CAPITOLO X
CAPITOLO X
(di Xxxxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxx X’Xxxxxx)
SOMMARIO: 1. Contratto atipico – 2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione – 3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale – 4. Condizioni generali e clausole vessatorie – 5. Oggetto – 6. Causa –
7. Forma – 8. Preliminare del preliminare, preliminare ed esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre – 9. Condizione – 10. Interpretazione e qualificazione del contratto – 11. Esecuzione secondo buona fede. – 12. Clausola penale e caparra – 13. Rappresentanza e ratifica – 14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi – 15. Simulazione – 16. Nullità del contratto – 17. Annullabilità e rescissione del contratto – 18. Risoluzione del contratto.
1. Contratto atipico. In sintonia con orientamenti già espressi dalla Suprema Corte, Sez. 1, n. 15370/2015, Scaldaferri, Rv. 636156, ha ribadito come rientri nella autonomia privata convenire la unilaterale o reciproca assunzione di un prefigurato rischio futuro, estraneo al tipo contrattuale prescelto, a tal stregua modificandolo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, purchè ciò avvenga nel rispetto dei criteri di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c..
In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la valutazione del giudice di merito che non aveva ravvisato l’esistenza ex ante di uno squilibrio tra le prestazioni delle parti di un contratto di finanziamento in lire con clausola parametrica in yen, avendo entrambe assunto il rischio delle oscillazioni del cambio, a quel tempo notoriamente più favorevole alla valuta straniera.
In una diversa fattispecie, la Suprema Corte, Sez. 6-3, n. 19559/2015, Xx Xxxxxxx, Xx. 000000, ha invece ritenuto non meritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c. l’interesse perseguito mediante un contratto atipico, fondato sullo sfruttamento delle preoccupazioni previdenziale dell’utenza da parte di operatori professionali ed avente ad oggetto il compimento di operazioni negoziali complesse relative alla gestione di fondi comuni comprensivi anche di titoli di dubbia redditività, il cui rischio sia unilateralmente trasmesso sul cliente, al quale, invece, il prodotto venga presentato come rispondente alle esigenze di previdenza complementare, a basso rischio e con libera possibilità di disinvestimento senza oneri.
Xxxxx X’Xxxxxx ha redatto i par. da 1 a 9 e Xxxxxxxxx Xxxxxxx quelli da 10 a 18.
La medesima pronuncia ha infatti evidenziato come un simile contratto si ponga in contrasto con i principi desumibili dagli artt. 38 e 47 Cost. sulla tutela del risparmio e l’incentivo delle forme di previdenza, anche privata, ed ha conseguentemente ritenuto inefficace per l’ordinamento un contratto atipico il quale, ricorrendo le predette circostanze, si traduca nella concessione, all’investitore di un mutuo, di durata ragguardevole, finalizzato all’acquisto di prodotti finanziari della finanziatrice, e nel contestuale conferimento a quest’ultima di un mandato per l’acquisto dei prodotti anche in situazione di potenziale conflitto di interessi.
In tema di leasing, le Sezioni Unite sono state investite della questione di massima di particolare importanza concernente le azioni direttamente proponibili dall’utilizzatore nei confronti del venditore e, segnatamente, quella di risoluzione della vendita per inadempimento di quest’ultimo.
La chiave di volta della questione, ha chiarito Sez. U, n. 19785/2015, Spirito, Xx. 000000, xxxxxxx nella configurazione strutturale del contratto in discorso, posto che, se lo si ravvisa come contratto unitario plurilaterale, è agevole farne discendere l’esperibilità dell’azione di risoluzione da parte dell’utilizzatore contro il fornitore, essendo quest’ultimo considerato anch’egli parte del contratto di compravendita, mentre ciò non è possibile se l’interprete, pur riconoscendo l’indiscutibile collegamento esistente tra i due negozi, tiene ben distinti il contratto di vendita dal contratto di locazione, poiché in questa seconda ipotesi, il contratto di vendita è, per l’utilizzatore, res inter alios acta.
Le Sezioni Unite hanno quindi risolto la questione osservando che l’operazione di leasing finanziario si caratterizza per l’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di leasing propriamente detto, concluso tra concedente ed utilizzatore, e quello di fornitura, concluso tra concedente e fornitore, allo scopo, noto a quest’ultimo, di soddisfare l’interesse dell’utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa. È proprio in forza di tale collegamento, prosegue la Corte, che l’utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all’adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguentemente sofferto, e ciò pur restando ferma l’individualità propria di ciascun tipo negoziale.
Tuttavia, la medesima pronuncia precisa che, in mancanza di un’espressa previsione normativa al riguardo, l’utilizzatore non può, invece, esercitare l’azione di risoluzione, o di riduzione del prezzo, del contratto di vendita intercorso tra il fornitore ed il concedente, se non in presenza di specifica clausola contrattuale con la quale gli
venga dal concedente trasferita la propria posizione sostanziale, restando il relativo accertamento rimesso al giudice di merito, poiché riguarda non la legitimatio ad causam ma la titolarità attiva del rapporto.
Le Sezioni Unite, con la medesima sentenza, hanno affrontato anche il tema della tutela dell’utilizzatore, in particolare al fine di individuare i rimedi da quest’ultimo esperibili nelle ipotesi di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria che la rendano inidonea all’uso. Sul punto, la sentenza afferma che occorre distinguere l’ipotesi in cui i vizi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall’utilizzatore) da quella in cui siano emersi successivamente alla stessa perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore, atteso che nella prima ipotesi, assimilabile a quello della mancata consegna, il concedente, informato della rifiutata consegna, in forza del principio di buona fede, è tenuto a sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore e, ricorrendone i presupposti, ad agire verso quest’ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo, mentre nel secondo caso l’utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, e il concedente, una volta messo a conoscenza dei vizi, ha i medesimi doveri di cui all’ipotesi precedente.
In ogni caso, conclude la sentenza delle Sezioni Unite, l’utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente.
In altro ambito, ovvero quello del rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero), merita attenzione Sez. 3,
n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984, la quale ha ravvisato la fonte di tale rapporto in un “atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo”.
In forza di un simile contratto, prosegue la sentenza, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.
Sulla base di tali premesse sistematiche, la Corte approda alla conclusione che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai
sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.
2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione. Sulla operatività della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. si segnalano due interessanti pronunce relative, rispettivamente, l’una, all’ipotesi in cui il destinatario dell’atto sia utilizzatore di casella postale, l’altra, ad un procedimento di irrogazione di sanzioni disciplinari.
In particolare, Sez. 3, n. 02070/2015, Xxxxxx, Rv. 634392, ha chiarito che il luogo di pervenimento della corrispondenza all’indirizzo del destinatario, utilizzatore del servizio di casella postale, va individuato, agli effetti dell’art. 1335 c.c.., nell’ufficio di destinazione presso il quale l’ente postale, pervenuta la corrispondenza, ne rileva la riferibilità al destinatario, provvedendo all’attività di inserimento nella casella, senza che rilevi che questa sia allocata, per il ritiro, presso altro ufficio del medesimo luogo.
In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva la disdetta di un contratto di locazione pervenuta all’ufficio postale entro il termine di preavviso, ma consegnata all’addetto al ritiro dopo la scadenza dello stesso, a causa di un errore dell’ufficio postale che aveva comportato il temporaneo mancato inserimento della raccomandata nella casella postale assegnata al destinatario, con conseguente impossibilità di tempestivo ritiro.
Nel settore lavoristico, di rilievo è invece la pronuncia di Sez. L, n. 03984/2015, Buffa. Rv. 634588, la quale ha puntualizzato che, nell’ambito del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. non opera nell’ipotesi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dell’allontanamento del lavoratore dal domicilio e, dunque, dell’impedimento dello stesso a prendere conoscenza della contestazione inviata.
Il principio è stato affermato con riferimento ad una fattispecie in cui è stata ritenuta irrituale la convocazione per
l’audizione a difesa prevista dalla contrattazione collettiva di settore, in quanto il lavoratore ne aveva avuto cognizione solo al rientro nel domicilio, al termine di un periodo di ferie ritualmente autorizzato dal datore di lavoro.
In relazione ai contratti conclusi dalla P.A. e con specifico riferimento ai contratti a trattiva privata, sia pure preceduti da una gara ufficiosa, Sez. 1, n. 10743/2015, Lamorgese, Rv. 635483, ha chiarito che l’atto di aggiudicazione non comporta la conclusione del contratto, bensì, semplicemente, l’effetto di individuazione dell’offerta migliore, cui segue la fase delle trattative precontrattuali.
In tali casi, precisa infatti la sentenza, diritti ed obblighi per la
P.A. ed il privato contraente derivano solo dalla formale stipulazione del contratto, la cui esistenza non può pertanto essere desunta dal comportamento concludente delle parti, consistito nella materiale esecuzione della prestazione.
Peculiare è, inoltre, la situazione esaminata da Sez. 1, n. 05689/2015, Lmorgese, Rv. 634681, in tema di cessione in proprietà di alloggi residenziali pubblici.
Tale pronuncia precisa che, laddove il procedimento attivato con la presentazione della domanda di riscatto si concluda con l’accettazione e la comunicazione del prezzo da parte dell’amministrazione, l’assegnatario in locazione, in mancanza di fatti impeditivi sopravvenuti (come la decadenza o la revoca dell’assegnazione), diviene titolare di un diritto soggettivo alla stipula del contratto di compravendita, suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c.
Ben diversa, invece, è la posizione dell’assegnatario in locazione nel caso in cui l’amministrazione non abbia comunicato l’accettazione della domanda di riscatto e l’indicazione del relativo prezzo di acquisto: in tale evenienza, puntualizza la sentenza, non sorge alcun diritto quand’anche la legge indichi già i criteri per la determinazione del prezzo sulla base di parametri vincolanti, giacché non può ritenersi venuta meno la discrezionalità tecnica dell’amministrazione nella valutazione della sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda.
Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 10020/2015, Mercolino, Rv. 635433, ha puntualizzato che l’efficacia dei contratti conclusi con la
P.A. è subordinata all’approvazione ministeriale ai sensi dell’art. 19 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, norma che richiede un provvedimento espresso, adottato dall’organo competente nella forma solenne prescritta dalla legge, la cui esistenza non può desumersi dalla condotta dell’Amministrazione.
Sulla base di tali considerazioni, la pronuncia ha quindi affermato che, ai fini del perfezionamento del vincolo contrattuale, è insufficiente la mera aggiudicazione pronunciata in favore del contraente, pur se accompagnata dal provvedimento con il quale sia stato preventivamente autorizzato il relativo impegno di spesa ai sensi dell’art. 104, comma 2, del r.d. 23 maggio 1924, n. 827.
