Indice
CONTI CORRENTI SENZA SORPRESE
PARERE - in materia di clausole vessatorie nei contratti di conto corrente bancario e servizi di incasso e pagamento
PARERE - IN MATERIA DI CLAUSOLE VESSATORIE NEI CONTRATTI DI CONTO CORRENTE BANCARIO E SERVIZI DI INCASSO E PAGAMENTO
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Premessa 6 Riferimenti generali 8 Conto corrente di corrispondenza 8 Servizi di pagamento 11 Normativa di eteronomia 12 Arbitro Bancario Finanziario 14 Specifica disamina di talune clausole contrattuali15 Il diritto di recesso. Recesso iniziale ovvero diritto di pentimento 15
Modifica unilaterale delle condizioni contrattuali da parte della banca 23
Clausola c.d. di pegno omnibus 31
Clausola di autorizzazione a cedere il rapporto e art. 58 TUB 34 Clausole sull’efficacia probatoria delle scritture contabili della banca 37 Clausole di fissazione dei presupposti della decadenza dal termine 38 Foro competente 40
Rifiuto o sospensione di pagamenti da parte della Banca 41
Si ringraziano i professori
Xxxxxxx Xx Xxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx
e l’avvocato Xxxxx Xxxxxxxxx
PARERE - in materia di clausole vessatorie nei contratti di conto corrente bancario e servizi di incasso e pagamento
per la collaborazione prestata nella redazione del Parere
Conti non movimentati 43 Reclami e risoluzione stragiudiziale delle controversie 45
La legge di riforma del 1993 chiede alle Camere di Commercio di vegliare sugli interessi generali del sistema delle imprese, svolgendo una funzione di garanzia in relazione al corretto funzionamento delle regole del mercato, dunque anche intervenendo là dove si determina una situazione di disparità del potere contrattuale, come riflesso del diverso grado di potere economico delle parti. Questa Camera, fin dal varo della legge di riordino degli Enti camerali, ha dedicato il massimo impegno nel dare attuazione alle nuove funzioni in materia di regolazione del mercato di cui all’art. 2 comma 4 e successive modifiche ex Decreto legislativo 15 febbraio 2010 n. 23.
Proseguendo in tale direzione e con particolare riferimento alle attribuzioni indicate alla lettera c, comma 4, art. 2 legge n. 580/93 (“promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti”), per il biennio in corso questo Ente, unitamente alla Camera di Commercio di Monza e Xxxxxxx, ha inteso affrontare il controllo delle condizioni contrattuali dei contratti che gli istituti bancari sottoscrivono con la clientela, tra cui le piccole e medie imprese e i consumatori per i servizi di conto corrente e i servizi di pagamento ed incasso sotto il profilo della trasparenza.
A tale proposito si sottolinea come non esista alcuna norma attuativa in merito all’art. 2, comma 4, lett. c della legge 580/93, (oggi art. 2, comma 2, lett. i, D. Lgs. N. 23/2010) sul controllo delle clausole inique, così pure le fonti normative non prevedono alcun elenco esplicativo di clausole presunte tali “ipso jure”, in quanto l’elenco di clausole presunte vessatorie, contenute nell’art. 33 del Codice del consumo, riguarda solo i contratti rivolti al consumatore, inteso come persona fisica che agisce al di fuori dell’attività commerciale e quindi non sono riconducibili all’attività di impresa.
Inoltre, al riguardo non esiste la possibilità di attivare un’azione inibitoria ai sensi del codice civile, come è invece previsto in materia di contratti relativi ai consumatori.
Tuttavia, questa Camera e quella di Monza e Brianza hanno inteso dare concretezza al dettato normativo riportato dalla legge di riforma e successive modifiche, procedendo
a verifiche delle clausole inique anche nei contratti conclusi con i consumatori.
Tale scelta, che ha ridimensionato il campo d’indagine, è scaturita dall’instabilità normativa che ha caratterizzato i contratti conclusi dai non consumatori.
L’esame è stato caratterizzato da un certo margine di discrezionalità, legato a un esame generale degli squilibri contrattuali, anche se non è stato abbandonato quale punto di riferimento il principio dell’autonomia e libera determinazione delle parti nella concreta determinazione dell’assetto negoziale. In questo contesto le valutazioni hanno tenuto conto dello scenario economico generale in cui il mondo del credito, nonostante la grave crisi, mantiene una posizione contrattuale privilegiata.
L’Associazione Bancaria Italiana ha manifestato la più ampia disponibilità a collaborare per il miglior esito del presente lavoro.
L’obiettivo, che la Camera di Milano e quella di Monza e Brianza si prefiggono attraverso questa azione, è quello di predisporre un documento completo e autorevole sotto il profilo giuridico; questo per ottenere una maggiore efficacia nell’azione di riformulazione, in maniera più equa e trasparente, delle clausole delle condizioni generali di contratto, eventualmente ritenute poco chiare e/o vessatorie.
Per meglio inquadrare il discorso, conviene tracciare le linee distintive del servizio di conto corrente bancario, da un lato, e dei servizi di pagamento.
Conto corrente di corrispondenza
In materia di conto corrente rilevano due differenti tipologie e segnatamente il conto corrente bancario – per l’appunto detto anche conto corrente di corrispondenza - e il conto corrente ordinario.
Il conto corrente bancario è un particolare contratto, che non è esplicitamente previsto dal codice civile (il quale si limita a prevedere che delle operazioni vengano regolate in conto corrente); con il medesimo la banca – custodendo le somme affidatele ovvero impegnandosi a dare fido (o anche solo tollerando sconfinamenti) - assume l’incarico di compiere pagamenti o riscossioni di somme per conto del cliente e dietro suo ordine, diretto o indiretto. Presupposto dell’esecuzione dei predetti servizi è, dunque, la sussistenza di una disponibilità del cliente; i movimenti sono annotati sul conto in addebito e in accredito ed il saldo è in ogni momento a disposizione del correntista.
Il conto corrente ordinario è, invece, operazione espressamente prevista dal codice civile che all’art. 1823 lo definisce come «il contratto col quale le parti si obbligano ad annotare in un conto i crediti derivanti da reciproche rimesse, considerandoli inesigibili e indisponibili fino alla chiusura del conto». La reciprocità delle rimesse che caratterizza detto contratto costituisce elemento differenziale rispetto al contratto di conto corrente bancario ove manca tale reciprocità. Nel conto corrente ordinario le singole rimesse, seppure annotate in conto, mantengono la loro individualità, conservando ciascuna l’eventuale garanzia del credito che l’assiste (art. 1828 c.c.) e attuandosi la compensazione solo alla chiusura del conto.
Diversamente avviene nel conto corrente di corrispondenza ove le partite iscritte in
conto perdono la loro individualità e modificano immediatamente e automaticamente il saldo disponibile, che presenta conseguentemente sempre una risultanza attiva o passiva.
Un’altra differenza tra queste due tipologie di conto corrente opera sul piano degli effetti: mentre per il conto corrente ordinario l’art. 1823 cod. civ. postula l’inesigibilità delle poste sino alle chiusure periodiche, nel conto corrente bancario il correntista può disporre in ogni momento delle somme risultanti a suo credito. Questo meccanismo è confermato dalla disciplina del codice, là dove questo si occupa della regolamentazione in conto di date operazioni bancarie. Più precisamente, l’art. 1852 cod. civ. viene a prevedere che il deposito, l’apertura di credito e le altre operazioni bancarie possano essere regolate in conto corrente. Tale regolamento si concretizza nell’adozione di un modo di registrazione analogo a quello del conto corrente non bancario, ma che da questo si distingue per le finalità sue proprie, venendosi a configurare come un conto di gestione volto a consentire al cliente non solo di utilizzare e ricostituire continuativamente presso la banca le provviste a sua disposizione ma anche a determinare, attraverso la somma algebrica delle poste annotate nel conto, l’ammontare delle somme di cui può disporre in qualsiasi momento. La disciplina codicistica sembrerebbe far presumere che il descritto regime contabile valga ad individuare non già un tipo contrattuale, bensì una clausola che, sebbene tipizzata, resta comunque accessoria dei vari contratti bancari nominati, rispetto ai quali la stessa costituirebbe una mera modalità di svolgimento, inidonea, come tale, ad alterarne la struttura.
Il conto corrente bancario si atteggia come uno schema contrattuale “socialmente tipico”, in cui il descritto regime contabile, che si compendia nella possibilità per il correntista di disporre in ogni momento del saldo a suo credito, assurge a tratto distintivo della fattispecie. Si tratta dell’operazione bancaria a breve (vista, meglio) più diffusa nella prassi; il conto corrente ordinario non vi gioca, per contro, alcun ruolo.
Sempre nella prassi, le tipologie operative di conto corrente di corrispondenza più diffuse sono:
- i conti cosiddetti a consumo, in cui le spese dipendono dal numero di operazioni effettuate di talché più il cliente opera più paga e viceversa;
- i conti in convenzione vale a dire conti che, in virtù di precisi accordi tra la banca e determinate categorie di utenti (esemplificativamente: i dipendenti di una azienda; i soci di una cooperativa; gli iscritti ad un albo professionale) offrono sconti e agevolazioni;
- i conti a pacchetto che prevedono, a fronte di un canone periodico, agevolazioni e sconti su servizi quali ad esempio l’home banking, la carta di credito, il deposito titoli. All’interno di tale tipologia sono rinvenibili conti a pacchetto con franchigia in cui il canone include un numero limitato di operazioni gratuite e conti a pacchetto senza franchigia in cui è possibile effettuare un numero illimitato di operazioni gratuite.
