ASSICURAZIONE SULLA VITA
Parere in materia di clausole vessatorie nei contratti di
ASSICURAZIONE SULLA VITA
Si ringraziano il Prof. Avv. Xxxxxxxx Xxxxxx, il Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx e l’Avv. Xxxxx Xxxxxxx per la collaborazione prestata nella redazione del Parere, in qualità di componenti della Commissione Tecnica per la
verifica della presenza di clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto dei contratti di assicurazione sulla vita
5 Parte 1 Le competenze delle Camere di Commercio in materia contrattuale e l’oggetto del parere
9 Parte 2 Il concetto di clausola iniqua ai fini del controllo camerale
15 Parte 3 Le clausole esaminate dalla Commissione
17 A. Conclusione del contratto, revoca della proposta e diritto di recesso
21 B. Interessi sulle somme dovute al contraente in conseguenza della revoca della proposta o del recesso. Costi a carico del contraente in caso di recesso
22 C. Clausole che modificano il tasso di rendimento minimo garantito
23 D. Esclusione di determinati eventi dalla copertura assicurativa. Limitazioni varie della copertura
o della prestazione dell’assicuratore
34 E. Comunicazioni alla Compagnia in ipotesi
di cambiamento di professione dell’assicurato
37 G Documenti richiesti per ottenere i pagamenti delle somme dovute dalla Compagnia
41 G1 Relazione medica e cartelle cliniche dei ricoveri subiti dall’assicurato
48 G2 Domanda da sottoscrivere e compilare su modulo predisposto dall’assicuratore presso l’agenzia di competenza
49 G3 Atto notorio riguardante lo stato accessorio dell’assicurato e originale della polizza
51 G4 Documentazione non prevista nelle condizioni di polizza
53 | H | Riscatto |
54 | I | Poteri di variazione di condizioni contrattuali (ius variandi) |
57 | L | Prescrizione |
57 | M | Mancato pagamento del premio |
60 | N | Assenza di garanzia di restituzione del capitale o di rendimento minimo |
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di Commercio in materia contrattuale e l’oggetto del parere
La Camera di Commercio di Milano ormai da diversi anni dedica particolare attenzione alla «promozione di forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti», in attuazione delle corrispondenti competenze demandate dal legislatore al sistema camerale (art. 2, comma 2°, lett. i), l. 29 dicembre 1993, n. 580, come modificata dall’art. 1, d. lgs. 15 febbraio 2010, n. 23). Si tratta, come noto, di compiti e funzioni che si inquadrano nel ruolo di garanzia del corretto funzionamento del mercato e, in particolare, nell’ambito degli interventi che assicurano una maggiore trasparenza contrattuale delle transazioni commerciali.
La vigilanza sulla presenza di clausole inique si colloca, così, accanto alle competenze in materia di predisposizione di «contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti» (art. 2, comma 2°, lett. h), l. 29 dicembre 1993, n. 580, come modificata dall’art. 1, d. lgs. 15 febbraio 2010, n. 23), ed è correlata al potere di agire in giudizio per la tutela inibitoria dell’uso di clausole abusive nei contratti con i consumatori, potere di cui le Camere di Commercio sono investite in virtù dell’art. 37 del Codice del consumo oggi vigente (e, in precedenza, dell’abrogato art. 1469-sexies c.c.)1.
Il controllo delle clausole inique, oltre ad essere funzionale all’esercizio, eventuale, di questo eccezionale potere di azione giudiziale, abbraccia però un ambito più vasto.
Il suo corretto esercizio non persegue soltanto una tutela diretta degli interessi dei consumatori, ma consente alle Camere di Commercio di meglio interpretare la loro funzione di regolazione attraverso una supervisione degli assetti contrattuali più diffusi in settori di particolare rilievo per gli interessi generali delle imprese e del sistema economico, e di perseguire in questo modo una migliore efficienza e competitività del mercato, oltre che un’efficace tutela indiretta dei consumatori.
Queste esigenze di tutela, particolarmente intense nel mercato dei servizi assicurativi per il carattere tecnico dell’operazione negoziale che ne costituisce
1 Va altresì ricordato che le Camere di Commercio figurano tra i soggetti che devono essere sentiti dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato allorquando essa, nell’esercizio della tutela amministrativa contro le clausole vessatorie, intenda dichiarare “la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari” (art. 37-bis, comma 1°, c. cons.).
il veicolo e che si colloca tra le più significative espressioni della contrattazione di xxxxx, sono a maggior ragione avvertibili in relazione ai rami vita per la complessità che li caratterizza sul piano economico-finanziario e sul piano dei concreti contenuti contrattuali.
La sensibilità della Camera di Commercio ambrosiana sul tema della trasparenza ed efficienza del mercato, unitamente al rilievo dell’importanza acquisita dai contratti dei rami vita, caratterizzati da una funzione di tipo previdenziale, in un contesto segnato dal progressivo ritrarsi degli ambiti di intervento del welfare, giustificano la scelta di concentrare l’indagine in ambito assicurativo, in una prima fase, su tipologie contrattuali appartenenti a questo settore, e segnatamente appartenenti ai rami vita I (assicurazioni sulla durata della vita umana), III (polizze unit linked e polizze index linked) e IV (c.d. Permanent Health Insurance e Long Term Care).
Così inquadrato il vaglio camerale sulla presenza di clausole inique nei contratti, e individuato l’oggetto del parere, è opportuno premettere ulteriori considerazioni di carattere generale.
In primo luogo, occorre individuare la nozione rilevante di «iniquità».
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Il concetto di clausola iniqua ai fini del controllo camerale
Che la legge intendesse riferirsi, in termini generali, alla nozione di
«vessatorietà» oggi accolta dal Codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005, n.
206) pare indubitabile per una serie di ragioni di carattere normativo, storico e sistematico.
Tra queste, qui può essere ricordata la contiguità, in senso cronologico e culturale, tra la legge di riordino del sistema camerale (dicembre 1993) e l’introduzione nel nostro ordinamento delle fondamentali regole di tutela del contraente debole «consumatore» (artt. 1469-bis e ss. c.c.).
In linea generale2, pertanto, ai fini dell’analisi della Commissione, una clausola è da reputarsi iniqua quando sia contenuta in contratti che tipicamente hanno come controparte dell’assicuratore un consumatore e quando:
• risulti vessatoria ai sensi dell’art. 33, comma 1°, c. cons., cioè quando “malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”;
• ricorra una delle ipotesi di vessatorietà presunta enumerate dall’art. 33, comma 2°, lett. a-v, c. cons.;
• rientri nella c.d. lista nera prevista dall’art. 36, comma 2°, c. cons.
L’analisi demandata alla Commissione abbraccia così un ambito oggettivo più ampio di quello contemplato dall’art. 1341 c.c., che come noto stabilisce l’inefficacia, ove non siano specificamente approvate per iscritto e siano contenute nelle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti, delle clausole ritenute vessatorie dalla citata disposizione del Codice civile (quelle aventi ad oggetto limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria), in quanto comportanti effetti di significativo sfavore per l’aderente, anche ove questi non sia un consumatore.
La verifica del carattere iniquo delle clausole nel senso sopra precisato deve considerare, tra gli elementi di giudizio che rilevano ai sensi degli xxxx.xx 34 e 35
c. cons., quelli che sono suscettibili di essere considerati nei limiti e secondo la
2 Naturalmente sono fatte salve tutte quelle situazioni in cui la legge esclude il carattere vessatorio, come ad esempio la trattativa individuale (salvo che la clausola appartenga alla c.d. lista nera).
ratio del controllo camerale, ed è dunque condotta tenendo conto:
• della natura del bene o del servizio oggetto del contratto (art. 34, comma 1°);
• che, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile, la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi (art. 34, comma 2°);
• che la stessa Direttiva 93/13/CEE, 19° Considerando, escludeva che la valutazione dell’abusività possa investire clausole che illustrano l’oggetto principale del contratto e, nel caso dei contratti assicurativi, precisava che “le clausole che definiscono o delimitano chiaramente il rischio assicurato e l’impegno dell’assicuratore” non sono soggette al vaglio di vessatorietà “qualora i limiti in questione siano presi in considerazione nel calcolo del premio pagato dal consumatore”;
• che non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge3;
• che, nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono sempre essere redatte in modo chiaro e comprensibile (art. 35, comma 1°,
c. cons.), e che, in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore (art. 35, comma 2°, c. cons.); peraltro, tenuto conto che la disposizione da ultimo citata non si applica all’azione intrapresa dalle Camere di Commercio – o dagli altri soggetti menzionati dall’art. 37 c. cons. (art. 35, comma 3°, c. cons.) -, e che, secondo l’opinione più diffusa, ai fini dell’azione inibitoria dovrebbe prevalere l’interpretazione sfavorevole al consumatore per consentire la declaratoria di vessatorietà, il controllo camerale attuato con il presente parere, ove opportuno, metterà in risalto anche questa distinta prospettiva.
Anche al di là del vaglio di vessatorietà, peraltro, l’ordinamento dei rapporti assicurativi, per la marcata tecnicità che connota la materia, persegue un generale obiettivo di chiarezza, comprensibilità e trasparenza, come conferma l’art. 166 del Codice delle Assicurazioni Private (d. lgs. 7 settembre 2005,
n. 209): il contratto di assicurazione e ogni altro documento consegnato dall’impresa al contraente deve essere redatto “in modo chiaro ed esauriente”, e devono essere riportate mediante caratteri di particolare evidenza clausole che
3 O attuative di convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell'Unione europea o l'Unione europea.
prevedono “decadenze, nullità o limitazione delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell’assicurato” (ciò anche se si tratti di clausole riproducenti disposizioni di legge e perciò non vessatorie).
3 Le clausole esaminate dalla Commissione
La Camera di Commercio, nella fase istruttoria, ha provveduto a selezionare le “famiglie” di contratti assicurativi sulla vita da sottoporre ad indagine, e ad enucleare alcune categorie di clausole contrattuali di frequente diffusione, ritenute sensibili ai fini del parere ad un primo e preliminare scrutinio.
I contratti selezionati e le clausole sensibili sono stati sottoposti all’esame, dapprima, di alcune tra le principali associazioni di tutela dei consumatori, con invito a evidenziare ulteriori contenuti negoziali reputati meritevoli del controllo camerale, e successivamente, con il corredo delle osservazioni svolte dalle associazioni dei consumatori, all’esame di alcune tra le principali imprese di assicurazioni operanti in Italia, a loro volta invitate ad esprimere le proprie osservazioni.
Il contraddittorio così conseguito ha permesso alla Camera di Commercio, in un settore negoziale vasto ed estremamente variegato, di orientare l’analisi in modo efficace, ponendo l’accento sui profili di disciplina contrattuale al centro delle maggiori preoccupazioni espresse dal “mondo” dei consumatori, e tenendo in doverosa considerazione la posizione espressa dalle Imprese.
Nella redazione del parere, si è optato per una trattazione dei temi reputati di maggior rilievo generale sotto il profilo dell’efficienza, della trasparenza e della competitività del mercato.
Per ciascuna tipologia delle clausole contrattuali esaminate, ad una breve illustrazione dei contenuti negoziali segue, in termini motivati e concisi, il parere reso.
A. CONCLUSIONE DEL CONTRATTO, REVOCA DELLA PROPOSTA E DIRITTO DI RECESSO
Un primo tema sensibile è quello del momento in cui il contratto deve ritenersi concluso, in particolare ai fini dell’esercizio del diritto di revocare la proposta contrattuale e del distinto diritto di recedere dal contratto una volta che questo si è concluso.
Infatti, il diritto di revocare la proposta, che in materia di assicurazione sulla vita di durata superiore a sei mesi (rami I, II, III e V) è previsto dall’art. 176 del Codice delle Assicurazioni Private (CAP) in deroga all’art. 1887 c.c., può essere esercitato fino a che il contratto non è concluso.
Per converso, il diritto di recedere dal contratto (individuale) di assicurazione sulla vita (per tutti i rami), che è previsto dall’art. 177, comma 1°, CAP, può essere esercitato entro trenta giorni dal momento in cui il contraente ha ricevuto comunicazione che il contratto è concluso; l’impresa deve informare il contraente del diritto di recesso e i relativi termini e modalità devono essere
espressamente evidenziati nella proposta e nel contratto di assicurazione (art. 177, comma 2°, CAP).
In entrambi i casi, è dunque essenziale che il contraente possa chiaramente individuare il momento della conclusione del contratto.
Occorre allora ricordare che ai sensi dell’art. 1326 c.c. “il contratto si considera conclusonelmomentoincuichihafattolapropostahaconoscenzadell’accettazione dell’altra parte”, e prestare attenzione al fatto che il proponente, cioè “chi ha fatto la proposta”, non è la Compagnia bensì il contraente.
Il contratto sarà dunque concluso nel momento in cui l’assicurato ha conoscenza dell’accettazione della Compagnia. Fino a questo momento la proposta può essere revocata e a decorrere da questo momento, entro i successivi trenta giorni, il diritto di recesso può essere esercitato; per la precisione, stando alla lettera dell’art. 177 CAP, il diritto di recesso può essere esercitato sino a che l’assicurato abbia ricevuto comunicazione dell’intervenuta conclusione, e a questo fine può ritenersi equivalente la comunicazione dell’accettazione da parte della Compagnia che appunto determina la conclusione.
Si tratta di diritti di importanza primaria, che il legislatore ha introdotto a tutela del contraente debole, per consentigli di ponderare operazioni complesse e onerose dal punto di vista giuridico e finanziario. Tanto che per il recesso è espressamente previsto che l’impresa debba adeguatamente informare il contraente nella nota informativa e nel contratto, e analoghi obblighi informativi derivano, in via interpretativa, dal principio di chiarezza ed esaustività sancito dall’art. 166 CAP, per quanto riguarda la revocabilità della proposta.
Anzitutto, per migliorare la trasparenza e la comprensibilità dei meccanismi sottesi alla conclusione dei contratti di assicurazione potrebbe essere utile definire nei glossari le nozioni di revoca, recesso, proposta e accettazione, chiarendo bene che in questo settore la proposta contrattuale proviene formalmente dal contraente non professionale, ed è da questi sottoscritta, per poi essere accettata o meno dall’assicuratore, e non viceversa.
Come è facile intuire, occorre che il momento di conclusione sia indicato in termini chiari e comprensibili, per non pregiudicare il concreto esercizio di questi diritti da parte del contraente.
A questo fine, risultano idonee clausole che, sia pur con varianti lessicali, riproducono il concetto espresso dall’art. 1326 c.c., ricollegando l’avvenuta conclusione al momento in cui il contraente è messo a conoscenza dell’accettazione della proposta da parte dell’impresa, e così, ad esempio, al momento del ricevimento della polizza da parte del contraente proponente, sottoscritta appunto per accettazione dall’impresa. Si ritiene sufficiente al riguardo il riferimento alla conclusione del contratto nelle condizioni
generali, purché sia comunque offerta nel glossario una definizione chiara di “conclusione del contratto”.
Una facile individuazione del momento di conclusione del contratto non può, invece, ritenersi sufficientemente chiara e comprensibile in diversi modelli contrattuali diffusi sul mercato.
Alcune clausole sovrappongono la disciplina della conclusione del contratto con quella del pagamento del premio e dell’entrata in vigore della copertura assicurativa, determinando così una coincidenza tra la data di conclusione e la data di decorrenza degli effetti del contratto.
Un meccanismo contrattuale che condizioni all’effettivo pagamento del premio non solo l’effettività della copertura e quindi la data della sua decorrenza (ciò accade già in forza della disciplina di legge: art. 1924 c.c.), ma anche la conclusione del contratto, facendo assumere al contratto medesimo carattere “reale” (il contratto non si conclude se e fintantoché il premio non è pagato), in termini generali è ammissibile e non vessatorio.
Il pagamento del premio, in uno schema “reale” puro, dovrebbe essere l’ultimo atto che segna il momento della conclusione, e il contratto dovrebbe essere chiaro nel far capire: a) che al contratto è attribuito carattere “reale”; b) quando e come il contratto è concluso secondo la logica del contratto “reale”;
c) che il termine per l’esercizio del recesso decorre dalla comunicazione che il contratto è concluso ai sensi dell’art. 177 CAP e non dalla (anteriore) conclusione del contratto.
Ma poiché l’assicuratore di norma sottopone, all’atto della formulazione della proposta, un questionario sull’adeguatezza del contratto e ulteriori quesiti circa informazioni rilevanti (ad esempio sullo stato di salute dell’assicurato), e poiché l’accettazione dell’assicuratore di norma interviene dopo la valutazione delle informazioni raccolte, in concreto il pagamento del premio può essere ritenuto dalla Compagnia sì necessario ma non sufficiente a determinare la conclusione del contratto.
