Università degli Studi di Padova
Università degli Studi di Padova
Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
IL CONTRATTO DI AFFILIAZIONE NEL QUADRO DELLA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
Relatrice: Prof.ssa Xxxxxx Xxxxxxxxxx
Laureanda: Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx: 1198166
Anno Accademico 2022/2023
INDICE
I CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE COMMERCIALE 5
1. L’ORIGINE DELLA CATEGORIA CONTRATTUALE DENOMINATA “DISTRIBUZIONE COMMERCIALE” 5
1.1 Caratteristiche e clausole comuni nei contratti appartenenti al genus della distribuzione 9
1.2 I canali distributivi: duplice accezione del termine e modalità concrete che il produttore può scegliere per veicolare i beni al consumatore finale 15
2. I PRINCIPALI MODELLI CONTRATTUALI CHE RIENTRANO NELLA DISTRIBUZIONE. BREVE PANORAMICA DELLO SVILUPPO NEL TEMPO DEI CONTRATTI DISTRIBUTIVI 20
3. LE CONSEGUENZE GIURIDICO-ECONOMICHE DERIVANTI DALLA SCELTA DEI SOGGETTI DISTRIBUTORI: INTERMEDIARI E RIVENDITORI A CONFRONTO 32
4. LA DISTRIBUZIONE INTEGRATA: UNA TIPOLOGIA DI INTEGRAZIONE VERTICALE (LECITA) NEI CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE 35
UN PONTE DAL VECCHIO AL NUOVO CONTINENTE 39
1. LA NASCITA DEL FRANCHISING: UNA CONTESA TRA STATI UNITI ED EUROPA 39
1.1 L’influenza della normativa antitrust sul franchising: cenni 41
1.2 Il franchising americano diventa il modello adottato in Europa 43
2. PER SE RULE E RULE OF REASON: I DUE STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA LEGALITÀ 44
2.1 La portata innovativa del caso Leegin 48
2.2 Gli effetti della pronuncia Xxxxxx sul franchising 52
3. FRANCHISE AGREEMENT: LEGGE FEDERALE E NORME STATALI SI INTEGRANO TRA LORO 52
3.1 Oneri preliminari e caratteri comuni del franchise agreement 61
4. FRANCHISING DI DISTRIBUZIONE DI PRODOTTO E MODELLO BUSINESS FORMULA 66
1. IL CODICE ETICO DEL FRANCHISING EUROPEO: LA PRIMA
REGOLAMENTAZIONE DELL’ISTITUTO 71
1.1 Le previsioni del codice: cos’è il franchising 73
1.2 Gli obblighi delle parti 75
1.3 Le informazioni precontrattuali 78
1.4 Le caratteristiche del contratto 79
2. L’INTERVENTO TARDIVO DI NORMAZIONE IN ITALIA 80
2.1 Le caratteristiche del contratto di affiliazione commerciale 87
2.2 I modelli di franchising 93
3. IL RAPPORTO TRA FRANCHISOR E FRANCHISEE 94
4. FORMA E CONTENUTO DEL CONTRATTO 97
4.1 Gli elementi essenziali ed eventuali del contratto 100
5. GLI OBBLIGHI DI INFORMATIVA E LE LACUNE DELL’ENFORCEMENT 103
5.1 Gli obblighi precontrattuali di correttezza e buona e fede 106
5.2 I problemi di enforcement della legge 108
CONCLUSIONE 113
BIBLIOGRAFIA 115
SITOGRAFIA 119
SENTENZE 120
FONTI NORMATIVE 121
INTRODUZIONE
In questa tesi si descriverà la tematica del contratto di affiliazione commerciale, anche conosciuto come contratto di franchising, in relazione all’ampia categoria dei contratti di distribuzione di cui fa parte e prendendo le mosse dalla sua nascita, avvenuta negli Stati Uniti.
Si tratta di una fattispecie negoziale che è ancora ampiamente utilizzata e che continua ad avere notevole successo grazie alle sue caratteristiche. Le ragioni per le quali si è diffusa sono le stesse che rendono l’affiliazione commerciale la scelta migliore per moltissimi imprenditori. Riuscire ad aumentare il numero dei propri punti vendita o di erogazione di servizi e l’espansione in molteplici Stati senza dover effettuare gli investimenti necessari è un indubbio vantaggio. In particolare, perché tramite la licenza d’uso dei diritti di proprietà industriale e intellettuale, tra cui l’insegna e il know- how, tutti i negozi hanno le stesse caratteristiche e vengono immediatamente associati ad un determinato marchio. Ciò comporta il consolidamento della fama del franchisor tra chi è già cliente, e la scoperta della catena per chi non era a conoscenza in assenza di un negozio nelle vicinanze.
Per trattare questo tema è necessario iniziare, come si vedrà nel primo capitolo, affrontando la categoria generale dei contratti di distribuzione commerciale: un genus entro il quale rientrano varie fattispecie affini sotto molteplici profili e allo stesso tempo con peculiarità che differenziano queste molteplici tipologie contrattuali.
È ormai certa l’appartenenza del contratto di affiliazione commerciale a questa macrocategoria. Tuttavia, per molto tempo si è dubitato che esso costituisse una fattispecie negoziale autonoma e la dottrina aveva cercato di ricondurlo in via analogica ad altre tipologie contrattuali rientranti nella distribuzione. Per struttura e funzione la concessione di vendita era la tipologia ritenuta più simile, tanto che secondo alcuni non erano riscontrabili differenze. Questa tesi è stata, poi, smentita da chi ha rilevato che tra concessione di vendita e franchising intercorre un diverso grado di intensità dell’integrazione, inoltre l’affiliazione commerciale richiede il trasferimento di diritti di proprietà intellettuale e industriale che invece non sono contemplati nella concessione di vendita.
È stato a partire dal rilevamento di caratteristiche proprie del contratto di franchising che prima è stato riconosciuto come negozio atipico e solo nel 2004 è avvenuta la tipizzazione tramite l’emanazione della legge 6 maggio 2004, n. 129, denominata “Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale”.
Il secondo capitolo verterà sulla nascita del franchising e la sua espansione negli Stati Uniti. Si tratta di una premessa utile, prima di trattare della diffusione in Italia e della sua normazione, poiché è dall’esperienza statunitense che questo strumento si è diffuso in tutto il mondo.
Negli Stati Uniti esso ha avuto rapido successo come pratica commerciale grazie alla situazione economico politica in cui si trovava il Paese. Inoltre, anche la conformazione geografica del territorio è risultata particolarmente idonea, per la sua vastissima estensione, a far sviluppare un sistema nato allo scopo di diffondere in più aree possibili prodotti o servizi di un imprenditore senza che costui si debba assumere tutti i rischi dell’attività e senza che si occupi interamente e direttamente della distribuzione.
Negli Stati Uniti, così come qualche decennio dopo in Italia, il franchising è stato adottato dagli operatori del settore per far fronte ad una esigenza pratica: commercializzare le proprie merci o servizi in un maggior numero di luoghi. Esistevano già altri sistemi per attuare questa strategia, tuttavia, l’autorità antitrust era diventata più rigida in tema di intese verticali ed è stato necessario ideare un nuovo schema distributivo.
Il legislatore statunitense, vista l’importanza che in breve tempo ha assunto questa fattispecie, ha deciso di prevedere una disciplina ad hoc relativamente alle caratteristiche formali che deve rispettare il contratto e soprattutto in tema di informazioni da comunicare alla controparte in fase di trattativa. È stata presa questa decisione perché dall’origine è apparso chiaro che il negozio di franchising viene stipulato tra due parti che hanno posizione e forza diverse: per questo è necessario che “dall’alto” sia prevista una tutela maggiore per la parte debole. Gli obblighi di disclosure, infatti, sono fondamentali per il contraente svantaggiato e gli permettono di partecipare alle trattive munito di tutte le informazioni di cui ha bisogno per decidere consapevolmente se entrare o meno nella rete, informazioni che il franchisor potrebbe non voler fornire volontariamente anche per motivi di convenienza.
Il terzo capitolo, infine, tratterà dell’importazione in Europa del modello statunitense. È stata una operazione che ha avuto fortuna in moltissimi Paesi tra cui, a partire dagli anni ’70, l’Italia. Come è accaduto negli Stati Uniti anche in Italia il legislatore si è preoccupato di normare questa fattispecie solo molto tempo dopo la sua comparsa, tramite una legge sintetica (è composta da soli 9 articoli), ma non sempre chiara ed esaustiva. Presenta alcune previsioni circa i requisiti formali che il contratto deve rispettare per essere valido ed efficace, però il pregio fondamentale è che si tratta di una legge che disciplina gli obblighi informativi posti in capo all’affiliante.
È per questo motivo che è definita disclosure law, anche se presenta un aspetto peculiare rispetto a norme analoghe di altri ordinamenti: pone obblighi di informativa anche in capo al potenziale affiliato.
La ratio alla base della decisione si fonda sul riconoscimento dell’esistenza di informazioni che, se taciute dal potenziale franchisee, potrebbero far prendere una decisione poco consapevole al franchisor.
Sono anche previste sanzioni nel caso di mancato riaspetto di tali previsioni; tuttavia, rimangono perplessità circa l’effettiva implementazione di questi rimedi.
Le motivazioni che mi hanno spinto ad approfondire il tema derivano dalla apparente notorietà di questo sistema negoziale. Il franchising sembra essere conosciuto sia da operatori del settore che no. Eppure, si tratta di una fattispecie complessa, nella quale si intersecano interessi e posizioni differenti, e non priva di lati potenzialmente molto negativi, accanto a profili di enorme vantaggio. Si potrebbe dire che si tratta di una tipologia contrattuale ricca di contraddizioni interne che devono essere analizzate e bilanciate per poterla applicare nel migliore dei modi.
Il punto di partenza identificato nella categoria generale della distribuzione è necessario per inquadrare il franchising non solo dal punto di vista giuridico ma anche socioeconomico. Mentre l’analisi dello sviluppo statunitense e della relativa normativa servono a completare il quadro delle esigenze che hanno fatto nascere la necessità di adottare questo nuovo sistema, come esso sia stato disciplinato e come siano stati tutelati i soggetti (ma in particolare la parte più debole, cioè gli affiliati) coinvolti a vario titolo nell’operazione.
CAPITOLO PRIMO
I CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
1. L’ORIGINE DELLA CATEGORIA CONTRATTUALE DENOMINATA “DISTRIBUZIONE COMMERCIALE”
Il significato di “distribuzione commerciale”, espressione entrata a far parte del lessico giuridico solo da pochi decenni, può essere spiegato come il complesso di attività relative al trasferimento di beni e servizi dal produttore all’utilizzatore finale. Si tratta di una nozione economico-giuridica individuata per spiegare un fenomeno definito recente, in quanto tale pratica è emersa a partire dall’avvento della rivoluzione industriale e quindi dalla intrinsecamente connessa produzione di massa. La ragione si può ritrovare nel fatto che a fine ‘800 - inizio ‘900 era sorta la necessità di garantire sbocchi per i prodotti realizzati, data la loro quantità elevata, in breve tempo divenuta eccedente rispetto alle potenzialità di assorbimento del mercato. L’industrializzazione su larga scala, infatti, ha generato una situazione quasi senza precedente: l’offerta era molto maggiore rispetto alla domanda; pertanto, l’unica soluzione per evitare lo spreco di prodotti e perdite economiche dovute al mancato guadagno (poiché le spese sostenute per la produzione si trasformano in perdite senza le entrate ottenute dalle vendite), è stata quella di adottare un inedito metodo di vendita dei prodotti tramite l’ampliamento della propria rete distributiva.
Questo sistema implica che le imprese produttrici debbano gestire la commercializzazione dei prodotti affidandone la messa in pratica a soggetti terzi. Sono state soprattutto le imprese di grandi dimensioni ad avvalersi con successo di tale nuovo metodo: questo perché da un lato hanno maggiore interesse ad avere un numero sempre più elevato di destinatari dei loro prodotti e dall’altro hanno le risorse economiche per avviare una rete distributiva. Ciò è stato possibile tramite il proliferare di negozi giuridici finalizzati a creare una sinergia di tipo economico tra produttori e distributori. Questi ultimi, pur rimanendo autonomi sotto i profili giuridico e imprenditoriale, sottoscrivono un rapporto durevole di collaborazione commerciale che garantisce vantaggi reciproci per quanto concerne l’obiettivo comune di massimizzazione delle vendite1.
L’ampia categoria denominata “contratti di distribuzione” 2 è un’etichetta che serve a qualificare una molteplicità di tipologie negoziali. Esse si differenziano soprattutto per il diverso grado di
1 Wijckmans F., Tuytschaever F., Fioretti F., Xxxxxxxx M. R.; Gli accordi della distribuzione nel diritto della concorrenza UE – Italia, Xxxxxxx Kluwer, 2021, p.2
2 Dessi A., I contratti di distribuzione, Xxxxx, 2002, p. 3, specifica che sarebbe più corretto parlare di “contratti delle imprese di distribuzione”.
organizzazione strutturale del processo distributivo 3 , tuttavia perseguono il medesimo fine di consentire al produttore/fornitore di indirizzare, tramite l’intervento di terzi a lui legati contrattualmente, una o più fasi della filiera distributiva.
L’utilizzo di questi contratti si è diffuso in vari Paesi, però analizzando la situazione italiana si può innanzitutto rilevare come essi non siano stati recepiti quali categoria unitaria. Attualmente, anche grazie all’intervento della dottrina, si fanno rientrare in questo genus sia fattispecie tipizzate nel Codice civile (es. contratto di agenzia, artt. 1742-1753 cc) oppure in leggi ordinarie (il contratto di franchising, l.129/04; il contratto di subfornitura, l. 192/98), sia negozi giuridici atipici frutto di elaborazione giurisprudenziale (es. i contratti di concessione di vendita, con eventuale esclusiva).
La mancanza di una normazione unitaria comporta come conseguenza che l’ordinamento interno per diverse di queste fattispecie non abbia predisposto una disciplina ad hoc, ma preveda richiami alla disciplina generale in materia di obbligazioni, alle disposizioni in materia di compravendita e ai principi creati dalla giurisprudenza sulla scia della prassi di mercato del commercio internazionale.
La Corte di Cassazione in una sentenza del 20114 ha affermato che il contratto di distribuzione è un “contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, ma qualificabile come contratto-quadro, in forza del quale il concessionario assume l'obbligo di promuovere la rivendita di prodotti che gli vengono forniti, mediante la stipulazione, a condizioni predeterminate, di singoli contratti di acquisto ovvero l'obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale”. Orientamento che era già stato espresso in altre due sentenze della medesima Corte nel 2009 e nel 20105.
Anche se si tratta di contratti atipici sono comunque ammessi nel nostro ordinamento grazie al principio dell’autonomia economica privata ex art 1322 co 2 cc, perché la funzione del contratto è considerata meritevole di tutela dall’ordinamento: il produttore decide di avvalersi di un distributore per promuovere e aumentare le vendite senza dover sostenere egli stesso i costi di vendita e di assistenza post-vendita al cliente; il commerciante decide di diventare distributore per ottenere un margine di profitto e per avvalersi dei vantaggi connessi al marchio di cui diventa distributore. Quest’ultimo aspetto è particolarmente di favore perché il marchio generalmente sarà conosciuto e assistito da una reputazione che di per sé attira clientela. Inoltre, se si guarda al caso specifico del franchising, un indubbio vantaggio è che l’affiliato utilizza la strategia commerciale elaborata dal
3 Xxxxxxx M., Xxxx P., Xxxxxxxxxxx S., I contratti di distribuzione, in I contratti di distribuzione. Agenzia, mediazione, promozione finanziaria, concessione di vendita, franchising, Xxxxxxx X. (a cura di), Xxxxxxx, 2006, p. 52.
4 Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, Xxx. XX, 00 giugno 2011, n. 13394
5 Corte di Cassazione n.20186, 2009; Corte di Cass. n. 3990, 2010
franchisor, la quale (obbligatoriamente) è già stata testata sul mercato ed è una maggiore garanzia di successo per un franchisee, soprattutto se inesperto.
A questo punto è necessario affrontare il tema dell’interazione tra accordi di distribuzione e disciplina antitrust poiché questi contratti ontologicamente comportano la creazione di intese verticali. Si fa riferimento, con questa espressione, all’esistenza di accordi tra soggetti appartenenti a diversi livelli della filiera distributiva del medesimo prodotto la cui esistenza determina una restrizione a monte, predeterminata da alcuni degli operatori del settore, dei potenziali soggetti coinvolti in questi processi di distribuzione. Dato che la libera concorrenza e la libera iniziativa economica privata sono capisaldi della normativa interna ed anche comunitaria (artt. 101 e 102 TFUE, rispettivamente relativi al divieto di intese e al divieto di abuso di posizione dominante) sorge spontaneo chiedersi, dunque, se questi accordi siano leciti e, in caso di risposta affermativa, come essi possano integrarsi nel sistema normativo e valoriale esistente.
L’art. 101 TFUE (ex art. 81 TCE) pone tre regole: la regola del divieto (par. 1), in quanto descrive quali comportamenti sono illeciti e prevede anche una elencazione delle decisioni e delle pratiche che integrano tale illiceità; la regola della nullità (par. 2) in quanto prevede che tutti gli accordi conclusi in violazione del par. 1 sono nulli (si tratta di una nullità insanabile, imprescrittibile, con efficacia retroattiva, che opera di diritto e può essere rilevata d’ufficio dal giudice); la regola dell’esenzione (par. 3) in quanto sono previsti dei casi in cui una condotta apparentemente anticoncorrenziale è invece lecita. Le esenzioni possono essere: individuali, se rientrano nel divieto del par. 1, ma allo stesso tempo esaudiscono anche le quattro condizioni poste al par. 3, nel qual caso non è necessaria una pronuncia che qualifichi tali contratti come leciti, lo sono di diritto e automaticamente. Le esenzioni per categoria invece sono espressamente previste dalla Commissione tramite regolamenti e sono valide per intere categorie di accordi o pratiche concordate (c.d block exemption).
L’art. 102 TFUE (ex art. 82 TCE) disciplina l’incompatibilità con il mercato interno di pratiche che comportino lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese della propria posizione dominante sul mercato (di per sé lecita), se ciò risulta pregiudizievole al commercio tra Stati membri. È rilevante sottolineare che non è la posizione dominante che determina l’attuazione di una condotta anticoncorrenziale: è l’abuso di tale posizione, mediante condotte unilaterali, che comporta la commissione di un illecito.
La struttura e la ratio sono simili tra le due norme, tuttavia, le differenze principali sono due: l’art. 102 TFUE non contempla una parte analoga al par. 3 dell’art. 101 TFUE (esenzione); inoltre per integrare la condotta illecita prevista all’art. 101 è necessaria la collusione di almeno due imprese, mentre la condotta abusiva vietata dall’art. 102 TFUE è integrata dall’agire di una sola impresa.
Nel caso di specie l’antitrust non disapprova questi contratti, al contrario ne riconosce l’efficacia sotto i profili dell’efficienza e della redditività per i contraenti, e anche in relazione ai vantaggi che riguardano sia i consumatori che l’intero sistema economico produttivo6.
A questa conclusione, però, si è giunti dopo decenni in cui la Commissione dell’allora CEE guardava con molto sospetto gli accordi verticali tra produttori e distributori poiché le clausole di tali contratti spesso rendevano più difficile, o impedivano, ai consumatori di uno Stato membro di ottenere prodotti di un altro Stato. Ciò non tanto perché veniva concretamente impedito l’accesso a tali prodotti, ma indirettamente, a causa di rilevanti differenze di prezzo, ad esempio.
A titolo esemplificativo si può ricordare la decisione Grundig-Consten7 del 1964 in cui è stato rilevato che i prodotti Grundig costavano nettamente meno in Germania rispetto al prezzo in Francia e che la società produttrice tramite la forza commerciale del proprio marchio e un rigido controllo contrattuale sull’attività dei distributori riusciva a fare in modo che i consumatori francesi potessero comprare i prodotti solo nel loro Stato, di conseguenza ad un prezzo più alto rispetto a quello pagato dai consumatori tedeschi. La Commissione, controparte di Grundig-Consten, intendeva dare maggiore spazio agli importatori paralleli in modo tale da comportare un abbassamento dei prezzi anche in Francia, a beneficio dei consumatori.8
Il giureconomista X. Xxxxxxxxx nella sua esperienza oltreoceano ha importato, oltre allo studio dell’analisi economica del diritto, anche la visione liberista statunitense del mercato che si regola da sé. Partendo da queste premesse è facile intuire quale fosse la sua opinione circa le intese verticali: innanzitutto Pardolesi, prendendo le mosse proprio dal caso Grundig-Consten, distingueva concettualmente la concorrenza intra-brand da quella inter-brand. La sua tesi poggiava sull’assunto che gli accordi verticali di distribuzione contenenti clausole restrittive della concorrenza che impedivano, quindi, ai distributori del medesimo prodotto di competere tra loro, lungi dall’essere dannosi potevano essere, al contrario, un fattore di accelerazione per la diffusione di nuovi prodotti. La spiegazione a questa teoria che può sembrare scorretta non solo sul piano teorico, ma anche su quello pratico, è data dalla necessità che l’impresa a monte della catena distributiva non si trovi in una posizione di monopolio: se, infatti, esistono anche altre imprese concorrenti poco importano le intese verticali concluse da una di queste perché ci sono comunque altri soggetti che immettono nel mercato prodotti analoghi (quindi in concorrenza) di marche diverse comportando inevitabilmente l’abbassamento dei prezzi e garantendo, così, la protezione del consumatore.
6 Imbrenda M., I contratti di distribuzione, in I contratti della concorrenza, Catricalà A., Xxxxxxxxx X. (a cura di), Xxxx Xxxxxxxxx, 2011, p. 689.
7 Fabbricante tedesco di prodotti elettronici concedeva a Consten il diritto di distribuire in esclusiva i propri prodotti in Francia, usando il proprio marchio registrato GINT.
8 Xxxxxx D., Distribuzione (commerciale) e diritto: variazioni su tema, in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxx 529, 2018
Prima che nel quadro normativo dell’UE si arrivasse all’assetto attuale in tema di intese verticali c’è stato un lungo iter che nel 1988, tramite il regolamento n. 4087, ha visto una prima apertura in questo senso solo in relazione al contratto di franchising, scelto come forma privilegiata di contratto distributivo, il quale è stato permesso nonostante la sua potenzialità di isolare i mercati dei vari Paesi. Attualmente la situazione comunitaria è molto cambiata rispetto agli anni ’70, infatti le clausole restrittive sono considerate in gran parte legittime, pur rimanendo alcuni limiti all’autonomia delle parti soprattutto nei casi in cui una di queste abbia ampie fette di mercato. L’art. 101 TFUE, infatti, che prevede i divieti di intese, al par. 3 presenta un elenco non indifferente di deroghe al divieto.
1.1 Caratteristiche e clausole comuni nei contratti appartenenti al genus della distribuzione
È stato già anticipato che affinché i contratti della distribuzione possano essere accomunati sotto a questo cappello definitorio si devono considerare, accanto alle caratteristiche peculiari di ciascuno, gli elementi che invece condividono con gli altri negozi appartenenti allo stesso genus.
Parte della dottrina ha tentato di ricondurli ad una categoria unitaria tramite l’individuazione di tratti comuni9, nonostante per altra parte della stessa fossero più importanti le differenze tra le diverse species contrattuali, le quali non permetterebbero una reductio ad unitatem.10
È da ritenere più calzante, però, il primo orientamento, in base al quale possono essere rinvenute come caratteristiche comuni:
• L’agire dell’intermediario in nome e per conto proprio. Ciò coincide con quanto detto sull’autonomia giuridica dei soggetti coinvolti a vario titolo nel rapporto.
• L’obbligo di promuovere la vendita dei prodotti. È una clausola inserita in tutti i contratti del genus poiché l’interesse del produttore non è limitato alla vendita e al vantaggio nel breve periodo, ma anche ad ampliare la clientela e a fidelizzarla tramite operazioni pubblicitarie e di marketing.
• L’incompletezza del contratto, in quanto una parte detiene una posizione di superiorità (economica e di potere) rispetto all’altra e quest’ultima dovrà adattarsi a scelte (ad esempio in termini di clausole inserite) della controparte anche se non vantaggiose per sé. Si parla, infatti, di asimmetrie tra le parti, che possono anche sfociare in asimmetrie informative, con ciò intendendosi omissioni di informazioni dalla parte forte a quella debole. Quest’ultima, di conseguenza, rimanendone all’oscuro conclude un contratto che la impegna a livello temporale ed economico senza poter valutare tutti gli aspetti rilevanti. Proprio al fine di stabilire degli obblighi di informativa precontrattuale, sono state emanante delle norme di
9 Pardolesi R., 1988, tra gli altri
10 Santini, 1988
disclosure (l’esempio più calzante è la l. 129/04 sull’affiliazione commerciale che per questa sua caratteristica è conosciuta come disclosure law). Tali obblighi generalmente sorgono in capo alla parte forte in quanto è quella soggetta ad attuare tali comportamenti scorretti, ma possono applicarsi anche ad entrambe le parti.
• La continuità e stabilità nel tempo del rapporto. Data la ratio alla base della decisione di stipulare uno dei contratti della distribuzione commerciale è naturale che essi non siano istantanei (come i contratti stipulati con i consumatori), ma siano di lunga durata. Al termine del contratto è anche frequente che vengano prorogati o stipulati nuovamente tra le medesime parti alla luce del rapporto che si è instaurato, della fiducia e dei vantaggi reciproci ottenuti (si parla anche di relational contracts, tuttavia la nozione è distinta da quella di contratto di durata e non è automatico che un contratto di durata sia anche relazionale). Nel Codice civile italiano si parla di “contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita” (art. 1467 c.c.) ma tale fattispecie non va confusa con i cd long term contracts. Si parla impropriamente di contratti durata, tuttavia il Codice collega tale durata al fatto storico costitutivo dello stesso (all’atto in sé), mentre la durata che interessa i contratti di distribuzione fa riferimento al rapporto contrattuale quale regolamento di interessi.11 La durata in questo senso intesa non riguarda (o non riguarda solo) quanto tempo concretamente serve per adempiere alla prestazione oggetto del contratto, ma come il trascorrere del tempo (necessario ad adempiere fisiologicamente) influisce sul rapporto contrattuale sotto i profili delle esigenze e necessità delle parti, dei cambiamenti nei rapporti di forza, dei possibili mutamenti circa la natura o la rilevanza della prestazione per una o per entrambe le parti.12
• La tendenziale dipendenza economica del distributore13. Può sembrare un controsenso rispetto al punto precedentemente citato che invece afferma l’autonomia delle parti. In realtà non c’è nessuna contraddizione in termini poiché l’indipendenza dei contraenti dal punto di vista giuridico non coincide con l’indipendenza economica. Ciò in quanto nonostante il distributore non sia un lavoratore subordinato del produttore, il primo è inevitabilmente in una posizione di inferiorità rispetto al secondo. È da tenere presente che la dipendenza di per sé non è illecita, bensì la si può qualificare come fisiologica in un rapporto in cui una parte ha un potere maggiore e delle risorse economiche e di conoscenze superiori date dall’esperienza sul mercato. La dipendenza può essere determinata da investimenti specifici che il distributore
11 Xxxxxxxxxx C; Reti contrattuali, Relational Contracts e tutela dell’affidamento, Osservatorio del diritto civile e commerciale (ISSN 228-2628); fascicolo 1, gennaio 2020
12 Xxxxxxxxx X., Xxxxxxx L.; I contratti commerciali di durata; 2016; Ed. I; UTET Giuridica; p.4
13 Xxxxxxx X. (a cura di); I contratti di distribuzione; Agenzia, mediazione, promozione finanziaria, concessione di vendita, franchising; Milano; Xxxxxxx, 2006
ha dovuto compiere per entrare nella rete distributiva e dalla frequente (se non a sua volta fisiologica) incompletezza del testo contrattuale che se per certi aspetti è inevitabile, per altri è determinata proprio dall’asimmetria tra le parti contraenti. Questa situazione può, però, sfociare nell’abuso di dipendenza economica che invece è un illecito del mercato (sanzionato ex art. 102 TFUE) poiché la parte forte (produttore) imbriglia la parte debole (distributore) in una situazione di cd hold up post contrattuale e conseguente lock in che lo vincola al rapporto contrattuale e allo stesso tempo lo lascia in balia delle scelte della controparte anche in relazione alla prosecuzione e alle modalità di continuazione del rapporto.
Ulteriore elemento comune che dovrebbe venire subito alla mente è la cd causa distributiva; tuttavia, questa particolare ratio giustificativa dei contratti di distribuzione è particolarmente ostica da individuare non solo in concreto, ma anche sotto il profilo teorico-dottrinale. È subito bene precisare che il Codice civile italiano, già smilzo circa le norme sulla causa quale elemento essenziale del contratto, non menziona mai la causa distributiva.
Premessa necessaria è cosa intenda il diritto italiano con causa del contratto: il Codice civile se ne occupa brevemente agli artt. 1343-1345 affrontando i problemi della illiceità o violazione di legge (artt. 1343 e 1344) tenendo, invece, distinta l’illiceità dei motivi (art 1345). C’è quindi una qualificazione in negativo di cosa sia la causa, ma non una statuizione positiva del suo significato. Sicuramente i contribuiti della dottrina sono stati fondamentali per comprenderne l’accezione; tuttavia, è da tenere presente che la causa come elemento (essenziale ex art. 1325 n. 2 c.c.) del contratto è presente nel nostro ordinamento in via eccezionale rispetto ad altri sistemi giuridici anche europei (quindi affini), pertanto non è possibile trovare affinità o spunti teorici in altri ordinamenti. La definizione di causa a cui si è giunti è quella di funzione economico-sociale, con tale intendendosi l’assetto di interessi che il contratto (da considerarsi nel suo complesso e non nella prospettiva delle singole prestazioni che ne formano l’oggetto) mira a realizzare14. È possibile trovare conferma implicita a questa elaborazione tramite l’art. 1322 c.c. il quale, sulla base dell’autonomia privata, consente alle parti di concludere contratti che esulano da quelli tipizzati (cd. contratti atipici) dalla legge “purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Questo implica che l’autorizzazione a concludere contratti atipici cade sull’assetto di interessi che il contratto stesso mira a realizzare, i quali non devono essere, in sostanza, illeciti o in frode di legge. Tali interessi meritevoli di tutela sono giuridicamente definiti la causa lecita del contratto.
14 Xxxxx X., Xxxxxxx V., Xxxxxx A., Lineamenti di diritto privato, CEDAM, XIX ed., 2022
Secondo altra autorevole dottrina 15 questa concezione astratta e dirigistica (poiché la causa è approvata dall’ordinamento solo se ha una funzione di utilità sociale) della causa non è corretta. Xxxxx, infatti, ritiene che si debba attribuire alla causa una connotazione concreta e attribuisce un significato diverso all’espressione “interessi meritevoli di tutela”. Partendo dalla concretezza della causa, egli intende che essa debba essere la ragione che specificamente giustifica il contratto in esame (e non una ragione che astrattamente qualifica come lecito ogni contratto che appartiene alla fattispecie di quello in esame). La sua idea di meritevolezza degli interessi, poi, è più ampia di quella precedentemente riportata in quanto egli la qualifica come “la funzione o il senso che le parti gli assegnano nelle loro scelte di autonomia privata”; pertanto gli interessi meritevoli non sono solo quelli che realizzano una utilità sociale, ma anche quelli che pur non realizzandola non sono dannosi e quindi illeciti. È sufficiente che un contratto sia socialmente indifferente perché la sua causa sia potenzialmente (in quanto deve superare il vaglio della concretezza) lecita.
Fatta questa premessa necessaria è chiaro che della causa distributiva non c’è menzione nel Codice civile; quindi, se consideriamo anche che la causa in sé è un elemento peculiare previsto dall’ordinamento italiano e non in altri, l’assenza di una sua positivizzazione ha complicato gli sforzi della dottrina per qualificarla.