Spostando ora l’attenzione sulle modalità operative del conto si rileva che il correntista può disporre del conto corrente per mezzo di ordini scritti o orali che producono effetto solo quando pervengono alla banca trattandosi di atti unilaterali recettizi. L’ordine può essere impartito in vari modi e segnatamente con la richiesta di emissione di assegni circolari a favore del correntista stesso o di terzi con addebito sul conto; con l’emissione di assegni bancari nell’ipotesi in cui tra la banca e il correntista sia intervenuto uno specifico accordo, chiamato convenzione di assegno.
Il costo complessivo del conto corrente è di solito composto da una parte fissa e da una variabile. I costi fissi principali riguardano il pagamento del canone annuo di conto corrente, i canoni legati a eventuali carte di pagamento, le imposte di bollo, le spese per l’invio delle comunicazioni al cliente.
I costi variabili dipendono dal numero e dal tipo di operazioni che si fanno e riguardano principalmente le spese per la registrazione sul conto di ogni operazione, le commissioni per l’esecuzione dei singoli servizi, le spese di liquidazione periodica, gli interessi e gli altri oneri di scoperto. Un utile parametro informativo per la valutazione dei costi consiste nell’Indicatore Sintetico di Costo che stima il costo del conto corrente sulla base di uno o più profili di operatività standard.
La nozione di servizi di pagamento risulta attualmente definita dall’art. 1, comma 1, lett.
b. d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 11. Essa consta delle seguenti attività:
1) servizi che permettono di depositare il contante su un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione del conto medesimo;
2) servizi che permettono prelievi in contante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione dello stesso;
3) esecuzione di ordini di pagamento, incluso il trasferimento di fondi, su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utente o presso un altro prestatore di servizi di pagamento: 3.1. esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; 3.2. esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 3.3. esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti;
4) esecuzione di operazioni di pagamento quando i fondi rientrano in una linea di credito accordata ad un utente di servizi di pagamento: 4.1. esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; 4.2. esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 4.3. esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti;
5) emissione e/o acquisizione di strumenti di pagamento;
6) rimessa di denaro;
7) esecuzione di operazioni di pagamento ove il consenso del pagatore ad eseguire l’operazione di pagamento sia dato mediante un dispositivo di telecomunicazione, digitale o informatico e il pagamento sia effettuato all’operatore del sistema o della rete di telecomunicazioni o digitale o informatica che agisce esclusivamente come intermediario tra l’utente di servizi di pagamento e il fornitore di beni e servizi.
In materia di conto corrente di corrispondenza e di servizi di pagamento rileva, prima di tutto, la normativa del codice civile. Questa si articola nella disciplina sul contratto in generale (artt. 1321 ss.) e nella disciplina sui contratti bancari (artt. 1834 ss.), che già sopra è stata richiamata. A fianco di questa serie di normative si pone poi la normativa generale dei contratti con i consumatori, di origine comunitaria: questa, che per un certo periodo di tempo ha soggiornato nel codice civile (cfr., in via segnata, gli art. 1469-bis ss.), oggi si trova raccolta nel Codice del Consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206).
Da tenere in conto particolare è, inoltre, la legge centrale del settore bancario, il c.d. TUB (testo unico delle leggi bancarie e creditizie), del settembre 1993, ma infinite volte rimaneggiato nel corso degli anni. Tra le altre cose, il TUB contiene un’apposita normativa dedicata alla trasparenza delle operazioni contrattuali delle banche e delle finanziarie. Per essere più specifici, questa normativa si articola, attualmente, in tre serie distinte.
La prima costituisce la parte «storica» della materia e riguarda tutte le operazioni bancarie che non siano interessate dalle altre serie. La seconda concerne il credito ai consumatori ed è stata di recente rinnovata in sede di recepimento della nuova direttiva CE dedicata all’omologa materia: la modifica è avvenuta nella seconda metà del 2010. Alla prima parte di quell’anno risale la terza serie, che riguarda proprio il tema dei servizi di pagamento. Anche tale normativa è frutto dipendente dall’intervento comunitario: in via segnata, il riferimento va alla nota direttiva PSD.
Quest’ultima direttiva, peraltro, non è stata recepita solo mediante modifica del testo unico, ma anche – per una certa parte – a mezzo del decreto legislativo n. 11 del gennaio 2010.
Queste le norme primarie che in via principale convergono per regolare e controllare il potere di autonoma predisposizione dei contenuti contrattuali che il nostro sistema riconosce in genere alle imprese e, in specie, a quelle che svolgono attività bancaria
(come pure, per quanto più da vicino può qui interessare, agli imel, agli istituti di pagamento e, marginalmente assai, agli intermediari finanziari ex artt. 106 ss. TUB).
A parte la normativa di legge, va tenuta anche in debita attenzione la normativa che la Banca d’Italia è abilitata a emettere – secondo il potere attribuitole dal TUB – relativamente alle operazioni di cui si discute.
In materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari la Banca d’Italia ha emanato un provvedimento in data 31/07/2009 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 210 del 10/09/2009) che è stato superato da altro provvedimento nel 2010 e nuovamente ed integralmente sostituito dal Documento della Banca d’Italia del 9 febbraio 2011 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.29 del 2011) a cui i finanziatori e gli intermediari del credito dovevano adeguarsi entro 90 gg. Quest’ultimo provvedimento fornisce, tra le altre e tante cose, chiarimenti interpretativi e indicazioni volte a coordinare l’applicazione della disciplina sul credito ai consumatori, di recente modifica, con la normativa generale sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi.
Per quanto concerne la materia dei servizi pagamento, il riferimento corre invece alle disposizioni datate 15 febbraio 2010.
Un cenno a parte occorre svolgere per l’ABF, organismo di risoluzione stragiudiziale (o paragiudiziale) delle controversie istituto nel 2009 sulla base della previsione dell’art. 128-bis TUB, impiantata nel corpo della legge di settore a seguito della legge sulla tutela del risparmio di fine 2005.
L’Arbitro bancario, operativo da inizio 2010, si articola in tre collegi con sede a Milano, Roma e Napoli; ciascun collegio è composto da cinque membri: due indicati dalle associazioni degli intermediari e dei clienti; tre, compreso il presidente, nominati dalla Banca D’Italia.
All’ABF possono essere sottoposte tutte le controversie aventi ad oggetto l’accertamento di diritti, obblighi e facoltà per operazioni fino a 100.000 euro, purché si tratti di fattispecie verificatesi dal 1 gennaio 2007 e che non siano già state sottoposte all’autorità giudiziaria.
Il ricorso al nuovo organismo deve essere preceduto da un reclamo presentato direttamente all’intermediario, il quale dovrà fornire tutte le informazioni sulla procedura e in trenta giorni dare una risposta a tale reclamo. Il ricorso al nuovo organismo è ammesso purché non siano trascorsi più di dodici mesi dalla presentazione del reclamo. Il collegio dovrà pronunciarsi entro sessanta giorni dal momento in cui ha ricevuto le controdeduzioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine per la presentazione di queste ultime da parte dell’intermediario.
Del 12 dicembre di quest’anno sono le ultime modifiche regolamentari alla figura di composizione delle liti così articolata.
SPECIFICA DISAMINA DI TALUNE CLAUSOLE CONTRATTUALI
Il diritto di recesso. Recesso iniziale ovvero diritto di pentimento
Nei contratti esaminati negoziati fuori dai locali della banca, si prevede che il cliente- consumatore può recedere senza penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di 10 giorni lavorativi “dalla data di conclusione del contratto”. In un caso, nel modulo di apertura del conto corrente col consumatore che costituisce proposta contrattuale, si prevede che il correntista ha diritto di recedere, senza alcuna penalità o spese e senza specificarne il motivo, entro 10 giorni lavorativi decorrenti invece “dalla sottoscrizione della proposta medesima”. La decorrenza del dies a quo prevista da queste clausole non è conforme a quello dell’art. 65, 1° co., lett. a) e 3° co. cod. cons., a mente del quale il termine per l’esercizio del diritto di recesso nei contratti o nelle proposte contrattuali riguardanti la prestazione di servizi negoziati fuori dei locali commerciali, decorre dalla data di ricezione dell’informazione sul diritto di recesso di cui all’articolo 47 cod. cons., e in difetto di tale informazione è di 60 giorni dalla conclusione del contratto.
Nei contratti esaminati che prevedono la commercializzazione a distanza si prevede correttamente che il cliente può recedere, senza penali e senza dover indicare il motivo, nel termine di 14 giorni dalla conclusione del contratto, mediante lettera raccomandata. In un altro caso si prevede, anche questa volta correttamente, che il termine decorre dalla data della comunicazione dell’accettazione della richiesta di attivazione del conto. La prima come la seconda clausola sono conformi alla disciplina del codice del consumo, ma a patto di essere integrate dall’ulteriore statuizione secondo cui il termine per esercitare il c.d. diritto di ripensamento decorre dalla data in cui il consumatore riceve le condizioni contrattuali e le informazioni di cui all’articolo 67-undecies, cod. cons. se tale data è successiva a quella di conclusione del contratto.