Le condizioni generali di contratto – e ovviamente ogni altro documento contrattuale - devono essere chiare nel delineare le circostanze richieste perché il contratto possa dirsi concluso, e le nozioni di conclusione e/o perfezionamento del contratto e di decorrenza degli effetti per quanto possibile devono essere tenute distinte e non devono essere sovrapposte.
Quindi, se il contratto non ha carattere reale (cioè quando si conclude per effetto del normale incontro di proposta e accettazione), la conclusione deve essere chiaramente individuata nel momento in cui il contraente ha notizia dell’accettazione dell’assicuratore, e allora la comunicazione di riscontro dell’assicuratore non avrà semplice natura ricognitiva, bensì natura negoziale
di accettazione della proposta, e segnerà nel contempo il momento finale per l’esercizio della revoca della proposta e il momento iniziale del decorso del termine per il recesso.
Se invece si vuole condizionare all’effettivo pagamento del premio la stessa conclusione del contratto, ma richiedere elementi ulteriori perché il contratto sia concluso (pagamento necessario ma non sufficiente), occorrerà massima chiarezza per far capire che cosa è necessario e in quale momento: in particolare a) se sia necessaria anche l’accettazione espressa dell’assicuratore, ovvero b) se una volta pagato il premio il contratto possa considerarsi concluso qualora il pagamento del premio sia stato accompagnato dalla sottoscrizione del questionario e/o delle dichiarazioni sullo stato di salute e sia decorso un certo tempo dall’una o dall’altra circostanza senza che l’assicuratore abbia rifiutato la conclusione con comunicazione espressa.
In questo secondo caso, la comunicazione che il contratto è concluso, prescritta dall’art. 177 CAP, non ha valore (anche) di accettazione della proposta, ma solo di conferma ricognitiva dell’avvenuta conclusione valevole al fine del decorso del termine di trenta giorni utile per il recesso.
Sono allora viziate da mancanza di chiarezza clausole che sovrappongano la nozione di conclusione (ad esempio facendone menzione nella intitolazione o nella rubrica e dedicando poi la clausola al tema degli effetti del contratto) a quella di decorrenza degli effetti del contratto e di effettività della copertura conseguenti al pagamento del premio, qualora la medesima clausola o altre clausole del medesimo contratto (o altri documenti contrattuali rilevanti) facciano nel contempo riferimento in modo ambiguo, e senza riferimenti temporali precisi, ad una nozione di conclusione o perfezionamento del contratto che (in aggiunta al pagamento del premio) presupponga comunque l’accettazione espressa o tacita per mancato rifiuto della Compagnia della proposta o del questionario, senza chiarire caso per caso quando e come il contratto si reputa concluso (momento finale per la revoca della proposta) e senza chiarire che il momento utile per il decorso del termine di recesso è in tutti i casi segnato dalla ricezione della comunicazione che il contratto è concluso (art. 177 CAP).
In tali casi, il contraente potrebbe indursi erroneamente a ritenere già consumato il diritto di revoca o di recesso, oppure potrebbe essere indotto, altrettanto erroneamente, a pensare di avere ancora tutto il tempo di revocare la proposta non avendo ancora ricevuto l’accettazione espressa della proposta da parte della Compagnia o la comunicazione di avvenuta conclusione del contratto.
Sono accettabili clausole che considerano concluso il contratto decorso un certo numero di giorni lavorativi dalla data di pagamento del premio, sempre che la
Compagnia non abbia comunicato per iscritto il rifiuto della proposta, oppure che prevedono la conclusione in caso di mancata comunicazione del rifiuto entro la data di decorrenza contemplata nella proposta. Risultano per contro vessatorie clausole che per individuare il momento a partire dal quale il contratto si reputa concluso impongono al contrante computi eccessivamente elaborati.
Formulazioni non chiare o reticenti possono creare squilibri nei diritti e negli obblighi delle parti, perché rendono più difficile l’esercizio del diritto al consumatore, e correlativamente consentono all’assicuratore di limitare il numero dei casi in cui revoca o recesso vengono effettivamente e tempestivamente esercitati, o addirittura in casi estremi potrebbero consentire all’assicuratore di rifiutare proposte contrattuali quando il contratto dovrebbe già essere concluso.
Infine, è auspicabile che i contratti siano precisi nell’individuare la modalità di comunicazione di accettazione della proposta, ad evitare equivoci (posta elettronica, posta elettronica certificata o lettera raccomandata: meglio evitare forme di legittimazione contrattuale della posta ordinaria semplice).
B. INTERESSI SULLE SOMME DOVUTE AL CONTRAENTE IN CONSEGUENZA DELLA REVOCA DELLA PROPOSTA O DEL RECESSO. COSTI A CARICO DEL CONTRAENTE IN CASO DI RECESSO
In caso di revoca della proposta o di esercizio del recesso, entro trenta giorni dal ricevimento della relativa comunicazione da parte della Compagnia, ai sensi e nei limiti di cui agli xxxx.xx 176, comma 2°, e 177, comma 3°, CAP, il contraente ha diritto di vedersi restituiti gli importi già corrisposti.
Dai principi generali discende senza dubbio, in favore del contraente, il diritto alla corresponsione degli interessi di mora in caso di restituzione delle somme in questione oltre il trentesimo giorno (xxxx.xx 1224 e 1282 c.c.).
I testi contrattuali esaminati non disconoscono questo diritto, ma si limitano a non farne menzione laddove contemplano il riferimento al diritto alla restituzione degli importi capitali in conformità della normativa vigente.
Le formulazioni correnti risultano chiare e comprensibili e non presentano profili di vessatorietà.
Tuttavia, la mancata previsione espressa del diritto alla corresponsione degli interessi di mora in caso di pagamento oltre il trentesimo giorno può indurre il contraente a non farne richiesta “accontendandosi” della restituzione tardiva del dovuto.
È quindi auspicabile che le Compagnie adottino sul punto una disciplina
convenzionale della revoca e del recesso che sia esauriente in modo da evitare qualsiasi margine di dubbio in pregiudizio del contraente.
I costi dell’emissione della polizza in genere sono posti a carico del contraente che recede. Indubbiamente sarebbe opportuno che al contraente tali costi fossero resi noti sin dal momento della stipula del contratto, in modo da evitare che egli si trovi esposto a esborsi inopinati o eccessivi. Non pare, tuttavia, che al riguardo sia possibile ravvisare una penale ai sensi degli xxxx.xx 33 e ss. c. cons., con conseguente vessatorietà della relativa clausola, posto che la regola convenzionale in esame è riproduttiva del dato normativo.
C. XXXXXXXX CHE MODIFICANO IL TASSO DI RENDIMENTO MINIMO GARANTITO
Alcune clausole attribuiscono alla Compagnia il diritto di modificare il tasso di rendimento minimo garantito decorso un periodo, di norma triennale, durante il quale non è generalmente consentito l’esercizio del riscatto della polizza, senza richiedere l’accettazione del contraente.
Il contraente, decorso il triennio, può riscattare la polizza, ossia recedere dal contratto, con l’applicazione delle condizioni contrattuali valevoli per il riscatto. Se contemplata nell’ambito di contratti connotati da rilevante componente finanziaria, la tipologia di clausole in questione può reputarsi non vessatoria, posto che il Codice del consumo in questo ambito consente, entro certi limiti, al contraente professionale il diritto di variare il contenuto delle condizioni contrattuali, e che nelle condizioni contrattuali valevoli per il riscatto non può ravvisarsi, in senso proprio, una penale. Né la preclusione dell’esercizio del riscatto per un periodo iniziale, di per sé, specie se contenuta nei limiti consueti (due o tre anni), assume carattere abusivo, essendo legata a legittime esigenze dell’impresa assicurativa, a loro volta connesse alla funzione previdenziale dell’assicurazione vita.
Infine, clausole che prevedano espressamente l’applicazione di penali per l’esercizio del recesso, ma solo se il recesso avviene in certi anni e non in altri, senza precise spiegazioni, non sembrano vessatorie, perché la diversità di trattamento costituisce espressione di scelte imprenditoriali discrezionali. Peraltro, l’esercizio del riscatto è normalmente precluso nei primi tre anni di durata del contratto in ragione di legittime esigenze dell’impresa assicurativa: ove il riscatto sia nondimeno consentito in tale fase, l’applicazione di penali risulta a maggior ragione immune da censure.
D. ESCLUSIONE DI DETERMINATI EVENTI DALLA COPERTURA ASSICURATIVA. LIMITAZIONI VARIE DELLA COPERTURA O DELLA PRESTAZIONE DELL’ASSICURATORE
Una prima tipologia di clausole esaminate prevede l’esclusione dalla garanzia in caso di incidente di volo se l’assicurato si trova a bordo di un aeromobile non autorizzato al volo o con pilota privo di idoneo brevetto, indipendentemente dalla conoscenza o non conoscenza di queste circostanze da parte dell’assicurato o del contraente.
Si deve convenire che le clausole di questo genere, avendo ad oggetto le descrizione del rischio assicurato e non limitazioni di responsabilità dell’assicuratore, non possono essere reputate vessatorie (art. 34, comma 2°, c. cons.), neppure laddove non attribuiscano rilievo all’eventuale non conoscenza del contraente o dell’assicurato, sempre che l’esclusione sia rappresentata in termini chiari e comprensibili. Le formule correnti, tuttavia, non chiariscono in modo sufficiente se l’esclusione operi anche per voli di linea in concreto sprovvisti di valide autorizzazioni di legge, ovvero se sia circoscritta a voli diversi da quelli di linea, come il contraente o l’assicurato sarebbero portati a ritenere. A questo proposito, pare preferibile l’adozione di formule contrattuali che eliminino in radice ogni dubbio nell’interpretazione della clausola, che peraltro dovrebbe essere risolto in favore dell’assicurato, al quale oltretutto non sembra potersi ascrivere alcuna ipotesi di culpa in eligendo nella scelta dell’aeromobile (e tantomeno del pilota) se il volo è di linea.
Per contro, l’eventuale rilievo da attribuire alla mancanza di conoscenza, che certamente renderebbe l’esclusione meno gravosa e più accettabile per il contraente, dipende unicamente dall’autonomia privata, e nella specie la sua introduzione richiederebbe un libera scelta imprenditoriale da parte delle Compagnie.
Un secondo gruppo di clausole attiene a condizioni di età e limiti di durata o modalità della copertura che dipendono dall’età dell’assicurato.
È frequente che la copertura sia offerta solo in presenza di requisiti soggettivi stabiliti da clausole contrattuali secondo le quali, ad esempio, l’assicurato deve avere al momento della conclusione del contratto un’età assicurativa compresa in una determinata fascia, ad esempio tra 18 e 80 o 90 anni.
Questo tipo di clausole, secondo alcune associazioni di consumatori, vanificherebbe il rischio demografico determinando un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi che derivano dal contratto, evidenziandosi che proprio in base alle statistiche su età, sesso, provenienza sociale e geografica, ecc. ecc., il rischio demografico viene determinato.
La tesi non può essere accolta, perché la individuazione di fasce di accesso a
un determinato prodotto assicurativo compete a valutazioni delle Compagnie, che nell’esercizio dell’attività d’impresa possono decidere di assumere determinati rischi solo in relazione ad una determinata platea di assicurati. La delimitazione delle fasce di età oltre le quali il contratto non può essere concluso attiene alla conformazione del rischio assicurato e, come tale, di per sé non può essere considerata vessatoria. Il rischio demografico, peraltro, sussiste in tutte le situazioni nelle quali una prestazione assicurativa è legata ad un evento della vita umana, e la verifica della sua sussistenza non dipende dall’età dell’assicurato.
Neppure possono essere reputate vessatorie clausole che, prevedendo l’opzione di convertire il capitale previsto in caso di riscatto in prestazioni diverse variamente riconducibili al modello della rendita, circoscrivono tuttavia questa possibilità all’ipotesi in cui l’età dell’assicurato al momento della conversione sia compresa entro certi limiti di età.
È ben vero che questo tipo di limitazioni rende il prodotto assicurativo meno malleabile e meno idoneo ad adattarsi ai bisogni dell’assicurato, che trovandosi nella necessità di riscattare la polizza potrebbe avere interesse ad esercitare una delle possibili opzioni di conversione, in concreto precluse in ragione dell’età. Tuttavia, la clausola che introduce opzioni di conversione fa salvo per tutti gli assicurati il diritto di riscatto e si traduce in un’estensione delle facoltà contrattuali, seppure per una fascia soltanto di assicurati: essa, pertanto, non determina, in senso proprio, uno squilibrio dei diritti e degli obblighi che derivano dal contratto, ma differenzia il trattamento degli assicurati in ragione di un parametro discrezionalmente adottabile.
Siccome, però, la possibilità di optare per la conversione in rendita del capitale di riscatto costituisce una significativa utilità per l’assicurato, che potrebbe anche rivestire rilievo non secondario ai fini della sua decisione di sottoscrivere la proposta, è doveroso che la clausola sia formulata in termini ben chiari e che il fascicolo informativo non ingeneri equivoci di sorta circa l’esistenza di più o meno penetranti preclusioni stabilite, in ragione dell’età, per l’esercizio delle opzioni in esame, che dovrebbero pertanto trovare idonea menzione nella scheda sintetica e nel fascicolo informativo.
Un ulteriore caso problematico relativo alla previsione di limitazioni di età riguarda le coperture complementari e facoltative che il contraente può attivare al momento della sottoscrizione del contratto a copertura del rischio morte e invalidità totale e permanente. Si tratta, nei contratti esaminati, di coperture aggiuntive che accedono a contratti a vita intera, le quali possono essere convenute solo per durate predeterminate (nel minimo e nel massimo: ad esempio da minimo 10 a massimo 25 anni), solo se alla data di decorrenza
l’assicurato si trova in una determinata fascia di età (ad esempio abbia più di 18 anni e meno di 55), e solo se al termine del piano di versamento dei premi – di durata pari a quello della copertura – l’assicurato non abbia superato un’età massima (ad esempio 65 anni).
Anche qui va sottolineata la necessità della massima chiarezza nella descrizione dei contenuti delle coperture in esame.
Oltre ai profili relativi all’età dell’assicurato, deve essere ben esplicitato che, trattandosi in sostanza di coperture temporanee che vanno ad aggiungersi ad una copertura a vita intera, i testi contrattuali non prevedono il diritto di riscatto per questa parte.
Questa sembra essere l’interpretazione corretta delle polizze esaminate, che in modo coerente con il carattere incerto della prestazione dell’assicuratore (l’impresa deve l’indennità solo se si verifica l’evento durante l’efficacia della copertura aggiuntiva, e la verificazione dell’evento ben può non verificarsi essendo la copertura di durata determinata) collegano l’esercizio del riscatto solo alla “componente” base del contratto.
Tuttavia, i testi contrattuali difettano della necessaria chiarezza laddove non rendono ben percepibile che le somme versate quale corrispettivo della copertura aggiuntiva non sono utili ai fini del riscatto, non essendo sufficiente la distinzione grafica e sistematica rispetto alle regole valevoli per la garanzia principale a vita intera.
Del resto, ai modelli contrattuali in questione è per lo più attribuito il nomen di contratti di assicurazione sulla vita a vita intera, e le relative condizioni di assicurazione oltre a ribadire questo punto fondamentale esplicitano che la durata del contratto è pari alla vita dell’assicurato. Il rischio che il diverso regime previsto per la copertura aggiuntiva/complementare sia equivocato è quindi sussistente.
In questo tipo di contratti utilmente i documenti contrattuali dovrebbero definire le nozioni di copertura principale a vita intera e complementare a tempo determinato, rendendo perspicuo il diverso regime del riscatto degli importi versati a titolo di premio nei due ambiti pur nell’unitarietà del contratto. Di per sé, per contro, la mera previsione di limiti di accesso o di durata di una copertura complementare connessa all’età dell’assicurato non è vessatoria, a meno che la limitazione di età sia del tutto scollegata, dal punto di vista della collocazione nel corpo del contratto, dalla clausola che costituisce il titolo della garanzia complementare stessa.
Talora la copertura aggiuntiva può essere complementare rispetto ad assicurazioni (in particolare di rendita vitalizia) che coprano in via principale, e per tutta la durata della vita dell’assicurato, il rischio di non autosufficienza,
ed avere così ad oggetto, in particolare, il rischio di morte senza il verificarsi di alcuna non autosufficienza. Il limite di durata della garanzia complementare è allora segnato dal raggiungimento di un’età massima, decorso il quale la garanzia cessa di essere operante. Qui la previsione della cessazione della garanzia al raggiungimento di una certa età dell’assicurato pare fisiologica rispetto al carattere complementare: se non vi fossero limiti di durata, il contratto coprirebbe in via principale tanto il rischio di non autosufficienza quanto il rischio morte. Resta naturalmente impregiudicata l’esigenza della massima chiarezza nella esplicitazione del carattere temporaneo della garanzia complementare per il caso morte.
