Edizione di martedì 11 gennaio 2022
Edizione di martedì 11 gennaio 2022
Obbligazioni e contratti
Cessione del quinto, premi assicurativi e superamento del tasso soglia usura
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Avvocato
Procedimenti di cognizione e ADR
Mediazione obbligatoria: non rileva il termine di quindici giorni assegnato dal giudice
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona
Esecuzione forzata
Il pignoramento dei titoli PAC
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Obbligazioni e contratti
L’annullamento del contratto di appalto per dolo determinante
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Proprietà e diritti reali
Anche l’uso eccessivo del bene che determina un suo deterioramento ricade sotto il divieto sancito dall’articolo 1102 c.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Dottore in giurisprudenza
Diritto successorio e donazioni
Divisione ereditaria, domanda di rendiconto e frutti civili: l’ipotesi di utilizzo del bene comune da parte di uno solo dei comunisti
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Diritto e reati societari
La responsabilità degli amministratori di società per il pagamento di debiti sociali in violazione della par condicio creditorum
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Deposito della domanda di concordato in bianco e partecipazione alla gara pubblica: la posizione dell’Adunanza Plenaria
di Xxxxxx Xxxxxxx, Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona
Diritto Bancario
Inosservanza della forma scritta (art. 117, comma 3, TUB)
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Agevolazioni fiscali
I fenomeni aggregativi fra studi legali di piccole e medie dimensioni
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato di MpO & Partners
Soft Skills
Comunicazione: ripartire con coraggio
di Xxxxxx Xx Xxxxx - Xxxxxxx stampa di Marketude
Obbligazioni e contratti
Cessione del quinto, premi assicurativi e superamento del tasso soglia usura
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Avvocato
Tribunale di Roma, 20 ottobre 2021, Giudice Postiglione
Parole chiave: Usura – Premi assicurativi – Cessione del quinto – Assicurazione obbligatoria
Massima: “nell’ambito dei contratti di cessione del quinto, essendo obbligatoria per legge la conclusione di polizza assicurativa per il rischio vita e perdita di impiego, il costo dei premi assicurativi va sempre computato ai fini della verifica del superamento del tasso soglia usura, con la conseguenza che – laddove risulti nel caso concreto superato il tasso soglia – gli interessi del contratto devono azzerarsi, in applicazione della sanzione prevista dall’art. 1815 comma 2 c.c. “.
Disposizioni applicate
Art. 644 c.p. (usura), art. 1815 c.c. (interessi), art. 54 d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180 (garanzia dell’assicurazione o altre malleverie)
CASO
Una persona conclude un contratto di cessione del quinto della stipendio con una finanziaria. Computando anche il costo dei premi assicurativi, il costo complessivo del contratto supera il tasso soglia usura vigente nel trimestre di conclusione del contratto per quel tipo di operazioni (appunto, cessioni del quinto). Per questa ragione il debitore agisce in giudizio nei confronti della banca, per ottenere l’azzeramento degli oneri previsti dal contratto.
SOLUZIONE
Il Tribunale di Roma, partendo dalla considerazione che a fini usura rilevano tutti gli oneri collegati al contratto di finanziamento (compresi i premi assicurativi), accerta il superamento
del tasso soglia usura e azzera gli interessi previsti dal contratto di finanziamento. QUESTIONI
La disciplina dell’usura è caratterizzata da due disposizioni di centrale importanza: una penale e una civile. In ambito penalistico, l’art. 644 comma 4 c.p. prevede che “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”. In ambito civilistico, l’art. 1815 comma 2 statuisce che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
La legge prevede dunque che a fini usura rilevi qualsiasi onere, comunque denominato. Più precisamente, l’art. 644 comma 4 c.p. menziona le “commissioni”, le “remunerazioni” e le “spese”. Vi rientrano anche i premi assicurativi? Negli ultimi anni le banche hanno cercato di incrementare la redditività delle proprie attività vendendo prodotti diversi da quelli bancari. Il prodotto bancario consiste generalmente in un contratto di credito (come un mutuo oppure un’apertura di credito), in relazione al quale il debitore è tenuto a pagare gli interessi passivi. Poiché gli interessi passivi sui mercati internazionali delle economie più sviluppate da diversi anni sono molto bassi, e conseguentemente la redditività per le banche è scarsa, gli istituti bancari hanno aumentato la vendita di prodotti diversi, come quelli assicurativi, al fine di conseguire dei proventi ulteriori rispetto agli interessi passivi.
Nel caso oggetto della decisione del Tribunale di Roma, poi, l’assicurazione è addirittura obbligatoria. Bisogna difatti considerare che la cessione del quinto di stipendio o di pensione è disciplinata in un apposito testo normativo (il d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180), che prevede appunto l’obbligatorietà della copertura assicurativa. Più precisamente l’art. 54 comma 1 d.p.r. 180/1950 statuisce che “le cessioni di quote di stipendio o di salario consentite devono avere la garanzia dell’assicurazione sulla vita e contro i rischi di impiego od altre malleverie che ne assicurino il ricupero nei casi in cui per cessazione o riduzione di stipendio o salario o per liquidazione di un trattamento di quiescenza insufficiente non sia possibile la continuazione dell’ammortamento o il ricupero del residuo credito”.
I premi assicurativi vengono corrisposti dal debitore. Detti premi assicurativi, derivino essi da un contratto volontariamente concluso dal debitore oppure da un contratto imposto dalla legge (come nel caso delle cessioni di stipendi o pensioni), rilevano a fini usura? La risposta che dà la giurisprudenza è affermativa, a condizione che si tratti di contratti di assicurazione connessi al finanziamento.
Peraltro, un contratto assicurativo può considerarsi automaticamente connesso al contratto di finanziamento quando esso è imposto dalla legge, come nel caso delle polizze nell’ambito delle cessioni del quinto, proprio in quanto si tratta di assicurazione obbligatoria ex lege (come si diceva, la fonte normativa di detto obbligo è l’art. 54 d.p.r. n. 180/1950). Non si tratta difatti in questi casi di accertare se il contratto assicurativo sia contestuale a quello di finanziamento: non è la circostanza della contestualità a rilevare, bensì l’elemento della obbligatorietà per
legge della polizza assicurativa.
Una volta stabilito che il costo del premio assicurativo va computato a fini usura, bisogna comprendere se nel caso concreto – per effetto del maggior onere dovuto ai premi assicurativi – si supera il tasso soglia usura. Nel caso affrontato dal Tribunale di Roma viene dimostrato, con appositi calcoli, il superamento del tasso soglia usura. Ma qual è la conseguenza del superamento del tasso soglia usura? Si citava sopra l’art. 1815 comma 2 c.c., il quale prevede l’azzeramento degli interessi. Il punto è che, nel caso di specie, il superamento del tasso soglia è dovuto al combinato di due voci di costo: interessi + premi assicurativi. Se si seguisse il tenore letterale dell’art. 1815 comma 2 c.c., si azzererebbero solo gli interessi, lasciando intoccati i premi assicurativi. Questa soluzione non appare tuttavia conforme al senso della legge, che consiste nel reprimere i fenomeni usurari, qualunque sia il mezzo con cui si consegue un costo eccessivo del credito. Ne deriva che il superamento del tasso soglia per effetto dei premi assicurativi dovrebbe determinare l’azzeramento sia degli interessi sia dei premi assicurativi.
Nel caso di specie, tuttavia, l’assicurazione obbligatoria era rimasta in forza per tutto il periodo del contratto, contratto infine estinto anticipatamente. Per questa ragione il Tribunale di Roma ritiene ingiusto azzerare i premi assicurativi. Se si fosse verificato il sinistro nel corso del rapporto (sinistro consistente nella perdita della capacità del debitore di produrre reddito), l’impresa assicuratrice si sarebbe sostituita al debitore, pagando la somma pattuita alla finanziaria. Si tratta di un contratto che ha raggiunto il suo scopo di tutela. Non essendo un contratto (quello assicurativo) privo di causa né di sinallagmaticità, e che è stato eseguito, non pare giusto dichiarare non dovuti – con valutazione ex post – i premi assicurativi.
Procedimenti di cognizione e ADR
Mediazione obbligatoria: non rileva il termine di quindici giorni assegnato dal giudice
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso
l'Università degli Studi di Verona
Cass., sez. II, 14 dicembre 2021, n. 40035, Pres. Xx Xxxxxxxx – Est. Xxxxxxxxx
[1] Mediazione – Condizione di procedibilità – Termine di quindici giorni indicato dal medesimo giudice delegante – Irrilevanza (artt. 5 e 6, d.lgs. n. 28/2010)
Ai fini della sussistenza della condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 2, e comma 2 bis d.lgs. n. 28/2010, ciò che rileva nei casi di mediazione obbligatoria ope iudicis è l’utile esperimento, entro l’udienza di rinvio fissata dal giudice, della procedura di mediazione, da intendersi quale primo incontro delle parti innanzi al mediatore e conclusosi senza l’accordo, e non già l’avvio di essa nel termine di quindici giorni indicato dal medesimo giudice delegante con l’ordinanza che dispone la mediazione.
CASO
[1] A seguito dell’avvenuta proposizione di opposizione a decreto ingiuntivo, la parte opposta si costituiva in giudizio formulando istanza di concessione della provvisoria esecutorietà del decreto.
L’adito Tribunale di Parma, dopo aver disposto consulenza tecnica d’ufficio, fissava udienza di comparizione delle parti prescrivendo alle stesse, successivamente al deposito della relazione, di esperire il tentativo di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, 2°co., d. lgs. n. 28/2010, assegnando a tale scopo il termine di 15 giorni decorrenti dal deposito dell’elaborato peritale, con avvertimento alle parti che, in mancanza, il giudizio sarebbe divenuto improcedibile; inoltre, disponeva il rinvio della causa a una successiva udienza.
Una volta scaduto il predetto termine di 15 giorni, senza che nessuna delle parti avesse
introdotto la mediazione, la parte opposta depositava istanza di anticipazione dell’udienza, accolta dal giudice istruttore.
Solo in data successiva a tale istanza, parte opponente introduceva la mediazione, formulando istanza di differimento della nuova udienza, motivata dalla necessità di concludere la mediazione: con successiva ordinanza, il giudice istruttore confermava così la data d’udienza originariamente fissata.
A tale udienza, il difensore della parte opposta produceva il verbale di mancata conciliazione nel procedimento di mediazione.
Il giudizio di primo grado proseguiva sino alla pronuncia della con cui il tribunale dichiarava l’improcedibilità della domanda con conferma del decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo.
L’adita Corte d’Appello di Bologna, ritenuta l’improcedibilità del giudizio di primo grado, rigettava l’appello proposto dalla parte opponente la quale, conseguentemente, chiedeva la cassazione della sentenza di seconde cure sulla base di quattro motivi: questi, seppur sotto diversi profili, riguardano tutti la medesima questione dell’operatività della mediazione demandata quale condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, commi 2 e 2-bis, e dell’art. 6 del d.lgs.28/2010.
