Sommario: 1. Unioni civili – 2. La costituzione del vincolo – 3. Gli effetti dell’unione civile – 4. Lo scioglimento del vincolo – 5. Unioni civili e convivenze – 6. La discipli- na delle convivenze – 7. Il contratto di convivenza
Gilda Ferrando Diritto di famiglia
UNIONI CIVILI E CONVIVENZE. AGGIORNAMENTO 2016
Sommario: 1. Unioni civili – 2. La costituzione del vincolo – 3. Gli effetti dell’unione civile – 4. Lo scioglimento del vincolo – 5. Unioni civili e convivenze – 6. La discipli- na delle convivenze – 7. Il contratto di convivenza
La l. 20 maggio 2016, n. 76, entrata in vigore il 5 giugno scorso, contiene la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze. Si tratta di una legge composta da un unico articolo suddiviso in 69 commi, frutto di un maxi emendamento presentato per superare le difficoltà del dibat- tito parlamentare. A successivi decreti delegati è affidata la messa a punto delle regole specifiche in tema di ordinamento di stato civile, di diritto internazionale privato, di tutte quelle modificazioni e integrazioni necessarie per il coordinamento con le leggi vigenti (28° co.).
1. Unioni civili
Come si è visto nei relativi capitoli del manuale (capitolo 1, par. 7 e capitolo 5, par. 1), le unioni tra persone dello stesso sesso sono variamente disciplinate nei diversi Paesi europei: alcuni prevedo- no il matrimonio egualitario, altri, invece, contemplano le partner- ship, un istituto analogo al matrimonio ma formalmente distinto. La
l. 76/2016 opta per questa seconda alternativa. Le unioni civili sono un istituto distinto dal matrimonio, ma analogo ad esso sotto molti profili. In tal modo la legge garantisce alle coppie dello stesso sesso il diritto di ottenere il riconoscimento solenne e formale dell’unione, ed uno status analogo a quello coniugale. Essa costituisce adempi- mento di un preciso obbligo costituzionale sia a livello interno, sia a livello europeo. La nostra Corte costituzionale ha ripetutamente
sollecitato il Parlamento a garantire con legge il diritto delle coppie dello stesso sesso ad ottenere la formalizzazione della loro unione (Corte Cost., 138/2010 e Id., 170/2014). A sua volta la Corte Eu- ropea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’inadempi- mento dell’obbligazione positiva di garantire «uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle […] xxxxxx xxxxxxxxxxx» (Xxxxx XXX, 00 luglio 0000, Xxxxxx x. Xxxxxx). Il legisla- tore doveva dunque prevedere per le coppie dello stesso sesso una modalità di formalizzazione del vincolo con effetti corrispondenti a quelli del matrimonio.
Il legislatore, tuttavia, non era costituzionalmente obbligato ad introdurre il matrimonio egualitario. La Xxxxx xx Xxxxxxxxxx (Xxxxx XXX, 00 giugno 2010, Xxxxxx and Xxxx c. Austria), riconosce agli Stati un margine di discrezionalità tale per cui possono scegliere le modalità (il matrimonio o altra forma di riconoscimento) in cui assicurare tutela alle unioni tra persone dello stesso sesso. Anche la nostra Corte costituzionale ha ritenuto non «costituzionalmente ob- bligata», in riferimento all’art. 29 Cost., l’apertura del matrimonio alle coppie dello stesso sesso (Corte Cost., 138/2010).
Le «unioni civili», condividono con il matrimonio i tratti essenziali, sia per quel che riguarda il momento costitutivo (il profilo dell’«at- to») sia per quanto riguarda la relazione interpersonale (il profilo del
«rapporto») e la rilevanza nei confronti dei terzi e della collettività. Per comprendere quanto sia ampio lo spettro degli effetti conse-
guenti alla costituzione dell’unione occorre tener presente la regola generale contenuta nel 20° co. che sancisce l’applicabilità all’unio- ne civile di tutte le disposizioni (esclusa la legge sull’adozione), «che si riferiscono al matrimonio» o che contengano «le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti ammini- strativi o nei contratti collettivi». Per quel che riguarda il codice civi- le, invece, si applicano soltanto le norme espressamente richiamate dalla legge.
