarie indispensabili a un’effettiva ripresa economica, generalizzata anche alla regioni del Mezzogiorno». Soffermandosi sulla forza di questo genere di approcci e sulla tendenza a ridurre la spesa per il welfare, nonché a restringere le porte di accesso alle misure di contrasto ala povertà, X. XXXXXXXX, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 23, rileva che «è per molti versi paradossale che, pro- prio negli stessi anni in cui i fallimenti del mercato e le modifiche negli assetti – demografici e regolativi – della famiglia hanno profondamente mutato sia gli equilibri sia le risorse disponibili per gli individui e le famiglie, au- mentandone la vulnerabilità economica, abbia preso piede un discorso pubblico che viceversa indica nella gene- xxxxxx del welfare e nella debolezza morale degli individui le cause della povertà». Cfr. anche X. XXXXXXXX, op. cit.,
p. 20, il quale, dopo essersi riferito all’articolatissima disciplina sanzionatoria introdotta dal decreto-legge n. 4/2019 e aver richiamato, in particolare, l’incremento di pena previsto per alcuni reati di falso, se commessi da beneficiari del Rdc, afferma che «un tale aggravio di pena, al pari di analoghe previsioni punitive, desta notevoli perplessità alla luce dell’art. 3 Cost., nella misura in cui sembra scaricare sul povero “immeritevole” (come nella concezione stigmatizzante del non-deserving poor di vittoriana memoria) un sovraccarico di responsabilità certa- mente degno di miglior causa, in un Paese che spicca nelle classifiche internazionali per le dimensioni abnormi di corruzione ed evasione fiscale».
125 X. XXXXXX, Le nuove povertà, Xxxx, Xxxxxxxxxxxx, 0000, p. 159, afferma che «è proprio da questa duplice esigenza che emerge la spinta a far qualcosa per le frange devianti della popolazione: un impulso che trae il suo vigore dalla preoccupazione per l’instaurazione e il mantenimento dell’ordine, ma necessita anche del sostegno dei sentimenti morali e della compassione», aggiungendo, a proposito di tale impulso, che «qualunque sia la forza che lo anima, esso si traduce di solito nel tentativo di privare di autonomia tutti coloro che non sanno come usare correttamente le proprie capacità, assoggettandoli, con le buone o con le cattive,, al “sistema imper- sonale” che cercano di eludere o di sfidare».
126 Così X. XXXXXX, op. cit., p. 165, il quale soggiunge che «nella retorica oggi in voga, solo in quanto merce, il lavoro può rivendicare il diritto di accesso a mezzi di sopravvivenza egualmente mercificati».
me una misura di carattere meramente assistenziale (e neanche molto ben concepita come misura assistenziale), prospettiva che il legislatore ha voluto attraverso una vasta gamma di enunciati normativi scongiurare sul piano teorico, è di tutt’altro che improbabile realizzazione. Con la conseguenza, mentre si introduce un impianto normativo non pienamente coerente, se non con la lettera, con lo spirito delle rilevanti previsioni costituzionali, di non poter conse- guire neanche gli obiettivi perseguiti dal legislatore (e declamati dalle forze politiche promo- trici dell’innovazione).
8. I “progetti utili alla collettività”, tra logica della condizionalità e (mera) evocazione di un welfare generativo
Alla luce di quanto rilevato al termine del paragrafo precedente, in molti casi, l’unico “lavoro” a cui essere effettivamente chiamati (e, per la precisione, obbligati, a pena di deca- denza dal beneficio) potrebbe risultare, per i fruitori del Rdc, quello consistente, ai sensi dell’art. 4, comma 15, del decreto-legge n. 4/2019, nella «partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza», per un nu- mero di almeno otto ore settimanali, incrementabili sino ad un massimo di sedici. In conside- razione del fatto che «l’esecuzione delle attività e l’assolvimento degli obblighi del beneficia- rio di cui al presente comma sono subordinati all’attivazione dei progetti», si è parlato, a pro- posito di questa e di altre condizioni previste dalla normativa sul Rdc, di «condizioni condi- zionate (o, se si vuole, condizioni alla seconda), che potranno diventare reali soltanto al pro- dursi di eventi del tutto aleatori»127 e dunque estremamente fragili e suscettibili, perciò, di non essere mai (o permanere per molto tempo non) assistite dai propri presupposti. Cionon- dimeno, il riferimento alla partecipazione ad attività connesse all’attuazione di progetti «utili alla collettività» evoca indubbiamente (e apprezzabilmente) la dimensione entro cui si collo- xxxx attività poste in essere al servizio della società e finalizzate al suo «progresso materiale o spirituale» (volendo usare le parole dell’art. 4, comma 2, Cost.), senza essere attività per il e nel “mercato” del lavoro.
Il pensiero va alla prospettiva del “welfare generativo”, coltivata soprattutto nell’ambito dei processi di elaborazione scientifica e culturale guidati dalla Fondazione Xxxxxxxx Xxx- can, con il contributo di numerosi studiosi di varia afferenza disciplinare. Si tratta di una pro- spettiva incardinata sull’idea di corresponsabilità del destinatario di una misura di welfare nel processo di uscita dalla condizione di bisogno, attraverso lo svolgimento di “azioni a corri- spettivo sociale” produttive di valore per i destinatari della stessa (e dunque accrescitive del bene comune) e insieme per la persona (il beneficiario della misura di welfare) che le pone in essere. Come in proposito evidenziato, «rispetto a tale prospettiva, tuttavia, la soluzione normativa ora adottata si differenzia per una serie di ragioni, e in primo luogo per la diversa
127 X. XXXXX, op. cit., p. 40.
vece al suo stesso mantenimento»128.