Si prevede inoltre che se prima del recesso il cliente ha usufruito di servizi previsti dal
contratto, da lui espressamente richiesti, questi è tenuto a pagare le spese relative secondo quanto indicato nelle condizioni economiche del contratto medesimo oppure che egli è tenuto a pagare solo quanto dovuto per il servizio effettivamente prestato dalla banca. Tali previsioni contrattuali paiono conformi all’art. 67-terdecies cod. cons., anche se occorre precisare che grava sulla banca l’onere di provare che il consumatore è stato debitamente informato dell’importo dovuto e, in ogni caso, può essere trattenuto dalla banca “solo l’importo del servizio finanziario effettivamente prestato”, che deve essere di entità tale da non costituire una penale e deve essere commisurato all’importanza del servizio fornito e proporzionato alle prestazioni previste dal contratto.
1) Segue. Tempo e modalità di preavviso del recesso ad nutum
La maggior parte dei contratti di conto corrente a tempo indeterminato esaminati prevede clausole di recesso conformi quanto al tempo e alle modalità di preavviso agli artt. 120-bis T.U.B., 1833 cod. civ. e 33, 3° co. lett. a), cod. cons.
La maggior parte dei contratti stabilisce che il cliente può recedere in qualsiasi momento, senza penalità e senza spese di chiusura, dandone comunicazione alla banca per iscritto (su supporto cartaceo o su altro supporto durevole, per lo più a mezzo di lettera raccomandata A/R o anche telegramma o tramite e-mail).
In più contratti si prevede che il cliente debba dare un preavviso di 15 giorni e la banca di almeno 2 mesi (in un caso con la precisazione che se il rapporto di conto corrente non è ancora reso operativo dal cliente, la banca può recedere con un preavviso minimo di 15 giorni). In un caso si prevede che ognuna delle parti possa recedere da tutti o da singoli rapporti, in qualsiasi momento, con il preavviso di 15 giorni. In un altro caso si prevede che il cliente debba dare un preavviso alla banca di almeno 3 giorni e che quest’ultima debba dare un preavviso minimo al cliente di 2 mesi, se si tratta di consumatore o micro-impresa, e di 10 giorni nei confronti degli altri clienti.
Un termine di preavviso di almeno 3 o 15 giorni non pare limitativo del diritto del cliente di recedere sancito all’art. 120-bis T.U.B., il quale attribuisce al cliente, nei
rapporti a tempo indeterminato, il diritto di recedere “in ogni momento” senza vietare l’eventualità di un preavviso (ragionevolmente contenuto). L’ammissibilità di un termine di preavviso alla banca da parte del cliente risulta confermata dall’art. 125-quater T.U.B., che in un’ottica protettiva del consumatore, prevede che nei contratti di credito a tempo indeterminato il consumatore ha il diritto di recedere in ogni momento e che il contratto può prevedere un preavviso non superiore a un mese.
Non appare completa la clausola che prevede che il cliente e la banca hanno il diritto di recedere, in qualsiasi momento, e che il cliente debba dare un preavviso di 1 giorno e la banca, con riferimento al cliente-consumatore, possa recedere con preavviso di 7 giorni (ovvero, in presenza di giustificato motivo, con preavviso di 1 giorno), senza nulla dire del termine di preavviso della banca nei rapporti con i non consumatori.
Appare equilibrata la clausola che prevede che il cliente e la banca hanno diritto di recedere in qualsiasi momento, e che nel caso di recesso della banca è dovuto al cliente non consumatore o al dettaglio il preavviso di almeno un giorno.
Atteso che nella maggior parte dei contratti il diritto di recesso è regolato nella parte generale relativa al conto corrente, se non persino nella parte relativa al rapporto banca-cliente nel suo complesso (ad es. conto corrente, convenzioni di assegno, servizi di pagamento, aperture di credito, e altri servizi bancari/finanziari), pare opportuno coordinare le clausole sul recesso relative ai diversi servizi e, dunque, vanno valutate positivamente le clausole dei contratti esaminati che fanno salve le diverse disposizioni in tema di recesso previste in altre clausole con riguardo ai singoli servizi.
Quanto ad esempio al preavviso per il recesso dalla convenzione di assegno, ove espressamente disciplinato, si prevede o che il cliente e la banca possono recedere in qualsiasi momento, dandone comunicazione all’altra parte con preavviso di 15 giorni o si richiede al cliente un termine pari a 10 o alla banca un termine pari a 10 o a 20 giorni. Trattandosi di rapporto a tempo indeterminato, accessorio al conto corrente, tutte queste pattuizioni, per le ragioni sopraindicate, paiono conformi al dettato dell’art. 120-bis T.U.B.
2) Segue. Giustificato motivo di recesso
Tutti i contratti esaminati consentono sia al cliente sia alla banca di recedere anche senza preavviso qualora vi sia un giustificato motivo o una giusta causa, dandone immediata o pronta comunicazione all’altra parte, e ciò anche nei rapporti con i non consumatori. In alcuni contratti si prevede comunque a carico della banca un termine di preavviso (di un giorno).
In alcuni contratti si indicano, a mero titolo indicativo e non esaustivo, alcune ipotesi che costituiscono giustificato motivo di recesso. Esse riguardano la posizione patrimoniale del cliente e la relazione fiduciaria banca-cliente (ad es. verificarsi di eventi che incidono negativamente sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica del cliente ovvero che influiscono sul rischio della banca; dichiarazioni da parte del cliente alla banca reticenti o non rispondenti al vero o dissimulazioni di fatti o informazioni che, se conosciuti, avrebbero indotto la banca a non stipulare il contratto o a stipularlo a condizioni diverse; sussistenza di fatti che pregiudicano il rapporto fiduciario tra banca e cliente; diminuzione per fatto proprio delle garanzie date o mancata prestazione di quelle promesse in relazione alla prestazione dei servizi prestati dalla banca; elevazione di protesto o dichiarazione equivalente della “stanza di compensazione”; insolvenza, anche senza pronunzie giudiziali, fallimento o soggezione ad altra analoga procedura concorsuale o a procedure di esecuzione forzata; liquidazione o altra causa di scioglimento del cliente-persona giuridica; emissione di decreto ingiuntivo o altri provvedimenti come sequestri civili e/o penali o provvedimenti restrittivi della libertà personale nei suoi confronti; iscrizione di ipoteca giudiziale o concessione di ipoteca volontaria; cessione di beni ai creditori o proposta ai creditori di altre forme di sistemazione della propria posizione debitoria, in generale o per una significativa parte dei crediti).
Atteso che la nozione di giustificato motivo va intesa “nel senso di ricomprendere gli eventi di comprovabile effetto sul rapporto bancario” e tra tali eventi vi sono “quelli che afferiscono alla sfera del cliente (ad esempio, il mutamento del grado di
affidabilità dello stesso in termini di rischio di credito)” (Circolare del Ministero delle Sviluppo Economico in data 21 febbraio 2007, avente ad oggetto “Chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 10 della legge 4 agosto 2006, n. 248”, Prot. n. 0005574), si può ritenere che le ipotesi di giustificato motivo riportate dai contratti siano in astratto ammissibili, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’effettivo venir meno del rapporto fiduciario e della meritevolezza del credito.
3) Segue. Termine di efficacia del recesso
Nella maggior parte dei contratti esaminati si prevede che il recesso ha effetto nel momento in cui la parte non recedente ne riceve comunicazione, il che è conforme ai principi generali in tema di atti unilaterali recettizi.
Vi sono tuttavia alcune ipotesi di efficacia differita o ultra-attività. In un caso si prevede che il recesso del cliente è efficace decorsi 10 giorni lavorativi dal momento in cui la banca ne riceve comunicazione; in un altro caso, viene pattuito che la banca esegue la chiusura del rapporto contrattuale eventualmente disposta dal cliente entro un tempo massimo di 15 giorni. In un altro caso ancora si prevede che la liquidazione e il pagamento del saldo del conto corrente verranno effettuati dalla banca, in caso di saldo positivo, entro un termine massimo di 60 giorni o di 120 giorni, se occorre liquidare titoli illiquidi o di ridotta o non agevole liquidabilità, e in ogni caso entro al massimo 60 giorni in caso di saldo negativo. Per inciso, non integra invece un’ipotesi di ultra-attività la pattuizione secondo cui, in presenza di uno o più depositi vincolati, collegati al conto corrente, gli effetti del recesso del cliente dal contratto sono differiti sino alla data di scadenza di ogni deposito vincolato, ciascuno dei quali continua a essere regolato dal contratto sino alla propria data di scadenza.
Posto dunque che il recesso dal contratto determina lo scioglimento del rapporto, la previsione di un’ultra-attività del contratto non pare censurabile a condizione che non determini uno squilibrio ingiustificato a favore della banca, e purché l’efficacia differita sia contenuta nello stretto necessario e trovi una giustificazione obiettiva nella necessità di porre in essere le operazioni di chiusura del rapporto e non importi spese
aggiuntive per servizi non richiesti dal cliente. Solo in questi limiti è ammissibile porre in capo al cliente l’obbligo di rimborsare alla banca le spese derivanti dall’esecuzione delle relative operazioni.