Alla luce degli sforzi dottrinali sopra riportati, però, si può ricavare che la causa distributiva, quale ratio dei contratti di distribuzione, consiste nell’obiettivo di far pervenire a quanti più consumatori finali possibili i beni realizzati da un produttore anche grazie all’intervento di soggetti terzi legati a costui da accordi di varia tipologia.
Oltre a caratteristiche strutturali comuni nei contratti di distribuzione sono rinvenibili anche clausole tipo, inserite su concorde volontà delle parti. Le clausole sostanzialmente presenti in tutti i contratti del genus sono poche, ma di fondamentale importanza.
Sicuramente quella che più comunemente viene inserita nei contratti della distribuzione è la clausola di esclusiva. Si tratta di una clausola che fa sorgere una obbligazione negativa in quanto pone l’obbligo ad una, o ad entrambe le parti, di non stipulare contratti con terzi che abbiano ad oggetto determinati beni o servizi. Con essa inevitabilmente si limita l’autonomia negoziale della parte obbligata e al contempo si causa una restrizione (verticale) della concorrenza, la quale può esplicarsi in una duplice direzione: può comportare una riduzione dell’offerta (se il fornitore si impegna a cedere il bene solo ad un acquirente, in esclusiva, quindi); oppure una riduzione della domanda (se è l’acquirente che si impegna ad acquistare da un solo fornitore). Si parla di restrizione verticale della
15 Roppo V.; Il contratto, trattato di diritto privato a cura di Xxxxxx X., Xxxxx X.; Xxxxxxx Editore; Milano; II ed.; 2011
concorrenza perché i soggetti parte del contratto in cui è stata inserita svolgono l’attività a livelli diversi della filiera distributiva e pertanto non si trovano in concorrenza diretta tra loro (come sarebbe nel caso di una concorrenza orizzontale); tali soggetti sono infatti generalmente produttore e commerciante; grossisti e dettaglianti.
Questa clausola è espressamente prevista nel Codice civile tra le norme relative al contratto di agenzia. L’art. 1743 c.c., rubricato “diritti di esclusiva”, prevede l’obbligo da un lato che il preponente non si avvalga di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività e dall’altro che l’agente non possa assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di imprese concorrenti.
Gli artt. 1567 e 1568 c.c., invece, regolano la clausola di esclusiva nel contratto di somministrazione. Nella relazione al Codice civile è espressamente previsto che quanto stabilito sull’esclusiva proprio in relazione al contratto di somministrazione possa essere applicato in via analogica anche ad altre tipologie contrattuali, se lo richiede il rapporto economico regolato dal negozio. È la prassi, poi, a intervenire, infatti tale clausola la si ritrova sia in contratti tipici che atipici, come i contratti di franchising, nonostante non sia menzionata nella l. 129/2004 che regola questa fattispecie contrattuale. La medesima è generalmente inclusa anche nel contratto di concessione di vendita. Nella maggior parte dei casi è una clausola bilaterale, ma può anche essere prevista a favore del concedente (quindi il concessionario è obbligato a non vendere nella medesima zona prodotti concorrenti, né a produrre in proprio per la vendita), oppure a favore del concessionario (è il concedente che si obbliga a non concedere a terzi di vendere nella medesima zona i beni oggetto del contratto).16
La dottrina è divisa in riferimento alla durata dei contratti nei quali può includersi la clausola di esclusiva: parte di essa ritiene che il negozio debba prevedere una collaborazione stabile e costante, il che porterebbe ad escludere che possa essere riferita a contratti ad esecuzione istantanea ed isolata. Secondo altra parte della dottrina, al contrario, non vi sarebbe incompatibilità tra l’inserimento di questa clausola nel contratto e la natura istantanea della prestazione principale17, in quanto si ritiene che la clausola di esclusiva potrebbe essere inserita anche nel contratto di licenza di brevetto o di know-how.
Se si considera come esempio una clausola di esclusiva inserita in un contratto di mandato la conseguenza sarebbe che il soggetto si obbliga a non conferire un incarico analogo a nessun altro per un periodo di tempo stabilito senza che ciò comporti che la prestazione del mandatario si trasformi da istantanea in duratura.
16 Xxxxxxxx X., Contratti atipici, CEDAM, 2014, p.140
17 AA. VV., Esclusiva (clausola di), in Digesto comm., V, Torino, 1990, p. 266
È significativo rilevare che alla clausola di esclusiva non si applica l’art. 2596 c.c., il quale prevede che “1. Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
2. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata del quinquennio.”. Questo implica che essa non va annoverata tra i patti di non concorrenza, pertanto oltre ad essere lecita, non è nemmeno soggetta ai limiti previsti dalla norma relativamente alla forma e alla durata.
Altra clausola tipica è quella che prevede che il passaggio di proprietà dei beni avvenga solo tramite il pagamento del correspettivo. Non è, quindi, necessaria né la consegna del bene e nemmeno il consenso perché ci sia il passaggio di proprietà, il che comporta, nel nostro ordinamento, una chiara deroga al principio consensualistico.
Ulteriore deroga al medesimo principio si ha con l’inserimento della clausola cd ex workers (x xxxxxx fabbrica), relativa al trasferimento dei beni oggetto del contratto. Con l’inserimento di questa clausola il rischio della perdita, del deperimento o dei danni subiti dai beni durante il trasporto è in capo al venditore e il trasferimento in capo al distributore avverrà solo al momento della consegna della merce.
Le ragioni per le quali non solo il principio consensualistico è derogabile, ma è concretamente derogato con l’inserimento di una o di entrambe queste clausole sono di due ordini di motivi. Da un lato si tratta di ragioni di diritto comparato perché in altri ordinamenti, come ad esempio quello tedesco che presenta molte similitudini con quello italiano, non c’è questo principio: il trasferimento della proprietà avviene con l’effettiva consegna del bene. Dall’altro lato la ragione è di carattere storico in quanto nel diritto romano non esisteva questa modalità di trasferimento della proprietà. Il motivo per cui, invece, è stata introdotto nell’ordinamento italiano è che si tratta di una derivazione dal Code Napolèon, il quale ha influenzato molto la redazione del Codice civile.
Una questione delicata inerente alla distribuzione commerciale è la protezione degli investimenti specifici effettuati dal distributore, se posta in relazione al diritto (legale) di recesso previsto per i contratti di durata. Questi due aspetti si intersecano tra loro: se il produttore decidesse di recedere dal contratto quando il distributore non ha ancora ammortizzato gli investimenti effettuati, quest’ultimo finirebbe per trovarsi in una situazione di notevole difficoltà economica, potenzialmente anche di fallimento dell’attività. La ragione è che quelli realizzati dal distributore sono investimenti specifici, termine utilizzato per indicare degli investimenti che manifestano la propria utilità in relazione alla commercializzazione di quello specifico bene e che non sono recuperabili, in tutto o in parte, per usi
alternativi. Si utilizza l’espressione sunk stock per indicare proprio che l’investimento è “affondato”, cioè ormai costituisce solo una perdita non potendo essere utilizzato per lo scopo per il quale è stato effettuato (essendoci stato il recesso del produttore) e nemmeno per nessun altro.
Uno strumento che potrebbe bilanciare la situazione è la cd recovery period rule, clausola, però, facoltativa il cui inserimento è ovviamente soggetto alla volontà dei paciscenti. Data la differenza di potere tra essi, però, si risolve ad essere un’arma spuntata poiché nella maggior parte dei casi la parte forte non avrà alcun interesse a farla inserire. Tale clausola non consente alla parte forte di recedere se non dopo un periodo minimo (come tale quello considerato idoneo a rientrare dell’investimento fatto), oppure non prima dell’ammortamento effettivo dell’investimento18. È emblematico in materia l’art. 3 comma 3, l. 129/04 il quale recita “qualora il contratto sia a tempo determinato l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni”. La legge qui citata sull’affiliazione commerciale pone come obbligo l’inserimento di questa clausola in modo tale che la parte debole sia certa di non subire una interruzione della relazione commerciale prima che l’investimento sia esaurito; il rovescio della medaglia, tuttavia, è che non è stata prevista nessuna sanzione nel caso di violazione di questa norma. È comunque un primo passo se si considera che in altre fattispecie contrattuali c’è solo la mera possibilità di inserire questa clausola e non l’obbligo.
A questo proposito, però, si innesta una nuova questione problematica e non risolta, in quanto c’è da chiedersi se una prosecuzione forzosa del rapporto (determinata dalla sussistenza del periodo minimo di durata anche se una parte dovesse voler recedere prima) possa essere una soluzione vantaggiosa anche per la parte debole stessa: è bene ricordare che i contratti appartenenti a questa categoria hanno una forte componente relazionale che si esplica da una parte nella volontarietà di stare in affari con un certo soggetto e dall’altra nella fiducia e nelle garanzie che il contratto concluso con quella controparte dovrebbe assicurare. Se la prosecuzione del rapporto, però, c’è solo in forza di un obbligo normativo, o addirittura, a seguito di un giudicato emesso perché una parte illecitamente voleva recedere dal contratto, vengono meno alcuni degli elementi fondanti la scelta di concludere quel dato contratto in origine.
1.2 I canali distributivi: duplice accezione del termine e modalità concrete che il produttore può scegliere per veicolare i beni al consumatore finale
Una delle scelte più complesse e determinanti per un produttore è quella di decidere in che modo far giungere i propri beni all’acquirente o consumatore finale. È sicuramente importante che il prodotto
18 Giovagnoli R., Giurisprudenza civile 2010, Xxxxxxx, 2010
sia appetibile, sia venduto ad un prezzo competitivo e sia pubblicizzato in maniera efficace, ma ciò non è sufficiente. È anche necessario che venga scelta una modalità di vendita che sia la più consona e quella maggiormente conveniente per i consumatori, i quali costituiscono il bacino di soggetti per i quali quel prodotto è pensato. Si tratta di una questione complessa, complicata dal fatto che i soggetti coinvolti sono molteplici; infatti, non si tratta più solo del produttore ma anche di coloro ai quali, tramite una varietà di rapporti contrattuali, egli affida la distribuzione perdendo al contempo (almeno in parte) il controllo sulle modalità effettive di distribuzione. La categoria dei distributori comprende grossisti, dettaglianti, franchisees e agenti. Xxxxxxxx eterogenei legati tramite differenti fattispecie contrattuali al produttore che verranno analizzate nel dettaglio nelle pagine seguenti.
Il canale di distribuzione, quindi, è il percorso che effettua un prodotto (o servizio) dal produttore al consumatore finale. Con esso si possono intendere sia il trasporto del bene (il suo spostamento fisico); sia il passaggio di proprietà; sia i distributori che acquistano il titolo di proprietà e poi lo trasferiscono nuovamente vendendo a loro volta il prodotto a terzi. Quest’ultima è l’accezione più completa (in quanto generalmente comprende anche il movimento fisico del bene) che interessa l’ambito della distribuzione commerciale.
Pertanto, per canale di distribuzione si deve intendere da un lato la catena di soggetti che hanno la proprietà o il possesso del bene nell’iter che quest’ultimo compie dal produttore al consumatore finale; dall’altro le funzioni svolte da questi soggetti per permettere al prodotto di giungere al consumatore, quali il trasporto, la gestione delle scorte e la promozione del bene.19
Le modalità con cui può essere effettuata la distribuzione commerciale sono due: la vendita diretta
e la vendita indiretta.
I produttori che decidono di adottare il primo metodo hanno la possibilità di gestire autonomamente la fase della distribuzione stessa, vendendo direttamente i prodotti all’utilizzatore finale. Si tratta di una scelta effettuata di frequente per quei prodotti che per natura richiedono la sussistenza di un rapporto diretto con il consumatore finale (es macchinari industriali). 20
Si parla, in questo caso, di integrazione di tipo verticale perché il produttore può gestire e controllare direttamente tutte le fasi della messa in commercio del bene pur non occupandosene direttamente. Egli si affida a soggetti da lui stesso selezionati21 (si tratta dei lavoratori dipendenti) che, pertanto, devono rispettare le scelte decisionali e di controllo sull’attività del datore di lavoro che è anche il produttore.
19 Xxxxxxxxxx X., Il marketing; CEDAM, IX ed. 2021; p. 373-375
20 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Contratti di distribuzione, II Ed., IPSOA, 2022
21 Xxxxxxx X. (a cura di), I contratti di distribuzione. Op. cit.
Avon è strato il primo marchio ad aver introdotto la modalità di vendita “porta a porta” dei cosmetici ottenendo risultati stupefacenti.22 Nonostante l’enorme successo avuto in determinati settori, oppure per determinati brand, non si è trattato della modalità scelta più di frequente; tuttavia, gli aderenti a questa strategia distributiva sono aumentati recentemente tramite il sistema delle vendite online.23
Se, invece, il produttore opta per la vendita indiretta vi sarà un inserimento di terzi legati al produttore da un rapporto contrattuale. Il produttore rinuncia ad avere una propria organizzazione distributiva e, in sostituzione, si avvale di una serie di operatori commerciali che sono giuridicamente autonomi. Anche questa è una sorta di integrazione verticale che si basa non sul rapporto di lavoro subordinato, ma su altre tipologie contrattuali che si fanno rientrare nel genus della distribuzione.24 Si tratta della modalità più diffusa.
Questo canale può essere caratterizzato dalla scelta da parte del produttore di avvalersi di uno solo, di due o anche di tre intermediari.
Quando l’intermediario è uno solo in genere si tratta di un dettagliante che dopo aver acquistato i beni dal produttore li rivende al consumatore finale. È stato lo sviluppo del grande dettaglio che ha reso preferibile la scelta di questo intermediario invece che affidarsi ai grossisti. Questo perché nei punti vendita il consumatore può scegliere tra molteplici offerte e il produttore, tramite le richieste di restock, ottiene un feedback su quali prodotti siano maggiormente richiesti: in questo modo è in grado di conoscere le esigenze di un determinato target. È frequente, infatti, che sulla base dello storico delle vendite vengano fatte delle analisi di mercato che riportano una serie di dati: quale prodotto è stato il più venduto, quale categoria merceologica è stata la più acquistata (se si pensa a negozi di abbigliamento per il produttore è importante sapere se sono preferiti gli abiti oppure la maglieria o i pantaloni), e ancora, che tipo di clientela acquista i prodotti (fascia di età e genere).
Se ci sono due intermediari si tratterà del grossista o dell’agente e del dettagliante. Quando le aree geografiche sono molto vaste, oppure una determinata categoria merceologica è fornita da molteplici produttori il grossista o l’agente sono figure fondamentali anche per il dettagliante stesso che può rifornirsi presso il medesimo soggetto di beni, anche in concorrenza tra loro, commercializzati da produttori diversi e così può variare il proprio stock.
Quando è coinvolto anche un terzo soggetto lo schema sarà: produttore, agente, grossista e dettagliante; oppure produttore, grossista, agente e dettagliante. È una scelta adottata spesso per vendere i propri prodotti fuori dai confini nazionali, infatti, appoggiarsi ad un agente locale può essere un’ottima strategia per entrare in contatto con grossisti o dettaglianti del posto. Lo svantaggio
22 Pellicelli G., Il marketing, op. cit.
23 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Contratti di distribuzione, op. cit.
24 Xxxxxxx X. (a cura di), I contratti di distribuzione, op. cit.
è che il produttore deve affidarsi a soggetti che inevitabilmente non conosce bene a livello professionale e con cui non ha ancora instaurato un rapporto fiduciario. Altra ipotesi si ha quando un bene è stato da poco introdotto nel mercato e il produttore ritiene che l’opera di un agente possa riuscire meglio a convincere un grossista o un dettagliante ad acquistare.
Certamente è possibile che un produttore decida di servirsi di più canali di distribuzione, diversificandoli o in base alla zona territoriale, oppure in relazione a diversi prodotti che intende distribuire. L’esempio dei prodotti cosmetici è calzante perché vengono venduti sia tramite la cd grande distribuzione (es profumerie), ma anche al dettaglio (es i parrucchieri oltre ad usare i prodotti li possono anche vendere ai clienti).
I canali di distribuzione possono essere lunghi o corti e la differenza è determinata dal numero di intermediari coinvolti. Servirsi di canali lunghi (molti intermediari) indica un elevato grado di specializzazione25 perché ciascuna fase è affidata ad un soggetto ad hoc.
La forma più tradizionale e utilizzata di vendita indiretta è la vendita attraverso grossisti. Non si tratta di un vero e proprio contratto di distribuzione poiché il grossista è un mero acquirente che decide da sé le modalità di rivendita del prodotto. I grossisti riforniscono i dettaglianti.
È anche possibile rinvenire una terza tipologia di distribuzione, a metà strada tra la distribuzione diretta e quella indiretta, definita distribuzione coordinata. Xxxxxxxxx parla di “concepire tutta una sfumata gamma di pattuizioni che permettono, in qualche misura, di coordinare la fase produttiva con quella distributiva, senza per questo elidere l'autonomia dei partners; si arriva cioè a definire, in negativo un'area contrassegnata dall'integrazione verticale convenzionale”26. Con ciò egli si riferiva alla creazione di una integrazione tramite specifici strumenti negoziali che permettesse al produttore di ingerire nell’attività del distributore coordinato tramite una serie di contratti tra cui scegliere, ma sempre rimanendo essi soggetti indipendenti e distinti.
Il cd outsourcing consiste, infatti, nella segmentazione del processo produttivo, il quale viene perseguito tramite la cooperazione fra imprese ottenuta tramite contratti di scambio o di collaborazione che non pregiudicano l’autonomia dei soggetti. Gli strumenti per ottenere queste forme di coordinamento sono molteplici (ad esempio concedere l’utilizzo del marchio o la concessione del know-how) e si ritrovano in contratti come la concessione di vendita o il franchising. Tramite la distribuzione coordinata il produttore ha il vantaggio di costruire uno sbocco fisso per la produzione e una programmazione efficiente delle vendite e delle attività di marketing grazie alla
25 Pellicelli G., Il marketing, op. cit.
26 Pardolesi R., I contratti di distribuzione; Jovene; 1979
stabilità del rapporto.27 Sono, dunque, le clausole caratterizzanti il contratto ad essere determinanti in riferimento all’equilibrio sinallagmatico del contratto stesso.
Nella concessione di vendita, ad esempio, il concessionario ha, sì, degli oneri di commercializzazione, ma a fronte dell’ottenimento di una posizione privilegiata nella rete distributiva che consiste in una parte di potere di mercato del concedente.28 Anche la Corte di Cassazione ha confermato questo orientamento, infatti ha affermato che “la parziale dismissione della propria autonomia imprenditoriale da parte del concessionario, viene operata in corrispettivo di una posizione di privilegio nel mercato accordatagli dal concedente, che consiste tra l’altro nella licenza d’uso del marchio della stessa concedente, marchio che solitamente è caratterizzato da particolare prestigio sociale”.29
È possibile, così, chiudere il ragionamento poiché è stata proprio l’emersione di questi profili a dare il là alla dottrina per la creazione della categoria dei contratti di distribuzione. Si tratta infatti di rapporti commerciali con i quali intermediari professionisti collaborano in forma stabile e continuativa con il produttore, fungendo da ponte con il consumatore finale. Tuttavia, la dottrina stessa ha avuto difficoltà ad inquadrare giuridicamente questi contratti, alcuni dei quali sono tutt’oggi atipici nell’ordinamento italiano, e ha elaborato una distinzione tra i contratti di distribuzione e i contratti in materia di distribuzione.
I primi rientrano nella definizione elaborata da Pardolesi “Sono quei contratti quadro in forza dei quali un operatore economico assume, verso contropartita consistente nelle opportunità di guadagno che si legano alla commercializzazione delle merci contrattuali, l’obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti forniti dalla controparte; obbligo il cui adempimento postula la stipulazione di singoli contratti per l’acquisto, a condizioni predeterminate, dei prodotti da rivendere”30.
I secondi hanno sempre ad oggetto, ovviamente, la commercializzazione di prodotti, ma non comportano integrazione tra i soggetti che si assumono i relativi rischi. A questa categoria appartengono il contratto di agenzia, la commissione, la mediazione e il franchising.
Nonostante questa ulteriore suddivisione non è possibile considerare errato far rientrare le fattispecie negoziali attinenti alla distribuzione sotto il cappello generico dei contratti di distribuzione e troviamo conferma di ciò anche in una pronuncia del Tribunale di Catania “Il contratto di distribuzione non sarebbe una nuova figura contrattuale ma piuttosto un genus sotto il quale andrebbero riunite le
27 Xxxxxxx X. (a cura di), I contratti di distribuzione, op. cit.
28 Pardolesi R., I contratti di distribuzione, op. cit.
29 Corte di Cassazione, n.1469/2003
30 Pardolesi R, I contratti di distribuzione, op. cit.
fattispecie negoziali attinenti in qualche modo al processo di distribuzione commerciale, cioè ai complessi meccanismi che colmano la distanza tra produzione e consumo”.31
2. I PRINCIPALI MODELLI CONTRATTUALI CHE RIENTRANO NELLA DISTRIBUZIONE. BREVE PANORAMICA DELLO SVILUPPO NEL TEMPO DEI CONTRATTI DISTRIBUTIVI
Ciò che ha portato alla individuazione della categoria dei contratti di distribuzione è il contratto di agenzia commerciale, affermatosi nell’800. Tramite esso si crea un rapporto stabile, e in genere esclusivo, con un soggetto che deve attuare, in qualità di intermediario, le politiche commerciali del produttore tramite l’attività di promozione dei prodotti.
In origine l’operatore si trovava legato al produttore da un rapporto di fedeltà (che si concretizzava con l’obbligo di non concorrenza, ad esempio) e doveva promuovere la vendita su un certo territorio. Successivamente questo ruolo è stato esteso a soggetti operanti come acquirenti-rivenditori e a inizio ‘900 si è affermato il contratto di vendita con esclusiva che ora conosciamo come concessione di vendita.
È, però, nella seconda parte del secolo scorso che si sono sviluppate ulteriori forme contrattuali tali da permettere la creazione di un rapporto diretto tra produttore e dettagliante. Si tratta dei contratti di distribuzione selettiva; dei contratti di esclusiva di acquisto e dei contratti di franchising.
Le tre categorie creano un rapporto diretto con i punti vendita al dettaglio per garantire che i prodotti vengano proposti al pubblico sulla scia di specifiche modalità (si parla, infatti di cd distribuzione selettiva) e/o per garantire uno sbocco più sicuro ai prodotti tramite l’esclusiva d’acquisto. In generale è possibile affermare che la caratteristica comune di queste tipologie contrattuali che rientrano nell’etichetta dei contratti di distribuzione è la funzione di permettere al produttore di indirizzare e gestire una o più fasi della distribuzione tramite l’azione di terzi legati a lui contrattualmente.
È interessante precisare che l’espressione “contratti della distribuzione” è nata nella prassi e non ha uno specifico significato giuridico. Questo dato che testimonia la nascita di forme contrattuali dovuta dalla necessità di avere un tale strumento per regolare e ottimizzare la vendita di prodotti appare effettivamente in linea con la caratteristica dell’atipicità (della maggior parte) dei contratti di distribuzione, non disciplinati nemmeno come categoria unitaria, i quali, tuttavia, con il passare dei decenni hanno ottenuto sempre più importanza economica.
Parlando di contrati di distribuzione da un lato e concessione di vendita dall’altro si incorre nel pericolo di fraintendere e confondere il significato di tali espressioni. La differenza, però, è
31 Tribunale di Catania, 29/02/88, NGCC,1989, I,14
particolarmente significativa perché la si ritrova sia a livello ontologico che sostanziale: i primi costituiscono una categoria generale di contratti; mentre la concessione di vendita è una tipologia contrattuale con un rivenditore esclusivo e pertanto è coperta dal cappello dei contratti di distribuzione. Talvolta si incorre in questo errore terminologico, che però porta delle conseguenze concrete, perché in inglese ci si riferisce alla concessione di vendita con l’espressione “distributor/distributorship agreement”. L’assonanza terminologica, insieme ad una traduzione letterale e poco attenta al significato proprio del linguaggio giuridico, possono, quindi, contribuire ad una confusione semantica che si riversa anche a livello concettuale.
Attualmente vengono riconosciuti come facenti parte del genus della distribuzione i contratti di agenzia, la concessione di vendita, la somministrazione e il franchising.32
Per procedere in modo ordinato con questa breve disamina delle caratteristiche principali e specifiche di ciascuna di queste tipologie (dopo averne analizzati i tratti comuni nel precedente capitolo) è bene seguire l’ordine cronologico di comparsa nella prassi e alla luce di ciò iniziare la trattazione con il contratto di agenzia commerciale.
I caratteri originari sono stati brevemente delineati alla pagina precedente e per moltissimo tempo la disciplina sviluppatasi dalla prassi commerciale è rimasta invariata e tipizzata (sempre senza subire particolari modifiche) solo molto più tardi, con il Codice civile del 1942 (artt. 1742-1753). È quando l’agenzia diviene oggetto di un programma di coordinamento dalle legislazioni nazionali degli Stati membri, concernenti gli agenti commerciali indipendenti33, che la fattispecie subisce delle variazioni.
Il d. lgs. n. 65/99 ha dato definitiva attuazione alla direttiva34 attribuendo un assetto organico alle norme in materia. Lo scopo della direttiva è stato esposto nel considerando: armonizzare la disciplina del contratto di agenzia, poiché in precedenza le norme erano molto diverse nei singoli ordinamenti; instaurare condizioni di concorrenza omogenee; semplificare le transazioni commerciali e garantire pari tutela all’agente nei rapporti con il preponente.35
32 Baldi R., il contratto di agenzia. La concessione di vendita. Il franchising, Xxxxxxx, 2023, XI ed.; Xxxxxxxxxx G, I contratti della distribuzione commerciale, UTET Giuridica, 2010
33 In particolare, a seguito della Direttiva 86/653/CEE del 18.12.1986, “Direttiva del Consiglio relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti”, pubblicata nella GCE del 31.12.1986, n. 382, ed entrata in vigore il 23.12.1986.
34Preceduto dal d. lg. 303/91 Attuazione della direttiva 86/653/CEE relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti che è stato seguito dal d. lg. n. 65/99 detto Adeguamento della disciplina relativa agli agenti commerciali indipendenti, in ulteriore attuazione della direttiva 86/653/CEE, per evitare il procedimento aperto dalla Commissione CE per incompleto recepimento della direttiva.
35 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit., p. 57-60; Xxxxxxxxxx F., Xxxxxxxxx G., Il contratto di agenzia commerciale, CEDAM, 2003, p. 21
La disciplina codicistica è stata, poi, arricchita dall’aggiunta di altre disposizioni tramite le cd “legge comunitaria 1999”36 e “legge comunitaria 2000”37.
Ma come viene qualificato questo contratto nel Codice civile? L’art 1742 cc prevede che tramite il contratto di agenzia una parte assuma stabilmente l’incarico di promuovere per conto dell’altra e a fronte di una retribuzione la conclusione di contratti in una determinata zona territoriale prestabilita. Tuttavia, l’attività promozionale non è l’unico elemento distintivo ed essenziale di questa tipologia contrattuale, che viene integrata da ulteriori elementi: la stabilità dell’incarico, l’onerosità, la determinazione della zona geografica a cui si aggiunge l’immancabile requisito dell’autonomia organizzativa 38 dell’agente. Tutti questi caratteri sono fondamentali per la qualificazione del contratto e la mancanza anche solo di uno di essi potrebbe portare non tanto alla nullità del contratto ma alla sua qualificazione sotto un’altra fattispecie negoziale.39
La durata del rapporto, qui, viene declinata nel senso che l’agente nello svolgimento della sua attività autonoma ed organizzata ottiene un incarico stabile (elemento tipico che permette di identificare l’agente come tale e il negozio come contratto di agenzia e non confonderlo con figure analoghe che non richiedono questo requisito), volto alla conclusione non di un singolo incarico (come nel mandato) ma di una pluralità di affari, tutti quelli utili e funzionali per il preponente. Si va ad integrare, così, una collaborazione professionale.
Si può rinvenire facilmente l’obiettivo dell’imprenditore-produttore nello scegliere di stipulare questi negozi per incentivare l’acquisto dei propri beni: creare una rete di agenti di commercio più o meno capillare (a seconda del numero di agenti) nel territorio di uno o più Stati che promuovano i beni prodotti dall’imprenditore permette di raggiungere un numero molto elevato di (potenziali) acquirenti senza dover sostenere i costi legati all’apertura di negozi fisici, del relativo personale e anche senza la necessità di svolgere attività pubblicitaria tramite giornali o spot televisivi a loro volta molto dispendiosi. È l’agente che si reca “in casa” di rivenditori e distributori e propone loro di acquistare determinati prodotti elencandone pregi e caratteristiche.
È bene proseguire, ora, con il contratto di concessione di vendita, in precedenza chiamato contratto di vendita con esclusiva quando, nel ‘900, ha iniziato ad essere adoperato.
36 L. 21/12/1999 n. 526: l’art 1746 cc è stato integrato con il co 3, il quale ha posto il divieto quasi assoluto della clausola dello star del credere.
37 L. 29/12/2000 n. 422 ha modificato l’art 1751-bis cc ed è stata introdotta la non onerosità del patto di non concorrenza post contrattuale.
38 Xxxxxxxx X., Xxxxxxxx D. e Xxxxxxx G., Il contratto di agenzia, la mediazione, II ed., Torino, 1993, p. 134, individua nell’attività di promozione contrattuale il fondamento per identificare l’agente di commercio e quindi il contratto di agenzia.
39 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
È peculiare il fatto che nonostante questo contratto abbia finito per costituire il paradigma dei contratti della distribuzione commerciale il nostro ordinamento non abbia previsto una regolamentazione positiva ad hoc. Tuttavia, proprio perché è risalente nel tempo, tale tipologia ha ormai trovato una disciplina consolidata quantomeno nella prassi: si tratta di un contratto tramite il quale l’impresa produttrice (concedente), assume l’impegno di vendere ad altre imprese (distributrici o concessionarie), i propri prodotti. Queste ultime, di contro, si obbligano ad acquistare tali beni allo scopo di promuoverne la commercializzazione ai consumatori in nome e per conto proprio. Si viene così a creare una complessa e articolata funzione di scambio e collaborazione idonea a garantire le esigenze di entrambe le parti, cosa che le figure contrattuali tipizzate non sono in grado di fare in concreto. Se in astratto, infatti, l’impresa produttrice può ottenere un posto nel mercato, la normativa esistente non consente di rimanere indenne dai rischi e dai costi intrinseci al processo distributivo, rendendolo così dispendioso e poco efficiente. L’elaborazione di questa fattispecie si è resa necessaria proprio per far fronte alle esigenze della decentralizzazione della distribuzione, emerse con la produzione di massa, e al bilanciamento tra gli interessi contrapposti di produttore e distributori.40 Soprattutto in passato, ormai qualche decennio fa, si era tentato di ricondurre questa tipologia contrattuale atipica a figure tipiche normate nel Codice civile. Secondo una prima ricostruzione la concessione di vendita era stata assimilata in toto al contratto di somministrazione (artt. 1559-1570) in quanto quest’ultimo è un contratto in forza del quale “una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose” (art. 1559 cc). Nonostante i contratti di durata e, nello specifico, i contratti di concessione di vendita facciano frequente riferimento a questa e ad altre norme sulla somministrazione, non è in realtà possibile equiparare queste due tipologie contrattuali. Le ragioni consistono nel fatto che innanzitutto il concessionario non si assume alcun obbligo (tantomeno preventivo) di rifornire il concessionario, lasciando però la possibilità di dare seguito o meno alle richieste di quest’ultimo tramite successive pattuizioni.