Per effetto del rinvio fatto ad ogni legge diversa dal codice ci- vile, risultano immediatamente applicabili, tra le altre, le discipline in materia di lavoro, assistenza, previdenza, sanità, pensioni, immi- grazione, quelle in campo penale, penitenziario, fiscale: insomma
tutti i diritti previsti dalla legge per il matrimonio sono riconosciuti anche ai partner di unione civile. Il 20° co., tuttavia precisa – con disposizione di controversa interpretazione – che tali disposizioni si applicano «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile». Vi è tuttavia una differenza tra gli status di coniuge e di unito civilmente in quanto, non richiamando la legge l’art. 78 del codice civile, l’opinione attualmente prevalente tende ad escludere che l’u- nione civile generi il vincolo di affinità tra ciascuna parte ed i parenti
dell’altra.
La l. 76 non usa il termine famiglia a proposito delle unioni civili se non sporadicamente (v. 12° co. secondo cui le parti «concordano l’indirizzo della vita familiare»), preferendo parlare di «cognome comune» (10° co.), «bisogni comuni» (11° co.), compiacendo in tal modo quanti vorrebbero il termine famiglia riferito esclusivamente a quella fondata sul matrimonio secondo il disposto letterale dell’art. 29 della Costituzione. In senso contrario si fa osservare che ormai anche il legislatore e la giurisprudenza interna ed europea fanno riferimento ad una pluralità di modelli familiari entro i quali possono trovare agevolmente collocazione anche le unioni civili.
Matrimonio e unione civile costituiscono entrambi realtà familiari che si distinguono tuttavia sotto diversi profili. Da un punto di vista formale, la differenza tra unione civile e matrimonio è sottolineata dalla scelta di affidare la disciplina delle unioni civili ad una legge speciale, non al codice civile.
Dal punto di vista della disciplina, la principale differenza ri- spetto al matrimonio riguarda i rapporti con i figli, in particolare per il fatto che il testo definitivamente approvato non prevede più la possibilità che il partner possa adottare il figlio dell’altro secon- do quanto dispone, per il coniuge, l’art. 44, lett. b) della legge sull’adozione (l. 184/1983) (c.d. stepchild adoption). Va peraltro considerato che il 20° co. della legge dispone che «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». L’ampio riferimento a quanto (espressamente) «previsto» e a quanto «consentito» (secondo l’interpretazione corrente) sem- brerebbe supportare la tesi secondo cui la lettura dell’art. 44, lett. d), l. adoz. prevalente in giurisprudenza debba essere mantenuta
ferma pur nell’attuale contesto. I giudici di merito e la stessa Corte di cassazione hanno ritenuto ammissibile l’adozione del figlio del partner non in base alle lett. b) dell’art. 44 , ma alla luce di un’in- terpretazione della lett. d) dell’art. 44 l. adoz., tale per cui la no- zione di «impossibilità di affidamento preadottivo», va intesa non solo come impossibilità «di fatto», ma anche come impossibilità «di diritto» – intendendosi tale quella derivante dalla mancanza dei presupposti giuridici per procedere all’adozione «piena» – e sem- pre che risulti accertato in fatto – secondo il disposto dell’art. 57,
x. xxxx. – che il ricorso all’adozione, sia pur nella sua forma «mi- nor», corrisponda al preminente interesse del bambino, in quanto formalizzazione di una relazione affettiva già esistente e valutata nel corso dell’istruttoria come elemento positivo nella sua crescita (Cass., 22 giugno 2016, n. 12962).
Altre differenze tra unioni civili e matrimonio riguardano la fase costitutiva del vincolo, l’insieme dei reciproci diritti e doveri, la disci- plina dello scioglimento.
2. La costituzione del vincolo
Le unioni civili si costituiscono innanzi all’ufficiale di stato civile me- diante formale dichiarazione (2° co.) con cui le parti assumono re- ciproci diritti e doveri (11° co.) inderogabilmente (13° co.) stabiliti dalla legge ed analoghi a quelli intercorrenti tra i coniugi. La regi- strazione nell’archivio di stato civile (3° co.) assicura la pubblicità e l’efficacia dello status non solo tra le parti, ma anche nei confronti dei terzi e dei pubblici poteri.