Ciò vale anche per l’ipotesi in cui il recesso del cliente in relazione a taluni servizi accessori al conto corrente abbia effetto a partire dal primo giorno del mese in cui la banca ne riceve comunicazione; pertanto, non solo a partire da tale data non sarà dovuto il corrispettivo mensile per il servizio da cui si recede, ma anche prima di tale data non potranno essere imposti costi aggiuntivi per servizi non richiesti dal cliente. Si consideri infatti che l’articolo 10-bis del. CICR 4 marzo 2003 come modificato dal
d.m. 3 febbraio 2011 stabilisce che “Il rimborso agli intermediari delle spese sostenute in relazione a servizi aggiuntivi chiesti dal cliente che recede da un contratto ai sensi dell’articolo 120-bis del TUB è possibile solo in relazione a servizi non necessari per l’esercizio del recesso o, se necessari, solo quando il servizio presuppone l’intervento di un soggetto terzo e le relative spese sono state pubblicizzate e riportate nel contratto”. Per le sopraesposte ragioni la clausola che dispone che la banca procede al calcolo del saldo di chiusura del conto non appena dispone dei dati di tutte le operazioni addebitabili sul conto, effettuate dal cliente con assegni, carte di pagamento o con altra modalità, non si presta a censure, ma la sua concreta applicazione deve essere tale da non procrastinare, a svantaggio del cliente, la chiusura definitiva del conto.
4) Segue. Recesso parziale/totale
Tutti i contratti, nelle norme generali relative al rapporto banca-cliente o del c.d. contratto unico, regolano l’ambito di efficacia del recesso tramite clausole di separabilità o di inseparabilità del rapporto di conto corrente con gli altri servizi (ad es. i fidi, le convenzioni di assegno, i servizi di pagamento, i servizi di investimento, ecc.). Tali clausole, a patto di essere formulate in maniera chiara, vanno valutate positivamente, dal momento che esse eliminano un fattore di incertezza per il cliente, che altrimenti può non essere in grado di comprendere di quali servizi continua a usufruire. Al proposito soggiungiamo che la clausola che dispone che il recesso da uno o più servizi
comporta l’impossibilità per il cliente di avvalersi dei servizi a esso/i funzionalmente e indissolubilmente collegati, potendo invece continuare a utilizzare i servizi diversi da questi ultimi, rischia di rivelarsi una clausola di stile (come tale inefficace), se non vengono specificamente indicati nel contratto i servizi che vengono meno e quelli che invece restano in essere.
5) Segue. Effetti del recesso
Posto che il recesso determina lo scioglimento del rapporto, non si prestano a censure le clausole che esonerano la banca dall’eseguire gli ordini ricevuti e a pagare gli assegni tratti con data posteriore a quella in cui il recesso è diventato efficace o che stabiliscono che in seguito al recesso dal contratto nessuna ulteriore operazione può più essere regolata sul conto corrente bancario.
Affrontano un problema delicato le clausole che in caso di recesso del correntista dal contratto, esonerano la banca dall’eseguire gli ordini ricevuti e a pagare gli assegni tratti con data anteriore a quella in cui il recesso è divenuto operante con la comunicazione di recesso, oppure che la banca non è tenuta a eseguire gli ordini ricevuti dal cliente nel periodo intercorrente tra la sua comunicazione di recesso e la data di efficacia dello stesso. Tali clausole possono considerarsi non censurabili, a condizione che si conceda al cliente di indicare quali ordini, tra quelli impartiti prima che il recesso sia divenuto operante, egli intende siano eseguiti comunque anche dopo la sua dichiarazione di recesso e fino all’estinzione del rapporto.
Va valutata in concreto, per evitare possibili abusi, l’applicazione della clausola secondo cui, in caso di scioglimento del contratto anche per recesso, la banca può, se lo ritiene opportuno, sospendere l’esecuzione degli ordini, procedere alla liquidazione anticipata delle operazioni in corso e adottare tutte le misure opportune per l’adempimento delle obbligazioni derivanti da operazioni poste in essere per conto del cliente, senza pregiudizio di ogni altro rimedio e del risarcimento degli eventuali danni.
Sono conformi ai principi generali in tema di adempimento e restituzioni, le clausole
che impongo al cliente di adempiere a tutte le obbligazioni sorte a suo carico prima del recesso e che stabiliscono che egli resta responsabile di ogni conseguenza derivante dall’utilizzo successivo dei servizi collegati (quali ad es. carte di credito). Lo stesso dicasi per la clausola che dispone che, in caso di recesso dal contratto del cliente o della banca, le spese per i servizi di pagamento fatturate periodicamente sono dovute dal cliente solo in misura proporzionale per il periodo precedente al recesso e, se pagate anticipatamente, sono rimborsate in maniera proporzionale.
Modifica unilaterale delle condizioni contrattuali da parte della banca
I contratti esaminati disciplinano la modifica unilaterale delle condizioni contrattuali o con una clausola che riproduce in parte il contenuto dell’art. 118 T.U.B. o con una clausola di rinvio (che prevede ad es. che la banca si riserva la facoltà di modificare unilateralmente le norme e le condizioni economiche applicate al rapporto, nel rispetto dei criteri e delle modalità stabilite dall’art. 118 T.U.B.). Anche la soluzione redazionale del rinvio all’art. 118 T.U.B. è ammissibile.
Si può notare che nei contratti esaminati non risulta essere stata esercitata la facoltà di cui all’art. 118, co. 2-bis, T.U.B., sicché non risultano nei contratti a tempo determinato in cui il cliente non è né un consumatore né una micro-impresa clausole che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse al verificarsi di specifici eventi e condizioni, predeterminati nel contratto.
Le clausole che riproducono l’art. 118 T.U.B. in prevalenza riportano la disciplina dei commi primo, secondo e, talvolta, terzo. Talora tuttavia apportano integrazioni o variazioni non sempre conformi al dettato attuale del T.U.B.
In due casi si fa ancora riferimento al testo previgente dell’art. 118 T.U.B. e si indicano in 60 giorni, anziché in 2 mesi (come prevede il testo attuale), sia il preavviso della modifica prevista dalla banca sia il termine per l’esercizio del recesso da parte del cliente: è evidente la necessità di adeguamento al testo vigente dell’art. 118 T.U.B.
Il calcolo in giorni invece che in mesi può non portare a risultati identici, quando si susseguono due mesi di 31 giorni o un mese di 30 e uno di 31 giorni. Si precisa che di per sé nulla osta all’indicazione dei termini di preavviso e di recesso su base giornaliera anziché mensile, purché sia chiara la modalità di computo (ad es. calcolo in base ai giorni lavorativi bancari) e fermo il rispetto di almeno 2 mesi di preavviso come termine libero per l’esercizio del diritto di recesso del cliente.
Per incidens, osserviamo che, dato che ex art. 118 il cliente ha diritto di recedere dal contratto entro la data prevista per l’applicazione delle modifiche previste e due mesi è
il preavviso “minimo” per l’invio della comunicazione di proposta di modifica da parte della banca, la banca deve comunicare tale proposta con un preavviso superiore a 2 mesi, di quanto basta per essere certi che il cliente abbia un termine libero di 2 mesi per recedere prima dell’applicazione delle nuove condizioni. Per la stessa ragione, anche la proposta di modifica della banca deve recare come data prevista per l’applicazione delle nuove condizioni una data superiore a 2 mesi.
In un caso tra quelli sottoposti all’esame della Commissione si stabilisce che la proposta di modifica unilaterale del contratto viene inviata con un preavviso minimo di 30 giorni, anziché di due mesi come dispone l’art. 118 T.U.B. e che il correntista ha diritto di recedere entro 60 giorni dalla comunicazione della modifica. Anche qui la pattuizione va adeguata alla disciplina vigente.
Per quanto sopra detto, la clausola che prevede che la modifica si intende approvata se il cliente non recede dal contratto entro due mesi è conforme alla disciplina legislativa a patto di calcolare i 2 mesi dal momento della ricezione della comunicazione della proposta di modifica (cfr. disp. trasp. Banca d’Italia p. 27 secondo cui i termini per l’esercizio del diritto di recesso decorrono dalla ricezione della comunicazione anche se il contratto prevede l’impiego dello strumento informatico e per ricezione si deve intendere la possibilità per il cliente di accedere al contenuto della comunicazione; nello stesso senso cfr. decisione ABF, n. 443 del 27 maggio 2010 secondo cui il preavviso di 2 mesi, nonché la tempestività dell’eventuale recesso del cliente vanno verificati a norma dell’art. 1335 cod. civ. e dunque le comunicazioni della banca e del cliente sono reputate come «conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia»).
Quanto alle modalità di comunicazione della proposta di modifica, l’art. 118 T.U.B. richiede che la comunicazione avvenga o in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente.
In alcuni contratti sottoposti all’esame della Commissione la banca si riserva di effettuare la suddetta comunicazione pubblicando le modifiche in una specifica
sezione protetta del sito internet della Banca. Nei contratti esaminati quest’ultima modalità di comunicazione si accompagna alla trasmissione della proposta di modifica unilaterale del contratto via e-mail all’indirizzo di posta elettronica indicato dal cliente, sicché l’onere di comunicazione ex art. 118 T.U.B. risulta pienamente rispettato.
In altri contratti sottoposti all’esame della Commissione la banca si riserva di effettuare la suddetta comunicazione anche inserendola nell’estratto conto o mediante l’invio del Documento di sintesi. Tali modalità di comunicazione non sono censurabili, a condizione che tali documenti rechino in modo evidenziato la formula “Proposta di modifica unilaterale del contratto” e, in ogni caso, a patto di salvaguardare la trasparenza e la chiarezza della proposta di modifica sottoposta al cliente, sicché non sarebbe conforme all’art. 118 T.U.B. ad esempio l’invio di un Documento di sintesi che si limitasse a riportare (ancorché evidenziate) le nuove condizioni di contratto senza indicare chiaramente la variazione rispetto alle condizioni precedenti e il motivo per cui si propone la modifica.