Anche l’equiparazione con il contratto di agenzia è tanto comprensibile quanto errata poiché basata esclusivamente sui comuni obblighi promozionali e di collaborazione. Queste somiglianze rimangono inevitabilmente in secondo piano se si considerano, invece, le differenze strutturali che intercorrono tra le due fattispecie: l’agente è privo di qualsiasi autonomia in quanto agisce sempre per conto (e solo eventualmente anche in nome) del preponente, inoltre l’agente, a differenza del concessionario, non acquisisce mai la proprietà dei beni da commercializzare.
40 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op cit., p. 271-273
Anche il tentativo della giurisprudenza di assimilare la concessione di vendita ad un contratto misto di mandato e compravendita è stato escluso dalla dottrina 41 perché l’attività promozionale del concessionario non può essere assimilata al compimento di atti giuridici ex art 1708 cc in quanto manca l’agire “per conto” altrui.
Questi esempi hanno messo in luce l’impossibilità di ricondurre il contratto in questione ad alcuna delle fattispecie tipiche, rendendo chiara la sua natura prettamente atipica nonostante le similitudini con altri negozi, le quali, però, non sono sufficienti a giustificare la sovrapposizione con altri contratti.42
I veri problemi di distinzione, anche concettuale, emergono quando si paragonano i contratti di concessione di vendita e di franchising (di beni o prodotti) perché hanno struttura analoga e medesima funzione. Inoltre, le due fattispecie sono accomunate dall’appartenenza alla categoria della distribuzione cd integrata essendo previsto in entrambi i casi un sistema distributivo gestito da soggetti indipendenti, giuridicamente ed economicamente, rispetto all’impresa produttrice.
Secondo alcuni autori non sarebbero proprio individuabili differenze significative. Tra questi, ad esempio, d’Xxxxxxxxxx ritiene che il motivo che impedisce la distinzione tra queste due tipologie negoziali consista nel fatto che l’accordo di base è analogo e gli ulteriori elementi che qualificano il contratto di franchising sono a loro volta rinvenibili nella concessione di vendita.43 Chi, invece, non condivide questa tesi, poggia la propria posizione sul fatto che il contratto di concessione di vendita, a differenza del franchising, non preveda l’obbligo di utilizzare i segni distintivi del produttore e nemmeno richieda il trasferimento del know-how commerciale. A ciò si deve aggiungere che nella prassi i contratti di concessione non prevedono il pagamento di fee d’ingresso per accedere alla rete distributiva.
È anche un altro il profilo non coincidente: il grado di intensità della integrazione tra le parti del contratto. Il franchising è atto a costituire quello che alcuni autori hanno definito un “sistema uniforme di vendita”44, tale per cui i clienti capiscano immediatamente qual è l’impresa produttrice.45 Pertanto, nonostante le indubbie e maggiori difficoltà, nell’enucleare le differenze tra concessione di vendita e affiliazione commerciale rispetto ad altri negozi, in conclusione è possibile affermare che
41 Pardolesi R., I contratti di distribuzione, op. cit., p.240
42 La giurisprudenza è giunta a riconoscere l’atipicità dei contratti di concessione di vendita solo alla fine degli anni ’90 del secolo scorso. Ex plurimis, Cass., 22.2.1999, n. 1469. Anche la dottrina è numerosa in materia: Villanacci G, I contratti della distribuzione commerciale, op cit.; Xxxxxxx F., Diritto commerciale, L’imprenditore, XI ed., Bologna, 2008, 192; Bortolotti F., Concessione di vendita (contratto di), op. cit., 227; Xxxxxxxxxxx A., I contratti di distribuzione, Xxxxxxx, Milano, 2003, 486 ss.; Xxxxxxxxx R., I contratti di distribuzione, op. cit., 253 ss.;
43 D’Xxxxxxxxxx X., Concessione di vendita: descrizione del fenomeno e profili sistematici, GC, 2002, II ed.
44 Xxxxxxxx X., Irrera M., Concessione di vendita, merchandising, catering, Xxxxxxx, 1993
45 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
sotto il profilo strutturale sono anche qui rilevabili caratteristiche peculiari di ciascuna fattispecie che non sono rinvenibili nell’altra.
Altro contratto rientrante nel genus dei contratti della distribuzione e che trova le sue radici addirittura nel 1727 è il contratto di somministrazione.
A voler essere precisi già nel diritto romano sarebbero rinvenibili attestazioni di questa tipologia contrattuale che sembrerebbe essersi sviluppata tramite negozi con la pubblica amministrazione finalizzati a rifornire l’esercito, a eseguire e mantenere opere pubbliche o ad assicurare il funzionamento di servizi pubblici.
In epoca più recente una legge bavarese della prima metà del XVII secolo ha normato la particolare disciplina del commercio della birra e, nello specifico, i rapporti tra i produttori e i birrai, senza individuare, però, una fattispecie contrattuale corrispondente. È stato il codice del commercio del 1865 e poi quello del 1882, sulla scia della codificazione francese (Code de commerce, 1807) e tedesca (Landrecht prussiano del 1794 che disciplinava la somministrazione con un combinato di norme attinenti ai contratti di compravendita e d’opera, da cui già emergeva il carattere periodico di questo rapporto contrattuale)46, ad includere la somministrazione tra gli atti di commercio. Dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla natura di questo contratto, propendendo talvolta per il contratto di compravendita, tal altra per quello di locazione d’opera, in considerazione della preminenza che veniva attribuita alla prestazione di dare o di fare. È stata la posizione della dottrina a prevalere individuando come oggetto del contratto la prestazione di dare.47 Questo è stato possibile considerando che l’elemento ontologico di questo contratto è la periodicità o continuità della prestazione (cd prospettiva latina). Da ciò risulta chiaro che realizzare un bisogno reiterato o continuativo sia la causa tipica della somministrazione, che quindi differenzia tale contratto dalla compravendita.48
C’è stato, dunque, uno scostamento dalla disciplina di matrice germanica, in cui il connotato identificativo è individuabile nello schema negoziale volto a soddisfare bisogni futuri e dilazionati nel tempo.49
Una parte minoritaria della dottrina, emersa prima della codificazione del ’42 e che ha lasciato strascichi anche dopo, era giunta a sostenere che quella della somministrazione fosse meramente una categoria economica che ingloba varie fattispecie contrattuali. Secondo questa elaborazione tramite tali contratti si compie l’operazione economica voluta, caratterizzata da una serie di disposizioni che
46 Mossa L., Il contratto di somministrazione, Xxxxxxx, 0000
47 Villanacci G, I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
48 Mossa L., Il contratto di somministrazione, op. cit.
49 Bocchini X., Xxxxxxx A. M., I contratti di somministrazione e di distribuzione, UTET giuridica, 2011
potrebbero costituire una normativa di riferimento per tutti i contratti a esecuzione continuata o periodica.50 Di conseguenza questi autori erano portati a ritenere che il contratto di somministrazione non fosse un’unica operazione economico-giuridica, bensì una sorta di contenitore di plurimi contratti, stipulati di volta in volta dalle medesime parti sulla base di quale prestazione avessero bisogno e di quando dovessero riceverla51. Tali contratti erano collegati tra loro mediante un contratto iniziale qualificato o come contratto preliminare oppure accordo di cornice, finalizzato in ogni caso a porre delle regole-quadro sulla base delle quali formare i contratti successivi52.
Già prima della codificazione l’idea prevalente era che un elemento qualificativo della somministrazione fosse la pluralità di prestazioni correlata allo scorrere del tempo. Infatti, viene riconosciuto che entrambe le parti hanno un interesse a reiterare le prestazioni oggetto del contratto in quanto corrispondenti ad un bisogno continuativo o periodico: il somministrante ha interesse a effettuare forniture a cadenza prestabilita perché si tratta di un affare sicuro concluso con un soggetto con cui, nel tempo, consolida un rapporto di fiducia; il somministrato ha interesse ad ottenere ad intervalli scaglionati l’approvvigionamento di quel bene. Gli elementi della molteplicità di prestazioni, la ripetuta manifestazione di interesse di entrambe le parti nella reiterazione del rapporto e il decorso del tempo sono il fil rouge degli interessi sottostanti al contratto e della sua funzione economico- giuridica che costituiscono anche la causa del contratto. È in concomitanza con il riconoscimento del tempo (durata) come elemento essenziale che si rafforza anche la concezione della somministrazione come contratto unitario.53
La disciplina è stata svincolata da altre fattispecie contrattuali e ha ottenuto autonomia nel progetto di codice di commercio54 che ha previsto il contratto di somministrazione di cose e di servizi, poi recepito nel Codice civile del 1942 anche se con una limitazione: la somministrazione fa riferimento solo alla prestazione periodica o continuativa di cose, ma non di servizi poiché questa è da ricondurre, invece, al contratto di appalto.
Venendo, ora, alla normativa attuale gli articoli di riferimento sono dal 1559 al 1570 c.c. La nozione di somministrazione è di “contratto con il quale una parte, detta somministrante, si obbliga verso il corrispettivo di un prezzo, a eseguire a favore dell’altra, detta somministrato, prestazioni periodiche o continuative di cose”. Da ciò si ricava che la ragione economica sottesa è di garantire la disponibilità costante, continuativa o periodica da parte di soggetti specializzati (in genere imprenditori), di beni (che posson essere materie prime, merci od energie).
50 Devoto L., L’obbligazione a esecuzione continuata, Padova, 1943
51 Bocchini R., Xxxxxxx A. M., I contratti di somministrazione e di distribuzione, op. cit.
52 Uno dei sostenitori di questa visione è Xxxxxxxx X., Contratti preparatori e contratti di coordinamento, Riv. dir. comm., 1940, Ed. I
53 Bocchini R., Xxxxxxx A. M., I contratti di somministrazione e di distribuzione, op. cit.
54 Asquini, 1941
L’idea emersa in passato che questo contratto potesse essere una species della compravendita si intravede ancora adesso perché effettivamente i bisogni periodici e continuati nel tempo possono essere soddisfatti mediante contratti di compravendita o di permuta. Tuttavia, è proprio la frequenza che renderebbe oneroso in termini economici e di tempo stipulare o rinnovare di volta in volta il medesimo contratto, tra le medesime parti per lo scambio, dietro corrispettivo, del medesimo bene. Xxxx, allora che si comprende meglio la differenza del contratto di somministrazione e la sua funzione ed utilità: sostituire una serie numerosa di contratti analoghi con un unico accordo che ha come caratteristica quella del suo protrarsi nel tempo tramite la manifestazione di volontà concorde delle parti per la fornitura di prestazioni continuate o periodiche55.
Con l’introduzione della disciplina nel Codice la somministrazione è stata elevata al rango di contratto autonomo con una causa propria che secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti56 è diversa da quella del contratto di compravendita e che si sostanzia nel soddisfacimento di un bisogno durevole o reiterato del somministrato.
La durata anche in questo caso non va intesa (solo) secondo la concezione espressa all’art 1467 c.c., bensì come protrarsi nel tempo di un rapporto in cui il tempo stesso assume un ruolo determinante per la prestazione (pur sempre unitaria) poiché le parti potrebbero alterare i propri interessi e necessità, pur volendo mantenere la relazione contrattuale.
Si tratta di un contratto consensuale in quanto è il consenso delle parti che permette il perfezionamento del negozio, mentre la consegna del bene è un aspetto che riguarda l’esecuzione.
È anche utile precisare che pur non essendo un contratto a soggetto qualificato (non è necessario che il somministrante abbia una determinata qualifica, nello specifico, quella di imprenditore), tuttavia viene generalmente incluso nei contratti d‘impresa perché la necessità di stipulare questa tipologia di contratti che disciplinano una pluralità di prestazioni presuppone l’esistenza di una organizzazione imprenditoriale. È in questi contesti che spesso sorge la necessità di creare rapporti continuativi nel tempo per la medesima o per prestazioni affini. Concludere un contratto che dia la possibilità di eseguirle senza stipulare di volta in volta un negozio ad hoc è un chiaro vantaggio.
Il contratto di somministrazione può essere oggetto di paragone con il contratto di agenzia, in particolare nel caso in cui il somministrante abbia anche il compito di promuovere la vendita di beni di cui ha l’esclusiva nella zona di sua spettanza (art. 1568, co. 2 c.c.). Si tratta, però, di una somiglianza solo apparente tra i due istituti. Il discrimine sta nell’acquisto della proprietà dei beni: il somministrante ne diventa proprietario al fine di rivenderli in nome e per conto proprio; l’agente ha
55 Bessone M., Istituzioni di diritto privato, Torino, 2005
56 Xxxxxxx X., La somministrazione, in Tratt. Xxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; Xxxxxxx G., Del contratto estimatorio. Della somministrazione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970. Cass., 21.7.1969, n. 2713, MGC, 1969, 1398; Cass.,
2.2.1980, n. 742, RGI, 1980, Somministrazione, n. 2.
il compito di promuovere la conclusione di contratti agendo per conto ed eventualmente (solo se ha poteri di rappresentanza) anche in nome del preponente.57
Altra figura contrattuale oggetto di comparazione con la somministrazione è la concessione di vendita. Tuttavia, quest’ultima si caratterizza per essere un contratto quadro che fa nascere un obbligo per il concessionario di concludere contratti successivi con soggetti terzi sulla base delle condizioni concordate nel contratto di distribuzione. Il fine è di completare lo schema distributivo e far pervenire il prodotto al consumatore finale. L’aspetto che ha fatto ritenere ad una giurisprudenza minoritaria58 che ci fosse affinità tra le due tipologie contrattuali è in particolare l’elemento della consegna di beni in più momenti (predeterminati oppure in relazione al fabbisogno). Dottrina e giurisprudenza maggioritaria, però, hanno ritenuto che l’atipicità del contratto di concessione di vendita e la maggiore ampiezza dell’operazione giuridica caratterizzata da elementi del tutto estranei alla somministrazione fossero fattori più rilevanti in quanto non permettono l’applicazione delle norme sulla somministrazione alla concessione di vendita59.
La tipologia di contratto che forse maggiormente si associa alla distribuzione, anche per i “non addetti ai lavori”, è il contratto di franchising (affiliazione commerciale).
Il contratto di affiliazione commerciale, entrato nel nostro ordinamento negli anni ’70, ha avuto immediata e duratura fortuna così come era stato in precedenza negli altri Paesi dove era già adottato come metodo distributivo. L’ingresso di questa tipologia contrattuale è avvenuto tramite la prassi degli operatori del settore, poiché la normazione è stata molto tardiva in Italia in quanto risalente ai primi anni 2000 (l. 129/04).
Nonostante ci sia chi riconduce il primo caso di franchising al 1853 con l’apertura della rete distributiva di Buffetti60, è abbastanza pacifico che in realtà l’avvio di questa metodologia distributiva sia stato, nello specifico, nel 1970, il 18 agosto, con l’apertura della prima affiliata della catena Gamma a Fiorenzuola d’Arda61.
Le ragioni che hanno spinto ad utilizzare questo modello sono attinenti allo schema negoziale che permette di creare; infatti, le imprese che lo applicano riescono a realizzare un’azione integrata sul mercato mantenendo l’autonomia economica e giuridica di tutti i soggetti coinvolti. Inoltre, a
57 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
58 Cass., 21 luglio 1994, n. 6819, Giur. it., 1995
59 Xxxxx X., Il contratto di agenzia. La concessione di vendita. Il franchising, VII ed., con la collaborazione di Venezia, Milano, 2001; Bortolotti F., Concessione di vendita (contratto di), in Noviss. Dig. It., II, app., Torino, 1981; Bocchini R., Xxxxxxx A. M., I contratti di somministrazione e di distribuzione, op. cit.
60 Barbuto M., Il commento (legge 6.5.2004 n. 129), GDir, 22, 2004
61 Zuddas G., Somministrazione, concessione di vendita, franchising, Torino, 2003
differenza di altre tipologie contrattuali della distribuzione, è idoneo sia alla distribuzione di beni che di servizi.
Il mantenimento dell’autonomia dei soggetti coinvolti permette di qualificarlo come un sistema di distribuzione indiretta e, in ogni caso, integrata62, questo perché gli accordi conclusi dal franchisor con i franchisees sono di collaborazione.
Queste caratteristiche del franchising però sono riduttive per spiegare la categoria, oltre al fatto che lo renderebbero comunque troppo simile ad altri contratti appartenenti allo stesso genus e non giustificherebbero la sua necessità, da un lato e dall’altro la sua fortuna. Ciò che caratterizza l’affiliazione commerciale e che è anche il mezzo per ottenere l’integrazione imprenditoriale che si instaura tra i soggetti coinvolti è la condivisione da parte del franchisor verso tutte le imprese della rete di un patrimonio di conoscenze tecniche e commerciali di titolarità dell’affiliante. La ratio sottostante è che questo costituisce un vantaggio per entrambe le parti: il franchisor amplia la propria presenza sul mercato senza sostenere i costi e i rischi legati all’apertura di un nuovo punto vendita e del personale; i franchisees devono sostenere questi costi e rischi, ma hanno la “garanzia” data dal nome del brand e da una business formula collaudata. Quest’ultimo aspetto è un nodo centrale perché il beneficiario viene reso partecipe delle conoscenze del franchisor (si ritiene che il termine stesso franchising derivi dalla parola “franchise” che è traducibile con “privilegio”), le quali normalmente si ottengono dopo svariati tentativi, più o meno fallimentari, supportati da ingenti investimenti.
Poco tempo dopo la comparsa di questo schema negoziale nel panorama giuridico italiano una sentenza della Suprema Corte del 197263 ha dichiarato sovrapponibili il franchising e il contratto di agenzia. Così facendo ha dichiarato nullo il contratto impugnato poiché stipulato in violazione della normativa posta a protezione dell’agente quale lavoratore parasubordinato e quindi soggetto alla disciplina del Codice e delle leggi speciali. Secondo questa pronuncia, quindi, anche il franchisee avrebbe dovuto essere assimilato alla medesima normativa. Nonostante tale orientamento restrittivo gli operatori del settore non si sono lasciati scoraggiare e l’utilizzo effettivo di questo schema atipico ha superato la pronuncia della Cassazione. La dottrina, dal canto suo, ha deciso di adottare un atteggiamento di tolleranza verso quei contratti che, ponendo degli obblighi molto stringenti in capo ai franchisees, ne limitavano la potestà decisionale e li sottoponevano alla direzione del franchisor trasformando l’affiliante, nella sostanza, in un lavoratore subordinato. È solo con la legge 129/2004 che sono stati inseriti degli obblighi informativi anche nei confronti del franchisee in modo tale da creare una situazione più equilibrata tra le parti e una minore sottoposizione e dipendenza di quest’ultimo rispetto all’affiliante.
62 Di Nella L., in Il diritto della distribuzione commerciale a cura di Xx Xxxxx, Mezzasoma e X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000
63 Corte di Cass., 30.4.1972, n. 2942
La giurisprudenza di merito del tempo era stata, invece, più propensa ad individuare una differenza tra franchisee e lavoratore subordinato nella autonomia (anche se talvolta minima) che è riconosciuta al primo e che il secondo non ha e non può avere.
Nonostante questi primi arresti e perplessità il suo ampio utilizzo nell’ambito della distribuzione hanno permesso di riconoscere il contratto di franchising come negozio socialmente tipico, con una propria identità e caratteri distintivi tali da permettere di individuarlo tra i plurimi modelli dell’integrazione imprenditoriale64.
Per lungo tempo è stata oggetto di discussione la natura stessa del contratto di affiliazione commerciale: da un lato c’era chi sosteneva si trattasse di una forma associativa (quindi un contratto di collaborazione per il quale dovevano essere conferite risorse comuni), dall’altro veniva qualificato come negozio di scambio, sinallagmatico in senso stretto. La prima teoria poteva essere scartata piuttosto agilmente sulla base di due elementi: l’autonomia soggettiva delle parti coinvolte e la non creazione di un nuovo organismo a seguito della conclusione del contratto.
Da ciò si è ricavato che dovesse trattarsi di un contratto a prestazioni corrispettive e il nuovo punto controverso è diventato se gli interessi sottesi al contratto potessero essere temperati dalla caratteristica associativa del contratto e dallo scopo comune di tutti gli appartenenti alla rete. Alla luce di questi dati alcuni autori preferiscono qualificare il franchising come “concessione aggregativa”65, piuttosto che far leva sull’inserimento nella rete del franchisee, questo perché accanto all’aspetto del corrispettivo veniva elevata la necessità di una collaborazione tra le parti data dalla consulenza e assistenza assicurate dall’affiliante e dall’utilizzo di mezzi comuni.
Altra parte della dottrina66, invece, dava maggiore importanza al fattore dell’inserimento nella rete e quindi incentravano lo schema negoziale sulla concessione della licenza per l’uso dei diritti immateriali, dell’assistenza tecnica e commerciale e del know how, in cambio delle somme poste a carico del franchisee (entry fee e royalties).
Lasciando a margine queste dispute dottrinali la giurisprudenza ha cercato di individuare il contenuto essenziale e caratterizzante questo contratto. Data la recente introduzione di questo schema negoziale la prima pronuncia significativa in materia è del 198267. Essa ha individuato come prestazione caratteristica la trasmissione dell’insieme di conoscenze ed esperienze tecnico-commerciali, identificati nei diritti sui beni immateriali concessi dal franchisor al franchisee.
Sembra quasi superfluo affermare, però, che nel nostro ordinamento in cui non esiste il vincolo del precedente questa pronuncia ed altre successive affini hanno sicuramente indicato la linea da seguire;
64 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
65 Zanelli E., Il contratto di franchising, in Tratt. Xxxxxxxx, Torino, 1999, p.150
66 Frignani X., Xxxxxxxxx, Leasing, Franchising, Concorrenza, Xxxxxxxxxxxx, II ed., Torino, 1983
67 Trib. Milano, 30.4.1982, Soc. Standa c. Soc. Arcobaleno, FI, 1982
tuttavia, senza la statuizione normativa della disciplina e i limiti del contratto non c’era certezza ed uniformità di vedute, con la conseguenza che potevano esserci casi di sovrapposizione con figure contrattuali affini.
Il legislatore italiano è arrivato tardi, ma prima del 2004 un apporto significativo è giunto dall’attività giudiziale e normativa delle istituzioni dell’Unione che permisero in Italia e non solo di modellare e far consolidare la fisionomia del negozio.
L’aspetto trattato dalle Istituzioni non è stato strettamente quello delle caratteristiche del contratto di affiliazione, ma la questione è stata affrontata in relazione alla compatibilità o meno di questo schema negoziale con le norme del trattato relative alla concorrenza tra imprese, allora disciplinate all’art. 81 TCE e oggi all’art 101 del TFUE, che vieta a pena di nullità gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che abbiano come risultato il pregiudizio dei commerci tra Stati membri e producano l’effetto di falsare, impedire o restringere la concorrenza.
Questo tema si è posto con riguardo all’affiliazione commerciale perché l’oggetto del contratto, nonostante la sussistenza della causa di scambio, determina l’adesione ad uno schema distributivo e commerciale che mira alla instaurazione di prassi e comportamenti coordinati sia in tema di organizzazione ed estetica dei punti vendita, di ripartizione territoriale e anche di omogeneità dei prezzi, volti alla massimizzazione del profitto e ad essere maggiormente appetibili a scapito della concorrenza. La messa in atto di queste strategie, previste tra gli elementi essenziali del contratto di franchising, almeno in astratto comportano la stipula di accordi anticoncorrenziali e quindi, sempre in astratto, sanzionabili se non per il diritto strettamente interno, almeno per quello comunitario (anche se l’art. 101 così come l’art. 102 TFUE sono stati riportati nella l. 287/90 senza sostanziali differenze rispetto alla normativa comunitaria).
Come visto, però, nel caso dell’affiliazione commerciale e sempre entro certi limiti, non tutte queste situazioni in concreto possono essere valutate come lesive della leale concorrenza perché in caso contrario la tipologia contrattuale stessa dovrebbe essere considerata inidonea e illecita per il diritto antitrust. È stata la Corte di Giustizia con la cd sentenza Pronuptia, i cui principi sono poi stati inseriti nel Reg. n. 4087/88/CE 68 , a determinare una casistica di ipotesi in cui una situazione astrattamente in violazione della normativa antitrust, in relazione alle particolarità del caso concreto unite alla tipologia contrattuale prescelta (i.e. franchising), è invece lecita. Il Regolamento, infatti, è stato emanato proprio per disciplinare le ipotesi di esenzione dall’applicazione della normativa antitrust (in deroga all’art. 101 par. 1) per i contratti di affiliazione commerciale.
68 Ora abrogato e sostituito dal Reg. n. 2790/1999, a sua volta sostituito senza però sostanziali modifiche dal Reg. n. 330/2010
La sentenza in questione69 ha avuto ad oggetto i contratti relativi alla distribuzione di prodotti in cui il franchisor aveva trasmesso al franchisee i metodi di vendita (cd know how commerciale) e la possibilità di usare l’avviamento collegato ad un segno distintivo che contraddistingue la rete. La Corte è partita da questo presupposto: il franchising “consente ai commercianti sprovvisti dell’esperienza necessaria di avvalersi di metodi che esse avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi della reputazione del segno distintivo del cedente”, quindi esso non arreca pregiudizio di per sé alla concorrenza e non ricade nel divieto dell’art. 101 TFUE. Sulla base di ciò la Corte ha stabilito di non considerare contrarie a tale norma nemmeno due pattuizioni necessarie per realizzare altrettanti obiettivi fondamentali, cioè:
- Consentire che il know how venga trasferito al franchisee senza che ciò vada a vantaggio dei concorrenti del concedente (obbligo di non concorrenza e divieto di cedere il negozio);
- Preservare l’uniformità e la reputazione della rete.
Così la Corte ha sfruttato la rule of reason effettuando un bilanciamento tra aspetti positivi e negativi di una restrizione concorrenziale all’interno dell’art. 101 par. 1. Questa considerazione è molto importante perché vuole dire che queste intese sono sottratte a monte al divieto del 101 par. 1 senza necessità che rientrino nelle eccezioni del 101 par. 3.70 Infatti, se il paragrafo 1 contiene un elenco esemplificativo di come debba essere una intesa per essere qualificata come anticoncorrenziale; il paragrafo 3 prevede, invece, l’esenzione dall’applicazione del divieto in subordine alla sussistenza di quattro condizioni cumulative. Ebbene, la Corte con la sentenza Pronuptia ha fatto un passo avanti riconoscendo una categoria di accordi che non rispondono alle condizioni del par. 3, ma che non rientrano nemmeno nel divieto del par. 1 e, di conseguenza, sono leciti.71
3. LE CONSEGUENZE GIURIDICO-ECONOMICHE DERIVANTI DALLA SCELTA DEI SOGGETTI DISTRIBUTORI: INTERMEDIARI E RIVENDITORI A CONFRONTO
È necessario individuare con precisione chi sono i distributori effettivi dei prodotti (e a fortiori previsti nel contratto di distribuzione stesso di volta in volta scelto dalle parti). Le figure rilevanti sono due.
L’intermediario è il soggetto incaricato della distribuzione che promuove le vendite tra produttore e clienti. Si tratta dell’incaricato nei contratti di agenzia; nel procacciamento d’affari; nella mediazione e nella commissione.
69 Causa 161/84, sent. 28 gennaio 1986, Pronuptia
70 Bortolotti, Xxxxxx & ass. Contratti di distribuzione. Op. cit.
71 (70) Ibidem
Il rivenditore è, invece, colui che acquista e rivende i prodotti oggetto del contratto. È la controparte del produttore nei contratti di concessione di vendita, distribuzioni selettiva e franchising.
Giuridicamente la distinzione è netta per poi sfumare sotto il profilo economico-commerciale. Si prendano ad esempio i contratti di agenzia e di concessione di vendita: i soggetti coinvolti (rispettivamente l’agente e il concessionario) hanno il medesimo compito di organizzare e gestire la distribuzione in un determinato territorio nell’interesse del produttore. Ciò che determina la distinzione è che l’agente opera come intermediario e in quanto tale è remunerato a provigione; mentre il concessionario acquista e rivende in proprio e viene remunerato dal margine (cioè ciò che si ottiene dalla differenza tra prezzo di vendita e prezzo d’acquisto).
Le caratteristiche essenziali dell’agente sono già state enucleate nelle pagine precedenti: al compito di promuovere la conclusione di contratti in una zona determinata (e verso corrispettivo), come prevede l’art. 1742 c.c., si aggiungono l’organizzazione autonoma dell’attività ad opera dell’agente stesso, l’onerosità della prestazione, la previsione di una certa zona territoriale e la stabilità dell’incarico (elemento di differenziazione rispetto al mandato). Il compito principale è sicuramente la cd invitatio ad offerendum, cioè la proposta di conclusione dell’affare il cui perimetro è delineato a monte dal preponente, ferma restando l’autonomia dell’agente. Dovere dell’agente è di espletare l’incarico con diligenza, in caso contrario ciò potrebbe essere invocato dal preponente come motivo di risoluzione del contratto e richiesta di risarcimento dei danni. Xxxxxxxxx che va valutata facendo un bilanciamento tra il volume di affari conseguito, molto rilevante per l’agente perché è su quel valore che verranno calcolate le provigioni che gli spettano come compenso; ma anche in termini di convenienza e opportunità sulla base dell’incarico conferitogli dal preponente. Il dovere dell’agente, quindi, per essere adempiuto deve rispondere a parametri sia qualitativi che quantitativi.
Elemento, invece, naturale ma non essenziale del contratto (in quanto derogabile per accordo delle parti) in comune per agenti (intermediari in generale) e concessionari (rivenditori in generale) è il diritto di esclusiva. Nel contratto di agenzia è configurato come un diritto-dovere di entrambe le parti salva previsione contraria. Il preponente non può avvalersi di più agenti nella stessa zona territoriale per la conclusione di affari aventi ad oggetto il medesimo bene; l’agente non può promuovere la conclusione di contratti nella medesima zona per conto di preponenti in concorrenza tra loro. La deroga può essere prevista per una sola o per entrambe le parti.
Trattando del contratto di concessione di vendita è, poi, possibile ben evidenziare la caratteristica strutturale che differenza il concessionario, quale rivenditore, dall’agente, appartenente alla categoria degli intermediari. L’imprenditore concedente, infatti, vende i propri prodotti agli imprenditori
concessionari che si assumono l’impegno di vendere a loro volta i beni (generalmente) al consumatore finale. Di conseguenza anche gli obblighi nascenti dal negozio sono diversi: il concedente assume l’obbligo di vendere al concessionario e quest’ultimo assume gli obblighi di rivendita e promozione del prodotto, assumendo in capo a sé il rischio di non riuscire a vendere i beni che egli, però, ha acquistato. Situazione, quindi, molto diversa rispetto a quella dell’agente che ha sì il dovere di permettere la conclusione di contratti tra il preponente e terzi non ottenendo, in caso contrario, le provigioni, tuttavia si tratta di un mancato introito e non di una perdita data dall’acquisto di beni non seguito dalla relativa rivendita.
Anche in questo caso la clausola di esclusiva è un elemento accessorio della pattuizione e può essere prevista a vantaggio di uno o di entrambi i contraenti. Può essere generica e pertanto riferirsi a tutti i beni prodotti dal concedente e solitamente è associata alla determinazione della zona in cui vige tale esclusiva (avente, ovviamente, validità obbligatoria tra le parti e non vincolando terzi che volessero commercializzare prodotti concorrenti nella medesima zona), ma si tratta comunque di pattuizioni autonome e indipendenti tra loro.72
È libera decisione dell’imprenditore-produttore scegliere se appoggiarsi a intermediari e rivenditori sulla base di strategie di marketing, della propria posizione sul mercato, di convenienza a livello economico-retributivo e, soprattutto, in relazione a quanto il produttore voglia inferire e indirizzare (talvolta addirittura predeterminare) l’operato del distributore. Tuttavia, l’imprenditore deve ben conoscere cosa comporta concludere un contratto con un intermediario oppure con un rivenditore, oltre alle peculiarità dello specifico contratto che in concreto stipulerà con un appartenente all’una o all’altra macrocategoria.