La costituzione dell’unione segue un procedimento più agile ri- spetto al matrimonio, essendo omessa la fase della pubblicazione e delle conseguenti opposizioni. La costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso avviene mediante atto formale e pub- blico con la dichiarazione del consenso manifestato dalle parti «di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni» (2° co.). Successivamente, l’ufficiale di stato civile «provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio di stato civile» (3° co.).
Anche nelle unioni civili, come nel matrimonio, abbiamo la scan- sione in fasi distinte: dichiarazione delle parti davanti all’ufficiale di
stato civile, formazione dell’atto e sua registrazione che conclude il procedimento ed assicura la pubblicità dell’atto.
Per quanto riguarda la celebrazione, la principale differenza ri- guarda il fatto che, a fronte della dichiarazione delle parti, non è prevista quella dell’ufficiale di stato civile (art. 107 c.c.), cosicché emerge la natura squisitamente consensuale dell’atto.
Analoghi al matrimonio sono anche impedimenti e condizioni. La principale differenza riguarda l’età: solo il maggiorenne può con- trarre unione civile.
Analogo al matrimonio è anche il regime dell’invalidità per man- canza di presupposti soggettivi (libertà di stato, assenza di vincoli di parentela e affinità, assenza dell’impedimento ex delicto) o per vizi derivanti dalla mancata espressione di un consenso libero e con- sapevole (difetto di età, interdizione, incapacità naturale, vizi del consenso). Identica è anche la disciplina dei termini (cfr. art. 122, ult. co., c.c. e 7° co., l. 76/2016), in quanto l’azione non è propo- nibile «se vi è stata coabitazione per un anno dopo che è cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia sta- to scoperto l’errore». Anche nelle unioni civili, dunque, viene data preminente considerazione allo svolgimento della vita familiare, co- sicché se la vita comune si è protratta per un periodo sufficiente a far ritenere che il partner il cui consenso è viziato abbia comunque inteso dare attuazione al rapporto, l’effettività del rapporto prevale sull’atto e ne impedisce l’impugnazione anche se originariamente viziato. Si tratta di una principio che la S.C. considera di ordine pub- blico e che vale dunque per ogni relazione di coppia formalizzata, si tratti di matrimonio o di unione civile.
La differenza principale riguarda i casi di errore essenziale che non comprendono [n. 1, art. 122 c.c., ripreso dalla alla lett. a), 7° co., l. 76] le anomalie o deviazioni sessuali, e (n. 5, art. 122 c.c.), lo stato di gravidanza.
3. Gli effetti dell’unione civile
Anche gli effetti dell’unione civile sono simili a quelli del matrimonio, sia nei rapporti reciproci, sia nei confronti dei terzi. Si è già segna- lata l’importanza della regola generale contenuta nel 20° co. che sancisce l’applicabilità di tutte le disposizioni (esclusa la legge sull’a-
dozione), «che si riferiscono al matrimonio» o che contengano «le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi o nei contratti collettivi». Regola opposta vale per il codice civile, le cui norme si applicano soltanto se espres- samente richiamate dalla legge.
Il legislatore talvolta fa diretto rinvio alle disposizioni del codice civile. Altre volte, invece, prevede una disciplina analoga a quella prevista per il matrimonio, disciplina che viene riformulata con diffe- renze talvolta solo di tipo lessicale.
Ne risulta un insieme tale per cui gli effetti dell’unione nei rap- porti tra i partner sono disciplinati sulla falsariga di quelli propri del matrimonio. Sono escluse le norme relative ai rapporti tra genitori e figli – presunzione di paternità (art. 231 c.c.), diritti e doveri nei confronti della prole (artt. 147 e 148 c.c.) – e quelle relative alla separazione personale dei coniugi (artt. 150-158 c.c.).
Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali e successori, gli obbli- ghi alimentari, si applicano le norme previste per i coniugi (v. i co. 13°, 19°, 21°). Altrettanto dicasi per le norme del codice in materia di amministrazione di sostegno (15° co.), violenza (16° co.), rap- porto di lavoro (17° co.), prescrizione (18° co.).