Nel dettaglio: 1) con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 152 e 154 c.p.c. in relazione all’art. 5, 2°co., del d.lgs. n. 28/2010, per avere la sentenza impugnata affermato la perentorietà del termine assegnato per l’instaurazione della mediazione: si contesta, cioè, che la corte bolognese abbia erroneamente ritenuto il termine previsto dall’art. 5, 2°co., d.lgs. 28/2020 quale termine endoprocessuale mentre, in realtà, ad esso non si applicherebbe la disciplina prevista dall’articolo 152 c.p.c. e l’effettivo esperimento del procedimento di mediazione varrebbe a sanare la sua eventuale tardività; 2) con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 152 e 154 c.p.c. per avere la corte territoriale erroneamente disatteso la censura proposta dagli appellanti in ordine al carattere indeterminato del termine di 15 giorni per l’avvio della mediazione, per essere stato, nel caso di specie, il termine agganciato non a una data certa ma a quella di effettivo deposito della ctu; parimenti si ritiene errata la conclusione che comunque la mediazione non risultava avviata neanche a seguito della comunicazione dell’ordinanza con cui si anticipava l’udienza di settembre, comunicazione che implicava l’avvenuto deposito della ctu; 3) con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, 4°co., lett. a), d.lgs. n. 28/2010 per avere la pronuncia della corte ritenuto che la parte onerata dell’avvio della procedura di mediazione delegata fosse l’opponente; 4) con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, 2°co., e dell’art. 6 del d.lgs. n. 28/2010 per avere la corte territoriale escluso il valore sostanziale della mediazione tardiva, ritenendo l’interpretazione proposta dagli appellanti fondata sulla radicale inutilità del termine legale, a prescindere dalla sua natura perentoria od ordinatoria.
SOLUZIONE
[1] La Cassazione ritiene fondate le censure avanzate, analizzate e risolte congiuntamente.
Anzitutto, la Suprema Corte ha ricordato le soluzioni interpretative vigenti in tema di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
In particolare, con la sentenza n. 8473/2019, la Corte ha affermato che la condizione di procedibilità può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore, qualora una o entrambe le parti, richieste dal mediatore dopo essere state adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la propria indisponibilità di procedere oltre.
Inoltre, le Sezioni Unite, con sentenza n. 19596/2020, hanno poi chiarito che la parte onerata della presentazione della domanda di mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/20210 nei casi di opposizione a decreto ingiuntivo, sia il creditore opposto.
In tale contesto viene affrontata la medesima questione, con riferimento tuttavia alla fattispecie della mediazione delegata: ritiene la Corte che, in tale evenienza, al fine di stabilire se si sia verificata o meno la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, debba aversi riguardo alla specifica prescrizione di legge secondo la quale “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda” (art. 5, 2°co., d.lgs. n. 28/2010) e che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo” (art. 5, comma 2-bis, d.lgs. n. 28/2010).
Secondo la Corte, tali indici normativi rappresentano univoche indicazioni con le quali il legislatore ha inteso riconnettere la statuizione giudiziale sulla procedibilità della domanda al solo evento dell’esperimento del procedimento di mediazione e non al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di mediazione.
Coerentemente, rilevato come, nel caso di specie, il procedimento di mediazione avesse indubbiamente avuto luogo entro l’udienza di rinvio fissata dal giudice, la Corte rileva come non potesse essere pronunciata l’improcedibilità della domanda; ne consegue l’accoglimento del ricorso proposto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’Appello di Bologna.
QUESTIONI
[1] Il provvedimento che si commenta interviene sul tema dell’interpretazione della disciplina riguardante la mediazione obbligatoria ope iudicis o demandata dal giudice, ai sensi dell’art. 5, commi 2 e 2-bis, e dell’art.6 del d.lgs n. 28/2010, sotto il particolare profilo dato dalla verifica circa l’avveramento della condizione di procedibilità posta dalla legge.
La disciplina che viene in rilievo, come noto, è stata introdotta con il d.lgs. n. 28/2010 e aggiornata con il d.l. n. 69/2013 (conv. con modificazioni nella l. n. 98/2013), la quale, per le
parti che qui interessano, prevede che: «Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione» (art. 5, 2°co.); «Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo» (art. 5, comma 2-bis); «Il procedimento di mediazione ha una durata non superiore a tre mesi. Il termine di cui al comma 1 decorre dalla data di deposito della
domanda di mediazione, ovvero dalla scadenza di quello fissato dal giudice per il deposito della stessa e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del sesto o del settimo periodo
del comma 1-bis dell’articolo 5 ovvero ai sensi del comma 2 dell’articolo 5, non è soggetto a sospensione feriale» (art. 6).
Per quanto di interesse ai fini del presente commento, è opportuno ricordare che sulla natura da riconoscere al termine di 15 giorni concesso dal giudice per l’instaurazione del procedimento di mediazione obbligatoria ope iudicis, la giurisprudenza di merito ha assunto diverse posizioni interpretative: in alcuni casi è stato ritenuto che il termine di quindici giorni sia ordinatorio (App. Firenze, 13 gennaio 2020, in xxx.xxxxxx.xx), in altri che sia perentorio (Trib. Padova, 18 aprile 2018, in xxx.xxxxxx.xx): è evidente che dalla soluzione che si scelga di adottare discendano risposte interpretative differenti circa le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine in questione.
Nel provvedimento in commento, la Suprema Corte sceglie evidentemente di riconoscere natura non perentoria al termine di 15 giorni in discorso, coerentemente concludendo nel senso che l’avveramento della condizione di procedibilità vada ricollegata al solo evento dell’esperimento del procedimento di mediazione, e non al rispetto del termine per la presentazione della domanda di mediazione.
A sostegno di tale condivisibile conclusione possono senz’altro riportarsi le argomentazioni spese dalla Suprema Corte.
Anzitutto, la Cassazione ricorda come l’adozione della sanzione della decadenza dal compimento di una determinata attività giudiziale, in relazione al mancato rispetto di un termine, richieda una manifestazione di volontà espressa dal legislatore, non desumibile in alcun modo dalla disciplina sulla mediazione.
Inoltre, la ratio sottesa alla mediazione obbligatoria ope iudicis – e cioè la ricerca della soluzione migliore possibile per le parti, dato un certo stato di avanzamento della lite e certe sue caratteristiche -, mal si concilia con la tesi della natura perentoria del termine, che finirebbe per giustificare il paradosso di non poter considerare utilmente esperite le mediazioni conclusesi senza pregiudizio per il prosieguo del processo solo perché tardivamente attivate, escludendo in un procedimento deformalizzato qual è quello di mediazione l’operatività del generale principio del raggiungimento dello scopo.
Appare, pertanto, più coerente con la sistematica interpretazione delle disposizioni sulla mediazione e con la finalità della mediazione demandata dal giudice in corso di causa privilegiare la verifica dell’effettivo esperimento della mediazione. Tale verifica deve svolgersi all’udienza fissata dal giudice con il provvedimento con cui aveva disposto l’invio delle parti in mediazione: se in quella udienza risulta che vi sia stato il primo incontro dinanzi al mediatore conclusosi senza l’accordo (ex art. 5, comma 2-bis, d.lgs. n. 28/2010), il giudice non potrà che accertare l’avveramento della condizione di procedibilità e proseguire il giudizio.
Così intesa, la norma raggiunge lo scopo cui è rivolta, ossia quello di favorire, ove possibile e in termini effettivi, forme alternative ma altrettanto satisfattive di tutela mediante la composizione amichevole delle liti, e al contempo conferma il carattere di extrema ratio che il legislatore della mediazione riconosce, in prospettiva deflattiva, alla tutela giurisdizionale.
Esecuzione forzata
Il pignoramento dei titoli PAC
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2021, n. 26115 – Pres. Vivaldi – Rel. Tatangelo
Aiuti PAC – Titoli AGEA – Pignoramento autonomo rispetto a quello dei terreni – Necessità – Opponibilità del vincolo a terzi – Iscrizione nel registro AGEA – Necessità – Espropriazione dei titoli AGEA unitamente ai terreni – Ammissibilità – Presupposti
I titoli dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) relativi ai contributi comunitari diretti agli agricoltori (cosiddetti “aiuti PAC”), pur essendo pignorabili, non costituiscono né pertinenze, né accessori, né frutti dei terreni in funzione dei quali sono riconosciuti e devono, pertanto, essere oggetto di pignoramento autonomo rispetto a quello di tali terreni, con vincolo soggetto, in ogni caso, a iscrizione nel registro AGEA ai fini dell’opponibilità a terzi. Detti titoli, peraltro, possono essere comunque espropriati con i menzionati terreni, in applicazione estensiva dell’art. 556 c.p.c., previa redazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di due distinti atti di pignoramento, da depositare unitamente in cancelleria e, rispettivamente, da trascrivere nei registri immobiliari e da iscrivere nel citato registro AGEA.
CASO
Una banca assoggettava a espropriazione forzata alcuni terreni di proprietà del debitore; nel disporne la vendita, il giudice dell’esecuzione integrava la relativa ordinanza ex art. 569 c.p.c. con la precisazione che il trasferimento comprendeva anche alcuni titoli AGEA relativi ai cosiddetti aiuti PAC riferiti ai medesimi terreni.
Gli eredi del debitore esecutato, deceduto nelle more del processo esecutivo, proponevano opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il decreto di trasferimento, nella parte in cui aveva per oggetto i titoli AGEA.
L’opposizione veniva dapprima dichiarata inammissibile e successivamente, a seguito di cassazione con rinvio, rigettata nel merito dal Tribunale di Castrovillari.
Gli originari opponenti proponevano, quindi, ricorso per cassazione, sostenendo che i titoli AGEA relativi agli aiuti PAC non possono considerarsi accessori, frutti o pertinenze dei terreni pignorati e non possono, di conseguenza, ritenersi assoggettati automaticamente a espropriazione forzata, ai sensi dell’art. 2912 c.c., unitamente ai terreni, dovendo essere fatti oggetto di un distinto e autonomo pignoramento.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione, dopo avere ricostruito la natura degli aiuti PAC e dei titoli a essi relativi, ha accolto il ricorso, fornendo importanti indicazioni in merito alle modalità con le quali gli stessi possono essere assoggettati a espropriazione forzata, contestualmente o meno ai terreni ai quali si riferiscono.
QUESTIONI
[1] Da oltre cinquant’anni, l’Europa adotta politiche volte al sostegno del settore agricolo, sia mettendo in atto misure di sviluppo rurale con programmi nazionali e regionali per rispondere alle esigenze e alle sfide specifiche delle zone rurali, sia adottando misure volte a fare fronte a situazioni congiunturali (come l’improvviso calo della domanda legato a timori sanitari o alla contrazione dei prezzi conseguente a una temporanea eccedenza di prodotti sul mercato), sia attraverso pagamenti diretti, volti a garantire la stabilità dei redditi degli agricoltori e a migliorare la produttività agricola, anche a fronte degli investimenti necessari per consentire il rispetto dell’ambiente e la fornitura di beni primari che non sempre trovano adeguata remunerazione nel mercato.
Il complesso di queste misure assume la denominazione di Politica Agricola Comune (da cui l’acronimo PAC), che viene finanziata con risorse del bilancio dell’Unione europea (tramite il Fondo europeo agricolo di garanzia e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale), mentre i pagamenti sono gestiti a livello nazionale da ciascuno Stato membro, attraverso i cosiddetti organismi pagatori.
Con il d.lgs. 165/1999, è stata istituita l’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), con la funzione di organismo pagatore italiano e con il ruolo di vigilanza e coordinamento degli altri organismi pagatori costituiti in ambito regionale.
Presso l’AGEA è stato istituito il Registro Nazionale Titoli (RNT), dal momento che la politica di sostegno al reddito degli agricoltori si fonda sull’assegnazione di diritti (ovvero titoli) all’aiuto, determinati – nel numero e nel valore – da ciascuno Stato membro sulla base dell’attività svolta da ogni singolo agricoltore in un determinato periodo di riferimento: in detto registro sono contenute, tra l’altro, le informazioni relative all’identificazione dei soggetti aventi diritto, la registrazione e l’identificazione dei titoli, nonché le indicazioni inerenti al loro trasferimento o ai pesi e vincoli giuridici (pegno, pignoramento, sequestro) che li caratterizzano.
