LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)
Cassazione Civile
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 12-04-2017) 02-01-2018, n. 3 Fatto Diritto P.Q.M.
LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)
PROCEDIMENTO CIVILE
Ricorso per cassazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI XXXXX Xxxxxxxx - Presidente - Xxxx. XXXXX Xxxxxxx - Xxxxxxxxxxx -
Dott. DE XXXXXXXX Xxxxxxxx - xxx. Consigliere - Xxxx. XXXXXXXX Xxxxx - Consigliere -
Dott. CINQUE Xxxxxxxxx - Xxxxxxxxxxx - ha pronunciato la seguente:
sul ricorso 3462-2012 proposto da:
SENTENZA
ADECCO ITALIA S.P.A. P. XXX (XXXXXXX), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, XXXXX XXXXXXXX XXXXXXXXX presso lo studio dell'avvocato XXXXXXX XXXXX, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati XXXX XXXXXXX XXXXXX e XXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXXX, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
C.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in XXXX, XXX XXXXXXXX 000, presso lo studio dell'avvocato XXXXXX XXXXXXX, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 41/2011 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 29/01/2011, X. X. X. 000/0000;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/04/2017 dal Consigliere Xxxx. XXXXXXXX DE XXXXXXXX;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Xxxx. XXXXXXXXXX XXXX, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato XXXXXXX XXXXX; udito l'Avvocato XXXXXX XXXXXXX.
Con ricorso del 13 luglio 2010 C.M. appellava la sentenza, pronunciata dal giudice del lavoro di Brescia, che aveva respinto la domanda dello stesso C., volta all'accertamento della nullità della clausola di recesso discrezionale, apposta al patto di non concorrenza stipulato con ADECCO Italia S.p.a. il 12 marzo 2001, all'atto dell'assunzione in pari data (rapporto poi cessato nell'anno 2008 a seguito di dimissioni rassegnate dal dipendente), con conseguente condanna della convenuta al pagamento del corrispettivo previsto per lo stesso patto.
La Corte di Appello di Brescia con sentenza n. 41/20 - 29 gennaio 2011, in riforma della gravata pronuncia, condannava la società appellata al pagamento, in favore dell'attore appellante, della somma di 39.120,00 oltre accessori, nonchè alle spese di lite, dando atto tra l'altro che in costanza di rapporto, in data 14-10-2004, ADECCO aveva rinunciato per iscritto al patto di non concorrenza, rinuncia peraltro contestata dall'interessato con missiva del 31 gennaio 2005, e che il rapporto di lavoro era in seguito cessato il 14-02-2008, disattendendo la ricostruzione della società circa la validità del pattuito diritto di opzione, in quanto diritto di opzione in senso stretto ex art. 1331 c.c., frutto di un accordo tra le parti per rendere irrevocabile la proposta di patto di non concorrenza da parte del lavoratore, tenuto conto soprattutto della mancanza di un interesse comune al riguardo, per cui invece il patto corrispondeva all'interesse di parte datoriale, laddove peraltro, quand'anche si fosse voluto ipotizzare un mero accordo diretto a vincolare il solo lavoratore ad una proposta contrattuale, un tale accorso sarebbe stato nullo ex artt. 1329 e 1331 c.c., che consentono invece il vincolo soltanto per un certo tempo. Ad ogni modo, ad escludere che si fosse trattato di un mero accordo di opzione rilevava l'esistenza di un obbligo per il lavoratore di osservare il patto di non concorrenza nei trenta giorni successivi allo scioglimento del rapporto, previsti originariamente come spatium deliberandi per la società, con sanzioni a suo carico in caso di violazione. Nessun elemento contenuto nella scrittura consentiva, infatti, di affermare che durante quel termine il lavoratore avrebbe potuto svolgere attività in concorrenza ed una lettura in tal senso sarebbe stata del tutto disfunzionale rispetto alla finalità del patto per entrambi i contraenti, giusta le indicate rispettive ragioni. Ed era, tra l'altro, indiscutibile che da una proposta irrevocabile non poteva discendere, in attesa dell'accettazione, anche un obbligo unilaterale alla immediata esecuzione dell'accordo.
Il termine opzione era stato, dunque, impropriamente utilizzato nella scrittura privata de qua, diretta invece ad attribuire alla ADECCO la facoltà di dar seguito, o meno, al patto e quindi la facoltà di sciogliersi dal vincolo, sia pure con una forma di comunicazione inversa, ossia non del recesso ma della conferma del patto medesimo.
D'altro canto, richiamato un precedente di questa Corte (sentenza n. 15952/04) i giudici di appello hanno opinato la nullità per frode alla legge della clausola di recesso discrezionale pure nella diversa fattispecie in esame, laddove l'esercizio del "diritto di opzione" risultava esercitato in corso di rapporto, non essendo comunque applicabile la disciplina del recesso ex art. 1373 c.c., al patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., che integra una disposizione speciale con obbligo a carico del lavoratore da circoscriversi ex ante ad una durata determinata, disposizione inderogabile, altrimenti elusa dalla facoltà di recesso, che consentirebbe il venir meno in ogni momento della sua durata.