Per quanto riguarda gli effetti personali, si segnala la facoltà di scelta del cognome comune: «mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome co- mune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facen- done dichiarazione all’ufficiale dello stato civile». Si tratta di una disciplina sensibilmente diversa da quella prevista per il matrimonio. Mentre nel matrimonio è la legge a fissare una regola inderogabile sul cognome (art. 143 bis c.c.: «la moglie assume il cognome del marito e lo conserva durante lo stato vedovile fino a che passi a nuove nozze»), nelle unioni civili, invece, sono le parti a scegliere il cognome comune, sulla falsariga di quanto previsto in altre espe- rienze europee tra cui, sia pur con modalità differenti, la Francia e la Germania. Da questo punto di vista, la legge sulle unioni civili potrebbe anticipare la riforma del cognome dei coniugi.
Per quanto riguarda i reciproci diritti e doveri, la disciplina è im- prontata ai principi di eguaglianza e reciprocità di posizioni tra i partner, al rispetto della personalità di ciascuno, alla solidarietà, alla condivisione delle scelte, all’autonomia nella loro attuazione.
Analogamente a quanto previsto per i coniugi dagli artt. 143, 144, 145 c.c., «con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’as- sistenza materiale e morale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capa- cità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni co- muni» (11° co.). «Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune. A ciascuna di esse spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato» (12° co.). Assistenza morale e materiale, coabitazione, contribuzione sono obblighi, nel matrimonio come nell’unione, finalizzati ad alimentare la comunione di vita sia dal punto di vista materiale che spirituale.
Non è previsto in modo espresso il dovere di collaborazione che peraltro si può facilmente far rientrare nell’assistenza morale e mate- riale, tenuto conto anche del fatto che la collaborazione costituisce il presupposto per raggiungere un accordo sulle decisioni familiari. Quanto alla mancata previsione dell’intervento del giudice in caso di disaccordo (art. 145 c.c.), non sarà certo rimpianto. È noto che si tratta di una disposizione che il legislatore della riforma cari- cò di significati ideali di alto profilo, ma che nell’esperienza pratica ha avuto scarsissima applicazione, cosicché non sorprende se il legi-
slatore del 2016 la abbia lasciata da parte.
Tra i doveri reciproci non è prevista la fedeltà, contemplata nel testo originario del progetto, ma cancellata dal maxi emendamen- to. Quali che fossero le intenzioni del legislatore ed i modelli di riferimento (in Germania la fedeltà non costituisce obbligo legale neppure tra coniugi), la mancata previsione della fedeltà tra gli ob- blighi scaturenti dall’unione civile, fa riflettere sul significato attuale che tale obbligo riveste tra coniugi e sulla declinante intensità delle sanzioni che lo assistono.
L’obbligo di contribuzione ai «bisogni comuni» cui ciascuno è te- nuto «in relazione alle proprie sostanze e alle proprie capacità di
lavoro professionale e casalingo» sottolinea l’aspetto solidaristico dell’unione, dovendo entrambe le parti dare quanto necessario e fare quanto è nelle proprie possibilità e capacità per rendere possi- bile la realizzazione del comune progetto di vita. Anche nell’unione civile l’obbligo di contribuzione è ripartito secondo criteri di propor- zionalità e di equivalenza tra le diverse tipologie di apporti, si tratti di lavoro professionale o casalingo. La determinazione in concreto dei modi (apporti di denaro, messa a disposizione di beni, soddisfa- cimento diretto dei bisogni) e del quantum del contributo di ciascuno è affidata all’accordo delle parti, riproponendosi, anche per l’unio- ne, le questioni affrontate in sede di rapporti tra coniugi, relative, ad esempio, all’(in)derogabilità del criterio di proporzionalità, ai limiti entro cui l’accordo può operare, alla responsabilità nei confronti dei terzi per le obbligazioni che ciascuno contrae nell’interesse comune, all’efficacia rebus sic stantibus dell’accordo, e così via.