In altre parole, si resta, quanto al nesso tra accesso alla misura di sostegno al reddito e svolgimento di attività nell’ambito di progetti comunali utili alla comunità, sostanzialmente in un’ottica vicina a quella propria del workfare129 (sebbene si tratti di un “work” peculiare, non qualificabile come “lavoro” in senso proprio130), tanto da far considerare in dottrina la previ- sione dell’obbligo in oggetto come interna ad un sistema di duplice condizionamento (al bi- sogno e all’adempimento di obblighi giuridici) della fruizione della provvidenza che confligge- rebbe con il modello costituzionale di assistenza sociale131. Dalla lettura dell’art. 12, comma 12, del decreto-legge n. 4/2019 si desume inoltre che la realizzazione dei succitati progetti potrà contare, in riferimento alle attività precisate dallo stesso decreto, su una quota di risor- se non precisata all’interno di quelle complessivamente dedicate a finanziare i livelli essen- ziali delle prestazioni connesse alla attuazione dei Patti per l’inclusione sociale. Se conside- riamo ciò anche alla luce del fatto che non hanno modificato lo scenario finanziario le pre- scrizioni introdotte dal decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22 ottobre 2019, adottato ai sensi dell’art. 4, comma 15, del sopra citato decreto-legge, non si possono nutrire molte speranze circa l’ampiezza dell’investimento che potrebbe essere operato su questo fronte132.
128 X. XXXXX, op. cit., pp. 37-38.
129 Così anche E. INNOCENTI-X. XXXXXXX, Dal reddito di inclusione al reddito di cittadinanza, in FONDAZIONE XXXXXXXX XXXXXX (a cura di), La lotta alla povertà è innovazione sociale, cit., p. 101, le quali affermano che «la natura obbligatoria della partecipazione, la tendenziale corrispettività tra l’ammontare del beneficio economico e il range di monte ore previsto, la sanzionabilità degli inadempimenti, sono elementi tipici delle misure di attivazione e di condizionalità praticate da decenni nei sistemi di welfare occidentali più orientati al workfare, da tempo sotto- posti a forti critiche in merito alla loro efficacia e appropriatezza».
130 Nel decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22 ottobre del 2019 (Definizione, forme, caratteristiche e modalità di attuazione dei Progetti utili alla collettività (PUC)), all’art. 2, commi 4, 5 e 6, si afferma: «4. Le attività previste nell’ambito dei PUC non sono assimilabili ad attività di lavoro subordinato, para- subordinato o autonomo e l’utilizzo dei beneficiari di Rdc nelle attività previste dai progetti non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro. 5. I soggetti obbligati non possono svolgere attività in sostituzione di per- sonale dipendente dall’ente pubblico proponente o dall’ente gestore nel caso di esternalizzazione di servizi o dal soggetto del privato sociale. I medesimi soggetti obbligati non possono altresì ricoprire ruoli o posizioni dell’organizzazione del soggetto proponente il progetto e non possono sostituire lavoratori assenti a causa di ma- lattia, congedi parentali, ferie ed altri istituti, né possono essere utilizzati per sopperire a temporanee esigenze di organico in determinati periodi di particolare intensità di lavoro. 6. Non possono essere oggetto dei PUC le attività connesse alla realizzazione di lavori o opere pubbliche già oggetto di appalto, ovvero attività sostitutive di analo- ghe attività affidate esternamente dal comune o dall’ente».
131 Così M.A. GLIATTA, op.cit., p. 227, secondo la quale, al contrario di quello che traspare dall’impianto della normativa sul Rdc, il modello costituzionale di assistenza sociale è un modello in cui «l’assistenza copre i bisogni derivanti dalla disoccupazione involontaria, in cui il lavoro è tale per il suo costitutivo collegamento con l’art. 36 Cost. e in cui né la solidarietà né il dovere al lavoro possono fondare obblighi (per di più sanzionati con la decadenza dal beneficio) di prestazioni corrispettive a fronte del godimento di diritti sociali». Cfr. anche, nello stesso senso, X. XXXXX, op. cit., p. 436.
132 Il riferimento è, ai sensi dell’art. 12, comma 12, del decreto-legge n. 4/2019, all’«utilizzo delle risorse residue della quota del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, di cui all’articolo 1, comma 386, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 , destinata al rafforzamento degli interventi e dei servizi sociali ai sensi dell’articolo 7 del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, con il concorso delle risorse afferenti al Pro- gramma operativo nazionale Inclusione relativo all'obiettivo tematico della lotta alla povertà e della promozione dell'inclusione sociale». L’art. 5, comma 1, del decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22 ottobre 2019 statuisce che «agli oneri per l’attivazione e la realizzazione dei PUC, inclusi quelli derivanti dalle
Rdc, riferimenti al terzo settore, a proposito del quale il decreto ministeriale del 22 ottobre 2019 si è limitato, nell’Allegato I, ad affermare che «si ritiene auspicabile il coinvolgimento degli Enti di terzo Settore, come definiti dall’articolo 4, comma 1, del D. Lgs. 117/2017» (cor- sivo mio). Per altro verso, è difficile capire quanto potranno nei fatti, all’interno di un terreno come quello descritto (e scarsamente innaffiato), svilupparsi le «gemme di generatività»133 reperibili nel succitato Allegato, nella parte in cui si afferma che «i progetti dovranno essere individuati a partire dai bisogni e dalle esigenze della comunità, tenuto conto anche delle op- portunità che le risposte a tali bisogni offrono in termini di empowerment delle persone coin- volte». Tenuto conto di ciò, paiono effettivamente molto lontani i percorsi di innovazione so- ciale prospettati nell’ambito di interessanti riflessioni in tema di politiche di contrasto alla po- vertà134.