In tema di conclusione del contratto nel settore degli appalti pubblici, Sez. 1, n. 10750/2015, Genovese, Rv. 635581, ha escluso che l’aggiudicazione provvisoria, la quale ha natura di atto endoprocedimentale, benché generi tra le parti situazioni giuridiche preliminari tutelabili in sede giurisdizionale, possa determinare l’instaurazione del rapporto contrattuale finale tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario.
La pronuncia precisa infatti che tale risultato può conseguire solo all’aggiudicazione definitiva, la quale non è un atto meramente confermativo o esecutivo, ma è un provvedimento affatto autonomo e diverso rispetto all’aggiudicazione provvisoria, anche quando ne recepisca interamente i contenuti.
Infine, con riferimento al contratto di donazione che non sia ancora perfetto, per la mancanza della notificazione al donante dell’atto pubblico di accettazione del donatario, ai sensi dell’art. 782, comma 2 x.x., Xxx. 0, x. 00000/0000, Xxxxxx, Rv. 635042, ha affermato che va riconosciuto in capo all’accipiens il solo animus detinendi e non l’animus possidendi, trattandosi di negozio traslativo non ancora venuto ad esistenza in quanto privo dell’elemento conclusivo di una fattispecie a formazione progressiva.
3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale. L’operatività della norma in materia di integrazione contrattuale è stata affrontata da Xxx. 3, n. 05209/2015, Xxxxxx, Rv. 634698, con specifico riferimento al contratto di somministrazione di acqua potabile da parte del Comune.
La citata pronuncia ha statuito che l’addebito all’utente, non già in base al consumo effettivo, ma secondo il criterio del “minimo garantito”, non può basarsi su di una previsione programmatica contenuta nel regolamento comunale con cui venga ammessa l’eterodeterminazione delle tariffe di utenza da parte dell’ente comunale, ma, al contrario, richiede una specifica delibera comunale che ne fissi i parametri dell’an e del quantum, i quali devono ritenersi imprescindibili al fine di consentirne l’inserimento automatico ex art. 1339 c.c. nel contratto di fornitura.
Un altro caso in cui ha trovato applicazione l’art. 1339 c.c. è offerto da Sez. 3, n. 03596/2015, Xxxxxxx, Rv. 634782, la quale si è pronunciata in materia di locazioni ad uso abitativo, con specifico riguardo ai casi in cui sia intervenuta la rinnovazione tacita di un contratto con canone ultralegale, successivamente all’entrata in vigore della legge 9 dicembre 1998, n. 431: tale situazione, afferma la pronuncia citata, legittima il conduttore ad esercitare l’azione prevista dall’art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392, onde ottenere l’applicazione del canone cd. equo, determinato ai sensi degli artt. 12 e ss. della legge da ultimo citata, a decorrere dall’origine del contratto e fino alla sua naturale scadenza, ivi compreso il periodo successivo alla rinnovazione tacita avvenuta nel vigore della legge n. 431 del 1998, con sostituzione imperativa del canone convenzionale ai sensi dell’art. 1339 c.c.
Interessanti precisazioni sulla responsabilità precontrattuale nella materia assicurativa sono rinvenibile in Sez. 3, n. 08412/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635202, che ha sottolineato il dovere primario, gravante sull’assicuratore (come sul suo intermediario o promotore) ai sensi degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., di fornire al contraente una informazione esaustiva, xxxxxx e completa sul contenuto del contratto, nonché di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze.
La violazione di tali doveri, osserva la pronuncia in discorso, integra quindi una condotta negligente ex art. 1176, comma 2, c.c. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che un’impresa assicuratrice avesse l’obbligo, in relazione ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario, di informare il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti potessero essere inferiori al capitale dal medesimo versato, e ciò anche se la circolare dell’ISVAP, disciplinante ratione temporis la materia, nulla prevedeva a riguardo.
Con riferimento alla responsabilità precontrattuale della P.A., Xxx. 0, x. 00000/0000, Xxxxxxxxx, Xx. 635222 e Rv. 635220, ha chiarito che la stessa non è responsabilità da provvedimento, ma responsabilità da comportamento, in relazione alla quale non rileva dunque la legittimità del provvedimento adottato nella procedura ad evidenza pubblica, ma la correttezza del comportamento tenuto durante le trattative e la formazione del contratto. Pertanto, la P.A. che abbia preteso l’anticipata esecuzione del contratto in attesa dell’approvazione tutoria, poi negata, risponde ex art. 1337 c.c., in considerazione dell’affidamento ragionevolmente ingenerato nell’altra parte.
Peraltro, si legge nella medesima sentenza, in presenza di norme che deve conoscere ed applicare in modo professionale, come quella sulla registrazione del contratto da parte della Corte dei conti, la P.A. che non informi il privato su quanto potrebbe determinare l’invalidità o inefficacia del contratto risponde per culpa in contrahendo, salva la prova concreta dell’irragionevolezza dell’altrui affidamento; da notare che, secondo la pronuncia di cui si discorre, nell’accertare se il privato abbia confidato senza colpa nella validità ed efficacia del contratto con la P.A., agli effetti dell’art. 1338 c.c., il giudice di merito deve verificare in concreto se la norma violata fosse conoscibile dal cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell’univocità dell’interpretazione della norma stessa e della conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità.
Deve invece escludersi che si versi in una ipotesi di responsabilità precontrattuale, con conseguente limitazione del danno risarcibile al solo interesse negativo per perdità di chances e per rimborso delle spese sostenute, nel caso in cui una ASL, avendo accertato, all’esito di una procedura selettiva per il conferimento dell’incarico di medico fiscale, il diritto dell’aspirante ad assumere l’incarico, non adempia all’obbligo di far espletare quell’incarico: in tal caso, afferma infatti Sez. L, n. 18159/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636418, il risarcimento del conseguente danno ha natura contrattuale senza che, in senso contrario, possa opporsi la carenza di affidamento da parte del sanitario in ragione della tempestiva comunicazione dell’esito negativo.
La configurabilità di una responsabilità di natura precontrattuale è stata altresì esclusa da Sez. 1, n. 12262/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635617, con riferimento al comportamento dell’intermediario finanziario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene: siffatta ipotesi, chiarisce infatti la pronuncia citata, configura una responsabilità di natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro intercorrente tra le parti, sicché il danno invocato dal cliente medesimo non può essere limitato al mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale.
4. Condizioni generali e clausole vessatorie. Su questo argomento è stata data continuità all’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale in tema di individuazione delle ipotesi soggette alla
disciplina dell’art. 1341 c.c.. Sulla scia di precedenti pronunce, Sez. 1, n. 07605/2015, DeMarzo, Rv. 634932, ha, infatti, ribadito che un contratto è qualificabile “per adesione” secondo il disposto dell’art. 1341 c.c., e come tale soggetto, per l’efficacia delle clausole cosiddette vessatorie, alla specifica approvazione per iscritto, solo quando sia destinato a regolare una serie indefinita di rapporti e sia stato predisposto unilateralmente da un contraente: ne consegue, precisa la pronuncia, che tale ipotesi non ricorre quando risulta che il negozio è stato concluso mediante trattative intercorse tra le parti. Quanto alla natura vessatoria o meno di alcune specifiche clausole, merita menzione Sez. 6-3, n. 14737/2015, Frasca, Rv. 636089, che ha ricondotto tra le clausole sancite a carico del contraente aderente, anche quelle di proroga tacita o di rinnovazione del contratto, se predisposte dal contraente più forte nell’ambito di un contratto per adesione. Siffatte clausole, precisa la medesima pronuncia, sono pertanto prive di efficacia a norma dell’art. 1341, comma 2, c.c., qualora non siano specificamente approvate per iscritto dal contraente aderente, e ciò anche quando
hanno carattere di reciprocità e bilateralità.
Ancora, la natura di clausola vessatoria, e la conseguente necessità di specifica approvazione scritta, è stata ravvisata da Sez. 6-1, n. 15278/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636044, nell’espressa designazione convenzionale di un foro territoriale esclusivo, contenuta in un contratto bancario per adesione, in quanto siffatta clausola presuppone una inequivoca e concorde volontà delle parti volta ad escludere la competenza degli altri fori previsti dalla legge.
La sentenza citata merita attenzione anche per aver dato continuità ad un indirizzo, già affermatosi nella giurisprudenza della Corte, secondo il quale, per ritenere integrata la specifica approvazione per iscritto, non è necessaria la trascrizione integrale del contenuto della clausola, essendo sufficiente il richiamo, mediante numero o titolo, alla clausola stessa, in quanto in tal modo viene suscitata l’attenzione del sottoscrittore, permettendogli di conoscerne il contenuto.
Sulla stessa linea, si pone anche sez. 3, n. 22984/2015, Xx Xxxxxxx, in corso di massimazione, che ha ritenuto rispettato l'obbligo della specifica approvazione per iscritto della clausola vessatoria, a norma dell'art. 1341 c.c., anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che quest'ultimo non sia accompagnato da un'indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto.
In materia di comodato, Sez. 3, n. 13363/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635801, ha ritenuto vessatoria la clausola che ponga a carico del comodatario tutti i rischi derivanti dalla gestione della cosa data in comodato, e ciò sul rilievo che una tale clausola non è riproduttiva di alcuna regola legale ma, anzi, deroga al generale principio per il quale il comodante non è affatto esonerato per i danni causati dalla cosa data in comodato, posto che ai sensi dell’art. 2051 c.c. anche tale soggetto risponde dei danni derivanti a terzi dalla res commodata, conservandone la custodia.
Non è stata invece ritenuta avente carattere di vessatorietà la clausola di durata del contratto con divieto di recesso anticipato, pur inserita nelle condizioni condizioni generali predisposte da una delle parti in relazione ad un rapporto ad esecuzione continuata o periodica. In proposito, Sez. 6-3, n. 17579/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636924, ha infatti affermato che una clausola di tale tenore non è particolarmente onerosa ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., poiché non sancisce la tacita proroga o rinnovazione del contratto, né limita la facoltà di opporre eccezioni, concernendo piuttosto la pattuizione di un termine, anche non suscettibile di deroga, alla normale disciplina dei contratti di durata.
Merita segnalazione, inoltre, sez. 3, n. 22891/2015, Frasca, in corso di massimazione, che ha ritenuto non vessatoria la pattuizione cosiddetta "a richiesta fatta" ("claims made"), inserita - a prescindere dalla sua veste grafica di clausola contrattuale (o meno) - in un contratto assicurativo, quando costituisce espressione di un accordo delle parti diretto a delimitare l'oggetto stesso del contratto, dovendosi ritenere in tal caso realizzata una lecita deroga al modello legale tipico previsto dall'art. 1917, comma 1, c.c.; la medesima pronuncia ha altresì precisato che la stessa clausola “claims made”, per contro, presenta natura vessatoria quando, nell'economia complessiva della polizza, si atteggi a "condizione" volta a limitare l'oggetto del contratto siccome definito da altra clausola, e ciò in ragione della funzione limitativa che svolge, in tale ipotesi, della precedente e piu' ampia previsione contrattuale.