Per quanto concerne il requisito del giustificato motivo, sembra dovuta a una svista redazionale la clausola che prevede le condizioni economiche e le altre condizioni contrattuali che regolano il rapporto di conto corrente e relativi servizi accessori possano essere modificate unilateralmente, anche in senso sfavorevole al correntista, in presenza di un giustificato motivo, ma che poi soggiunge che il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione possa variare anche in senso sfavorevole al correntista, senza menzionare il requisito del giustificato motivo, che, evidentemente, è necessario anche per queste voci.
I contratti esaminati subordinano la facoltà di modifica unilaterale alla sussistenza di un giustificato motivo, senza definire ex ante cosa debba intendersi con tale espressione. La Commissione ritiene questa modalità di redazione contrattuale conforme alla disciplina vigente dato che essa si limita a prevedere che, sia nei contratti a tempo indeterminato sia negli altri contratti di durata, può essere convenuto, con clausola approvata specificamente dal cliente, lo ius variandi “qualora” o “sempre che sussista un giustificato motivo”, senza richiedere che esso sia predeterminato al momento della
stipulazione del contratto (cfr. sul punto anche disp. trasp. Banca d’Italia, p. 22 e 25 ove non si richiede la previa indicazione). Ciò vale anche per i contratti con i consumatori, atteso che se è vero che la norma di portata generale dell’art. 33, 1° co., lett., m) cod. cons. richiede che il giustificato motivo sia “indicato nel contratto stesso”, si deve ritenere prevalente in materia la deroga alla lettera m) suindicata introdotta dalla norma speciale di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 33 medesimo per i quali è sufficiente che “via sia” o “sussista un giustificato motivo”. La specifica, concreta proposta di modifica unilaterale del contratto dovrà invece informare il cliente del giustificato motivo alla base della modifica “in maniera sufficientemente precisa e tale da consentire una valutazione circa la congruità della variazione rispetto alla motivazione che ne è alla base” (Circolare del Ministero delle Sviluppo Economico in data 21 febbraio 2007 avente ad oggetto “Chiarimenti in merito all’applicazione dell’articolo 10 della legge 4 agosto 2006, n. 248”, Prot. N. 0005574).
Alcuni contratti riportano degli esempi di giustificato motivo in tema di recesso, senza chiarire se gli esempi valgano anche per lo ius variandi unilaterale. L’incertezza ex ante sarà superata dalla circostanza che sarà la proposta di modifica a indicare il motivo che giustifica le modifiche previste.
Solo in un caso vengono elencate, a mero titolo indicativo e non esaustivo, alcune ipotesi di giustificato motivo di modifica unilaterale (ad esempio, variazioni dei tassi di interesse conseguenti a decisioni di politica monetaria stabilite da Banche Centrali o conseguenti all’andamento del mercato finanziario e monetario; variazione dei tassi di interesse di primaria importanza per il mercato come l’Euribor o di altri parametri economici rilevanti come gli indici ISTAT; variazione di altre condizioni di mercato come l’aumento generale dei costi industriali o di trasporto valori o forniture di servizi informatici, spese postali, presidi di sicurezza che abbiano impatto sui costi di produzione delle operazioni e servizi bancari; variazioni degli oneri sostenuti dalla banca nei confronti di terzi per l’espletamento di servizi connessi ai singoli rapporti o a seguito dell’introduzione di nuove disposizioni di legge, normative e regolamentari; provvedimenti delle Autorità competenti, protocolli di intesa con le associazioni di
consumatori e/o utenti dei servizi bancari e finanziari).
Si può ricordare che la nozione di giustificato motivo “deve intendersi nel senso di ricomprendere gli eventi di comprovabile effetto sul rapporto bancario. Tali eventi possono essere sia quelli che afferiscono alla sfera del cliente (ad esempio, il mutamento del grado di affidabilità dello stesso in termini di rischio di credito) sia quelli che consistono in variazioni di condizioni economiche generali che possono riflettersi in un aumento dei costi operativi degli intermediari (ad esempio, tassi di interesse, inflazione, ecc.)” (Circolare del Ministero delle Sviluppo Economico in data 21 febbraio 2007, cit. supra, nonché disp. trasp. Banca d’Italia, 9 febbr. 2011, sez. IV, § 2; cfr. anche decisioni ABF ad es. n. 1298 del 10 novembre 2010; n. 786 del 23 luglio 2010;
177 del 31 marzo 2010).
Alcuni dei contratti esaminati considerano l’eventualità di una modifica dalla normativa sullo ius variandi attualmente previsto dall’art. 118 T.U.B. e stabiliscono che, in caso di variazione della normativa, si applicheranno le disposizioni vigenti nel momento in cui la banca intende procedere alla modifica. Una clausola di questo contenuto non è di per sé in contrasto con l’art. 118 T.U.B., che non impedisce l’applicazione retroattiva dello ius superveniens. Osserviamo tuttavia che se, come in occasione dei recenti interventi in tema di ius variandi unilaterale della banca, il legislatore dovesse introdurre anche nel futuro norme transitorie per regolare lo ius superveniens, queste ultime dovranno prevalere sulla clausola in esame, che dunque è destinata a operare nel silenzio del legislatore in tema di norme transitorie.
Rileviamo che in alcuni contratti di conto corrente (anche con i consumatori) non si precisa sempre in modo chiaro la durata determinata o indeterminata del rapporto e si fa rinvio o si riporta il dettato dell’art. 118 TUB senza distinguere tra le due ipotesi. Altri contratti hanno invece cura di precisare che per i rapporti di durata la facoltà di modifica unilaterale riguarda, sempre che sussista un giustificato motivo, esclusivamente le clausole non aventi a oggetto i tassi di interesse (in un caso si indica in relazione a quali contratti accessori al rapporto di conto corrente è preclusa la modifica dei tassi). La precisazione pare opportuna in considerazione del fatto che la maggior parte dei
contratti regolano lo ius variandi con riguardo al c.d. contratto unico e ai singoli servizi o, comunque, in relazione anche a servizi connessi, accessori o aggiuntivi al rapporto di conto corrente (come ad es. l’home banking o il phone banking, la domiciliazione dei pagamenti, le convenzioni di assegno, le carte di credito, di prelievo e pagamento, i fidi, etc.), alcuni dei quali a termine (come ad esempio le aperture di credito a scadenza determinata). In tutti i casi in cui lo ius variandi è disciplinato dalle norme generali del rapporto banca-cliente o dal c.d. contratto unico è altresì opportuna la precisazione che diversa è la disciplina dello ius variandi con riferimento alle condizioni economiche e di altro ordine applicate alle operazioni di pagamento.
Per quanto concerne i servizi accessori o collegati al conto corrente si osserva quanto segue.
Non pare essere adeguata alla disciplina vigente la clausola che consente alla banca di ridurre il plafond della carta di credito per giustificato motivo, dandone comunicazione al cliente con una proposta di modifica unilaterale del contratto, con un preavviso minimo di 30 giorni, che si intende approvata se il cliente non recede dal servizio di carta di credito entro 60 giorni, in quanto ai sensi dell’attuale art. 118 T.U.B. il preavviso minimo per l’esercizio del recesso e l’applicazione delle nuove condizioni è di minimo 2 mesi.
Pare conforme alla disciplina vigente la clausola che estende l’applicazione della disciplina dello ius variandi unilaterale della banca di cui all’art. 118 T.U.B. a tutti i servizi regolati dal contratto banca-cliente, ivi compresi i servizi di investimento (esclusi i servizi di pagamento per i quali vale la speciale disciplina di cui all’art. 126-sexies). Ciò perché l’estensione comporta l’applicazione di una disciplina più favorevole per il cliente (consumatore o non consumatore) che è maggiormente protetto dall’applicazione di una procedura quale quella prevista dall’art. 118 T.U.B.
Per converso pare censurabile in relazione ai clienti consumatori la clausola che prevede che la banca può modificare, se sussiste un giustificato motivo e fermo il diritto di recesso del cliente, le condizioni di contratto dei servizi di investimento con un preavviso di almeno 15 giorni, mentre le condizioni economiche anche senza preavviso.
Ciò in relazione all’art. 33, 3° co., lett. b), cod. cons. che con riguardo ai contratti che hanno ad oggetto la prestazione di servizi finanziari a tempo indeterminato (tra i quali rientrano i contratti relativi ai servizi di investimento) consente di modificare, qualora sussista un giustificato motivo, le condizioni del contratto, preavvisando entro un congruo termine il consumatore, che ha diritto di recedere dal contratto, principio che opera anche per le condizioni economiche.
Quanto ai versamenti in conto corrente effettuati tramite bonifico bancario e agli ordini di incasso elettronici inviati dalla banca, con addebito diretto sul conto corrente del cliente, non pare conforme alla disciplina del T.U.B. prevedere che a essi si applichino le condizioni economiche e normative vigenti del contratto di conto corrente (e dunque la disciplina dello ius variandi ex art. 118 T.U.B.), in quanto si tratta di operazioni di pagamento regolate dalla speciale disciplina dei servizi di pagamento, né che la banca abbia la facoltà di stabilire un limite al numero e all’importo degli accrediti da effettuarsi, anche al fine di garantire la sicurezza delle operazioni, in quanto si tratta di modifica per la quale occorre rispettare le prescrizioni dell’art. 126-sexies T.U.B..
Non pare censurabile invece la clausola secondo cui le disposizioni in materia di modifica delle condizioni contrattuali si applicano solo in caso di riduzione e non anche di aumento delle operazioni disponibili presso le varie filiali di altre banche del gruppo bancario e delle filiali abilitate alle suddette operazioni, atteso che l’aumento del numero delle operazioni disponibili e delle banche abilitate costituisce una variazione a favore del cliente che, ai sensi dell’art. 118 3° co., T.U.B. è efficace anche se per essa non sono osservate le prescrizioni dell’art. 118 medesimo.