Talora le coperture aggiuntive accedono a contratti a loro volta a tempo determinato, e possono anche coprire rischi diversi dal semplice rischio morte, come ad esempio il rischio di decesso dovuto a infortuni.
In quest’ultimo caso, è vessatoria, in quanto limitativa della responsabilità dell’impresa, la clausola che, richiamando le distinte clausole che prevedono le coperture complementari per decesso dovuto a infortunio, circoscrive l’obbligo di pagamento del capitale assicurato al solo caso in cui la morte sopraggiunga entro un certo tempo dalla verificazione dell’infortunio.
È poi diffusa l’adozione di nozioni convenzionali di età. Ad esempio, sono adottate nozioni di età assicurativa che comportano l’arrotondamento dell’età, espressa in anni interi, e arrotondata all’anno successivo se dal compimento dell’anno sono decorsi più di sei mesi. In questi casi, non risulta sufficiente la presenza della definizione di “età assicurativa” tra le voci del Glossario, dovendosi invece ritenere necessario un richiamo alla voce stessa laddove la nozione è impiegata nelle clausole contrattuali. Oltre che ad evitare fraintendimenti, tale cautela pare dovuta anche in considerazione del fatto che l’adozione di una nozione convenzionale di età trova la sua collocazione fisiologica nei patti contrattuali, e non nelle semplici definizioni dei termini adottati, generalmente tratte dal lessico tecnico-assicurativo.
È frequente, nei contratti esaminati, la previsione delle cosiddette clausole di carenza, che prevedono l’operatività della polizza solo al decorso di un certo tempo dalla conclusione del contratto, rendendola così “carente” per tutto il periodo in questione, che in concreto varia di molto nella casistica (da sei mesi a tre anni). Se dunque l’evento assicurato, o più frequentemente l’evento assicurato provocato da cause determinate (ad esempio, stato di non autosufficienza causato da una qualsiasi malattia, oppure da determinati tipi di patologie) si verifica durante la carenza, la copertura non opera.
Nella sua formulazione classica, la tipologia di clausola in questione è adottata, per evitare di assicurare soggetti che hanno già in corso una patologia latente
al momento della stipula, quando il contratto non prevede la sottoposizione preventiva dell’assicurato a visita medica, o nella misura in cui consente all’assicurato di non sottoporvisi, e determina un “congelamento” temporaneo della copertura assicurativa.
Ciononostante, la clausola di carenza di per sé non rientra in alcuno dei casi di vessatorietà, perché essa non limita la responsabilità dell’assicuratore, ma definisce e descrive i contorni del rischio assicurato individuandolo nel rischio che la morte o la non autosufficienza dell’assicurato, di norma se provocate da fattori determinati, sopraggiungano dopo un certo tempo dalla conclusione del contratto. In altri termini, la polizza è strutturata in modo da coprire ab origine solo gli eventi verificatisi non nell’immediatezza della stipula.
In sé, la clausola di carenza risponde ad un interesse meritevole di tutela, nel senso che concorre ad evitare le conseguenze negative di comportamenti opportunistici (ossia la stipula di polizze da parte di coloro che già si trovino in una condizione prossima alla verificazione dell’evento), o comunque ad evitare l’assicurazione di soggetti che hanno già in corso un processo patologico (patologie latenti), costituendo un presidio ulteriore rispetto alla disciplina delle dichiarazioni inesatte o reticenti di cui agli artt. 1892 e 1893
c.c. e rispetto alla visita medica, che può non essere, in molti casi, strumento adeguato a riscontrare la sussistenza di un rischio particolarmente marcato nel “candidato assicurato”, e che spesso non è obbligatoriamente prevista.
La clausola di carenza, inoltre, agevola la politica di assunzione dei rischi da parte delle imprese perché consente loro di assicurare comunque determinati rischi sia pure con copertura soggetta a carenza, anziché non assicurarli del tutto (si pensi, ad esempio, ai rischi connessi all’insorgenza di patologie mentali o di origine neurologica, e in generale ai rischi connessi all’insorgenza di patologie in concreto difficilmente valutabili al momento della conclusione del contratto anche in ipotesi di visita medica effettuata), escludendoli dalla copertura offerta tramite apposite clausole.
Ad esempio, si riscontrano clausole di carenza che rendono non operativa la polizza per un certo tempo se l’evento (non autosufficienza) è determinato da disturbi mentali di origine organica (trascorso tale tempo l’evento è in garanzia), e che escludono in assoluto la copertura se l’evento è conseguente all’insorgere di disturbi mentali di origine non organica come nevrosi, psicosi, sindromi ansioso depressive. Qui il punto non è quello della vessatorietà o meno della clausola di carenza e della clausola di esclusione (che devono comunque essere chiare, comprensibili e trasparenti), quanto piuttosto quello dell’adeguatezza della copertura offerta rispetto ai bisogni e alle attese di copertura eventualmente espresse dall’assicurato.
Ancora, alcune polizze contemplano una carenza più o meno prolungata per il caso in cui l’evento morte sia provocato dalla sindrome di immunodeficienza acquisita (HIV) o da patologie ad essa associate, per lo più senza distinguere a seconda della causa dell’infezione (motivo professionale, episodi di responsabilità medica, condotte imputabili all’assicurato, ecc. ecc.). Neppure in questi casi si può accogliere la tesi della vessatorietà, perché l’impresa è libera di decidere di non garantire il rischio demografico per un periodo iniziale in relazione a determinate cause dell’evento assicurato: si tratta sempre di una scelta attinente alla delimitazione dell’oggetto, immune da censure se chiara e comprensibile, e purché adeguatamente considerata ai fini del calcolo premio pagato dall’assicurato (art. 34, comma 2°, c. cons.).
D’altra parte, occorre tenere presente che, sempre in quanto delimitativa dell’oggetto dell’assicurazione, neppure l’esclusione tout court dalla copertura della sindrome da HIV potrebbe essere considerata vessatoria.
È comunque consigliabile, ad evitare possibili margini di incertezza legati all’individuazione delle patologie connesse all’HIV, che ne sia offerta un’elencazione esaustiva, quantomeno di carattere tipologico.
Va da sé che per la gravità degli effetti che possono comunque conseguire a carico dell’assicurato in caso di verificazione del sinistro nel periodo di carenza, la clausola deve essere conformata a canoni di massima e rigorosa chiarezza sia in relazione al contenuto sia in relazione alla durata del “congelamento”, e che tanto la scheda sintetica quanto la nota illustrativa dovrebbero farvi espresso e adeguato richiamo.
Un’ipotesi problematica, nelle polizze che prevedono il diritto di riscatto (nelle quali la prestazione dell’assicuratore è certa, come nelle assicurazioni a vita intera caso morte) potrebbe essere quella in cui la durata della carenza fosse superiore alla durata del periodo iniziale di vita del contratto nel quale non è consentito il riscatto. Se l’evento si verifica in carenza e rientra tra quelli per cui la carenza opera, l’indennità non è dovuta, ma lo stesso non può dirsi per le somme che sarebbero spettate a titolo di riscatto se il diritto fosse stato esercitato. In questo caso, il contratto deve essere chiaro nel prevedere che è comunque dovuta una somma pari al riscatto o ai premi netti versati, e una clausola ambigua o che addirittura negasse tale diritto sarebbe vessatoria.
Un’ulteriore ipotesi problematica, specie nelle coperture temporanee, potrebbe essere quella di una durata della carenza per tipologia di evento particolarmente protratta: tanto più ampia è la durata della carenza, tanto più la clausola è assimilabile sul piano degli effetti ad una clausola di esclusione tout court, con conseguente vessatorietà quantomeno per difetto di trasparenza. Nelle assicurazioni (di ramo IV o multiramo) che coprono il rischio di non
autosufficienza, spesso è contemplata una nozione convenzionale della non autosufficienza che viene ricollegata alla incapacità dell’assicurato di svolgere determinati atti della vita quotidiana (ad esempio, lavarsi, vestirsi e svestirsi, nutrirsi, o spostarsi, ecc.). Le relative clausole non possono reputarsi in sé vessatorie, perché attengono alla delimitazione del rischio assunto dall’impresa e in generale rispondono alle classificazioni tecnico-sanitarie del concetto di non autosufficienza. Tuttavia, occorre considerare che una nozione particolarmente rigorosa di non autosufficienza, che non a caso viene spesso definita “totale” nella clausola, potrebbe finire con il limitare notevolmente i casi di operatività della polizza, lasciando fuori numerose situazioni che la nozione di senso comune riconduce al concetto di non autosufficienza quantomeno parziale. Occorre allora che la clausola sia perfettamente comprensibile in ogni sua parte e che i testi e i documenti contrattuali siano trasparenti nel dare atto, non solo nel corpo della clausola ma anche nella denominazione del contratto, nella scheda sintetica e nella nota informativa, che la copertura è prestata per il caso di non autosufficienza totale o assoluta, rendendo chiaro che non basta una non autosufficienza parziale, per quanto grave.
È piuttosto frequente la clausola che esclude dalla copertura il caso in cui il decesso dell’assicurato si verifichi in un paese in stato di guerra (o condizioni “similari”), decorso un certo tempo (per lo più nell’ordine di 14 giorni) dall’insorgenza della situazione bellica senza che l’assicurato abbia lasciato il paese, ovvero se al momento dell’arrivo dell’assicurato tale situazione fosse già esistente.
L’esclusione dello stato di guerra, di per sé, non può essere considerata vessatoria, perché attiene all’individuazione del rischio assicurato. Ciò vale anche se la clausola di esclusione non attribuisca alcuna rilevanza alla sussistenza di un nesso causale tra il decesso e la situazione bellica o alla imputabilità ad un atto volontario dell’assicurato della permanenza sul posto. In altri termini, la Compagnia è libera di prevedere l’esclusione anche se il decesso non è dovuto alla guerra in atto e anche se l’assicurato non ha avuto la possibilità oggettiva di lasciare il paese entro i 14 gg., poiché l’impresa può decidere se offrire o no copertura per l’evento morte se questo, pur non essendo in concreto provocato dalla guerra, si verifica oggettivamente in un contesto di guerra. Ciò non dà luogo ad una limitazione della facoltà dell’assicurato di opporre l’eccezione di assenza di nesso causale tra l’evento morte e lo stato di guerra (art. 33, lett. f, c. cons.), come suggerito da parte di un’Associazione dei consumatori, perché tale elemento non costituisce un elemento costitutivo e necessario dell’operatività dell’esclusione in esame.
D’altra parte, il rischio morte è senz’altro maggiore, anche per cause estranee alla violenza bellica o ad essa solo indirettamente riconducibili (si pensi alle condizioni di vita e sanitarie, all’accessibilità a farmaci e cure, all’aumento generale della insicurezza a più livelli, ecc.), nei paesi in stato di guerra; tanto basta a rendere giustificata la decisione dell’impresa di non voler assumere, neppure per un istante, il rischio sotteso all’arrivo dell’assicurato in un paese in guerra. Considerando l’esclusione prevista in caso di mancato abbandono del paese decorso un certo tempo, risulta pertinente osservare che la permanenza dell’assicurato in loco, protratta a tal punto da rendere la situazione non meramente contingente, dà luogo ad un aumento del rischio che in astratto legittimerebbe l’esercizio della facoltà di recesso dell’impresa ex art. 1898 c.c., ovvero il rifiuto di corrispondere l’indennizzo, secondo la disciplina e nei limiti posti da questa disposizione, se il sinistro si verifica prima del decorso dei termini per il recesso.
Se poi si dubitasse della sufficienza del termine usualmente previsto (14 giorni) a consolidare una situazione di aumento stabile del rischio, si dovrebbe comunque prendere atto del fatto che l’abbandono del paese in guerra in un tempo ristretto sarebbe da reputarsi legittimamente previsto alla stregua di una condizione oggettiva di assicurabilità, cioè di una misura alla cui adozione il contratto condiziona l’operatività della garanzia (c.d. precautionary measures). Ovviamente, se l’assicurato necessita di coperture idonee a far fronte allo stato di guerra, potrà accedere a prodotti specifici, a premio maggiorato, che tengano conto della diversa natura e intensità del rischio. Altrettanto ovviamente, le compagnie potrebbero determinarsi a valorizzare la dimensione del nesso causale, così migliorando la qualità della copertura per l’assicurato, che però probabilmente si troverebbe a subire un aumento del premio a fronte di un rischio eccezionale per chi non abbia inteso assicurarsi allo specifico fine di cautelarsi contro il rischio morte in un teatro di guerra.
Ciò premesso con riguardo alla non vessatorietà dell’esclusione relativa allo stato di guerra, merita invece di essere posta in luce la mancanza di sufficiente chiarezza dell’equiparazione alla guerra, ai fini in esame, di situazioni “similari”. Per quanto l’espressione possa ragionevolmente intendersi riferita solo alle nozioni di guerra anche non dichiarata e di guerra civile, e non anche a situazioni diverse e distinte (come atti di terrorismo, tumulti popolari, rivoluzioni o operazioni militari, situazioni anch’esse contemplate nel corpo delle medesime clausole ai fini dell’esclusione degli eventi morte causati dalla partecipazione attiva dell’assicurato), la formulazione della clausola dovrebbe utilmente prevenire ogni ambiguità esplicitando il riferimento alla guerra civile e alla guerra anche non dichiarata. Una interpretazione che, viceversa,
reputasse “similari” alla guerra, al fine di determinare l’esclusione di copertura pur in mancanza di nesso causale, l’esistenza di semplici episodi di terrorismo o operazioni militari di sorta, renderebbe probabilmente vessatoria la pattuizione. Le esclusioni di polizza relative a eventi causati dall’esposizione a “radiazioni ionizzanti” risultano generiche e mal circostanziate, se si tiene conto che l’impiego di radiazioni ionizzanti è frequente in ambito sanitario (ad esempio in funzione di accertamenti radiologici, ma anche in funzione terapeutica, in oncologia), e che tuttavia i contratti esaminati, incorrendo in difetto di trasparenza, non chiariscono a quale categorie di radiazioni e in relazione a quali impieghi l’esclusione si riferisca, ma si limitano ad adottare un’espressione tecnica che, specie se collocata accanto alle ulteriori esclusioni “nucleari” o “atomiche” normalmente menzionate, evoca presso l’assicurato scenari molto lontani da quello sanitario, e di norma del tutto inaccessibili alla sua sfera personale.
Non possono essere reputate vessatorie le clausole che, in questi termini,
escludono l’operatività della copertura per malattie o infortuni che siano conseguenza diretta di attività sportive professionistiche, della pratica del paracadutismo o di sport aerei in genere, trattandosi di clausole che delimitano l’oggetto dell’assicurazione. Il riferimento alle attività professionistiche pare sufficiente ad escludere equivoci circa l’inclusione nella copertura di eventi provocati a attività sportive agonistiche; tuttavia, ad evitare dubbi interpretativi di sorta, sarebbe opportuno precisare che l’esclusione non si applica alle attività agonistiche (salvo che per paracadutismo e sport aerei, per i quali l’esclusione, nei modelli esaminati, è assoluta e non circoscritta al professionismo).
Nelle assicurazioni che coprono il rischio di invalidità (e che dunque offrono garanzie assimilabili a quelle dei rami danni), talune polizze prevedono che, se a giudizio del medico dell’assicurato e dell’esperto designato dall’impresa, un trattamento adeguato possa modificare la prognosi di invalidità, e ciononostante l’assicurato non intenda sottoporsi a tale trattamento, la valutazione del danno venga effettuata sulla base dei postumi di invalidità permanente che residuerebbero all’esito dell’adeguato trattamento terapeutico proposto, senza riguardo quindi al maggior pregiudizio derivante dalle condizioni di salute in atto.
Clausole di questo tipo traggono evidente ispirazione dall’art. 1227 c.c. (“1. Se
il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. 2. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”), come evidenziano le Compagnie
interessate, ma ciononostante devono essere reputate vessatorie. Supportano questo convincimento le seguenti considerazioni. Le disposizioni in tema di risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni (alle quali appunto appartengono i principi sanciti dall’art. 1227 c.c.) non risultano direttamente applicabili all’assicurazione sulla vita, con la conseguenza che la previsione a carico del consumatore di regimi restrittivi o pregiudizievoli previsti dalla legge per fattispecie diverse presenta di per sé indici di vessatorietà.