5. Oggetto. Meritano attenzione in primo luogo alcune pronunce che hanno riguardato l’oggetto contrattuale desumibile da determinate tipologie di contratti assicurativi.
Così, Sez. 3, n. 02469/2015, Travaglino, Rv. 634437, ha precisato che, qualora le parti del contratto abbiano espressamente subordinato l’operatività della garanzia assicurativa all’adozione, da parte dell’assicurato, di specifiche misure di sicurezza, il giudice non
può sindacare la loro concreta idoneità ad evitare l’evento dannoso, e quindi, ove questo si verifichi indipendentemente da tale inosservanza, non può riconoscere l’obbligo dell’assicuratore a corrispondere l’indennizzo ove vi sia comunque stata la mancata adozione delle misure pattuite per la difesa del bene protetto.
A tale conclusione la pronuncia citata è pervenuta osservando che dette clausole non realizzano una limitazione di responsabilità dell’assicuratore, ma individuano e delimitano l’oggetto stesso del contratto ed il rischio dell’assicuratore.
Nella fattispecie esaminata dalla Corte, il principio così espresso ha determinato l’esclusione dell’obbligo di indennizzo a carico dell’assicuratore in relazione ad un furto avvenuto mediante l’uso fraudolento delle chiavi autentiche di una cassaforte, in presenza di una clausola contrattuale che escludeva il rischio garantito nell’ipotesi di impiego sia pur fraudolento di chiavi vere.
Ancora in materia assicurativa, Sez. 3, n. 12896/2015, Pellecchia, Rv. 635935, ha chiarito l’oggetto di un contratto di assicurazione con clausola “loan receipt” nel senso seguente: l’assicuratore, in caso di sinistro, non paga l’indennizzo all’assicurato ma glielo versa a titolo di mutuo, sotto condizione che sarà restituito solo per la parte che l’assicurato riuscirà a recuperare e, contestualmente, con la costituzione in pegno del credito dell’assicurato verso il responsabile a favore dell’assicuratore, cui viene conferito mandato per la relativa riscossione. La pronuncia citata precisa altresì che l’assicuratore, ove versi la somma sulla base di un “loan receipt”, ha altresì diritto di surroga ex art. 1916 c.c. e, conseguentemente, può agire contro il responsabile in nome proprio.
Con riferimento all’assicurazione per la responsabilità civile conseguente all’attività professionale esercitata da un commercialista, Sez. 3, n. 12872/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635882, ha affermato che deve ritenersi coperto dalla garanzia (salva espressa esclusione contrattuale) anche il caso in cui l’assicurato, nell’espletamento della attività di ausiliare di giustizia come curatore fallimentare, si renda responsabile di danno ingiusto ai sensi degli artt. 2043 c.c. e 38, comma 1, l.fall..
La ratio di tale conclusione, si legge nella motivazione della citata pronuncia, va rinvenuta nella circostanza che le funzioni di curatore fallimentare rientrano tra quelle previste dalla legge per il commercialista, che quale professionista intellettuale non esaurisce la sua attività nell’ambito del contratto di prestazione d’opera intellettuale, ma resta professionista privato anche quando espleta
un incarico giudiziario (curatore fallimentare, consulente tecnico d’ufficio), in relazione al quale svolge pubblici poteri.
Di sicuro interesse è anche la puntualizzazione dell’oggetto contrattuale offerta da Sez. 1, n. 16544/2015, Xxxxxxx, Rv. 636501, in relazione ad un contratto d’appalto di opere pubbliche nel quale le parti abbiano fatto riferimento ad una norma legislativa (nella specie, l’art. 32 della l. n. 109 del 1994, in tema di arbitrato).
La pronuncia osserva infatti che, in tale ipotesi, il contenuto della norma stessa viene recepito nella dichiarazione negoziale formandone elemento integrante, sicché l’estensione e i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula, mentre le successive vicende di detta norma possono spiegare influenza sul rapporto solo se e quando le parti manifestino, anche tacitamente, la volontà di tenerne conto a modificazione dei pregressi accordi.
Interessanti sono, inoltre, le considerazioni di Sez. 2, n. 08109/2015, Oricchio, Rv. 635032, sulle conseguenze che derivano dalla sostituzione dell’oggetto della compravendita, avvenuta con il consenso delle parti: in una tale evenienza, afferma la pronuncia di cui si discorre, si producono gli stessi effetti della novazione oggettiva prevista dall’articolo 1230 c.c., sussistendone entrambi i requisiti dell’aliud novi e dell’animus novandi, con la conseguenza che le parti si ritrovano nelle identiche posizioni con i rispettivi oneri ed obblighi.
6. Causa. L’illeicità della causa concreta perseguita dalle parti ha determinato la declaratoria di nullità del contratto in alcune significative pronuncie intervenuta sulla questione.
Tra queste, si segnala Sez. 3, n. 19220/2015, Petti, Rv. 637085, che ha dichiarato nullo, ex art. 1343 c.c., proprio per l’illiceità della causa concreta, un contratto di locazione avente ad oggetto un locale seminterrato da adibire ad attività lavorativa, in quanto diretto a realizzare un godimento del bene corrispondente ad un’attività vietata dall’ordinamento con norma imperativa, costituita dall’art. 8 d.P.R. n. 303 del 1956, applicabile ratione temporis, Analogamente, Sez. 1, n. 01625/2015, Xxxxxxxxx, Rv.
634838, ha ritenuto affetto da nullità, per illiceità della causa in concreto, il contratto di sale and lease back, ove violi il divieto di patto commissorio, salvo che le parti, con apposita clausola (cd. patto marciano), abbiano preventivamente convenuto che al termine del rapporto – effettuata la stima del bene con tempi certi e modalità
definite, tali da assicurare una valutazione imparziale ancorata a parametri oggettivi ed autonomi ad opera di un terzo – il creditore debba, per acquisire il bene, pagare l’importo eccedente l’entità del suo credito, sì da ristabilire l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni e da evitare che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia.
La medesima pronunciaha peraltro ha precisato che la previsione di differenti modalità di stima del bene, per come emerse nella pratica degli affari, è ammissibile purché dalla struttura del patto marciano in ogni caso risulti, anticipatamente, che il debitore perderà la proprietà del bene ad un giusto prezzo, determinato al momento dell’inadempimento, con restituzione della differenza rispetto al maggior valore, mentre non costituisce requisito necessario che il trasferimento della proprietà sia subordinato al suddetto pagamento, potendosi articolare la clausola marciana nel senso di ancorare il passaggio della proprietà sia al solo inadempimento, sia alla corresponsione della differenza di valore.
In materia tributaria, è degna di nota Sez. 5, n. 00405/2015, Xxxxxxxx, Rv. 634069, che ha fondato l’accertamento della sussistenza di una condotta elusiva sulla causa concreta del contratto.
In tale ottica, la sentenza citata ha precisato che l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un “indebito” vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale.
Da tale premessa la Corte è approdata ad escludere che ricada nell’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, un contratto di “sale and lease back”, caratterizzato dalla “clausola tandem”, in virtù della quale la banca finanziatrice subentra alla società di leasing nel credito per i canoni residui, in quanto tale operazione, pur procurando al contribuente un risparmio d’imposta, collegato all’accelerata deducibilità della prima maxi-rata, consente di realizzare un concreto interesse, che rientra nella libertà d’iniziativa economica, sostituendo un pregresso debito bancario con un finanziamento a condizioni migliori, e non risulta, pertanto, irragionevole rispetto alle ordinarie logiche d’impresa.
Sulla stessa linea si pone anche Sez. 5, n. 17175/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636360, la quale, sempre con riferimento ad un contratto di “sale and lease back”, ha ribadito che la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad
integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione però che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale.
7. Forma. Di sicuro interesse, per la frequente ricorrenza della fattispecie, è Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, relativa al contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n.
431. Un simile contratto, afferma la pronuncia citata, è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all’evasione fiscale; fa eccezione l’ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. In concreto, precisa la medesima sentenza, l’abuso deve ritenersi realizzato ove “il locatore ponga in essere una inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al fine di costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità”.
In materia di comunione, Sez. 2, n. 14694/2015, Xxxxx, Rv. 635902, ha ribadito che l’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, sottolinea la detta pronuncia, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che, trattandosi di beni immobili, deve essere espresso in forma scritta ad substantiam.
Con riferimento ai contratti ultranovennali di affitto di fondi rustici a coltivatore diretto, interessante è la precisazione di Sez. 3,
n. 10136/2015, Xxxxxxx, Xx. 000000, circa la portata dell’art. 41 della
legge 3 maggio 1982, n. 203, il quale stabilisce la validità ed efficacia anche nei confronti dei terzi di tali contratti, pur se stipulati in forma verbale e non trascritti: si tratta, osserva la citata pronuncia, di una deroga alla disciplina di cui agli artt. 1350, n. 8), e 2643, n. 8), c.c., secondo cui tutti i contratti di locazione immobiliare ultranovennali (e quindi anche quelli agrari) debbono farsi a pena di nullità per atto pubblico o scrittura privata, ma non agli artt. 2923
c.c. e 560 c.p.c., sicchè, in caso di pignoramento del bene oggetto del rapporto agrario, il contratto ultranovennale è opponibile all’aggiudicatario d’asta solo se recante data certa anteriore al pignoramento e, se non trascritto, solo nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione.
Nell’ipotesi di contratto preliminare di compravendita immobiliare per persona da nominare, Sez. 2, n. 15944/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636202, ha ritenuto soddisfatto il requisito della forma scritta della dichiarazione di nomina ex art. 1402 c.c. ove la electio amici sia avvenuta in sede di assemblea dei soci di una società cooperativa, quale promittente venditrice, con verbalizzazione e sottoscrizione da parte del socio assegnatario, promissario acquirente, nonché del terzo nominato.
Anche la risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam, al pari del contratto risolutorio di un definitivo, rientrante nell’espressa previsione dell’art. 1350 c.c., in quanto, come osservato da Sez. 2, n. 13290/2015, Xxxxx, Rv. 635893, la ragione giustificativa dell’assoggettamento del preliminare alla forma ex art. 1351 c.c. – da ravvisare nell’incidenza che esso spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l’assunzione di obbligazioni – si pone in termini identici per il contratto risolutorio del preliminare stesso.