In base alla normativa comunitaria in tema di politiche agricole e a quella interna di recepimento, infatti, agli imprenditori agricoli sono attribuiti dei titoli agli aiuti PAC che non risultano direttamente correlati alla produzione, ma agli ettari di terreno posseduti: detti titoli danno diritto alla percezione di somme erogate annualmente (cosiddetti premi) e – come detto
– sono oggetto di iscrizione nel summenzionato registro. Le somme in questione costituiscono un diritto di credito, di per sé impignorabile (per effetto dell’art. 2 d.P.R. 727/1974), a differenza dei titoli agli aiuti PAC, che, tra l’altro, sono pure suscettibili di autonomo trasferimento, insieme alla proprietà dei terreni, ma anche indipendentemente da essa (sia pure con determinate limitazioni, di carattere soggettivo e oggettivo).
Come precisato nella sentenza che si annota (in conformità, peraltro, con quanto riportato nella circolare AGEA del 16 marzo 2021), il pignoramento dei titoli relativi agli aiuti PAC dev’essere effettuato nelle forme del pignoramento mobiliare presso il debitore (e non nelle forme del pignoramento presso terzi, giacché l’AGEA non è né custode, né detentrice dei titoli, che sono e rimangono nella disponibilità degli agricoltori, né può essere considerata parte debitrice dei finanziamenti previsti dalla PAC), con annotazione del vincolo nel Registro Nazionale Titoli ai fini della sua opponibilità ai terzi (ossia per impedire che possa essere eseguita nel sistema informatico l’operazione di trasferimento dei titoli pignorati dal debitore esecutato a un altro soggetto).
Si tratta, quindi, di una forma di pignoramento mobiliare presso il debitore sui generis, da espletarsi con modalità analoghe a quelle con le quali va effettuata l’espropriazione di quote di società a responsabilità limitata, secondo quanto stabilito dall’art. 2471 c.c. (in forza del quale alla notificazione del pignoramento – al debitore e alla società – deve fare seguito la sua iscrizione nel registro delle imprese).
Nella medesima circolare AGEA viene, altresì, affermato che, in ragione dell’impignorabilità dei contributi spettanti agli agricoltori, l’esecuzione del pignoramento avente per oggetto i titoli relativi agli aiuti PAC non impedisce il loro utilizzo da parte dell’intestatario, fino alla conclusione della procedura esecutiva: essendo, dunque, possibile che, nel corso di essa, i titoli subiscano modifiche (anche per effetto del loro mancato utilizzo per due anni consecutivi), il pignoramento continuerà a produrre effetti, nei confronti dell’AGEA, limitatamente al numero e al valore dei titoli effettivamente rimasti nella disponibilità dell’intestatario.
In ogni caso, come osservato dai giudici di legittimità, i titoli relativi agli aiuti PAC non rientrano tra i beni che possono ritenersi compresi nel pignoramento immobiliare ai sensi dell’art. 2912 c.c., dal momento che non possono essere qualificati né come pertinenze ai sensi dell’art. 817 c.c. (non essendo cose, tanto meno destinate in modo durevole al servizio o all’ornamento degli ettari di terreno in funzione dei quali sono riconosciuti), né come frutti della terra, né come accessori degli immobili pignorati (posto che per accessori, dei quali non esiste una definizione normativa, debbono intendersi entità che, a differenza delle pertinenze, non possono essere separate dalla cosa principale, mentre i titoli relativi agli aiuti PAC – come evidenziato in precedenza – possono essere alienati o trasferiti anche disgiuntamente dalla proprietà dei terreni).
In effetti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la costituzione di un vincolo pertinenziale rilevante ai sensi degli artt. 817 e 2912 c.c. presuppone un elemento oggettivo (consistente nella materiale destinazione del bene accessorio a una relazione di complementarietà con quello principale) e un elemento soggettivo (consistente nell’effettiva volontà del titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sui beni collegati di destinare quello accessorio al servizio o all’ornamento del bene principale), la sussistenza dei quali dev’essere verificata nella singola fattispecie (si veda, per esempio, Cass. civ., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 869) e da escludersi senz’altro nel caso dei titoli relativi agli aiuti PAC.
D’altra parte, è vero che l’estensione del pignoramento alle pertinenze è un effetto normalmente riconducibile alla norma di cui all’art. 2912 c.c., che, tuttavia, non opera nel caso in cui la descrizione del bene riportata nell’atto (o nel decreto di trasferimento) contenga elementi tali da fare ritenere che si sia inteso escludere l’applicazione di detta estensione (così, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2014, n. 11272).
Tenuto conto di questi principi, è giocoforza concludere che i titoli relativi agli aiuti PAC, costituendo per l’ordinamento un bene avente valore autonomo rispetto agli ettari di terreno in funzione dei quali sono riconosciuti, debbono formare oggetto di un autonomo pignoramento, anche perché quello in estensione previsto dall’art. 2912 c.c. non si concilia con la necessità di iscrivere il vincolo nel Registro Nazionale Titoli ai fini della sua opponibilità ad AGEA e ai terzi, quale conseguenza della necessità di iscrizione, nel medesimo registro, dei titoli stessi e degli atti di disposizione che li riguardano.
Nel contempo, come evidenziato nella sentenza che si annota, la necessità di un pignoramento autonomo dei titoli relativi agli aiuti PAC non esclude la possibilità di una loro espropriazione unitamente a quella dei terreni in funzione dei quali sono riconosciuti, in applicazione estensiva dell’art. 556 c.p.c.: in questo caso, l’ufficiale giudiziario dovrà dare corso a due distinti atti di pignoramento (da depositare unitamente in cancelleria – in virtù di quanto previsto dal comma 2 dell’art. 556 c.p.c. – e da, rispettivamente, trascrivere nei registri immobiliari e iscrivere nel Registro Nazionale Titoli), mentre il giudice dell’esecuzione potrà valutare l’opportunità di mettere in vendita i titoli PAC unitamente ai terreni, sussistendone i presupposti, in modo tale da garantire le esigenze pratiche e gli interessi concreti dei creditori e degli acquirenti dei terreni.
Obbligazioni e contratti
L’annullamento del contratto di appalto per dolo determinante
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Tribunale di Milano 10 novembre 2021, Est. Vitale
Contratto di appalto – vizio del consenso – dolo determinante – annullamento contratto
[1] In tema di vizi del consenso deve essere annullato ex artt. 1427 e 1439 c.c. il contratto di appalto avente ad oggetto il rifacimento della pavimentazione di uno stabilimento industriale ove l’appaltatore, ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto, abbia carpito il consenso del committente mediante modalità fraudolente costituite dall’utilizzo durante la prova campione di materiali o prodotti diversi da quelli convenuti per la prova. Il contratto di appalto successivamente stipulato è affetto da dolo determinante dell’appaltatore e deve essere annullato con conseguente onere restitutorio di quanto versato dal committente a titolo di anticipo sull’opera.
Disposizioni applicate
Art. 1662, comma 2, art. 1453, art. 1427, art. 1439, art. 1429 n. 2 c.c.
CASO
L’attore ha citato in giudizio la società committente per veder dichiarata la risoluzione del contratto di appalto stipulato tra le parti, avendo la convenuta violato l’obbligo di collaborazione e buona fede tra le parti e non consentito all’appaltatrice di eseguire le opere appaltate, rendendosi pertanto colpevole di grave inadempimento. L’attrice chiedeva altresì il riconoscimento del risarcimento del danno.
L’oggetto del contratto di appalto era la realizzazione di un’opera di pavimentazione di un capannone industriale.
La committente, dopo aver riscontrato alcune difformità nella colorazione del materiale fornito dall’appaltatrice aveva infatti interrotto i lavori di pavimentazione impedendo
all’appaltatrice di proseguire e ultimare l’opera.
Nel giudizio si è quindi costituita la committente, la quale ha chiesto il rigetto delle domande attoree e l’accertamento ex artt. 1662, comma 2 e 1453 c.c. dell’inadempimento dell’appaltatrice. In via subordinata la committente ha insistito per l’annullamento del contratto di appalto per dolo determinante ex artt. 1427, 1439 e 1429 n. 2 c.c. o, in via di ulteriore subordine, per errore essenziale e riconoscibile.
La convenuta ha infatti dedotto che ad essere inadempiente era l’attrice, in ragione del fatto che a seguito della inadatta realizzazione dell’opera posta in essere dall’appaltatrice in altro cantiere, aveva scoperto di essere stata raggirata dalla società attrice, in quanto nel campione per la selezione che aveva effettuato l’appaltatrice stessa non era stato utilizzato il materiale ordinato, ma erano stati aggiunti dei pigmenti composti dalla stessa inducendo in errore la convenuta nella conclusione del contratto.
SOLUZIONE
Nella specie il Tribunale di Milano ha annullato il contratto di appalto avendo ritenuto provate le circostanze relative all’utilizzo, non dichiarato, da parte dell’appaltatore, nella fase della prova campione, di un materiale ulteriore rispetto al prodotto commerciale che era stato convenuto, ritenendo pertanto il Tribunale il successivo contratto di appalto concluso mediante il dolo determinante dell’appaltatore.
QUESTIONI
Nella sentenza in commento, il Tribunale ha ritenuto fondata e assorbente la domanda riconvenzionale della convenuta di annullamento del contratto per dolo ex art. 1439 c.c.
Sostiene il giudice di prime cure che contrattualmente le parti chiaramente avevano pattuito e specificato la tipologia di prodotto da utilizzare per la colorazione del pavimento, nonché lo spessore del rivestimento. L’appaltatrice aveva poi realizzato un campione, dichiarando che si trattasse del materiale e della colorazione indicata in contratto, mentre in realtà si è avuto modo di verificare che la colorazione utilizzata per il campione era stata creata con pigmenti ad hoc dalla stessa appaltatrice e, pertanto, non secondo le indicazioni convenute in contratto.
Secondo l’argomentazione del Tribunale, la condotta dell’appaltatrice – che discostandosi dalla tipologia e dalla colorazione espressamente prevista in contratto ha creato un diverso e simile prodotto per effettuare la campionatura su cui poi si è basato l’ordine della committente – integra gli estremi del dolo contrattuale quale vizio del consenso ai sensi dell’art. 1439 c.c., a mente del quale il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato.
Il dolo, dunque, è causa di annullamento del contratto, allorché si sia concretato in artifici o
raggiri o anche menzogne, che – ingenerando nella controparte una rappresentazione alterata della realtà – siano stati determinanti del consenso che altrimenti non sarebbe stato prestato (x. Xxxx. 2003, n. 5166, 2006, n. 6166).
Sul tema il tribunale ha richiamato altresì la pronuncia delle Sezioni Unite n. 1955/1996, secondo la quale, a norma dell’art. 1439 c.c., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto, ossia, quando, determinando la volontà del contraente, abbiano ingenerato nel deceptus una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c., con la conseguenza che a produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima.
Nel caso di specie è emerso che l’appaltatrice, in sede di campionatura, non ha utilizzato il materiale convenuto, ma una mistura creata appositamente da lei e apparentemente simile alla colorazione indicata in contratto, determinando quindi una falsa e distorta percezione della realtà ed ingenerando dolosamente nel committente l’erronea convinzione di aver commissionato la realizzazione di un pavimento mediante la posa in opera del prodotto convenuto.