Sulla scorta di una riflessione di taglio storico su alcune risalenti esperienze ottocen- tesche di intervento volontario in favore di poveri ed emarginati, caratterizzate, oltre che dal soddisfacimento dei bisogni primari, dall’impegno nella formazione e, più in generale, nella valorizzazione delle capacità e potenzialità delle persone sostenute, si avanza, come pro- spettiva valida per l’oggi, in grado di tenere insieme “assistenza” e “promozione umana” (en- trambe radicate nel tessuto dei principi della Costituzione italiana), quella dell’integrazione negli interventi di welfare (e, in particolare, di contrasto alla povertà) di fattori di generatività. Fattori che, come più sopra accennato, si traducono in forme di coinvolgimento, su base vo- lontaria (ma in presenza di forti sollecitazioni “etiche”), dei destinatari delle prestazioni in vi- sta del conseguimento del risultato dell’intervento, attraverso lo svolgimento di attività produt- tive di valore, anche economicamente valutabile, per la collettività (oltre che per la persona che le compie)135.
La prospettiva della generatività evoca l’approccio delle capacità proprio di Xxxxxxx Xxx, un approccio che «diversamente dalle prospettive che si concentrano su utilità e risorse misura il vantaggio individuale in ragione della capacità che ha la persona di fare quelle cose a cui, per un motivo o per l’altro, assegna un valore»136. E un approccio, quindi, sulla base
assicurazioni presso l’INAIL e per responsabilità civile dei partecipanti, come meglio specificati nell’Allegato 1, si provvede con le risorse del Fondo povertà, nei limiti delle risorse assegnate agli ambiti territoriali e secondo le indicazioni contenute nei decreti di riparto del Fondo medesimo, oltre che con il concorso delle risorse afferenti al PON inclusione, secondo le modalità individuate negli atti di gestione del programma» e aggiunge che «alle altre attività di cui al pre- sente decreto tutte le amministrazioni interessate provvedono nell’ambito delle risorse uma- ne, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubbli- ca».
133 Prendo in prestito l’espressione da E. INNOCENTI-X. XXXXXXX, op. cit., p. 102.
134 Il riferimento è a X. XXXXXXXXX, Xxxxx alla povertà e innovazione sociale: criticità e potenzialità, in X. XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 261 ss.
135 X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 277, nota, sulla base di “sperimentazioni” condotte su piccola scala, che
«anche nei casi di maggiore entità di investimento, la pratica generativa produce comunque un plusvalore rispetto all’assenza di coinvolgimento e responsabilizzazione degli aiutati» e, due pagine dopo, afferma che, ai fini della trasformazione del welfare da assistenziale a generativo, «non bastava e non basta far leva su scambi di condi- zionalità ma è necessario andare oltre, riconoscendo nelle potenzialità generative un valore umano, sociale ed economico».
136 X. XXX, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010, p. 241.
capacità», che è cosa diversa dalla prima, considerato che «le opportunità degli individui di trasformare il reddito e gli altri beni primari in quel genere di libertà cui la vita umana attribui- sce valore possono essere alquanto diverse», dal momento che «il rapporto tra risorse e po- vertà […] è variabile e dipende strettamente dalle caratteristiche dei soggetti e dell’ambiente, naturale e sociale, in cui vivono»137. Non può poi omettersi che la prospettiva sopra richiama- ta evoca altresì quell’idea di «etica dell’operosità», come diversa dall’«etica del lavoro» (inte- so come lavoro per il mercato) di cui troviamo tracce nel pensiero di Xxxxxx000.
Si tratta di un’idea che, al pari della logica delle capacità a cui sopra si è accennato, ci pare coerente con il portato dei principi rilevanti della Costituzione italiana. Un portato che è stato efficacemente descritto da chi, enucleando quello che viene indicato come il fine dei diritti sociali, complessivamente considerati, ha affermato che «tali diritti non mirano esclusi- vamente a garantire l’erogazione di un bene connesso alla vita (sia un servizio o una merce), ma “la partecipazione ad un valore di vita che richiede attività cooperative”», così che gli stessi possono definirsi «uno strumento necessario per la costruzione delle relazioni umane all’interno della società»139. In una prospettiva di questo genere, le istanze sottese all’affermazione di un principio che potremmo definire personalistico-relazionale, esercitano una forza conformativa sui rapporti socio-economici, che non può che essere veicolata dall’azione del legislatore (rectius, dei legislatori), la quale, illuminata dal concetto fondamen- tale di «pieno sviluppo della persona umana» richiamato all’art. 3, comma 2, Cost., su questi binari dovrebbe muoversi anche nell’area delle politiche di contrasto alla povertà140.