Da notare invece che, come ritenuto da Sez. 6-5, n. 21764/2015, Xxxxxxxxxx, Rv. 636996, la semplice modifica della clausole di un contratto per il quale la forma scritta è richiesta solo ad probationem e non ad substantiam (nella specie, si trattava di un contratto di affitto di azienda stipulato in forma pubblica ex art. 2556 c.c.), così come la risoluzione consensuale, non deve essere pattuita necessariamente con un accordo esplicito dei contraenti, potendo risultare anche da un comportamento tacito concludente.
Sui limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, si è espressa Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634413”, sottolineando che tali
limiti, così come quelli di valore previsti dall’art. 2721 c.c.. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l’esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo, qual è il curatore che agisce in revocatoria fallimentare. In applicazione di tale principio la Corte ha quindi ritenuto ammissibile la prova per presunzioni dell’accordo, intervenuto tra il fallito ed il convenuto nel giudizio di revocatoria, diretto a porre in essere una situazione di coesistenza di reciproci debiti allo scopo di ottenerne l’estinzione per compensazione in danno degli altri creditori.
Quale coerente applicazione di tale assunto, Sez. 2, n. 05165/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 634706, ha ritenuto l’inammissibilità della prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e di quella per presunzioni, in relazione ad una contraversia instaurata per accertare l’esistenza di un rapporto di agenzia tra le parti ed ottenere il pagamento dei relativi compensi provvisionali: il contratto di agenzia, infatti, deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 1742, comma 2, c.c., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, sicché la prova della sua esistenza non può rivacarsi, come nella specie asserito, neppure dai documenti comprovanti l’effettuazione delle prestazioni riconducibili al rapporto.
Va tuttavia ricordato che, in mancanza di espressa previsione normativa della forma scritta, vige nel nostro ordinamento il principio generale di libertà di forma, in applicazione del quale Sez. L, n. 04176/2015, Nobile, Rv. 634576, ha ritenuto valido l’accordo aziendale anche se non stipulato per iscritto, affermando conseguentemente che non è necessaria la forma scritta neppure per la ratifica di un accordo aziendale stipulato da falsus procurator, ossia da organizzazione aziendale priva di rappresentanza, e che, pertanto, la ratifica potrebbe intervenire anche per facta concludentia.
Con riferimento, infine, ai contratti stipulati con la P.A., Sez. 1, n. 05263/2015, Xxxxx, Rv. 634726, ha ricordato che gli stessi devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta con la sottoscrizione di un unico documento, salva la deroga prevista dall’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, per i contratti con le imprese commerciali, che possono essere conclusi attraverso atti non contestuali, a mezzo di corrispondenza “secondo l’uso del commercio”. Anche in quest’ultimo caso, precisa la sentenza citata,
non è comunque sufficiente che da atti scritti risultino comportamenti attuativi di un accordo solo verbale e, pertanto, le fatture prodotte in giudizio dalla P.A. convenuta non possono rappresentare la forma scritta dell’accordo e non sono neppure suscettibili di rappresentare un comportamento processuale implicitamente ammissivo del diritto sorto dall’atto negoziale non esibito.
Su tale argomento è intervenuta anche Xxx. 1, n. 12316/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635756, la quale ha puntualizzato che i menzionati contratti stipulati dalla P.A. a trattativa privata ai sensi dell’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, pur richiedendo in ogni caso la forma scritta ad substantiam, possono anche non risultare da un unico documento, ove siano stipulati secondo l’uso del commercio e riguardino ditte commerciali. Peraltro, la medesima pronuncia ribadisce che, ai fini del perfezionamento del contratto, occorre in ogni caso lo scambio di proposta e accettazione, non potendo ritenersi sufficiente che la forma scritta investa la sola dichiarazione negoziale della Amministrazione, né che la conclusione del contratto avvenga per facta concludentia, con l’inizio dell’esecuzione della prestazione da parte del privato attraverso l’invio della merce e delle fatture, secondo il modello dell’ accettazione tacita previsto dall’art. 1327 c.c.
Il requisito della forma scritta ad substantiam per i contratti della P.A. si atteggia, però, in modo peculiare nel contratto di patrocinio legale, in quanto, come chiarito da Sez. 6-3, n. 03721/2015, Xxxxxxxx, Rv. 634430, in tale ipotesi il predetto requisito è soddisfatto mediante il rilascio al difensore, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., con atto pubblico o scrittura privata autenticata, di una procura generale alle liti purché in essa sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie per le quali opera.
8. Preliminare del preliminare, preliminare ed esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Merita in primo luogo risalto Sez. U, n. 04628/2015, D’Xxxxxx, Xx. 000000, la quale, rivisitando un precedente orientamento espresso dalla stesse Sezioni Unite (con sentenza n. 8038 del 2009), ha affermato che la stipulazione di un contratto “preliminare di preliminare”, ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l’esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un
interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
La medesima pronuncia ha precisato, altresì, che la violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale.
La nozione di “causa concreta” è stata la chiave di lettura utilizzata dalle Sezioni Unite nella citata sentenza per riconsiderare gli approdi schematici ai quali erano pervenute in passato dottrina e giurisprudenza (quest’ultima definendo il “preliminare del preliminare” come “una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela”): tale via interpretativa ha, infatti, condotto le Sezioni Unite ad osservare che dietro la stipulazione contenente la denominazione di “preliminare del preliminare” vi possono essere situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche, ma alle quali corrisponde una “causa concreta” meritevole di tutela, sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale che vede intensificato e meglio praticato l’obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c.
In tema di contratto preliminare di vendita, Sez. 2, n. 04164/2015, Matera, Rv. 634464, ha opportunamente precisato che il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell’altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario. La medesima sentenza ha sviluppato tale principio affermando che il promissario acquirente, il quale ignori che il bene, all’atto della stipula del preliminare, appartenga in tutto od in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo, in quanto il promittente venditore, fino a tale momento, può adempiere all’obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene, acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest’ultimo a trasferirgliela.
Affrontando il particolare caso di un contratto preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa, Sez. 6-2, n. 01866/2015, D’Xxxxxx, Xx. 000000, ha ritenuto che, qualora uno dei promittenti venditori sia stato dichiarato fallito anteriormente alla
stipula del preliminare, la relativa dichiarazione di volontà è invalida, sicché va escluso che l’accordo si sia concluso, ovvero che il promissario acquirente possa agire ex art. 2932 c.c. nei confronti dei restanti promittenti, in quanto, in mancanza di prova contraria, le singole manifestazioni di volontà dei contraenti non hanno specifica autonomia perché destinate a fondersi in un’unica dichiarazione negoziale sul presupposto che il bene costituisca un “unicum” inscindibile.
Qualora invece si versi in una ipotesi di preliminare di vendita nel quale il promissario acquirente si sia riservato la facoltà di nominare un terzo fino al tempo del rogito ma la electio amici non sia intervenuta prima di tale momento, Sez. 2, n. 04169/2015, Parziale, Rv. 634705, ha ritenuto che lo stesso promissario possa agire per l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto effettuando la nomina al più tardi in seno alla domanda giudiziale, risultando invece tardiva la nomina intervenuta in corso di giudizio, con conseguente consolidamento degli effetti del contratto in capo all’originario contraente.
Interessante è anche la puntualizzazione di Sez. 2, n. 21855/2015, Xxxxx, Rv. 636876, in merito alla dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia a norma dell’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, la quale, avendo natura negoziale, deve essere fatta dalla parte, sicché la sentenza ex art. 2932 c.c. non può essere pronunciata in base a una dichiarazione del difensore del promissario acquirente.
È stato infine evidenziato da Sez. 6-3, n. 08607/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635149, con specifico riferimento al preliminare di locazione, che la sentenza ex art. 2932 c.c.. non ha efficacia retroattiva e vale solo per il futuro, sicché è inidonea ad assicurare tutela al promittente locatore per il periodo pregresso relativamente ai canoni non percepiti, i quali possono, invece, essere ottenuti tramite le domande di risarcimento del danno o indennità d’occupazione. A fronte di tale principio, e dunque in considerazione della non idoneità della norma invocata ad assicurare il bene della vita chiesto dall’attore, è stata rigettata l’azione ex art. 2932 c.c. promossa con riferimento ad un preliminare di locazione a termine, avente scadenza anteriore alla data dell’eventuale sentenza, finalizzata ad ottenere il pagamento di tutti i canoni pregressi.
9. Condizione. In materia di condizione, di particolare interesse è la fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 05411/2015, Xxxxxxxx, Rv. 634905, con rifemento all’ipotesi in cui l’acquisto della
proprietà immobiliare sia subordinato alla condizione sospensiva del rilascio della concessione edilizia: in tal caso, chiarisce la citata pronuncia, la verifica dell’avveramento dell’evento dedotto in condizione si estende alla valutazione della legittimità della concessione edilizia rilasciata poiché, nelle controversie tra privati derivanti dall’esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici, ciò che rileva è la lesione di diritti soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime, mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente.
Secondo Sez. 2, n. 02119/2015, Xxxxxxx, Rv. 634208, inoltre, le parti di un contratto preliminare avente ad oggetto un terreno lottizzando possono condizionare risolutivamente l’efficacia del contratto stesso alla mancata approvazione entro un certo termine del piano di lottizzazione, quale momento autonomo rispetto alla convenzione: ciò in quanto, chiarisce la sentenza in discorso, il piano di lottizzazione costituisce presupposto logico-giuridico della conseguente convenzione di lottizzazione, e il relativo procedimento amministrativo si perfeziona con la sua approvazione da parte del Comune, ai sensi dell’art. 28 della legge 17 agosto 0000,
x. 0000, xxxxxx xx xxxxxxx della convenzione stessa e la sua trascrizione ne costituiscono condizioni di efficacia.
10. Interpretazione e qualificazione del contratto. Con riferimento all’individuazione dei canoni ermeneutici rilevanti nell’attività ricostruttiva della volontà delle parti, degna di particolare rilievo è Sez. 1, n. 05102/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 634641, che ha sottolineato come fra i criteri enunciati dall’art. 1362 c.c. (il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale) non esista un preciso ordine di priorità, essendo gli stessi destinati ad integrarsi a vicenda nell’ottica di un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione, che devono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale.
Nella stessa pronunzia si è precisato che “la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo)” costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico, nel quale l’oggetto della ricerca è il significato obiettivo del testo. Ed in tale ottica, il senso letterale delle parole è il primo, ma non esclusivo strumento, imponendosi un’indagine comprensiva dell’elemento logico attraverso gli altri canoni interpretativi che devono fondersi ed armonizzarsi fra loro.
Tale impostazione, si è infine specificato, mantiene la sua validità anche quando a redigere l’atto sia un pubblico ufficiale, le cui espressioni linguistiche, pur tenuto conto del maggiore tecnicismo che al soggetto pertiene, vanno interpretate sempre secondo i canoni generali degli artt. 1362 c.c. e ss.