Ed era tra l'altro irrilevante che nella specie il diritto di opzione/recesso fosse stato esercitato verso la fine dell'anno 2004, avendo fin da allora prodotto i suoi effetti deterrenti e limitativi, rispetto alla piena libertà del lavoratore, comportante anche la possibilità di trovare altra occupazione nello stesso settore.
Dunque, la clausola era nulla. Non essendo ravvisabile un interesse bilaterale ex art. 1419 c.c. ed essendo la disposizione nulla sostituita dalla disciplina dettata dall'art. 2125 cit., tale nullità non si estendeva all'intero patto. Di conseguenza, il recesso (ottobre 2004) comunicato al lavoratore era quindi privo di effetti. Inoltre, le ragioni indicate nella lettera di recesso non erano idonee a rendere la clausola priva di causa, con conseguente possibile risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, atteso che la disciplina del lavoro temporaneo con quella della somministrazione di prestazioni ex D.Lgs. n. 276 del 2003 non poteva aver inciso sull'attività svolta dall'ADECCO, laddove tra l'altro la clausola faceva riferimento anche ad ulteriori "attività in concorrenza con quella svolta dalla Società".
Poichè era incontestato e provato documentalmente che a seguito della cessazione del rapporto, il C. aveva dato esecuzione al patto, impiegandosi in settore di attività del tutto diverso, ADECCO andava condannata al pagamento della somma pattuita come corrispettivo, pari a 32.120,00 Euro, oltre accessori dalle singole scadenze al saldo, mentre le contestazioni sul quantum risultavano infondate alla luce dell'analitico conteggio di parte appellante, per cui del tutto correttamente era stata computata anche la quota di t.f.r., trattandosi di retribuzione indiretta, che si matura anno per anno, ancorchè esigibile a fine rapporto. Infine, la contestazione relativa alla inammissibilità di una condanna in futuro, per essere stata la domanda proposta prima ancora del compimento del biennio di validità del patto, risultava superata dal fatto (al momento della sentenza di primo grado (16-06-2010) il credito era ormai maturato (cessazione del rapporto di lavoro al 14 febbraio 2008, corrispettivo ragguagliato alla somma mensile di 1630,00 Euro, moltiplicata per 24 mesi, ossia sino alla scadenza del patto, operativo fino al 14-02-2010).
Avverso l'anzidetta pronuncia di appello, ha proposto ricorso per cassazione ADECCO Italia S.p.a. con atto, di cui alla richiesta in data 27-01-12 (notifica poi perfezionatasi il 2-2-12), affidato a sette motivi, cui ha resistito il C. mediante controricorso del 6/7 marzo 2012. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Va premesso, in punto di fatto, come risulti accertato in atti che in data 12 marzo 2001 C.M. veniva assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con funzioni di responsabile commerciale terzo livello presso la filiale ADECCO di (OMISSIS). Contestualmente, il lavoratore sottoscriveva apposito accessorio patto di non concorrenza, secondo il quale egli si obbligava, una volta superato il periodo di prova, in via irrevocabile a non svolgere, successivamente alla cessazione del rapporto e qualunque fosse stata la causa della cessazione stessa, nè personalmente nè per interposta persona o ente o società, direttamente o indirettamente, alcuna attività a carattere autonomo o subordinato ovvero in qualità di consigliere di amministrazione o di amministratore, associato anche in partecipazione o di socio con obbligo di prestazioni accessorie ed anche solo occasionale o gratuita, a favore di altre società, enti o organizzazioni, già esistenti ovvero da costituirsi in fase di costruzione, svolgenti attività di fornitura di lavoro temporaneo ai sensi della L. n. 196 del 1997, art. 2, ovvero attività in concorrenza con quella svolta dalla società.
L'anzidetta impegno avrebbe avuto la durata di 24 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro dell'obbligato con la società, nonchè validità per l'intero territorio nazionale.
Quale corrispettivo dell'anzidetto impegno di non concorrenza per tutta la sua durata la società avrebbe riconosciuto all'obbligato un compenso mensile lordo pari al 70% della media degli importi lordi percepiti dallo stesso nei due anni precedenti la cessazione del rapperto ovvero..., entro la data del 27 del mese relativo ad ogni trimestre e secondo le altre modalità ivi precisate. L'obbligato si impegnava, inoltre, ad informare i soggetti con i quali entrava in contatto dell'esistenza dell'accordo e delle limitazioni derivanti alla propria attività professionale.
L'inosservanza di tali obblighi di comunicazione, ove non comportante un maggior inadempimento, avrebbe determinato a carico dell'obbligato una penale di Lire 200.000 per ogni giorno di ritardo a far data dal 15 del mese di scadenza del trimestre.
In caso di inadempimento, in tutto o in parte, dell'obbligo di non concorrenza anzidetto, l'obbligato era tenuto, oltre che alla restituzione dei compensi già percepiti, al pagamento in favore della società di una penale pari ad una mensilità di retribuzione per ogni mese di inosservanza, fatto salvo il risarcimento del danno ulteriore ex art. 1382 c.c.. Restava pure salva la facoltà per la società di inibire il comportamento dell'obbligato in violazione dell'impegno assunto con l'accordo.