Anche a prescindere da quest’ultimo rilievo, il “fatto colposo”, quale omissione, postulerebbe un dovere dell’assicurato di accedere al trattamento: ma tale obbligo convenzionale, che certamente non sussiste per legge, parrebbe incompatibile con la piena libertà della persona, costituzionalmente tutelata, di non assoggettarsi a cure mediche: in senso contrario, non varrebbe qualificare come semplice onere l’obbligo in questione.
In secondo luogo, è vero che l’art. 1913 c.c., dettato in materia di assicurazione contro i danni, impone all’assicurato di fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno, e che l’inadempimento di quest’obbligo determina conseguenze sfavorevoli per l’assicurato (se doloso, la perdita dell’indennizzo, se colposo, una sua riduzione in ragione del pregiudizio sofferto).
Tuttavia, tale disposizione, certamente non applicabile alle assicurazioni dei rami vita, non pare applicabile neppure alle assicurazioni contro i danni alla persona, quantomeno non nel senso di ritenere sussistente un obbligo di subire trattamenti medici indesiderati. Anche sotto questo profilo, dunque, si sarebbe dinnanzi ad una clausola che in sostanza applica all’assicurato principi normativi sfavorevoli e gravosi, che, altrimenti, non troverebbero applicazione. In terzo luogo, la previsione convenzionale di condotte che l’assicurato sarebbe evidentemente chiamato a porre in essere dopo la verificazione dell’evento, ossia dopo la verificazione degli elementi richiesti in via generale dal contratto per l’insorgenza dell’obbligo dell’impresa di corrispondere l’indennità, è vessatoria perché limita la responsabilità dell’assicuratore già insorta a termini di contratto. In ogni caso, e si tratta di una considerazione decisiva nel senso della vessatorietà, la clausola in esame determina senz’altro a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Infatti, la clausola, in modo eccessivamente generico, demanda ai due esperti (al medico dell’assicurato e a quello della Compagnia) di esprimere un giudizio, in sé frutto di apprezzamento discrezionale, circa la semplice adeguatezza del trattamento terapeutico in ipotesi adatto a alleviare la prognosi di invalidità. La nozione di trattamento terapeutico non è precisata ed è dunque ambigua. Secondo i diversi casi possibili, poi, un trattamento terapeutico può comportare rischi anche notevoli per la persona,
e può comunque esporla a cure fortemente invasive. In queste eventualità, per effetto della clausola in esame, il consumatore che non intendesse assumersi il rischio del trattamento non sarebbe meritevole di alcuna forma di biasimo e, ciononostante, potrebbe vedersi ridotta l’indennità assicurativa in misura anche assai cospicua e peraltro parametrata ad un’ipotesi controfattuale che postula la certezza dell’efficacia terapeutica del trattamento rifiutato; il consumatore che intendesse assumersi quel rischio proprio per non subire una decurtazione dell’indennità sarebbe comunque esposto al rischio di esito infausto con tutti i pregiudizi e disagi che ne conseguono. La libertà fondamentale dell’assicurato di adottare in materia sanitaria le proprie determinazioni potrebbe essere fortemente condizionata dall’operatività della clausola. Inoltre la clausola, senza la necessaria trasparenza, comporta l’attribuzione al medico dell’assicurato di veri e propri poteri decisionali in sede tecnica, poiché il suo apprezzamento concorde con quelle del consulente della Compagnia produce significativi e irretrattabili effetti contrattuali. Infine, la clausola pare vessatoria anche laddove omette di fare qualsiasi riferimento al diritto dell’assicurato di essere indennizzato delle spese del trattamento terapeutico.
Probabilmente i medesimi obiettivi della clausola qui criticata potrebbero
essere perseguiti dalla Compagnia prevedendo che, qualora l’assicurato intenda sottoporsi al trattamento proposto, i relativi costi sarebbero assunti dall’assicuratore, e che la valutazione del danno solo in tal caso venga effettuata sulla base dei postumi di invalidità permanente in concreto risultanti.
Tra le cause di esclusione della copertura per il rischio morte e non autosufficienza non di rado sono previste, oltre alle malattie o stati patologici verificatisi al momento della decorrenza del contratto, anche le conseguenze dirette o indirette da essi derivanti. L’accertamento della sussistenza della causa di esclusione è ovviamente affidato ad accertamenti medico legali nel contraddittorio tra assicurato e Compagnia. Ex ante, tuttavia, non è chiaro quando l’evento (in particolare l’evento morte) può essere considerato conseguenza indiretta di una malattia o di uno stato patologico preesistente alla decorrenza della polizza, e quando non può esserlo. Il consumatore non è posto in grado di comprendere e tantomeno di prevedere l’ambito effettivo degli eventi che potrebbero risultare esclusi dalla garanzia, e la verifica di un rapporto di derivazione anche solo indiretta dell’evento da uno stato patologico in concreto introduce elementi di eccessiva discrezionalità e opinabilità che inducono a ritenere vessatorie clausole così congegnate.
E. COMUNICAZIONI ALLA COMPAGNIA IN IPOTESI
DI CAMBIAMENTO DI PROFESSIONE DELL’ASSICURATO
L’ipotesi del cambiamento di professione o di attività dell’assicurato nel corso della durata contrattuale, in materia di assicurazioni sulla vita, costituisce la sola fattispecie di aumento del rischio assicurato - in generale disciplinata dall’art. 1898 c.c. per le assicurazioni contro i danni - alla quale il legislatore conferisce specifico rilievo con l’art. 1926 c.c.
Alcune polizze per l’ipotesi del cambiamento di professione operano un riferimento generico all’art. 1926 c.c., senza però richiamarne il contenuto, e limitandosi a prescrivere un obbligo di comunicazione dell’assicurato ai sensi della norma citata.
In un contesto segnato dalla tendenziale riproduzione, nelle condizioni di contratto, delle norme di legge, specie in presenza di condizioni generali di contratto che di fatto tendano a riprodurre l’intero complesso della disciplina dispositiva di riferimento, è senz’altro preferibile ritenere che, laddove dall’applicazione della norma di legge discendano conseguenze negative per l’assicurato, queste siano esplicitate nelle condizioni generali sotto pena di vessatorietà per difetto di trasparenza. L’assicurato in questi casi può essere indotto incolpevolmente a fare affidamento sull’esaustività del dettato convenzionale rispetto al dettato normativo, incorrendo così in comportamenti pregiudizievoli senza la necessaria consapevolezza, e nel contempo può essere indotto altrettanto incolpevolmente a ignorare i doveri che la norma pone in capo alla Compagnia o i limiti entro i quali la medesima norma ammette l’esercizio dei diritti dell’assicuratore.
D’altra parte, il richiamo convenzionale ellittico – cioè con omissione del contenuto della norma – a fortiori risulta anche contrario alla regola posta dall’art. 166 CAP, che impone di impiegare caratteri di particolare evidenza per segnalare clausole recanti “decadenze, nullità o limitazione delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell’assicurato”.
Ciò premesso, le clausole del tipo qui in esame risultano a maggior ragione vessatorie, in relazione ad una complessiva considerazione degli schemi contrattuali nei quali sono inserite, quando:
• altre clausole si occupino del medesimo tema, prescrivendo in via autonoma termini per comunicare alla Compagnia il mutamento di professione ai sensi dell’art. 1898 c.c.: difetta di chiarezza il frazionamento della disciplina di una medesima fattispecie tramite il richiamo di norme diverse, in clausole diverse;
• il richiamo all’art. 1926 c.c. abbia ad oggetto il solo mutamento di professione, inducendo l’assicurato, senza la necessaria chiarezza e anzi con censurabile ambiguità, a ritenere viceversa irrilevanti mutamenti di attività;
• la medesima o altra clausola affermi che il rischio morte è coperto senza tenere conto dell’eventuale mutamento di professione ma fatti salvi gli effetti sul contratto previsti dall’art. 1926 c.c. in relazione alle circostanze suscettibili di aggravare il rischio o di comportarne l’esclusione: la contraddittorietà del regolamento contrattuale è allora palese e incomprensibile, perché non si può affermare la soggezione del contratto all’art. 1926 c.c. e nel contempo affermare l’irrilevanza, ai fini della copertura, dell’eventuale mutamento di professione dell’assicurato: così si ingenera l’idea che l’assicurato possa cambiare professione senza alcun riflesso sulla sorte della copertura, ma questa idea è appunto smentita dal richiamo all’art. 1926 c.c.;
• la medesima o altra clausola, in caso di verificazione del sinistro preceduta dall’omessa comunicazione del mutamento nel termine previsto, consenta alla Compagnia di procedere in senso conforme a quanto prevedono gli xxxx.xx 1892 e 1893 c.c. per le dichiarazioni inesatte o reticenti.
Oltre che vessatoria, una clausola di questo genere è nulla ai sensi dell’art. 1932 c.c., il quale vieta di derogare all’art. 1926 c.c. se non in senso più favorevole all’assicurato. Al riguardo basta osservare che: a) l’art. 1926 c.c. non assegna all’assicurato alcun termine per effettuare la comunicazione; b) i mutamenti di professione (o di attività) in corso di contratto non costituiscono motivo di annullabilità; c) ai sensi dell’art. 1926 c.c., e senza alcun rilievo dell’eventuale carattere doloso, colposo o non colposo dell’omissione della relativa comunicazione, i cambiamenti di professione fanno cessare gli effetti dell’assicurazione solo qualora aggravino il rischio in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito al tempo del contratto, l’assicuratore non avrebbe consentito l’assicurazione (rilevanza determinante), mentre quando l’assicuratore avrebbe comunque contrattato per un premio più elevato (rilevanza incidente) l’assicuratore ha diritto soltanto ad una riduzione proporzionale dell’indennità da pagare: per contro, gli xxxx.xx 1892 e 1893 c.c. dettano una disciplina differenziata in ragione dell’elemento soggettivo, e per il caso di dolo o colpa grave è previsto l’annullamento con perdita totale del diritto all’indennità senza alcuna distinzione tra rilevanza determinante o soltanto incidente della condotta dell’assicurato.
F. CESSIONE, PEGNO E VINCOLO
Un’ulteriore tipologia di clausole, di particolare diffusione nella prassi contrattale, che ha suscitato perplessità presso diverse Associazioni di consumatori riguarda la facoltà di cedere il contratto a terzi, di darlo in pegno o di vincolare le somme assicurate.
Spesso la formulazione di queste clausole si limita a prevedere che il contraente “può” esercitare le facoltà in questione e che gli atti di cessione, di pegno o di vincolo diventano efficaci solo quando la Compagnia abbia provveduto ad annotarli sull’originale della polizza o su appendice.
Al riguardo pare doversi condividere il rilievo, svolto da più di una Compagnia, secondo cui il riconoscimento della facoltà del contraente, espresso tramite il verbo “potere” e non seguito da altra precisazione, potrebbe essere interpretato come consenso espresso a priori nella clausola come è previsto per la cessione dall’art. 1407 c.c. Tuttavia, merita di essere considerata anche la censura di mancanza di inoppugnabile chiarezza della clausola circa la necessità o meno di un (ulteriore) consenso dell’assicuratore, posto che il semplice richiamo al “potere” del contraente può far insorgere il dubbio che la regola contrattuale intenda in realtà richiamare la regola legale dell’art. 1406 c.c., la quale appunto afferma che ciascuna parte può cedere ad altri il contratto purché l’altra parte vi consenta. Del resto, tra le stesse Compagnie, una ha fatto osservare che l’art. 1406 c.c. dovrebbe trovare automatica applicazione anche se non indicato specificatamente; altre Compagnie hanno fatto osservare che secondo la loro interpretazione le clausole in uso implicano la manifestazione di consenso, pur evidenziando che per lo più in concreto l’impresa non ha alcun interesse a negarlo. Il contrasto di vedute registrato in seno alle Compagnie costituisce in sé riprova della sussistenza di una mancanza di chiarezza rilevante ai fini della vessatorietà.
Altre formulazioni, che fanno riferimento espresso alla “facoltà” del
contraente di cedere il contratto ai sensi dell’art. 1406 c.c., espressamente richiamato, parrebbero invece dover essere interpretate nel senso della necessità del consenso non preventivo della Compagnia, che quindi potrebbe legittimamente negarlo ad esempio rifiutando la propria accettazione. Anche queste opzioni di disciplina, tuttavia, peccano di mancanza di chiarezza e sicura comprensibilità laddove contemplino la previsione, con l’impiego dell’indicativo presente o futuro, e dunque in termini di certezza, di una lettera o comunicazione di accettazione.
Sarebbe dunque preferibile che i testi contrattuali chiarissero se il consenso della Compagnia è necessario o no: entrambe le opzioni di disciplina sarebbero
valide, efficaci e non vessatorie se chiare e comprensibili.
Lacunose, e con effetti distorsivi dell’equilibrio contrattuale, possono in concreto risultare anche le formulazioni della clausola caratterizzate dall’assenza di un termine entro il quale la Compagnia deve provvedere all’annotazione sull’originale o su un’appendice. Per quanto la presa d’atto formale che consegue all’annotazione possa reputarsi in astratto opportuna ai fini della certezza delle relazioni contrattuali, resta il fatto che l’efficacia dell’atto (in uno dei casi esaminati - coerentemente con la tesi secondo cui le clausole in uso non implicherebbero consenso preventivo dell’assicuratore
- la stessa validità) sempre esplicitamente ricollegata all’annotazione, non può essere procrastinata sine die a discrezione dell’assicuratore, quantomeno laddove il consenso della Compagnia sia espresso preventivamente nella clausola (e l’annotazione sia quindi un atto dovuto). A sanare questo vizio non varrebbe il pur pertinente richiamo al dovere di buona fede ai sensi dell’art. 1375 c.c. che senza dubbio sarebbe violato da un immotivato indugio della Compagnia. Peraltro, nel caso della cessione, quando il consenso è preventivo, ai sensi dell’art. 1407 c.c. l’atto sarebbe efficace nei confronti del contraente ceduto o nel momento della sua accettazione o nel momento in cui gli è stata notificata: facendo dipendere l’efficacia in via esclusiva dall’annotazione, anche nel caso della cessione, il carattere vessatorio della clausola è confermato dalla deroga sfavorevole al regime legale, che non rimette alla discrezionalità del contraente ceduto di individuare il momento di efficacia del negozio nei suoi confronti. Rilievi analoghi valgono per il pegno in relazione al disposto dell’art. 2800 c.c.
G. DOCUMENTI RICHIESTI PER OTTENERE I PAGAMENTI DELLE SOMME DOVUTE DALLA COMPAGNIA
Un punto importante nella relazione tra le Compagnie ed i consumatori è poi quello che attiene alle richieste documentali che l’interessato può essere onerato di soddisfare per ottenere i pagamenti delle somme dovute in forza del contratto. Richieste superflue, mal poste o frazionate nel tempo possono senz’altro determinare ingiustificati ritardi nel conseguimento dell’indennità assicurativa da parte dell’avente diritto.
Il tema è da tempo considerato dalla regolamentazione assicurativa, e in particolare dalla circolare ISVAP, ora IVASS, n. 403/2000. Proprio allo scopo di evitare “richieste che a volte risultano formulate in maniera frammentaria o approssimativa, con la conseguenza che il pagamento avviene a distanza anche di
mesi rispetto alla richiesta iniziale del cliente”, il provvedimento citato offre alle Compagnie alcuni criteri ai quali attenersi nell'elaborazione dei documenti contrattuali e informativi e nelle procedure di liquidazione:
• i contratti devono indicare specificatamente la documentazione da consegnare per ogni ipotesi di liquidazione;
• in alternativa, può essere inserito, tra la documentazione precontrattuale e contrattuale, un modulo di richiesta di liquidazione prestampato con l'indicazione dei documenti da consegnare per le varie ipotesi, e in tal caso le condizioni di polizza e la nota informativa possono limitarsi ad indicare che i documenti da consegnare sono quelli riportati nel modulo;
• l'acquisizione di documentazione non prevista nelle condizioni di polizza deve essere limitata “ad ipotesi specifiche, in considerazione di particolari esigenze istruttorie” (art. 2, comma 6°, lett. a) e b) e c), circolare ISVAP, ora IVASS, n. 403/2000).
A fronte di queste disposizioni, i contratti contengono sovente un elenco dei documenti richiesti per ogni ipotesi di liquidazione, e non di rado contemplano una previsione di chiusura che consente alla Compagnia di esigere ulteriore documentazione in presenza di “particolari esigenze istruttorie”, con i relativi costi di acquisizione a diretto carico dei medesimi aventi diritto.
Sulla problematica in esame è intervenuta una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 20.08.2015, n. 17024) che, per la rilevanza delle questioni trattate e delle conclusioni espresse, ha rinvigorito il dibattito tra interpreti ed operatori.