Il giudice ha pertanto rilevato una condotta fraudolenta dell’appaltatrice, che ha indotto la committente a prestare il proprio consenso ad un contratto di appalto che non avrebbe mai concluso se avesse saputo sin dall’inizio che nella campionatura aveva utilizzato dei materiali non rispondenti al prodotto indicato in contratto.
I raggiri utilizzati dalla appaltatrice sono stati quindi determinanti nella conclusione del contratto, poiché incidenti su una qualità essenziale del prodotto oggetto dell’opera, essendo sufficienti ai fini dell’annullamento del contratto per dolo anche le semplici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte.
La pronuncia in commento è conforme all’orientamento di legittimità più recente, secondo il quale il nesso eziologico non può, in linea di massima, considerarsi integrato da una mera omissione, o da una incomprensione, o dalla presunzione di una errata percezione delle vicende dedotte contrattualmente, ma occorre che la condotta dolosa sia caratterizzata da un facere attraverso il quale si persegue intenzionalmente e fattivamente una perturbazione nella formazione del volere (cfr. Cass. Civ., ordinanza n. 25968/2021).
Proprietà e diritti reali
Anche l’uso eccessivo del bene che determina un suo deterioramento ricade sotto il divieto sancito dall’articolo 1102 c.c.
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Dottore in giurisprudenza
Cassazione civile, sez. II, ordinanza 14.10.2021 n. 28080. Presidente X. Xxxxxx – Xxxxxxxxx X. Xxxxxxx
«L’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è sottoposto dall’art. 1102 c.c. a due limiti fondamentali, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, con la conseguenza che a rendere illecito l’uso basta il mancato rispetto dell’una o dell’altra delle due condizioni, sicché anche l’alterazione della destinazione della cosa comune determinato non soltanto dal mutamento della funzione, ma anche dal suo scadimento in uno stato deteriore, ricade sotto il divieto stabilito dall’art. 1102 c.c. In particolare, l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino, nell’essere assoggettato ai sensi del citato art. 1102 c.c., al duplice indicato divieto, implica che si debba ritenere che la condotta del condomino, consistente nella stabile o, comunque continuata, occupazione – mediante il reiterato transito o parcheggio per considerevoli periodi di tempo con autoveicoli – di una porzione del cortile comune o per l’ampiezza totale o quasi totale di esso, configuri un abuso, poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà ».
CASO
Il caso riguarda una situazione di condominio ove i rispettivi titolari della nuda proprietà e dell’usufrutto degli immobili convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Trani-sez. dist. di Molfetta, tre proprietari, condomini dei locali adibiti ad autorimessa, affinché agli stessi venisse ordinato di cessare il transito e la fermata degli automezzi dei quali erano titolari all’interno del cortile condominiale.
Il Tribunale adito rigettava la domanda di parte attrice e condannava la stessa al pagamento delle spese giudiziali.
La parte soccombente decideva di impugnare la decisione del Giudice di primo grado proponendo appello.
La Corte di Appello di Bari accoglieva il gravame e riformava la sentenza di primo grado inibendo agli appellati di attraversare e fermare i rispettivi automezzi nello spazio costituito dalla corte privata dalla quale si accedeva agli ingressi dei locali di loro proprietà, salvo motivi di soccorso ed ordine pubblico.
L’esito della CTU[1] disposta durante il processo confermava, infatti, i sospetti della Corte barese circa il pericolo che dalle attività di fruizione della predetta corte comune ad opera degli appellati potesse derivare un deterioramento dello stesso cortile quindi «un’alterazione della destinazione della cosa comune», ciò determinando una violazione dell’articolo 1102 c.c.
Gli appellati proponevano ricorso in Cassazione per censurare la sentenza a loro sfavorevole.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione dopo aver affrontato nel merito i motivi oggetto del ricorso ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., ha confermato per intero la decisione della Corte barese respingendo il gravame e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore della resistente. In particolare gli Ermellini hanno affermato che «non ha errato la citata Corte nel disporre l’inibizione dell’uso della cosa comune, anziché ordinare l’esecuzione di opere idonee ad evitare il suo danneggiamento, posto che gli originari attori avevano chiesto al Tribunale non già di ordinare la realizzazione di specifici interventi diretti ad impedire detto danneggiamento, bensì di impedire l’uso improprio (ed illegittimamente prevalente su quello degli altri condomini) del vico e dell’atrio comune».
QUESTIONI
La controversia ha sostanzialmente ad oggetto quello che si potrebbe definire un “eccessivo sfruttamento” di una porzione comune di un’area condominiale. Nel caso di specie parte attrice denunciava al Tribunale l’eccessivo utilizzo di una zona comune di transito che, a suo modo di vedere, a causa dei materiali (pavimentazione con basole calcaree) e della zona (impianto fognario sottostante) ove essa si trovava in concreto ubicata, avrebbe potuto subire un’alterazione della propria funzione, ovvero un irreversibile deterioramento.
1. Nel caso della controversia oggetto della sentenza in commento, i giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno analizzato il primo motivo posto a fondamento del gravame proposto dalla parte ricorrente, ossia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1102 c.c. In particolare, si lamentava il fatto che la condotta denunciata dagli originari attori e poi appellanti non poteva aver comportato il superamento dei
limiti tutelati dalla norma richiamata, poiché il possibile deterioramento della pavimentazione e dell’impianto fognario, situato al di sotto della stessa, non sarebbe stato sufficiente per poter indurre l’organo giudicante ad inibire il transito dei veicoli di proprietà dei condomini, «rilevando il possibile disagio al più sotto il profilo risarcitorio».
In concreto, gli Ermellini hanno condiviso sia le risultanze della CTU, disposta ed eseguita nel corso del giudizio di secondo grado, sia le valutazioni espletate dalla Corte territoriale aventi ad oggetto le risultanze delle stesse, poiché trattasi di un «percorso logico-giuridico idoneamente sviluppato». Infatti, dai risultati delle operazioni svolte dal CTU è stato accertato che la pavimentazione dell’area comune si stava deteriorando a causa «della trasmissibilità delle vibrazioni dei veicoli su di essa transitanti o parcheggiati», pertanto, configurandosi una violazione dell’articolo 1102 c.c., dalla quale è lecito e legittimo che discenda l’inibizione dell’uso delle autorimesse di proprietà dei condomini.
Più volte la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito quali debbano essere i limiti dettati dall’articolo 1102 c.c. posti a tutela della “cosa comune”, in particolare, però, dovrà essere sempre fatta salva la destinazione originaria della stessa, nel senso che il disposto della norma codicistica richiamata consente a ciascun comproprietario di trarre dal bene comune un’utilità più intensa o anche semplicemente diversa da quella che ne deriva in concreto agli altri, a patto che non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso spettante per legge a tutti gli altri comproprietari[2]. In altri termini, ciò che occorre evidenziare è la regola in virtù della quale non sono ammesse alterazioni alla normale ed originaria destinazione della cosa comune che siano la conseguenza dell’utilizzo o di modifiche subite dalla stessa[3].
I giudici del Supremo Collegio hanno accertato la corretta interpretazione sia del testo che della “ratio” della norma in parola, rilevando che il transito dei veicoli riconducibili all’uso del cortile fatto da parte ricorrente, «non sporadico bensì continuo ed esercitato con varietà di automezzi anche di diversa natura e di differente peso», aveva prodotto criticità tutt’altro che di lieve entità circa la condizione ordinaria della “tenuta” della pavimentazione e le potenziali lesioni della condotta fognaria sottostante. Di fatto, quanto appena evidenziato rappresenterebbe, per i giudici cassazionisti, un «impedimento non consono», dal momento che risulta essere incisivo e quasi permanente, «alla fisiologica fruibilità dell’area comune», risultando sensibilmente alterata quella condizione di equilibrio che dovrebbe, invece, regnare sovrana tra i condomini nel godimento dell’oggetto della comunione.
D’altro canto il giudice di secondo grado ha interpretato correttamente anche la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, dal momento che quest’ultima ha ribadito in più occasioni che l’uso della cosa comune da parte dei partecipanti è soggetto, ai sensi dell’articolo 1102 c.c., a due limiti di fondamentale importanza: il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e il divieto di impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto, con la conseguenza che a rendere illecito l’uso è sufficiente il mancato rispetto di uno di tali divieti, «sicché anche l’alterazione della destinazione della cosa comune
determinato non soltanto dal mutamento della funzione, ma anche dal suo scadimento in uno stato deteriore ricade sotto il divieto stabilito dall’articolo 1102 c.c.»[4].
Per le ragioni e le considerazioni logico-giuridiche esposte, gli Ermellini hanno giudicato il primo motivo infondato rigettandolo, poiché l’uso del cortile di parte ricorrente aveva determinato «un permanente impiego dello stesso per un fine sostanzialmente ed incisivamente diverso da quello suo proprio, così determinando una vera e propria alterazione della sua ordinaria destinazione e non risolvendosi in un mero uso più intenso di tale bene».
2. Invece, con la seconda censura la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2058 c.c., rubricato «risarcimento in forma specifica», sul presupposto che la sentenza impugnata fosse errata anche sul piano motivazionale, più nello specifico, nella parte in cui, anziché ordinare l’inibizione “ut supra”, avrebbe più propriamente dovuto consentire l’uso della parte comune oggetto di causa per consentire l’accesso dei condomini agli ingressi delle rispettive proprietà e, allo stesso tempo, ordinare l’esecuzione dei lavori necessari per conseguire l’eliminazione definitiva dei pericoli relativi alla conservazione ed alla staticità della pavimentazione dell’area comune e dell’impianto fognario situato al di sotto della stessa.
Tuttavia, anche tale motivo di gravame non è stato condiviso dai giudici di legittimità, anzi, è stato ritenuto privo di fondamento. Infatti, la Corte territoriale non si era pronunciata su una domanda diversa da quella riguardante la materia del contendere (contestata violazione dell’art. 1102 c.c.), essendosi, tuttalpiù, limitata ad un semplice richiamo dell’articolo 2058 c.c. al solo fine di motivare più opportunamente la propria decisione. Ad avviso degli Ermellini il giudice di appello «non ha errato nel disporre l’inibizione dell’uso della cosa comune, anziché ordinare l’esecuzione di opere idonee ad evitare il suo danneggiamento, posto che gli originari attori avevano chiesto al Tribunale non già di ordinare la realizzazione di specifici interventi diretti ad impedire detto danneggiamento, bensì di impedire l’uso improprio (ed illegittimamente prevalente su quello degli altri condomini) del vico e dell’atrio comune».
[1] La CTU aveva ad oggetto l’effettivo utilizzo in termini di natura e frequenza degli autoveicoli transitanti sulla corte comune.
[2] Cassazione civile, sez. II, sentenza 03.06.2015, n. 11445.
[3] Cassazione civile, sez. XX, ordinanza 18.01.2011, n. 1062.
[4] Cassazione civile, sez. VI II, ordinanza 18.03.2019, n. 7618; Cassazione civile, sez. II, sentenza 24.02.2004, n. 3640; Cassazione civile, sez. II, sentenza 15.07.1995, n. 7752.