137 X. XXX, op. cit., p. 263.
138 X. XXXXXX, op. cit., p. 177, afferma che «l’“istinto di operosità” (diversamente dall’etica del lavoro, che è un’invenzione moderna) è una predisposizione naturale della nostra specie» e, a proposito degli esseri umani, che «credere che, se non incentivati dal denaro, preferirebbero restare oziosi lasciando inaridire la loro immagi- nazione, significherebbe avere una bassa considerazione della natura umana».
139 X. XXXXX, I diritti sociali nella Costituzione italiana: un percorso di analisi, in RDSS, n. 2/2017, p. 222, il quale rileva altresì che «il recupero della dimensione personale dei diritti attraverso la logica delle “capacità” consente di coniugare la generalità delle libertà ed il particolarismo dell’eguaglianza come garanzia del supera- mento di limitazioni di fatto alla partecipazione democratica», configurandosi ciò come «il portato di un passaggio da una concezione di eguaglianza che predicava l’assenza di differenze a una nozione di eguaglianza che fa en- trare i dati della realtà nella risoluzione dei conflitti tra diritti».
140 Molto efficacemente X. XXXXXXXX, Il pieno sviluppo della persona umana tra diritto ed economia: alla ricerca di un indice di sviluppo economico per un welfare generativo, in X. XXXXXXXX (a cura di), La domanda ine- vasa. Dialogo tra economisti e giuristi sulle dottrine economiche che condizionano il sistema giuridico europeo, Bologna, il Mulino, 2016, p. 383, afferma che «se tanto l’economia quanto il diritto hanno posto al centro del loro agire la persona, allora possiamo affermare che la crescita non è finalizzata alla produzione e al consumo, ma al pieno sviluppo della persona umana, come sembra suggerire il c.d. capabilities approach, teorizzato da X. Xxx e da X. Xxxxxxxx, di cui certo si può ravvisare un’anticipazione nell’art. 3, comma 2, Cost., ma che qui interessa poiché potrebbe dare nuova linfa all’uguaglianza sostanziale, per teorizzare un modello sostenibile di welfare state».
9. Alcune considerazioni conclusive (anche alla luce dell’impatto dell’emergenza COVID-19)
Collocarsi in un’ottica come quella tratteggiata al termine del precedente paragrafo, se non risolve, di per sé, le questioni che ogni legislatore deve affrontare nella sua opera di necessario bilanciamento tra istanze sottese a differenti principi costituzionali (da leggersi comunque nella loro unitarietà sistematica), tenendo conto, in uno Stato appartenente all’UE, anche dei vincoli derivanti dal diritto euro-unitario, consente di porre in evidenza, come si è tentato sinora di fare, limiti e criticità di interventi normativi, pur apprezzabili per il complessi- vo significato da riconoscersi alla loro adozione, quale quello che ha introdotto il Rdc. Anche il peculiare stato di emergenza in cui, al momento in cui scrivo (giugno 2020), ci troviamo an- cora a vivere e ad operare, connesso alla pandemia di COVID-19 (nuovo coronavirus), solle- cita riflessioni in grado di trarre linfa dai valori sottesi alle norme costituzionali varie volte ri- chiamate nelle pagine precedenti.
Per quanto riguarda i contenuti delle misure adottate nel corso della primavera del 2020, finalizzate a contrastare l’incremento di disagio sociale e povertà generato dalle con- seguenze della pandemia di COVID-19 (e dei connessi interventi volti a contenerne la diffu- sione), è sufficiente qui rilevare che oltre che nel senso di una sospensione di condizionalità e obblighi di vario genere gravanti, come sappiamo, sui beneficiari del Rdc, ci si è orientati, con i decreti c.d. “Cura Italia” (decreto-legge n. 18/2020, convertito dalla legge n. 27/2020) e “Rilancio” (decreto-legge n. 34/2020, non ancora convertito in legge nel momento in cui si scrive), nel senso dell’adozione di una miriade di interventi volti a sovvenire alle esigenze di lavoratori e famiglie.
Il riferimento è, per quel che concerne il primo dei due atti normativi sopra citati, tra l’altro, al rafforzamento dei tradizionali ammortizzatori sociali, al c.d. “bonus 600 euro” (a be- neficio di professionisti e lavoratori autonomi, nonché di alcune categorie di lavori subordinati e para-subordinati in relazione ai mesi di marzo, aprile e maggio 2020), alla previsione di congedi parentali ad hoc (o, in alternativa, di un voucher baby-sitter). Per quel che concerne, invece, il “Decreto Rilancio”, oltre ad una serie di modifiche e integrazioni a previsioni intro- dotte con il precedente decreto, deve ricordarsi specificamente almeno l’introduzione del
«reddito di emergenza» (d’ora in poi Rem), disciplinato dall’art. 82 del decreto-legge n. 34/2020 e configurato come «sostegno al reddito straordinario» riconosciuto «ai nuclei fami- liari in condizioni di necessità economica in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19».
Stiamo parlando, nel caso del Rem, di una prestazione monetaria, incompatibile con una serie di misure di carattere previdenziale e assistenziale (tra cui il Rdc), di ammontare variabile da 400 a 800 euro mensili (con applicazione, per tener conto della situazione di fa- miglie non unipersonali, della scala di equivalenza valida per il Rdc) ed erogata in due (sole) quote, per l’accesso alla quale sono previsti requisiti soggettivi e oggettivi un po’ meno strin-
temporaneo, e assoggettato ad un vincolo finanziario che rende l’accesso alla stessa, analo- gamente – lo sappiamo – a quello al Rdc, non qualificabile come diritto pienamente esigibi- le142, a chi, non coperto dalla tutela assicurata da altre misure (di vecchio o nuovo conio), si presume essersi venuto a trovare in condizioni di necessità a causa della pandemia, in con- seguenza della perdita, totale o parziale, di fonti di reddito derivanti anche da attività lavorati- ve “informali” (o da vero e proprio lavoro “sommerso”).