La regola dell’accordo costituisce nell’unione civile, come nel ma- trimonio, il criterio fondamentale di determinazione dell’indirizzo della vita familiare e di fissazione della residenza e quindi la re- gola generale sulla base della quale vanno prese le decisioni che riguardano la vita comune. Alla necessità di accordo per le decisioni corrisponde, anche nelle unioni civili, il potere riconosciuto a ciascu- no di attuare l’indirizzo concordato compiendo gli atti in concreto necessari per realizzarlo. Il mancato riferimento alle «esigenze di entrambi ed a quelle preminenti della famiglia» – che compare inve- ce nell’art. 144 c.c. – può intendersi come una sottolineatura degli spazi più ampi di autonomia che competono alle parti nella defini- zione delle ragioni dell’accordo. Anche per le unioni civili, d’altra parte, si pongono i problemi di delimitazione delle decisioni che restano di competenza del singolo, in quanto afferenti alla sua sfera privata di libertà ed autodeterminazione, e quelle invece che, per il fatto di coinvolgere aspetti inerenti alla vita comune, debbono esse- re materia di accordo.
Tra le decisioni affidate all’accordo vi è la fissazione della re- sidenza familiare, il che non esclude, come per i coniugi, che cia- scuno possa fissare una propria residenza. L’obbligo di fissare una residenza comune, inteso come luogo in cui la vita comune ha il suo prevalente svolgimento, è sottolineato dal richiamo (19° co.) all’art.
146 c.c., prevedendosi così, anche per la parte dell’unione civile, la sospensione dell’obbligo di assistenza morale e materiale ove,
«allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuti di ritornarvi».
4. Lo scioglimento del vincolo
Le principali differenze tra matrimonio e unione civile si riscontra- no proprio per quanto riguarda la cessazione della vita comune. Nell’unione civile, infatti, non è prevista alcuna forma di separazione legale: è previsto soltanto il divorzio. È noto che la separazione per- sonale dei coniugi ha la sua origine nel diritto canonico come misura che, conservando il vincolo – per sua natura indissolubile – dispensa i coniugi dalla coabitazione: la separazione non scioglie il vincolo, lo «attenua» soltanto. Nei Paesi di tradizione cattolica, la separazio- ne è stata recepita dal diritto civile, mentre è sconosciuta nei Paesi di tradizione protestante. Nelle unioni civili, il divorzio, non diver- samente da quanto accade in Germania, costituisce l’unico rimedio previsto per la crisi dell’unione. Secondo quanto dispone il 24° co.,
«l’unione si scioglie, […], quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinnanzi all’ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione». Vengono inoltre richiamati i procedimenti di divorzio c.d. «rapido» per negoziazione assistita da avvocati o in- nanzi all’ufficiale di stato civile previsti dagli artt. 6 e 12, l. 62/2014. Queste disposizioni sollevano numerosi problemi. In termini generali si può notare che, da un lato, sull’esempio della gran parte delle legislazioni europee, si introduce il c.d. divorzio immediato o diretto, cosa che, per i coniugi, non si era riusciti a fare in occasione dell’ulti- ma riforma del divorzio. Dall’altro lato, viene previsto che il divorzio possa essere pronunciato sulla base del consenso od anche della ri- chiesta unilaterale decorso un breve termine di riflessione. Passati tre mesi dalla dichiarazione innanzi all’ufficiale di stato civile i partner possono iniziare il procedimento di divorzio. Insomma abbiamo un divorzio immediato, più semplice e rapido. Ci si potrebbe chiedere se, in tal modo, non sia stata introdotta una sorta di «discriminazione alla rovescia» per i coniugi, ai quali il «divorzio diretto» è precluso.
5. Unioni civili e convivenze
Nelle sue linee essenziali, la disciplina delle unioni civili si confor- ma ai principi costituzionali interni ed europei nell’interpretazione datane dalle supreme magistrature. A successivi decreti delegati è affidata la messa a punto delle questioni in tema di ordinamento di stato civile, diritto internazionale privato, e tutte quelle modificazio- ni e integrazioni necessarie per il coordinamento con le leggi vigenti (c. 28).
La sintetica rassegna dei tratti salienti del nuovo istituto consente di esprimere un giudizio in larga misura positivo. Sotto il nome di
«unioni civili», si è infatti disciplinato un istituto che condivide con il matrimonio i tratti essenziali, sia per quel che riguarda il momento costitutivo (il profilo dell’«atto») sia per quanto riguarda la relazione interpersonale (il profilo del «rapporto») e la rilevanza nei confronti dei terzi e della collettività. Rispetto al matrimonio presenta talvolta tratti originali, di maggiore modernità ed apertura nei confronti dei modelli europei, ai quali non è da escludere che un domani lo stesso matrimonio possa uniformarsi.