Una significativa declinazione di tale principio, in materia di assicurazione sanitaria, è quella rinvenibile in Sez. 3, n. 17020/2015, Stalla, Rv. 636323, che nel contesto di un’operazione ermeneutica diretta ad individuare gli interventi previsti in contratto come rimborsabili, ha affermato che una corretta implicazione di tutti i criteri normativi impone di verificare se nel testo contrattuale la descrizione degli interventi provvisti di copertura sia formulata con riguardo allo scopo terapeutico perseguito e non già alle tecniche utilizzate per la sua realizzazione, così da includervi anche quelle che, sebbene non previste espressamente dalla lettera del contratto, possano considerarsi più avanzate ma al contempo sempre rivolte al medesimo obiettivo.
Ciò, invero, in quanto la ricostruzione della volontà dei contraenti non può limitarsi al senso letterale delle parole, ma considerare anche le finalità concretamente perseguite dalle parti; il dato testuale, infatti, pur assumendo un rilievo interpretativo fondamentale, non è in sé dirimente a tal fine, potendosi ritenere definitivamente acquisito il significato delle dichiarazioni negoziali solo al termine del processo ermeneutico da estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore.
Tale metodo ricostruttivo è necessario anche in presenza di espressioni che appaiano in sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione, ovvero se posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.
In tema di qualificazione, si segnalano due pronunzie relative agli atti unilaterali che si collocano in linea di continuità con una posizione già assunta da alcune pronunzie degli anni precedenti, concernente la questione della natura – negoziale o di mera dichiarazione di scienza – delle quietanze liberatorie.
Sez. L, n. 09120/2015, Blasutto, Rv. 635291, ha ribadito che detta quietanza – ove rilasciata “a saldo di ogni pretesa” – deve essere intesa di regola come semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell’interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto come semplice dichiarazione di scienza;
diversamente, ove nella quietanza siano ravvisabili specifici elementi
– contenuti nella stessa dichiarazione o desumibili aliunde – donde emerga che la parte l’ha resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, la stessa va qualificata come negozio di rinunzia o transazione. Per tale ragione, la Corte ha nella specie attribuito valore negoziale ad una quietanza rilasciata dal prestatore di lavoro al proprio datore, in relazione alla quale erano emerse intese negoziali pregresse che rivelavano il comune intento delle parti di definire ogni pretesa riferibile al rapporto di lavoro subordinato e di costituirne uno di collaborazione autonoma, in funzione al tempo stesso transattiva e novativa.
In forza del medesimo, richiamato, principio, Sez. L, n. 18094/2015, Xxxxxxxx, Rv. 637023, ha invece ritenuto non ravvisabili gli estremi di un negozio abdicativo nella dichiarazione di un dipendente resa prima dell’erogazione delle competenze di fine rapporto, di non avere pretese fondate sulla prestazione dopo aver ricevuta una somma una tantum, con conseguente esclusione di ogni rinunzia dello stesso al computo nel TFR di un assegno percepito durante un periodo di distacco all’estero.
11. Esecuzione secondo buona fede. Al tema dell’esecuzione del contratto secondo buona fede sono ispirate alcune pronunzie relative al rapporto di lavoro subordinato.
In particolare Sez. L, n. 16465/2015, Xxxxxxx, Rv. 636749, ha ravvisato la contrarietà a buona fede, e perciò l’idoneità a costituire illecito disciplinare, nell'espletamento da parte del lavoratore di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia quando, pur non derivando da tale comportamento un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, questa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente.
Ancora, Sez. L, n. 18972/2015, Blasutto, Rv. 637045, in materia di pubblico impiego cd. privatizzato, ha affermato che gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, rivestendo natura negoziale, sono soggetti all’applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., che obbligano la P.A. a valutazioni comparative motivate, pur restando la scelta rimessa alla discrezionalità datoriale.
La Corte ha conseguentemente ritenuto che, ove la P.A. non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni della selezione, l'illegittimità della stessa renda necessaria una nuova
valutazione datoriale, senza possibilità di un intervento sostitutivo del giudice.
Al principio di buona fede nell’esecuzione contrattuale è poi ispirata la decisione Sez. 3, n. 19212/2015, Xxxxxxx, Rv. 637014, che affrontando il tema della completezza del consenso informato in ambito chirurgico ha ritenuta la responsabilità del medico non solo nel caso di completa omissione di informazioni attinenti alla natura, ai rischi ed alle possibilità di successo della terapia, ma anche quando il consenso sia acquisito con modalità improprie (ed in specie verbalmente), avuto riguardo alle condizioni soggettive del paziente ed alla natura dei trattamenti da eseguire.
12. Clausola penale e caparra. In tema di reductio ad aequitatem della penale convenzionalmente stabilita dalle parti, Sez. 6-1, n. 17731/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 636526, nel ribadire che la scelta di ridurre la penale e la misura della riduzione costituiscono l’esito di un apprezzamento riservato al giudice del merito, ha però sottolineato la necessità che questi espliciti le ragioni che lo hanno indotto a ritenere eccessivo l’importo originario.
A tale specifico riguardo vengono in rilievo due criteri, ovvero (a) la valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento alla data di stipulazione del contratto e (b) l’effettiva incidenza dell’adempimento sullo squilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, il tutto a prescindere da una rigida ed esclusiva correlazione con l’effettiva entità del danno subito.
In tema di caparra confirmatoria, e sempre con riferimento ai poteri officiosi del giudice, è stato poi riaffermato da Sez. 2, n. 19502/2015, Xxxxx, Rv. 636568, che in presenza di una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, poiché la risoluzione e la nullità producono effetti diversi sul piano risarcitorio ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni.
Infine, in merito ai rapporti fra caparra confirmatoria e tutela della parte non inadempiente, Sez. 1, n. 05095/2015, Xxxxxxxxxxx, Rv. 634687, ha ribadito il principio, introdotto da altre pronunzie recenti, secondo cui la ritenzione della caparra confirmatoria consiste in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta a consentire l’immediata definizione del rapporto in caso di
inadempimento, evitando l’instaurazione di un contenzioso per la liquidazione.
Infatti il recesso previsto dal secondo comma dell’art. 1385
c.c. configura una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone l’inadempimento della controparte ed è destinata a divenire operante con la semplice sua comunicazione a quest’ultima; sicché la parte non inadempiente, provocata tale risoluzione mediante diffida ad adempiere, ha diritto di ritenere quanto ricevuto a titolo di caparra confirmatoria come liquidazione convenzionale del danno da inadempimento.
13. Rappresentanza e ratifica. Il tema del contratto concluso dal rappresentante senza poteri è stato oggetto di rilevanti pronunzie che ne hanno riguardato tanto gli aspetti processuali – con particolare riferimento alla proponibilità della relativa eccezione
– quanto quelli sostanziali, nella specie attinenti alla forma ed agli effetti della ratifica.
Sotto il profilo processuale, le Sezioni Unite sono state investite della questione di massima di particolare importanza se l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d’ufficio o solo su eccezione di parte.
In tal senso, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – cui, da ultimo, si era attenuta anche Sez. 1, n. 05105/2015, Didone, Rv. 634774 – si attestava nel senso di ritenere che il contratto concluso dal rappresentante senza poteri non fosse invalido ma soltanto inefficace nei confronti dello pseudo- rappresentato, fino all’eventuale ratifica di questo, e tale inefficacia (temporanea) fosse rilevabile unicamente su eccezione del falso rappresentato e non d’ufficio; ed invero, in sede remittente tale orientamento era stato ritenuto non adeguatamente giustificato alla luce dell’inesistenza di un vincolo giuridico, nonché confliggente con il principio – ormai largamente affermato – secondo cui il giudice del merito può rilevare d’ufficio la mancata conclusione del contratto per difetto d’incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell’inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell’accertamento di un controdiritto, materia di eccezione in senso proprio.
A tale ultimo approdo sono giunte le Sezioni Unite con la sentenza Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, affermando che la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto da parte dello pseudo-rappresentato integra una mera difesa; ciò in
quanto l’esistenza di un effettivo potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice – ove ciò risulti dagli atti – non può non tenerne conto anche in mancanza di una specifica richiesta di parte.
In linea con tale statuizione si colloca Sez. 1, n. 20564/2015, Xxxxxxxxx, 637344, che per il caso in cui lo pseudo-rappresentato agisca in giudizio formulando una domanda che presupponga l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal falsus procurator, ovvero si costituisca adottando un contegno processuale univocamente significativo della sua volontà di fare proprio tale contratto, l’originale carenza rappresentativa è superata in virtù di una ratifica tacita del negozio, il che ulteriormente esclude la possibilità di un suo rilievo officioso.
Quanto, poi, alla forma ed agli effetti della ratifica, si connotano di particolare rilievo Sez. 2, n. 11453/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635511, secondo cui la ratifica del preliminare di vendita immobiliare stipulato dal falsus procurator può anche consistere nell’atto di citazione col quale il rappresentato chiede la risoluzione per inadempimento del promissario acquirente, implicando tale domanda l’univoca volontà del dominus di far proprio l’operato del rappresentante senza poteri, e Xxx. 6-3, n. 05906/2015, Xxxxxxx, Rv. 634904, che in un’ipotesi di ratifica del contratto contenente clausole vessatorie ne ha ritenuta l’estensione anche a queste ultime (ancorchè mai formalmente sottoscritte dal rappresentato), non potendo il ratificante arbitrariamente scindere il contenuto della ratifica ed ipotizzare che essa sia operativa per certe clausole e non per altre.
In tema di rappresentanza apparente, una peculiare applicazione del principio dell’affidamento in tema di responsabilità delle associazioni sportive si deve a Sez. 3, n. 01451/2015, Xxxxxxxx, Rv. 634092, che ha attribuito rilievo alla cd. apparenza di diritto “colpevole” stabilendo che l’associazione non riconosciuta risponde con il proprio fondo comune delle obbligazioni assunte dal rappresentante apparente, ove abbia colpevolmente ingenerato nel terzo di buona fede la ragionevole convinzione in ordine all’esistenza di poteri di rappresentanza non corrispondenti a quelli risultanti in base allo statuto.
Al principio dell’apparenza è ispirato anche quanto puntualizzato da Sez. 3, n. 05208/2015, Stalla, Rv. 634929, che ne ha considerati i risvolti applicativi in tema di efficacia dell’atto di costituzione in mora.