Si è preso così “ufficialmente” atto dell’esistenza di una consistente fascia di popola- zione, composta da persone che vivono in condizioni di grave disagio sociale, frequentemen- te ai limiti, o già oltre i limiti, della vera e propria povertà assoluta, ma relegate in circuiti lavo- rativi contraddistinti da marcata precarietà e spesso da estraneità dall’area del lavoro “rego- lare”. Da tali circuiti per molti risulta difficile uscire sia per mancanza di alternative concreta- mente accessibili, sia anche per mancanza di sostegni apprestati dal sistema di welfare nell’ambito di percorsi di emancipazione da una condizione di marginalità lavorativa (e quindi socio-economica). Quest’ultima tende spesso, in maniera pura e semplice (e molto rigida- mente), a configurarsi, anzi, – lo si è visto a proposito del Rdc – come condizione preclusiva dell’accesso a misure di sostegno al reddito, cosa che contribuisce a ridurre sensibilmente l’efficacia dell’azione di contrasto alla povertà e alla pervasiva diffusione di forme di lavoro poco dignitoso e insicuro.
L’approccio attestato dall’ampiezza e interna diversificazione degli interventi che han- no segnato i mesi dell’emergenza pandemica è in parte comprensibile alla luce proprio della situazione emergenziale, in considerazione dei tempi serrati in cui si è dovuto intervenire, a fronte dell’impatto di fenomeni di proporzioni inedite per caratteristiche e dimensioni. Non si può, cionondimeno, mancare di rilevare che proprio nella fase molto peculiare che abbiamo vissuto (e che, per molti versi, stiamo continuando a vivere) i limiti del nostro “ordinario” si- stema di welfare, soprattutto (ma non solo) in ordine al contrasto alla povertà, si sono evi-
141 Con riguardo ai requisiti reddituali e patrimoniali per l’accesso al Rem, il comma 3 dell’art. 82 del De- creto Rilancio stabilisce che «il Rem è riconosciuto ai nuclei familiari in possesso cumulativamente, al mo- mento della domanda, dei seguenti requisiti:
a) residenza in Italia, verificata con riferimento al componente richiedente il beneficio;
b) un valore del reddito familiare, nel mese di aprile 2020, inferiore ad una soglia pari all'ammontare di cui al comma 5;
c) un valore del patrimonio mobiliare familiare con riferimento all'anno 2019 inferiore a una soglia di eu- ro 10.000, accresciuta di euro 5.000 per ogni componente successivo al primo e fino ad un
massimo di euro 20.000. Il predetto massimale è incrementato di 5.000 euro in caso di presenza nel nucleo familiare di un componente in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza come definite ai fini dell'Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), di cui al decreto del Presidente del Consi- glio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159;
d) un valore dell'ISEE inferiore ad euro 15.000».
142 Al comma 10 dell’art. 82 del decreto-legge n. 34/2020, fissato in 954,6 milioni di euro il limite di spe- sa, si stabilisce che «l’INPS provvede al monitoraggio del rispetto del limite di spesa di cui al primo periodo del presente comma e comunica i risultati di tale attività al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministe- ro dell'economia e delle finanze» e che «qualora dal predetto monitoraggio emerga il verificarsi di scostamenti, anche in via prospettica, rispetto al predetto limite di spesa, non sono adottati altri provvedimenti concessori» (corsivo mio).
limiti di una misura, pur – lo ribadiamo – di rilevanza e impatto non trascurabili, come il Rdc.
Le conseguenze socio-economiche dell’emergenza in atto hanno infatti sollevato, in un certo senso, anche a beneficio di chi “in tempi ordinari” non sappia o non voglia sollevar- lo, il velo sulla (persistente) frammentarietà e inadeguatezza del sistema italiano di welfare (anche) con riguardo al versante della protezione contro la povertà. «All’apparir del vero» (per dirla con il Leopardi di “A Xxxxxx”), al di là dell’innegabile esigenza di approntare, come, pur non senza criticità, si è fatto, puntuali risposte emergenziali a bisogni insorti in tempo di crisi, si avverte (rectius, si dovrebbe avvertire) con maggiore forza e urgenza la necessità di procedere ad un’ampia ristrutturazione della complessiva rete di protezione contro il rischio di povertà, in raccordo con altre aree delle politiche sociali (a cominciare da quella delle poli- tiche per la famiglia) e con le stesse politiche economiche. Una ristrutturazione che, tenendo conto delle trasformazioni socio-economiche che hanno nel corso del tempo interessato il nostro Paese, da non considerarsi naturalmente come monade isolata dal contesto più am- pio in cui si colloca, permetta di alimentare in maniera adeguata l’inesauribile processo di attuazione del progetto di trasformazione sociale delineato, nei suoi tratti essenziali, dai primi quattro articoli della Costituzione del 1948. Un progetto raffigurato nella sua intrinseca dina- micità dall’art. 3, comma 2, Cost., in cui convivono, in un’armonia che non esclude (ma pre- suppone) le contraddizioni e i conflitti di cui è costellata la realtà, istanze orientate alla realiz- zazione degli obiettivi della garanzia della dignità della persona, attraverso percorsi di pro- mozione sociale ed umana, e della piena partecipazione alla vita sociale e politica143.