Diritto successorio e donazioni
Divisione ereditaria, domanda di rendiconto e frutti civili: l’ipotesi di utilizzo del bene comune da parte di uno solo dei comunisti
di Xxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Cassazione Civile, Sezione 2, ordinanza n. 39036 del 09/12/2021
DIVISIONE – DIVISIONE EREDITARIA – OPERAZIONI DIVISIONALI – FORMAZIONE DELLO STATO
ATTIVO DELL’EREDITA’ – IN GENERE – Frutti dovuti dal condividente in relazione all’uso esclusivo
di un immobile oggetto di divisione – Natura – Frutti civili – Criterio di liquidazione – Valore locativo
Xxxxxxx: “Anche il godimento in esclusiva, da parte di uno dei comunisti, del bene comune configura il percepimento di frutti civili, da liquidarsi in forza di un canone di locazione figurativo, sicché la domanda di rendiconto comprende in sé anche detto tipo di frutti civili”.
Disposizioni applicate
Articoli 713, 714, 723, 1102 e 1111 cod. civ.
[1] Xxxxx conveniva in giudizio i propri fratelli Xxxx e Xxxxxxxxx per procedere alla divisione dei beni ereditari, previa declaratoria di nullità del testamento olografo del padre, con il quale veniva nominato unico erede il solo Xxxxxxxxx, per difetto di autografia.
L’attore chiedeva di procedere all’apertura della successione legittima con divisione dell’asse e rendiconto da parte di Xxxxxxxxx poiché nel possesso esclusivo dei beni ereditari ovvero, se valido il testamento, di procedere per lesione della legittima. Xxxxxxxxx resisteva, sostenendo la autografia del testamento e, quindi, chiedendo il rigetto della domanda, mentre Xxxx aderiva alle richieste dell’attore.
All’esito della fase istruttoria, il Tribunale di primo grado si pronunciava in primis per la nullità del testamento, procedendo, poi, alla divisione sulla base della successione legittima, rigettando, tuttavia, la domanda afferente al rendiconto.
Xxxxxxxxx ebbe a proporre gravame avanti la Corte d’Xxxxxxx, attingendo la statuizione afferente all’invalidità della scheda testamentaria, mentre Xxxxx e Xxxx proposero appello incidentale, rilevando omessa decisione circa la domanda di rendiconto e pagamento dell’indennità per il godimento in via esclusiva del bene ereditario.
All’esito della trattazione, il Giudice di secondo grado rigettò l’appello principale ed accolse quello incidentale, osservando, per i profili che in questa sede maggiormente interessano, come in effetti la richiesta di pagamento, da parte dell’erede nell’esclusivo possesso dei beni comuni, dell’indennità per il godimento in via esclusiva del bene fosse pretesa ricompresa nella domanda di rendiconto, sicché era dovuta la somma, all’uopo accertata dal consulente tecnico, ai fratelli Xxxx e Xxxxx.
Xxxxxxxxx proponeva, dunque, ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello articolandolo su due motivi, dei quali il secondo sarà oggetto del presente esame.
[2] Con detta doglianza, il ricorrente lamentava violazione di legge in quanto la domanda di rendiconto – ritualmente proposta dall’originario attore – benché comprenda in sé anche la domanda di condanna al pagamento delle somme dovute ad esito delle operazioni di rendiconto, tuttavia non poteva contenere in sé anche la pretesa del pagamento di un’indennità per aver l’erede, nel possesso dei beni comuni, goduto degli stessi in via esclusiva. Detta domanda, pertanto, rappresentava una domanda nuova formulata in appello e, pertanto, inammissibile.
[3] I giudici di legittimità hanno ritenuto la censura svolta priva di pregio giuridico.
Gli Ermellini, infatti, richiamano il costante orientamento del Supremo Collegio, secondo cui anche il godimento in esclusiva, da parte di uno dei comunisti, del bene comune configuri il percepimento dei frutti civili da liquidarsi in forza di un canone di locazione figurativo, sicché la domanda di rendiconto comprende in sé anche detto tipo di frutti civili.
Vengono, a tal proposito, citati i precedenti di Xxxx. Civ., Sez. 2, ordinanza n. 17876 del 03/07/2019 – a giudizio della quale “ai fini della determinazione dei frutti che uno dei condividenti deve corrispondere in relazione all’uso esclusivo di un immobile oggetto di divisione giudiziale, occorre far riferimento ai frutti civili, i quali, identificandosi nel corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, ben possono essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato” – e Xxxx. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 5504 del 05/04/2012 – che, in maniera analoga, aveva statuito che “i frutti civili, dovuti dal comproprietario che abbia utilizzato, in via esclusiva, un bene rientrante nella comunione, hanno, ai sensi dell’art. 820, terzo comma, cod. civ., la funzione di corrispettivo del godimento della cosa e possono essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato”.[1]
Nella sentenza epigrafata, si precisa, poi, che, “avendo la Corte territoriale fatta applicazione di detto insegnamento, non concorre alcuna violazione di legge, in disparte l’osservazione che, in realtà – per come illustrato nella sentenza impugnata senza che al riguardo sia mossa specifica
contestazione nel ricorso – la domanda nuova in sede d’appello era stata individuata dall’appellante nel senso che la domanda di rendiconto non comprendeva anche quella di pagamento delle somme accertate siccome dovute e, non già, siccome denunziata in questa sede di legittimità – il godimento personale del bene comune non configura frutti civili”.
[4] La pronuncia in commento fornisce lo spunto per una più generale e, necessariamente, sommaria disamina degli aspetti afferenti all’uso esclusivo di un bene in comproprietà tra più soggetti.
Come affermato dalla Suprema Corte in un recente pronunciato, “in tema di comunione, l’articolo 1102 c.c. consente al comproprietario l’utilizzazione ed il godimento della cosa comune anche in modo particolare e più intenso, ovvero nella sua interezza (in solidum), ponendo il divieto, piuttosto, di alterare la destinazione della cosa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, così da negare che l’utilizzo del singolo possa risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari. Diverso regime rispetto all’uso della cosa comune vale per i frutti naturali (che entrano a far parte della comunione e quindi si ripartiscono tra i partecipanti pro quota) e per i frutti civili (soggetti alla regola della divisione ipso iure, e però nella comunione ereditaria disciplinati ulteriormente dal principio della dichiaratività della divisione, di cui all’articolo 757 c.c.)”.[2]
In sostanza, ciascun comproprietario ben può utilizzare il bene comune, purché non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari godimento agli altri comunisti.[3]
I limiti di cui all’art. 1102 cod. civ. non impediscono, dunque, al singolo condòmino, se rispettati, di servirsi del bene anche per fini esclusivamente propri e di trarne ogni possibile utilità.[4]
La legittimità dell’utilizzo, anche esclusivo, da parte del singolo, esclude in radice la possibilità di riconoscere agli altri comunisti alcun diritto al risarcimento di un danno; ciò purché siano rispettate le due condizioni sopra richiamate. Qualora, infatti, l’occupante impedisse la possibilità degli altri comunisti a godere del bene, si ricadrebbe in una fattispecie di occupazione abusiva, dalla quale ben potrebbe discendere un obbligo risarcitorio in capo al possidente.[5]
In materia successoria, la questione si riveste di ulteriore particolarità. La natura dichiarativa riconosciuta al negozio di divisione ereditaria[6] e il dettato dell’art. 723 cod. civ., infatti, impongono a colui che abbia goduto di un bene in comunione la restituzione, al momento del negozio di divisione, dei frutti percepiti (o che avrebbe potuto percepire) dal godimento del bene stesso.[7] E ciò a prescindere da qualsivoglia valutazione in merito all’esercizio del possesso in buona o mala fede.[8]
Tale obbligo riguarda tanto i frutti naturali quanto quelli civili, ed è, secondo la giurisprudenza, contemperato dalla necessità di riconoscere al possessore che abbia apportato miglioramenti alla cosa comune ovvero sostenuto spese per la sua conservazione il rimborso
delle spese eseguite (e non, dunque, in ragione all’aumento di valore del bene).[9]
[1] Si vedano, nello stesso senso e per una più dettagliata analisi del diverso atteggiarsi del citato orientamento: Xxxx. Civ., Sez. 2, sentenza n. 18445 del 29/08/2014 “In tema di divisione ereditaria, agli effetti dell’obbligo del condividente di versare agli altri, “pro quota”, i frutti civili del bene comune goduto in esclusiva durante la comunione, qualora si tratti di immobile soggetto al regime vincolistico della legge 27 luglio 1978, n. 392, il rendimento immobiliare deve essere determinato con riferimento a tale legge, anche quanto alla periodica rivalutazione del canone di locazione”; Xxxx. Civ., Sez. 2, sentenza n. 20394 del 05/09/2013 “In materia di comunione , il comproprietario di un bene fruttifero che ne abbia goduto per l’intero senza un titolo giustificativo – esclusa l’applicabilità dell’art. 1148 cod. civ., che disciplina il diverso caso della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede tenuto a restituire la cosa al rivendicante – deve corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione “pro quota” del bene comune, i frutti civili, che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere a terzi secondo i correnti prezzi di mercato, possono essere individuati, solo in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione, nei canoni di locazione percepibili per l’immobile”;
[2] Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 7019 del 12/03/2019
[3] Cass.Civ., Sez. 2, sentenza n. 7466 del 14/04/2015
[4] Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 6458 del 06/03/2019
[5] In tale ottica, si vedano, tra le altre: Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 14213 del 07/08/2012 “In tema di uso della cosa comune, nell’ipotesi di sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene, è risarcibile, sotto l’aspetto del lucro cessante, non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorché derivabile da un uso della cosa diverso da quello tipico. Tale danno, da ritenersi “in re ipsa”, ben può essere quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente”; Xxxx. Civ., Sez. 2, sentenza n. 2423 del 09/02/2015 “l’uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., non è idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l’occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso”.
[6] Potrebbe forse aprire la porta ad una diversa analisi la recente pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza n. 25021 del 07/10/2019), ove viene riconosciuta natura traslativa e costituiva al negozio di divisione, sebbene nell’ottica dell’applicabilità della normativa urbanistica a tale tipo negoziale. Si veda anche, per la natura costitutiva della
sentenza di scioglimento della comunione: Cass. Civ., Sez. 6, ordinanza n. 35210 del 18/11/2021:
[7] Si xxxxxx, Xxxx. Civ., Sez. 2, sentenza n. 7881 del 06/04/2011: “In tema di divisione immobiliare, il condividente di un immobile che durante il periodo di comunione abbia goduto del bene in via esclusiva senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri i frutti civili, quale ristoro della privazione della utilizzazione “pro quota” del bene comune e dei relativi profitti, con riferimento ai prezzi di mercato correnti dal tempo della stima per la divisione a quello della pronuncia”; conforme Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 14652 del 27/08/2012 che, espressamente, nel corpo della sentenza richiama il precedente del 2011.
Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 640 del 14/01/2014: “L’art. 535, primo comma, cod. civ., che rinvia alle disposizioni sul possesso in ordine a restituzione dei frutti, spese, miglioramenti e addizioni, si riferisce al possessore di beni ereditari convenuto in petizione di eredità ex art. 533 cod. civ., mentre è estraneo allo scioglimento della comunione ereditaria; esso non si applica, quindi, al condividente che, avendo goduto il bene comune in via esclusiva senza titolo giustificativo, è tenuto alla corresponsione dei frutti civili agli altri condividenti, quale ristoro della privazione del godimento pro quota”.
[8] In tal senso Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 4633 del 27/04/1991: “Nel caso di possesso esclusivo della cosa comune, esercitato da un partecipante alla comunione, il possessore ha in ogni caso l’obbligo, quale mandatario espresso o tacito degli altri partecipanti, di rendere loro il conto dei frutti, così come ha diritto alla contribuzione nelle spese sostenute per i miglioramenti apportati anche in rappresentanza degli altri partecipanti, prescindendo dalla distinzione tra possessore di buona fede o di mala fede, che, ai sensi dell’art. 1148 cod. civ., ha rilevanza al fine di determinare il periodo per il quale
è dovuta la restituzione dei frutti maturati.”