Al punto sette del patto di non concorrenza, inoltre, si precisava che l'obbligato si impegnava irrevocabilmente all'osservanza degli obblighi descritti nell'accordo, alle condizioni ivi previste, concedendo alla società, in considerazione della formazione professionale ricevuta alle dipendenze della stessa, opzione irrevocabile al rispetto del patto. da esercitarsi mediante comunicazione scritta da inviarsi all'obbligato con raccomandata a.r. entro e non oltre 30 giorni lavorativi dalla cessazione del rapporto di lavoro. In caso di esercizio dell'opzione da parte della società, il patto di non concorrenza sarebbe entrato in vigore automaticamente e avrebbe avuto efficacia, alle condizioni e ai termini ivi previsti, senza necessità di altra formalità e/o adempimento. Ove invece la società non avesse esercitato l'opzione, il patto di non concorrenza non sarebbe entrato in vigore.
Xxxxxx, con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è stata denunziata la violazione di legge. La Corte di Appello, infatti, aveva ritenuto che ADECCO avesse articolato il patto di non concorrenza come proposta irrevocabile a tempo indeterminato, e non come opzione. La ricostruzione era errata e non corrispondeva in alcun modo alle tesi della società, la quale aveva sempre sostenuto che al patto di non concorrenza fosse annesso un patto di opzione. Si era infatti parlato espressamente di opzione e non già di proposta irrevocabile (cfr. meglio pagg. 13/14 del ricorso).
Con il secondo motivo, dedotto ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la falsa applicazione di norme di legge (invero non meglio indicate), circa la tesi secondo cui si sarebbe trattato di proposta irrevocabile a tempo indeterminato, anche tale ricostruzione non essendo corretta (cfr. pagg. 14/16 del medesimo ricorso).
Con il terzo motivo di ricorso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, è stata denunciata la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio - nonchè la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, per l'erronea qualificazione del patto di opzione come recesso dal contratto, laddove la Corte distrettuale aveva ritenuto la nullità dell'opzione annessa al patto di non concorrenza, ipotizzando al riguardo un recesso unilaterale. La nullità del patto di non concorrenza poteva derivare soltanto dal contrasto con il disposto dell'art. 2125 ed era espressamente prevista dalla norma stessa solo nel caso di mancanza di atto scritto, di mancata pattuizione di un corrispettivo e di mancato contenimento del vincolo entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo, elementi questi che nella specie erano stati tutti rispettati. ADECCO aveva ritenuto, invece, di non esercitare il proprio diritto di opzione nel termine di giorni 30 previsto dal contratto, sicchè il patto di non concorrenza non aveva mai operato (per maggiori riferimenti vds. pagine 16/25 del ricorso, laddove è stata tra l'altro sottolineata la natura onerosa e non già gratuita dell'opzione, concessa verso il corrispettivo, costituito dalla formazione ricevuta dal lavoratore).
Con il quarto motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, è stata lamentata la violazione e falsa applicazione di art. 112 c.p.c. e art. 1331 c.c., nonchè omessa e contraddittoria pronunce circa un fatto controverso decisivo in relazione al termine per l'esercizio dell'opzione (pgg. 25/27 del ricorso).
Il presupposto sul quale si fondava l'impugnata pronuncia era sempre quello di ritenere ab origine perfezionato un patto che tale non era.
Nella specie tuttavia si trattava di un patto di opzione ex articolo 1331 c.c. annesso al patto di non concorrenza, che non si era dunque ancora perfezionato, e che mai si sarebbe perfezionato, avendo la società comunicato al dipendente in costanza di rapporto la volontà di non esercitare il proprio diritto, di guisa che il patto non era entrato in vigore e non vincolava quindi alcuna delle parti.
La sentenza impugnata si era, dunque, pronunciata sulla validità di un recesso datoriale da un patto di non concorrenza, omettendo invece di pronunciarsi sulla validità di un patto di opzione, annesso tale a patto, con conseguente violazione del citato art. 112, di guisa che l'impugnata pronuncia meritava di essere cassata.
Con il quinto motivo di ricorso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stata dedotta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio, nonchè omessa e insufficiente motivazione circa la validità della rinuncia all'opzione, effettuata in costanza di rapporto. Infatti, la sentenza di appello aveva mal valutato un fatto decisivo per stabilire la validità della rinuncia all'opzione, ossia la circostanza che detta rinuncia era stata esercitata in costanza di rapporto, il 15 ottobre 2004 ovvero 40 mesi prima che il C. presentasse le sue dimissioni. Per contro, l'impugnata sentenza aveva ritenuto irrilevante il fatto che l'opzione/recesso risalisse alla fine del 2004, avendo però sino ad allora prodotto i suoi effetti deterrenti e limitativi (nei sensi già indicati sul punto nella precedente narrativa), sicchè in effetti non si era avuta alcuna motivazione sul fatto che la rinuncia all'opzione era intervenuta in costanza di rapporto, quindi ben prima della sua cessazione e del conseguente termine di trenta giorni all'uopo fissato con l'anzidetto patto.
Era errata e meritava di essere riformata la motivazione svolta dalla Corte distrettuale, laddove si era ritenuto che la clausola determinava sin dal momento della sottoscrizione una situazione di precarietà in danno del lavoratore, risolvibile però soltanto in forza di una successiva determinazione di parte datoriale, ma discrezionale nel quanto e nel contenuto, oltretutto con agevole possibilità di elusione.... Dunque, la società aveva comunicato al dipendente in costanza di rapporto di rinunciare irrevocabilmente ad esercitare l'opzione, con conseguente reciproca liberazione da ogni e qualsiasi obbligazione ad essa connessa (per ulteriori migliori riferimenti si rimanda, ancora una volta, alla lettura del ricorso, pagine 27/30).