Alla luce dell’analisi delle carenze del welfare italiano (Rdc compreso), ma anche de- gli spunti di riflessione offerti dal confronto con esperienze straniere di sperimentazione (temporanea) del funzionamento di forme di reddito di base (anche se destinato soltanto a persone in condizioni di povertà) esenti dalla previsione di condizionalità144, mi pare emerge- re come un reddito di base incondizionato, quantificato in maniera tale da non introdurre si- gnificativi disincentivi allo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, possa contribuire si- gnificativamente a contrastare la povertà e a garantire il diritto a condurre un’esistenza digni- tosa. Tanto più ponendosi dal punto di vista di una Costituzione, quale quella italiana, che pone al centro dell’architettura dei suoi principi fondamentali il «pieno sviluppo della persona
143 X. XXXXXXXXXX, Costituzione e promozione sociale, Bologna, il Mulino, 2013, p. 351, afferma, molto efficacemente, che «lo sviluppo della persona umana può considerarsi “pieno” se e solo se l’individuo è stato messo davvero nelle condizioni di sfruttare al meglio le proprie attitudini ed il proprio talento», allo stesso modo in cui «la partecipazione alla vita comunitaria può considerarsi “effettiva” se e solo se davvero il singolo ha avuto occasione di misurarsi con il potere e di dare il proprio contributo grazie alle proprie capacità ed al proprio impe- gno». Coerentemente con tale impostazione in X. XXXXXXXXXX, Il senso della Costituzione per la povertà, cit., pp. 7 ss., viene delineato, alla luce del testo costituzionale, un volto multiforme della povertà, da intendersi non, me- ramente, come povertà economica.
144 Ci si riferisce all’“esperimento” finlandese realizzato nel biennio 2017-2018, su cui cfr. X. XXXXX, The basic income experiment in Finland: nothiing new under the finnish sun?, in X. XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., pp. 307 ss. e a quello condotto nello Stato indiano di Madhya Pra- desh nel triennio 2011-2013, su cui si veda X. XXXXXXXXXXX-S.K. XXXXXXX, Creating universal basic income as a right: indian perspective, in X. XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXX, Quale reddito di cittadinanza?, cit., pp. 333 ss., con- tributi alla cui lettura si rinvia per approfondimenti.
non può sottovalutarsi il significato che ad un intervento di natura incondizionata (destinato, se non a tutti, secondo il modello “puro” del reddito “di cittadinanza”, quanto meno a tutte le persone in condizioni di povertà assoluta) deve essere riconosciuto, in vista della garanzia del conseguimento del minimo necessario, come si è detto, ad una vita libera e dignitosa. Una vita che tale possa essere non solo, come è senz’altro imprescindibile, in termini mate- riali, ma al contempo, per così dire, nei termini, per quanto possibile, di un accresciuto “be- nessere” declinato anche come senso di inclusione in una comunità e di apertura verso il futuro, come tempo in cui poter esprimere se stessi. Ecco perché non possono disinvolta- mente sottovalutarsi, tra le risultanze dell’analisi dei dati relativi alle sperimentazioni, quelle attinenti all’impatto positivo di una misura sul piano dello stesso atteggiamento mentale dei suoi destinatari nei confronti della propria esistenza, in grado peraltro di porre le basi anche per un atteggiamento concretamente più attivo (anche) in campo socio-economico, come pure emerge dall’analisi dei dati.
Risulta, dunque, arduo mettere in dubbio, nonostante gli ostacoli a tale conclusione frapposti da un’interpretazione letterale di disposizioni come l’art. 38 Cost., l’ammissibilità e, a mio parere, anche l’indispensabilità, dal punto di vista costituzionale, di un intervento fina- lizzato al contrasto della povertà assoluta che sia, almeno entro certi limiti, incondizionato145, ferma restando la necessità altresì di articolare lo stesso intervento in modo tale da ricom- prendervi, in ogni caso, la previsione di percorsi di inclusione finalizzati a promuovere, nella prospettiva della “capacitazione” e della “generatività”, il concorso attivo del destinatario della misura, chiamato così a concorrere al progresso materiale e spirituale della società (come richiesto dall’art. 4, comma 2, Cost.). Non sembra infatti in alcun caso accettabile restare in- differenti rispetto a condizioni di povertà estrema, in quanto tali lesive della dignità umana e preclusive della possibilità di partecipare effettivamente alla vita sociale e politica (artt. 2 e 3 Cost., alla luce dei quali va letto anche l’art. 38), non diversamente da altre condizioni costi- tuzionalmente rilevanti146. In quest’ottica, a fronte della limitatezza delle risorse disponibili, mi pare da accogliere senz’altro, a garanzia dell’impegno orientato alla tutela dei diritti, un auto- revole invito a valorizzare la scala di priorità desumibile dalla Costituzione, tenuto natural- mente conto dell’elasticità connaturata all’interpretazione costituzionale (e della difficoltà di censurare in sede di giudizio di costituzionalità le “omissioni pure” del legislatore), in vista dell’assunzione delle decisioni relative alla destinazione delle risorse pubbliche147.