La pronunzia, in particolare, ha preso in considerazione l’effetto interruttivo della mora sulla prescrizione, e muovendo dal presupposto della piena efficacia in tal senso dell’atto di costituzione indirizzato al rappresentante del debitore, ha ritenuto l’idoneità a tal fine dell’atto inviato dal difensore del creditore a quello del debitore una volta appurato che questi possa considerarsi rappresentante effettivo o apparente del primo; tale ultima ipotesi, in particolare, ha ritenuto ricorrere quando il difensore del debitore abbia risposto in nome e per conto del cliente ad una richiesta di pagamento, facendo valere in via stragiudiziale le ragioni del proprio assistito.
Quanto, infine, alla forma della procura, di particolare rilievo appare Sez. 2, n. 20345/2015, Xxxxx, Rv. 636599, in relazione alla rappresentanza a ricevere il pagamento di cui all’art. 1188, comma 1, c.c.; detta pronunzia ha affermato infatti che, trattandosi di atto materiale, tale ultima non è soggetta al rispetto di oneri formali (che la regola dettata dall’art. 1392 c.c. impone ai soli atti unilaterali negoziali) e può così risultare da una condotta concludente, dimostrabile con ogni mezzo, incluse le presunzioni.
14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi. In tema di contratto per persona da nominare, si segnalano alcune pronunzie di rilievo relative alla electio amici.
Sez. 2, n. 15944/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636020, ha affermato che in ipotesi di contratto preliminare di compravendita immobiliare per persona da nominare il requisito formale della dichiarazione di nomina è soddisfatto ove la electio amici avvenga in sede di assemblea dei soci della promittente venditrice con verbalizzazione e sottoscrizione da parte del socio assegnatario, promissario acquirente, nonché del terzo nominato.
Per l’ipotesi in cui la electio amici non sia intervenuta prima del rogito, come pattuito in sede di contratto preliminare, Sez. 2, n. 04169/2015, Parziale, Rv. 634705, ha precisato che la nomina può essere validamente effettuata dal promissario acquirente che agisca per l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto, purchè, al più tardi in seno alla domanda giudiziale, derivandone, ove svolta in corso di giudizio, la sua tardività ed il conseguente consolidamento degli effetti del contratto in capo a se stesso.
Di particolare interesse è poi Sez. 3, n. 09595/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635312, relativa all’ipotesi di impugnazione per revocatoria dell’acquisto da parte del terzo nominato.
La pronunzia in questione – in conformità ai principi consolidati in tema di accertamento dei presupposti per l’esercizio dell’azione nell’ambito di vendite immobiliari attuate secondo la scansione contratto preliminare/contratto definitivo – ha infatti ritenuto che l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901, comma 1,
n. 2), c.c., sia anzitutto valutato con riguardo al nominato ed al momento di accettazione della nomina; e solo ove tale valutazione dia esito negativo debba aversi riguardo agli stati soggettivi del nominante, trovando applicazione l’art. 1391 c.c., poiché nel contratto per persona da nominare i rapporti tra il dichiarante e la persona nominata sono regolati dalla disciplina della rappresentanza volontaria.
Con riferimento al contratto a favore di terzi, si segnala Sez. 3, n. 14665/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636093, che ne ha esteso la disciplina al contratto di trasporto internazionale di merci su strada regolato dalla Convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956 (resa esecutiva in Italia con l. 6 dicembre 1960, n. 1621), per l’ipotesi di subtrasporto su iniziativa del vettore.
Logico corollario di tale impostazione è la legittimazione del destinatario, quale beneficiario del contratto, ad esercitare nei confronti del subvettore tutti i diritti derivanti dalla sua sostituzione al mittente, compreso quello di esigere il risarcimento del danno per la perdita o l’avaria delle cose.
Alla disciplina del contratto a favore di terzi è poi stata ricondotta da Sez. L., n. 10724/2015, Buffa, Rv. 635668, anche l’ipotesi del contratto di assicurazione stipulato dal datore di lavoro in favore dei propri dipendenti ai sensi dell’art. 4 del r.d.l. 8 gennaio 1942 n. 5 (in sostituzione dell’iscrizione al Fondo per l’indennità agli impiegati, previsto dal medesimo decreto); con la conseguenza che, per l’ipotesi di diminuzione di rendimento dei premi ricollegabile a determinazioni datoriali (quali in specie l’omessa riliquidazione delle spettanze di fine rapporto mediante inclusione nell’indennità di buonuscita delle differenze del rendimento dei premi di polizza), si configura una revoca del contratto a favore di terzi a suo tempo stipulato, ed il “congelamento” del capitale è efficace nei confronti di coloro che, assunti successivamente alla stipula della convenzione, non potessero aver dichiarato di volerne profittare.
15. Simulazione. In tema di simulazione va dato particolare risalto alle pronunzie relative alla prova dell’accordo simulatorio.
Di sicuro rilievo è Sez. 1, n. 15845/2015, Genovese, Rv. 636446, che ha precisato come il principio di prova scritta idoneo a
consentire l’ammissione della prova testimoniale per l’accertamento tra le parti della simulazione assoluta (art. 1417 c.c.) può anche essere costituito da una scrittura non firmata (nella specie, un’intervista rilasciata dalla parte ad un giornalista) purché le dichiarazioni in essa contenute siano state espressamente o tacitamente accettate dal dichiarante, del quale non è così necessaria la sottoscrizione.
In tema di prova dell’interposizione fittizia di persona, Sez. Sez. 6-2, n. 13634/2015, Giusti, 635906, ne ha ribadita la soggezione ai limiti di cui all’art. 1417 c.c., vertendosi in ipotesi di simulazione relativa.
Da tale regola la pronunzia ha fatto discendere la legittimazione del coniuge in regime di comunione legale, estraneo all’accordo simulatorio, a far valere la simulazione con libertà di prova rispetto all’acquisto di un bene non personale effettuato dall’altro coniuge durante il matrimonio mediante apparente intestazione a persona diversa, atteso che tale simulazione impoverisce il patrimonio della comunione legale vulnerando il diritto previsto dall’art. 177, lett. a), c.c.
Xxxxx stesso tema va poi segnalato quanto puntualizzato da Sez. 2, n. 04738/2015, Xxxxxxx, Rv. 634675, che ai fini dell’applicazione del relativo regime probatorio ha precisato che in sede di allegazione occorre pur sempre evidenziare il dato imprescindibile della partecipazione all’accordo simulatorio non solo del soggetto interponente e di quello interposto, ma anche del terzo contraente, chiamato ad esprimere la propria adesione all’intesa raggiunta dai primi due secondo un meccanismo effettuale analogo a quello previsto per la rappresentanza diretta.
Xxx, infatti, xxxxxx in capo al terzo la conoscenza degli accordi intercorsi (ovvero l’adesione ad essi, pur se a lui noti), si verte nella diversa fattispecie dell’interposizione reale di persona.
Quanto, infine, alla prova della simulazione del prezzo di compravendita immobiliare, Sez. 2, n. 03234/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 634256, ha riaffermato la regola secondo cui, trattandosi di prova inerente ad un elemento essenziale del contratto, essa deve risultare per iscritto e soggiace così, fra le parti, ai limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 2722 c.c..
Un profilo di specifico interesse riveste poi Sez. 3, n. 13345/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635804, con riferimento al tema del rapporto fra azione di simulazione ed azione revocatoria nei contratti traslativi della proprietà.
Nel ribadire, infatti, la distinzione dei relativi presupposti, la pronuncia ha sottolineato che al fine di ritenere integrati gli estremi della simulazione non è sufficiente la prova dell’alienazione di un bene con l’intento di sottrarlo alla sua generica vocazione di garanzia dei creditori, ma occorre dimostrare che tale alienazione sia stata soltanto apparente, nel senso che né il venditore abbia inteso dismettere la titolarità del diritto, né il compratore abbia inteso acquisirla.
Infine, e con riferimento ai profili processuali dell’azione di simulazione, va segnalata Sez. 3, n. 21775/2015, Travaglino, in corso di massimazione, che per il caso di domanda di accertamento della simulazione di un contratto di compravendita ha ritenuto non viziata da ultrapetizione la decisione del giudice di dichiarare la nullità della più ampia operazione negoziale (nella specie: contratto di sale and lease back) in quanto rilevabile d’ufficio, salva la necessaria previa indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c.
16. Nullità del contratto. In questo ambito, un ruolo certamente preminente è rivestito dalla pronunzia Sez. U, n. 04628/2015, D’Xxxxxx, Xx. 000000, che – in relazione al tema della nullità per mancanza di causa – si è pronunziata sulla validità del cd. preliminare di preliminare, ovvero del contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori.
Di tale fattispecie era infatti stata precedentemente ritenuta la nullità, non ravvisandosi alcuna meritevolezza di tutela nell’interesse di “obbligarsi ad obbligarsi”, in quanto produttivo di un’inutile complicazione.
Le Sezioni Unite hanno invece escluso tale nullità, ritenendo che anche nell’accordo con cui le parti si obbligano a concludere un successivo contratto che preveda solamente effetti obbligatori (e con esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) possa configurarsi un interesse meritevole di tutela ad una formazione progressiva del contratto fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
Tale interesse, ad avviso delle Sezioni Unite, giustifica la “scissione” delle manifestazioni di consenso, evidenziando che le parti sono incerte ed intendono meglio orientarsi sull’affare, che hanno così esigenza di “fermare”, addivenendone al perfezionamento in fasi distinte.
Si tratta, in altre parole, di una progressiva costituzione di vincoli giuridici sull’operazione che le parti hanno inizialmente condivisa negli elementi essenziali, ma della quale intendono fare salva l’esigenza di accertare con certezza la praticabilità prima di definirla in termini più precisi e articolati.
In tal senso, ed a titolo esemplificativo delle esigenze di accertamento, la pronunzia ha indicato: a) l’assunzione di elementi di conoscenza sulla persona della controparte; b) la verifica più precisa dello stato della cosa; c) per il caso di compravendita immobiliare, la verifica della situazione urbanistica o l’effettuazione delle necessarie visure e ricerche.
Le Sezioni Unite hanno dichiaratamente proceduto, pertanto, ad un’indagine sulla causa del contratto condotta su un binario ben più prossimo alla teoria della cd. causa concreta che non alla tradizionale identificazione di tale elemento essenziale con la “funzione economico-sociale” del negozio, evidenziando in particolare che “l’indagine relativa alla causa concreta […] giova sia come criterio d’interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso […] la rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale sia l’interesse che il contratto è volto a realizzare”.
In tale ottica, pertanto, hanno precisato che “una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l’interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all’opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all’art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto […] se mancano violazioni di una legge imperativa, non v’è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l’interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata. […] La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere connotata da disvalore, se corrisponde a un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell’operazione negoziale”.
Affronta il tema della nullità per mancanza di causa anche Sez. 1, n. 22567/2015, Xxxxx, in corso di massimazione, escludendone la ricorrenza nell’ipotesi di squilibrio originario fra le prestazioni di un contratto di acquisto di quote societarie.