Con il sesto motivo di censura, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione la falsa applicazione dell'art. 1463 c.c., in relazione alla risoluzione di diritto del patto di non concorrenza, però erroneamente esclusa dalla Corte di appello per l'asserita sopravvenuta impossibilità dell'oggetto. Infatti, l'oggetto del patto di non concorrenza riguardava la sola fornitura di lavoro temporaneo ex L. n. 196 del 1997, e non già lo svolgimento di qualsiasi attività in concorrenza con quella svolta dalla società. Per di più con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003 erano state abrogate le disposizioni di cui alla citata L. n. 196, sicchè era venuta meno per il C. la possibilità di prestare attività a favore di società fornitrice di lavoro temporaneo ex L. n. 196, art. 2, di modo che era venuto meno anche il patto di non concorrenza siccome sottoscritto all'atto dell'assunzione. Nè poteva sostenersi che la disciplina di cui alla L. n. 196 e quella dettata dal decreto n. 276 in materia di somministrazione non avessero alcuna sostanziale differenza.
Dunque, il patto di non concorrenza in esame riguardava attività di fornitura di lavoro temporaneo ex cit. art. 2 e non poteva, pena la nullità dell'intero patto, estendersi ad ulteriori attività o diverse rispetto a quelle ivi contemplate. Ne derivava che a seguito dell'abrogazione del lavoro interinale era venuto meno anche l'oggetto del patto di non concorrenza, donde l'impossibilità della prestazione lavorativa. Di conseguenza, il patto si era risolto di diritto, liberando così entrambe le parti che avevano sottoscritto l'accordo. Perciò ai sensi dell'art. 1463 c.c. andava affermata l'intervenuta risoluzione di diritto del patto In realtà un'attenta analisi avrebbe portato alla necessaria conclusione che fossero venute meno le circostanze di fatto e di diritto che avevano portato ADECCO SFLT ad annettere al contratto di lavoro de quo il suddetto patto di non concorrenza e che quindi lo stesso non potesse ritenersi efficace e produttivo di effetti. Da ciò derivava il venir meno della causa, stante il venir meno dell'interesse giuridicamente sotteso al contratto, donde pure la legittimità del mancato esercizio dell'opzione da parte di ADECCO (pgg. 30/38 del ricorso).
Con i settimo motivo (cfr. in part. pgg. 38/39), ancora formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata dedotta la insufficiente motivazione circa la nullità dell'intero patto di non concorrenza, mentre la Corte territoriale con motivazione lapidaria e del tutto insufficiente aveva ritenuto che non fosse ravvisabile un interesse bilaterale ex art. 1419 c.c. ed essendo la disposizione nulla sostituita dalla disciplina di cui all'art. 2125 c.c., la nullità non si estendeva all'intero patto. Per contro, risultava evidente la connessione inscindibile tra il patto di opzione in esame e il contenuto del patto di non concorrenza così come stipulato.
Tanto premesso, il collegio ritiene di dover disattendere, alla luce delle seguenti considerazioni, le anzidette censure, peraltro anche non del tutto esaurienti nelle loro allegazioni, rispetto ai requisiti invece richiesti a pena d'inammissibilità dall'art. 366 c.p.c. (in part. comma 1, nn. 3, 4 e 6), pretendendosi altresì, irritualmente in questa sede, una ricostruzione dei fatti ed una loro conseguente qualificazione, diverse da quelle invece pur motivatamente ritenute dalla Corte di merito, perciò insindacabili in occasione del controllo di legittimità.
Per contro, e segnatamente riguardo ai primi cinque motivi, tra loro connessi e quindi esaminabili congiuntamente, superando quindi pure le contrarie soggettive aspettative di parte ricorrente, questa Corte ritiene di dare continuità alla più recente condivisa giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo Cass. lav. n. 8715 del 24/01 - 04/04/2017, che rigettava analogo ricorso di ADECCO ITALIA S.p.a. avverso l'impugnata sentenza n. 820/2010, pronunciata dalla Corte d'Appello di Venezia, in tema di patto di non concorrenza con acclusa clausola di opzione, secondo cui era illegittima la clausola di opzione, accedente al patto di non concorrenza. Nella specie la Corte territoriale rilevava che gli effetti del patto erano sospensivamente condizionati alla volontà del datore di lavoro, che era libero di manifestare l'adesione solo al momento di conclusione del contratto. Trattandosi, quindi, di condizione sospensiva meramente potestativa, la clausola doveva ritenersi nulla.