Generalmente la scelta di avvalersi di intermediari lascia un maggior controllo all’imprenditore- produttore sulla clientela e sulla decisione di concludere o meno il contratto per come è stato predisposto dall’intermediario. 73 Continuando con l’esempio del contratto di agenzia si deve ricordare, infatti, che il preponente ha la facoltà di rifiutare la stipula di un contratto procacciato dall’agente, purché non si tratti di un rifiuto sistematico e ingiustificato. Tuttavia, il rischio dell’insolvenza (eventuale) del debitore-acquirente è in capo al preponente poiché costui rimane il proprietario del bene, che non viene trasferito in proprietà all’agente. Quest’ultimo ha come rischio connesso all’insolvenza la perdita della provigione.
Il rivenditore ha una maggiore conoscenza diretta della clientela ed è egli stesso a decidere se concludere una vendita o meno. Però, nella sua attività, proseguendo con l’esempio, il concessionario
72 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
73 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass. Contratti di distribuzione. op.cit.
(ma anche il franchisee) deve strutturare la distribuzione del prodotto sull’immagine commerciale dell’impresa concedente per non disattendere le aspettative della clientela e non confonderla; inoltre, nel momento in cui decide di concludere una vendita, deve seguire le precise indicazioni che a monte gli sono state fornite dal concedente. Sovente nel contratto sono inclusi obblighi strumentali di commercializzazione e pubblicizzazione dei prodotti, ma anche servizi di assistenza alla clientela il cui mancato rispetto può determinare causa di risoluzione del contratto nonostante il volume delle vendite sia cospicuo.74 Quando sceglie questa tipologia di distributori il rischio dell’invenduto e del mancato pagamento del debitore ricade sul rivenditore che aveva già in precedenza acquistato il bene dal produttore; tuttavia, nell’eventualità in cui il concessionario (o franchisee) non riesca a farne fronte, la perdita si riflette anche sul produttore stesso.75
4. LA DISTRIBUZIONE INTEGRATA: UNA TIPOLOGIA DI INTEGRAZIONE VERTICALE (LECITA) NEI CONTRATTI DI DISTRIBUZIONE
La distribuzione integrata permette di realizzare, tramite uno specifico regolamento contrattuale, frutto dell’autonomia e della volontà delle parti, una integrazione verticale tra imprese che sono giuridicamente indipendenti, ottenendo vantaggi reciproci76.
Si tratta, infatti, di una specifica tipologia di schema distributivo in cui il distributore è integrato nella rete del produttore al fine di promuovere i prodotti in conformità alle scelte commerciali e di marketing di quest’ultimo. Ciò implica che il terzo (distributore) sia la longa manus del produttore, il quale può così adottare la propria politica distributiva non direttamente, ma tramite un altro soggetto con il quale ha stipulato un contratto per questo fine. Il vantaggio per il produttore è che sarà il distributore ad assumersi i rischi della commercializzazione; mentre il beneficio ottenuto dal distributore è la posizione di privilegio che gli viene concessa, grazie alla quale ottiene dal produttore la garanzia di essere l’unico a sfruttare i vantaggi della propria attività promozionale. Il distributore deve anche assumere una serie di obblighi legati alla commercializzazione stessa, la quale deve avvenire secondo le indicazioni (più o meno dettagliate e vincolanti) del produttore. A ciò generalmente viene aggiunta la clausola di non concorrenza, così che il produttore sia certo che il distributore non commercializzi beni in concorrenza con i propri. Sicuramente l’esclusiva di commercializzazione è tanto più importante (per entrambe le parti) quanto più il prodotto è prestigioso: il produttore per dare rilievo al proprio marchio e ai singoli prodotti, inoltre ha interesse che il distributore non proponga prodotti concorrenti accanto al proprio; il distributore pur non
74 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
75 Xxxxxxxxxx Xxxxxx & ass. Contratti di distribuzione. op. cit.
76 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
potendo vendere altri prodotti ha la certezza che nello stesso territorio non ci siano altri rivenditori di quello stesso bene e quindi chi desidera acquistarlo si dovrà per forza rivolgere a lui.
Può essere scelto lo schema della distribuzione integrata sia che il produttore si avvalga di intermediari che di rivenditori: quindi possono rientrare nello schema distributivo concessionari, affiliati e anche agenti (monomandatari, perché nel caso di agenti plurimandatari il contratto di agenzia è non integrato).
Alla distribuzione integrata è, ovviamente, contrapposta la distribuzione non integrata in cui i distributori commercializzano prodotti concorrenti e sono soggetti a molti meno obblighi. Potrebbe sembrare che in questa ipotesi la posizione del distributore sia più favorevole in quanto può gestire con maggiore autonomia e discrezionalità la strategia di marketing e vendita e ha meno vincoli contrattuali. L’integrazione, infatti, determina l’esistenza di una situazione di dipendenza del distributore verso il produttore. Nel caso dei concessionari o dei franchisee la situazione di dipendenza in astratto può diventare talmente stringente che il legislatore ha ritenuto di potervi estendere le tutele previste in altre fattispecie contrattuali per altre categorie di distributori (es gli agenti)77.
I vantaggi della distribuzione integrata, però, si osservano meglio nel lungo raggio, grazie ad una visione d’insieme dell’attività di produttore e distributore che si intrecciano e portano a migliori risultati grazie ad una strategia omogenea, ma allo stesso tempo calibrata per ciascun mercato e/o zona di riferimento. Ciò avviene grazie ai riscontri che ottiene il distributore dai consumatori finali e dall’andamento del mercato, informazioni che egli riesce ad acquisire per la vicinanza e il contatto diretto, ma che il produttore farebbe più difficoltà ad ottenere a causa da un lato della lontananza e dall’altro del vasto numero di mercati in cui commercializza i prodotti. Il produttore sulla scorta di questi feedback ha la possibilità di orientare la produzione, fornire ulteriori servizi, orientarsi verso l’acquisto di determinate materie prime, calibrare diversamente i parametri distributivi e modificare le attività promozionali e di immagine che dovranno essere realizzate dai distributori.78
È pur vero che questo schema distributivo potenzialmente può comportare violazioni delle norme antimonopolistiche soprattutto di matrice UE (divieto di intese ex art 101 TFUE). Questo perché alcune delle clausole tipicamente inserite nel contratto, come la clausola di esclusiva o le barriere alla libertà di fissazioni dei prezzi, i divieti di concorrenza e la zona territoriale di operatività, possono portare a distorsioni della concorrenza. La normativa comunitaria ha cercato di regolamentare le situazioni che si verificano con maggiore frequenza come ad esempio la doppia marginalizzazione,
77 Xxxxxxxxxx Xxxxxx & ass. Contratti di distribuzione. op. cit.
78 Di Nella L., Mercato e autonomia contrattuale nell’ordinamento comunitario, Napoli, 2003, 110 ss.
comportamento attraverso il quale il fornitore cerca di imporre al distributore di applicare prezzi di vendita molto bassi in modo tale da essere maggiormente competitivi. È stato, però con l’emanazione del “Libro verde sull’applicazione delle regole della concorrenza comunitarie alle restrizioni verticali”79 e del “Seguito del Libro verde sulle restrizioni verticali”80 con cui sono stati previsti gli strumenti idonei e necessari a valutare la liceità di clausole e comportamenti che apparentemente integrerebbero intese verticali anticoncorrenziali. Tali previsioni sono poi confluite nel Regolamento
n. 2790/99/CE applicabile a tutte le tipologie di intese verticali (ad eccezione del settore della distribuzione di autoveicoli, disciplinato da altro specifico regolamento). È un regolamento diverso dai precedenti perché prevede condizioni anche per gli accordi stipulati tra parti appartenenti ad un diverso livello distributivo e anche gli accordi che prevedono la cessione di diritti di proprietà intellettuale se sono strumentali alla distribuzione e non realizzano gli effetti previsti agli artt. 4 e 5 del Reg. stesso.81
Il Regolamento prevedeva le esenzioni per categorie per le intese verticali se sussisteva la condizione della detenzione da parte del fornitore di una quota di mercato inferiore al 30% in cui sarebbero confluiti i prodotti oggetto della fornitura esclusiva. Nel caso di quote di mercato sottosoglia, invece, non doveva ritenersi applicabile l’art 81 TCE (ora art. 101 TFUE). Allora al Regolamento sono state aggiunte le “Linee direttrici sulle restrizioni verticali” che prevedevano le condizioni per l’applicabilità delle esenzioni: si tratta di chiavi di interpretazione per l’applicazione delle norme del Reg. e di disciplina delle intese non rientranti nell’esenzione.82
In questa tipologia di distribuzione si fanno confluire la concessione di vendita, la rivendita autorizzata e il franchising, in sostanza quelle fattispecie contrattuali in cui la parte debole del rapporto, anche se giuridicamente ed economicamente indipendente, deve gestire la propria attività a fronte di una coordinazione più o meno pregnante da parte del produttore.
79 Emanato il 22.01.1997 dalla Commissione
80 Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle regole di concorrenza comunitarie alle restrizioni verticali, seguita del Libro Verde sulle restrizioni verticali, GCE, 26.11.1999, C 365/3
81 MANZINI P., La riforma della disciplina comunitaria delle restrizioni verticali della concorrenza, DUE, 2000, 551;
82 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
CAPITOLO SECONDO
IL FRANCHISING
UN PONTE DAL VECCHIO AL NUOVO CONTINENTE
1. LA NASCITA DEL FRANCHISING: UNA CONTESA TRA STATI UNITI ED EUROPA
La nascita della fattispecie contrattuale oggi nota come franchising è molto risalente. Le prime, embrionali, sperimentazioni risalgono alla fine del 1800 e hanno avuto luogo negli Stati Uniti.
Terminata la Guerra di Secessione (1861-1865) le industrie del Nord, la parte vincitrice, hanno cercato di creare dei propri sistemi di vendita al Sud, nei territori della ex Confederazione, i quali però venivano ciclicamente sabotati. I sudisti, infatti, come corollario al loro noto rifiuto di abolire la schiavitù, non accettavano nemmeno altre forme di modernizzazione, tra le quali la nascita delle industrie, della produzione di massa, della catena di montaggio e l’inizio dell’uso di macchinari industriali in sostituzione di alcune mansioni umane. La commercializzazione nei loro territori di prodotti dell’industria, che si aggiungevano e superavano in qualità quelli realizzati localmente, comportò un malcontento crescente dei produttori del Sud, i quali perdevano così porzioni di mercato e quindi di ricchezza. Da ciò, insieme all’astio per la vittoria dei nordisti, sono scaturiti boicottaggi continui. Per aggirare la situazione gli industriali del Nord hanno ideato una prassi in base alla quale l’impresa produttrice si accordava con un imprenditore locale affinché esercitasse in proprio l’attività di distribuzione seguendo, però, le direttive del produttore del quale venivano usati anche nome e insegna. Questo è stato il nucleo originario e la prima sperimentazione del contratto di franchising.83
Il primissimo esempio riconosciuto di franchising moderno risale proprio a metà ‘800 e Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx (1811-1875) ne è considerato il padre fondatore. Egli aveva costituito la I. M. Singer & Company e la sua fortuna trova origine nell’idea di realizzare una macchina da cucire molto più pratica, veloce ed efficiente di quelle già esistenti. Il problema che gli si è presentato, però, non era di poco conto: trovare fondi che gli permettessero di produrre e distribuire ulteriori esemplari dell’invenzione. Questo perché non era riuscito a venderne un numero sufficiente per autofinanziarsi a causa del costo elevato per l’epoca (120/125 $). Una prima risposta al problema è stata trovata da uno dei suoi partner nel 1856: consisteva nell’offrire la possibilità di acquistare ratealmente la macchina e, allo stesso tempo, di prenderne possesso immediatamente (è stato anche il primo esempio di pagamento a rate). In questo modo fu possibile vendere più macchine, ma rimaneva da risolvere la
83 Xxxxx P., Xxxxxxx V., Xxxxxx A., Lineamenti di diritto privato, op. cit., p. 563
questione di un migliore sistema distributivo. La soluzione è stata trovata offrendo licenze 84 a imprenditori che volevano vendere quel prodotto in determinate aree geografiche a fronte del pagamento di una cd licencing fee: ciò ha reso possibile la costruzione di fabbriche di produzione. La volontà di Singer di fornire ai clienti un servizio completo ed efficiente lo ha portato a decidere che i licenziatari dovessero essere formati per spiegare a loro volta il funzionamento del macchinario agli acquirenti finali e così è nato l’embrione del concetto di know how. Inoltre, i termini del rapporto tra le parti (che attualmente definiamo franchisor e franchisee, ma all’epoca non erano ancora stati coniati) venivano racchiusi in un contratto giuridicamente vincolante e non in un gentlemen agreement, informale e suscettibile di venire modificato al mero mutamento della volontà delle parti.
A inizio ‘900, poi, questo sistema è stato scelto da General Motors (GM) che vendeva i diritti di esclusiva ai concessionari di auto, e nello stesso periodo anche in Francia è stato adottato tale sistema di distribuzione presso il lanificio Roubaix. Il titolare, Xxxx Xxxxxxxx, nel 1929 ha incaricato un ingegnere alle sue dipendenze di creare la prima catena di magazzini specializzati nella vendita di lana da lavorare a maglia, le “laines du Pingouin”: lo scopo era di fare in modo di smaltire velocemente i filati prodotti dallo stabilimento appena costruito. Per ottenere ciò il produttore stipulò con un certo numero di dettaglianti contratti con i quali garantiva loro l’esclusiva del marchio, vantaggio considerevole dato che era già noto e sostenuto da campagne pubblicitarie, e anche l’esclusiva di distribuire in una zona determinata e delimitata. Il nome di questo accordo non era ancora franchising ma ne aveva già i tratti essenziali.
Negli Stati Uniti, invece, General Motors ha avuto la necessità di adottare un sistema distributivo innovativo per poter continuare a vendere gli autoveicoli di sua produzione. Ciò si è reso necessario perché tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 (l’ultima coda del proibizionismo) l’industria automobilistica si è scontrata con la normativa antitrust in forte espansione che, tra le altre cose, vietava ai costruttori l’integrazione verticale con i rivenditori.
L’integrazione verticale attuata da GM è definita alleanza strategica a valle perché l’impresa a monte (in questo caso General Motors) cerca di controllare il mercato di sbocco dei propri prodotti tramite il controllo dei rivenditori. Questa strategia non era ancora normata e pertanto rientrava in quelle considerate dall’antitrust come lesive della concorrenza perché le conseguenze dell’influenza esercitata su una pluralità di rivenditori determinano “barriere all’entrata” per gli altri operatori del medesimo settore; una maggiore conoscenza del mercato e dei bisogni della clientela che permettono di adeguare il prodotto a tali esigenze, e comportano difficoltà per i concorrenti che non avendo tali
84 Accordo tramite il quale la parte che ne è titolare (licenziante o concedente) concede temporaneamente a terzi (licenziatari), in genere a fronte di corrispettivo (royalty forfettarie o calcolate in percentuale predeterminata sul fatturato), l’utilizzo del proprio marchio. Genovese A.F., Xxxxxxxx X., Proprietà intellettuale, UTRT Giuridica, Milano, 2021 p.233
informazioni non possono modificare la produzione e diventano poco competitivi; la possibilità di differenziare la produzione e appropriarsi di ulteriori porzioni di mercato e di consumatori finali.85
1.1 L’influenza della normativa antitrust sul franchising: cenni
In ambito statunitense, data l’estensione del territorio e la struttura organizzativa (governo federale e singoli Stati), un modello commerciale posto in essere da un imprenditore/produttore e adottato oltre i confini statali inevitabilmente ha un impatto significativo sul mercato. Pertanto, fin dalla comparsa del franchising è apparso chiaro che fosse necessaria non solo (e non tanto, almeno all’inizio) una disciplina per regolare tale strumento contrattuale bensì una normativa a tutela della leale concorrenza tra operatori che in ultima analisi tutelasse anche i consumatori.
A conferma di ciò basti considerare che anche il diritto antitrust ha una nascita piuttosto risalente, avvenuta subito dopo la fine della Guerra di Secessione. La disciplina aveva e ha lo scopo di prevenire l’illecita formazione e sviluppo di monopoli, con ciò intendendosi la creazione o la crescita di una posizione commerciale dominante, frutto di accordi tra imprenditori distorsivi della leale e fisiologica concorrenza, invece che frutto dell’effettiva efficienza dell’impresa sul mercato. Questa forma di tutela della concorrenza si era da subito posta come ostacolo ad accordi che limitavano proprio la concorrenza tra operatori del medesimo settore o di settori analoghi. Per aggirare i divieti gli imprenditori statunitensi decisero di adottare l’istituto anglosassone del trust86 e di coalizzarsi tra loro creando monopoli87.
I settori da subito interessati sono stati quelli del tabacco, petrolifero e ferroviario: si trattava di attività in forte crescita e molto remunerative, così per evitare di farsi concorrenza tra loro gli imprenditori decisero di unirsi e creare società più grandi e solide. È in questo scenario che agricoltori e
85 Xxxxx N., Strategia d’integrazione verticale a valle. Della tecnica industriale e commerciale, Ed. Tricolli, 2009
86 Istituto nato nell’Inghilterra dell’Alto Medioevo quando si era diffusa la prassi per cui un soggetto decideva di “affidare” ad un soggetto terzo beni (soprattutto di natura immobiliare) appartenenti al suo patrimonio affinché costui li amministrasse e gestisse ottenendo dei benefici previsti dal disponente. Xxxxxxx, Il trust, Milano, 2001, p.55; Xxxxxxxxxxxxx, Il trust nel diritto inglese, Padova, 1935, p. 51
Attualmente il trust consiste nella gestione di un patrimonio (inteso in senso vasto: un singolo oppure una pluralità di beni e/o diritti e/o rapporti giuridici attivi e passivi) per perseguire gli obiettivi indicati dal disponente. L’obiettivo è finalizzato ad attribuire un vantaggio al beneficiario del trust, oppure consiste nel perseguimento di uno scopo specifico. Tale fine specifico presume che ci sia un vincolo di destinazione sul bene oggetto del trust e comporta che avvenga una separazione tra tale bene e il restante patrimonio del disponente. Xxxxxx A., Il trust, CEDAM, 2020; Xxxxxxxx-Xxxxxxxxxxx, Manuale di diritto privato, Xxxxxxx Editore, Milano, 2017
87 Forma di mercato contrapposta alla libera concorrenza, in cui un operatore è riuscito a concentrare in capo a sé tutta l’offerta di un dato bene o servizio potendone così decidere unilateralmente il prezzo e la quantità dell’offerta. Se il monopolio legale è lecito poiché è una legge ad attribuire la produzione e l’offerta di un bene o servizio allo Stato o ad una impresa da esso individuata; il monopolio di fatto è una situazione patologica del mercato che si è creata perché un singolo operatore (o più operatori in accordo tra loro) ha eliminato tutti i concorrenti o li ha posti in una posizione tale da non costituire una alternativa soddisfacente per i consumatori.
Martellini M., Dal monopolio alla concorrenza, Xxxxxx Xxxxxx Edizioni, Milano, 2008; xxxxx://xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/0/xxxxxxxxx
commercianti in particolari, privati di poteri di negoziazione da questi accordi, si sono trovati costretti a sottostare alle condizioni poste da tali cartelli.
Nel 1890, su iniziativa del senatore X. Xxxxxxx, fu emanato lo Sherman Antitrust Act, la prima legge federale redatta proprio per contrastare la concentrazione del potere economico in grandi gruppi industriali.
In particolare, la Section 1 vieta i trust e gli accordi (“every contract, combination in the form of trust or otherwise, or conspiracy”) restrittivi del commercio stipulati tra Stati appartenenti alla federazione, o tra Stati Uniti e Paesi Terzi (“in restraint of trade or commerce among the several States or with foreign nations”). La Suprema Corte ha aggiunto l’aggettivo “unreasonable restraint” poiché ad un certo livello tutti gli accordi commerciali limitano il commercio.
Per commettere una violazione della Sezione 1 dello Sherman Act è necessaria la consapevolezza di attuare un comportamento volto a raggiungere un risultato illecito ed è necessaria la partecipazione di almeno due parti (il comportamento unilaterale non è illecito) come nel caso di un accordo tra franchisor e franchisee. La Sezione 1 vieta88: di fissare o mantenere fissi i prezzi o i livelli di prezzo di un certo prodotto; di truccare le offerte (cd Rig bids)89; di dividere i territori di esclusiva oppure la clientela tra concorrenti.
La Section 2, invece, sancisce l’illiceità di pratiche monopolistiche concretamente attuate da un lato, e i tentativi di creare un monopolio dall’altro (“every person who shall monopolize or attempt to monopolize or combine or conspire with any other person or persons to monopolize”). Questi comportamenti sono prevalentemente unilaterali, pertanto non sono particolarmente rilevanti nel rapporto di franchising.
È possibile notare affinità nell’oggetto della disciplina dello Sherman Act e dell’art. 102 TFUE (divieto di abuso di posizione dominante), tuttavia la differenza è che il primo attribuisce rilevanza all’intenzione delle parti nel compimento dell’operazione. Infatti, l’intento monopolistico viene escluso se l’acquisizione di un certo potere economico è avvenuta lecitamente, cioè tramite efficienza, alta qualità o strategie di vendita vincenti; mentre le sanzioni sono previste se i comportamenti tenuti per ottenere tale posizione sono abusivi in quanto vengono attuati tramite meccanismi che impediscono ad altri operatori l’accesso al mercato con l’intenzione di controllare i prezzi e il mercato stesso.
00 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, ABA, 2012
89 Whenever business contracts are awarded by means of soliciting competitive bids, coordination among bidders undermines the bidding process and can be illegal. Bid rigging can take many forms, but one frequent form is when competitors agree in advance which firm will win the bid. xxxxx://xxx.xxx.xxx/xxxxxx-xxxxxxxx/xxxxxxxxxxx- guidance/guide-antitrust-laws/dealings-competitors/bid-rigging
Lo Sherman Act è stato un primo, necessario, intervento, ma ben presto si è rivelato insufficiente. La sua inadeguatezza ha portato all’emanazione nel 1914, sotto l’amministrazione Xxxxxx, del Federal Trade Commission Act (FTCA) e del Xxxxxxx Antitrust Act90.
Il primo non ha avuto una grande portata innovativa della disciplina precedente, ma il suo contenuto più di rilievo è sicuramente l’istituzione di un’agenzia governativa, la Federal Trade Commission (FTC), nata con lo scopo di vigilare e imporre l’applicazione delle norme antitrust91.
Il Xxxxxxx Antitrust Act, invece, è una legge emanata a integrazione dello Sherman Act volta a contrastare le operazioni di concentrazione.
1.2 Il franchising americano diventa il modello adottato in Europa
Il franchising moderno, quindi, si è sviluppato contemporaneamente sulle due sponde dell’Atlantico, tuttavia, si continua a sostenere che tale sistema distributivo sia arrivato in Europa dagli Stati Uniti. Questa affermazione non è falsa per il semplice fatto che effettivamente dopo l’espansione nel Nord America è stato il modello statunitense a diffondersi anche nel Vecchio Continente mettendo in secondo piano l’operato di Xxxxxxxx e del suo team.
Ciò si è verificato perché nonostante il modello contrattuale francese fosse simile a quello americano ciò che differenzia le due tipologie di franchising è un elemento psicologico. Il franchisee americano vuole entrare nella rete per ottenere un facile guadagno ed essere autonomo dal punto di vista imprenditoriale; quello europeo è più interessato alla limitazione del rischio nell’aprire una propria attività, cosa che non deve fare se si affilia. Questo si collega con la preferenza del franchisee europeo, a differenza di quello americano, di pagare royalties più elevate, mentre è più restio a pagare alte entrance fees.
Anche il sistema è concepito diversamente: negli Stati Uniti il franchising è un modello alternativo alla grande distribuzione, mentre in Europa sono proprio le catene di distribuzione ad utilizzare il franchising per entrare in mercati a cui sarebbe difficile ed antieconomico accedere direttamente.92
Lo sviluppo non è stato da subito veloce e negli Stati Uniti il vero boom è avvenuto negli ’50 quando è stato costruito il sistema autostradale e di interstatali. A quel punto della storia anche altri produttori avevano deciso di adottare tale sistema e infatti le catene di ristorazione e di fast food hanno contribuito, nei rispettivi ambiti, ad incrementare la diffusione del franchising.
90 Xxxxxxxxx X., Enterprise and American Law, Harvard University Press, 1991
91 Xxxx S. W., The Federal Trade Commission: its History, Activites and Organizations, AMS Press, 1974
92 Devasini P., Il sistema franchising, RCS Libri, Ed. Etas Libri, Milano, 1990
2. PER SE RULE E RULE OF REASON: I DUE STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELLA LEGALITÀ
Nei primi decenni del Ventesimo secolo è emersa la teoria giurisprudenziale, ancora oggi valida ed applicata, della cd rule of reason: ogni forma di restrizione del mercato deve essere sottoposta ad un giudizio di ragionevolezza. Questa implica che una restrizione può essere lecita solo se i suoi effetti limitativi sono, tuttavia, compensati da effetti pro-concorrenziali.
In precedenza, veniva generalmente applicata, una presunzione di illegalità, solo per le cd hardcore restrictions: accordi o pratiche “which because of their pernicious effect on competition and lack of any redeeming virtue are conclusively presumed to be unreasonable and therefore illegal without elaborate inquiry as to the precise harm they harm they have caused or their business excuse for they use”.93 Non c’era spazio per una valutazione discrezionale in base alle circostanze del caso concreto. Questi due criteri sono quelli attualmente applicati dai tribunali federali per dirimere controversie in materia di antitrust e hanno ad oggetto questioni che assai di frequente riguardano i contratti di franchising. Si tratta della rule of reason da una parte, una vera e propria analisi della condotta contestata in quanto anticoncorrenziale; la cd per se violation, criterio basato sulla responsabilità oggettiva, dall’altra. È definita così perché, in base alla per se condemnation theory94, ha ad oggetto violazioni talmente gravi e ingiustificate la cui sola esistenza è sufficiente ad integrare l’illecito tramite un indice presuntivo. La parte non può addurre giustificazioni basate su ragioni commerciali e non è nemmeno necessario ricercare l’esistenza concreta del danno. Il convenuto può solo cercare di limitare l’ammontare del risarcimento. Questo criterio molto rigido generalmente viene applicato nei casi di limitazioni orizzontali della libera concorrenza (attualmente con l’introduzione della rule of reason è essenzialmente questo l’unico caso di violazione per sé)95 che avviene quando società in competizione (attuale o potenziale) tra loro perché poste sullo stesso piano della catena distributiva si accordano tra loro. Tipicamente gli accordi che integrano questo comportamento vengono stipulati per:
• Predeterminare i prezzi di vendita
• Ripartire i mercati o la clientela
• Ridurre o limitare la produzione
• Boicottare o escludere concorrenti dal mercato
00 Xxxxxxxx Xxxxxxx X. Xx. xx Xxxxxx Xxxxxx, 356 U.S. 1 (1958)
94 Pardolesi R., Cucinotta A., Il Foro Italiano, Vol. 130, No.9, settembre 2007
00 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. pp. 3-5
La per se rule non è stata positivizzata in nessun testo normativo ed è invece frutto della giurisprudenza e della vincolatività del precedente. Sono i giudici ad aver deciso, nel tempo, quali condotte (tra le quali rientrano anche alcune violazioni dello Sherman Act) costituivano in ogni caso violazione della normativa antitrust senza necessità di effettuare nessuna considerazione sul caso concreto.96
L’altro, invece, è un criterio di ragionevolezza (rule of reason) che permette al convenuto di giustificare il proprio comportamento tramite un’analisi dettagliata e onerosa delle ragioni economiche e giuridiche, dei mercati e della concorrenza che spieghino il perché della sua condotta astrattamente illecita. Il compito dell’attore, invece, è di provare che l’attività in questione ha causato, oppure potenzialmente può causare, considerevoli effetti negativi sulla concorrenza nel cd mercato rilevante (area all’interno della quale si valuta la condotta)97. L’indagine, quindi, serve a capire se l’attività promuove o riduce la libera concorrenza e viene effettuata prendendo in considerazione: l’origine della condotta, la motivazione alla base, il contesto in cui è stata adottata, lo scopo, l’esistenza di alternative meno restrittive e, ovviamente, l’effetto sulla concorrenza. L‘ambito di applicazione di questo criterio si estende sia alle intese orizzontali non rientranti nella norma sulla responsabilità oggettiva sia alle restrizioni verticali. I casi più frequenti sono:
• Mantenimento di prezzi massimi di vendita (maximum resale price): si tratta di una condotta lecita se la parte che impone di non vendere i beni oltre un certo prezzo stabilito non ha potere di mercato. Nel 1977 la Corte Suprema ha rovesciato decenni di precedenti stabilendo che tale condotta va valutata secondo la rule of reason98. Tuttavia, ci sono ancora Stati che applicano la per se rule a questa condotta e altri che proibiscono sia questa che l’imposizione di prezzi minimi99;
• Mantenimento di prezzi minimi di vendita (minimum resale price o RPM): per decenni se da un lato era possibile suggerire o incentivare rivenditori o franchisees a vendere i beni ad un certo prezzo, dall’altro integrava una per sé violation obbligarli a vendere i beni ad un
96 Pardolesi R., Cucinotta A., Il Foro Italiano, op. cit.
97 Ha due dimensioni: una territoriale e una basata sul prodotto. Il relevant geographic market è l’area in cui il produttore vende i beni e dove l’acquirente può ragionevolmente effettuare acquisti: è necessario analizzare se i prezzi stabiliti in una determinata area influenzano quelli di un’altra, se è così le aree appartengono allo stesso mercato (questa accezione di mercato rilevante non ha generato controversie per violazione delle norme antitrust in materia di franchising. Il relevant product market è il mercato in cui tutti i beni che possono essere sostituiti tra loro sono in competizione poiché l’acquirente può scegliere tra più beni analoghi (es diverse tipologie di detersivo). Le modifiche di prezzo di un bene appartenente a questo mercato sono molto rilevanti perché determineranno la scelta del consumatore su quale prodotto acquistare (cd cross-elasticity of demand).
98 State Oil Co. x. Xxxx, 522 U.S. 3 (1997) ha fatto overruling di Xxxxxxxx x. Herald Co., 390 U.S. 145 (1968) sostituendo tre decenni di applicazione della per se rule alla previsione di prezzi massimi di vendita poiché non esistevano giustificazioni alla presunzione di illiceità
00 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. pp. 8-9
prezzo minimo stabilito. Nel 2007, però, la Corte Suprema nella storica sentenza Leegin100, facendo overruling del quasi centenario precedente Dr Miles101, ha stabilito che anche questa pratica di stabilire il prezzo minimo è retta dalla rule of reason102. La sentenza, tuttavia, non ha autorizzato qualsiasi operazione di fissazione del prezzo minimo; la Corte, infatti, ha precisato che la presenza di determinati requisiti integra, comunque, l’illiceità dell’accordo:
1. Un mercato in cui tutti o quasi i venditori impongono il prezzo minimo ai franchisees; 2. Il franchisor deve detenere potere di mercato; oppure, 3. La limitazione è frutto di accordo (orizzontale) tra i franchisees e viene imposta ai franchisor103;
• Accordi verticali sulla clientela o la distribuzione territoriale (es. esclusiva per un determinato territorio): vengono integrati quando, ad esempio, il franchisor impone al franchisee di vendere solo in un certo territorio o a certi consumatori. In passato queste azioni erano regolate dalla per sé rule e il cambiamento ha avuto delle conseguenze significative. Applicando la per sé rule gli attori che lamentavano tali violazioni risultavano quasi sempre vittoriosi, mentre applicando la rule of reason solo due casi sono stati vinti dall’xxxxxx000;
• Risoluzione unilaterale o rifiuto unilaterale di concludere accordi con certi imprenditori: per la risoluzione è necessaria la giusta causa, mentre il rifiuto di concludere accordi non è illecito a meno che chi si rifiuta (in genere il franchisor) non sia in una posizione di monopolio105;
• Accordi nei quali l’acquisto di un bene dal produttore è condizionato all’acquisto di un altro bene oppure l’acquirente si impegna a non acquistare quel bene da nessun altro (cd tying arrangement). Questo accordo è illegale se ricorrono una serie di requisiti: il bene condizionante (tying) e quello condizionato (tied) sono diversi; il venditore ha un considerevole potere di mercato in relazione al bene condizionante tale da influire sul mercato del bene condizionato; il convenuto così facendo impedisce ai consumatori di acquistare da altri il prodotto condizionato; la condizione influisce sul volume commerciale del mercato del bene condizionato106;
100 Leegin Creative Leather Products, Inc. v. PSKS, Inc, No. 06-480, 551 U.S. (2007)
101 Dr. Miles Medical Co. X. Xxxx X. Park and Sons Co., 220 U.S. 300 (1919)
102 Tuttavia, i vari Stati non seguono uniformemente il precedente Leegin, molti ritengono ancora applicabile la per se rule.