[9] Si veda, Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 5135 del 21/02/2019 “Il coerede che sul bene comune da lui posseduto abbia eseguito delle migliorie può pretendere, in sede di divisione, non già l’applicazione dell’art. 1150 c.c. – secondo cui è dovuta un’indennità pari all’aumento di valore della cosa in conseguenza dei miglioramenti – ma, quale mandatario o utile gestore degli altri eredi partecipanti alla comunione ereditaria, il rimborso delle spese sostenute per il suddetto bene comune, esclusa la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di debito di valore”; nonché, nello stesso senso Cass Civ., Sez. 2, sentenza n. 6982 del 23/03/2009, Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 15123 del 22/06/2010, Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 12345 del 18/11/1991
Diritto e reati societari
La responsabilità degli amministratori di società per il pagamento di debiti sociali in violazione della par condicio creditorum
di Xxxxxxxx Xxxxx, Avvocato
Tribunale Milano, Sez. spec. in materia di impresa, Sentenza, 14 settembre 2021, n. 7286
Parole chiave: società – società di capitali – organi sociali – amministratori – azione di responsabilità contro gli amministratori – danno da pagamento preferenziale
Massima: “Quando la società versa in stato di insufficienza patrimoniale irreversibile, il pagamento di debiti sociali senza il rispetto delle cause legittime di prelazione – quindi in violazione della par condicio creditorum – costituisce un fatto generativo di responsabilità degli amministratori verso i creditori, salvo che sia giustificato dal compimento di operazioni conservative dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, a garanzia dei creditori medesimi, o di operazioni assimilabili.”
Disposizioni applicate: artt. 146 l.f., artt. 2393, 2394 e 2476 c.c.
Nella fattispecie in esame, il Fallimento, in persona del curatore, aveva citato in giudizio, esercitando l’azione di responsabilità ex artt. 146 l.f., 2393, 2394 e 2476 c.c. gli amministratori della società fallita per aver posto in essere (i) pagamenti preferenziali che avevano generato
(ii) sanzioni ed interessi applicati sui debiti erariali e previdenziali non pagati, che avevano comportato l’aggravamento del passivo patrimoniale della società.
In particolare, il Fallimento lamentava (i) che gli amministratori avessero posto in essere illegittimi rimborsi soci e pagamenti a società riferibili alla famiglia di alcuni amministratori nonché a banche cui gli amministratori avevano rilasciato fideiussioni, (ii) che avessero inoltre proseguito l’attività d’impresa anche dopo la perdita del patrimonio netto della società, mediante la creazione di artifici contabili volta a ritardare la visibilità dello stato di dissesto della società e infine (iii) che le preferenze degli amministratori nel pagare i debiti verso società di famiglia e verso le banche avessero causato l’aggravamento del passivo patrimoniale della società alla luce delle sanzioni ed interessi applicati sui debiti erariali e
previdenziali non pagati.
Si erano costituiti in giudizio gli amministratori eccependo, in particolare, a) la carenza di allegazione e prova in ordine agli elementi costitutivi della responsabilità degli amministratori convenuti, con particolare riguardo agli elementi costitutivi del delitto di bancarotta preferenziale (fra tutti quello del dolo specifico nell’aver favorito il creditore soddisfatto) e
b) insussistenza di tali elementi, sostenendo che c) i pagamenti posti in essere avevano comportato una riduzione dell’esposizione debitoria della società, alleggerendo la pressione dei creditori e che d) l’omesso pagamento dei debiti fiscali e previdenziali non fosse illegittimo in quanto dipeso dalla mancanza dei fondi necessari a tal fine e in quanto la scelta di pagare un debito piuttosto che un altro fosse imputabile unicamente a discrezionalità gestoria.
Il Tribunale, fondandosi sulla sentenza n. 1641 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 23 gennaio 2017, ha accolto le domande del Fallimento, chiarendo che sussisteva la responsabilità degli amministratori in quanto i pagamenti – oggetto di contestazione da parte del Fallimento – potevano qualificarsi come pagamenti preferenziali avvenuti in violazione del principio di par condicio creditorum e pertanto risultavano dannosi per la massa dei creditori.
Infatti, i magistrati hanno stabilito che i pagamenti dei suddetti crediti erano intervenuti quando il patrimonio sociale era già divenuto irreversibilmente insufficiente, quando la società aveva già intrapreso attività effettivamente liquidatorie (quali affitto di ramo d’azienda, svendita straordinaria e cessazione dell’attività tipica) e che non erano finalizzati ad una gestione conservativa del patrimonio sociale, né ad adottare strumenti volti al superamento della crisi o al recupero della continuità aziendale.
Per quanto riguarda il tema della responsabilità degli amministratori in relazione ai debiti per sanzioni ed interessi applicati sui debiti erariali e previdenziali non pagati, il Tribunale, rifacendosi ad un precedente del 3 dicembre 2020, ha sottolineato che la discrezionalità degli amministratori trova un limite naturale nel necessario rispetto di specifiche e tassative norme di legge, tra cui quelle che prevedono i pagamenti di imposte, tasse e contributi, la cui violazione integra un illecito amministrativo assistito dalle relative sanzioni, rammentando che la perdurante violazione degli obblighi tributari (e contributivi) da parte degli amministratori rappresenta un grave inadempimento al rispetto degli obblighi contributivi e fiscali[1], che costituisce uno dei primi doveri degli amministratori.
[1] In tema di reati tributari per l’omesso versamento dell’IVA, vedasi Cass. Pen, n. 23796 del 2019 e per l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate vedasi Cass. Pen., n. 3647 del 2017 e Cass. Pen., n. 43599 del 2015.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Deposito della domanda di concordato in bianco e partecipazione alla gara pubblica: la posizione dell’Adunanza Plenaria
di Xxxxxx Xxxxxxx, Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona
Cons. St., A.P., 27 maggio 2021, n. 9 – Pres. Xxxxxxx Xxxxxx, Est. Xxxxxxxxx
Cons. St., A.P., 27 maggio 2021, n. 11 – Pres. Xxxxxxx Xxxxxx, Est. Xxxxxxxxx
Parole chiave: Concordato in bianco – gara pubblica – appalti – esclusione – autorizzazione del tribunale – concordato in continuità aziendale – aggiudicazione.
Massima: “Il deposito di una domanda di concordato in bianco non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche per perdita dei requisiti generali e, pertanto, non preclude la partecipazione alla gara pubblica, ma l’autorizzazione del tribunale fallimentare alla partecipazione alla gara deve intervenire prima dell’aggiudicazione”.
Riferimenti normativi
Art. 161, co. 6 L.F. – art. 186 bis, co. 4 L.F. – art. 14, co. 1 Dir. 2008/98/CE – art. 48, co. 19ter Codice contratti pubblici (d.lgs. 50/2016) – art. 80 Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016)
– art. 110 Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016) – art. 372 d.lgs. 14/2019
CASO
All’esame dell’Alto Consesso è stato sottoposto il tema delle interferenze tra il concordato preventivo con continuità aziendale, nella specifica accezione del concordato in bianco o con riserva, e la partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto o della concessione.
La fattispecie che ha dato origine alla A.P. 9/2021 riguarda l’esclusione dalla gara per perdita dei requisiti generali (ex art. 80, co. 5 lett. b Codice dei contratti pubblici) della mandante di un r.t.i. aggiudicatario che aveva presentato domanda di concordato in bianco in corso di gara
e ne aveva informato la stazione appaltante solo in un secondo momento (dopo cinque mesi dalla presentazione della domanda di concordato).
Sottesa alla A.P. 11/2021, invece, vi è la questione circa la possibilità di sostituire, con un’impresa estranea, la mandataria di un r.t.i. che partecipi ad una procedura di gara.
SOLUZIONE
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con due sentenze gemelle, si è espressa in senso favorevole alla possibilità per un’impresa che presenti una domanda di concordato in bianco, preannunciando che chiederà un concordato con continuità aziendale, di partecipare alla procedura di aggiudicazione di un appalto o concessione. L’Adunanza Plenaria ha colto l’occasione per chiarire, inoltre, che entro l’aggiudicazione della gara deve intervenire l’autorizzazione del tribunale fallimentare alla partecipazione alla gara pubblica ma non è necessario che entro il medesimo termine vi sia anche l’ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale.
QUESTIONI
La questione rimessa all’Alto Consesso riguarda la legittimità della partecipazione ad una procedura ad evidenza pubblica da parte di un’impresa che, nel corso della gara, presenti una domanda di concordato preventivo c.d. in bianco.
Segnatamente, il tema è quello delle interferenze tra il concordato preventivo con continuità aziendale, nell’accezione di concordato in bianco o con riserva, e le vicende dei contratti pubblici, con specifico riferimento alla fase dell’evidenza pubblica e alla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto o della concessione.
Le pronunce si distinguono per interesse perché dopo aver ripercorso l’evoluzione del rapporto tra procedure concorsuali e procedure ad evidenza pubblica, compongono il conflitto interpretativo circa la possibilità per imprese che abbiano presentato domanda per l’ammissione al concordato in bianco di partecipare alle gare pubbliche.
Tradizionalmente, il rapporto tra le procedure concorsuali e le procedure ad evidenza pubblica è stato caratterizzato da antinomia, invero la sottoposizione dell’impresa a fallimento o a procedura similare è sempre stata ritenuta una condizione ostativa o di impedimento alla partecipazione alle gare.
Una prima apertura si è avuta con l’introduzione ad opera del c.d. Decreto sviluppo D.L. 83/3012, del concordato preventivo con continuità aziendale, procedura con finalità “recuperatoria” finalizzata ad assicurare la prosecuzione dell’attività di impresa da parte dell’imprenditore.
Fin dalle origini è stato evidente il forte nesso tra concordato in continuità aziendale e
contratti pubblici, ove la continuazione di contratti pubblici già in corso e la partecipazione a procedure di assegnazione di nuovi contratti pubblici erano ritenute funzionali al perseguimento del recupero del valore dell’impresa. Ciò trova conferma nella formulazione dell’art. 186 bis L.F. e nella coordinata modifica dell’art. 38 del Codice dei contratti pubblici del 2006 che ha previsto l’introduzione per il concordato con continuità aziendale di un’esplicita eccezione alla regola dell’esclusione per le imprese in stato di fallimento, liquidazione coatta o concordato preventivo.
Xxxxx è l’introduzione nell’ordinamento italiano del concordato in bianco o con riserva, introdotto all’art 161, co. 6 L.F. che consente all’imprenditore di depositare un ricorso contenente una domanda di concordato avente un contenuto minimo, riservandosi di procrastinare di sessanta o centoventi giorni la presentazione del piano e della proposta di concordato.