La Corte ha rilevato che nei contratti di scambio la mancanza di causa si configura piuttosto come impossibilità giuridica di una
delle prestazioni, e lo squilibrio economico originario non priva il contratto di causa, vigendo nell’ordinamento il principio di autonomia negoziale; ragion per cui, nel caso di contratto caratterizzato dallo scambio fra un bene ed un prezzo solo l’indicazione di un prezzo meramente apparente o simbolico – e come tale privo di valore – varrebbe quale causa di nullità, mentre un prezzo notevolmente inferiore al valore della controprestazione pone solo un problema concernente l’adeguatezza e l’effettiva corrispettività delle prestazioni.
Infine, e sempre con riferimento alla causa, merita di essere richiamata Sez. 3, n. 05201/2015, Xxxxxxx, Rv. 636073, relativa ad una fattispecie in tema di prelazione agraria caratterizzata dal ricorso ad una operazione negoziale complessa avente ad oggetto il trasferimento di un fondo agricolo a mezzo di strumenti contrattuali che, pur leciti, erano finalizzati, nel loro nesso teleologico, ad impedire che l'affittuario esercitasse la prelazione; la Corte ha ritenuto la necessità di procedere, in tal caso, ad un’indagine circa l’effettivo perseguimento dell’obiettivo vietato dalla legge il cui accertamento positivo non comporta la nullità dei contratti, esulando la fattispecie dalla previsione dell'art. 1418 c.c. e dalla tutela generalizzata di cui all'art. 1421 c.c., ma consente al titolare del diritto di retratto, attraverso un meccanismo di protezione che richiama le nullità relative, l'esercizio del medesimo diritto, mediante sostituzione dell'acquirente voluto dal venditore con il soggetto individuato dalla legge.
Un significativo novero di pronunzie ha poi riguardato il tema della nullità per contrarietà a norme imperative, in relazione ad un’ampia gamma di fattispecie negoziali.
Sez. 2, n. 01680/2015, Xxxxx, Rv. 634967, ha riaffermato la nullità della clausola contenuta nel contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, da intendersi come tutte quelle aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio anche solo di una parte delle unità di proprietà individuale.
Infatti, anche in tale ultimo caso, vertendosi in ipotesi di cd. condominio parziale, tale clausola finirebbe con il concretare la rinunzia di un condomino alle parti comuni, vietata dal capoverso dell’art 1118 c.c.
Ancora, Sez. 1, n. 19658/2015, Xxxxx, 637261, ha escluso che la vendita di un immobile abusivo eseguita nell’ambito di una procedura concorsuale possa soggiacere alla nullità prevista dall’art.
40, comma 2, della l. 28 febbraio 1985 n. 47, non applicabile alla fattispecie.
Sempre in tema di vendita immobiliare, poi, è stato riaffermato da Sez. 2, n. 18261/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 636444, il principio secondo cui gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono nulli, ai sensi dell’art. 40, comma 2, della l. n. 47 del 1985, sia nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso (nullità di carattere formale).
In materia locatizia va poi segnalata Sez. 3, n. 17026/2015, Xx Xxxxxxx, Xx. 000000, concernente la particolare ipotesi di locazione ad uso non abitativo rinnovatosi alla prima scadenza in difetto di disdetta motivata ex art. 27 della l. 27 luglio 1978, n. 392.
La Corte ha ritenuto la nullità dell’accordo successivamente intervenuto fra le parti per la stipula di un nuovo contratto con retrodatazione della decorrenza, durata residua (misurata a far tempo dalla data della stipula) inferiore a quella legale ed aumento retroattivo del canone, affermando che si tratta di un accordo chiaramente violativo delle disposizioni inderogabili in materia di durata minima ed immodificabilità del canone in costanza di rapporto.
Sempre in materia locatizia, merita di essere segnalata per le sue rilevanti implicazioni sul piano processuale Sez. 3, n. 21930/2015, Xxxxxxx, Rv. 637565, secondo cui nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di disporre il rilascio di un immobile per finita locazione, il giudice può rilevare la nullità del contratto, in quanto avente ad oggetto un alloggio di edilizia residenziale pubblica e stipulato in violazione dell'art. 26, comma 5, della legge n. 513 del 1977, ma, al tempo stesso, attribuire all'attore il bene della vita domandato, sul rilievo della carenza di un titolo giustificativo del godimento dello stesso da parte del convenuto, atteso che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato non osta alla attribuzione all'attore del bene reclamato per ragioni giuridiche diverse da quelle dallo stesso prospettate.
Di particolare interesse per i suoi profili interpretativi del contenuto dell’art. 1418 c.c. è Sez. 1, n. 07752/2015, Lamorgese, Rv. 634972, che in materia di appalto di opere pubbliche ha affermato che l’ipotesi di nullità per contrarietà a norme imperative di cui all’art. 21 della l. 13 settembre 1982, n. 646 – che vieta all’appaltatore di opere pubbliche di concederle in subappalto senza
l’autorizzazione dell’autorità competente – si riferisce esclusivamente ai subappalti di opere o servizi, escluso ogni altro contratto derivato dall’appalto, quantunque ad esso strumentale od accessorio; e ciò in un’ottica di stretta interpretazione del precetto invalidante, che diversamente interpretato finirebbe col comportare un’eccessiva limitazione dell’ambito applicativo del subappalto, in contrasto con la normativa comunitaria che lo ritiene strumento idoneo a favorire la concorrenza.
Ancora, Sez. 2, n. 03816/2015, Xxxxxxx, Rv. 634523, ha ritenuto la nullità del contratto di cessione della quota sociale di una cooperativa edilizia a contributo statale ex art. 1418, comma 1, c.c. per violazione delle norme imperative contenute negli artt. 91 e 105 del r.d. 28 aprile 1938, n. 1165, che, rispettivamente, vietano la cessione delle quote sociali, e la realizzazione di atti speculativi su alloggi assoggettati – in quanto destinatari di erogazioni pubbliche – al soddisfacimento dell’interesse all’abitazione degli assegnatari e delle loro famiglie appartenenti alle categorie elencate nel citato art. 91.
Di conseguenza è stato affermato l’obbligo del cessionario di rimborsare al cedente, ai sensi dell’art. 109 del r.d. citato, la somma versata alla cooperativa per il terreno nonché, nella misura del minor importo tra lo speso ed il migliorato, il costo dei lavori e miglioramenti eseguiti in proprio dall’assegnatario.
Da ultimo, Sez. 3, n. 05216/2015, Spirito, Rv. 634660, ha affrontato il tema delle relazioni fra ordinamento sportivo e sistema civilistico in punto alle conseguenze – sul piano della validità del contratto – delle violazioni del primo.
Nella fattispecie, concernente l’ipotesi di un contratto di assistenza professionale intervenuto fra un calciatore professionista ed un procuratore in violazione delle regole dell’ordinamento sportivo (per non essere il procuratore iscritto all’apposito albo federale), e senza l’osservanza delle prescrizioni formali richieste, la Corte ha ritenuto che tali violazioni si riflettano necessariamente sulla validità del contratto perché, pur non determinandola direttamente per violazione di norme imperative (quali non sono i regolamenti propri dell’ordinamento sportivo), incidono tuttavia sull’idoneità del contratto ad attuare la sua funzione nello specifico sistema ove essa deve esplicarsi, e quindi sulla sua idoneità a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
In tema di nullità per mancanza di forma, un rilievo preminente compete alla pronunzia delle Sezioni Unite, investite
della questione di massima di particolare importanza relativa alla prescrizione di forma scritta del contratto di locazione di cui all’art. 1, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n. 431.
Di tale previsione le Sezioni Unite sono state chiamate a specificare se si tratta di prescrizione ad substantiam ovvero ad probationem tantum, e, nel primo caso, se l’eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione (alla luce della disposizione di cui all’art. 13, comma 5 della stessa legge) ovvero debba intendersi come una nullità assoluta.
Con la sentenza Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, le Sezioni Unite hanno affermato che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile anche d’ufficio, essendo la prescrizione funzionale all’esigenza pubblicistica di contrasto all’evasione fiscale; a tanto fa eccezione la sola ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore.
Meritevole di segnalazione è infine Sez. 1, n. 12316/2015, Xxxxxxxxx, Rv. 635756, che, in materia di contratti stipulati dalla P.A. a trattativa privata ai sensi dell’art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, ha affermato che il prescritto requisto della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche ove il consenso negoziale non risulti un unico documento (in conformità a pratiche commerciali diffuse nell’ambito dei contratti di impresa), essendo tuttavia necessario che il perfezionamento del contratto si evinca dallo scambio di proposta e accettazione e non sufficiente una forma scritta che investa la sola dichiarazione negoziale della P.A.
La stessa pronunzia ha poi escluso, per le medesime ragioni, che la conclusione del contratto possa avvenire per facta concludentia, con l’inizio dell’esecuzione della prestazione da parte del privato secondo il modello previsto dall’art. 1327 c.c.
17. Annullabilità e rescissione del contratto. In tema di annullabilità dovuta ad incapacità, mette conto segnalare Xxx. 1, n. 03456/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635534, che, riaffermando il principio in base al quale in caso di contratto concluso dall’incapace naturale non è legittimata a proporre la relativa domanda la controparte che intenda far prevalere le proprie ragioni su quelle del presunto incapace, ne ha fatta applicazione ad una fattispecie di conferimento di incarico professionale ad avvocato per proporre ricorso per
cassazione, escludendo che il controricorrente potesse far valere l’asserito vizio della procura rilasciata da soggetto ricoverato in un centro di recupero per tossicodipendenti fin da data anteriore al rilascio della procura medesima.
Sul medesimo argomento va inoltre segnalata Sez. L, n. 19458/2015, Xx Xxxxxxx, Xx. 000000, che per l’ipotesi di incapacità naturale di uno dei contraenti ha ritenuto, ai fini dell’annullamento, che la sussistenza del gravissimo pregiudizio a carico dell’inapace costituisca un indizio dell’ulteriore requisito della malafede dell’altro contraente, ma non lo provi in sè.
Un’ipotesi di annullamento dovuto a violenza morale, seppure riferita ad un atto unilaterale quale il recesso del lavoratore, è quella presa in esame da Sez. L, n. 15161/2015, D’Xxxxxxx, Rv. 636414.
La fattispecie concerneva le dimissioni rassegnate dal lavoratore e riconducibili ad una condotta datoriale intimidatoria ed obiettivamente ingiusta, della quale veniva riconosciuta l’idoneità a costituire una decisiva coazione psicologica, in correlazione con il particolare contesto ambientale lavorativo (il clima aziendale era pervaso da dicerie che prospettavano il licenziamento o le dimissioni del lavoratore pur a fronte di un fatto inidoneo a giustificare la risoluzione del rapporto); circostanze, tutte queste, idonee ad integrare un vizio del consenso invalidante secondo l’accertamento del giudice di merito che la Corte ha ritenuto insindacabile nei suoi profili intrinseci.