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. p. 9; Xxxxxxxxxxx X., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, op. cit.
104 Graphic Prods. Dist., Inc., v. Itek Corp., 717 F.2d 1560 (11th Cir. 1983) il fornitore aveva più del 70% delle quote di mercato; Xxxxxxxx v. Sony Corp., 622 F.2d 1068 (2d Cir. 1980) il convenuto aveva solo il 12% di quote in un mercato oligopolistico, ma le motivazioni delle restrizioni erano assolutamente infondate
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. pp. 15-16
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. p. 14
• Perfezionamento dell’accordo solo se l’acquirente accetta di non acquistare prodotti medesimi da un altro produttore (cd exclusive appointments): caso frequente è quello del franchisor che concede l’esclusiva di vendita in un certo territorio ad un franchisee. Questa pratica non è mai illegale a meno che il franchisor non abbia il monopolio del mercato in quanto non ci sono sostanzialmente altri prodotti sostitutivi107.
Il convenuto a sua volta avrà la possibilità di difendersi spiegano quali sono le condizioni del mercato nel settore del prodotto in questione (compresa la quota di mercato che detiene l’imprenditore) e le ragioni economiche per cui invece la sua condotta debba considerarsi non lesiva di alcuna norma e quindi lecita.
Attualmente è difficile che si verifichi una violazione della rule of reason della Sezione 1 se un franchisor possiede meno del 30% della quota di mercato. Il motivo per cui colossi del franchising non violano queste disposizioni è dovuto al fatto che se ci sono molti competitors che operano nelle stesse aree è sostanzialmente impossibile che uno riesca ad ottenere tale quota. McDonald, ad esempio, ha migliaia di ristoranti nel mondo ma il mercato di riferimento in cui si trovano i prodotti interscambiabili è talmente frammentato per l’elevato numero di altre catene di fast food o di ristoranti a “basso prezzo” che nemmeno il colosso di Mr. Xxxx raggiunge il fatidico 30%108.
In conclusione, quando si utilizza questo criterio il quesito a cui si deve rispondere è se le pratiche realizzate, per quanto in apparenza lesive o restrittive della concorrenza, comportino in concreto dei benefici per la stessa oppure solo effetti negativi.
Per molto tempo l’applicazione della rule of reason ha costituito la principale differenza tra il diritto antitrust USA e quello UE, mentre attualmente anche in ambito europeo essa è utilizzata come parametro per elaborare un giudizio di legalità relativamente ad una condotta potenzialmente lesiva della concorrenza.
La Corte di Giustizia ha sfruttato proprio il meccanismo della rule of reason nella sentenza Pronuptia per individuare quali clausole del contratto di franchising oggetto della controversia fossero lecite. La Corte ha operato un bilanciamento degli effetti positivi e negativi di tali clausole rispetto all’art. 101, par. 1 TFUE. La valutazione ha fatto emergere gli effetti pro-concorrenziali portando ad escludere che si potesse causare una restrizione della concorrenza. È stata una sentenza cardine per la giurisprudenza dell’Unione in tema di franchising ed intese verticali perché si è dimostrato che
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers op. cit. p. 14
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, op. cit
esistono condotte che sono sottrarre al divieto di cui all’art. 101, par. 1 TFUE pur senza rientrare nel regime derogatorio previsto all’art. 101, par. 3.109
2.1 La portata innovativa del caso Xxxxxx
L’oggetto della controversia è semplice: Leegin è un produttore di accessori e cinture da donna commercializzati con il marchio Brighton a livello nazionale attraverso 5000 esercizi indipendenti e 70 punti vendita. Dal 1995 PSKS, titolare di un negozio di abbigliamento ed accessori femminili in Texas e attore nella controversia, acquista i prodotti della linea Brighton. Nel corso del tempo tale marchio diventa il più importante delle decine di brand distribuiti da quel negozio ed è responsabile di far guadagnare una buona parte dei profitti (talvolta addirittura il 50%). Nel 1997 Xxxxxx introduce la “Brighton Retail Pricing and Promotion Policy” che impone ai distributori del marchio di non applicare scontistiche o prezzi inferiori a quelli stabiliti. È nel 2002 che Xxxxxx scopre che Xxx’x Kloset (nome del negozio di cui PSKS è titolare) applica uno sconto del 20% su tutti i prodotti della lenea Brighton e a nulla sono servite le richieste di interrompere tale pratica; perciò, Xxxxxx decide di non rifornire più il punto vendita. La conseguenza è che le vendite del negozio crollano e comincia il contenzioso.110
Il motivo di ricorso di PSKS innanzi alla Corte distrettuale del Texas si fonda sull’affermazione che la pratica di Leegin di determinare il prezzo minimo di rivendita sia una violazione della sezione 1 dello Sherman Act in quanto genera una restrizione delle pratiche commerciali. La controparte convenuta, Xxxxxx, non nega di attuare tale pratica, ma ne afferma la liceità per due ordini di motivi:
1. stabilire un prezzo minimo produce considerevoli vantaggi e 2. si tratta di una pratica antimonopolistica in quanto si concretizza in una condotta unilaterale111. Quest’ultimo aspetto è rafforzato dall’orientamento emerso nella sentenza Colgate112, la quale, pur essendo una sentenza del 1919 (di poco successiva alla sentenza Dr. Xxxxx), aveva già creato una crepa nella per se rule. La Corte Suprema, infatti, in questo caso ne aveva limitato l’operatività della presunzione di illegittimità introducendo quella che poi è stata rinominata la cd Colgate rule: in base ad essa è lecito che un
109 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Contratti di distribuzione, op. cit
110 Giannaccari A., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, op. cit. e Xxxxxxxxx L.K, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, op. cit
111 Giannaccari A., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, op. cit.
112 United States v. Colgate & Co., 250 U.S. 300, 317 (1919). La sentenza prevede che un produttore possa stabilire il prezzo che i distributori devono applicare e se essi si rifiutano il produttore può lecitamente non fornire più loro i beni, purché tale pratica sia attuata unilateralmente dal produttore.
produttore stabilisca il prezzo e si rifiuti di vendere ai rivenditori che non si adeguano, purché il produttore agisca unilateralmente, senza l’adesione dei retailers113.
Xxxxxx in primo grado ha giustificazione la propria condotta spiegando da un lato che così facendo ha creato effetti in realtà pro-competitivi perché la RPM incoraggia i rivenditori a promuovere il marchio Brighton e dall’altro spiegando che l’applicazione di prezzi uniformi è una tutela del marchio stesso perché prezzi difformi comportano confusione e sviamento della clientela.
La Corte distrettuale non si lascia convincere da tali argomentazioni e applica la per se rule come sancita dal risalente precedente Dr. Miles. Reputa, quindi, come illegittimo a priori il comportamento e perciò non ammette le testimonianze degli esperti e ne considera irrilevanti gli effetti.
Il convenuto soccombente (i. e. Xxxxxx) impugna in appello davanti al Quinto Circuito la pronuncia di primo grado. Tuttavia, anche questa Corte rimane vincolata al precedente Dr. Xxxxx e ignora le giustificazioni pro-competitive di Xxxxxx. A fronte di queste valutazioni la sentenza di secondo grado è conforme a quella appellata.
Allora Xxxxxx decide di ricorrere alla Corte Suprema affermando di essere un produttore di modeste dimensioni (implicando di non avere quota di mercato significativa tale da produrre distorsioni del mercato) e che l’eliminazione della libera determinazione di sconti fosse una scelta pro-competitiva per tre motivi:
I. I prezzi differenti producono confusione e sviamento dei clienti, pertanto stabilire dei prezzi minimi determina, al contrario, uniformità e sicurezza per la clientela;
II. I singoli punti vendita in questo modo si sentono incentivati a promuovere i prodotti e ad erogare servizi aggiuntivi per incentivare all’acquisto anche in assenza di vendite promozionali;
III. Gli sconti discrezionali dei singoli negozi rendono più difficile rafforzare l’immagine commerciale del marchio.
Nel 2006, allora, la Corte ammette i certiorari114 per verificare se tale accordo dovesse ricadere nell’alveo della per se rule o meno.
La pronuncia della Corte Suprema è nota: viene affermata la necessità di cambiare il paradigma e di applicare la rule of reason anche agli accordi che prevedono un prezzo minimo di rivendita. È stata, però, una decisione presa tutt’altro che all’unanimità: cinque dei nove giudici si sono pronunciati in tale senso, mentre gli altri quattro erano contrari.
113 Pardolesi R., Cucinotta A., Il Foro Italiano, op. cit.
114 Ordine di una corte superiore ad una corte inferiore di consegnare gli atti di un giudizio pendente innanzi ad essa affinché la corte superiore possa riesaminare il procedimento e accertare la validità degli atti compiuti.
Il tema sotteso alla causa Xxxxxx è quello dei rapporti verticali e del diritto del produttore di imporre prezzi minimi ai rivenditori. Si tratta di una questione risalente e l’enforcement di questa pratica è sempre rimasto ancorato alla pronuncia Dr. Xxxxx del 1911, la quale ne prevedeva l’illiceità per se per violazione della Sezione 1 dello Sherman Act. Dopo quasi un secolo dall’emanazione della sentenza Dr. Xxxxx la Corte Suprema ha ritenuto di non dover solamente risolvere la controversia sollevata dal ricorrente, ma ha reputato di dover determinare a monte se lo standard valutativo già esistente (i.e. la per se rule) dovesse essere mantenuto oppure se fosse necessario un cambiamento di tendenza (come chiedeva Xxxxxx e come poi la Corte ha affermato). L’aspetto da valutare era non tanto la sussistenza di un accordo sul prezzo minimo (tutte le parti, infatti, avevano riconosciuto l’esistenza di tale accordo), quanto l’analisi delle ragioni giuridico-economiche che ammettessero o meno l’overruling.115
I giudici della maggioranza cominciano la disamina affermando che una condotta è intrinsecamente illegittima se produce effetti anti-competitivi tutte le volte (o quasi) in cui viene attuata. Tali effetti consistono nella restrizione della concorrenza e nella diminuzione dell’output.
I giudici della maggioranza riconoscono che, effettivamente, ci sono casi in cui l’imposizione di prezzi minimi di vendita comporta la commissione di illeciti: ciò accade quando tramite la creazione di cartelli, sia di produttori che di rivenditori, si ottengono rendite monopolistiche che determinano “flessione dell’output o [alla] contrazione della concorrenza” 116 . Rientra anche il caso di determinazione del prezzo minimo da parte di un produttore dominante o da un rivenditore con particolare forza sul mercato, se non è assistita da accordi orizzontali. È giustificato, allora, applicare la per se rule se gli effetti sul mercato sono manifestamente anti-competitivi117 e non abbiano nessuna virtù redimente.
Tuttavia, proseguendo nel ragionamento, essi riconoscono anche che in altrettante circostanze gli effetti di suddette condotte sono pro-competitivi: si diminuisce la concorrenza intra-brand e viene stimolata la concorrenza inter-brand. Ciò avviene perché la fissazione di prezzi minimi pone fine al cd free riding dei rivenditori: stabilire un medesimo prezzo di vendita stimola il rivenditore ad investire in servizi e pubblicità che sono un vantaggio per il consumatore finale, il quale avrà così maggiori scelte nel mercato, e un ottimo strumento competitivo della concorrenza inter-brand.
Gli Amici Curiae di DOJ, FTC ed ABA118, nonché di numerosi economisti fatti pervenire ai giudici della Suprema Corte hanno confermato questa posizione.
115 Giannaccari A., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, Fascicolo 2, agosto 2007, Il Mulino
116 Xxxxxxxxxxx X., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, op. cit. e Xxxxxxxxx L.K, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, op. cit.
117 Lo stesso principio è stato affermato dalla Corte anche nella sentenza Sylvania (nota successiva)
118 Department of Justice, Federal Trade Commission, American Bar Association
I cinque giudici della maggioranza hanno poggiato la propria tesi su due ulteriori aspetti, entrambi in diretto contrasto con la dissenting opinion degli altri giudici del collegio: da un lato i minori costi dell’enforcement nel caso di applicazione della per se rule non giustificano il perdurare di questo criterio in quanto è necessario valutare il merito della questione e lo strumento migliore per tutelarla, non la convenienza economica dell’uno o dell’altro rimedio. Inoltre, la Corte aveva già sostituito la validità della per se rule con la rule of reason per altre tipologie di accordi verticali119 e la RPM era rimasta l’unica condotta ancorata al più risalente criterio.
Sulla base di queste motivazioni e di una necessaria interpretazione dinamica dello Sherman Act la maggioranza dei giudici ha affermato che bisognava sostituire il paradigma della per se rule con quello della rule of reason.
Per riassumere, le motivazioni che hanno fatto decidere alla maggioranza di utilizzare il sistema della rule of reason sono state: 1. La diminuzione della concorrenza intra brand; 2. Lo stimolo alla concorrenza inter brand; 3. La maggiore efficacia ed accuratezza della rule of reason; 4. L’utilizzo di tale criterio relativamente ad altre tipologie di accordi verticali.
I giudici contrari fondavano il proprio ragionamento non tanto sulla negazione dei benefici teorici di RPM, ma da un lato si focalizzavano sui costi amministrativi e le incertezze del diritto derivanti dall’approccio della rule of reason e dall’altro su una analisi costi-benefici, affermando che non è possibile stabilire che questi ultimi siano maggiori e, anzi, erano ritenute remote le occasioni di prevalenza dei benefici.
Sicuramente la decisione di utilizzare il criterio della rule of reason non rende facile la verifica della liceità o meno dell’operazione (al contrario dei casi di applicazione della per se rule), ma al contempo si tratta di una scelta più coerente e rispettosa delle dinamiche del mercato e dell’economia. La valutazione rende necessario attestare il potere di mercato, analizzare le politiche distributive dei concorrenti, le barriere all’entrata, valutare la struttura del mercato e l’esistenza di valide alternative e, ovviamente, effettuare un bilanciamento degli effetti pro e anti-competitivi.
Questi oneri che inevitabilmente ricadono in capo ai giudici e il fatto che una decisione adottata dalla Corte Suprema federale non è vincolante per le Corti statali nei cui Stati (ad esempio New York e California) la legge prevede l’illegittimità per se delle RPM comportano un trattamento non uniforme
119 Continental T.V. Inc. v. GTE Sylvania Inc., 433U.S. 36 (1977) ha fatto overruling di United States x. Xxxxxx, Xxxxxxx & Co., 388 U.S. 365 (1967) poiché le restrizioni verticali non di prezzo non potevano essere per se illecite in quanto questo non avrebbe permesso di considerare ragioni economiche pro-competitive e di stimolo alla concorrenza inter-brand invece lecite; State Oil Co. x. Xxxx, 522 U.S. 3 (1997) e Xxxxxxxx x. Herald Co., 390 U.S. 145 (1968) (nota 98)
delle politiche di restrizione verticale di prezzo minimo.120 Lo Stato del Maryland non solo vieta questa pratica, ma la qualifica come reato e ben altri 14 Stati la proibiscono a loro volta.121
2.2 Gli effetti della pronuncia Leegin sul franchising
È indubbio che la sentenza della Corte Suprema sul caso Xxxxxx abbia avuto effetti molto benefici per i franchisors che preferivano che i loro prodotti fossero venduti a prezzo uniforme in tutti i punti vendita adibiti alla commercializzazione, senza la possibilità per i rivenditori di applicare scontistiche non autorizzate. Ciò, però, non ha automaticamente comportato la vittoria dei franchisors in tribunale. Nella controversia Xxxxxx Xxxx Truck Sales & Service x. Xxxx Trucks, Inc122 il tribunale distrettuale ha confermato la liceità del previsione del prezzo minimo; in appello il Terzo Circuito, invece, ha rovesciato la pronuncia di primo grado affermando in primo luogo che Mack Trucks aveva concluso un accordo orizzontale di non concorrenza con dei concorrenti e successivamente aveva concluso un accordo verticale in base al quale negava o ritardava l’assistenza alla vendita a tutti i rivenditori che operavano al di fuori dell’area a loro assegnata, ostacolando così la concorrenza. Il problema di questa strategia è che questa condotta era stata imposta dal franchisor, e non è stata, invece, il frutto di una libera scelta strategica di marketing dei rivenditori: questo nella sentenza Xxxxxx era individuato come uno degli elementi di illiceità.
D’altro canto, la Corte, invece, in Xxxxxx v. Tempur-Pedic Intl., Inc123 ha rigettato una class action avviata da un gruppo di consumatori contro Tempur-Pedic affermando che i suoi accordi di prezzo minimo con i distributori rientravano nella pronuncia Leegin in quanto gli attori non erano riusciti a dimostrare che la condotta del convenuto avesse effetti anticoncorrenziali nel mercato rilevante.124
3. FRANCHISE AGREEMENT: LEGGE FEDERALE E NORME STATALI SI INTEGRANO TRA LORO
Il franchising senza dubbio sin dalla sua prima comparsa ha notevolmente impattato il modo in cui produttori, rivenditori e anche consumatori finali si approcciavano alla commercializzazione di beni e servizi. La rapida diffusione geografica ed il numero sempre crescente di franchise avviati o ingranditi ha reso necessaria non solo una normazione del sistema distributivo emergente, ma anche una disciplina di tutela della concorrenza e della posizione dei soggetti più deboli.
120 Giannaccari A., Il caso Xxxxxx, Mercato Concorrenza Regole, op. cit.
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, op. cit. p. 12
122 530 F.3d 204 (3d Cir. 2008)
123 626 F.3d 1327 (11th Cir. 2011).
000 Xxxxxxxxx X.X, Xxxxxxx P. A., Antitrust Essentials for Franchise Lawyers, op. cit. pp 11-12
Anche gli Stati Uniti, tuttavia, come poi è accaduto in Italia, non hanno adempiuto subito alla necessità di disciplinare il franchising.
Il franchising ha ottenuto la struttura che conserva tutt’oggi negli anni ’50 e ’60. L’incremento avvenuto in quel periodo, sia del numero di franchise avviati sia dei molteplici settori in cui è stato adottato tale sistema, era accompagnato, però, dalle scarsissime informazioni comunicate ai franchisees che entravano nella relazione commerciale senza sostanzialmente avere contezza di chi fosse il partner commerciale e di quale fosse il suo passato come imprenditore o di quali fossero le sue intenzioni per il futuro dell’attività.
A fine anni ’60 diversi Stati tentarono di aggirare il problema tramite le “security regulation laws” e “unfair trade practices laws” statali con risultati inadeguati. Nel 1970 la California è stata il primo Stato ad emanare una legge (Franchise Investment Law, CFIL) rivolta direttamente a regolare l’offerta e la vendita di franchise. Essa prevedeva anche la necessità di far pervenire un Disclosure Document ai possibili franchisees prima di iniziare qualsiasi relazione contrattuale. Negli anni appena successivi 14 altri Stati hanno emanato leggi simili.
Inoltre, nel 1975 la Midwest Securities Commissioners Association ha sviluppato un documento per la registrazione e comunicazione di informazione sul franchise data l’inadeguatezza delle security laws. La Uniform Franchise Offering Circular (UFOC) e le UFOC Giudelines nei successivi cinque anni sono state usate come modello da molteplici Stati.
Tali interventi statali hanno determinato maggiori oneri, anche economici, per il franchisor e maggiore consapevolezza per il franchisee che volesse entrare a far parte della rete. Si trattava, però, di leggi emanate da singoli Stati; pertanto, non essendo uniformi e nemmeno presenti in tutti gli Stati, non potevano costituire la soluzione definitivamente della questione. È stato solo alla fine degli anni ’70 che è apparso il primo intervento normativo a livello federale125.
Nel 1979 è stata emanata la FTC Franchise Rule, soggetta ad essere applicata, quindi, in tutti gli Stati.
È un dato interessante che norme inerenti ad una tipologia contrattuale siano divenute diritto positivo sia a livello statale che a livello federale, in un Paese in cui sono privilegiate le prassi di mercato e dei relativi operatori e l’utilizzo dei precedenti a cui è necessario attenersi (cd binding precedents). In questo caso, invece, il fenomeno del franchising è apparso di così ampio respiro e le sue implicazioni per tutti i soggetti coinvolti sono risultate così rilevanti da necessitare una normazione omogenea e vincolante per tutti gli Stati membri. Un contratto di franchising, infatti, coinvolge
125 Xxxxxxx X., The FTC Franchise Registry: Its Time Has Come, Franchise Law, Journal, Vol. 29, n. 1 (summer 2009), American Bar Association
investimenti di tempo e denaro significativi in particolare per il franchisee che prima dell’emanazione della Franchise rule era privo di garanzie e anche di protezione dei propri interessi. Lo scopo della legge, infatti, era quello di scongiurare tentativi di frode o di erronea rappresentazione dei fatti relativamente all’offerta e alla vendita del franchise da parte del franchisor e a danno dei potenziali franchisees.126
L’aspetto di maggior rilievo disciplinato dalla FTC franchise rule per prevenire il verificarsi di tali evenienze è quello inerente agli obblighi di pre-contractual disclosure che la normativa pone in capo al franchisor. Questa previsione è divergente rispetto alla successiva legge italiana (l. 129/04) che, invece, pur disciplinando a sua volta tale obbligo, lo pone in capo ad entrambe le parti del rapporto. La scelta dei legislatori americani è comunque comprensibile e, secondo parte della dottrina, più coerente rispetto a quella effettuata dai legislatori italiani, in quanto è certamente il franchisor la parte forte del rapporto. Da ciò deriva che egli potrebbe riuscire a convincere il (futuro) franchisee, tramite omissioni o essendo reticente nel fornire informazioni, ad entrare nella rete contrattuale. Il potenziale affiliato, così, prenderebbe una decisione male informato, senza conoscere tutte le questioni rilevanti e ignorando fattori utili per il proprio convincimento. Il franchisor, infatti, potrebbe sfruttare l’asimmetria informativa (fisiologica in tutti i contratti) e la sua posizione, a sua volta inevitabilmente di vantaggio, per concludere un contratto che ponga il franchisee in una posizione di lock in o di sudditanza alle decisioni dell’affiliante, ad esempio, in materia di recesso. Per evitare ciò l’informativa precontrattuale è stata posta in capo al soggetto che più facilmente può attuare comportamenti sleali e dannosi verso la propria controparte: l’affiliante.
Tale obbligo si concretizza nella necessità di compilare un modulo, chiamato “offering circular” oppure FDD (franchising disclosure document) che prevede di indicare una serie di informazioni prestabilite.
Il documento, composto da 23 “Items”, deve essere compilato e poi consegnato al potenziale franchisee almeno 14 giorni prima (cd cooling off period) che egli firmi il contratto o versi qualsiasi corrispettivo affinché egli abbia il tempo sufficiente per valutare le informazioni ricevute.
La FTC franchise rule prevede specificamente una sezione (subpart C) chiamata “Contents of a Disclosure Document” che, al par. 436.4, elenca le informazioni precontrattuali da comunicare:
• Descrizione del franchisor, della sua eventuale parent company, delle sue eventuali società affiliate e/o sussidiarie, nonché del tipo di business proposto;
• Esperienza e background del franchisor nel settore di riferimento, l’esperienza dei membri del consiglio di amministrazione nonché dei dipendenti chiave;
126 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, International Franchise Association, 54th Annual Legal Symposium, 2022
• Eventuali contenziosi e procedure concorsuali pendenti o conclusi;
• Quota iniziale e royalties successive;
• Stima dell’investimento iniziale a carico del franchisee per iniziare l’attività;
• Condizioni e termini di un eventuale financing proposto dal franchisor;
• Assistenza fornita dal franchisor al franchisee, inclusa ricerca della location, manuali, sistema informatico, training iniziale;
• Territorio ed esclusiva;
• Xxxxxx, brevetti ed altri diritti della proprietà intellettuale detenuti dal franchisor;
• Restrizioni sui prodotti o servizi che il franchisee può acquistare e vendere;
• Sommario dei termini contrattuali più importanti;
• Informazioni finanziarie relative alla casa madre.
Si tratta di un elenco di informazioni che vengono meglio specificate nel successivo articolo, in cui è descritto in modo analitico quali dati debba fornire il franchisor per ogni categoria.
Gli Stati che hanno una propria normativa sul franchising integrano tale elenco con ulteriori campi in un addendum del contratto di franchising o dello FDD. Lo Stato del Minnesota, ad esempio, incrementa la tutela per i potenziali franchisees prevedendo un elenco di “unfair practices” vietate. Il mancato rispetto della legge – perché non è stata fatta la registrazione negli Stati in cui è richiesta, perché il FDD è incompleto, fuorviante o falso oppure per violazione delle norme introdotte dai singoli Stati – espone il franchisor a sanzione e può comportare anche un risarcimento del danno per i franchisee lesi127.
La FTC Rule oltre a disciplinare l’informativa precontrattuale regola anche il contratto di franchising. Si tratta una normativa “self-implementing precommitment disclosure” che viene applicata, però, in via residuale se la normativa statale applicabile è contraria o fornisce meno tutela. Nonostante questa premessa è stato il par 436 (16 C.F.R) - che definisce cos’è il franchising – ad essere stato emendato nel 2007 affinché fosse più uniforme rispetto alle leggi, non il contrario.
Questa sezione della legge inizia dando una serie di definizioni tra cui, ovviamente, quella di
franchise:
h) Franchise means any continuing commercial relationship or arrangement, whatever it may be called, in which the terms of the offer or contract specify, or the franchise seller promises or represents, orally or in writing, that:
127 Xxxxxx C.A., Xxxxxx C.R., Xxxxxx B.A., An Introduction to Franchising, Minnesota Department of Employment and Economic Development, Minnesota, Ed. 3, 2008
(1) The franchisee will obtain the right to operate a business that is identified or associated with the franchisor's trademark, or to offer, sell, or distribute goods, services, or commodities that are identified or associated with the franchisor's trademark;
(2) The franchisor will exert or has authority to exert a significant degree of control over the franchisee's method of operation, or provide significant assistance in the franchisee's method of operation; and
(3) As a condition of obtaining or commencing operation of the franchise, the franchisee makes a required payment or commits to make a required payment to the franchisor or its affiliate.128
Il franchise, quindi, viene qualificato non in base al nomen iuris scelto dalle parti (“whatever it may be called"), ma per la sussistenza di determinate caratteristiche: 1. Il franchisee svolge una attività (vende beni o fornisce servizi) che si indentifica o è associata al marchio del franchisor; 2. il franchisor esercita un certo grado di controllo del modello di business del franchisee; 3. Come condizione per instaurare il rapporto contrattuale il franchisee deve effettuare un pagamento al franchisor. Si può trovare una analogia con l’art. 1, l. 129/04, che a sua volta comincia definendo l’affiliazione commerciale, ma anche con la concezione in base alla quale sono le caratteristiche effettive del contratto che lo inquadrano in una certa fattispecie e non il nome che le parti hanno attribuito al contratto.
La norma dopo aver dato la definizione dei termini più rilevanti prosegue elencando le informazioni oggetto di disclosure, prima sommariamente e poi nel dettaglio.
Il par. 436.3 prevede in via generale le informazioni da rendere note alla controparte:
b) The franchisor's name, type of business organization, principal business address, telephone number, and, if applicable, e-mail address and primary home page address.
c) A sample of the primary business trademark that the franchisee will use in its business.
d) A brief description of the franchised business.
e) The following statements: 1.The total investment necessary to begin operation of a [franchise system name] franchise is [the total amount of Item 7 (§ 436.5(g))]. This includes [the total amount in Item 5 (§ 436.5(e))] that must be paid to the franchisor or affiliate.
Queste informazioni sono specificate al successivo par 436.5 (“Disclosure items”) in cui vengono indicati in modo analitico quali dati debbano essere forniti. Le informazioni più rilevanti riguardano le entrance fees, gli investimenti iniziali richiesti e l’analisi aziendale (eventuali controversie, problemi finanziari, anni di operatività come franchising), ma non sono le uniche.
128 xxxxx://xxx.xxxx.xxx/xxxxxxx/xxxxx-00/xxxxxxx-X/xxxxxxxxxx-X/xxxx-000/xxxxxxx-X/xxxxxxx-000.0
Di seguito alcuni esempi degli adempimenti richiesti dalla disciplina federale:
Item 2: Business Experience. Disclose by name and position the franchisor's directors, trustees, general partners, principal officers, and any other individuals who will have management responsibility relating to the sale or operation of franchises offered by this document. For each person listed in this section, state his or her principal positions and employers during the past five years, including each position's starting date, ending date, and location.
Il FDD richiede che venga indicata l’esperienza conseguita nei cinque anni precedenti la redazione del FDD stesso da direttori, trustees, partners e, in generale, da tutti coloro che sono coinvolti in operazioni di vendita del franchise.129
Da ciò si evince che è fondamentale che il franchisee sia a conoscenza di chi sono le persone che gestiscono e che sono responsabili dell’impresa e delle operazioni legate al franchise poiché è a loro che dovrà fare riferimento per organizzare la propria attività. Inoltre la Franchise Rule Compliance Guide (2008), ovvero una guida pratica al corretto adempimento degli oneri posti dalla FTC Franchise Rule soprattutto a seguito dei suoi emendamenti, pone per iscritto un orientamento, già diffuso nella prassi, relativo alla “management responsability”: il soggetto al quale deve essere attribuita la responsabilità delle attività svolte non è tale in relazione al titolo formale che detiene, ma ciò che rileva è che egli si occupi della vendita del franchise o di altre operazioni così che sia effettivamente lui ad aver creato con le sue azioni un legittimo affidamento nel potenziale franchisee relativamente alla sua esperienza, formulazione delle clausole e gestione dell’affare.130
Item 3: Litigation.
In questo paragrafo sono previste tutte le situazioni legali riguardanti il franchisor o qualsiasi soggetto legato ad esso (predecessore o affiliato) che promuove vendite di franchise e garantisce l’adempimento del franchisor o soggetti che lavorano all’interno dell’impresa con un ruolo di management (nel significato ampio riportato sopra). Devono essere comunicate, però, solo quelle cause che si ritiene i potenziali franchisee abbiano diritto e interesse a conoscere:
(A) An administrative, criminal, or material civil action alleging a violation of a franchise, antitrust, or securities law, or alleging fraud, unfair or deceptive practices, or comparable allegations.
129 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
130 Xxxxxxx X. X., Xxxxxx S., FTC releases franchise rule compliance guide, Franchise Law Journal, Vol. 28, No. 1 (summer 2008), pp. 20, American Bar Association; 130 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
(B) Civil actions, other than ordinary routine litigation incidental to the business,
Was a party to any material civil action involving the franchise relationship in the last fiscal year
Disclose whether the franchisor; a predecessor; a parent or affiliate who guarantees the franchisor's performance; an affiliate who has offered or sold franchises in any line of business within the last 10 years; or any other person identified in § 436.5(b) of this part is subject to a currently effective injunctive or restrictive order or decree resulting from a pending or concluded action brought by a public agency and relating to the franchise or to a Federal, State, or Canadian franchise, securities, antitrust, trade regulation, or trade practice law.