Con la sentenza citata, ai sensi dell’art. 33, comma 2°, lett. q), c. cons.4, la Suprema Corte ha dichiarato vessatoria una tipologia di clausola assai diffusa nella prassi negoziale dei rami vita e nelle assicurazioni di copertura della salute nei rami danni, in quanto porrebbe a carico del beneficiario una serie di oneri, subordinando così l’adempimento delle obbligazioni del professionista al rispetto di particolari formalità. Si tratta, in particolare, di una clausola che nell’ampia formulazione censurata impone di:
1) sottoscrivere una domanda su apposito modulo predisposto dall’assicuratore,
4 In virtù dell’art. 33, comma 2°, lett. q), c. cons., si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che abbiano per oggetto o per effetto di “limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l’adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità”.
e di fare ciò presso l’agenzia di competenza; 2) produrre il certificato di morte dell’assicurato, cioè del portatore di rischio; 3) produrre una relazione medica sulle cause della morte, scritta da un medico su un modulo predisposto dall’assicuratore; 4) produrre una dichiarazione del medico autore della relazione sopra menzionata, nella quale il medesimo medico attesti di avere “personalmente curato le risposte”; 5) produrre, a semplice richiesta dell’assicuratore, le cartelle cliniche relative ai ricoveri subiti dall’assicurato, cioè del portatore di rischio; 6) produrre un atto notorio “riguardante lo stato successorio” dell’assicurato; 7) produrre l’originale della polizza.
La sentenza afferma che tutti gli oneri che precedono, salvo quello relativo al certificato di morte dell’assicurato, sarebbero di per sé gravosi e che “messi insieme” essi formerebbero “un cocktail giugulatorio ed opprimente per le beneficiario, e per di più senza alcun reale vantaggio per l’assicuratore, che non sia quello di frapporre formalistici ostacoli al pagamento dell’indennizzo”. L’importanza del pronunciamento della Cassazione, che incide in modo rilevante su consolidate prassi osservate da molte Compagnie nell’elaborazione dei documenti contrattuali e informativi oltre che nelle fasi di liquidazione, ha indotto l’IVASS a rivolgere un’apposita Lettera al mercato con la quale l’Organo di Vigilanza ha riassunto i contenuti della decisione ravvisandovi un’autonoma e cogente affermazione di vessatorietà delle diverse prescrizioni contenute nel suddetto modello di clausola, e ha richiamato “l’attenzione delle imprese sull’importanza di adottare le idonee iniziative volte a recepire le indicazioni della Corte nella redazione delle clausole dei nuovi contratti di assicurazione sulla vita e nella gestione delle richieste di indennizzo relative a contratti già stipulati che dovessero contenere clausole analoghe a quelle oggetto di censura” (Lettera al mercato in data 17.11.2015)5.
Ne è scaturito un ampio e salutare dibattito, tuttora in corso, tra le imprese e le associazione dei consumatori6, e sono anche stati compiuti significativi passi
5 Nell’esercizio delle sue competenze istituzionali (art. 5 CAP), l’IVASS ha così recepito l’orientamento della Suprema Corte, quasi trasfondendolo in precetti che per certi versi appaiono connotati da un ancor maggior rigore (come si dirà nel testo)
6 Tale dibattito si è svolto in sedi diverse da quelle del contraddittorio intercorso nell’ambito del procedimento intercorso innanzi alla CCIAA di Milano.
nella direzione di un processo di autoregolamentazione7.
Quali che saranno gli sviluppi di questo confronto tra i diversi attori del mercato, si possono senz’altro formulare alcune considerazioni generali.
Se, anche nella prospettiva di una piena ed effettiva tutela dei consumatori, si ha riguardo all’interesse ad un efficiente assetto dei servizi assicurativi sia in fase assuntiva che in fase di liquidazione, un adeguamento drastico e letterale al giudizio di vessatorietà espresso dalla Cassazione – nella misura in cui determinasse una sorta di ostracismo generalizzato di qualsiasi formalità documentale, distinta dalla semplice domanda o istanza, a carico del soggetto che richiede la liquidazione di una polizza vita - non parrebbe auspicabile e, peraltro, non sembrerebbe neppure imposto da una lettura approfondita della decisione. È vero che la sentenza censura come di per sé gravose le singole previsioni relative a ciascuna delle formalità sopra menzionate, ma è anche vero che:
a) la valutazione di vessatorietà risulta compiuta dalla Corte tenendo conto del tenore complessivo della clausola che le cumulava a costituire il corpus denominato “cocktail giugulatorio”: in altre parole, la Corte parrebbe soprattutto aver apprezzato la vessatorietà della “macro” clausola tipo esaminata alla luce dell’insieme degli oneri che essa pone a carico del consumatore, piuttosto che indugiare su una diretta e “assoluta” declaratoria di abusività di ciascuno di essi;
b) la stessa Corte in astratto sembra attribuire rilievo, pur in concreto escludendola nell’ambito e nei limiti della concreta fattispecie decisa, all’eventualità che le formalità richieste possano determinare un “reale vantaggio per l’assicuratore”, ossia un vantaggio “sano” e legittimo perché strumentale al buon funzionamento dei meccanismi assicurativi e, in ultima analisi, all’interesse dei consumatori. Non a caso, la trattazione della Corte muove dalla constatazione che, a fronte di clausole che risultino meritevoli della presunzione di vessatorietà ai sensi dell’art. 34, comma 2°, c. cons., l’assicuratore può fornire, avendone anzi l’onere, la prova che la presenza delle clausole in questione non determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Sembra allora ragionevole ritenere che non qualsiasi clausola che stabilisca qualsiasi formalità a carico del consumatore debba inesorabilmente qualificarsi come vessatoria (ad esempio, neppure per la sentenza in esame è in sé “gravosa” la richiesta del certificato di morte dell’assicurato), ma che
7 In questo senso è la proposta che l’ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) ha prospettato all’IVASS.
questo giudizio debba essere riservato a quelle previsioni che gravano il richiedente di adempimenti eccessivi e sproporzionati, considerati anche il tenore complessivo del regolamento contrattuale e l’eventuale vantaggio “sano” che ne derivi per l’assicuratore e per l’efficienza del sistema.
Premessi questi rilievi sulla sentenza della Suprema Corte, il successivo invito ad adeguarvisi, rivolto dall’IVASS alle imprese con la menzionata Lettera al mercato, al di là degli allarmi ingenerati presso gli operatori professionali, può avere l’effetto benefico di stimolare una rivisitazione dei testi contrattuali e dei documenti informativi, e delle stesse prassi di liquidazione, che espunga dal sistema le formalità prive di seria giustificazione e nel contempo renda meno gravose quelle utili superando eventuali dubbi o profili di vessatorietà.
In diversi casi, come di seguito si chiarisce in relazione a ciascuna delle formalità considerate dalla Cassazione, sembrano sussistere fondate giustificazioni della loro inclusione nei testi contrattuali, tali da non configurare necessariamente un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
G.1. Relazione medica e cartelle cliniche dei ricoveri subiti dall’assicurato
Gli oneri correlati alla produzione, a carico del richiedente, di una relazione medica sulle cause del decesso dell’assicurato e delle cartelle cliniche risultano funzionali a due scopi rilevanti: a) l’accertamento dell’eventuale inoperatività della polizza qualora risultasse che l’evento si sia verificato per cause escluse dalla copertura; b) l’eventuale scoperta di elementi utili ai fini degli xxxx.xx 1892 e 1893 c.c., ossia circostanze sottaciute o inesattamente riferite all’assicuratore al momento della conclusione del contratto, tali da consentirne l’annullamento o da legittimare il recesso della Compagnia.
La Cassazione ritiene gravoso porre a carico del beneficiario la produzione della relazione medica, perché nell’assicurazione sulla vita il beneficiario avrebbe solo l’onere di provare il contratto e l’evento morte, mentre spetterebbe all’impresa la prova, estintiva del diritto all’indennizzo, del fatto che la morte si è verificata per una delle cause escluse dalla polizza.
Va premesso che la giurisprudenza ha più volte posto a carico dell’assicurato l’onere di provare che il sinistro non si è verificato per una causa esclusa, e sebbene si tratti di pronunce rese nell’ambito dell’assicurazione danni i ragionamenti seguiti potrebbero estendersi anche all’assicurazione sulla vita (qualora si reputasse che la formulazione della clausola delimiti l’oggetto stesso del contratto, individuandolo nel rischio dell’evento morte non provocato dalle cause escluse, e il suo verificarsi potesse essere allora interpretato quale
fatto costitutivo della pretesa da provarsi a cura del beneficiario attore anziché quale fatto limitativo della responsabilità dell’impresa convenuta da provarsi a cura di questa)8. In questa ipotesi, la clausola avrebbe la sola portata di chiarire in via convenzionale attraverso quale documento il beneficiario potrebbe offrire la prova della sussistenza della copertura.
Se, invece, aderendo alla prospettiva della Cassazione, si ritenesse in via generale gravante sull’assicuratore la prova della non operatività della polizza, il porre a carico del beneficiario la formalità della relazione medica potrebbe comportare, in via sia pur indiretta, un’inversione dell’onere probatorio nella sede processuale: essa, infatti, interviene sul piano sostanziale introducendo un onere di condotta a carico del beneficiario e a vantaggio dell’assicuratore, che ha così il diritto contrattuale di avvalersi di quel documento per contestare l’operatività della copertura.
Peraltro, la Cassazione non si è formalmente pronunciata circa l’abusività delle previsioni in esame in quanto integranti un’inversione degli oneri probatori ai sensi dell’art. 33, comma 1°, lett. t), c. cons., né in relazione alla richiesta della relazione medica (pur avendo svolto in proposito specifiche considerazioni critiche) né in relazione alla richiesta delle cartelle cliniche, e ciò sebbene rispetto a questa distinta tematica, essendo in gioco una circostanza (dichiarazioni inesatte o reticenti in sede precontrattuale) che ai sensi degli xxxx.xx 1892 e 1893 c.c. in giudizio pacificamente deve essere provata dall’assicuratore, la criticità di rilevanti effetti distorsivi dell’onere della prova a maggior ragione avrebbe potuto venire in diretta considerazione.
In entrambi i casi, infatti, la declaratoria di abusività risulta formalmente assunta ai sensi della lett. q), ossia in quanto si sarebbe in presenza di particolari formalità alle quali l’adempimento dell’assicuratore viene condizionato e che quindi avvantaggiano l’impresa in sede di liquidazione.
Sitratta, alloradiapprezzaresequestivantaggisianoonosempreingiustificabili, in assoluto e in tutti i casi, tenendo presente che tale valutazione, come pare
8 Cass. n. 1473/1998: “Allorquando venga domandato l’adempimento di un contratto, non è dato distinguere - quanto alla distribuzione, fra le parti, dell’onere della prova - fra clausole generali e speciali del contratto stesso, dal momento che tutte ed inscindibilmente attengono alla delimitazione dell’oggetto di esso, il quale, se contestato, deve essere provato unicamente dall’attore che intenda giovarsi degli effetti relativi e conseguenti, trattandosi di fatto costitutivo della domanda ai sensi del 1º comma dell’art. 2697 c.c.”; si veda anche Cass. n. 12837/2014.
aver ritenuto anche la Suprema Corte, assorbe anche profili di eventuale vessatorietà circoscritti al piano processuale dell’onere della prova.
In un contesto non privo di incertezze quanto al regime dell’onere della prova (quanto alla relazione medica) e comunque aperto al riconoscimento del principio di prossimità alla prova (anche in relazione alle cartelle cliniche), e considerando anche che le previsioni qui in esame sono destinate ad operare in primo luogo nello svolgimento sostanziale del rapporto assicurativo, le formalità richieste non risultano necessariamente all’origine di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
In primo luogo, è giusto muovere dalla presa d’atto del fatto che l’assicuratore normalmente non si trova in una situazione di vicinanza alla prova che renda agevole l’acquisizione della relazione medica e della documentazione sanitaria, e assai sovente è anzi vero che in una situazione di ragionevole prossimità, avendo più diretto accesso alle informazioni rilevanti circa la persona dell’assicurato e le cause della sua morte, per lo più si trova proprio il beneficiario: ciò accade quando il beneficiario sia un coniuge o uno stretto congiunto dell’assicurato, o un suo erede.
Ciò premesso, l’onere di produrre alla Compagnia la relazione medica sulle cause del decesso non appare irragionevolmente posto a carico dell’interessato, sotto l’aspetto dei costi, se confrontato con le utilità economiche connesse alla prestazione assicurativa e alla rilevanza della sua connotazione previdenziale. Il fatto che tale onere in ipotesi possa essere allocato in capo al richiedente, poi, può contribuire all’efficienza del sistema anche nel senso che, imponendo all’interessato una previa indagine sull’obiettiva verificazione del rischio assicurato, concorre alla riduzione delle domande di indennizzo infondate.
Quanto, invece, alla richiesta di produzione delle cartelle cliniche, è noto che i processi liquidativi da tempo consolidati vi fanno ampio ricorso per consentire alle imprese di verificare la correttezza delle informazioni sanitarie offerte dal contraente al momento della conclusione del contratto, e così di valutare se l’assunzione del rischio è avvenuta in modo fisiologico e senza criticità rilevanti ai fini degli xxxx.xx 1892 e 1893 c.c.
È altrettanto noto che le formalità assuntive - ossia gli adempimenti precontrattuali che permettono agli assicuratori di apprezzare il più possibile correttamente gli effettivi rischi di cui sono portatori i potenziali assicurati prima che essi facciano ingresso nella comunione assicurativa – sono incentrate, sulla base di un’ormai pluridecennale prassi avallata dalla giurisprudenza di legittimità nel tentativo di riequilibrare le asimmetrie informative che caratterizzano in modo peculiare il rapporto tra assicuratore e assicurato, sulla compilazione, da parte del contraente, di un questionario ad hoc che contiene
di xxxxx diverse domande sullo stato di salute dell’assicurato.
L’acquisizione della cartella clinica permette all’assicuratore di controllare la correttezza di quei dati precontrattuali, rinviando la verifica ex post, rendendo più snella la fase della stipula del contratto e facendo sì che l’impresa possa “accontentarsi” della compilazione del questionario, senza esigere accertamenti medici già in quella sede.
Il riconoscimento convenzionale, in favore dell’impresa, dell’impegno del beneficiario di produrre la documentazione medica al momento della liquidazione, in quanto correlato all’alleggerimento della fase precontrattuale, non introduce di per sé profili di ingiustificato squilibrio nel rapporto contrattuale, e anzi pare coerente con l’esigenza di semplificare l’iter assuntivo per favorire il rafforzamento del mercato e la maggior diffusione sociale delle tutele previdenziali e della salute attraverso le coperture assicurative.
Va anche considerato che la naturale soggezione di qualsiasi sistema assicurativo al rischio di frodi, correlata alle note asimmetrie informative, in particolare nell’ambito delle assicurazioni di puro rischio9, rende scarsamente surrogabile l’adozione di efficaci meccanismi di controllo su quanto l’assicurato dichiara al momento della stipula10.
9 Le polizze si definiscono di puro rischio quando prevedono la copertura e il pagamento del capitale al verificarsi dell’evento senza realizzare forme di accumulo di risparmio, con la conseguenza che, non verificandosi l’evento nella vigenza del contratto, i premi (di importo per lo più contenuto rispetto all’indennità dovuta in caso di verificazione dell’evento assicurato) di norma non sono soggetti a nessuna forma di rimborso. Tali, ad esempio, sono le assicurazioni temporanee caso morte.
10 Se i processi assuntivi, nel timore di una vessatorietà delle corrispondenti clausole, fossero modificati bandendo dai testi contrattuali qualsiasi possibilità per le imprese di esigere la cartella clinica prima di dare corso alla liquidazione, sarebbe necessario arricchire l’istruttoria precontrattuale anticipando per quanto possibile forme generalizzate di verifica delle condizioni di salute dell’assicurato più rigorose della semplice assunzione di autocertificazioni tramite questionari compilati dallo stesso contraente. Il punto, però, sarebbe molto delicato. Tra le soluzioni ipotetiche, non potendosi pensare, per motivi di sostenibilità economica del sistema, ad un ricorso alla visita medica in fase assuntiva esteso su larga scala alla generalità delle proposte contrattuali, si potrebbero prevedere forme di compilazione del questionario con l’assistenza o a diretta cura del medico di famiglia, ma con esiti comunque incerti sul
Bisogna poi tenere conto che spesso le polizze vita contengono la c.d. clausola di incontestabilità con la quale l’assicuratore, trascorso un certo periodo dall'entrata in vigore dell'assicurazione o dal suo rinnovo (di norma sei mesi o un anno), rinuncia a far valere eventuali dichiarazioni inesatte o reticenti, salvo il caso di mala fede. La presenza di questo tipo di previsione nel testo contrattuale, che avvantaggia il contraente e il beneficiario, può concorrere a bilanciare ulteriormente la gravosità della produzione in esame anche nelle assicurazioni non di puro rischio: se il rischio assicurato si verifica proprio nel breve spazio temporale entro cui l’impresa si è riservata di far valere le tutele di legge in suo favore, è a maggior ragione giusto che essa possa avvalersi della massima collaborazione del beneficiario per verificare che nella fase precontrattuale non fossero già esistenti circostanze incidenti sul rischio che, se portate a sua conoscenza, l’avrebbero indotta a non concludere il contratto o a concluderlo a condizioni diverse.