Le questioni rimesse al vaglio dell’Adunanza Plenaria possono essere così sintetizzate:
1) se la presentazione di un’istanza di concordato in bianco ex art. 161, co. 6 L.F. da parte dell’impresa mandante di un raggruppamento temporaneo (di seguito r.t.i.) deve ritenersi causa di automatica esclusione dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali ovvero se la presentazione dell’istanza non inibisca la partecipazione alla procedura di affidamento nel caso in cui contenga una domanda prenotativa per la continuità aziendale;
2) se la partecipazione alle gare pubbliche debba ritenersi atto di straordinaria amministrazione e, dunque, possa consentirsi alle imprese che abbiano presentato domanda di concordato preventivo c.d. in bianco la partecipazione alle gare, soltanto previa autorizzazione giudiziale nei casi urgenti, ovvero se detta autorizzazione debba ritenersi mera condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione;
3) in quale fase della procedura di affidamento l’autorizzazione giudiziale di ammissione alla continuità aziendale debba intervenire onde ritenersi tempestiva ai fini della legittimità della partecipazione alla procedura e dell’aggiudicazione della gara;
4) se le disposizioni normative di cui all’art. 48, commi 17, 18, 19 ter del d.lgs. n. 50/2016 debbano essere interpretate nel senso di consentire la sostituzione della mandante che abbia presentato ricorso di concordato preventivo c.d. in bianco ex art. 161, comma 6, cit. con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del r.t.i. dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione.
Nell’esaminare il primo quesito, l’Adunanza Plenaria ha dato atto del contrasto giurisprudenziale emerso circa l’applicabilità o meno al concordato in bianco della deroga alla causa di esclusione per il concordato in continuità aziendale prevista dagli artt. 80, co.5, lett. b e 110 del Codice dei contratti (si tenga a mente che il contrasto è nato in relazione alla
formulazione dell’art. 110 del Codice dei contratti applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dal D.L. c.d. Sblocca Cantieri).
L’art. 80, co. 5 lett. b del Codice dei contratti esclude dalla partecipazione a gare pubbliche l’operatore economico che si trovi in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di concordato con continuità aziendale, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto all’art. 110 del Codice dei Contratti. L’art. 110, invece, sembra ampliare l’accesso alle procedure ad evidenza pubblica anche alle imprese che abbiano presentato domanda di ammissione al concordato in bianco (tesi che trova conferma nella nuova formulazione dell’art. 110 come modificato dal D.L. c.d. Sblocca Cantieri).
Secondo un primo indirizzo che fa leva sull’effetto prenotativo della domanda di concordato in bianco, in funzione del possibile concordato con continuità aziendale, e sulle finalità anticipatorie e protettive dell’istituto, l’impresa conserva la facoltà di partecipare alle gare pubbliche nel tempo che intercorre tra il deposito della domanda e l’ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale.[1]
Secondo l’orientamento opposto, invece, l’impresa che abbia presentato domanda di concordato ex art. 161, co. 6 L.F. deve essere esclusa in via automatica dalla procedura di gara.[2] Tra le argomentazioni offerte a sostegno di questa teoria, spiccano l’equiparazione della domanda di concordato in bianco al riconoscimento da parte dell’impresa del venir meno dei propri requisiti di affidabilità, la natura straordinaria dell’atto di partecipazione alla gara che lo renderebbe autorizzabile ex art. 161 co. 6 L.F solo se urgente e il fatto che l’incertezza della fase che si apre dopo la presentazione della domanda di concordato in bianco non rende la procedura comparabile con il concordato con continuità aziendale.
L’Adunanza Plenaria, per risolvere il contrasto, ha ritenuto doveroso approfondire il rapporto tra la legge fallimentare e il codice dei contratti rilevando, in particolare, che è l’evoluzione della disciplina dei contratti pubblici che ha reso complesso il coordinamento tra le due discipline.
La disciplina dei contratti pubblici ha da sempre affrontato il tema della crisi di impresa ponendo l’attenzione sull’affidabilità dell’appaltatore, in ottica di protezione della realizzazione della commessa pubblica. In questo senso, la tutela si è tradotta nell’esclusione obbligatoria ed automatica dell’impresa in crisi. Il legislatore italiano, muovendosi nel margine di scelta lasciato dalle direttive europee in materia di appalti, ha optato per un criterio binario secondo il quale l’esclusione obbligatoria e automatica dell’impresa in stato di fallimento, liquidazione coatta e concordato preventivo è la regola, alla quale si affianca un’eccezione nel caso di impresa in concordato con continuità aziendale.
L’esclusione è estesa anche alle imprese nei cui confronti sia in corso un procedimento per la dichiarazione di fallimento, ciò ha indotto gli interpreti a ritenere che l’eccezione potesse essere applicata solo alle imprese già ammesse al concordato con continuità.
Quest’interpretazione ha trovato ulteriore conferma nell’art. 110 del Codice dei contratti (applicabile ratione temporis).
Secondo un’interpretazione letterale delle norme applicabili ratione temporis, la partecipazione a nuove gare sarebbe preclusa sia all’impresa che abbia presentato domanda di concordato in bianco che all’impresa che abbia presentato domanda di concordato preventivo ex art. 161 e non sia ancora stata ammessa alla procedura.
Tuttavia, un simile assunto sarebbe in contrasto con la lettura dell’art. 181 bis, co. 4 L.F. che prevede che tra il deposito della domanda e il decreto di apertura della procedura, l’impresa possa partecipare alle gare pubbliche se autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ‘se già nominato’. Più interpreti hanno inoltre evidenziato che proprio questa formulazione ipotetica dimostrerebbe che l’art. 186 bis, co. 4 L.F. contempla l’ipotesi del concordato in bianco o con riserva (dal momento che, com’è noto, nel concordato preventivo ordinario la nomina del commissario xxxxxxxxxx è doverosa).
A queste premesse ricostruttive, l’Adunanza Plenaria affianca ulteriori considerazioni circa l’inquadramento della domanda con riserva, da parte della giurisprudenza della Suprema Corte. Secondo la Corte di Cassazione, il procedimento innescato dalla domanda con riserva,
c.d. preconcordato, non sarebbe un procedimento distinto e antecedente rispetto a quello ordinario che si apre con la proposta, ma bensì un segmento di un procedimento unico, articolato in due fasi.[3]
Così esposti i rilievi sul punto, l’Adunanza ritiene che la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva non possa considerarsi causa di automatica esclusione né inibisca la partecipazione alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici. La presentazione della domanda non comporta l’automatica perdita dei requisiti generali di partecipazione.[4] Tale interpretazione si applica sia alle imprese che abbiano assunto la qualità di debitore concordatario prima di presentare la domanda di partecipazione alla gara, che alle imprese che presentino la domanda di concordato successivamente rispetto alla partecipazione ad una gara. In entrambi i casi, la partecipazione alle procedure di gara deve essere sottoposta al prudente apprezzamento del giudice, che funge da punto di equilibrio tra la tutela del debitore e la tutela dei terzi.
Nel caso in cui la domanda di concordato sia successiva alla partecipazione alla gara, l’impresa è tenuta a presentare senza indugio al giudice l’istanza di autorizzazione a partecipare alla gara.[5]
Con riferimento al secondo quesito, l’Adunanza Plenaria ha osservato che, ai sensi dell’art. 186 bis, co. 4 L.F., nel caso in cui sia presentata una domanda di concordato, la partecipazione ad una gara è un atto da sottoporre sempre al controllo giudiziale. In ragione della particolare importanza che riveste l’autorizzazione del giudice, la Plenaria ha ritenuto che il rilascio e il deposito dell’autorizzazione debbano intervenire prima che il procedimento di evidenza pubblica sia terminato, pertanto prima dell’atto di aggiudicazione.
Rispondendo al terzo quesito, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che le stazioni appaltanti hanno facoltà di valutare caso per caso se un’autorizzazione tardiva, ma sopraggiunta in tempo utile per la stipula del contratto di appalto o concessione, abbia efficacia integrativa o sanante.
Da ultimo, per rispondere al quarto quesito l’Adunanza Plenaria ha esaminato i commi 17 e seguenti dell’art 48 del Codice dei contratti rilevando che essi, in deroga alla regola generale dell’immodificabilità della composizione del raggruppamento temporaneo rispetto all’assetto risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, prevedono la possibilità di modificare la composizione del raggruppamento. Questa possibilità è concessa nel caso in cui la mandante o la mandataria sia sottoposta ad una procedura concorsuale per insolvenza o crisi di impresa
o nei casi previsti dalla normativa antimafia.
Il comma 19 dell’art. 48 del Codice dei contratti prevede, inoltre, la possibilità di modifiche soggettive in caso di esigenze organizzative del raggruppamento tali per cui nella fase dell’esecuzione del rapporto possono giustificare la riduzione del raggruppamento a condizione che le imprese restanti abbiano i requisiti sufficienti e che la modifica non sia finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara.
Infine, il comma 19 ter dell’art. 48 del Codice dei Contratti (introdotto con d.lgs. 56/2017) ha espressamente esteso le possibilità di modifica soggettiva del raggruppamento previste dai commi precedenti, alle ipotesi di gara già in corso.
Il quesito rivolto alla Plenaria riguarda la possibilità di modificare la compagine del raggruppamento in corso di gara mediante sostituzione della mandataria o della mandante con un soggetto esterno al raggruppamento.
Il Collegio ha ribadito che la regola dell’immodificabilità è posta a tutela della stazione appaltante, dal momento che evita che possa essere selezionato come aggiudicatario un soggetto del quale non sia stato possibile verificare i requisiti, e della par condicio dei partecipanti.
Secondo l’interpretazione tradizionale, è da escludersi la possibilità di modifiche tramite addizione di soggetti esterni al raggruppamento.[6] L’Adunanza Plenaria, dopo aver esaminato le possibili interpretazioni delle norme in combinato disposto e la normativa europea, ha concluso in senso conforme all’interpretazione tradizionale escludendo la sostituzione esterna della mandante e della mandataria.
Così analizzate le questioni di diritto, il Supremo Xxxxxxxx ha enunciato i seguenti principi di diritto:
a) la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, co. 6, L.F. non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, essendo rimesso in primo luogo al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, co. 4, e al quale l’operatore che ha chiesto il
concordato si deve tempestivamente rivolgere fornendo all’uopo le informazioni necessarie, valutare la compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale;
b) la partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario xxxxxxxxxx ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, co. 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del Codice dei contratti; a tali fini l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante;
c) l’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica deve intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale;
d) l’art. 48, co. 17, 18 e 19-ter d. lgs. 50/2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione, nella fase di gara, del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese, che abbia presentato domanda di concordato in bianco o con riserva a norma dell’art. 161, co. 6 L.F., e non sia stata utilmente autorizzato dal tribunale fallimentare a partecipare a tale gara, solo se tale sostituzione possa realizzarsi attraverso la mera estromissione del mandante, senza quindi che sia consentita l’aggiunta di un soggetto esterno al raggruppamento; l’evento che conduce alla sostituzione interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara.
Le pronunce oggetto di esame affrontano un tema di estrema attualità se si considera l’attuale e diffusa crisi economica e finanziaria in cui versa il nostro Paese e gli ingenti piani di investimento in lavori pubblici ed infrastrutture presentati nell’ambito del Recovery Plan per la ripresa dell’economia.
L’interpretazione offerta dall’Adunanza Plenaria, favorevole all’apertura al mercato per le imprese che versino in condizioni di crisi economica è avallata dalla progressiva riduzione delle distonie tra legge fallimentare e codice dei contratti pubblici che culmina nell’impostazione adottata dal nuovo Codice della crisi di impresa.[7] L’attuale formulazione dell’art. 80 co. 5 lett. b del Codice dei contratti richiama espressamente l’art. 186 bis L.F., mentre l’art. 110 del Codice dei contratti è stato modificato dal nuovo Codice della crisi d’impresa che ha disposto che alle imprese che hanno depositato domanda di concordato con riserva si applichi l’art. 186 bis L.F. e che per la partecipazione alle gare, tra la domanda e il decreto di ammissione, sia necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto (art. 95
Codice della crisi). Questa misura si spiega nel generale intento di rafforzare gli strumenti finalizzati a tutelare l’asset di impresa.