Pare per contro censurabile la clausola che, in relazione ai conti di deposito vincolato a scadenza predeterminata, riserva alla banca la facoltà di modificare, in qualsiasi momento e senza preavviso, il numero dei depositi vincolati che possono essere costituiti, trattandosi di modifica delle condizioni contrattuali che deve avvenire nel rispetto dell’art. 118 T.U.B..
Per taluni servizi accessori al conto corrente, la clausola si limita a precisare che essa si riserva la facoltà di modificare le norme e/o la struttura e le condizioni dei servizi,
mediante comunicazione scritta all’intestatario, il quale ha facoltà di recesso in qualsiasi momento. Si tratta di una formulazione lacunosa rispetto alla disciplina dell’art. 118
T.U.B. che può ritenersi comunque richiamata in via interpretativa coordinando tale clausola con altre clausole del contratto, ma sarebbe più opportuno prevedere una disciplina integrale dei presupposti per l’esercizio dello ius variandi anche in relazione a tali servizi accessori.
Clausola c.d. di pegno omnibus
La clausola c.d. di pegno omnibus ovvero di «estensione della garanzia reale», secondo le denominazioni più di frequente adottate nella prassi, è senz’altro tradizionale nell’ambito della modulistica bancaria italiana. Risalente nel tempo, si può senz’altro notare come essa ancora oggi trovi spazio praticamente in tutti i modelli operativi di conto corrente che risultano circolare. La formulazione del testo della clausola ricalca, nella sostanza, una falsariga comune (ma si notano varie addizioni eventuali, come quelle delle esemplificazioni o del relativo dimensionamento quantitativo della stessa; su questo ultimo punto v. appresso); falsariga che sembrerebbe doversi, al di là dei ritocchi successivi, alle prime elaborazioni di norme bancarie uniformi poste in essere dall’ABI1.
La clausola in questione ha un contenuto complesso ed è di struttura alquanto articolata. Il senso non risulta facilmente percepibile nell’immediato anche da parte del professionista più attento. Di solito, gli operatori (pratici e teorici) tendono a smontarne il contenuto in più e distinti segmenti, secondo la metodologia qui di seguito riferita. Una prima parte viene considerata come riferita all’estensione dei crediti che vengono garantiti dai beni che il cliente ha dato in pegno a vantaggio di una data operazione. In sostanza, il singolo bene, dato in garanzia in relazione a uno specifico rapporto,
1. A titolo di esempio, si può ritrascrivere il seguente testo: «la banca è investita di diritto di pegno e di ritenzione su tutti i titoli o valori di pertinenza del Correntista che siano comunque e per qualsiasi ragione detenuti dalla Banca stessa o che pervengano ad essa successivamente, a garanzia di qualunque suo credito verso il Correntista, diretto o indiretto o cambiario, anche se non liquido ed esigibile e/o assistito da altra garanzia reale e personale, già in essere o che dovesse sorgere verso il cliente, rappresentato da saldo di conto corrente e/o dipendente da qualunque operazione bancaria o fatta dalla o con la Banca. – In particolare, le cessioni di credito e le garanzie pignoratizie a qualsiasi titolo fatte o costituite a favore della Banca stanno a garantire ogni altro credito, in qualsiasi momento sorto pure se non liquido od esigibile, della Banca medesima verso la stessa persona».
starebbe a tutela anche di tutti i crediti altri – presenti, futuri e anche meramente eventuali – che la banca venisse in un futuro più o meno prossimo, o anche remoto, a vantare nei confronti del cliente.
Ancor più rimarchevole si manifesta il secondo segmento che viene isolato dal contesto complessivo della clausola. Essa dunque prevede che tutti i beni (titoli, valori, danaro e finanche crediti) - che siano di pertinenza del correntista e che vengano a essere,
«comunque e per una qualsiasi ragione» anche transitoria, «detenuti» dalla banca
– risultino automaticamente assoggettati al vincolo di garanzia. Anche qui, com’è conseguente, si intendono destinare alla copertura di questa garanzia tutti i crediti che la banca venisse a vantare nei confronti del cliente.
La terza e ultima parte della clausola riguarda le forme giuridiche delle garanzie che così si intendono realizzare. Si parla, in proposito, di cessione di credito (e quindi di garanzia c.d. dominicale) e insieme di pegno (ovvero di una garanzia di prelazione). Altresì si aggiunge, per solito, che i beni sono pure investiti di «diritto di ritenzione» da parte della banca (una sorta di autotutela che giustificherebbe comunque il trattenimento fisico delle cose che ne sono oggetto).
La riportata scomposizione, se risponde a un’evidente logica di semplificazione e classificazione, sembra peraltro mortificare parecchio l’idea e l’impianto complessivo della clausola in esame. Nel senso che la stessa appare fisiologicamente intesa a sottoporre a «garanzia» (nell’arco delle diverse alternative giuridiche appena sopra richiamate) tutti i beni che il correntista abbia per avventura a consegnare alla banca lungo la durata del rapporto di conto corrente: per un qualunque titolo, diverso appunto da quello di garanzia (così, a titolo di custodia; ovvero di gestione titoli; ovvero con funzione solutoria di rapporti con terzi); come pure in via del tutto indipendente, altresì, dall’esistenza o anche dalla semplice probabilità che un credito della banca verso il cliente venga poi effettivamente a sorgere.
Data questa somma di caratteristiche, non pare possibile proporre posizioni di apertura verso la clausola in questione. Sicuramente essa è inidonea, in quanto tale, a fare sorgere – da sola – vincoli reali di garanzia. Molti la reputano radicalmente nulla: o per indeterminatezza o perché la casualità della garanzia, che nel merito essa propone, la
rende non meritevole di tutela. In ogni caso, essa si scontra con la circostanza che i beni sono consegnati dal cliente a titolo diverso da quello della garanzia: non è possibile che quest’ultimo prevalga sul primo. Ove peraltro si ritenesse possibile una simile ipotesi nel nostro sistema (posto il doppio titolo della consegna, a prevalere è quello di garanzia), la clausola potrebbe produrre un inammissibile «effetto sorpresa» per il cliente. In questa prospettiva perciò la clausola, ove si ripete eventualmente ritenuta in sé valida, sarebbe vessatoria nei contratti coi consumatori: ai sensi dell’art. 33, comma 1, del codice del consumo.
A quanto pare (in specie dalla lettura di fattispecie decise dall’Arbitro Bancario Finanziario), la clausola in questione verrebbe talvolta invocata dalle banche per ritardare la restituzione di somme, valori e titoli nel caso di recesso del cliente dal rapporto di conto. Questo comportamento, che fa leva su quella sorta di «diritto di ritenzione» che la clausola in via di fatto verrebbe ad assicurare, non sembrerebbe rispondere ai canoni di correttezza e lealtà nei rapporti con la clientela, su cui insiste oggi anche l’Autorità di Xxxxxxxxx.
Non sembra possa venire ad affievolire le perplessità e le preoccupazioni sopra segnalate, infine, la circostanza che talvolta viene inserito nel corpo della clausola un ultimo paragrafo, concepito nei seguenti termini: «il diritto di pegno e di ritenzione sono esercitati sugli anzidetti titoli e valori o loro parti per importi correlati a crediti vantati dalla Banca e comunque non superiori a due volte i predetti crediti». A parte ogni altra considerazione, infatti, è da notare che la questione posta dal complesso della clausola omnibus è di ordine qualitativo, non già di mera quantità.
Clausola di autorizzazione a cedere il rapporto e art. 58 TUB
Nel contesto della modulistica bancaria di conto corrente si trova di frequente apposta, in questi ultimi anni, una clausola strutturata secondo il tenore seguente (o similare):
«il cliente autorizza sin d’ora la Banca a cedere il Contratto e i diritti e gli obblighi scaturenti ad altra banca in caso di cessione di rapporti giuridici in blocco così come previsto e regolamentato dall’art. 58 TUB».
Presumibilmente, la emersione nella prassi di questo tipo di clausola si deve al vasto fenomeno di concentrazioni e assestamenti (anche interni ai singoli gruppi imprenditoriali) che, nei due decenni passati, hanno interessato il mondo bancario italiano (cessione di sportelli o più ampi rami di azienda, fusioni, ecc.). Il suo contenuto, peraltro, genera più ordini di perplessità, che possono dirsi gradati.
Una perplessità si pone, anzitutto, per via del richiamo operato (senza particolari spiegazioni) alla norma dell’art. 58 del testo unico: non si può sicuramente ritenere che questa disposizione faccia parte del patrimonio di conoscenze usuali del cliente bancario medio; e tanto meno lo sarà, laddove si faccia riferimento alla categoria dei clienti consumatori. Sì che la clausola non appare, in qualunque caso, redatta in modo «chiaro e comprensibile», come per contro prescrive la disposizione dell’art. 35, comma 1, cod. con.