Per il caso in cui la violenza morale sia consistita nella minaccia di far valere un diritto, Sez. 1, n. 20305/2015, Ferro, Rv. 637342,, ha riaffermato la necessità che questa sia comunque diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, il che si verifica quando l’autore della condotta ne persegua un fine ultimo che sia diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto in questione nonché esorbitante ed iniquo rispetto al suo oggetto.
Sez. 3, n. 12892/2015, Pellecchia, Rv. 635929, ha riaffermato che ai fini dell’annullamento del contratto per consenso viziato da dolo occorre che i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso, ovvero si sia ingenerata in essa una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell’art. 1429 c.c.
Non è dunque sufficiente a produrre l’annullamento del contratto – ha proseguito la Corte – una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, occorrendo da parte del deceptor una
condotta munita di efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte.
Una specifica segnalazione sul tema merita infine Sez. 3, n. 12083/2015, Armano, Rv. 635561, che ha affrontato il problema dell’azionabilità dei rimedi conseguenti a vizi del consenso da parte del convenuto per l’adempimento del contratto, esprimendosi in senso affermativo sia pur con un’opportuna distinzione.
La Corte ha infatti affermato che il convenuto può sollevare la relativa questione in forma di domanda ove non sia ancora decorso il termine prescrizionale; ovvero sollevare eccezione di annullamento ai sensi dell’art. 1442, ultimo comma, c.c., senza alcuna soggezione ai limiti di prescrizione, all’unico scopo di paralizzare la pretesa di controparte.
In tema di rescissione del contratto merita di essere segnalata Sez. 6-2, n. 01651/2015, Xxxxx, Rv. 634016, che ha riaffermato il principio secondo cui in tema di rescissione per lesione l’approfittamento dello stato di bisogno implica la consapevolezza, da parte del contraente in posizione di vantaggio, tanto dello stato di bisogno altrui quanto dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali che ne deriva, non essendo sufficiente una mera ipotesi in tal senso.
Muovendo da tale considerazione, si è esclusa la praticabilità del rimedio in difetto di prova dell’utilizzo consapevole, da parte dell’acquirente di un immobile asseritamente avvantaggiato, delle condizioni di ristrettezza economica in cui versava l’alienante.
18. Risoluzione del contratto. Con riferimento alla risoluzione per inadempimento si segnalano diverse pronunzie che hanno riguardato il tema della non scarsa importanza dell’inadempimento ai fini del rilievo di idoneità dello stesso a dar luogo al rimedio risolutorio.
Nel richiamare il principio che impone, al riguardo, una valutazione di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, dalle quali sia possibile desumere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale, Sez. 2, n. 10995/2015, Proto, Rv. 635646, ne ha fatto coerente applicazione in una fattispecie di vendita con riserva di proprietà, valutando in termini di gravità l’inadempimento del compratore non solo in ragione del numero delle rate scadute ed impagate, ma anche avuto riguardo all’intenzione che costui aveva manifestata prima del giudizio di non voler provvedere al pagamento dei ratei successivi.
Un’altra applicazione specifica di tale principio è contenuta nella pronunzia Sez. 1, n. 12321/2015, Xxxxxxxx, Rv. 635695, attinente al settore degli appalti pubblici.
La sentenza ha affermato che l’inadempimento del committente alla prescrizione di cui all’art. 5 del r.d. 25 maggio 1895, n. 350 – che impone alla stazione appaltante una verifica del progetto, in relazione al terreno e ad altre invarianti – giustifica la risoluzione del contratto solo se ritenuto prevalente su altre e contrapposte inadempienze e sempreché renda praticamente impossibile l’esecuzione dell’opera da parte dell’appaltatore, dovendosi, invece, escludere che una tale violazione possa essere considerata in sé come causa di improseguibilità dell’opera.
Di particolare interesse per i risvolti applicativi nell’ambito dei contratti aventi ad oggetto un’obbligazione di risultato è Sez. 2,
n. 17048/2015, Xxxxxxxx, Rv. 636137, che ha confermato il rigetto della domanda di risoluzione di un contratto d’opera relativo ad un progetto destinato ad un possibile finanziamento pubblico sulla base del fatto che il finanziamento non era poi stato erogato.
La Corte ha osservato che il risultato prefissato consisteva nella realizzabilità del progetto, ovvero nella sua intrinseca validità ed astratta idoneità al conseguimento del finanziamento pubblico, sicché l’omessa concreta erogazione non poteva rilevare in un’ottica valutativa dell’adempimento contrattuale, trattandosi di elemento estraneo al risultato da garantire ed invece condizionato da variabili indipendenti dalla prestazione professionale commissionata.
La valutazione della gravità nell’ambito del contratto di lavoro subordinato è poi oggetto della pronunzia Sez. L, n. 14310/2015, Xxxxxxx, Rv. 635986, resa in tema di licenziamento cd. per scarso rendimento.
In proposito la Corte ha osservato che, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie e proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire indice di inesatta esecuzione della prestazione, fino a connotarla della necessaria gravità, sulla scorta di una valutazione complessiva condotta per un’apprezzabile periodo di tempo.
Quanto ai presupposti della risoluzione, in ambito di contratti con la P.A., Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635221, ha dato applicazione al consolidato principio secondo cui, in pendenza o assenza di una condicio juris di efficacia del contratto, questo –
quantunque perfetto nei suoi elementi costitutivi – non è suscettibile di risoluzione per inadempimento, rimedio che ne presuppone l’efficacia, ed ha così escluso la praticabilità del rimedio nei confronti di un’amministrazione, a prescindere da ogni valutazione del relativo comportamento, mancando il prescritto visto al contratto da parte della Corte dei conti.
Quanto invece agli effetti del rimedio risolutorio, di particolare interesse è Sez. 6-1, n. 04267/2015, Xxxxxxxx, Rv. 634448, che, nello specifico settore dei contratti di durata ha sottolineato l’esigenza di rispettare l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni anche una volta intervenuta la risoluzione.
Pertanto, vertendosi in ambito di locazione, la pronunzia ha ritenuto il diritto del locatore alle sole controprestazioni del locatario riferibili al periodo di effettivo godimento del bene, e non anche a quelle ulteriori (come l’intero canone annuale di locazione da corrispondersi in via anticipata in base al contratto), prive di giustificazione causale a seguito dello scioglimento del rapporto.
Il tema della rinunziabilità degli effetti della risoluzione, tuttora oggetto di soluzioni contrastanti, è affrontato da Sez. 3, n. 20768/2015, Xxxxxxxx, Rv. 637455, che si è espressa in senso negativo riaffermando che la facoltà di rinunziare alla risoluzione, in quanto teoricamente esercitabile sine die, lederebbe il legittimo affidamento del debitore sullo scioglimento del contratto.
La materia dei rapporti fra risoluzione giudiziale e stragiudiziale, ed in specie dei relativi profili processuali, è oggetto di Sez. 3, n. 11864/2015, Xxxxxx, Rv. 635478.
Tale pronunzia ha ribadito il principio secondo cui la risoluzione di un contratto sulla base di una clausola risolutiva espressa non può essere pronunciata d’ufficio, ma postula la corrispondente e specifica domanda giudiziale della parte nel cui interesse quella clausola è stata prevista, così escludendo che a fronte di un’ordinaria domanda ex art. 1453 c.c. la parte potesse mutarla in richiesta di accertamento dell’avvenuta risoluzione ope legis di cui all’art. 1456 c.c.
A tanto la Corte è addivenuta avuto riferimento sia alla radicale difformità delle due pretese (l’una volta ad una pronunzia costitutiva, l’altra ad una dichiarativa), sia alla diversità dei fatti che le fondano, costuiti nel primo caso dall’inadempimento grave e colpevole e nel secondo dalla violazione della clausola risolutiva espressa.
Ancora con riferimento alla correlazione fra risoluzione giudiziale e clausola risolutiva espressa, Xxx. 0, x. 00000/0000,
Xxxxxxxxx, Xx. 637458 e Rv. 637459, ha precisato che la parte che rinunzi ad avvalersi della clausola non riconosce, per ciò solo, la perdita di importanza dell’inadempimento ivi contemplato, che – anzi – nell’eventuale giudizio ex art. 1453 c.c. fondato su reciproche inadempienze assume rilievo preponderante nella valutazione comparativa, stante l’originario risalto che le parti intesero attribuire alla specifica obbligazione.
D’interesse per i profili processuali dell’azione di risoluzione è poi Sez. 6-2, n. 16388/2015, Giusti, Rv. 636169, riferita ai rapporti fra quest’ultima e l’azione di xxxxxx adempimento.
La pronunzia in questione afferma che la regola contenuta nel capoverso dell’art. 1453 c.c., secondo cui non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la restituzione, incontra una deroga nella fattispecie della vendita di cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli non dichiarati dal venditore e ignorati dal compratore.
Qui, infatti, l’art. 1482 c.c. subordina la risoluzione del contratto all’inutile decorso del termine stabilito dal giudice per liberare la cosa dai vincoli; pertanto, la domanda giudiziale di risoluzione non ha l’effetto immediato di precludere alla parte inadempiente la possibilità di liberare la cosa dal vincolo, ed ove il venditore vi provveda tempestivamente al compratore è poi consentito di domandare l’adempimento del contratto in luogo della sua risoluzione.
Infine, e quanto ai rapporti fra risoluzione e recesso, va richiamata Xxx. 0, x. 00000/0000, Xxxxxxxxxxx, Xx. 634687, che, ribadendo l’orientamento ormai prevalente, ha affermato che il recesso previsto dal secondo comma dell’art. 1385 c.c. configura una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, presupponendo l’inadempimento della controparte.
Tale recesso, infatti, non è sussumibile nella previsione dell’art. 1373 c.c., alla quale fa piuttosto riferimento il distinto istituto della caparra penitenziale (art. 1386 c.c.), e costituisce nient’altro che una forma di risoluzione di diritto del contratto, destinata a divenire operante con la semplice comunicazione alla controparte.
La Corte ha pertanto conclusivamente sottolineato come l’alternativa tra le due ipotesi regolate dai commi secondo e terzo dell’art. 1385 c.c. – tra le quali la parte non inadempiente può scegliere quella che ritiene più conveniente per sè – non sia tra recesso e risoluzione, bensì tra due discipline della risoluzione, la seconda delle quali consiste nel chiedere, indipendentemente dalla
prevista caparra, la liquidazione del danno subito nella sua effettiva entità che dovrà essere provata.