In senso conforme, la relazione illustrativa del nuovo Codice della crisi di impresa nel ribadire che la domanda con riserva non impedisce la partecipazione a procedure di affidamento, chiarisce che l’intento è di evitare che la domanda si tramuti da strumento di tutela dell’imprenditore ad ostacolo alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale.
[1] Si vedano in tal senso Cons. St., sez. V n. 1328/2020, sez. III n. 1772/2018, sez. VI n. 426/2016, sez. III n. 5519/2015, sez. V n. 6272/2013, sez. IV n. 3344/2014.
[2] Si vedano Cons. St., VI n. 3984/2019, sez. III n. 5966/2018.
[3] Si vedano, tra le altre, Cass. sez. I, n. 14713/2019; Cass. sez. I, n. 7117/2020.
[4] Tra le argomentazioni ricordate dall’Adunanza Plenaria a sostegno del proprio orientamento si evidenziano il dato letterale dell’art. 181 bis L.F. e la funzione prenotativa e protettiva del concordato con riserva.
[5] L’omessa o tardiva informazione della stazione appaltante può eventualmente essere valutata come condotta reticente ex art. 80, co. 5, lett. c-bis L.F. Si veda in tal senso anche l’Adunanza Plenaria 16/2020.
[6] Xxxx già sposata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella pronuncia n. 8 del 2012. Il Collegio aveva ritenuto che possibile la modifica soggettiva della compagine del raggruppamento ma solo nel caso di modifica “in riduzione” e non “in aggiunta”.
[7] Si veda anche C. Cost. 85/2020.
Diritto Bancario
Inosservanza della forma scritta (art. 117, comma 3, TUB)
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
A norma dell’art. 117, comma 1, TUB, i contratti bancari «sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato al cliente». Il carattere necessariamente formale dei contratti bancari è finalizzato a meglio tutelare i clienti, anche garantendo la completezza dell’informazione loro dovuta in ordine al contenuto delle singole clausole di cui il contratto si compone (Cass.
n. 16671/2012). A tale scopo, la forma scritta realizza una triplice funzione a beneficio della clientela bancaria: protettiva, informativa (“responsabilizzazione del consenso”) e di certezza dell’atto sottoscritto.
In caso di inosservanza della forma prescritta il contratto di finanziamento è nullo (art. 117, comma 3, TUB); la nullità “di protezione” può essere fatta valere solo dal cliente o dal giudice (in quest’ultimo caso se “favorevole” al cliente).
La forma scritta può dirsi carente quando manchi totalmente un documento contrattuale di apertura del rapporto, ovvero quando esso – pur presente – non sia sottoscritto da nessuna delle parti contraenti. La nullità totale del rapporto derivante dalla mancata osservanza della forma prescritta priva in radice di effetti l’operazione di autonomia privata impostata dai contraenti, determinando come conseguenza esclusivamente effetti restitutori con riguardo a tutte le prestazioni eseguite da entrambe le parti, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (calcolando gli interessi al tasso legale dalla data di inizio del rapporto (Trib. Roma 3.7.2019).
Nel credito ai consumatori, in caso di nullità del contratto, il consumatore non può essere tenuto a restituire più delle somme utilizzate e ha facoltà di pagare quanto dovuto a rate, con la stessa periodicità prevista nel contratto o, in mancanza, in trentasei rate mensili (art. 125 bis, comma 9, TUB).
In linea di carattere generale, il Collegio di coordinamento dell’ABF ha rilevato che la pretesa restitutoria a carico del cliente, nel caso di nullità del contratto accertata in applicazione degli artt. 117 e 127 TUB, debba estendersi, oltre che alla somma-capitale erogata dall’intermediario al cliente, pure alla corresponsione di interessi – ovviamente al solo tasso
legale e senza alcuna capitalizzazione – a far data dalla avvenuta messa a disposizione di quest’ultimo della somma medesima (Collegio di coordinamento ABF n. 3257/2012).
Secondo parte della giurisprudenza di merito (Trib. Roma 6.2.2018), la prova della mancanza della forma scritta deve essere fornita dall’attore che agisce in ripetizione, non potendosi obiettare che si tratti di una prova negativa, perché anche il fatto negativo va provato dalla parte che propone la domanda di ripetizione, eventualmente attraverso la dimostrazione del fatto positivo contrario (ad esempio, chiedendo una testimonianza per provare la stipulazione in forma orale o per fatti concludenti del contratto). In altri termini, o si assume che il contratto in forza del quale è stato eseguito un pagamento non è mai stato concluso o si assume che il contratto è stato concluso ma in una forma diversa da quella scritta. In questo secondo caso, la prova del fatto negativo (cioè l’assenza della speciale forma richiesta dalla legge a pena di nullità) può essere data attraverso la dimostrazione del fatto positivo contrario (cioè l’avvenuta stipulazione in una forma diversa).
Agevolazioni fiscali
I fenomeni aggregativi fra studi legali di piccole e medie dimensioni
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato di MpO & Partners
A fianco alle operazioni M&A di Studi di dottori commercialisti e consulenti del lavoro, in un contesto in cui l’appeal delle Società tra Professionisti, c.d. S.T.P., e delle Società tra Avvocati,
c.d. S.T.A., è ancora fortemente condizionato dall’incertezza del quadro normativo di riferimento, nonché dalle ondivaghe prese di posizione di taluni Ordini Professionali, il bisogno crescente di aggregazione fra realtà professionali in campo legale è stato soddisfatto dal ricorso sempre più frequente a forme atipiche di aggregazione.
In particolare, non può negarsi che la pandemia abbia avuto un impatto particolarmente rilevante soprattutto sugli studi legali di modesta dimensione, che vedono oggi nell’integrazione con altre realtà professionali l’unica possibilità per rispondere in modo adeguato alla crescente competitività e complessità delle esigenze della Clientela e per non essere tagliati fuori da un mercato in continua evoluzione.
Il fenomeno aggregativo fra Studi legali, pertanto, si sta caratterizzando per la ricerca di strumenti di “integrazione/aggregazione di competenze” che differiscono dalle operazioni di acquisizione o fusione vere e proprie, che rappresentano invece la prassi delle operazioni di M&A fra Studi di commercialisti e/o consulenti del lavoro.
In particolare, i legali, tradizionalmente meno avvezzi ad operazioni che, comunque, richiedono una certa componente di imprenditorialità e probabilmente condizionati dalla conoscenza della possibile dimensione “patologica” dei rapporti contrattuali, si stanno dimostrando assai “prudenti” e stanno rivolgendo la propria attenzione verso strumenti negoziali a formazione progressiva, con previsione di più fasi operative e di verifica dei risultati ottenuti.
Si assiste, in particolare, all’individuazione di fattispecie negoziali che prevedano una prima fase “soft” di cooperazione/test – con previa definizione del percorso operativo da seguire e con
valutazione a consuntivo della bontà del percorso avviato – ad esito positivo del quale procedere alla vera e propria integrazione.
Le forme contrattuali a cui si assiste sono caratterizzate dalla previsione di “vie d’uscita” piuttosto agevoli in caso di risultato non completamente soddisfacente del periodo di test e/o di esito insoddisfacente dell’integrazione, da valutarsi dopo predeterminati intervalli temporali.
Le ragioni di tali differenze rispetto alle operazioni di prassi fra commercialisti e consulenti del lavoro sono molteplici e si possono individuare in primo luogo nel differente rapporto del legale con la propria clientela, basato, di norma, su di una forte e consolidata personalizzazione e su di un mandato fiduciario ad personam che, a torto e/o a ragione, i legali ritengono per molti versi irripetibile e che spesso non si sentono di “condividere” se non previa valutazione dell’interlocutore che deve essere accurata e testata sul campo.
Da ciò nasce, evidentemente, la prudenza nell’approcciare operazioni destinate, inevitabilmente, ad avere un impatto sul carattere fortemente personale del rapporto fiduciario che lega il legale al proprio Cliente; allo stesso modo, probabilmente, incide nella scelta del percorso di integrazione anche la minor ripetitività dell’attività legale rispetto ai servizi – ad es. contabilità/elaborazione cedolini – prestati dagli studi di dottori commercialisti e consulenti del lavoro.
Ciò che emerge è, in particolare, l’opportunità di evitare il più possibile – e trattandosi spesso di c.d. “studi generalisti” non sempre ciò è agevole – sovrapposizioni fra le aree di attività svolte dalle parti del progetto di integrazione e fra le rispettive competenze; è bene pertanto effettuare una prima mappatura delle competenze e delle aree di attività al fine di individuare i concreti campi in cui l’integrazione è più agevole e ha maggiori prospettive di successo per tutte le parti coinvolte.
Al contempo, se la prudenza nell’approccio è certamente elemento apprezzabile, è necessario prestare attenzione a che non si riveli un limite tale da condizionare negativamente l’approccio al progetto di integrazione il quale necessita, per sua stessa natura e per il suo successo, di una componente ineludibile di fiducia e trasparenza verso l’interlocutore e che impone un abbandono di ritrosie ed esitazioni spesso retaggio di un approccio oramai superato, in presenza delle quali il progetto di integrazione rischia seriamente di non decollare.
Di certo il contesto normativo attuale, caotico e contraddittorio, non agevola i processi di integrazione, magari di natura multidisciplinare fra professionisti, i quali, con sempre maggiore frequenza, lamentano la mancanza di interventi da parte del legislatore tali da favorire e/o comunque quantomeno da non ostacolare un fenomeno che oggi, nella prassi, appare irreversibile e fondamentale per la stessa sopravvivenza di molte realtà altrimenti destinate a scomparire.
Soft Skills
Comunicazione: ripartire con coraggio
di Xxxxxx Xx Xxxxx - Xxxxxxx stampa di Marketude
Mi piacerebbe iniziare il nuovo anno ripensando in linea generale alle spinte propulsive della comunicazione negli studi professionali. Sarebbe bello poter partire con un piede nuovo, non necessariamente quello giusto, perché a volte anche tentare nuovi percorsi implica il mettere in conto anche qualche errore, propedeutico poi ad aggiustare il tiro.
Ma il punto è che si dovrebbe partire adottando un nuovo modus operandi, cambiare angolo visivo, sovvertire le posizioni, abbandonare il “ma gli altri fanno così” per imbracciare il coraggio a due mani e non aver paura di osare, di cambiare, di innovare, di inventare un nuovo modo di comunicare, e di essere, perché no dei pionieri.
PORTATE GLI SPECCHI IN CANTINA
Da quando la comunicazione negli studi professionali ha preso il via in maniera sempre più diffusa nel corso degli ultimi anni, la gran parte delle attività e delle comunicazioni degli studi sono state orientate all’autoreferenzialità. Al cercare di evidenziare le proprie magnificenze, a volte anche in maniera estremamente marcata. Dagli edifici nei quali sono locati, alle attività alternative, ai premi conferiti etc etc.
Ma il quesito è se questi stessi studi sono riusciti al contempo a comunicare con lo stesso vigore le proprie competenze? Il modo di assistere il cliente? Sono riusciti a trasmettere l’amore per la materia che trattano? La passione del proprio lavoro? E allora, mi domando, perché non partire proprio da qui: dal mettere in primo piano la materia che quotidianamente si tratta e sviscerarla trovando gli angoli di lettura più interessanti da comunicare.