Una seconda perplessità discende dal fatto che anche a chi conosce il testo della norma dell’art. 58 TUB rimane oscura la portata applicativa della clausola. Il tenore della norma dell’art. 58 (rubricato «cessione di rapporti giuridici») non suppone esigenze di consensi, adesioni e autorizzazioni da parte del contraente ceduto (: il cliente) dalla banca a terzi. Così come non le suppongono le normali fattispecie di cessione di azienda (compresi i rami), di fusione e di scissione (cfr. risp. art. 2558, art. 2504-bis e 2506-quater), per quanto si tratti comunque di regole derogatorie del principio generale dei contratti di cui all’art. 1406 c.c. Neppure la fattispecie di
«cessione di rapporti individuabili in blocco» suppone le dette esigenze: quale che sia il senso preciso di quest’ambigua espressione, la stessa in ogni caso non richiede
– nell’ipotesi sia soggetta al regime dell’art. 58 - consensi da parte del contraente ceduto. Lo fa certo proprio il comma 6 della disposizione medesima, a tenore della quale «coloro che sono parte dei contratti ceduti possono recedere dal contratto entro tre mesi dall’adempimento degli obblighi pubblicitari previsti […] se sussiste una giusta causa».
Il richiamo della normativa appena citata, peraltro, potrebbe fare sorgere il sospetto che il significato della clausola in esame sia esattamente quello di prevedere – per la via obliqua – una rinuncia preventiva del cliente a quella facoltà di recesso per giusta causa, che la norma dell’art. 58 lascia comunque in vita. E’ bene chiarire, allora, che una simile, ipotetica lettura della clausola non potrebbe non condannarla al giudizio di vessatorietà: anche a volere concedere (ma meramente in thesi), cioè, che il comma 6 dell’art. 58 sia norma derogabile in pejus per il terzo ceduto. Parrebbe in effetti difficile che una clausola di quel significato possa in una qualche misura sfuggire (se non altro) al disposto della lett. s dell’art. 33, comma 2, cod. cons.: («consentire al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest’ultimo»).
Posto questo, l’arco delle possibili interpretazioni della clausola in questione non è ancora terminato. Nei fatti, uno dei principali problemi operativi, posti dalla ricordata dinamica di concentrazioni e riassetti bancari, attiene all’effettiva e certa conoscenza da parte del cliente dell’evento di cessione come fatto in sé; come fatto che, inoltre, lo riguarda personalmente (ovvero che il rapporto intestatogli rientra tra quelli realmente fatti oggetto di trapasso).
Ora, per mille ragioni, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della nuda circostanza della cessione si manifesta del tutto inidonea a fornire forme di conoscenza effettiva. D’altro canto, la pubblicazione sulla Gazzetta è imposta dall’art. 58 non già a fini di conoscenza, bensì di opponibilità ai terzi dell’evento considerato. La normativa dell’art. 58 lascia aperto, in ultima analisi, il problema della conoscenza effettiva del cliente terzo ceduto.
Può darsi, allora, che la clausola in questione intenda stabilire - pure qui, in vero, per una strada alquanto indiretta - che la conoscenza reale del verificato evento resta affare esclusivo del cliente, senza pesi o responsabilità da parte della banca (che pure all’evento ha partecipato in modo diretto). Occorre dunque notare che, anche assunta in questa ulteriore prospettiva, la clausola non andrebbe per nulla esente da censure e da vizi di vessatorietà, come prima ancora di nullità. Sotto il primo profilo, basta qui ribadire la già ricordata disposizione della lett. s. del comma 2 dell’art. 33 del codice del consumo.
Sotto il secondo profilo vanno in specie ricordate la decisioni prese dall’Arbitro Bancario Finanziario in materia (cfr., in specie, la decisione n. 1423, 6 dicembre 0000, Xxxxxxxx xx Xxxxxx, da cui la citazione; x. xxxxxxx xx xxxxxxxxx x. 000, 10 giugno 2010, sempre del Collegio di Milano). Si è così stabilito che, «in occasione della cessione dei rapporti giuridici ai sensi dell’art. 58 TUB», è «doveroso alla stregua dei generali principi di correttezza e buona fede» che «sia data ai singoli interessati tempestiva notizia dell’operazione e dei suoi riflessi sui rapporti ceduti che direttamente li riguardano». Quello della pronta comunicazione della notizia agli interessati è, in effetti, dovere che discende direttamente dall’esecuzione del contratto secondo i canoni di correttezza e buona fede oggettiva. Se questo è vero, ne deriva che neppure la posizione della clausola in discorso (o simili, anche di espressione meno velata) potrebbe esonerare la banca dall’espletamento della dovuta comunicazione.
Clausole sull’efficacia probatoria delle scritture contabili della banca
Clausole tradizionali dell’operatività bancaria intendono assegnare alla documentazione delle scritture contabili tenute dalla banca il peso della prova piena. A livello di conto corrente, la clausola è formulata così: «i libri e le scritture contabili della banca fanno piena prova nei confronti del Cliente e/o dei suoi aventi causa a qualsiasi titolo». La stessa si trova poi ripetuta, con le varianti del caso, in relazione a singoli servizi, quale ad esempio quello bancomat in versione ATM.
Queste clausole pretendono, tuttavia, di più di quanto sia possibile ottenere. Le stesse urtano, invero, contro il disposto dell’art. 33, comma 2, lett. t. del cod. cons., che dichiara inefficaci nei rapporti coi consumatori le clausole che comportano una qualunque modificazione dell’onere della prova.
Ancor prima, però, le dette clausole – così come sono specificamente conformate - si manifestano in radice nulle per contrasto con il principio sancito dall’art. 2698 c.c.: se questa norma vieta i patti sulle prove che rendono «eccessivamente difficile», a fortiori non può non vietare le clausole che, come quelle in discorso, risultano alterare il sistema probatorio sino a precludere a controparte l’esercizio del proprio diritto: come avviene appunto con l’assegnazione del valore di prova indiscutibile alle risultanze contabili della banca.
Clausole di fissazione dei presupposti della decadenza dal termine
La prassi di ampliare in via convenzionale le cause di decadenza dal beneficio del termine oltre il segno descritto dalla norma dell’art. 1186 c.c. è tradizionale. Di clausole che danno corso a questa prassi vi sono diversi tipi: da quelle che danno definizioni di tratto generico a quelle che si volgono a elencazioni anche molto specifiche; da clausole che considerano come rilevanti degli eventi che attengono alla sfera patrimoniale del cliente a clausole che spaziano anche molto al di là. L’inventario, insomma, è ampio e variegato.
Quanto ai fatti che non attengono alla efficienza e rispondenza patrimoniale del debitore si possono ricordare, a titolo di esempio, le clausole che comportano la decadenza per «mancata corrispondenza al vero dei dati e delle informazioni fornite dal Cliente» ovvero per sua «irreperibilità». L’ammissibilità di questo genere di clausole può, nei fatti, lasciare alquanto perplessi: e ciò anche al di là della constatazione che le formule, così utilizzate, sono talmente vaghe e generiche che appare difficile persino ipotizzare la verifica del loro riscontro al livello della realtà materiale. In realtà, è da chiedersi a monte se possano farsi correttamente rientrare nell’arco dei fatti di decadenza anche circostanze che, per loro natura, non hanno nulla a che vedere con l’evoluzione della situazione patrimoniale del debitore (nonché, si vis, dei suoi garanti). E ciò anche tenendo conto che – nei contratti bancari – il termine è da ritenersi sempre nell’interesse di entrambi i contraenti: tanto della banca, quanto del cliente, dunque. Sotto il profilo del contratto di credito a tempo determinato fatto al consumatore, le perplessità appena enunciate vanno a confluire nel dubbio ulteriore se questo genere di clausole non comportino, nel caso (e salva verifica clausola per clausola, va da sé), il determinarsi di quel «significativo squilibrio», che la norma dell’art. 33, comma 1, cod. cons. ha inteso per contro vietare.
Tra le clausole che ampliano i fatti di decadenza per ragioni attinenti – in via se non diretta, perlomeno indiretta – alla sfera patrimoniale del debitore, va considerata, in
modo particolare, quella che la rende senz’altro operativa (ma la stessa, è noto, va pur sempre fatta valere) per l’eventualità di «mancato puntuale e integrale pagamento alla Banca di ogni somma alla stessa dovuta per qualsiasi titolo». Al verificarsi di ciò, dunque, la clausola dichiara che la «Banca può pretendere l’adempimento immediato di tutte le obbligazioni».
Come si vede, la clausola configura una decadenza a seguito di inadempimento. Di qualunque inadempimento: quale che ne sia l’importanza, ovvero il montante, rispetto al totale dovuto; quale che ne sia la dimensione temporale; quale che ne sia la ragione che vi sta dietro; quale che ne sia il titolo dell’obbligazione poi rimasta, in tutto o in parte, inevasa.
Per questa sua fortissima assolutezza, la clausola suscita seri dubbi di vessatorietà. In particolare, sembra venire in evidenza il principio di proporzione, sub specie della previsione di cui alla lett. f. del comma 2 dell’art. 33, cod. cons. Secondo questa disposizione, invero, si presumono vessatorie le clausole che intendono «imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di danaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo».
Naturalmente, nel caso specifico della decadenza, di cui si sta trattando, la somma che viene pretesa come sanzione per l’inadempimento è rappresentata dal c.d. interusurium: l’importo derivato dall’anticipazione temporale, cioè, con cui la Banca esige – rispetto al programmato – l’adempimento del debito complessivo (cfr. pure la parte finale del comma 2 dell’art. 1185 c.c.). Ed è pure da ricordare, in proposito, che se la norma dell’art. 1819 c.c. rende praticabile la decadenza al verificarsi dell’inadempimento anche di una «sola rata», sempre richiede, in ogni caso, l’inadempimento di una prestazione non accessoria: e per di più subordina l’eventualità della decadenza al riscontro delle circostanze concrete del caso. Il tutto a prescindere se il debitore sia, oppure no, un consumatore.