Anche in quella fattispecie risulta essere stato contestualmente sottoscritto un patto di non concorrenza nei seguenti termini: "l'obbligato, una volta superato il periodo di prova, si impegna in via irrevocabile a non svolgere, successivamente la cessazione del suo rapporto di lavoro con la società e qualunque sia la causa della cessazione stessa, nè personalmente nè per interposta persona o ente o società, direttamente od indirettamente, alcuna attività a carattere autonomo subordinato ovvero in qualità di consigliere di amministrazione o di amministratore, associato anche in partecipazione o di socio con obbligo di prestazioni accessorie ed anche sull'occasionale o gratuita, a favore di altre società, enti o organizzazioni, già esistenti ovvero da costituirsi od in fase di costituzione, che svolgano attività di fornitura di lavoro temporaneo ex L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 2 ovvero attività in concorrenza con quella svolta dalla società.
7) l'obbligato si impegna irrevocabilmente all'osservanza degli obblighi descritti nel presente accordo, alle condizioni qui previste, concedendo alla società, in considerazione della formazione professionale ricevuta alle dipendenze della stessa, opzione irrevocabile al rispetto del presente patto, da esercitarsi mediante comunicazione scritta che dovrà essere inviata all'obbligato con raccomandata r.r. entro non oltre 30 giorni lavorativi dalla intervenuta cessazione del rapporto di lavoro.
In caso di esercizio dell'opzione da parte della società, il presente patto di non concorrenza entrerà in vigore automaticamente ed avrà efficacia, alle condizioni e ai termini qui previsti, senza necessità di altre formalità e/o adempimento. Ove invece la società non dovesse esercitare l'opzione di cui al presente articolo il patto di non concorrenza non entrerà in vigore").
Quindi, la sentenza n. 8715/17 ha opportunamente ricordato come su vicende analoghe di patto di non concorrenza stipulati con ADECCO questa Corte si fosse già espressa con le sentenze nn. 15952/2004, 25825/2013 e 13352/2014.
La prima aveva, in effetti, confermato il principio affermato da Cass. lav. n. 9491 del 13/06/2003, la quale, correggendo sul punto l'impostazione giuridica seguita dal ricorrente incidentale, richiamava la giurisprudenza della Corte, pacificamente orientata nel senso che la condizione meramente potestativa ad effetto risolutivo non rientra nella previsione di nudità di cui all'art. 1355 c.c. (Cass. 15 settembre 1999, n. 9840); in ogni caso, in presenza di contratti ad esecuzione continuata - ed era questo il caso del patto di non concorrenza - la pattuita possibilità di "rinuncia" al patto da parte del datore di lavoro andava ricondotta all'astratta previsione di cui all'art. 1373 c.c., comma 2, che, peraltro, non presentava sostanziali differenze, in mancanza di patti specifici sugli effetti retroattivi, con l'ipotesi della condizione risolutiva potestativa, stante il disposto dell'art. 1360 c.c., comma 2.
Ma era proprio la libertà di recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza alla data di cessazione del rapporto o per il periodo successivo, all'interno del limite temporale di vigenza del patto, che doveva ritenersi non consentita: "Alla stregua delle disposizioni dettate dall'art. 1225 c.c. - rectius, probabilmente 2125 - norma speciale rispetto alla fattispecie generale prevista dall'art. 2596 c.c., la limitazione allo svolgimento dell'attività lavorativa deve essere contenuta entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo e compensata da un corrispettivo di natura latamente retributiva. La norma, interpretata secondo i principi generali, anche di derivazione costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.), non consente, da una parte, che sia attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la previsione della fissazione di un termine certo; dall'altra, che l'attribuzione patrimoniale pattuita possa essere caducata dalla volontà del datore di lavoro....In definitiva, la grave ed eccezionale limitazione alla libertà di impiego delle energie lavorative risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile (salva, ovviamente, la concorde volontà delle parti), che si presume accettato dal lavoratore all'esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto.
Ammettere la facoltà di recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza, sarebbe in contrasto con il principio del controllo giudiziale di tutti i poteri che il contratto di lavoro attribuisce al datore di lavoro, e
proprio con riferimento ad aspetti incidenti sul diritto al lavoro come tale e, in definitiva, sui livelli retributivi in senso ampio".
Le anzidette considerazioni hanno trovato conferma nelle successive pronunce.
Xx xxxxxx, Xxxx. lav. n. 15952 cit. del 16/04 - 16/08/2004, confermando espressamente l'anzidetto precedente, ha giudicato infondata la denunzia di asserita violazione e falsa applicazione degli artt. 2125, 1341 e 1373 c.c., perchè non si sarebbe trattato di contratto in frode alla legge, ma di un patto di non concorrenza del tutto legittimo e conforme ai requisiti prescritti dall'art. 2125 c.c., cui accedeva da clausola di recesso a favore della società, secondo la facoltà prevista in xxx xxxxxxxx xxxx'xxx. 0000 x.x., xx xxxxx peraltro andava a beneficio anche del lavoratore, che veniva sciolto dal patto di non concorrenza: "L'art. 2125 c.c. viene violato non già dalla clausola che determina il patto di non concorrenza per il biennio successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, perchè questo è consentito dalla disposizione codicistica citata, stante la ricorrenza di entrambi gli elementi prescritti, ossia la delimitazione dell'impegno entro il termine prefissato dalla legge e la pattuizione di un corrispettivo per la compressione alla libertà contrattuale del lavoratore che ne consegue. L'art. 2125 risulta, invece, violato dalla clausola con cui la società si è riservata la facoltà di recesso. Questa infatti ancorchè legittima secondo i principi generali che presiedono ai contratti di cui all'art. 1373 c.c., essendo consentito ogni patto che preveda la possibilità di recesso dal contratto ad opera di una delle parti - confligge però con la disciplina specifica prevista per il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato, la quale limita l'autonomia contrattuale, sancendo che il patto venga "determinato nel tempo".