Manca una disciplina espressa dei rapporti con i figli, ma resta fermo che ove uno dei partner abbia figli nati da precedenti unioni, generati con fecondazione assistita o adottati lo status filiationis e l’esercizio della responsabilità genitoriale sono soggetti alle regole comuni (artt. 315 ss. c.c.). Per quanto riguarda il compagno o la compagna del genitore, la possibilità di adozione del figlio dell’al- tro o di riconoscimento dello status conseguito all’estero è ammis- sibile secondo il diritto giurisprudenziale in corso di elaborazione.
La nuova disciplina delle unioni civili, nel momento in cui garan- tisce il diritto delle coppie dello stesso sesso alla pari dignità con una disciplina che sancisce il riconoscimento formale dei vincoli di affetto e solidarietà che le animano e la reciprocità di diritti e doveri in modo analogo a quello coniugale, conferma – in linea con la riforma della filiazione – la dimensione plurale dei modelli familiari ormai presenti nel nostro ordinamento.
La l. 76 disciplina inoltre, ai co. 36° ss., le convivenze di fatto tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso. Si tratta di una scelta discutibile: vi è una differenza sostanziale tra unioni civili e matri- monio, da un lato, e convivenze, dall’altro, proprio perché, nelle
unioni, al pari del matrimonio, vi è «l’assunzione, da parte dei due partner, dell’impegno di convivere stabilmente e di prestarsi soccor- so e assistenza», impegno che invece manca nelle convivenze. Da un lato vi era l’esigenza di garantire anche alle coppie dello stesso sesso il diritto di vedere riconosciuta la propria unione e dall’altro si trattava di dare una disciplina a persone che, pur unite nella vita, non intendono assumere alcun vincolo e per le quali occorre dun- que predisporre una disciplina leggera. La focalizzazione dell’at- tenzione sulle unioni civili ha portato il legislatore a sottovalutare i problemi delle convivenze ed a formulare una disciplina lacunosa, imprecisa, talvolta non appropriata, che costituisce il vero problema di interpretazione della legge.
6. La disciplina delle convivenze
La legge intende per «‘conviventi di fatto’ due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assi- stenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile». È a que- sta realtà che si applicano le disposizioni di cui ai co. 37°-67° della legge (36° co.).
La legge fa riferimento a unioni caratterizzate da «stabili legami affettivi di coppia», cioè a forme di convivenza more uxorio. Ne restano escluse altre forme di convivenza di tipo solidaristico o as- sistenziale. Il riferimento a persone «non vincolate da matrimonio o da unione civile» chiarisce che la convivenza può essere tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso. Le disposizioni di legge non si applicano, tuttavia, a tutte le convivenze more uxorio. Occorre in- fatti che si tratti di persone «maggiorenni […] non vincolate da rap- porti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unio- ne civile». In buona sostanza il legislatore riproduce, anche per le convivenze, alcuni degli impedimenti previsti per il matrimonio e le unioni civili, non considerando che una cosa è prevedere condizioni di validità di un atto volontario, altro è prendere in considerazione una situazione di fatto.
Restano fuori dell’ambito di applicazione della legge le convi- venze tra persone minorenni, sposate, anche se separate, unite ci- vilmente, legate da vincoli di parentela e affinità (non si dice entro
quali gradi). Ciò non significa che tali convivenze siano irrilevanti: ad esse si applicano comunque le regole legislative o giurispruden- ziali a suo tempo illustrate (v. capitolo 5 del manuale), ma non si applicano, almeno direttamente, quelle della l. 76. Si ha dunque una prima biforcazione: quella tra convivenze con i requisiti di legge (disciplinate dalla l. 76) e convivenze senza i requisiti di legge (non disciplinate dalla l. 76).
Il 37° co. aggiunge un ulteriore requisito: «Ferma restando la sus- sistenza dei presupposti di cui al 36° co., per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 ed alla lett. b), 1° co. dell’art. 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223». In altri termini, occorre che i conviventi siano iscritti su un’uni- ca scheda di residenza anagrafica.