I contratti di conto corrente bancario esaminati contemplano tutti doverosamente la clausola relativa al foro competente con formulazione sostanzialmente aderente alla normativa di riferimento. Tutte le clausole infatti appaiono aderenti al dettato normativo di cui all’art. 33, comma 2, lettera u), cod. cons. in base al quale la competenza territoriale spetta al Giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo. Tuttavia in alcuni contratti la formulazione letterale della clausola è ben lungi dall’essere chiara ed esplicita così generando difficoltà interpretativa nel consumatore.
Più in particolare si rileva che in alcune pattuizioni viene in primis segnalato che il foro territorialmente competente in via esclusiva per la risoluzione di qualsiasi controversia è la sede legale dell’Istituto e solo a seguito di tale enunciazione viene poi evidenziato che nell’ipotesi in cui il Cliente rientri nella tipologia “consumatore” il foro eletto dalla banca non opera.
Orbene tale articolazione, seppur nella sua essenza ontologica conforme alla normativa, pecca certamente di poca chiarezza atteso che pone il Consumatore in una situazione quanto meno di incertezza. Xxxxxx quindi sarebbe procedere con una piana formulazione evidenziando molto più semplicemente che nell’ipotesi in cui il Cliente sia un Consumatore ai sensi dell’art. 3, comma I, lettera a) del cod. cons. il foro competente è quello di residenza o domicilio eletto dal consumatore medesimo.
Pertanto, in linea oltre che con la sostanza anche con lo spirito della tutela apprestata dal Codice del Consumo, si suggerisce agli Istituti che hanno formulato la clausola di procedere ad una modifica della medesima che contempli una chiara ed espressa indicazione del foro territorialmente competente. Tale suggerimento si impone, inoltre, alla luce dell’art. 35 che a tutela del consumatore prescrive che tutte le clausole siano redatte in modo chiaro e comprensibile.
Rifiuto o sospensione di pagamenti da parte della Banca
Relativamente a tale clausola, presente in tutti i contratti esaminati, non può non stigmatizzarsi la previsione con la quale la Banca si riserva il diritto di sospendere o rifiutare di dare esecuzione agli incarichi conferiti dal Cliente in virtù di un giustificato motivo. Tale generica previsione non può che censurarsi atteso che il Cliente ha diritto di conoscere preventivamente quali siano le ipotesi sussumibili nell’ambito della fattispecie del giustificato motivo che la Banca può porre alla base di un rifiuto ovvero di una sospensione di pagamento.
La redazione della clausola nei termini sopra riportati appare squilibrata a svantaggio del Consumatore atteso che introduce un margine di discrezionalità eccessivo in capo alla Banca in palese contrasto con l’art. 33, comma 2, lettera v) cod. cons. a mente del quale devono presumersi vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che hanno per oggetto l’assunzione di un obbligo subordinato ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del Professionista a fronte di una obbligazione immediatamente efficace per il Consumatore. Invero nel caso di specie la mancata preventiva elencazione dei motivi specifici del possibile rifiuto o sospensione dell’ordine di pagamento comporta di fatto proprio la configurazione di una condizione correlata alla mera e sola volontà della Banca con conseguente ingiustificata compromissione del diritto del correntista di vedere regolarmente eseguiti i suoi ordini ovvero di essere preventivamente ed esaustivamente informato sulle possibili ragioni ostative all’esecuzione dei medesimi. Neppure va trascurato che diverse clausole non specificano neppure con quali tempi e modalità di informativa la Banca è tenuta a dare comunicazione del suo rifiuto al Cliente e addirittura, in un contratto, l’Istituto dichiara di fornire la motivazione al correntista solo “se possibile”. Tale operato non può certo definirsi corretto e improntato a buona fede, tenuto conto dell’obbligo assunto a monte dalla Banca con la sottoscrizione del contratto.
In punto non va trascurato che l’ordine di pagamento impartito da un correntista alla propria banca (ordine che ripete la sua fonte e la sua legittimità dal contratto di conto
corrente stipulato tra le parti e costituisce un’esecuzione di incarico ex art. 1856 cod. civ.) ha natura di negozio giuridico unilaterale, la cui efficacia vincolante scaturisce dalla precedente dichiarazione di volontà con la quale la banca si è obbligata ad eseguire i futuri incarichi conferitile dal Cliente. In tale contesto prevedere la possibilità di non dar corso agli ordini di pagamento senza neppure specificarne preventivamente i motivi o addirittura riservandosi di non comunicarli mai è previsione contrattuale certamente censurabile atteso che viola il principio della certezza delle situazioni giuridiche.
In base alla clausola denominata “Conti non movimentati” - contemplata in tutti i negozi esaminati - la banca si riserva di cessare di corrispondere gli interessi e di inviare le comunicazioni periodiche nell’ipotesi in cui il conto corrente non risulti movimentato da oltre un anno e presenti un saldo creditore non superiore ad una somma individuata in una misura che varia nei diversi contratti da € 258,00 a € 260,00.
Come noto la problematica dei “Conti correnti non movimentati” risale al Giugno del 2007 quando il Consiglio dei ministri approvò il decreto presidenziale in materia di depositi dormienti stabilendo che i depositi di denaro, le cassette di sicurezza, i libretti di risparmio, gli assegni circolari mai rimborsati, i titoli azionari o obbligazionari non più movimentati per un arco temporale di dieci anni sono destinati a confluire in un Fondo pubblico di garanzia con diverse finalità tra cui l’indennizzo ai risparmiatori vittime di frodi finanziarie.
La clausola relativa al conto corrente non movimentato essendo strettamente correlata alla disciplina relativa ai depositi dormienti dovrebbe essere articolata in maniera esaustiva in aderenza agli obblighi generali di cui all’art. 5 del Codice del Xxxxxxx
,x tenore del quale le informazioni al consumatore da chiunque provengano devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore.
Orbene le clausole esaminate non forniscono adeguata informazione al consumatore atteso che non contemplano alcun avviso circa le conseguenze della mancata movimentazione del conto laddove invece sarebbe opportuno chiarire che il conto non movimentato è destinato ad essere estinto decorso il termine di legge. A ciò deve poi aggiungersi un ulteriore profilo di vessatorietà generato dalla mancata previsione di un obbligo in capo alla banca di comunicare preventivamente la volontà di cessare
- nell’esercizio di una facoltà rimessa alla sua discrezionalità - la corresponsione degli interessi e l’invio dell’estratto conto. Tale mancata preventiva segnalazione da parte
della banca contrasta con l’art. 33, comma 2 lettera t) cod. cons. sicché sarebbe opportuno modificare la clausola prevedendo l’onere della banca di avvisare il cliente in prossimità del decorso del termine di un anno dalla mancata operatività in modo da consentirgli di movimentare il conto.
Reclami e risoluzione stragiudiziale delle controversie
Il tema della risoluzione stragiudiziale delle controversie tra banca e cliente in relazione alla inosservanza delle condizioni contrattuali o comunque in relazione alla esecuzione del contratto costituisce di per sé argomento spinoso e di non agevole comprensione da parte del consumatore sicché si impone la necessità di fornire informazioni oltre che dettagliate anche estremamente chiare onde consentire al cliente di individuare con facilità e scegliere con consapevolezza le possibili iniziative stragiudiziali da assumere. Le clausole contemplate nei diversi contratti esaminati, ad eccezione di qualcuna, si presentano tutte poco chiare, atteso che contengono una elencazione delle diverse iniziative stragiudiziali senza tuttavia indicare al consumatore in modo semplice ed esplicito le modalità e i tempi per assumerle. Non può infatti ritenersi conforme al Codice del Consumo una mera elencazione degli strumenti utilizzabili per la cui pratica adozione si rimanda il consumatore alla lettura delle specifiche contenute nei fogli informativi ovvero nei siti internet della banca. In tal modo si pone in capo al cliente un onere informativo eccessivo laddove viceversa sarebbe opportuno segnalare in maniera dettagliata e semplice gli organismi deputati a risolvere le controversie con esatta indicazione delle modalità attraverso le quali adirli, i tempi e i presupposti. La confusione che si rileva nella più parte delle clausole esaminate contrasta apertamente con le prescrizioni del Codice del Consumo che notoriamente mirano a garantire al consumatore la possibilità di avere informazioni esaustive e comprensibili.
E’ quindi opportuno che il Professionista compia uno sforzo nella redazione della clausola tale da garantire la giusta trasparenza nelle informazioni in modo tale da consentire al cliente di assumere una iniziativa stragiudiziale piuttosto che un’altra in piena consapevolezza.
Sotto diverso profilo non va trascurato che il ricorso ai sistemi di risoluzione stragiudiziali delle controversie - che presuppone un effettivo e soddisfacente confronto tra la Banca ed il cliente mirato a chiarire le rispettive posizioni – tende a favorire una composizione bonaria dei contrasti sorti sicché è nell’interesse anche della banca fornire informazioni
xxxxxx ed esaustive in relazione ai diversi strumenti onde scongiurare l’intervento del Giudice ordinario. Una maggiore chiarezza espositiva consentirà al cliente di scegliere consapevolmente uno strumento alternativo alla giustizia ordinaria e alla banca di contenere il contenzioso avanti il Giudice ordinario.
Milano, 22 Dicembre 2011
Il Segretario Generale
Camera di Commercio di Milano (Xxxx Xxxxxx Xxxxxxxxxx)
Il Segretario Generale Camera di Commercio di Monza e Brianza
(Xxxxxx Xxxxxxxx)