Si tratta di una condizione diversa da quella prescritta nell'art. 2125 c.c., u.c., che ne delimita la durata massima, di talchè sarebbe con tra legem solo una durata esorbitante da quei limiti, ma sarebbe consentita invece la clausola di recesso. Questa viceversa è vietata perchè la durata del patto deve essere, ai sensi del primo comma, "delimitata ex ante" e quindi non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venir meno in ogni momento della sua durata, come nel caso di specie, in cui il patto era revocabile ad opera della società nell'ambito del biennio. La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all'intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa sull'esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall'assunzione dell'impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte, anche considerando - nella specie - la forte penalità posta a suo carico in caso di inadempimento. Nè la liberazione dal vincolo può assumere per il lavoratore una utilità tale da compensare la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi dopo la cessazione del rapporto, per essere costantemente soggetto alle determinazioni altrui.
Non appare quindi condivisibile l'orientamento risalente espresso da questa Corte con la sentenza n. 1686 del 10 aprile 1978, per cui l'art. 2125 c.c. lascerebbe il più ampio margine all'autonomia negoziale delle parti, di talchè la facoltà di recesso non sarebbe in contrasto con la norma di legge. Detta tesi inoltre è stata contraddetta dalla giurisprudenza più recente (Cass. n. 9491 del 13 giugno 2003), che considera la facoltà di recesso datoriale stipulata in violazione della medesima disposizione codicistica".
La citata pronuncia n. 9491/03, inoltre, è stata parimenti seguita da Cass. lav. n. 212 - 08/01/2013, pressochè conforme: "...Nel caso di specie l'obbligo di non concorrenza, ancorchè operante per il periodo successivo alla fine del rapporto, si era già perfezionato con la relativa pattuizione, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell'art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l'obbligo di un corrispettivo da parte del datore, corrispettivo che nella specie finirebbe con l'essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo. Il Collegio, condividendolo, intende dare continuità al suddetto orientamento giurisprudenziale, onde deve ravvisarsi la fondatezza del primo motivo di gravame, con l'enunciazione del principio di diritto secondo cui "la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative".
In seguito, la sentenza n. 25825/2013 non ha affrontato, per profili preliminari di inammissibilità delle censure, la questione di merito, mentre la sentenza n. 13352/2014 ha esaminato il caso di una clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza, osservando che il lavoratore aveva rassegnato le dimissioni ed accettato altra proposta lavorativa e che non era risultata alcuna limitazione del potere negoziale del lavoratore stesso. Di conseguenza, è stata ritenuta sussistente la piena libertà del lavoratore di svolgere attività concorrenziale fino al momento di esercizio, da parte della società, del diritto di opzione, con conseguente legittimità della clausola.
La più recente citata pronuncia di Xxxx. n. 8715/17 ha, invece, affermato che il tenore dell'anzidetta clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza innanzi riportata comprime illegittimamente il potere negoziale del lavoratore e che determina un inaccettabile squilibrio dei contrapposti interessi delle parti.
Invero, tale clausola era da ritenere nulla in quanto cela l'intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione, una volta superato il periodo di prova, all'adempimento dell'obbligazione contenuta nel patto stesso. Infatti, la sua formulazione prevedeva che il lavoratore attribuisse alla società il diritto di aderire al patto di non concorrenza a fronte di un corrispettivo, la formazione professionale
ricevuta alle dipendenze della stessa, che rappresentava, invece, la causa stessa del contratto di formazione e lavoro stipulato fra le parti. La clausola di opzione, quindi, non garantiva alcun corrispettivo a favore del concedente, in quanto la formazione professionale costituiva già la causa del medesimo contratto, con conseguente illecita sperequazione, della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell'opzione.
Inoltre, l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro sorgeva, nella fattispecie, sin dall'inizio del rapporto di lavoro subordinato e proseguiva nei trenta giorni successivi alla cessazione del rapporto, impedendo al lavoratore stesso di esercitare il suo diritto di scelta di ulteriori occasioni di lavoro. Si realizzava così, anche sotto tale aspetto, la violazione del modello contrattuale dell'opzione in quanto: 1) mentre la parte vincolata all'opzione (ossia alla propria dichiarazione) non è tenuta - nella struttura tipica prevista dall'ordinamento - alla prestazione contrattuale finale finchè la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale, 2) nella fattispecie, invece, il lavoratore concedente l'opzione restava immediatamente obbligato, sin dalla stipulazione del patto (ossia sin dal momento di inizio del contestuale contratto di lavoro subordinato) non solo a mantenere ferma la dichiarazione, ma anche ad adempiere all'obbligazione finale consistente nel patto di opzione.
La clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza era dunque nulla, essendo violato sia l'art. 1331 c.c. che l'art. 2125 c.c..