I rilievi che precedono suggeriscono di escludere che di per sé la previsione in esame meriti di essere censurata per il solo fatto di richiedere al beneficiario la produzione delle cartelle cliniche dell’assicurato.
Tuttavia, la “sconfinata latitudine” – per usare l’espressione impiegata dalla Suprema Corte – di un onere privo di limitazioni, genera un comprensibile dubbio di vessatorietà, perché il beneficiario potrebbe vedersi investito da richieste sproporzionate. Si pensi, in particolare, alla pretesa dell’assicuratore che, sulla base della clausola, si estendesse a ritroso nel tempo sino ad abbracciare le cartelle cliniche relative alla intera storia sanitaria dell’assicurato e a tutti i ricoveri subiti in un passato anche assai remoto.
Una richiesta del genere, oltre che disagevole o addirittura impossibile da soddisfare con esaustività per il beneficiario, sarebbe difficilmente giustificata dall’esigenza di controllare se la valutazione del rischio assicurato nella fase precontrattuale si è formata in modo corretto o viziato: salvo casi peculiari
– rispetto ai quali sarebbe comunque ragionevole consentire all’impresa di
piano della prevenzione delle frodi (ad esempio, occorre tener presente che l’intervento del medico di base si risolverebbe, sovente, in un’anamnesi più o meno corretta e completa a seconda di quanto riferito dal paziente e di quanto oggettivamente verificabile dal medico sulla base della durata del suo rapporto di cura e nei limiti delle informazioni per legge accessibili al curante) e della soddisfazione degli interessi della clientela (ad esempio, potrebbe prodursi un incremento dei dinieghi prudenziali di liquidazione e, quindi, del contenzioso).
tutelarsi - eventi clinici occorsi magari molti anni prima del decesso, e senza alcun legame causale con le circostanze sanitarie che lo hanno determinato, si riveleranno per lo più privi di oggettiva incidenza sulla probabilità di verificazione del rischio assicurato, e dunque difficilmente inesattezze o reticenze che li abbiano riguardati potrebbero aver spiegato rilevanza sulle determinazioni negoziali assunte dall’impresa con la conclusione del contratto. La condotta dell’impresa sarebbe allora pretestuosa, perché dilatoria e strumentale, e il diniego di liquidazione che su di essa fosse fondato sarebbe illegittimo anche per contrasto con la buona fede.
Tuttavia, per l’importanza che assume per l’assicuratore e per la funzionalità stessa del sistema assicurativo la possibilità di acquisire le informazioni sanitarie, il rischio di comportamenti patologici e abusivi di singole imprese, come tali sanzionabili in sede giudiziale, non vale di per sé a far ritenere superflua o vessatoria qualsiasi richiesta di acquisizione di cartelle cliniche in ipotesi, a seconda dei casi, anche alquanto risalenti rispetto al decesso.
In proposito, pare ragionevole ritenere che: a) laddove il decesso sia avvenuto in occasione di un ricovero presso una struttura sanitaria la richiesta della cartella clinica sia proporzionata; b) la richiesta sia giustificabile, in termini generali, anche laddove circoscritta alle cartelle cliniche relative ad eventuali ricoveri di cui si abbia conoscenza entro un certo tempo prima del decesso (ad esempio 24/36 mesi prima), considerando i tempi medi di latenza delle patologie più diffuse; c) sia comunque ammissibile la richiesta di eventuali cartelle cliniche o di esiti di accertamenti sanitari relativi anche ad epoche più risalenti, di cui si abbia conoscenza, qualora essi documentino la diagnosi della malattia che ha condotto al decesso dell’assicurato, ovvero la sussistenza delle sue cause.
In effetti, previsioni similari – che parte della contrattualistica successiva all’intervento della Cassazione ha introdotto allo scopo di adeguarvisi - risultano accettabili perché contemperano in modo equilibrato gli interessi in gioco.
Va da sé che spetta alla discrezionalità della singola impresa modulare il contenuto e l’intensità delle richieste, ad esempio limitandosi, in prima battuta, a richiedere solo un certificato medico sulle cause del decesso o una relazione medica estesa allo stato clinico dell’assicurato (eventualmente anche a cura del medico di base), o a circoscrivere la richiesta di cartella clinica solo al caso in cui il decesso è avvenuto in struttura sanitaria. In questi casi, la richiesta delle cartelle cliniche di precedenti ricoveri potrebbe fondarsi – eventualmente – su una distinta clausola di polizza che preveda, entro certi limiti, la produzione di documenti ulteriori rispetto a quelli che devono accompagnare la domanda di pagamento (su questo tipo di clausola, si veda infra § g.4.).
Occorre però considerare allo stesso tempo che, quanto più l’istruttoria in sede di liquidazione è lacunosa, tanto più l’eventuale diniego di indennizzo che la Compagnia si inducesse ad opporre in sede stragiudiziale per “sospetti” privi di sicuro riscontro, in sede giudiziale potrebbe rivelarsi fondato, con aggravio di tempi e costi anche a carico del beneficiario, sulla base delle risultanze di cartelle cliniche o accertamenti sanitari dei quali la Compagnia ottenesse l’esibizione. Uno squilibrio rilevante, in via generale, può essere ravvisato nei casi in cui la qualità soggettiva del beneficiario gli renda a priori più difficile, o comunque di certo non più agevole di quanto sia per l’assicuratore, accedere alla documentazione sanitaria dell’assicurato sulle cause del decesso (anche ai fini della predisposizioni di relazioni mediche), magari incappando nel rifiuto opposto dalla struttura sanitaria per motivi attinenti alla sfera della riservatezza11. Questa situazione, di norma, caratterizza la posizione del beneficiario che non sia congiunto (o soggetto legato da unione civile) o erede dell’assicurato, bensì un soggetto estraneo alla cerchia dei rapporti familiari. Le clausole qui in esame appaiono quindi vessatorie nella parte in cui obbligano indistintamente anche tale categoria di beneficiari. Una soluzione di segno diverso, peraltro, potrebbe prospettarsi qualora il contratto di assicurazione sottoscritto dall’assicurato, riequilibrando la posizione degli interessati, autorizzasse medici e strutture ospedaliere a rilasciare informazioni sanitarie ai beneficiari, prevedendo a favore degli stessi il diritto di formulare le relative richieste dopo la morte dell’assicurato12.
Residui dubbi di vessatorietà, infine, sussistono laddove si tratti di polizze non
di puro rischio che dovrebbero realizzare operazioni di risparmio tramite lo strumento aleatorio proprio dell’assicurazione, e il contratto non contenga la clausoladiincontestabilità: inquesticasi, seilcontrattohaunafortecomponente di investimento con marcati rischi finanziari a carico dell’assicurato e con una ridotta incidenza del rischio demografico assunto dall’assicuratore13, la pretesa di ricevere cartelle cliniche anche risalenti, a maggior ragione quando
11 Va peraltro osservato che la legittimità di un rifiuto sarebbe discutibile alla luce dei principi del d. lgs. n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
12 Una simile previsione è non di rado contemplata in favore delle imprese, che possono di norma avvalersene anche durante la durata del rapporto contrattuale.
13 Contratti di ramo III (polizze unit linked e polizze index linked).
l’evento si realizza a distanza di anni dalla conclusione del contratto, pare ridondante rispetto all’interesse che l’impresa potrebbe avere nel lamentare eventuali profili di inesattezza o reticenza delle dichiarazioni a suo tempo rese dall’assicurato circa il suo stato di salute e la sua storia sanitaria.
G.2. Domanda da sottoscrivere e compilare su modulo predisposto dall’assicuratore presso l’agenzia di competenza
Per la Cassazione concorrerebbe a determinare la vessatorietà della suddetta tipologia di clausola la previsione che impone di formulare la domanda di pagamento su modulo predisposto dall’assicurato e di recarsi allo scopo presso l’agenzia di competenza.
In particolare, per il primo punto, si tratterrebbe di oneri contrari al principio di libertà delle forme in materia di obbligazioni; per il secondo, di gravi violazioni della libertà personale e di movimento del beneficiario, senza nessun beneficio o vantaggio per l’assicuratore.
Il rigore di questa valutazione – che pur evoca il concetto di servitù personale
- non persuade, non risultando ben chiaro in cosa consisterebbe l’esatto profilo di squilibrio, ma il monito della Suprema Corte può essere di stimolo per un opportuno aggiornamento dei testi contrattuali.
Di per sé, le prescrizioni in questione non sono prive di utilità per l’impresa e per il beneficiario, perché avvalendosi del modulo, peraltro previsto dalla circolare ISVAP sopra citata, l’istante è messo in grado di formulare la domanda in modo completo14, e presso l’agenzia può fruire dell’assistenza di cui avesse bisogno.
In questo modo, la procedura di liquidazione può forse evitare incagli o incomprensioni legate alla particolare delicatezza e complessità dei prodotti assicurativi, ed è reso più sicuro il controllo dell’identità del beneficiario.
Nel contempo, però, è pur vero che il formalismo un po’ vetusto delle previsioni in esame trasforma in obbligo ciò che più semplicemente – e con modifiche agevoli da apportare - potrebbe costituire una semplice opportunità per l’assicurato, senza imporgli di recarsi presso l’agenzia per redigere e consegnare la domanda all’assicuratore, incorrendo così in un incomodo che a
14 Questo vale anche per il medico incaricato dall’assicurato di predisporre la relazione medica, ove richiesta. Spesso, infatti, è prevista la compilazione del documento su modulo messo a disposizione dall’impresa.
seconda dei casi può essere anche non trascurabile.
In questo senso sembra già essersi orientata la contrattualistica, che in molti casi si è adeguata alla sentenza della Suprema Corte sottolineando il carattere soltanto preferenziale e, comunque, facoltativo del ricorso all’assistenza presso la rete di vendita e dell’impiego dei moduli della Compagnia, ed elencando in modo analitico le informazioni da inserire nella domanda a beneficio di coloro che intendessero trasmetterla per raccomandata su carta semplice.
G.3. Atto notorio riguardante lo stato successorio dell’assicurato e originale della polizza
Spesso i contratti onerano il beneficiario di produrre un atto notorio dal quale risulti lo stato successorio dell’assicurato, cioè se la successione ha titolo nella legge o in un testamento, in modo che l’assicuratore sia anche in grado di conoscere chi siano gli eredi e per quali quote.
La Cassazione, decidendo la concreta fattispecie, ha ritenuto che questa produzione fosse inutile, e quindi inutilmente gravosa la relativa previsione, perché il beneficiario acquista, come noto, un diritto proprio alla somma assicurata e non già un diritto avente titolo nella successione, perché non risultava che la polizza indicasse come beneficiari genericamente gli eredi e perché mancherebbe in casi di questo genere un interesse dell’impresa a conoscerne l’identità.
La stessa Cassazione dà atto di come la produzione in esame possa essere rilevante quando i beneficiari sono genericamente designati tramite il riferimento agli eredi legittimi o testamentari. In effetti, in questa ipotesi il richiedente ha l’onere di provare la propria qualità di erede trattandosi di fatto che concorre a costituire il suo diritto contrattuale alla percezione dell’indennizzo, e l’atto notorio gli consente di offrire un riscontro idoneo di tale qualità con costi ragionevoli (tenendo conto, da un lato, della collaborazione esigibile dall’assicurato in ragione della particolare rilevanza della prestazione assicurativa nei rami vita; dall’altro lato, del fatto che le formalità di norma presupposte per la redazione dell’atto notorio garantiscono un elevato grado di affidabilità). Peraltro, secondo un orientamento espresso da altra recente decisione della Cassazione - che sul punto ha ribaltato la precedente giurisprudenza - la conoscenza precisa dell’assetto successorio è indispensabile per l’assicuratore anche per individuare la quota in concreto spettante a ciascuno dei beneficiari, laddove la loro generica designazione nella persona degli eredi non sia accompagnata da un’espressa previsione del criterio di riparto dell’indennizzo, perché questo criterio dovrebbe
essere desunto dalle disposizioni che regolano la successione ereditaria, e l’indennizzo non potrebbe essere diviso in quote eguali tra gli aventi diritto (Cass. 29.09.2015, n. 19210; contra, ad esempio, Cass., 23.03.2006, n. 6531).
Nonostante l’orientamento espresso dalla Cassazione, non sembra che la conclusione possa mutare radicalmente quando l’indicazione dei beneficiari sia nominativa.
Infatti, ai sensi degli xxxx.xx 1920 e 1921 c.c. la scelta del beneficiario può essere revocata e sostituita da una diversa designazione per testamento. L’interesse dell’assicuratore a conoscere lo stato successorio dell’assicurato è quindi sussistente anche in questo caso, e anzi pare che sia allora necessario, per l’impresa, acquisire copia dell’eventuale testamento, per verificare se con esso il testatore abbia cambiato il beneficiario.
L’onere posto a carico del richiedente, del resto, non pare all’origine di squilibri censurabili neppure in questa ipotesi a carico del contraente o dell’avente diritto alla prestazione, perché: a) permette all’impresa, nello stesso interesse del contraente e del beneficiario, di evitare indagini più complesse che potrebbero provocare cospicui sforamenti del termine usuale di pagamento (30 giorni);
b) evita il rischio che l’impresa liquidi l’indennizzo limitandosi a verificare l’identità del beneficiario indicato nella polizza facendo esclusivo affidamento su di essa, con la conseguenza che provando la sua buona fede l’assicuratore potrebbe rifiutare un secondo pagamento all’effettivo beneficiario assumendo di aver già pagato al creditore apparente ai sensi dell’art. 1189 c.c.
Alla luce delle esposte considerazioni, una mera dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 – per quanto accompagnata da una precisa espressione di consapevolezza della gravità delle conseguenze, anche penali, in caso di mendacio (tale soluzione è in effetti prevista da alcune polizze, specie dopo l’intervento della Cassazione, in alternativa all’atto notorio) - potrebbe non garantire un livello di tutela equipollente, quantomeno in mancanza della contestuale produzione, da parte del richiedente, della copia del testamento e del verbale di deposito e pubblicazione dell’atto di ultima volontà. In questo caso, peraltro, la stessa dichiarazione sostitutiva potrebbe essere in concreto superflua, specie se il verbale di pubblicazione a cura del notaio desse atto che a quanto consta il testamento in questione sia il solo del quale si abbia notizia, abbia i requisiti formali di validità e non risulti impugnato da alcuno (tra le soluzioni adottate dalle imprese a seguito della sentenza, vi è quella che considera sufficiente quest’ultima produzione, ovviamente nei soli casi di successione testamentaria).
Una soluzione accettabile, che risulta anch’essa accolta nella contrattualistica
successiva alla sentenza della Cassazione, potrebbe essere quella di prevedere
la facoltà di richiedere la produzione dell’atto notorio in presenza di particolari esigenze di accertamento circa la legittimazione dell’avente diritto o l’erogazione regolare dell’importo dovuto, che la Compagnia sia tenuta ad indicare.
La previsione che senza alcuna ulteriore specificazione impone al beneficiario di produrre l’originale del contratto risulta inutilmente gravosa, come ha osservato la Cassazione, perché l’assicuratore ovviamente è già in possesso della polizza. L’adeguamento dei testi contrattuali, auspicabile per scongiurare declaratorie di vessatorietà, potrebbe modificare l’onere prevedendo che su richiesta dell’impresa l’istante debba produrre l’originale del documento dal quale emerge la sua designazione, se questo non si trova già nella disponibilità dell’assicuratore. Questa eventualità, in effetti, nel rispetto degli xxxx.xx 1920 e 1921 c.c., si può verificare quando sia mancata in assoluto qualsiasi designazione all’atto della stipula (o per una svista sia stata omessa sull’originale trattenuto dall’impresa), o l’individuazione del richiedente sia stata fatta in epoca successiva previa revoca del beneficiario in origine prescelto o in aggiunta a quest’ultimo, ed in un caso come nell’altro la relativa comunicazione non risulti pervenuta all’impresa all’apertura della fase liquidativa.