145 Ciò pare trasparire, se pure un po’ obliquamente (trattandosi di decisione su questione concernente il riparto di competenze), dalla sentenza n. 10/2010 della Corte costituzionale relativa alla prima “carta acquisti” (c.d. social card), introdotta nel 2008 come misura di natura marcatamente categoriale ma incondizionata, nella quale, al punto 6.3. del Considerato in diritto, ci si riferisce allo «scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto stretta- mente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana».
146 Il riferimento è, tra le altre, a condizioni quali quella di chi non vedesse soddisfatto il proprio diritto alla salute o della persona con disabilità che fosse lasciata senza misure di sostegno e forme di assistenza, rispetto alle quali, come è noto, numerosi sono stati gli interventi della Corte costituzionale che hanno censurato provve- dimenti legislativi variamente lesivi dei corrispondenti diritti costituzionali.
147 X. XXXXXXXXXX, Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionali- xxx.xx, n. 1/2013, p. 10, laddove si richiama l’attenzione sulla necessità di «distinguere fra destinazioni di fondi
concretezza intrinseca alla clausola di cui all’art. 3, comma 2, Cost., che orienta verso l’adozione di interventi, anche in materia di contrasto alla povertà, che, finalizzati a rimuovere i limiti «di fatto» sussistenti alla libertà di ciascuno e all’eguaglianza tra le persone, devono essere articolati in modo da tenere conto delle differenze concretamente riscontrabili tra si- tuazioni differenti. Ciò, oltre a richiedere un forte impegno nell’assicurare un raccordo effica- ce tra le misure specificamente destinate al contrasto alla povertà ed interventi riferibili ad altri settori del sistema di welfare, legittima e direi, anzi, che rende costituzionalmente neces- sari interventi diversamente articolati e strutturati all’interno dello stesso ampio ambito delle misure di contrasto alla povertà e alla disoccupazione.
Risulta, in altri termini, necessario che sia costantemente posta la dovuta attenzione sull’esigenza di articolare (e graduare) gli interventi finalizzati al sostegno di persone in con- dizioni di provvisoria difficoltà occupazionale o, più gravemente, di povertà (con connesso rischio di esclusione sociale) in maniera tale da tenere conto, il più possibile, delle differenze concretamente «di fatto» sussistenti tra le condizioni dei potenziali beneficiari degli interventi. Ciò in coerenza, a ben vedere, con lo stesso significato che deve attribuirsi al riferimento al
«pieno sviluppo della persona umana»148. Alla luce anche dell’analisi qui condotta soprattutto (sebbene non solo) dei contenuti e delle criticità dell’intervento normativo che ha introdotto nell’ordinamento italiano il Rdc, mi pare che sia opportuno, in particolare, distinguere, in vista della formulazione (o riformulazione) degli interventi normativi, senza che ciò significhi natu- ralmente trascurare specificità come quelle connesse, tra l’altro, alla disabilità e alla presen- za in famiglia di minori di età, tra la condizione di quelli che già in precedenza abbiamo defi- nito disoccupati “ordinari” (non poveri) dalla condizione delle persone povere (inoccupate, disoccupate o, eventualmente, working poors, per usare una locuzione inglese ormai entrata nel nostro vocabolario).
In riferimento ai primi, ferma la necessaria garanzia che si tratti, naturalmente, di la- vori da svolgersi in condizioni dignitose (e rispettose dei diritti dei lavoratori) e che sia, al contempo, assicurata l’effettiva congruità delle offerte di lavoro con le competenze e, per quanto possibile, delle inclinazioni dei destinatari delle stesse, può risultare ammissibile un certo tasso di “condizionalità” stricto sensu, qualora si tratti – aggiungerei – di misura che, per consistenza e durata dell’erogazione monetaria, oltrepassi i limiti di una ragionevole cor- rispondenza con i presupposti contributivi di provvidenze comunque, come è noto, di durata
costituzionalmente doverose, destinazioni consentite, e destinazioni addirittura vietate», tra le prime rientrando quelle finalizzate alla garanzia dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, con conseguente enucleazione di un limite per la discrezionalità del legislatore e necessità, dal punto di vista dell’Autrice, di distinguere, anche nell’ambito delle “sentenze che costano” della Corte costituzionale a seconda della loro correlazione o meno con la garanzia del nucleo irriducibile di diritti fondamentali.
148 Come rilevato da M. DOGLIANI-X. XXXXXX, Costituzione italiana: articolo 3, Roma, Xxxxxxx, 2017, p. 114, richiamando anche il contenuto delle riflessioni di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx (di cui sono i passaggi virgolettati all’interno del brano qui riportato) «si tratta di un “principio-valvola” o […] “clausola generale” tramite la quale la Costituzione “richiama, rimette in circolo e chiede di utilizzare i dati della singola esperienza umana” […], di cia- scuna esperienza umana riconducibile a tutte le irripetibili e irriducibili soggettività», dal momento che «vi è un’indeterminatezza riconducibile alla singolarità/differenza di ciascuno/a e al carattere dinamico proprio del libe- ro e pieno sviluppo della condizione umana, della personalità (nominata all’art. 2)».