Invero, poi, sotto altro profilo, anche l'effetto estensivo della nullità della singola clausola o del singolo patto all'intero contratto, avendo carattere eccezionale rispetto alla regola della conservazione, non poteva essere dichiarato d'ufficio dal giudice, mentre era onere della parte, interessata alla pretesa estensione, allegare tempestivamente e provare, con ogni mezzo idoneo, l'interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dal patto inficiato da nullità.
Dunque, alla stregua delle anzidette condivise argomentazioni, correttamente è stata ritenuta l'invalidità della sola opzione acclusa al patto di non concorrenza, di per sè non illegittimamente stipulato, e che ha prodotto effetti vincolanti unicamente nei confronti del C., fin dal momento successivo al superamento del periodo di prova (cfr. peraltro l'illegittimità, in relazione al tempo massimo stabilito dalla L. n. 604 del 1966, art. 10, della pattuizione che preveda un periodo di prova di oltre sei mesi) del connesso contratto di lavoro (risalente al marzo 2001), come ben chiarito dalla succitata conforme giurisprudenza, nonchè, come insindacabilmente accertato in punto di fatto dalla Corte bresciana, sino al compimento del biennio successivo alla cessazione (febbraio 2008) del relativo rapporto, di modo che tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso, comunicata alla fine dell'ottobre 2004, appunto perchè mediante questa si finisce per esercitare l'opzione, nulla, tramite cui parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso (condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale, per cui tra l'altro sarebbe comunque applicabile la disciplina dettata dall'art. 1360 c.c., comma 2).
Pertanto, non sussiste alcuno dei vizi denunciati da parte ricorrente, tenuto conto di quanto dettagliatamente accertato e motivatamente valutato dalla Corte di merito con la sentenza qui impugnata, pronunciata senza trascurare alcuna circostanza rilevante ai fini della decisione e ampiamente nei limiti della domanda proposta dall'attore, previa sua qualificazione in punto di diritto alla luce degli acclarati fatti ed atti di causa, sicchè del tutto inconferenti appaiono anche le censure mosse per asserita insufficiente e/o contraddittoria motivazione, nonchè per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. (vizio questo che peraltro, dando luogo ad error in procedendo con conseguente nullità della pronuncia, va tuttavia ritualmente denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 4, inequivocamente deducendo la relativa invalidità sul punto, e non già ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, come per contro avvenuto da parte ricorrente nella specie con il quarto motivo - cfr., tra le altre, Cass. 6 civ. - 1, n. 118 del 07/01/2016: il giudice del merito, nell'indagine diretta all'incividuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. Conformi: Cass. 1, civ. n. 23794 del 14/11/2011, nonchè Cass. nn. 19331 del 2007, n. 3012 del 2010 ed altre analoghe, tra le quali Xxxx. 3 civ. n. 21087 del 19/10/2015).
Infondata e comunque insufficientemente formulata, poi, appare la censura relativa alla asserita sopravvenuta impossibilità dell'oggetto (6^ motivo di ricorso) per il fatto che il patto di non concorrenza non avrebbe più potuto operare in seguito all'abrogazione ex decreto legislativo n. 276/2003 della disciplina relativa al c.d. lavoro interinale (art. 85, comma 1, lett. f, in vigore dal 24 ottobre 2013), e senza considerare il regime transitorio all'uopo previsto dall'art. 86, comma 3, dello stesso Decreto n. 276.
Ad ogni modo è dirimente in proposito quanto accertato dalla Corte di merito circa la portata del patto di non concorrenza de quo (peraltro conformemente alla scrittura così come succintamente sul punto riportata in sentenza ed a quanto in proposito riprodotto più dettagliatamente alle pagine 10 e 11 dello stesso ricorso), laddove l'obbligo ivi imposto non si riferiva soltanto ad "attività di fornitura dí lavoro temporaneo ex L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 2", ma pure ad ogni altra attività in concorrenza: "ovvero
(parola questa invece pretermessa nella illustrazione della doglianza a pagina 31 del ricorso, che invece equivale a forma rafforzata della congiunzione disgiuntiva semplice o con lo stesso valore di "oppure" e simili) attività in concorrenza con quella svolta dalla Società".
Ne deriva l'assoluta infondatezza del ricorso in proposito che inammissibilmente pretende in sede di legittimità un accertamento di fatto diverso da quello invece ritenuto dalla Corte di merito, le cui ulteriori osservazioni (circa gli effetti della sopravvenuta normativa nella specie, di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, peraltro senza alcun effetto retroattivo nelle abrogazioni ivi disposte rispetto al contratto de quo ed al connesso patto di non concorrenza, entrambi stipulati in epoca anteriore, nella specie oltre due anni prima) assumono quindi comunque valore marginale e non determinante (cfr. meglio pagine 9 e 10 della sentenza di xxxxxxx).
Inammissibile risulta, altresì, il settimo motivo formulato ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (norma che riguarda la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro), però rubricato sotto il diverso profilo della insufficiente motivazione circa la nullità dell'intero patto di non concorrenza (laddove l'art. 360, n. 5, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile, contempla il vizio di "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio"). Invero (cfr. in part. pgg. 38 e 39 del ricorso), non soltanto appare errato il riferimento all'ipotesi sub 3 dell'art. 360, peraltro senza alcuna chiara e precisa censura di eventuali errori nell'applicazione degli artt. 1419 e 2125 c.c., ma la doglianza risulta ad ogni modo inconferente pur qualificandola in relazione all'art. 360, n. 5, visto che non risulta debitamente enunciato il fatto, ossia la circostanza (e non già la quaestio juris, come tale irrilevante ai sensi del citato art. 360, n. 5) dirimente sul punto (cfr. Cass. 5 civ. n. 21152 08/10/2014: l'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal X.Xxx. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede l'"omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione", come riferita ad "un fatto controverso e decisivo per il giudizio" ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico - naturalistico, non assimilabile in alcun modo a "questioni" o "argomentazioni" che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate.