G.4. Documentazione non prevista nelle condizioni di polizza
La richiesta di documentazione non prevista nelle condizioni di polizza deve essere limitata “ad ipotesi specifiche, in considerazione di particolari esigenze istruttorie” (art. 2, comma 6°, lett. a) e b) e c), circolare ISVAP, ora IVASS, n. 403/2000).
Il riferimento alla sussistenza di particolari esigenze istruttorie – che in quanto tali sono di per sé collegate a ipotesi specifiche - comporta che la richiesta di ulteriore documentazione debba essere motivata quantomeno da un chiaro richiamo della circostanza che la suscita, e che la discrezionalità dell’impresa non possa essere arbitraria ma presupponga pur sempre un’obiettiva giustificazione correlata alla verifica dell’obbligo di pagamento, alla corretta erogazione della prestazione, alla sicura individuazione degli effettivi aventi diritto o, ancora, all’adeguamento agli obblighi di natura fiscale o alla normativa antiriciclaggio.
Un’individuazione tassativa di ogni possibile esigenza istruttoria, peraltro, non sarebbe esigibile in polizza.
In ogni caso, l’impresa deve attenersi al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto, che sarebbe violato gravemente qualora la Compagnia formulasse richieste documentali strumentali e dilatorie, e non strettamente necessarie alla verifica dell’esistenza dell’obbligazione di pagamento e/o alla liquidazione
dell’importo spettante e/o all’individuazione degli aventi diritto.
Le considerazioni che precedono escludono la vessatorietà della clausola che consente di richiedere, alle condizioni sopra ricordate, documenti diversi da quelli già menzionati nella polizza.
Cionondimeno, è comunque auspicabile che le Compagnie - dando seguito alla disponibilità espressa da alcune di esse, e anche sulla scorta dello stimolo a compiere ogni sforzo utile a migliorare le prassi del settore che deriva dalla sopra citata Lettera al mercato e dalla giurisprudenza citate nel paragrafo che precede
- procedano ad un affinamento delle clausole in uso, che ad esempio: a) preveda espressamente l’obbligo di motivazione in relazione alla specifica fattispecie;
b) rechi un’individuazione esemplificativa delle ipotesi in cui l’integrazione può essere richiesta, ovvero delle particolari esigenze istruttorie la cui ricorrenza sia di agevole prevedibilità (ad esempio, verbali dell’Autorità Giudiziaria, provvedimenti giudiziali, referti autoptici o tossicologici, cartelle cliniche relative a ricoveri risalenti dell’assicurato, cartelle cliniche o documentazione sanitaria del beneficiario che sia egli stesso deceduto ai fini della liquidazione in favore dei suoi eredi, ecc. ecc.); c) eventualmente introduca un termine per l’esercizio della facoltà di richiedere documentazione ulteriore più ristretto di quello di 30 giorni dal ricevimento della documentazione, entro cui va effettuato il pagamento; d) consenta l’esercizio della facoltà in questione per una sola volta, anche qualora sia necessario acquisire più di un documento, salvo la ricorrenza di eccezionali e motivate circostanze.
Infine, l’attribuzione a carico dell’avente diritto dei costi di acquisizione della documentazione ulteriore richiesta non può ritenersi vessatoria. Essa risponde a determinazioni non sindacabili in questa sede, non a priori incoerenti con un’equilibrata cooperazione con l’assicuratore, sebbene indubbiamente suscettibili di una ripartizione tra le parti più favorevole all’avente diritto. Va da sé che richieste puramente strumentali da parte dell’interessato dovrebbero essere severamente sanzionate in sede giudiziale.
Sempre in relazione al tema dei pagamenti della Compagnia, la clausola che nelle assicurazioni di autosufficienza riserva all’impresa di disporre a carico dell’assicurato tutti gli accertamenti clinici che riterrà necessari risulta vessatoria, perché fa dipendere l’individuazione degli esami da svolgere da un apprezzamento puramente soggettivo di una parte. Il problema potrebbe essere superato agevolmente, prevedendo che la Compagnia ha la facoltà di indicare gli esami necessari secondo la migliore scienza medica.
H. RISCATTO
L’esercizio del diritto di riscatto – normalmente previsto dopo due o tre anni di durata contrattuale - permette al contraente di risolvere anticipatamente il rapporto e di incassare il capitale assicurato maturato.
L’esercizio del diritto di riduzione della polizza – anch’esso normalmente previsto solo dopo un certo tempo - consente invece al contraente di interrompere solo il pagamento dei premi mantenendo gli effetti del contratto per la durata pattuita. Il capitale assicurato è allora ridotto sulla base dei premi versati e di quelli in origine previsti per la intera durata del rapporto.
Ai sensi dell’art. 1925 c.c., i contratti devono regolare i diritti di riscatto e di riduzione della somma assicurata, in modo tale che l’assicurato sia in grado di conoscere in ogni momento quale sarebbe il valore di riscatto o di riduzione dell’assicurazione.
Come è facile comprendere, si tratta di diritti di grande importanza alla luce della fondamentale funzione non solo previdenziale, ma anche di risparmio propria di molte forme di assicurazione sulla vita.
Riscatto e riduzione, tuttavia, non trovano inderogabile applicazione in tutte le tipologie contrattuali.
Il riscatto, infatti, richiede che il contratto preveda la costituzione della riserva matematica e che la prestazione contrattuale dell’assicuratore sia certa nell’an, con la conseguenza che per l’assicuratore lo scioglimento del rapporto per effetto del recesso determinerebbe un arricchimento puro e semplice: come è stato autorevolmente osservato, il diritto in esame ha il suo fondamento “nel sinallagma assicurativo, per cui l’equivalenza delle prestazioni delle parti e le modalità di calcolo del premio, determinato in misura costante nonostante che il rischio demografico sia caratterizzato da una crescente o decrescente probabilità di verificarsi fanno nascere l’obbligo per l’assicuratore di accantonare l’eccedenza tra il premio versato e il premio naturale costituendo nel proprio patrimonio la
c.d. riserva matematica” (X. Xxxxxxx, Saggi di diritto dell’assicurazione, Milano, 1971, 322).
Pertanto, non sono vessatorie le clausole che escludono espressamente la sussistenzadeldirittodiriscattoneicontrattidiassicurazionedinonautosufficienza o di invalidità permanente o inabilità, e nei contratti che coprono il rischio morte non già a vita intera bensì per una durata solo temporanea, ancorché protratta. In questi casi, si è in presenza di contratti c.d. di puro rischio, nei quali i premi versati sono corrispettivi del rischio effettivamente sostenuto dalla Compagnia, senza accumulo di capitale, e nei quali la prestazione dell’assicuratore è incerta anche nell’an (perché non è certo che si verifichi l’evento).
Non danno diritto a riduzione le polizze di assicurazione caso morte temporanee e quelle con premio unico, il cui pagamento ovviamente non può essere interrotto. Quanto all’applicazione, in forza di specifiche clausole, di coefficienti di penalizzazione che hanno lo scopo di disincentivare l’esercizio del riscatto (anche in funzione di esigenze di sostenibilità economica del prodotto), concorrendo così a diminuire la somma spettante rispetto ai premi versati, con motivazione che merita di essere condivisa, la giurisprudenza di merito ha avuto modo di escludere la vessatorietà, osservando che è insito nella natura del contratto che per il recesso non spetti l’intero capitale versato, bensì un importo inferiore che tenga conto del rischio effettivamente coperto dalla Compagnia durante la durata contrattuale (Tribunale di Palermo, 12 maggio 2006).
La scelta di applicare o meno forme di penalizzazione economica del riscatto
- denominate nella prassi “penali”, secondo una nozione non coincidente con quella dell’art. 1382 c.c., posto che l’esercizio del riscatto, ove previsto, non dà luogo ad alcun inadempimento del contraente – non è dunque di per sé censurabile, neppure se prevista in modo discrezionale solo per alcune annualità. Naturalmente, le penali devono essere chiare e comprensibili, per permettere l’esatta comprensione degli oneri del riscatto e conoscere quindi in ogni momento l’esatto importo spettante.
I testi contrattuali esaminati sotto questo aspetto non presentano criticità di rilievo e nella nota informativa danno conto delle penalizzazioni in conformità della normativa di settore.
Tema distinto, seppure connesso, è quello relativo a clausole che in concreto potrebbero ridurre o azzerare il valore del riscatto, dando così luogo a pagamenti talmente inferiori ai premi versati da determinare una perdita, in ipotesi anche totale, del capitale impiegato nell’operazione. Il tema, per ragioni di connessione, è considerato nella trattazione relativa ai rischi finanziari a carico del contraente.
I. POTERI DI VARIAZIONE DI CONDIZIONI CONTRATTUALI (IUS VARIANDI)
In relazione a tipologie contrattuali nelle quali il valore della prestazione dell’impresa è collegato a fondi interni o a OICR (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio), e dunque in relazione a polizze riconducibili al ramo III o multiramo, il Regolamento del fondo interno costituisce parte integrante delle condizioni di polizza, nelle quali è dato riscontrare clausole che, con formulazioni grosso modo equivalenti, prevedono per la Compagnia la
possibilità di effettuare modifiche al Regolamento derivanti dall’adeguamento alla normativa primaria e secondaria vigente oppure a fronte di mutati criteri gestionali, con esclusione di quelle meno favorevoli per l’assicurato. Tali modifiche devono essere trasmesse con tempestività all’Autorità di Xxxxxxxxx (IVASS), con evidenza degli effetti sugli assicurati, e comunicate ai contraenti (art. 2.6, Circolare ISVAP, ora IVASS, n. 474/D del 2002; regole analoghe sono dettate con riguardo alle modifiche del Regolamento della Gestione Separata - per la quale ai sensi dell’art. 2, comma 1°, lett. c), Regolamento ISVAP n. 38 del 3 giugno 2011, si intende “un portafoglio di investimenti gestito separatamente dagli altri attivi detenuti dall’impresa di assicurazione, in funzione del cui rendimento si rivalutano le prestazioni dei contratti ad esso collegati” - dall’art. 6, comma 1°, lett. g), del medesimo Regolamento ISVAP n. 38/2011).
Tali disposizioni di settore risultano riprodotte nelle tipologie contrattuali sopra richiamate e nei contratti che contemplano gestioni separate, sia tramite pattuizioni generali che ammettono il diritto di riscatto senza oneri o penalizzazioni – ossia un rimedio assimilabile al diritto di recedere - per il contraente che non intenda accettare le modifiche adottate, sia tramite pattuizioni specifiche relative a determinate modifiche che parimenti ammettono il diritto di riscatto nei medesimi termini (o soluzioni comunque sufficientemente tutelanti, come il diritto di trasferimento gratuito ad altri fondi collegati in caso di fusione tra fondi interni).
Le relative clausole non possono quindi essere reputate vessatorie, perché riproduttive di soluzioni ammesse dall’Autorità di Xxxxxxxxx nel quadro delle sue competenze di legge, neppure nei casi in cui le modifiche risultino determinate da mutati criteri gestionali e non da modifiche normative.
Peraltro, occorre anche considerare che il potere di mutare unilateralmente le condizioni contrattuali sulla base delle sopra citate disposizioni regolamentari, in generale, è previsto con esclusione delle modifiche meno favorevoli per l’assicurato.
Vi sono però casi di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali anche in senso meno favorevole.
In particolare, uno ius variandi di questo tipo in favore dell’impresa è spesso previsto nell’ambito di “contratti con partecipazione agli utili a premi unici ricorrenti che prevedono tassi di interesse garantiti variabili secondo meccanismi predefiniti nelle condizioni di polizza e nel rispetto dell’art. 33 del decreto [Codice delle Assicurazioni Private, n.d.r.], le imprese comunicano preventivamente per iscritto al contraente la variazione del tasso, precisando che il nuovo tasso si applica esclusivamente ai premi con scadenza successiva alla data di variazione prevista nella comunicazione” (art. 15, Regolamento ISVAP n. 35/2010).
La previsione regolamentare citata ammette espressamente, nelle tipologie contrattuali menzionate, la possibilità che il contratto preveda clausole di modifica dei tassi di rendimento garantiti, purché ciò avvenga secondo meccanismi predefiniti dalle polizze e senza efficacia retroattiva. Tali clausole non possono quindi essere reputate di per sé vessatorie purché sino formulate in modo chiaro e comprensibile.
Alla luce delle considerazioni che precedono, risultano accettabili clausole che individuino in modo chiaro la forbice entro la quale può essere esercitato lo ius variandi della Compagnia, indicando un tasso massimo e un tasso minimo.
Non risultano invece accettabili, per difetto di chiarezza e di conformità con la sopra citata norma regolamentare, clausole che non individuino i limiti del potere di modifica del tasso annuo minimo garantito da applicare per le annualità successive, non essendo sufficienti, per soddisfare il principio di chiarezza e trasparenza, né un generico richiamo “ai limiti della normativa vigente”, che non consente di comprendere ex ante quale sarebbe il tasso minimo che potrebbe essere applicato, né la previsione della garanzia di restituzione del capitale della gestione separata rivalutato all’annualità precedente la modifica.
In tutti i casi, deve essere garantita la possibilità di riscattare la polizza senza oneri o penalizzazioni, laddove il contraente non intenda soggiacere alla modifica, e a questo riguardo presenta margini di ambiguità il semplice richiamo alla norma di polizza che, in relazione ai casi previsti dall’art. 2.6, Circolare ISVAP, ora IVASS, n. 474/D del 2002 (v. sopra), consente questa facoltà, posto che la disposizione in questione si occupa solo di modifiche più favorevoli, mentre la modifica di un tasso di rendimento può essere senz’altro in senso meno favorevole.
Un’altra espressione dello ius variandi in materia assicurativa si riscontra nelle assicurazioni di non autosufficienza, con riferimento alla riduzione della prestazione dell’assicuratore in caso di revisione delle basi statistiche, ad intervalli almeno quinquennali, a seguito di un effettivo incremento della sinistralità. Meccanismi contrattuali di questo genere risultano necessari per perseguire la piena sostenibilità del prodotto dal punto di vista attuariale, e non possono essere considerati vessatori se accompagnati dalla previsione del diritto di recesso senza penalità dopo il quinquennio, anche in distinte clausole contrattuali. In quest’ultimo caso, però, perché il consumatore abbia l’esatta e chiara percezione della possibilità di recedere qualora non condivida la modifica, è necessario che la norma convenzionale richiami la clausola relativa alla facoltà generale di riscatto, senza oneri e penalizzazioni, e che siano previste modalità di comunicazione della modifica, dei suoi riflessi
sull’entità delle prestazioni, del diritto di recedere senza costi o penalità, e - sia pur in sintesi esplicativa, tenuto conto della complessità tecnica del tema
- delle sue ragioni fondamentali.
L. PRESCRIZIONE
Il diritto al pagamento delle rate di premio si prescrive in un anno dalla singola scadenza; gli altri diritti derivanti dal contratto di assicurazione sulla vita si prescrivono in dieci anni (art. 2952, commi 1° e 2°, c.c.), mentre il termine è di due anni per le assicurazioni contro i danni.
Il termine decennale vigente per le assicurazioni sulla vita è stato introdotto dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito, con modifiche, in l. 17 dicembre 2012, n. 221). In precedenza, il d.l. 28 agosto 2008, n. 134 (convertito, con modifiche, in l. 27 ottobre 2008, n. 166), aveva introdotto un termine biennale
– valevole sia per le assicurazioni sulla vita che per le assicurazioni contro i danni - sostituendo il termine annuale previsto in origine.
Alcuni testi contrattuali tuttora in uso non risultano aggiornati in ogni loro parte e talora non contemplano il riferimento esatto al termine decennale.
Al riguardo, per ovvie ragioni di trasparenza e ad evitare equivoci presso i consumatori, si impongono con sollecitudine l’eliminazione di ogni refuso e un completo aggiornamento della contrattualistica.
M. MANCATO PAGAMENTO DEL PREMIO
Presso le Associazioni dei Consumatori hanno suscitato dubbi di vessatorietà per mancanza di chiarezza alcune clausole, riscontrante nei contratti esaminati, regolanti il mancato pagamento del premio. Nelle assicurazioni sulla vita questa ipotesi è disciplinata dall’art. 1924 c.c.15 e
15 Art. 1924 c.c.: “Se il contraente non paga il premio relativo al primo anno, l’assicuratore può agire per l’esecuzione del contratto nel termine di sei mesi dal giorno in cui il premio è scaduto. La disposizione si applica anche se il premio è ripartito in più rate, fermo restando il disposto dei primi due commi dell’articolo 1901; in tal caso il termine decorre dalla scadenza delle singole rate. Se il contraente non paga i premi successivi nel termine di tolleranza previsto dalla polizza o, in mancanza, nel termine di venti
dai primi due commi dell’art. 1901 c.c., fatti espressamente salvi dall’art. 1924 c.c.16 Anche nelle assicurazioni sulla vita, sono ammesse forme di rateazione del premio annuo, fermo restando che questo è dovuto per intero.