limitata e di natura previdenziale149. Si valorizzerebbe così in modo particolare, all’interno dell’insieme indeterminato di attività o funzioni con cui concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.,) il lavoro strettamente inteso, ferma, a mio parere, la necessità, o quanto meno la rilevante opportunità, di prevedere, anche nel quadro del funzionamento degli strumenti di politica attiva del lavoro, altre forme di adempimento del dovere (e di valorizzazione del “lavoro di cura” svolto in famiglia)
Con riguardo, invece, alla condizione dei secondi, cioè dei poveri (soprattutto se si tratta di poveri “assoluti”) ed entrando dunque nello specifico campo di operatività delle poli- tiche contro la povertà (da costruire bilanciando la centralità della persona, di cui promuovere l’autonomia, con la rilevanza del contesto familiare), mi pare particolarmente fruttuosa, come già in precedenza notato, la prospettiva del welfare “generativo”. Una prospettiva la quale prende le distanze dalla logica della condizionalità (e dalle sue facili derive workfaristiche) per fare proprio un orientamento che valorizza, per contro, come si è avuto modo di accen- nare in altra parte del presente saggio, forme di coinvolgimento (su base non obbligatoria, ma adeguatamente stimolata e promossa) dei destinatari delle misure, attraverso lo svolgi- mento di attività a vantaggio della collettività (le c.d. “azioni a corrispettivo sociale”), con l’indispensabile contributo di progettualità e professionalità di soggetti tanto pubblici quanto privati (e, in particolare, del terzo settore)150, in vista del conseguimento degli obiettivi delle misure stesse.
Nel quadro di politiche di lotta alla povertà integranti percorsi di welfare generativo, quella della condizionalità (con il corollario della previsione di, più o meno robusti, sistemi sanzionatori) è chiamata a cedere il passo ad una logica che declini i doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) e lo specifico dovere di cui all’art. 4, comma 2, Cost. in una maniera che sappia, però, evitare anche una coniugazione meramente assistenzialistica dell’intervento. Se infatti, come è stato affermato con lo sguardo rivolto alla storia del welfare, «il modo migliore per difendersi dai poveri era ed è anche oggi assisterli, gestendo il rapporto di potere tra chi aiu- ta e chi è aiutato in questo modo»151, è proprio dall’ottica dell’esercizio del potere che è ne- cessario uscire, che si tratti di un potere che “conceda” oppure di un potere che “pretenda” senza riconoscere le condizioni e valorizzare le “capacità” di ciascuna persona. Tale risultato mirano a contribuire a raggiungere, coordinate con la componente monetaria degli interventi, le pratiche di welfare generativo, nell’ambito delle quali «la soluzione invece nasce dal riequi- librio di questo rapporto che rende possibile agire in “concorso al risultato”, con esiti misura- bili a vantaggio delle persone, del loro spazio di vita, con indici di impatto sociale che si espandono a vantaggio delle comunità dove si opera in questo modo», ferma la necessità,
149 In rapporto ai casi in cui si resti, invece, entro tali limiti, mi parrebbe infatti corretto configurare il si- stema degli istituti propri delle politiche attive del lavoro un articolato sistema di opportunità e strumenti con la funzione di contribuire, insieme ad altri interventi afferenti all’ampia area della politica economica ed occupaziona- le, a promuovere «le condizioni che rendano effettivo» il diritto al lavoro, senza nulla concedere alla logica della stretta condizionalità.
150 Si veda, di recente, per un inquadramento generale della posizione del terzo settore nell’ordinamento italiano alla luce dei pertinenti principi costituzionali, X. XXXXX, Costituzione, solidarismo pluralistico e terzo setto- re, Mucchi Editore, Xxxxxx, 0000.
151 X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 280.
affinché un’impostazione di questo tipo possa funzionare, di «una adeguata logistica uma- na», in grado di promuovere l’intrapresa da parte di ciascuno di fruttuosi cammini di emanci- pazione dalla propria condizione di povertà152, e, auspicabilmente, di una contestuale diffu- sione nel corpo sociale di approcci culturali propensi ad accoglierla come valida153.
Se alla fine di questo percorso di riflessione si volesse provare sinteticamente a ri- spondere al quesito formulato nel titolo di un recente volume, dedicato ai temi oggetto del presente saggio, a cura di Xxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx ed Xxxxx Xxxxxxx, ovvero «quale reddito di cittadinanza?», credo di non potere che rispondere nella maniera seguente: quello in grado di corrispondere alle specifiche condizioni delle persone in condizioni povertà, in vista della garanzia del loro diritto ad una esistenza libera e dignitosa attraverso processi di emancipazione e inclusione sociale fondati sulla valorizzazione delle loro capacità e in grado così anche di rafforzare i presupposti per un’effettiva partecipazione alla vita sociale e politi- ca, in coerenza con l’idea di cittadinanza sottesa all’art. 3, comma 2, Cost.
152 X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 280.
153 Cfr. in tal senso X. XXXXXXXX, op. cit., p. 386, la quale sostiene che «il modello di welfare generativo, per ben funzionare, abbisogna di una forte empatia sociale, in assenza della quale difficilmente si concretizza il principio giuridico dei solidarietà, e di un rapporto “armonico” e sussidiario fra pubblico e privato», aggiungendo che, in ogni caso, «tale metodo ha senz’altro il merito di aver riportato al centro del sistema sociale la “persona”, vista non uti singulus, ma come socius, e di aver proposto una visione del welfare – che non è un semplice costo da razionalizzare, ma un investimento sociale – in cui i diritti sociali non sono più (solo) meri diritti a prestazione, ma divengono “diritti a corrispettivo sociale”, “diritti a relazione”, “socialmente condizionati”, e il beneficiario della prestazione sociale diviene protagonista dell’intero processo e non passivo fruitore del servizio».