Devono essere comunicate due tipologie di procedimenti pendenti: 1. Qualsiasi azione amministrativa, penale o “materiale”131 che presuppone una violazione di una norma sul franchising o antitrust oppure nel caso di accusa di frode o di pratica commerciale scorretta o ingannevole; 2. Azioni civili che sono rilevanti per un numero considerevole di franchisees e in relazione alle dimensioni, tipologia e situazione finanziaria per quel sistema di franchising o per le relative operazioni di business. L’ipotesi
n. 2 deve essere valutata in base ad un approccio caso per caso e tenuto conto della specifica attività di cui si occupa quel franchise. Devono essere comunicate anche le cause civili rilevanti instaurate (non pendenti) nell’anno fiscale precedente alla redazione del FDD. Inoltre, è obbligatorio comunicare anche tutte le cause e le azioni amministrative che producono ancora effetti nei confronti del franchisor o dei soggetti elencati nell’item 2 che sono avvenute nei 10 anni precedenti la data del FDD e in cui il soggetto coinvolto è stato ritenuto colpevole di violazioni di norme antitrust o sul franchising, oppure di frode o di pratica commerciale scorretta o ingannevole.
È stato precisato che devono essere comunicati anche gli accordi confidenziali di risoluzione di controversie purché, ovviamente, siano inerenti all’attività di franchisor dell’imprenditore.132
Item 5: Initial Fees. Disclose the initial fees and any conditions under which these fees are refundable. […] For this section, “initial fees” means all fees and payments, or commitments to pay, for services or goods received from the franchisor or any affiliate before the franchisee's business opens, whether payable in lump sum or installments.
Questo punto riveste una importanza pratica poiché impone che vengano previste con precisione le somme che devono essere versate o gli impegni a pagare che l’affiliante si assume prima della conclusione del contratto ed è anche previsto di disciplinare le condizioni per il rimborso. Inoltre, è
131 Con “material civil action” si intende una azione legale che probabilmente influenzerà la decisione di un potenziale
franchisee di investire nel franchising. Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
132 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
sicuramente cruciale per i potenziali franchisee sapere, prima di essersi obbligati in alcun modo con il franchisor, che impegno economico essi si andrebbero ad assumere.
L’item 6 prevede ulteriori, ma eventuali, quote che possono essere periodiche (come le royalties o il contributo per il fondo per le operazioni pubblicitarie) oppure legate ad operazioni specifiche (come la quota per il rinnovo del franchise o per il suo trasferimento). In entrambi i casi ne deve essere indicata la tipologia, l’ammontare e il termine entro il quale devono essere versate.133
Item 13 : Trademarks.
(1) Disclose each principal trademark to be licensed to the franchisee.
(2) Disclose whether each principal trademark is registered with the United States Patent and Trademark Office.
Questo aspetto è particolarmente importante perché tra gli adempimenti preliminari che servono negli Stati Uniti per avviare un franchising oltre allo studio di mercato è anche necessario che il marchio dell’imprenditore sia registrato validamente.
Innanzitutto, con trademark il Xxxxxx Act (1946) comprende ogni parola, nome, simbolo, disegno, o ogni loro combinazione “used by a person, or which a persona has bona fide intention to use in commerce and applies to register”. Le caratteristiche che deve avere il trademark perché possa essere validamente registrato, invece, sono: rappresentazione grafica, capacità distintiva, liceità, novità. Inoltre, è necessario che il richiedente non abbia agito in mala fede quando ha presentato la richiesta di registrazione. La legislazione americana richiede anche (a differenza di quanto avviene nell’ordinamento comunitario) che la capacità distintiva del marchio sia dimostrata dall’actual use, cioè dall’utilizzo esclusivo e continuato durante un determinato periodo di tempo.134
Per ogni trademark il franchisor deve indicare le informazioni relative alla registrazione presso lo United States Patent and Trademark Office (USPTO), qualsiasi limitazione posta al franchisee sull’uso del marchio e se sussistono diritti precedenti oppure violazioni precedenti sull’uso del marchio nello Stato in cui si svolgerà l’attività di franchising che potrebbero avere conseguenze concrete e rilevanti sull’uso che il franchisee può fare del marchio stesso.
Anche l’item 17 è molto rilevante perché consiste in una tabella in cui devono essere indicate analiticamente le caratteristiche del rapporto di franchising che il franchisor offre ai potenziali franchisees. Le informazioni che devono essere incluse riguardano: la durata del contratto; l’eventuale diritto del franchisee di rinnovare il contratto; le condizioni per terminare il rapporto;
133 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
134 Xxxxxxxxx X., Diritto comparato della proprietà intellettuale, Il Mulino, 2011
eventuali restrizioni di ciascuna parte sul trasferimento del franchise; la stima degli investimenti iniziali; l’assistenza garantita dal franchisor e i corsi di aggiornamento; la validità della clausola di non compete in capo al franchisee per il periodo successivo alla conclusione o alla risoluzione del contratto; quale legge disciplina il rapporto contrattuale e quale legge governa la risoluzione delle eventuali controversie che dovessero insorgere. 135
Questo elenco di informazioni che sono oggetto di comunicazione necessaria coincide con le informazioni previste nella legge italiana agli artt. 3 e 4. Anche se la normativa americana è molto più specifica e dettaglia meglio i dati che devono comunicati, è possibile riscontrare che le informazioni oggetto di disclosure sono le medesime.
Gli obblighi informativi previsti nella FTC Rule costituiscono il livello minimo di informazioni che devono essere fornite. È possibile che i singoli Stati, però, soprattutto i Registration States, aggiungano ulteriori oneri informativi che devono essere rispettati da tutti i franchisors che intendano offrire o vendere un franchise in quello Stato. Generalmente gli oneri aggiuntivi sano contenuti in un addendum al FDD.
La tipologia più significativa di oneri aggiuntivi riguarda i cd “state-specific risk factors”. Questi fattori di rischio sono inclusi: in relazione allo Stato in cui si vuole commercializzare il franchise; la modalità di risoluzione della controversia prevista; se sono imposti degli obiettivi minimi di vendita; in relazione alle condizioni finanziarie e di esperienza del franchisor. Gli Stati, però, non hanno scelto unanimemente quali fattori debbano inclusi o come questi debbano essere valutati e questo implica la necessità che di volta in volta i franchisor debbano verificare cosa la normativa di riferimento richieda loro.136
La previsione dettagliata di tutti gli aspetti oggetto di comunicazione alla controparte è suscettibile di deroghe per espressa previsione nella normativa, la quale, infatti, comprende una serie di esenzioni specifiche dagli obblighi di disclosure. Ciò in relazione a due aspetti: la tipologia di transazione effettuata (ad esempio in caso di accordo orale, se il franchisee detiene delle quote oppure ha il ruolo di direttore o è partner del franchisor l’onere di fornire informazioni viene meno) da un lato; il settore a cui appartengono i beni da commercializzare (il mercato petrolifero tramite il Petroleum Marketing Practices Act è escluso dagli oneri informativi) dall’altro.
135 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
136 Xxxx A., Xxxxx c., Basics Track: Registration and Disclosure, op. cit.
Queste esenzioni sono previste dalla FTC Rule, però non sono necessariamente incluse anche nelle varie normative statali, che pertanto potrebbero richiedere ugualmente di comunicare tali informazioni137.
Le esenzioni previste a livello statale, invece, generalmente riguardano la procedura di registrazione, non le informazioni da comunicare. Alcuni dei Registration States, ad esempio, non richiedono la registrazione se l’esperienza e il valore della rete del franchisor o del franchisee incontrano i requisiti previsti.
L’integrazione tra normativa federale e leggi statali (ove esistenti) fa sì che negli Stati Uniti il contratto di franchising sia un contratto standard in quanto deve avere un contenuto preciso. Le informazioni varieranno in base alle parti coinvolti e al settore merceologico o al servizio oggetto del contratto, ma il nucleo degli obblighi reciproci è il medesimo per tutti i contratti appartenenti alla fattispecie. Questo significa che le previsioni normative e l’obbligo di rispettare standard di correttezza e di trasparenza producono un modello contrattuale che potrà essere adattato dalle parti in base alle rispettive esigenze, ma non potrà essere frutto della completa autonomia dei contraenti. Un ulteriore elemento da considerare è che anche nell’ambito del franchising, per quanto esista una normativa molto più pervasiva di quella prevista in altri ambiti e settori, non è possibile limitarsi allo studio e all’applicazione della legge per avere la certezza di cominciare o sviluppare un franchise lecito ed efficace. I fattori che devono essere aggiunti al dato normativo sono le condizioni di mercato e dell’economia, le caratteristiche specifiche del franchisor e dei franchisees, gli Stati in cui si vuole esercitare l’attività e la realtà concreta e specifica in cui si andrà ad operare. Si tratta di elementi variabili e non predeterminabili che aumentano i fattori di rischio, ma che permettono anche di creare un sistema inaffondabile se correttamente esaminati.138
3.1 Oneri preliminari e caratteri comuni del franchise agreement
I principi alla base del franchising sono l’importanza dell’uniformità, la necessità di avere dei controlli qualità e la chiara ripartizione di diritti e doveri in capo a franchisor e franchisee. Un franchise ideale permette ad entrambe le parti del rapporto di specializzarsi in ciò che ciascuna fa meglio: l’esistenza di una rete aumenta la conoscenza e la conoscibilità del marchio e permette di entrare a far parte di economie di scala in relazione alla produzione, allo sviluppo di prodotti e alla pubblicità tramite l’esperienza e le risorse del franchisor; dall’altro lato imprenditori indipendenti che
conoscono il mercato locale ne facilitano la penetrazione. In una visione olistica si può dire che il tutto supera le singole parti.
Il punto di forza e la fortuna di questa tipologia contrattuale è la capacità di fornire un prodotto uniforme presso tutti i rivenditori e ad un certo prezzo. I clienti o i fruitori del servizio sanno cosa aspettarsi: il medesimo bene o servizio in tutti i punti vendita della catena ovunque si trovino, ed è fondamentale che ciascun punto vendita incontri e soddisfi tali aspettative. Una cattiva esperienza in un solo negozio può comportare un effetto a catena tale per cui quel cliente non si fiderà più del marchio. È l’omogeneità costante nei metodi operativi, nel servizio e nella qualità del prodotto (qualità intesa non tanto come superiorità ma come uniformità di caratteristiche anche a livello qualitativo) che attrae i consumatori e determina la fidelizzazione. 139
Prima di ottenere questi risultati sul mercato, però, è necessario che il franchisor riesca ad avviare correttamente una attività in franchise.
Per farlo è necessario compiere uno studio di mercato e che il marchio dell’imprenditore sia stato registrato correttamente. Compiuti tali adempimenti preliminari, poi, è necessario fornire allo Stato in cui si vuole registrare il franchise la documentazione (FDD) contenente tutte le informazioni previste dalle leggi in materia (FTC rule ed eventuali ulteriori previsioni dei singoli Stati). Il deposito di tale documentazione è necessario ma non sempre sufficiente; infatti, alcuni Stati richiedono adempimenti ulteriori:
I. Franchise Filing States: dopo aver depositato la documentazione si deve pagare un canone e non serve nessun altro tipo di approvazione da parte dello Stato. La registrazione della documentazione o viene chiesta una volta sola oppure può essere richiesta una registrazione annuale; inoltre, in certi Stati se al franchise è collegato un marchio registrato non serve alcun tipo di registrazione ulteriore (es Georgia e Louisiana);
II. Franchise Registration States: oltre al deposito della documentazione e al pagamento del canone è anche necessario registrare l’offerta di entrare nel franchise e ottenere l’approvazione da parte dello Stato140 (se non viene concessa l’approvazione per carenze nella documentazione verranno richiesti ulteriori chiarimenti sui punti controversi o incompleti); la registrazione deve essere effettuata annualmente. Il controllo dello Stato è solo formale e non si estende al contenuto sostanziale di disclosure;
III. Franchise Non-Registration States: depositata la documentazione il franchisor segue le direttive della FTC relativamente alla modalità di vendita del franchise.
139 Xxxxx X. x., Xxxxxxxxxx F., Understanding the Economics of Franchising and the Laws that Regulate It, Franchise Law Journal, Vol. 26, No. 2 (2006), p. 55, 60
Il contenuto del contratto è delineato nella FTC Franchise Rule e nelle leggi statali degli Stati che le prevedono, le quali, tuttavia, regolano molteplici aspetti in maniera analoga.
Tra gli adempimenti economici dell’affiliante, ad esempio, è sempre previsto che il franchisee debba pagare una quota iniziale (entrance fee)141, mentre nel corso del rapporto deve corrispondere una royalty periodica che generalmente viene calcolata in base al volume di affari (è una percentuale fissa del fatturato). Può anche essere previsto che il franchisee debba versare una ulteriore quota, denominata “advertising fee”, per finanziare un fondo utilizzato dal franchisor per la pubblicità del proprio marchio e dei prodotti (tutto ciò è espressamente normato al par. 436.5, FTC Franchise Rule).
Essendo un obiettivo primario del franchisor creare e mantenere una qualità uniforme del prodotto/servizio, ciò comporta che egli eserciti un controllo su molteplici profili rilevanti dell’attività del franchisee, tra cui l’aspetto, le ore di lavoro e di apertura e, ovviamente, la qualità del prodotto e del servizio.
In questa prospettiva sono inserite nel contratto clausole che eliminato, o quantomeno mitigano, gli interessi contrastanti delle parti del rapporto: da un lato il franchisee potrebbe interessarsi maggiormente al proprio profitto in danno del franchisor, mentre quest’ultimo si interessa invece ai profitti dell’intera rete. Per questo nella maggior parte dei contratti di franchising sono incluse previsione specifiche sull’operato del franchisee e spesso viene allegato un manuale operativo molto dettagliato che descrive tutti gli oneri e gli adempimenti che spettano all’affiliato. Generalmente nei contratti è previsto che il franchisor possa assicurarsi del rispetto di tali previsioni tramite audit, ispezioni e mystery shopper.
Per evitare che il franchisee profitti delle vendite a danno del franchisor è frequente precisare quali beni egli possa vendere, l’orario di apertura e la strategia di business. L’esempio McDonald è calzante in quanto si tratta di uno dei primissimi franchise americani e ancora oggi ha una fortuna e una diffusione globale. In ogni McDonald i clienti si aspettano di ricevere lo stesso menu e lo stesso servizio grazie al fatto che è il contratto stesso a dare rilevanza centrale all’elemento dell’uniformità.142 Il manual operativo prevede che “Licensees agrees to promptly adopt and use exclusively the formulas, methods and policies conteined in the business manuals now and as they may be modified by McDonald’s from time to time”.143 Sin dalle origini per Mr. Xxxx l’uniformità era talmente importante che quando i franchisees non rispettavano i criteri posti dalla casa madre egli
141 Par 436.5, item 5, FTC Franchise Rule
142 Xxxxx X. x., Xxxxxxxxxx F., Understanding the Economics of Franchising and the Laws that Regulate It, op. cit. 94, p. 60
143 McDonald’s Franchise Agreement, inserito nella Uniform Franchise Offering Circular della società (2003)
non rinnovava il contratto di franchising o non acconsentiva all’acquisto di un altro punto vendita della rete da parte dello stesso franchisee inottemperante. Le devianze gravi dal QSC (Quality, Service, Cleanliness), invece, determinavano la conseguenza di essere citati in giudizio per inadempimento del contratto (nella legge statunitense è previsto il recesso anticipato da parte del franchisor per giusta causa). Prima di arrivare a queste conseguenze, però, tutt’ora si preferisce ricorrere ad altri strumenti come i controlli periodici effettuati in vari modi. La noncompliance su aspetti marginali è, invece, tollerata se si concretizza in violazioni di standard operativi: in questo caso, in primo luogo, si cerca di fare in modo che il franchisee si adegui alle richieste della casa madre; se ciò non dovesse avvenire il franchisor prospetta la possibilità che il franchisee debba vendere il franchise ad un altro affiliato oppure al franchisor. In questa eventualità il franchisee che esce dalla rete riuscirà comunque ad ottenere dalla vendita parte del valore dei profitti futuri che non potrà più realizzare a causa dell’uscita anticipata dalla rete. La conseguenza peggiore, però è il recesso dal contratto perché in questa eventualità il franchisee perde tutto il valore presente del profitto che avrebbe conseguito da quel momento fino al termine naturale del contratto.
Ulteriori elementi da specificare sono quali beni o servizi il franchisee può offrire. L’uniformità da McDonald è raggiunta “serving only designated food and beverage products”,quindi i cibi e le bevande del menu devono essere solo quelli indicati della casa madre.
Di contro, la presenza di clausole che impongono di acquistare da certi produttori e/o specifici beni è stata oggetto di limitazione da parte della normativa antitrust e ciò ha generato anche battaglie legali già a partire dagli anni ‘20. Tali controversie si sono concluse con il riconoscimento di un compromesso: tali limitazioni potevano avere riguardare solo il bene oggetto del franchise e non anche prodotti o servizi o connessi.
Tuttavia, questa giurisprudenza ha fatto sì che nei contratti si preferisca prevedere per l’acquisto di prodotti necessari allo svolgimento dell’attività una serie di fornitori autorizzati piuttosto che indicare la casa madre come fornitore.
È ovvio che tutti questi sistemi di controllo comportano costi notevoli per il franchisor che potrebbe ritenere più efficace la minaccia del recesso nel caso di inadempimenti. I requisiti posti dalla legge per poter effettivamente recedere, però, in primis la sussistenza di una giusta causa, rendono più difficile usare efficacemente questo strumento e, in ultima analisi, comportano la necessità di finanziare i controlli periodici sulla qualità.144
144 Xxxxx X. x., Xxxxxxxxxx F., Understanding the Economics of Franchising and the Laws that Regulate It, op. cit. 94, pp. 62-63
Questi casi esemplificano da un lato la necessità di trovare equilibrio tra le pretese e i diritti del franchisor di gestire la rete e le scelte discrezionali dei franchisees; dall’altro l’importanza del fenomeno del franchising che non è semplicemente una tipologia contrattuale con le proprie caratteristiche, ma un sistema distributivo che per la sua struttura produce conseguenze nei settori della concorrenza e della protezione del consumatore. Pertanto, le norme sul contratto di franchising vanno applicate anche alla luce delle disposizioni antitrust e consumeristiche.
Altre clausole inserite assai di frequente sono quelle di esclusiva e di non-compete. Con la prima tipologia il franchisee ottiene il diritto di operare in un’area territoriale definita in cui è l’unico a poter vendere determinati beni o fornire determinati servizi; la seconda tipologia prevede un obbligo in capo al franchisee di non condurre business paralleli con concorrenti del franchisor sia durante la validità del contratto che una volta concluso (in questo secondo caso viene previsto un periodo in cui l’ex franchisee non può avere rapporti commerciali con concorrenti dell’ex franchisor). La giurisprudenza americana ammette clausole di non-compete di entrambi i tipi purché abbiano una durata ed una estensione territoriale ragionevole, ma alcuni Stati sono meno inclini ad accettarle, soprattutto quelle post term. La normativa statale, infatti, può prevedere dei limiti di applicabilità, ad esempio in California le clausole di non-compete post contrattuale entro certi limiti sono considerate radicalmente nulle.
Negli Stati Uniti non è prevista per legge una durata, minima o massima, del contratto di franchising la cui scelta viene, quindi, lasciata all’autonomia delle parti (a differenza della disciplina italiana che pone un limite alla scelta dei contraenti in quanto la l. 129/04 prevede una durata minima di tre anni e in ogni caso un tempo che sia sufficiente ad ammortizzare gli investimenti). Generalmente il termine variabile scelto è compreso tra i 5 e i 20 anni e nel contratto è spesso inserita l’opzione di rinnovo corredata dal rispetto di una serie di requisiti, primo fra tutti il pagamento della cd renewal fee.
La posizione del franchisee è tutelata contro il possibile recesso anticipato del franchisor in tutte le leggi statali, le quali permettono tale risoluzione solo a fronte di una giusta causa. In certi casi la presenza della giusta causa non è nemmeno sufficiente in quanto la normativa può prevedere in ogni caso l’indennizzo per le spese sostenute dal franchisee per l’acquisto delle attrezzature e dei prodotti necessari all’attività e non ancora ammortizzati. Si tratta di una disciplina che presenta la stessa ratio della durata minima del contratto prevista dalla legge italiana per ovviare al problema degli investimenti specifici non ammortizzati e non utilizzabili in una diversa attività.
Se, però sussiste una giusta causa di recesso il franchisee perde il valore dell’investimento finale non ancora ammortizzato e il valore attuale dei profitti futuri. Si tratta di perdite talmente ingenti che la possibilità di incorrervi è un deterrente sufficiente per i franchisees, i quali difficilmente commetteranno violazioni tanto gravi da giustificare la volontà del franchisor di recedere.145
Per concludere, elemento caratterizzante il contratto di franchising è il controllo esercitato dal franchisor, il quale prevede il rispetto del già menzionato operation manual. Si tratta di una guida operativa vera e propria, affiancata da audit periodici e da corsi di formazione prima dell’inizio dell’attività e anche corsi di aggiornamento. L’ingerenza del franchisor può riguardare, però, solo aspetti relativi all’uniformità di gestione e al rispetto dei segni distintivi e delle strategie di marketing del franchisee; un controllo ulteriore, infatti, potrebbe determinare la sussistenza di un rapporto contrattuale diverso con solo il nomen iuris di franchising; mentre invece, corrisponde ad un contratto di agenzia.
Gli aspetti specifici su cui il franchisor ha il diritto di decidere e il franchisee ha l’obbligo di adeguarsi riguardano la struttura, costruzione e arredamento del punto vendita che deve rispettare gli standard previsti ed essere uguale a tutti gli altri punti vendita della catena; l’orario e i giorni di apertura sono decidi dalla casa madre, così come da quali fornitori si possa acquistare, l’utilizzo di macchinari o strumenti (dipende dal tipo di attività oggetto del franchising) indicati o direttamente forniti dal franchisor, la tipologia di operazioni commerciali che si possono concludere, l’utilizzo solo del marchio e dei segni distintivi oggetto della licenza e solo nel modo e per i fini previsti nel contratto.
4. FRANCHISING DI DISTRIBUZIONE DI PRODOTTO E MODELLO BUSINESS FORMULA
All’inizio della sua diffusione negli USA questa nuova tipologia contrattuale veniva adoperata solo per regolare rapporti tra produttore e distributore al fine di vendere i prodotti del primo. La sua rapida diffusione in breve ne ha consentito l’espansione in una pluralità di settori eterogenei: agenzie immobiliari, imprese di pulizie e servizi automobilistici per citarne solo alcuni.
Il Dipartimento del commercio statunitense ben presto è arrivato ad affermare l’esistenza di due tipologie di franchising denominati:
• Distribuzione di prodotto
• Business formula (o format)
145 Xxxxx X. x., Xxxxxxxxxx F., Understanding the Economics of Franchising and the Laws that Regulate It, op. cit., pp. 64
Il primo tipo consiste in un accordo tra produttore e dettagliante realizzato affinché quest’ultimo commercializzi i beni del franchisor. È prevista la concessione d’uso del marchio, tuttavia, non viene fornito il metodo per gestire l’attività, caratteristica invece tipica della disciplina italiana e comunitaria del franchising.
La distribuzione di prodotto è stata la prima formula di franchising usata negli Stati Uniti intorno agli anni ’50. È nel 1954 il sig. Xxxx conobbe i fratelli XxXxxxxx che avevano ideato e adottato nel loro ristorante una linea di assemblaggio per i loro prodotti. Fu l’intuizione di Mr. Xxxx di aprire un altro ristorante, uguale a quello già esistente, che ha cambiato la storia del fast food e anche del franchising.146
Da quel momento i settori in cui è stata adoperata maggiormente tale tipologia sono stati quelli della distribuzione di bevande (Coca Cola e Pepsi); del commercio di auto e autocarri (Ford, General Motors) e anche della distribuzione di benzina nelle stazioni di servizio (Exxon).
Il punto centrale intorno al quale ruota questo schema è il prodotto. Ciò che viene realizzato dal produttore e che diviene l’oggetto del contratto è l’unico prodotto che il distributore si impegna a vendere. Il produttore concede l’uso dei suoi marchi al distributore, ma non prescrive determinate modalità con cui gestire l’attività; infatti, il distributore ha la facoltà di organizzare come meglio preferisce i rapporti con la clientela in modo tale da personalizzare l’esperienza della vendita per i clienti e decide come strutturare il proprio punto vendita anche se si tratta di un marchio che ha la casa madre altrove. Certamente questo comporta che il fornitore non possa pretendere che ci sia una struttura uniforme e coordinata dell’attività dei distributori e il franchisee si identifica solo in parte con il franchisor.147
Questo tipo di distribuzione è diffusa meno in Italia ed in Europa, dove comunque non è nemmeno qualificata come franchising, bensì come contratto di concessione di vendita, usato per la commercializzazione di beni (raramente servizi) e tipizzato nel Codice civile.
Il franchising business formula è considerato l’evoluzione del modello di distribuzione dovuta alla necessità di creare una maggiore integrazione tra franchisor e franchisee. Questo modello prevede che i franchisee non solo vendano i prodotti o forniscano i servizi erogati dal franchisor, ottenuta la licenza d’uso del marchio, ma che gestiscano anche l’attività secondo metodi operativi già sperimentati dal franchisor. Quest’ultimo fornisce all’affiliato la formazione necessaria per gestire il business, gli strumenti di marketing e la manualistica tecnica per governare l’attività, così come la
146 Xxxx R., Xxxxxxxx X., Grinding it Out: the making of McDonald’s, St Martins Pr, Reissue edizione, 1990
147 Xxxxxx C.A., Xxxxxx C.R., Xxxxxx B.A., An Introduction to Franchising, op. cit.
modalità di strutturazione e organizzazione del punto vendita perché sia analoga a quella della casa madre.
La definizione normativa del “business format franchise” è contenuta nella FTC Franchise Rule ed è la seguente:
“any continuing commercial relationship created by any arrangement or arrangements whereby: (1)(i)(A) a person (hereinafter “franchisee” offers, sells., or distributes to any person other than a “franchisor” (as hereinafter defined), goods, commodities, or services which arer:
(1) identified by a trademark, service mark, trade name, advertising or other commercial symbol or
(2) indirectly or directly required or advised to meet the quality standards prescribed by another person (hereinafter “franchisor”) and
(B)(1) the franchisor exerts or has authority to exert a significant degree of control over the franchisee’s methods of operation or
(2)the franchisor gives significant assistance to the franchisee in the latter’s method of operation”.148 Inoltre, questa norma è soggetta ad applicazione in tutti quegli Stati in cui non esiste una protezione (o, anche se esiste, è inferiore a quella garantita da questa disposizione) per i futuri franchisee.
Utilizzando questo sistema il franchisee si identifica completamente con il franchisor al punto tale che la differenza consiste solo nella titolarità del negozio locale in capo al franchisee, mentre tutto il resto (modello di business, prodotto e relativa licenza d’usa del marchio, campagne pubblicitarie ecc.) è deciso dal franchisor in modo omogeneo per tutti gli appartenenti alla rete.
In questa enucleazione si vedono chiaramente i tratti fondamentali dell’affiliazione commerciale; infatti, è il modello che più si avvicina a quello attualmente disciplinato con la legge 129/2004 nel nostro ordinamento.
Questo sistema è stato utilizzato in prevalenza nei settori del fast food (primo fra tutti McDonald, ma anche KFC e Pizza Hut), alberghiero (Holiday Inn) e delle agenzie immobiliari.
I primi esempi risalgono alla fine degli anni ’30 (la catena di ristoranti Xxxxxx Xxxxxxx’x), mentre verso metà anni ’50 sono stati aperti i primi McDonald e KFC. È proprio da quel momento che il modello business formula è stato esportato e ha iniziato a diffondersi anche in Europa.
Il concetto alla base di questo modello è quello di sistema: il franchisee gode dell’assistenza iniziale del franchisor, di servizi di formazione del personale, dell’organizzazione commerciale e della pubblicità di cui si occupa l’affiliante. In cambio l’affiliato deve pagare la tassa di ingresso alla rete (entrance fee), canoni periodici (cd royalty) e rispettare le previsioni contrattuali del franchisor, in
148 xxxxx://xxx.xxx.xxx/xxxxx-xxx/xxxxxxx
genere legate a mantenere univoca l’immagine dei punti vendita, ad utilizzare la strategia commerciale del franchisor, o a non violare l’esclusiva se la clausola relativa è prevista.
I consumatori si fidano del brand e si riforniscono da quei punti vendita locali che lo commercializzano. È proprio questo il modello importato prima con il Reg. UE sul franchising del 1988 e poi con la legge italiana 129/04.
Già a fine anni ’80 era chiaro negli Stati Uniti e in una pluralità di altri Stati che il fenomeno del franchising non era qualcosa né di passeggero né di secondo piano per il commercio globale. Le sue implicazioni nell’economia, nel marketing e nel diritto sono molteplici e rilevanti tanto che nel 1960 è stata fondata da un gruppo di industriali la International Franchising Association (IFA) per guidare la comunità internazionale nel campo del franchising.149
149 xxxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxx/xxxxx-xx
CAPITOLO TERZO
IL FRANCHISING IN ITALIA E NELL’UNIONE EUROPEA
1. IL CODICE ETICO DEL FRANCHISING EUROPEO: LA PRIMA REGOLAMENTAZIONE DELL’ISTITUTO
Il franchising è nato autonomamente come sistema distributivo in Europa nel 1800 (anche se l’embrione era già presente già nel 1300 secondo alcuni studiosi) e nel 1929, più di un secolo dopo, la scelta commerciale del lanificio Roubaix ne ha rappresentato il primo esempio significativo e più affine al franchising moderno. Come anticipato nelle pagine precedenti, tuttavia, è stato il modello statunitense, contemporaneo all’esperienza francese, ad essere applicato anche in Europa. Ciò è avvenuto soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando anche negli Stati Uniti il ritorno alla situazione di pace ha ripristinato l’interesse per il commercio e le migliori modalità di vendita dei prodotti.
Anche in Europa il franchising ha avuto notevole successo nonostante non ci fosse una regolamentazione della materia. Come era accaduto negli Stati Uniti il sistema è nato dai bisogni degli imprenditori che lo hanno applicato alla realtà economica e commerciale e solo in seguito alla sua diffusione si è presentata l’esigenza di emanare una disciplina legislativa.
Nel 1972 è stata istituita la European Franchise Federation (EFF), una associazione non profit nata tramite l’iniziativa di imprenditori che avevano già sperimentato il modello del franchising. Lo scopo sotteso alla sua creazione era quello di promuovere, rappresentare e difendere un franchising adeguato ed etico in Europa e questo è ancora il suo obiettivo. Per realizzarlo la Federazione riunisce le associazioni nazionali di franchising degli Stati aderenti, i quali ne condividono i medesimi valori. I membri fondatori sono stati Francia, Belgio, Italia e Olanda.
La EFF è stata a sua volta membro fondatore del Word Franchise Council (WFC).
L’obiettivo primario che la EFF ha avuto sin dalla sua fondazione è stato quello di chiarire il concetto di franchising e dei diritti e doveri delle parti coinvolte nel relativo contratto. Per realizzare ciò si è impegnata nella stesura dell’European Code of Ethics for Franchising (che è stato il modello adottato per la stesura dei “Principles of Ethics for Franchising” emanato dal WFC). Il Codice definisce così il franchising “a partnership of independent entrepreneurs who collaborate in a dynamic, emancipating & rewarding route to entrepreneurship.” Quindi si tratta di una collaborazione tra imprenditori indipendenti e pertanto posti sullo stesso livello, dei pari.