In alcuni dei contratti esaminati il testo contrattuale prevede anche che il pagamento parziale non costituisce pagamento del premio e che le prestazioni assicurate vengono garantite solo se l’assicurato abbia regolarmente corrisposto il premio annuo dovuto. Le Associazioni dei consumatori, a questo proposito, ritengono che dovrebbe essere precisato che il diritto alla prestazione assicurativa sussiste in tutti i casi di “regolare pagamento” non solo delle annualità di premio precedenti, ma anche dell’ultima rata di premio scaduta al momento della verificazione dell’evento assicurato. Dal lato delle Compagnie, si osserva che “la sospensione della copertura avviene solo ed esclusivamente nel caso di mancato pagamento del premio o, se rateizzato, delle rate di premio”, e che, pertanto, il diritto alla prestazione assicurativa sussiste senz’altro in caso di decesso dell’assicurato in regola con il pagamento delle annualità precedenti e delle rate di premio scadute al momento del decesso. In proposito, si richiama anche altra disposizione contrattuale che qualifica come “interruzione del pagamento dei premi” il mancato pagamento anche di una sola rata di premio, decorsi 30 giorni dalla relativa scadenza, con conseguente risoluzione del contratto.
Fermo restando che la precisazione auspicata dalle Associazioni dei consumatori non sarebbe inopportuna, la sola interpretazione ragionevole della clausola - la quale sotto questo aspetto può considerarsi sufficientemente
giorni dalla scadenza, il contratto è risoluto di diritto, e i premi pagati restano acquisiti all’assicuratore, salvo che sussistano le condizioni per il riscatto dell’assicurazione o per la riduzione della somma assicurata”).
16 Art. 1924 c.c.: “Se il contraente non paga il premio relativo al primo anno, l’assicuratore può agire per l’esecuzione del contratto nel termine di sei mesi dal giorno in cui il premio è scaduto. La disposizione si applica anche se il premio è ripartito in più rate, fermo restando il disposto dei primi due commi dell’articolo 1901; in tal caso il termine decorre dalla scadenza delle singole rate. Se il contraente non paga i premi successivi nel termine di tolleranza previsto dalla polizza o, in mancanza, nel termine di venti giorni dalla scadenza, il contratto è risoluto di diritto, e i premi pagati restano acquisiti all’assicuratore, salvo che sussistano le condizioni per il riscatto dell’assicurazione o per la riduzione della somma assicurata”).
chiara - è che, se la morte dell’assicurato si verifica in un momento nel quale il contraente è in regola con il pagamento dell’ultima rata scaduta, la Compagnia è certamente tenuta al pagamento del capitale assicurato.
Tuttavia, si deve ritenere che la clausola in esame non sia immune da criticità. Occorre ricordare che in caso di mancato pagamento dei premi, o delle rate di premio, successivi al primo, ai sensi dell’art. 1901, comma 2°, c.c., la copertura assicurativa resta sospesa dalle ore ventiquattro del quindicesimo giorno dopo quello della scadenza, e che pertanto opera il c.d. periodo di tolleranza di quindici giorni. Tale disposizione, tra l’altro, figura tra quelle inderogabili se non in favore dell’assicurato ai sensi dell’art. 1932 c.c. Nel caso in esame, l’affermazione secondo cui le prestazioni dell’assicuratore sono garantite “a condizione che il contraente abbia regolarmente corrisposto il premio annuo costante” difetta di trasparenza perché omette di evidenziare l’inderogabilità del periodo di tolleranza decorso il quale la copertura è sospesa, e sarebbe addirittura nulla se interpretata nel senso di un’esclusione convenzionale del periodo di tolleranza.
Le Associazioni dei consumatori, lamentano, inoltre, il carattere vessatorio, ai sensi dell’art. 33, comma 2°, lett. f), c. cons., delle previsioni di polizza (in realtà, nel caso di specie, trattasi di un punto della nota informativa) in base alle quali “in caso di mancato pagamento dei premi il contraente perde quanto versato”.
Nella misura in cui accedano a contratti di assicurazione sulla vita temporanea caso morte, o comunque a tipologie contrattuali che non prevedono il diritto di riscatto o riduzione, clausole di questo genere non possono essere reputate vessatorie ai sensi della norma sopra citata (ossia perché imporrebbero al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo), posto che non si tratta di pattuizioni affini ad una clausola penale.
In termini generali, in questi casi il contraente non ha diritto ad alcuna restituzione dei premi versati se l’evento assicurato non si verifica durante il periodo di durata della copertura assicurativa.
Questa conseguenza, del tutto fisiologica nelle tipologie contrattuali in esame, che sono contratti “di puro rischio demografico”, dovrebbe essere opportunamente evidenziata nel fascicolo informativo. Ciò precisato, e tornando alla proposizione in questione, la perdita di quanto versato, sul piano giuridico, non consegue al mancato pagamento del premio, bensì alla risoluzione del contratto a sua volta conseguente, a termini di legge (art. 1924, comma 2°, c.c.), al mancato pagamento del premio. Le formulazioni contrattuali in esame, pertanto, dovrebbero essere corrette per evitare fraintendimenti o equivoci.
N. ASSENZA DI GARANZIA DI RESTITUZIONE DEL CAPITALE O DI RENDIMENTO MINIMO
Come noto, accanto alle assicurazioni “tradizionali” sulla durata della vita umana, contemplate dal ramo I della classificazione per ramo adottata dall’art. 2, comma 1°, CAP, le Compagnie possono commercializzare anche distinti prodotti assicurativi usualmente denominati polizze unit e polizze index linked.
Si tratta, rispettivamente, di contratti che il legislatore definisce come “le assicurazioni, di cui ai rami I [e II]17, le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni ovvero a indici o ad altri valori di riferimento”, e che si sono progressivamente affermate nel mercato dei prodotti assicurativi, sino a divenirne parte assai significativa, per la loro attitudine a coniugare la finalità previdenziale propria dell’assicurazione sulla vita con una finalità di investimento.
In queste tipologie contrattuali, la prestazione dell’assicuratore, essendo collegata al valore di quote di OICR o di fondi interni o di altro indice o valore di riferimento, non è predeterminata e certa come, per contro, predeterminato e certo è il capitale assicurato nelle assicurazioni di ramo I.
Se la Compagnia non assume garanzie di restituzione, integrale o parziale, del capitale o di rendimento minimo dello stesso, il rischio finanziario di perdere in tutto o in parte il capitale versato, o di non conseguire alcun rendimento, è a carico del consumatore.
Quanto maggiore è il rischio finanziario sopportato dal consumatore, tanto minore è l’incidenza del rischio demografico – cioè del rischio di dover pagare una rendita o un capitale al verificarsi di un evento della vita umana in aderenza alla definizione che l’art. 1882 c.c. dà del contratto di assicurazione sulla vita - tipicamente proprio dell’assicurazione.
Non a caso, ciò che distingue radicalmente i prodotti di ramo I e di ramo III (questi ultimi anch’essi definiti “assicurazioni sulla vita” dal legislatore del CAP in conformità del diritto comunitario) dalle operazioni di capitalizzazione (ramo V) è proprio l’assenza di convenzione sulla durata della vita umana.
Le Associazioni dei consumatori, in relazione ai contenuti finanziari dei contratti appartenenti al ramo III o ad entrambi i rami I e III, pongono temi di primaria importanza per il settore.
In particolare, viene prospettata la possibile vessatorietà delle clausole che
17 Il riferimento è alle assicurazioni di nuzialità e natalità, prive di rilievo nel mercato italiano.
escludono la garanzia di restituzione del capitale versato, perché:
• introdurrebbero illecite delimitazioni di responsabilità dell’assicuratore, ponendo il rischio finanziario, che in generale è a carico dell’assicuratore nelle polizze di ramo I, a carico dell’assicurato, determinando così un rovesciamento dei ruoli e uno stravolgimento dell’oggetto del contratto;
• il risparmiatore medio, quando sottoscrive un prodotto assicurativo finanziario, ricerca anche la componente assicurativa (cioè la certezza di un capitale o di una rendita al verificarsi dell’evento attinente alla vita umana), mentre le clausole che rendono minimo o addirittura irrilevante l’ammontare da corrispondere al beneficiario in stretta correlazione con il verificarsi del rischio assicurato vanificherebbero la funzione previdenziale
– e con essa la stessa causa contrattuale – dell’assicurazione sulla vita;
• per lo più contravverrebbero al principio di chiara formulazione perché sarebbe arduo stabilire se sia prevalente l’aspetto assicurativo da quello finanziario di investimento del risparmio, e se si tratti di contratti a causa mista o collegati;
• i testi contrattuali avrebbero carattere ingannevole, se non altro, in tutti i casi in cui nel frontespizio, nella denominazione commerciale del prodotto, nella scheda sintetica o in altri luoghi del fascicolo informativo, si spende il concetto di “capitale minimo”, “capitale garantito”, “capitale minimo garantito” e simili (risparmio garantito o assicurato, ecc. ecc.), e nel contempo le condizioni contrattuali pongano a carico del cliente ogni responsabilità conseguente agli effetti negativi dell’andamento delle quote o dei valori o indici di riferimento.
Al riguardo va osservato quanto segue.
I contratti dei rami vita a contenuto finanziario, le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore delle quote di OICR o di fondi interni, sono previsti dal legislatore e sono definiti dal medesimo assicurazioni sulla vita.
Che sussista un’ormai fisiologica compenetrazione di profili assicurativi e di profili finanziari è acquisizione consolidata anche sul piano normativo in materia di intermediazione finanziaria (basti considerare il vigente art. 1, comma 1°, lett. w-bis, TUF, che riconduce le polizze di ramo III alla categoria dei prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione) e della relativa disciplina.
Se la misura del rischio demografico effettivamente assunto dalla Compagnia e la misura del rischio finanziario posto a carico del cliente/consumatore rendano o meno “meritevoli” le singole fattispecie contrattuali di essere qualificate come contratti di assicurazione sulla vita, e di fruire dei vantaggi successori e fiscali che la normativa vigente, in ragione della funzione generalmente attribuitagli, prevede per il contratto di assicurazione sulla vita ai sensi dell’art. 1882 c.c., è questione di indubbia rilevanza e delicatezza.
Tuttavia, si tratta di un tema che attiene alla natura e all’oggetto del contratto e, in questi termini, esula dall’ambito proprio del sindacato di vessatorietà.
Nei contratti maggiormente diffusi nell’attuale contesto di mercato, e comunque in quelli esaminati dalla Commissione, sussiste il presupposto essenziale di una convenzione sulla durata della vita umana, e formalmente dunque un rischio demografico.
Non si può quindi ritenere che gli schemi esaminati siano in contrasto con l’art. 9, comma 1°, Regolamento ISVAP n. 32/2009 (secondo il quale “i contratti classificati nel ramo III di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto, sono caratterizzati dalla presenza di un effettivo impegno da parte dell’impresa a liquidare prestazioni il cui valore sia dipendente dalla valutazione del rischio demografico”).
Lo stesso art. 41, comma 4°, CAP, ai fini della disciplina degli attivi detenuti a copertura delle riserve tecniche in relazione ai contratti di ramo III, dispone l’applicazione degli artt. 37-ter e 38 CAP “qualora” le prestazioni previste “comprendano una garanzia di risultato dell’investimento o qualsiasi altra prestazione garantita”, mentre il precedente art. 41, comma 3°, CAP, individua le regole applicabili in generale per i contratti di ramo III (artt. 37-ter, commi 1°, 2°, 4°, 5° e 6°, e 38 CAP).
Anche qui il testo di legge sembra presupporre l’ipotesi in cui i contratti di ramo III non comprendano prestazioni garantite.
È dunque difficile sostenere che i prodotti finanziari in questione debbano indefettibilmente prevedere garanzie di rendimento minimo o di restituzione del capitale (ovvero di restituzione di importi non inferiori ai premi versati in caso di riscatto).
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che il terreno d’elezione di un’analisi di vessatorietà, per gli aspetti qui in esame, debba essere quello della verifica di una formulazione sufficientemente chiara e comprensibile delle condizioni contrattuali - anche in rapporto alle espressioni impiegate nel frontespizio, nella scheda sintetica e nella nota informativa -, tale da ridurre al minimo il pericolo che il consumatore non si avveda dell’entità dei rischi finanziari assunti.
Con riferimento ovviamente circoscritto agli schemi esaminati, la Commissione reputa che, sotto i profili qui in discussione, i contratti si mantengano entro i limiti di chiarezza e comprensibilità esigibili alla luce della regolamentazione vigente della complessa materia.
Su un piano generale, va ricordato che le Compagnie sono tenute, ai sensi dell’art. 166 CAP, ad adottare caratteri di particolare evidenza per conferire adeguato rilievo a clausole che prevedono limitazione delle garanzie: la norma pare senz’altro applicabile anche alle clausole che restringono la misura del rischio finanziario a carico dell’impresa facendolo gravare sul contraente.
4 Conclusioni
All’esito del controllo camerale che si è svolto con la piena collaborazione delle imprese e delle associazioni dei consumatori che hanno preso parte al procedimento, si possono formulare alcune considerazioni di carattere generale. La contrattualistica dei rami vita risulta fortemente influenzata dalla complessità della materia e dalle oggettive difficoltà che comporta, specie per il consumatore medio, un’esatta comprensione dei meccanismi assicurativi e dei contenuti tecnico-finanziari delle tipologie di prodotti offerti dalle imprese, che possono essere anche assai diverse tra loro a seconda che la copertura sia a tempo determinato o di lunga durata, o sia conformata a prevalenti finalità di risparmio previdenziale o di investimento finanziario, e così via.
I notevoli oneri informativi e redazionali che gravano sulle imprese ai sensi della normativa vigente18, l’elevato grado di regolamentazione della materia anche in relazione agli obblighi di condotta posti a carico degli operatori19 e, non da ultimo, la capacità di autoregolamentazione mostrata dal sistema assicurativo anche a fronte degli stimoli offerti da una giurisprudenza sempre più attenta e sensibile nel campo della protezione degli utenti dei servizi finanziari, fanno sì che i contratti esaminati risultano in genere strutturati in modo da restringere gli ambiti di un possibile ricorso, da parte delle imprese, a clausole caratterizzate da conclamata abusività.
Nel contempo, però, quantomeno in parte proprio quale portato di queste dinamiche virtuose, si accresce il rischio di un difetto di trasparenza, chiarezza ed esaustività dei testi contrattuali.
Con il presente parere la Camera di Commercio di Milano, intervenendo nell’esercizio delle sue competenze istituzionali, ha inteso offrire il proprio contributo al rafforzamento di un sistema che sappia realizzare una sempre più adeguata protezione dei consumatori assicurati e degli aventi diritto alle prestazioni assicurative, perseguendo nel contempo i valori della trasparenza e correttezza nei confronti della clientela e preservando il baluardo della sana
18 Si pensi, in particolare, ai contenuti del fascicolo informativo che, ai sensi della disciplina oggi vigente (Regolamento ISVAP, ora IVASS, n. 35/2010), deve essere consegnato al cliente prima della conclusione del contratto: scheda sintetica, nota informativa, condizioni di assicurazione inclusive del regolamento del fondo nel caso delle polizze unit linked e del regolamento della gestione separata per le polizze con prestazioni rivalutabili; glossario, modulo proposta.
19 Si pensi, in particolare, al disposto dell’art. 183 CAP e alla correlata normativa regolamentare.
e prudente gestione delle imprese, senza il quale qualsiasi politica di tutela degli assicurati e di promozione degli interessi sociali che le assicurazioni sono
- oggi più che mai - chiamate a servire sarebbe miope e costruita sulla sabbia. Non è un caso, del resto, che a questi obiettivi di fondo, riformando l’art. 3 CAP20, il legislatore abbia informato le stesse finalità dell’attività di Xxxxxxxxx demandata all’IVASS.
Milano, 01/12/2016
Camera di Commercio di Milano
Il Segretario Generale
Xxxxx Xxxxx
20 Art. 1, comma 2°, d. lgs. 12 maggio 2015, n. 74, che ha dato attuazione in Italia alla Direttiva 2009/138/CE, c.d. Solvency II.
Pubblicazione a cura di:
Servizio Armonizzazione del Mercato
Camera di Commercio di Milano