Questa disposizione pone un problema di fondo: la registrazio- ne anagrafica è elemento costitutivo della convivenza, o è soltanto un mezzo di prova? Ne primo caso, le disposizioni della l. 76 do- vrebbero applicarsi soltanto alle convivenze registrate, nel secondo, invece, gli interessati potrebbero provare altrimenti l’esistenza della stabile convivenza. Quest’ultima soluzione sembra la più ragionevo- le e coerente con la considerazione della convivenza come situazio- ne di fatto.
La disciplina prevista dalla l. 76 è una disciplina leggera che talvolta recepisce quanto già previsto dalla legge (ad es., v. co. 38°, ordinamento penitenziario, co. 44°, successione nel contratto di locazione), o dalla giurisprudenza (ad es., co. 49° per quanto riguarda il risarcimento del danno da uccisione). Altre volte ha ca- rattere innovativo (ad es. co. 50° ss., disciplina del contratto di con- vivenza). Alcune norme sviluppano i contenuti della solidarietà di coppia prevedendo, ad esempio, forme di tutela analoghe a quelle del coniuge nel caso di collaborazione nell’impresa dell’altro (co. 46°), oppure un diritto alimentare nel caso in cui alla cessazione del rapporto uno dei due si trovi in «stato di bisogno» (co. 65°).
Non sono invece previsti diritti successori o pensionistici. All’au- tonomia privata (contratto di convivenza, testamento) si assegna il compito di regolare i rapporti economici nel corso della vita comu- ne, alla sua cessazione, in occasione della morte del compagno.
Un diritto successorio sui generis è previsto per quel che riguarda la casa di abitazione (42° co.: «salvo quanto previsto dall’art. 337 sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di conti- nuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convi- vente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni».
La nuova disciplina dà luogo a numerosi problemi che non è possi- bile esaminare in dettaglio. In linea di massima si può osservare che:
– Il riferimento alla legislazione speciale è lacunoso. Vi sono nu- merose norme che prendono in considerazione la convivenza e che non vengono richiamate dalla l. 76. Si pensi soltanto a quelle conte- nute nel codice penale o in quello di procedura penale. Il mancato richiamo, ovviamente, è irrilevante, non le priva di efficacia.
– Nel caso in cui le norme vengono richiamate (ad es. ordina- mento penitenziario (co. 38), assegnazione di alloggi di edilizia po- polare (co. 45), la loro applicazione è circoscritta alle convivenze contemplate dalla l. 76? O continua ad applicarsi ad ogni conviven- za more uxorio?
– Come regolarsi nel caso in cui vi siano differenze tra la discipli- na della l. 76 e quella già vigente? Si confrontino ad esempio gli artt. 404 ss. c.c. in materia di amministrazione di sostegno, interdizione inabilitazione – che fanno ripetutamente riferimento al convivente stabile, sia per quanto riguarda la proposizione dell’istanza, sia per quanto riguarda la scelta dell’amministratore di sostegno, del tutore e del curatore – con la sommaria disciplina del 48° co.
– Alcune soluzioni, poi fanno sorgere dubbi sulla loro ragionevo- lezza. Si pensi alla collaborazione prestata nell’impresa dell’altro. Il 46° co. non modifica l’art. 230 bis, inserendo il convivente tra i soggetti beneficiari, accanto al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo. Introduce, invece, un nuovo art. 230 ter, diverso dal precedente sotto molti profili, che assicura al convivente una tutela più limitata rispetto agli altri partecipi. Que- sta diversità di trattamento rispetto ai parenti e persino agli affini è giustificata?
Numerose disposizioni appaiono problematiche. Si pensi alla facoltà di nominare l’altro rappresentante nelle decisioni sanitarie (co. 40°): può essere intesa come una sorta di anticipazione di una possibile disciplina del testamento biologico?
7. Il contratto di convivenza
La parte più interessante e problematica della legge riguarda il con- tratto di convivenza. Come si è visto a suo luogo (capitolo 5 del manuale) giurisprudenza e dottrina ammettono che i conviventi pos- sano concludere contratti secondo le regole di diritto comune. Può trattarsi di contratti tipici (ad es., mutuo, comodato), o di un contrat- to (atipico) destinato a regolare vari aspetti della vita comune nel corso del suo svolgimento (ad esempio, modalità di contribuzione) o alla sua cessazione (ad esempio, godimento della casa di abi- tazione, attribuzioni patrimoniali, assegni). Ora la legge disciplina un contratto (tipico) di convivenza con propri requisiti sostanziali e formali.