Effettivamente così dovrebbe essere, tuttavia si vedrà che il rapporto B-to-B nella sostanza non è rispettato perché il franchisor sarà sempre (a quasi) la parte forte del rapporto contrattuale data la sua esperienza pregressa e la sua posizione nel mercato. È quindi compito della legge e di associazioni come la EFF assicurare che questa situazione asimmetrica da fisiologica non diventi, però, patologica. Il Codice tramite le pratiche suggerite e i valori in esso contenuti cerca di creare una comunità di operatori del franchising che agiscano non solo rispettando la legge, ma anche in modo corretto ed etico collaborando tra loro e condividendo le proprie conoscenze.
Il Preambolo del Codice ne definisce lo scopo e principi in base ai quali ogni associazione di franchising aderente alla EFF assicurerà l’applicazione del Codice nel proprio Stato di appartenenza. Il Codice detta una serie di comportamenti che deve adottare il franchisor nei confronti di tutti i suoi franchisees; comportamenti che devono tutti rientrare nei concetti di buona fede ed equa condotta negli affari. Da ciò si ricava che il rapporto tra franchisor e franchisee debba essere basato su correttezza, lealtà e trasparenza per poter costruire una relazione fiduciaria destinata a durare nel tempo. Inoltre, tali principi devono essere applicati da tutte le parti del rapporto e in tutte le fasi del rapporto: precontrattuale, contrattuale e anche post contrattuale.
Anche se si tratta di un Codice che non ha una portata normativa in senso stretto poiché non è stato emanato da nessun organo legislativo, è tuttavia vincolante per tutti i membri della EFF, i quali si impegnano nella diffusione, interpretazione e implementazione nel rispettivo Stato di appartenenza. Ciascuno Stato membro della EFF ha la facoltà di aggiungere (come ha fatto l’Italia tramite Assofranchising, l’Associazione Italiana del Franchising) un Annex al Codice, cioè un documento aggiuntivo circa l’interpretazione o l’estensione del Codice stesso, per adattarlo ulteriormente alla normativa nazionale; purché non deroghi o interpreti erroneamente il Codice.
Il Codice è stato emendato nel 1992 e nel 2016 per adattarsi all’evoluzione dei rapporti franchisor- franchisee e del mercato, per includere alcune delle previsioni previste negli annexes delle associazioni nazionali dei vari membri e sono anche state aggiunte le raccomandazioni della Commissione Europea sulla best-practice. Da ciò si evince che il Codice non è stato pensato come uno strumento rigido e cristallizzato nel momento della sua formazione, bensì come uno strumento flessibile e in continua evoluzione per adeguarsi alle differenti esigenze e alle novità che emergono nel tempo.150
150 xxxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/xxxx_xx_xxxxxx0000.xxx
1.1 Le previsioni del codice: cos’è il franchising
L’art 1 del Codice contiene la prima definizione di franchising che sia stata adottata in Europa. Si tratta di una definizione chiara e puntuale e di non difficile comprensione che precisa già alcuni aspetti fondamentali della tipologia contrattuale in questione:
“Il Franchising (Affiliazione) è un sistema di commercializzazione di prodotti e/o servizi e/o tecnologie basato su una stretta e continua collaborazione tra imprese legalmente e finanziariamente separate e indipendenti, l’Affiliante (Franchisor) e i suoi Affiliati (Franchisee), secondo cui l’Affiliante concede ai suoi Affiliati il diritto e impone loro l’obbligo di intraprendere un’attività economica in base al sistema elaborato dall’Affiliante.
Il diritto legittima e obbliga il singolo Affiliato, in cambio di un corrispettivo finanziario diretto o indiretto, a usare il nome commerciale e/o i marchi commerciali e/o i marchi di servizio, il know- how, i metodi commerciali e tecnici, le procedure e gli altri diritti di proprietà industriale e/o intellettuale dell’Affiliante, con l’ausilio di un supporto continuativo di assistenza commerciale e tecnica nel settore e ai sensi delle condizioni del Contratto di Franchising scritto, stipulato tra le parti a tal fine.”151
L’espressione “sistema di commercializzazione” (“system of marketing”, nell’originaria versione inglese) permette di inquadrare il contratto all’interno della macrocategoria dei contratti di distribuzione: il franchising è quindi chiaramente uno strumento per distribuire più efficacemente i prodotti o i servizi del franchisor al consumatore finale.
Il riferimento ad una “stretta e continua collaborazione” (“close and ongoing collaboration”), invece, implica la natura di contratto di durata, ma soprattutto di contratto relazionale. Sicuramente la durata nel tempo del rapporto contrattuale è prevista ed è necessaria data la tipologia di accordo e lo scopo con il quale viene concluso (il franchisor non si limita a voler ottenere una prestazione occasionale o una tantum, ma molteplici prestazioni dello stesso tipo ripetute nel tempo). L’elemento veramente significativo, però, è il rapporto fiduciario che si instaura tra franchisor e franchisee: questa è la chiave affinché il franchising sia effettivamente destinato a durare nel tempo e a produrre i risultati desiderati.
È specificato anche che gli imprenditori coinvolti sono e rimangono legalmente e finanziariamente indipendenti tra loro: affiliante ed affiliato sono imprenditori autonomi che collaborano tra loro, ma
non si instaura nessun rapporto di controllo societario (es. acquisizione di partecipazioni) né di lavoro subordinato.
La parte in cui è previsto che l’affiliante conceda il diritto e al contempo imponga l’obbligo all’affiliato di esercitare l’attività rispettando il metodo elaborato dal franchisor evidenzia il sinallagma del rapporto: la concessione del metodo da una parte; il rispetto del dato metodo dall’altra. Il pagamento di una somma di denaro a fronte della concessione dell’uso del know-how, del marchio commerciale e dei diritti di proprietà intellettuale è menzionato al capoverso successivo. Questo è uno degli aspetti di differenza tra la definizione del Codice e la definizione di franchising contenuta all’art. 1 della l. 129/04. Nella norma italiana la littera legis sembra far intendere che la concessione dei diritti di proprietà intellettuale o industriale, del marchio o del know-how abbiano come secondo elemento del sinallagma il versamento del corrispettivo. Ciò sarebbe estremante riduttivo perché nonostante l’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria non sia privo di conseguenze, è il rispetto del metodo il nucleo centrale del contratto di franchising, su cui si fonda anche la relazione contrattuale.
La norma prosegue dando anche una definizione di know-how, che probabilmente costituisce il concetto più incerto e di difficile identificazione concreta:
“con “know-how” s’intende un complesso di informazioni pratiche non brevettate, risultante dall’esperienza e dalla sperimentazione dell’Affiliante che è segreto, sostanziale e identificato;”152 Da ciò si evince che nel know-how non rientrano i marchi o i brevetti dell’affiliante, ma il concetto comprende, invece, l’insieme delle conoscenze pratiche che il franchisor ha ottenuto operando nel mercato e utilizzando il metodo commerciale che infatti deve rendere noto al franchisee affinché possa adempiere al meglio agli obblighi contrattuali.
Il know-how deve essere segreto, sostanziale e identificato. La segretezza è fondamentale perché essendo l’insieme delle esperienze, tecniche di vendita e di marketing che quello specifico franchisor ha acquisito con la propria specifica attività, la divulgazione ad altri operatori del settore, tra cui anche concorrenti reali o potenziale costituirebbe un danno ingente. È frequente, infatti, che nei contratti di franchising vengano inclusi patti di non concorrenza (art 3.6, iii. Codice Etico) con i quali si vieta al franchisee di commercializzare beni o erogare servizi in concorrenza con quelli del franchisor durante la validità del contratto; mentre una volta terminato il contratto con tali patti si vieta al franchisee di utilizzare il know-how per avviare ana propria attività in concorrenza con quella del franchisor. Il patto, però, dato che limita l’autonomia imprenditoriale del franchisee sia durante che
dopo il rapporto, deve avere determinate caratteristiche a pena di nullità: non può essere previsto per un tempo superiore a cinque anni e deve essere limitato ad una zona o attività specifica e ben determinata (il reg. 330/10 in materia di intese verticali pone ulteriori limiti).
1.2 Gli obblighi delle parti
L’art 2 (“Principi giuda”) del Codice prevede gli obblighi in capo all’affiliante, all’affiliato e ad entrambe le parti.
L’affiliante (2.2):
i. “dovrà̀ aver messo in atto con successo un concetto di business nel mercato pertinente per almeno un anno e in almeno un’unità pilota prima di iniziare la propria attività̀ di Franchising in quel mercato;
ii. dovrà̀ essere il proprietario o avere i diritti legali per l’uso del nome commerciale, del marchio o di altra identificazione distintiva della rete;
iii. dovrà̀ riconoscere gli Affiliati come imprenditori indipendenti e non dovrà̀ direttamente o indirettamente subordinarli come dipendenti;
iv. dovrà̀ fornire al singolo Affiliato la formazione iniziale e la continua assistenza commerciale e/o tecnica per l’intera durata del Contratto;
v. dovrà̀ garantire il diritto a usare il know-how trasferito e/o reso disponibile all’Affiliato, che spetta all’Affiliante conservare e sviluppare;
vi. dovrà̀ trasferire e/o mettere a disposizione il know-how all’Affiliato con adeguati mezzi informativi e formativi e dovrà̀ monitorare e controllare l’uso adeguato dello stesso;
vii. dovrà̀ incoraggiare feedback informativi dagli Affiliati al fine di conservare e sviluppare il know-how trasferito e/o reso disponibile;
viii. dovrà̀ , nella fase preliminare, contrattuale e post contrattuale del rapporto con gli Affiliati, cercare di evitare qualsiasi utilizzo illecito o, in particolare, la divulgazione del know-how alla concorrenza al fine di non pregiudicare gli interessi della rete;
ix. dovrà̀ , a seconda dei casi, investire mezzi, finanziari e umani, per promuovere il marchio e impegnarsi nella ricerca e innovazione, che garantirà̀ lo sviluppo a lungo termine e la continuità̀ del concetto;
x. dovrà̀ informare gli Affiliati, potenziali e non, sulla politica commerciale e/o di vendita online;
xi. dovrà cercare di salvaguardare gli interessi della rete nello sviluppo della politica commerciale e/o di vendita online dell’Affiliante;”153
Uno dei punti maggiormente rilevanti è il primo, in quanto è esplicitamente previsto che il franchisor debba aver sperimentato sul mercato per almeno un anno il proprio modello di business, il quale deve aver avuto successo. Non è, infatti, possibile che il franchisor inizi la propria attività in un settore a lui sconosciuto oppure in cui non ha ottenuto buoni risultati. Lo scopo del franchising e l’interesse dei franchisees di entrare nella rete risiedono prevalentemente nella espansione della commercializzazione dei beni o servizi del franchisor tramite una rete efficiente. Tale efficienza è assicurata dalla possibilità di sfruttare le conoscenze di un soggetto che ha avuto una esperienza imprenditoriale positiva in un dato settore in modo tale che il franchisee, reduce da una esperienza negativa oppure alla prima esperienza, entri nella rete con la garanzia di adottare una strategia commerciale funzionale e sicura.
Il punto iii. precisa che gli affiliati sono imprenditori indipendenti e quindi soggetti che non hanno alcun vincolo di subordinazione legale o finanziaria con l’affiliante e non sono nemmeno qualificabili come suoi dipendenti né in via diretta che indiretta.
I punti dal v. all’ viii. Sono relativi, invece, al know-how: il diritto a poterne usufruire, una volta trasferito, con la possibilità per l’affiliante stesso di svilupparlo e quindi di migliorarlo tramite la propria esperienza (anche se guidata dal franchisor); le modalità di trasferimento che devono garantirne una conoscenza effettiva e chiara; feedback dall’affiliante all’affiliato per sviluppare sinergicamente il know-how; e, soprattutto, la garanzia che in tutte le fasi del rapporto, anche dopo la sua conclusione, l’affiliante non usi illecitamente o non divulghi tali conoscenze alla concorrenza perché inevitabilmente indebolirebbe e pregiudicherebbe la rete stessa. Per evitare questa evenienza vengono spesso previsti i patti di non concorrenza, in modo particolare per la fase post contrattuale, mentre è il momento di incertezza della fase precontrattuale in cui l’affiliante è ancora potenziale a creare problemi maggiori.
Per adempiere agli obblighi di disclosure previsti sia dal Codice che dalle leggi nazionali, infatti, finalizzati a far avere al potenziale affiliante una serie di informazioni necessarie per permettergli di decidere consapevolmente se entrare nella rete o meno, il franchisor deve inevitabilmente fornire già almeno parte delle informazioni che costituiscono il know-how. Il problema che si presenta in questa fase è che l’affiliante è obbligato a fornire tali informazioni, ma non esiste ancora un rapporto contrattuale vincolante con l’affiliato (ancora potenziale) che potrebbe quantomeno prevedere delle sanzioni nel caso di diffusione illecita di tali informazioni riservate. Per questo motivo è bene
prevedere proprio nella fase precontrattuale degli accordi di riservatezza o NDA (art 3.6, iii. Xxxxxx) con i quali venga stabilito che anche se non esiste ancora un rapporto contrattuale tra le parti, il franchisee potenziale è già vincolato a non poter diffondere o utilizzare tutto quanto gli viene consegnato o trasferito. Tali accordi contengono previsioni circa quali informazioni siano segreti commerciali; gli eventuali soggetti a cui possono, invece, essere rivelate; le modalità di comunicazione e necessariamente delle clausole penali in caso di violazione di tali obblighi.
Per quanto concerne gli obblighi dell’affiliato, invece, il più significativo è quello espresso al punto
i. perché prevede che egli “dovrà accettare l’obbligo di collaborare lealmente con l’Affiliante per garantire il successo della rete a cui ha aderito l’Affiliato come imprenditore informato e pienamente indipendente;”154. Tale previsione sancisce da un lato la necessità che si instauri una collaborazione leale, pertanto basata sulla correttezza reciproca, espressione che richiama l’elemento relational di questa tipologia contrattuale, che va oltre il mero rapporto giuridico-commerciale. Dall’altro lato emerge la necessità che l’affiliato abbia aderito alla rete in maniera informata e che sia poi rimasto un imprenditore indipendente.
Ulteriori obblighi riguardano l’impegno del franchisee per far crescere l’attività; la sua responsabilità in relazione ai mezzi umani e finanziari e nei confronti di terzi per la sua attività nell’ambito del franchising in quanto imprenditore indipendente; inoltre, dovrà mantenere un rapporto di comunicazione con il franchisor per comunicare dati operativi dell’attività così che l’affiliante possa stabilire una efficace guida gestionale eventualmente modificando la strategia commerciale e dovrà fare in modo che l’affiliante possa garantire la qualità e l’immagine nei prodotti o servizi. L’ultimo punto (viii.) è speculare agli obblighi di comunicazione del know-how in capo al franchisor: infatti prevede che il franchisee “non dovrà divulgare a terzi il know-how e altre informazioni per il funzionamento del Franchising fornito dall’Affiliante, né durante né dopo la scadenza del contratto di Franchising”.155
Gli obblighi posti in capo ad entrambe le parti prevedono l’impegno nella salvaguardia dell’immagine e della reputazione della rete e il rispetto delle informazioni relative al franchising rispettivamente fornite. Ma, soprattutto, è sempre previsto l’utilizzo di correttezza e buona fede “nei reciproci
154 xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXX-Xxxx-xx-Xxxxxx-xxx-Xxxxxxxxxxx-XXXXX- ita.pdf
rapporti” (ii.); per “risolvere reclami, lamentele e controversie” (iv.); per “mediare in giudizio e/o in arbitrato” (v.)156, se non si è risolta la controversia con la negoziazione diretta.
Anche in queste disposizioni emerge l’aspetto relazionale: se sorge una controversia è sempre preferibile trovare un accordo per preservare la relazione commerciale, poiché quando si avvia una causa giudiziale indipendentemente dalla decisione contenuta nella pronuncia ciò che difficilmente si mantiene è proprio il rapporto contrattuale. Anche se la pronuncia non prevede la cessazione del rapporto e invece ne determina le modalità di prosecuzione, non è affatto scontato che questa sia la soluzione preferibile per le parti che nel frattempo hanno smesso di fidarsi reciprocamente e di voler proseguire la relazione commerciale.
1.3 Le informazioni precontrattuali
L’art. 3 del Codice si occupa degli aspetti relativi alle informazioni che il potenziale affiliante deve ricevere al fine di poter decidere consapevolmente se entrare o meno nella rete.
Il punto 3.3 stabilisce che:
“Al fine di consentire a potenziali Affiliati di firmare qualsiasi documento vincolante con piena conoscenza, dovranno ricevere una copia del presente Codice Etico o avere pubblico accesso ad esso, così come la piena e accurata consegna scritta di tutto il materiale informativo relativo al rapporto di Xxxxxxxxxxx, entro un tempo ragionevole prima dell’esecuzione dei predetti documenti vincolanti.”157
Si tratta di una previsione analoga a quella della consegna del FDD che deve avvenire prima (almeno 14 giorni) che il potenziale franchisee firmi qualsiasi contratto vincolante o versi qualsiasi somma di denaro. Il Codice Etico, infatti, prevede sia la consegna di una copia del Codice stesso e anche di tutto il materiale informativo inerente al rapporto (il Codice presuppone sempre il rispetto della normativa nazionale in materia che disciplina autonomamente gli aspetti non trattati nel medesimo). Inoltre, ciò deve essere fatto “entro un tempo ragionevole”: si tratta di una previsione vaga e suscettibile di essere interpretata discrezionalmente, per questo un intervento successivo della EFF ne ha precisato il contenuto.
156 xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXX-Xxxx-xx-Xxxxxx-xxx-Xxxxxxxxxxx-XXXXX- ita.pdf
157 xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXX-Xxxx-xx-Xxxxxx-xxx-Xxxxxxxxxxx-XXXXX- ita.pdf
La differenza ulteriore rispetto alla disciplina statunitense la si ricava dall’art 3.5 che pone anche in capo al potenziale affiliato obblighi di informativa circa la “sua esperienza, le sue capacità finanziarie, la sua formazione, il bagaglio culturale e qualsiasi altra informazione fornita al fine di essere selezionato dall’Affiliante.”158
Queste norme sono di fondamentale importanza, ma non prevedono dettagliatamente quali siano le informazioni che devono essere comunicate in quanto rilevanti per il franchising. Al fine di chiarire il contenuto della disclosure, allora, l’Assemblea Generale della EFF nel 2019 ha emanato delle linee guida in cui sono state inserite le informazioni che devono essere comunicate e soprattutto che la comunicazione deve essere effettuata almeno 15 giorni prima della stipula del contratto, oppure entro il termine previsto dalla legge nazionale.
Le informazioni che il franchisor deve fornire riguardano: la propria attività e una la storia del sistema franchising; le modalità di trasferimento del know-how; i diritti di proprietà intellettuale che verranno concessi in licenza; una panoramica del mercato, presente e passato, in cui l’attività verrà svolta; l’esperienza del franchisor in relazione al modello di business adottato; informazioni circa il supporto fornito ai franchisees della rete; le modalità di protezione dell’identità e degli standard del marchio; la lista dei franchise già avviati; gli accordi di franchising siglati e conclusi nei 3 anni precedenti; i prevedibili costi ulteriori rispetto alla tassa d’ingresso; come il franchisor ottiene i guadagni dall’attività dei franchisees; le modalità di vendita dei prodotti o dei servizi; se è prevista una esclusiva territoriale; le clausole di non concorrenza e/o non affiliazione previste durante e dopo il contratto.
Gli oneri del potenziale franchisee sono notevolmente minori e attengono all’identità dell’imprenditore; la sua esperienza professionale e/o come imprenditore; i motivi per i quali vuole diventare un franchisee; le possibilità finanziarie; l’esistenza di eventuali cause pendenti o concluse, bancarotta o liquidazione.
Inoltre, entrambe le parti devono comunicare informazioni ulteriori e diverse da quelle appena elencate se sono rilevanti per il franchising e nessuna delle parti può rifiutarsi di adempiere a tali obblighi. Le informazioni ulteriori devono essere conformi e coerenti alle previsioni delle leggi nazionali, alla normativa europea, al Codice Etico e ai relativi annexes.159
1.4 Le caratteristiche del contratto
158 xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXX-Xxxx-xx-Xxxxxx-xxx-Xxxxxxxxxxx-XXXXX- ita.pdf
159 xxxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/xxxx_xx_xxxxxx0000.xxx
L’art. 5 del Codice prevede molto sinteticamente che caratteristiche debba avere il contratto di franchising. Sancisce in via generale che il contratto deve rispettare la legge nazionale e quella dell’UE, nonché il Codice Etico e che deve essere redatto in forma scritta, inoltre deve esporre con chiarezza i diritti e gli obblighi di entrambe le parti.
Il punto 5.5, invece, specifica puntualmente i termini minimi essenziali che possono essere così sintetizzati: gli obblighi che sorgono in capo a tutte le parti; i diritti che vengono reciprocamente concessi; l’oggetto del contratto (merci e/o servizi da fornire); i termini di pagamento previsti per l’affiliato, la durata del contratto (che deve essere tale da permettere di ammortizzare gli investimenti effettuati), disposizioni relative alla cessazione del contratto, alla cessione di beni al momento della cessazione, all’utilizzo di metodi nuovi o modificati da parte del franchisee.160
Si tratta di una norma scarna poiché le caratteristiche formali che dovrà rivestire il contratto sono lasciate alla definizione del diritto civile e della normativa specifica interna ai vari Stati.
2. L’INTERVENTO TARDIVO DI NORMAZIONE IN ITALIA
La concezione del franchising quale operazione economico-contrattuale è ben nota non solo agli esperti del diritto, ma anche nella comune esperienza. L’affiliazione commerciale è facilmente identificata, infatti, come la cooperazione tra una impresa radicata nel mercato che si avvale di imprese che sono, invece, radicate nel territorio per riuscire ad espandere la propria area di operatività. Il vantaggio per le imprese affiliate è di svolgere una attività imprenditoriale sfruttando il metodo dell’affiliante.
Nonostante la conoscenza diffusa dei tratti fondamentali di questo negozio, esso presenta aspetti di complessità che necessitano di essere regolamentati per dare maggiore certezza agli operatori che se vogliono avvalere. Questa esigenza si era già fatta sentire in altri Stati in cui il franchising si è diffuso precedentemente come negli Stati Uniti (la materia è stata disciplinata sia dalla legge federale che da leggi dei singoli Stati), ma anche a livello europeo ci sono stati interventi normativi in particolare di soft law (lo European Code of Ethics for Franchising e la Model Law emanata nel 2002 dall’UNIDROIT).
Il legislatore italiano, invece, ha tipizzato l’affiliazione commerciale nel 2004, con l. 6 maggio, n.129, molto tempo dopo rispetto alla sua comparsa avvenuta negli anni ’70 (la data precisa può ricondursi
160 xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXX-Xxxx-xx-Xxxxxx-xxx-Xxxxxxxxxxx-XXXXX- ita.pdf
alla società di distribuzione Gamma che il 18 settembre 1970 ha inaugurato il primo punto vendita affiliato a Fiorenzuola D’Arda (PC)).161
Prima che entrasse in vigore la suddetta legge non era facile dare una definizione esauriente e chiara di questa tipologia e soprattutto non era facile distinguerla da figure contrattuali affini. Le disposizioni che venivano applicate erano quelle degli artt. 1321 ss. del Codice civile sulla disciplina generale dei contratti e il Regolamento CEE 30.11.1988, n. 4087 (ora non più in vigore162).
La legge 129/04 è una legge di disclosure, in altri termini disciplina la cd trasparenza preventiva. Le disposizioni in essa contenute, infatti, sono prevalentemente dei doveri informativi antecedenti alla stipula del contratto e volti proprio a fornire all’affiliante tutte le informazioni che gli possono essere utili per decidere se concludere o meno il negozio. Per questa ragione è fondamentale che tali obblighi siano previsti nella fase precontrattuale.
Il legislatore, pertanto, ha scelto di inserire nella legge questa tipologia di obblighi a cui ha aggiunto la definizione di affiliazione commerciale e pochi aspetti relativi al contratto (forma scritta a pena di nullità, divieto di trasferimento della sede e vincolo della durata minima), mentre gli altri sono lasciati alla libera determinazione delle parti, al Codice civile e alle norme cogenti europee.163
La legge n. 129, pertanto, inizia con una disposizione descrittiva definendo, all’art. 1, cosa si intende con franchising:
«L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi»164
Da questa definizione emerge una fattispecie legale a “maglie larghe” e più ampia rispetto al modello di franchising che si era affermato nella prassi come contratto atipico fino all’avvento della normazione nel 2004.
161 Zuddas G., Somministrazione, concessione di vendita, franchising, op. cit.
162 Abrogato con l’entrata in vigore del Reg. della Commissione europea 2790/99 relativo agli accordi verticali di distribuzione, poi sostituito dal Reg. (UE) 330/10
163 Bausilio G., Contratti Xxxxxxx, CEDAM, 2014
164 xxxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxx/xxxxxx/xxxxxxxx0000/xxxxxxxxx/Xxxxxx%00xxxxx/000.xxx
La struttura tipica dell’affiliazione è stata, così, determinata sulla base di una serie di requisiti oggettivi e soggettivi, i quali devono essere presenti contestualmente affinché la fattispecie del caso concreto possa essere qualificata come franchising e possa essere soggetta alla relativa disciplina.
Tutti gli accordi che rientrano nell’affiliazione commerciale devono avere determinate caratteristiche comuni anche se tali contratti possono avere ad oggetto comportamenti diversi (franchising di prodotti o di servizi). L’affiliazione, infatti, consiste nella modalità, specifica per ogni contratto, con cui viene effettuata la distribuzione di prodotti e/o servizi in molteplici mercati. Così si realizza una integrazione verticale per il tramite del trasferimento di tecnologie (licenza d’uso di diritti di proprietà industriale e intellettuale) verso il corrispettivo di un prezzo e finalizzata alla creazione di una rete di distribuzione dei prodotti o servizi dell’affiliante.165
Per affrontare i requisiti soggettivi della fattispecie è utile partire da un dato di base: il contratto di
franchising è bilaterale, in quanto stipulato solo e necessariamente tra due soggetti.
Bilateralità riferibile, comunque, al solo profilo contrattuale, perché invece i diritti e gli obblighi posti in capo alle parti sono comuni a tutti gli affiliati inseriti nella rete (piano operativo).
Generalmente nel lessico giuridico italiano si utilizza il termine “parti”, mentre in questo caso nella norma si usa l’espressione “soggetti giuridici” che dopo un dibattito molto lungo166 è stata così interpretata: si tratta di tutti coloro (persone fisiche o enti) che l’ordinamento considera destinatari di norme giuridiche e dei relativi effetti. Pertanto, ciò implica che tra i soggetti giuridici rientrino anche le persone fisiche, interpretazione da preferire anche per ragioni di diritto costituzionale, in quanto il trattamento differenziato di persone fisiche ed enti, se le prime non fossero incluse, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. Si osserva anche che l’art. 1, l. 129/2004, successivamente fa riferimento alle “parti” e quindi la spiegazione della presenza dell’espressione “soggetti giuridici” è quella di una scelta impropria del legislatore che in realtà non voleva intendere altri soggetti se non coloro che costituiscono un centro di interessi.167
Tali soggetti sono imprenditori (il franchising, infatti, rientra nella categoria dei contratti d’impresa), anche nel caso in cui l‘affiliato non abbia mai esercitato alcuna attività lucrativa in precedenza. La negoziazione e la stipula dell’accordo lo rendono un imprenditore (se non lo era già) perché la conclusione del contratto rientra tra gli atti organizzativi rilevanti ex art 2082 c.c.168
Anche nel caso in cui il franchisee si avvia all’attività imprenditoriale con la stipula del contratto di
franchising, egli non può considerarsi, prima della conclusione del contratto, un “consumatore”. Da
165 Xxxxxxxxxx X. (a cura di), Reti tra imprese: top down o bottom up?, Pacini Giuridica, Pisa, 2016
166 Pellizzi G. L., Soggettività Giuridica, Enc. Giur., XXIX, Roma, 1993
167 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, Rivista di diritto privato, 1/2009
168 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit.
ciò deriva che egli non sarà soggetto alle norme del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005).169 La Corte di Giustizia stessa ha affermato che “[…] soltanto i contratti conclusi al fine di soddisfare le esigenze di consumo privato di un individuo rientrano nelle disposizioni di tutela del consumatore in quanto parte considerata economicamente più debole. La particolare tutela perseguita da tali disposizioni non si giustifica nel caso di contratti il cui scopo sia un’attività professionale, prevista anche soltanto per il futuro, dato che il carattere futuro di un’attività nulla toglie alla sua natura professionale”. 170
A fortiori il franchisor è necessariamente un imprenditore perché la legge prevede che egli, per poter instaurare una rete, debba aver già sperimentato con successo nel mercato una formula commerciale replicabile e per fare ciò è necessario che abbia intrapreso una attività imprenditoriale.171
L’art. 1 prosegue qualificando affiliante e affiliato come soggetti giuridicamente ed economicamente indipendenti (espressione usata anche nel Codice deontologico dalla Federazione Italiana del Franchising, mentre il Codice etico del Franchising Europeo usa l’espressione “imprese legalmente e finanziariamente separate e indipendenti”), l’unico legame tra essi sussistente è quello di natura contrattuale.
L’indipendenza economica è richiamata solo da un’altra legge precedente, la l. 192/98, art. 9, che disciplina la subfornitura, in cui è definita in positivo. La dipendenza economica (di cui è vietato l’abuso) consiste in una situazione in cui una parte (imprenditore) è indispensabile all’altra perché quest’ultima non può fare a meno della prima (impossibilità economica) a causa degli investimenti già effettuati. Sono due i motivi per cui questa accezione non può essere utilizzata nel contesto del franchising: ex art. 9 la dipendenza è un effetto economico e quindi non può essere anche una circostanza qualificatrice di un tipo negoziale; inoltre, non può qualificare la fattispecie del franchising perché è il negozio stesso che potrebbe generare dipendenza economica.
Per capire l’accezione corretta si consideri che è un’espressione introdotta in fase rifinimento del testo normativo per differenziare senza possibilità di errore questa fattispecie da qualsiasi forma di contratto di lavoro subordinato o parasubordinato. La precisazione si è ritenuta necessaria perché dato che il franchisor ha potere di direzione e coordinamento dell’attività del franchisee, quest’ultimo poteva essere ritenuto un lavoratore subordinato.
Anche per quanto riguarda l’indipendenza giuridica i dubbi sul significato non sono assenti. Questa formula lessicale non era mai stata usata prima nel diritto civile e nemmeno in quello contrattuale e
169 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Xxxxxxxxx di distribuzione, op. cit., p. 584
170 Corte di Giustizia CE 13/07/1997 (causa C-269/95)
171 Villanacci G., I contratti della distribuzione commerciale, op. cit., p. 157
va subito escluso che con essa si volesse solo intendere che franchisor e franchisee debbano essere soggetti giuridici diversi, poiché questo è inevitabile trattandosi di parti contrapposte in un rapporto negoziale. Sarebbe più plausibile la spiegazione in base alla quale si vuole negare che possa esistere un rapporto di controllo tra franchisor e franchisee, escludendo, così i rapporti infragruppo. Tuttavia, è anche vero che le società di un gruppo mantengono la propria soggettività giuridica ed indipendenza giuridica. Si è portati, dunque, a concludere o che il legislatore abbia usato un’espressione impropria con lo specifico scopo di escludere qualsiasi rapporto di controllo; oppure che egli abbia fatto un riferimento ridondante e privo di un vero valore giuridico.172
Il contratto di franchising è anche un contratto a prestazioni corrispettive (sinallagmatico) e oneroso. Sorgono in capo alle parti, infatti, obbligazioni diverse (requisiti oggettivi): il business format ha ad oggetto l’obbligo del franchisor di concedere la disponibilità della formula commerciale e l’inserimento del franchisee nella rete. Gli standard uniformi sono “calati dall’alto”, dall’affiliante agli affiliati, e costoro devono utilizzare la formula commerciale ottenuta per creare un mercato favorevole per la rete commercializzando i beni o servizi oggetto del contratto da un lato e versare un corrispettivo dall’altro.173
Come evidenziato in precedenza dalla definizione dell’art. 1 sembra che i due elementi del sinallagma siano la concessione dell’ingresso nella rete e dell’uso di brevetti, marchi, nome, ditta e insegne da una parte e il pagamento del corrispettivo dall’altra. In realtà il pagamento del corrispettivo è una obbligazione aggiuntiva e a morfologia variabile che sorge in capo all’affiliante, mentre la sua obbligazione principale, che costituisce il secondo elemento del sinallagma contrattuale, è il corretto utilizzo da parte dell’affiliato di ciò che gli viene concesso dall’affiliante.174
La littera legis dell’art. 1 prevede che il franchisor debba concedere la disponibilità al franchisee “di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale”. Per comprendere come il franchisor possa adempiere alla sua obbligazione bisogna capire cosa ne costituisce l’oggetto: cioè in cosa consiste il “package”, o “formula commerciale”, concesso al franchisee.