V. altresì Xxxx. 3 civ. n. 17037 del 20/08/2015, secondo cui il riferimento - contenuto nell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal X.Xxx. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile "ratione temporis") - al "fatto controverso e decisivo per il giudizio" implicava che la motivazione della "quaestio facti" fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione.
Cfr. inoltre Cass. 1 civ. n. 17761 - 08/09/2016, secondo cui il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il "fatto" controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per "fatto" non una "questione" o un "punto" della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo. Conforme Cass. n. 2805 del 2011).
Per contro, nel caso qui in esame la società ricorrente ha irritualmente censurato la motivazione, ritenuta laconica ed insufficiente, in base alla quale nella specie la Corte di merito ha ritenuto la nullità parziale del patto di non concorrenza, limitatamente all'anzidetta opzione, perciò tamquam non esset, peraltro in conformità al principio di conservazione degli atti giuridici, in effetti applicando, correttamente, l'art. 1419 c.c., comma 2 (cfr. Cass. 2 civ. n. 23950 del 10/11/2014: la nullità della singola clausola contrattuale comporta la nullità dell'intero contratto ovvero all'opposto, per il principio "utile per inutile non vitiatur", la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all'eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell'interesse in concreto dalle stesse perseguito.
Inoltre, Cass. 2 civ. n. 6756 del 05/05/2003 ha condivisibilmente precisato che agli effetti della disposizione contenuta nell'art. 1419 c.c. sulla nullità parziale, la prova che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte affetta da nullità, con conseguente estensione della invalidità all'intero contratto, deve essere fornita dall'interessato ed è necessario al riguardo un apprezzamento in ordine alla volontà delle parti quale obiettivamente ricostruibile sulla base del concreto regolamento di interessi, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente e razionalmente motivato. Conforme Cass. 3 civ. n. 27732 del 16/12/2005.
V. ancora Cass. 1 civ. n. 10690 del 20/05/2005, secondo cui l'estensione all'intero contratto della nullità delle singole clausole o del singolo patto, secondo la previsione dell'art. 1419 c.c. - applicabile ex art. 1324
c.c. anche agli atti unilaterali- ha carattere eccezionale, perchè deroga al principio generale della conservazione del contratto, e può essere dichiarata dal giudice soltanto ove risulti che il negozio non sarebbe stato concluso senza quella parte del suo contenuto colpita dalla nullità, e cioè solo se il contenuto dispositivo del negozio, privo della parte nulla, risulti inidoneo a realizzare le finalità cui la sua conclusione era preordinata.
V. pure Cass. lav. n. 5675 del 26/06/1987: agli effetti della disposizione dettata dall'art. 1419 c.c. sulla nullità parziale, applicabile anche al contratto collettivo di lavoro, l'accertamento se la parte del contratto inficiata da nullità costituisca una clausola va condotto in termini sostanziali, e non formali, identificandosi la clausola in un unitario elemento precettivo del contratto, che può articolarsi anche in più disposizioni, ed è riservato al sindacato del giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (peraltro, ovviamente ex art. 360, n. 5, secondo la formulazione anteriore alle novità introdotte dal legislatore del 2006). Peraltro, quando la nullità investe singole clausole per il principio di conservazione del contratto (utile per inutile non vitiatur), che costituisce la regola nel sistema del codice civile, l'estensione all'intero contratto degli effetti della nullità deve essere provata rigorosamente dalla parte interessata, che all'uopo è tenuta a dimostrare che la clausola colpita da invalidità non ha un'esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto nel senso che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità) Nella specie, per contro, le allegazioni di parte ricorrente, oltremodo carenti rispetto a quanto richiesto dal succitato art. 366, soprattutto poi alla stregua dei richiamati principi di diritto che regolano la materia, si riducono in effetti ad apodittiche affermazioni, che non trovano riscontro negli accertamenti e nei conseguenti apprezzamenti della competente Corte di merito, assumendo la natura essenziale della clausola circa la possioffità di non esercitare l'opzione ai sensi dell'art. 1419 c.c., comma 1 (peraltro ammettendo che essa ADECCO al momento delle assunzioni, facendosi concedere un'opzione per la stipulazione di un patto di non concorrenza della durata complessiva di 24 mesi, rinviava la decisione di valutare l'effettiva pericolosità dell'individuo e la sua potenzialità di danno ad una fase successiva all'assunzione, riservandosi il diritto di attivare tale opzione), donde l'evidente connessione inscindibile tra il patto di opzione de qua ed il contenuto del patto di non concorrenza così come stipulato.
Pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, nella misura di Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, iva e c.p.a. come per legge.
Così deciso in Roma, il 12 aprile 2017. Depositato in Cancelleria il 2 gennaio 2018