Dal punto di vista formale, è richiesta, a pena di nullità la forma scritta dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da nota- io od avvocato i quali «ne attestano la conformità alle norme impe- rative e all’ordine pubblico». Ai fini dell’opponibilità ai terzi, copia del contratto deve essere trasmessa, entro i 10 giorni successivi, al comune di residenza per l’iscrizione nei registri anagrafici.
Quanto ai contenuti, il contratto può regolare esclusivamente i rapporti patrimoniali (co. 50°) e può contenere (co. 53°): «a) l’indicazione della residenza: b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime pa- trimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile». Si aggiunge poi che «il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione» (co. 56°).
Quanto ai requisiti soggettivi, «il contratto di convivenza è affet- to da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso: a) in presenza di un vincolo matrimo- niale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza; b) in violazione del 36° co.; c) da persona minore di età; d) da persona
interdetta giudizialmente; e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 codice civile» (co. 57°).
Quanto alle cause di scioglimento, il contratto «si risolve per:
a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unio- ne civile tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti» (co. 59°).
Questa disciplina ha dato luogo a numerosi problemi:
– Intanto ci si chiede se la registrazione della convivenza (co. 37°) sia requisito necessario per la stipula del contratto. Prevale la risposta affermativa anche in considerazione dell’onere di registra- zione del contratto.
– Quanto alle cause di nullità, sono in larga misura coincidenti con quelle di nullità del matrimonio, piuttosto che del contratto. Si pensi, poi, che l’interdizione non è causa di annullamento (come previsto per il contratto) ma di nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse.
– Anche le cause di scioglimento si avvicinano a quelle di scio- glimento del matrimonio, cosicché ci si chiede se siano applicabili anche le regole generali sulla risoluzione del contratto.
– Quanto ai contenuti, quelli indicati dal 53° co. costituiscono contenuti minimi, cosicché ci si chiede se il contratto possa essere arricchito da altre previsioni, ad esempio, clausole che prevedano attribuzioni patrimoniali o assegni in occasione della cessazione del rapporto, o attribuzioni in occasione della morte (fermo restando il divieto di patti successori ed il rispetto dei diritti dei legittimari).
– Quanto al divieto di apporre termini o condizioni (disposizione anche questa ripresa dalla disciplina del matrimonio), ci si chiede se il divieto riguardi esclusivamente il contratto nel suo complesso od anche le singole clausole di natura patrimoniale.
In definitiva, si tratta di una disciplina che confonde contratto di convivenza come accordo sulla costituzione della vita comune e con- tratti di convivenza aventi ad oggetto la regolamentazione dei rap- porti patrimoniali intercorrenti tra la parti.
Le difficoltà di lettura di questa disciplina suggeriscono molta cau- tela agli operatori, avvocati, notai, chiamati ad applicarla in con- creto. Si affaccia l’ipotesi che la previsione di un contratto tipico di convivenza, disciplinato dalla legge e soggetto a rigorosi requi-
siti formali e di pubblicità, non escluda la possibilità di concludere non solo contratti tipici tra conviventi (vendita, mutuo, comodato, donazione, ecc.) ma anche contratti atipici che regolamentino alcuni aspetti patrimoniali (esclusa la costituzione di comunione legale) del- la vita comune nel suo svolgimento o alla sua cessazione, contratti soggetti alla disciplina di diritto comune della validità, della forma e della pubblicità. Questi contratti potrebbero intercorrere anche tra conviventi more uxorio non registrati o privi dei requisiti previsti dal co. 36°, sempre che si tratti di contratti leciti e meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c.
Fascicolo gratuito offerto ai propri clienti dalla Zanichelli Giuridica nel mese di settembre dell’anno 2016.
Composto e impaginato da: Zanichelli editore S.p.A. Divisione Editoria Giuridica Xxx Xxxxxxxx Xxxxxx XX, 0 00000 Xxxxxx