Il termine “insieme” induce a pensare che l’oggetto dell’affiliazione commerciale si una pluralità di beni giuridicamente unificati, non è infatti sufficiente che venga concesso uno solo dei beni indicati nell’elenco. Tali beni possono essere sia diritti (di proprietà industriale o intellettuale), sia beni
172 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
173 Xxxxxxxxxx X. (a cura di), Reti tra imprese: top down o bottom up?, op. cit.
174 Bausilio G. Contratti Atipici, op. cit.
immateriale (il know-how), sia obblighi (di assistenza o di consulenza tecnica o commerciale). Non è specificato quali o quanti di essi debbano essere concessi, ma trattandosi di un insieme si ritiene che debbano essere almeno due purché siano di per sé idonei e sufficienti a svolgere l’attività di franchising. È proprio la presenza dell’elemento della pluralità di beni oggetto di concessione che differenzia e permette di distinguere il franchising da altre tipologie contrattuali affini, che non includono nella fattispecie tale requisito.
Dottrina e giurisprudenza divergono per quanto riguarda l’essenzialità o meno della concessione di alcuni di tali beni. È vero che alcuni di essi vengono concessi più di frequente rispetto ad altri, ma nulla porta a ritenere che si possa parlare di elementi costitutivi della formula commerciale. Il know- how e i servizi di assistenza in particolare sono stati oggetto di discussione: secondo la dottrina maggioritaria si tratta di elementi che non possono mai mancare; la giurisprudenza, invece, non condivide l’opinione e li qualifica come elementi eventuali. 175
Il know-how è definito all’art. 1, co. 3, lett. a) “come un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato; per segreto, che il know-how, considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei suoi elementi, non è generalmente noto né facilmente accessibile; per sostanziale, che il know-how comprende conoscenze indispensabili all’affiliato per l’uso, per la vendita, la rivendita, la gestione o l’organizzazione dei beni o servizi contrattuali; per individuato, che il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità”.
La ragione per cui la dottrina ritiene che tale bene immateriale sia un elemento essenziale deriva dall’interpretazione del successivo art. 3, co 4 l.129/04. Essa, sulla base della previsione che il contratto di franchising “deve inoltre espressamente indicare” “la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato”, ha equiparato la necessarietà della determinazione precisa dell’oggetto del know-how, con la necessarietà del know-how in sé. La dottrina ha seguito lo stesso ragionamento anche in relazione ai servizi di assistenza. La concessione della disponibilità della formula commerciale è uno degli elementi essenziali e anche uno dei più caratterizzanti il franchising; pertanto, non può essere del tutto assente. È possibile, però, che nella fase precontrattuale non venga rivelato nei minimi dettagli, sia perché molto tecnici (e quindi saranno compresi piuttosto nel manuale operativo), ma anche per evitare che il terzo potenziale affiliato non ancora retista possa rivelare tali segreti industriali.176
175 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
176 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Contratti di distribuzione, op. cit.
Ulteriore obbligazione del franchisor è quella di inserire l’affiliato nella rete distribuita sul territorio e costituita da una pluralità di franchisee. Non è necessario che la rete preesista alla stipula del contratto affinché questo possa essere qualificato come franchising poiché deve pur esistere un momento genetico in cui il sistema ha inizio. Nonostante vi sia una tesi in base alla quale il primo contratto non possa qualificarsi come franchising poiché è necessaria una “pluralità di affiliati” (ex art 1, co 1) la conclusione corretta a questo impasse pare quella di qualificare come contratto di franchising anche il primo contratto poiché l’elemento essenziale non è da considerarsi l’inserimento dell’affiliato in un sistema esistente, ma l’obbligazione ad inserire l’affiliato in un sistema già esistente o da costituirsi (nel qual caso sorgerà l’ulteriore obbligazione di costituire il sistema tramite la stipula di almeno un altro contratto di franchising con ad oggetto al medesima formula commerciale, poiché è quella che identifica una rete di franchising).177
Tra le obbligazioni del franchisee, invece, rientra il pagamento del corrispettivo, infatti, il contratto di franchising è oneroso.
L’art. 1 co. 3, prevede il diritto di ingresso (entry fee) e/o le royalties. La prima è una “cifra fissa rapportata anche al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete” da versare una tantum all’affiliante al momento della stipula del contratto. Le royalties sono dei canoni periodici calcolati in percentuale commisurata al giro di affari dell’affiliato oppure in quota fissa da versarsi periodicamente.178
La fee d’ingresso può anche essere meramente simbolica oppure essere assente, in quest’ultimo caso le royalties (obbligatorie invece) saranno più significative e probabilmente verrà richiesto all’affiliato di effettuare investimenti durante tutta la durata del rapporto contrattuale.
L’altra tipologia di obblighi che sorgono in capo all’affiliato è di facere: in primis è previsto l’obbligo di compliance (quindi deve essere rispettata la formula commerciale) e l’obbligo di feed back, a intervalli stabiliti, nel caso di reclami presentati al singolo affiliato. È anche possibile che venga previsto l’acquisto di un quantitativo minimo di merci o che vengano fissati obiettivi di vendita. Tali limitazioni alla libertà d’impresa dell’affiliato sono controbilanciate dalla previsione di una clausola di esclusiva territoriale in capo ad una o ad entrambe le parti. Il franchisor non può stipulare altri contratti di franchising nella stessa zona oggetto dell’esclusiva e gli altri affiliati non possono commercializzare i prodotti su quel territorio; il franchisee può distribuire solo i prodotti e/o servizi oggetto del contratto (con l’unica deroga nel caso si tratti di corner franchising).179
177 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
178 Bausilio G., Contratti Atipici, op. cit.; Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
179 Xxxxxxxxxx X. (a cura di), Reti tra imprese: top down o bottom up?, op. cit.
L’art. 1, co. 1, enuncia come scopo del franchising quello di “commercializzare determinati beni o servizi”. Si tratta dell’oggetto del contratto e non della sua causa; quindi, rientra anche questa tra le obbligazioni del franchisee.
Sono stati sollevati dubbi circa il fatto che il franchising industriale rientri effettivamente nel concetto di franchising. Nel franchising di produzione, infatti, il franchisee produce beni secondo la formula commerciale fornitagli dal franchisor pertanto non è prevista la commercializzazione.
Per quanto concerne l’uso della formula commerciale sembrerebbe che il legislatore non abbia previsto l’obbligatorietà del suo utilizzo da parte dell’affiliato, poiché la legge dispone solo che l’affiliante ne conceda la disponibilità. Tuttavia, se l’affiliato non usasse tale formula comprometterebbe l’intera rete: sia gli interessi del franchisor che degli altri franchisee verrebbero lesi in relazione alla reputazione commerciale e all’immagine uniforme. È quindi la sostanza dell’operazione economica che rende necessario considerare obbligatorio l’uso della formula commerciale.180
Altri testi precedenti alla legge italiana avevano previsto tale obbligatorietà. Il Codice Etico del Franchising Europeo all’art. 1 stabilisce che “l’Affiliante concede ai suoi Affiliati il diritto e impone loro l’obbligo di intraprendere un’attività economica in base al sistema elaborato dall’Affiliante.”; mentre similmente la Model Franchise Disclosure Law elaborata dall’UNIDROIT nel 2002, all’art. 2, stabilisce che aderendo al franchise viene attribuito il diritto all’affiliato “to engage in the business of selling goods or services on its own behalf under a system designated by the franchisor”.181
Il franchising, infatti, non può essere valutato solo in relazione ai singoli contratti stipulati dal franchisor con i vari franchisee, ma va considerato nell’ottica dell’intera rete e per questo è necessario che la rete sia uniforme e omogenea. Perché possa verificarsi ciò tutti gli affiliati devono adoperare la medesima formula commerciale concessa loro dall’affiliante.182
2.1 Le caratteristiche del contratto di affiliazione commerciale
Il contratto di affiliazione commerciale non solo alla luce della disciplina italiana, ma in tutto il mondo appartiene alla categoria generale (o tipo contrattuale) dei contratti di distribuzione. Lo si evince piuttosto facilmente dalle caratteristiche e dallo scopo con cui si conclude il contratto. Il franchising permette di creare “catene” di negozi che distribuiscono beni (o forniscono servizi) di un determinato
180 Trib. Bergamo 18 luglio 2019, n. 1730
181 xxxxx://xxx.xxxxxxxx.xxx/xxxxxxxxxxx/xxxxxxxxxxx/xxxxx-xxx/
182 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
produttore utilizzando i suoi segni distintivi (marchio, insegna, ditta) e l’uniformità dei punti vendita o del servizio costituisce uno degli elementi chiave del sistema. Inoltre, come tutti i contratti di distribuzione, è un long term contract, fisiologicamente incompleto e frutto di una regolamentazione pattizia standardizzata.
I negozi non appartengono al produttore, ma a imprenditori indipendenti che hanno stipulato con il produttore il contratto di affiliazione commerciale con il quale essi ottengono la licenza d’uso dei segni distintivi e della formula commerciale (il metodo imprenditoriale). In questo modo essi possono sfruttare una strategia di marketing consolidata ed efficace e beneficiano della forza attrattiva di un prodotto già rinomato, mentre dall’altro lato il franchisor amplia la distribuzione dei suoi prodotti ottenendo una clientela più numerosa senza investire nell’acquisto di punti vendita e nell’assunzione di personale, non accollandosi i relativi rischi. Invece ingaggia a questo scopo un altro soggetto che assumerà su di sé i rischi (mitigati dall’esperienza dell’affiliante, ma mai inesistenti quando si opera nel mercato) dell’attività.183 Si tratta di un contratto flessibile, che può adattarsi a qualsiasi categoria merceologica (“scopo di commercializzare determinati beni o servizi”, art. 1, l. 129/04) e che non prevede solo un accordo per ampliare la distribuzione del prodotto (franchising di distribuzione), ma anche l’erogazione di servizi (franchising di servizi), per questi motivi ha avuto e continua ad avere molto successo.184
La forma di distribuzione è definita indiretta e integrata perché i soggetti sono indipendenti tra loro, ma agiscono in stretta collaborazione dovendo rispettare la formula commerciale e il manuale operativo dell’affiliante.
La giurisprudenza e le norme comunitarie identificano alcune modalità di realizzazione della distribuzione:
• Franchising di distribuzione (monomarca o multimarca);
• Franchising di servizi;
• Franchising industriale.
La prima tipologia è sicuramente la più diffusa e quella a cui si fa riferimento quando si pensa al franchising. Il franchisee gestisce un negozio con il marchio del franchisor e vende esclusivamente i prodotti di quest’ultimo (monomarca), oppure vende i suoi prodotti e anche prodotti di terzi (multimarca come le catene di supermercati) ai consumatori finali.185
183 Xxxxxxxx-Xxxxxxxxxxx, Manuale di diritto privato, op. cit., p. 807-809
184 Dassi A., Il contratto di franchising, CEDAM, 2006
185 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Contratti di distribuzione, op. cit.
Nel franchising di servizi ciò che cambia è l’output, poiché l’oggetto del rapporto con il cliente non consiste nella vendita di beni, ma nella fornitura di servizi (es ristoranti, alberghi, agenzie immobiliari…).186
In entrambi i casi lo svolgimento dell’attività deve rispettare la formula commerciale del franchisor
e l’immagine uniforme della rete.
Il franchising industriale o di produzione, invece, è oggetto di dibattito circa l’appartenenza o meno alla categoria del franchising e quindi è incerta l’applicabilità o meno della legge 129/04. Il franchising di produzione presuppone che il franchisor conceda al franchisee di produrre determinati beni utilizzando la sua formula commerciale di fabbricazione o lavorazione di un prodotto. Dato che l’art. 1, co.1 (l. 129/04) prevede espressamente lo scopo di “commercializzare determinati beni o servizi” parte della dottrina187 ritiene che questa tipologia non sia effettivamente qualificabile come franchising. Si tratterebbe, invece, di concessione di licenza del marchio per la fabbricazione dei prodotti. Anche la giurisprudenza ha chiarito che esistono delle differenze significative tra franchising e semplice licenza d’uso. Per citarne alcune il “terzista” che ottiene la licenza spesso non commercializza autonomamente il prodotto, ma lo produce solamente per conto del licenziante; il licenziatario non entra nella catena del licenziante ma appone il marchio di quest’ultimo nei prodotti che realizza; la licenza del marchio da sola non è idonea ad integrare il franchising poiché esso richiede il trasferimento di un insieme di diritti di proprietà intellettuale e industriale.188
La dottrina minoritaria, invece, sostiene che è possibile qualificare come franchising anche l’attività di produzione di beni da parte dell’affiliato effettuata secondo le modalità previste dall’affiliante e poi commercializzati liberamente. Tale interpretazione è supportata dall’art. 1, co. 3 lett. a) che in relazione al know-how parla di conoscenze indispensabili “per l’uso, la vendita o la rivendita, la gestione o l’organizzazione dei beni o servizi contrattuali”, non per la produzione di beni e dalla lett.
d) in cui per “beni dell’affiliante” si intendono anche quelli prodotti “seguendo le istruzioni” dell’affiliante. Se, invece, l’affiliato producesse i beni seguendo anche la formula del franchisor senza poi commercializzarli verrebbe a mancare un elemento necessario della fattispecie189.
Il contratto di franchising rientra nella categoria del cd terzo contratto. Questa tipologia contrattuale emersa dall’elaborazione della dottrina civilistica recente identifica un negozio in cui le parti, entrambi imprenditori, si trovano in una situazione di asimmetria economica. Quest’ultima è un
186 Frignani A., Il contratto di franchising. Orientamenti giurisprudenziali prima e dopo la legge 129 del 2004, Xxxxxxx Editore, 2012, p. 19
187 Bortolotti X., Contratti di distribuzione, op. cit.
188 Frignani A., Il contratto di franchising, op. cit., p. 19-20
189 Fici A., La qualificazione del contratto di franchising, op. cit.
elemento fisiologico dell’affiliazione commerciale poiché il franchisor si trova inevitabilmente in una posizione privilegiata (dal punto di vista della posizione nel mercato e delle disponibilità economiche). Tuttavia, l’asimmetria può sfociare (nel corso dell’esecuzione del contratto) in una situazione patologica se si trasforma in abuso (di dipendenza economica ex art 9, l. 192/98) da parte dell’affiliante che sfrutti a proprio vantaggio, ma soprattutto a svantaggio degli affiliati, la propria situazione economica in particolare in relazione agli investimenti specifici sostenuti dall’affiliato.190 All’asimmetria economica generalmente si affianca l’asimmetria informativa, una situazione di squilibrio che dipende dalla differente forza delle parti contraente e permette all’affiliante di decidere quali informazioni non rivelare per sfruttarle successivamente. La legge n. 129 nel prevedere gli obblighi di informativa precontrattuale mira proprio ad eliminare tale differenza tra le parti anche se non sempre offre sempre i risultati voluti.
Le asimmetrie sono di frequente riscontrabili in contratti conclusi per un tempo relativamente lungo e ne costituiscono un elemento fisiologico. La stipula di un contratto di affiliazione commerciale non fa eccezione, infatti, implica che le parti contraenti siano interessate ad instaurare un rapporto contrattuale che perduri nel tempo (cd long term). Il Codice civile italiano contempla la tipologia di contratti “a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita” (art 1467 c.c.) ma la durata qui si riferisce al tempo necessario allo svolgimento della prestazione. Il profilo dell’esecuzione, però, non è quello a cui si fa riferimento quando si usa l’espressione “long term contract” perché anche nei contratti ad esecuzione istantanea possono essere previste obbligazioni che durano nel tempo. La durata a cui si fa riferimento nei contratti di franchising (e di distribuzione in generale) è relativa al rapporto contrattuale, inteso in una accezione dinamica di regolamento di interessi.191 Il contratto può essere considerato sotto un duplice profilo: quello di rapporto e quello di atto. Il primo profilo attiene alle posizioni reciproche delle parti, sorte proprio dalla stipula dell’accordo; il secondo è identificabile come la “fattispecie costituita da comportamenti storicamente realizzati dalle parti”, che determinato l’esistenza del contratto e ne sottolinea la dimensione statica.192
La durata rileva quando le prestazioni da eseguire sono legate al tempo, sotto il profilo del quantum, in relazione all’interesse mutevole delle parti. Emerge, dunque, una causa di durata propria perché la prosecuzione del rapporto è dettata dal fabbisogno dei contraenti di proseguire la relazione e la prosecuzione a sua volta può rendersi necessaria e funzionale al soddisfacimento dell’interesse alla base della conclusione del contratto. Questa interpretazione del rapporto è coerente con l’idea nata
190 Xxxx X., Mariconda V. (a cura di), Codice dei contratti commentato, Wolters Kluwer, Ed. II, 2020
191 Xxxxxxxxxx C., Reti contrattuali, Relational Contracts e tutela dell’affidamento, op. cit.
000 Xxxxx X., Xx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000
xxxxx Xxxxx Xxxxx di contratto come regolamento privato in divenire. Con ciò si intende che il contratto non si cristallizza al momento della sua stipula, ma, anzi, in quella fase sarà necessariamente e fisiologicamente incompleto perché è umanamente impossibile prendere in considerazione tutti gli aspetti che abbisognerebbero di una previsione nel testo negoziale.193
Il tempo, dunque, può realizzare il completamento non solo del rapporto, ma anche dell’atto. Allora, sulla base di questo rilievo, bisogna considerare che se nel corso dello svolgimento del rapporto dovesse venire meno un elemento essenziale non produrrà conseguenze sul piano degli effetti (perché il fatto sopravvenuto è accaduto durante l’esecuzione e non nella fase di stipulazione), ma su quello della validità. Questo implica che l’atto deve conservare tutti i requisiti essenziali (compresa la causa) fino alla conclusione del contratto, a pena di scioglimento anticipato (per invalidità) o almeno ad una sua modifica se dovesse presentarsi un difetto funzionale.
Ai contratti di durata sono strettamente legati i cd relational contracts che, secondo la tesi maggioritaria, sono una sottocategoria dei primi. I contratti relazionali, infatti presuppongono che si tratti anche di contratti a lungo termine, ma non è necessariamente vero il contrario.194 La volontà delle parti di stipulare un contratto che abbia una certa durata (significativa) nel tempo implica che esse vogliano anche costruire un rapporto relazionale di collaborazione tra loro.195 In particolare, il contratto di affiliazione commerciale è basato sull’intuitus personae196, che si collega all’elemento relazionale perché significa che le parti decidono di concludere un negozio in regime di rapporto fiduciario, in considerazione del quale gli eventuali comportamenti scorretti sono considerati in modo particolarmente grave (comporta inadempimento contrattuale grave con conseguente risoluzione del contratto per colpa).197
L’elemento relational influisce anche sull’interpretazione del contratto poiché le parti quando concludono un accordo rientrante in questa categoria si aspettano che la regola contrattuale verrà intesa in maniera ragionevole e flessibile, tenuto conto non solo della previsione effettiva, ma anche delle reciproche esigenze.
Il contratto di franchising, sicuramente relazione, rientra nell’ulteriore sottocategoria degli organizational contracts perché si tratta di un accordo finalizzato a creare aggregazione e coordinamento tra imprese. È un obiettivo da realizzarsi nel tempo, durante tutto il rapporto contrattuale, e questo implica che la stipulazione originaria del negozio non può ritenersi cristallizzata
193 Xxxxxxxxxx C., Reti contrattuali, Relational Contracts e tutela dell’affidamento, op. cit.
194 Tuccari E., Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, CEDAM, Padova, 2018
195 Xxxxxxxxxx C., Reti contrattuali, Relational Contracts e tutela dell’affidamento, op. cit.
196Frignani A., Il contratto di franchising, op. cit., p.32
197 Trib. Torino, 18 giugno 2007, in riferimento ad una società affiliante che durante il periodo di esecuzione ha attuato comportamenti volti a sviare a favore di altri affiliati la clientela e gli affari che spettavano ad un altro affiliato.
(nonostante debbano esserci alcune previsioni necessarie e dettagliate come di vedrà in seguito). L’atto pone la regola contrattuale ma opera in sinergia con il trascorrere del tempo per riempire (o meglio, completare) di significato la regola stessa, per sua natura incompleta. È proprio l’ineliminabile incompletezza ontologica nei contratti di durata e relazionali che richiede una disciplina ad hoc per evitare situazioni patologiche che non possono essere evitate o sanate semplicemente tramite la collaborazione reciproca perché una parte contraente potrebbe sfruttare a danno della controparte questi elementi intrinseci.198
Una delle caratteristiche dei contratti che appartengono alla categoria relational è l’inserimento di una clausola generale di rinegoziazione in buona fede per evitare la risoluzione giudiziale che non giova a nessuna delle parti. La ratio è sempre la collaborazione e il tentativo di conservare la relazione contrattuale.
Per evitare specifiche forme di abuso, infine, sono state individuati dei rimedi già in fase genetica del rapporto. Le due tipologie di abuso principali sono il recesso brutale (figura elaborata dalla giurisprudenza per sanzionare un recesso formalmente legittimo, ma che nella sostanza è contrario alla buona fede e alla correttezza) e l’asimmetria informativa patologica nei confronti della parte debole. Il recesso brutale si può evitare con la previsione della durata minima legale del rapporto (ad esempio ex art. 3 co. 3 l. 129/04) e con il divieto di abuso di dipendenza economica (ex art. 9, l. 192/98); mentre l’asimmetria informativa può essere evitata con la previsione di obblighi di disclosure (la legge 129/04 è un modello in materia; infatti, è per questo definita disclosure law, nonostante sia carente in materia di enforcement).
Per finire, il contratto di affiliazione commerciale data la sua struttura e per espressa previsione normativa (“sistema costituito da una pluralità di affiliati”, art. 1) comporta la creazione di una rete di imprese che concretizza una integrazione verticale. L’affiliante/produttore sta al vertice e gli affiliati/distributori sono disposti alla base, “a raggiera”, in posizione di parità tra loro. Questa tipologia di rete contrattuale prende il nome di rete top down perché è da un vertice che discendono sia i contratti bilaterali stipulati con i singoli affiliati, sia tutte le indicazioni relative alla modalità organizzative e di esecuzione del rapporto. Per questo motivo è definita una rete statica. Si tratta di un fenomeno non giuridico, ma economico-sociale grazie al quale più imprese creano modelli organizzativi tramite i quali regolare la propria attività in un certo mercato.199
Esistono due tipologie di rete contrattuale: il modello top down, appena citato, che realizza una integrazione verticale tra imprese in cui i soggetti coinvolti si trovano su livelli diversi della filiera
198 Xxxxxxxxxx C., Reti contrattuali, Relational Contracts e tutela dell’affidamento, op. cit.
199 Bullo L., I contratti di rete e le nuove frontiere del contratto: Modelli giuridici e strutture economiche a confronto, CEDAM, 2017
produttiva e per questo si tratta di un sistema meno rischioso per il mercato e per la concorrenza rispetto agli accordi orizzontali. L’altro tipo è il modello bottom up che realizza una integrazione orizzontale, incompatibile con il sistema franchising, ed è, anzi, la struttura utilizzata nei contratti di rete. Si tratta di una fattispecie entrata nell’ordinamento italiano con il d.l. 5/09 (poi convertito in l. 33/09) e sostanzialmente antagonista del contratto di affiliazione commerciale. Il contratto di rete è strutturato in modo che tutti i retisti siano in posizione di parità tra loro e la collaborazione avvenga tra soggetti posti sullo stesso piano (da qui l’espressione rete bottom up) senza nessun coordinamento dall’alto, per questo si parla di rete dinamica.
Gli accordi verticali sono (ora) visti con favore, al contrario di quelli orizzontali, perché sono in grado di realizzare effetti pro-competitivi in quanto le parti sono incentivate ad impedirsi reciprocamente di esercitare potere di mercato poiché la maggiore domanda di prodotti all’uno pregiudica la domanda all’altro, inoltre l’agire complementare dei soggetti coinvolti è uno stimolo per migliorare l’efficienza. Il Reg. 330/10 è stato emanato proprio per disciplinare la liceità di tali pratiche in deroga (parziale e a determinate condizioni) dell’art. 101 TFUE che, invece, vieta le intese anticoncorrenziali.200
2.2 I modelli di franchising
L’affiliazione commerciale presenta le caratteristiche fino a qui descritte e anche nelle accezioni di distribuzione di prodotti e servizi può rilevarsi che l’unica differenza è l’oggetto del contratto, mentre lo scopo e la struttura del rapporto sono i medesimi.
La l. 129/04, ex art. 2, ha previsto due tipologie particolari di franchising che rientrano ugualmente nell’ambito di applicazione della legge stessa.
Si tratta del master franchising e del corner franchising.
Il master franchising è il contratto con cui un franchisor autorizza un altro soggetto (cd master franchisee) ad organizzare una rete di franchising. Spesso questo sistema viene adottato dal franchisor che ha intenzione di espandersi all’estero e per ragioni giuridiche (scarsa conoscenza delle norme civili e fiscali, delle regole amministrative, degli usi commerciali…) e di marketing (distanza dalla casa madre, scarsa conoscenza del mercato locale…) decide di affidarsi ad un soggetto in loco per avviare la rete. Ciò non toglie che questo schema può essere usato anche all’interno di un medesimo Stato.
200 Xxxxxxxxxx X. (a cura di), Reti tra imprese: top down o bottom up?, op. cit.
La legge 129/04 si applica in una duplice direzione: il franchisor ha l’obbligo di informativa nei riguardi del master franchisee; mentre questo obbligo sorge in capo al master franchisee nei suoi rapporti con gli affiliati.201
La differenza principale e non di poco conto tra questo tipo di franchising e quello ordinario è che la norma prevede che il sub franchisor possa fornire al franchisor un corrispettivo diretto (come previsto per la fattispecie “standard”), ma anche indiretto, senza per altro specificare in cosa possa consistere o come debba essere erogato.
Altro aspetto di rilievo è se il sub franchisor debba fornire informazioni al franchisee solo sulla propria rete o anche su quella del franchisor. Data l’assenza di una previsione normativa si ritiene che il sub franchisor sia tenuto a dare informazioni solo sulla propria rete, a meno che le informazioni relative alla rete del franchisor non siano obiettivamente rilevanti per il franchisee.202
La legge sull’affiliazione commerciale si applica anche ai contratti con il quali l’affiliato riserva uno spazio (cd corner) del punto vendita esclusivamente allo svolgimento dell’attività di franchising (di cui all’art. 1 co. 1 della medesima legge). Si tratta di una previsione quasi superflua dato che la disposizione generale dell’art. 1 non prevede che l’attività di franchising debba essere l’unica svolta nel punto vendita. Tuttavia, dato che generalmente così accade il legislatore ha voluto determinare esplicitamente la possibilità dello svolgimento di plurime attività in uno stesso negozio.203
3. IL RAPPORTO TRA FRANCHISOR E FRANCHISEE
Si è già sottolineato che il contratto di franchising ha una struttura bilaterale e richiede la presenza di una parte, l’affiliante che concede all’altra, l’affiliato, una serie di diritti materiali e immateriali, nonché conoscenze affinché costui possa commercializzare beni o servizi del primo.
È importante rilevare che la legge stessa si riferisce alle parti del rapporto come soggetti economicamente e giuridicamente indipendenti. Il requisito dell’indipendenza determina la mancanza di vincolo di subordinazione tra l’affiliante e l’affiliato; tuttavia, data la struttura del franchising questa affermazione deve essere analizzata.
L’indipendenza deve evincersi dal contenuto del contratto e dalle modalità di svolgimento del rapporto, poiché non è automatico che un contratto qualificato come franchising concretamente preveda l’indipendenza delle parti. Se un contratto apparentemente di affiliazione commerciale in realtà non soddisfa questo requisito è irrilevante il nomen iuris attribuito dalle parti: i giudici, infatti,
201 Frignani A., Il contratto di franchising, op. cit., p. 17, 135-137
202 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Xxxxxxxxx di distribuzione, op. cit. p. 596
203 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Xxxxxxxxx di distribuzione, op. cit. p. 596-597
non sono vincolati alla qualifica attribuita dalle parti, ma hanno la facoltà di indicare la fattispecie corretta sulla base delle caratteristiche del negozio concluso.
Non è, però, sufficiente che il vincolo di subordinazione non risulti né implicitamente né tantomeno esplicitamente dal testo contrattuale. La giurisprudenza richiede anche che venga fatta una valutazione del rapporto esistente tra le parti durante l’esecuzione del contratto per valutare se effettivamente il vincolo di soggezione personale non risulti nemmeno in concreto.
Gli elementi da considerare, tra gli altri, sono: la continuità della prestazione, la determinazione dell’orario, la retribuzione, l’assenza di rischio per il lavoratore.204
Il Tribunale di Milano in una pronuncia del 2006205 ha rilevato che l’attività del franchisor di gestione dei dipendenti effettuata tramite la determinazione dei turni e degli orari di lavoro e la predisposizione dei licenziamenti determinava l’esistenza di un unico centro di imputazione. I dipendenti del presunto franchisee erano, quindi, dipendenti del franchisor e ciò comportava che non potesse parlarsi effettivamente di franchising, indipendentemente dal nome iuris scelto dalle parti.
Il motivo per cui si discute molto dell’indipendenza economica è che nel rapporto di franchising il franchisor esercita poteri organizzativi e di controllo sull’attività economica senza però (poter) determinare in tutto e per tutto le scelte dell’affiliante che mantiene una certa autonomia organizzativa. Infatti, l’assoluta mancanza di autonomia organizzativa esclude inevitabilmente l’indipendenza e la sussistenza di un contratto di franchising. Xxxxxxx chiedersi, dunque, quale sia il perimetro delle indicazioni fornite dall’affiliante affinché esse siano giustificate dalla necessità di costituire una rete uniforme, al di fuori del quale l’ingerenza del supposto franchisor elimina l’autonomia dell’affiliante. L’obbligo di assumere un numero minimo di dipendenti, di acquistare un certo quantitativo minimo di beni, applicare un prezzo stabilito dal franchisor sono alcuni degli elementi contrattuali che fanno sorgere dubbi sull’esistenza o meno dell’indipendenza.
È riduttivo ritenere che l’indipendenza economica si riferisca solo al profilo dell’autonomia organizzativa; infatti, deve considerarsi anche l’autonomia imprenditoriale che consiste nell’assumersi il rischio di impresa. Se un affiliante entrando nella rete non assume su di sé alcun rischio derivante dal possibile insuccesso economico (anche se conserva autonomia organizzativa) dell’attività il contratto in questione non è di affiliazione commerciale perché “l’affiliante” non è autonomo.
Questa interpretazione dell’espressione permette di accostare la previsione dell’art. 1, l. 129/04 a disposizioni del Codice civile relative ad altre fattispecie contrattuali. In particolare, l’art 1655 c.c.
204 Xxxxxxxxxx, Xxxxxx & ass., Xxxxxxxxx di distribuzione, op. cit. p. 585
205 Trib. Milano 25/06/2005, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, XX, x. 00