LUISS
LUISS
Libera Università Internazionale degli Studi Sociali
“Xxxxx Xxxxx”
Facoltà di Giurisprudenza
Cattedra di diritto civile
LA DISCIPLINA GENERALE DEL CONTRATTO E LE NORME SPECIALI SUI PATTI DI CONVIVENZA
(L. 20 maggio 2016, n. 76)
RELATORE CANDIDATA
Xxxxx.xx Prof.ssa Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxx. 120163
CORRELATORE
Xxxxx.xx Prof. Xxxxxxx Xxxxxxx
INDICE
INTRODUZIONE p. 6
CAPITOLO 1.
I PATTI DI CONVIVENZA: NOZIONE E DISCIPLINA
1.1 La legge 20 maggio 2016, n. 76.......................................................p. 10
1.1.1 La convivenza come “formazione sociale” ai sensi
dell'art. 2 della Costituzione.............................................................p. 13
1.2 La struttura della legge 76/2016......................................................p. 16
1.2.1 “Contratto di convivenza” e “contratti tra conviventi”……..p. 20
1.3 La funzione.....................................................................................p. 21
1.3.1 Assistenza morale e obbligazioni naturali...............................p. 24
1.4 La natura giuridica del contratto di convivenza..............................p. 26
1.5 Apponibilità di termini e condizioni................................................p. 32
CAPITOLO 2.
IL REGIME DI PUBBLICITA' DEI PATTI DI CONVIVENZA
2.1 La forma del contratto di convivenza..............................................p. 43 2.1.1 L'atto pubblico.........................................................................p. 54
2.1.2 La scrittura privata con sottoscrizione autenticata. p. 55
2.2 La registrazione della convivenza ai sensi del comma 37.............p. 69
2.3 La pubblicità del contratto di convivenza e l'opponibilità ai terzi................................................................................................p. 81
2.3.1 Le modalità di iscrizione e la circolare ministeriale n. 7 del
1 giugno 2016.........................................................................p. 84
2.3.2 La mancata attuazione del regime pubblicitario.....................p. 89
CAPITOLO 3.
L'INVALIDITA' DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA A CONFRONTO CON LA DISCIPLINA GENERALE
3.1 La nullità del contratto di convivenza...........................................p. 99
3.2 L'annullabilità del contratto di convivenza...................................p. 116
CAPITOLO 4.
CESSAZIONE DEGLI EFFETTI DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA
4.1 I nuovi casi di risoluzione previsti dalla legge 20 maggio 2016,
n. 76...............................................................................................p. 119
4.2 Le cause negoziali di risoluzione.................................................p. 127
4.3 Le cause di risoluzione ex lege....................................................p. 135
CAPITOLO 5.
CENNI SU ALCUNI MODELLI STRANIERI E LORO INFLUENZA NELLE PROPOSTE DI LEGGE SULLA CONVIVENZA
5.1 I cohabitation contracts. p. 139
5.1.1 La disciplina nel sistema americano.....................................p. 140
5.1.2 L'influenza dei cohabitation contracts nell'ordinamento
italiano...................................................................................p. 145
5.2 I modelli di convivenza in Europa..............................................p. 150 5.2.1 I PACS..................................................................................p. 156
5.2.2 Proposte di legge italiane sulla regolamentazione della convivenza e PACS francesi................................................p. 161
CONCLUSIONE..........................................................................................p. 167
BIBLIOGRAFIA..........................................................................................p. 172
INTRODUZIONE
Esistono oggi varie forme attraverso cui una relazione affettiva di coppia può acquisire rilevanza giuridica. Tali modelli sono eterogenei tra loro per struttura e per effetti. Con l'approvazione della legge del 20 maggio 2016, n. 76 sono state regolate due situazioni che da tempo necessitavano di una disciplina ad hoc: le unioni civili e le convivenze.
Dei due istituti, quello che presenta le maggiori problematicità è sicuramente il secondo: infatti, le unioni civili omosessuali nella sostanza ricalcano la disciplina del matrimonio, con qualche differenza di dettaglio. Al contrario, la disciplina delle convivenze si presenta in molti dei suoi snodi fondamentali come bisognosa di una seria ricostruzione sistematica, poiché tante sono le incertezze e le omissioni della legge, certamente dovute ad una attenzione prevalente del Legislatore dedicata alle unioni civili1.
La convivenza, che la riforma ha collocato accanto all’unione civile, regola una relazione avente effetti giuridici decisamente più attenuati, secondo una logica di evidente differenziazione rispetto al matrimonio; un modello, quindi, “ad intensità minore”, nonostante alla convivenza si ricolleghino effetti di non poco
1 LUISO F. P., La convivenza di fatto dopo la legge 2016/76, in xxx.Xxxxxxxx.xx, pag. 1.
conto, taluni dei quali sono stati peraltro tratteggiati in maniera poco chiara sotto il profilo della tecnica legislativa2.
Perfino lo scenario costituzionale di riferimento risulta frammentato, poiché le convivenze e le unioni di fatto – come pure le famiglie che da esse traggono origine - si vanno a collocare nella sfera di tutela delle formazioni sociali (art. 2 Cost.).
L’art. 1 della L. n. 76/2016 richiama la regola costituzionale con espresso riferimento soltanto alle unioni civili, e non anche alle convivenze; ma anche per queste ultime si deve ritenere confermato l’insegnamento giurisprudenziale che già da decenni le ascriveva al contesto di tutela costituzionale3. In questo modo figure dichiaratamente distinte tra loro - addirittura quanto ai presupposti della relativa copertura costituzionale - vengono a condividere largamente la disciplina legale, poiché la regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze attinge ampiamente a quella del matrimonio; ovvero - ma questo vale solo per le convivenze - vengono concesse importanti aperture all’autonomia negoziale, con la conseguente “importazione” di concetti e regole propri del diritto dei contratti, che è facile prevedere imporranno delicate operazioni di adattamento.
Le innovazioni e i rimandi rispetto all’apparato normativo codicistico che regola il matrimonio, che comunque assume il ruolo di riferimento dialettico, e i
2 BALESTRA L., Unioni civili, convivenze di fatto e “modello matrimoniale”: prime riflessioni, in
Giurisprudenza italiana, 2/2017.
3 Cassazione Civile, sez. I, sentenza 25 gennaio 2016, n. 1266, in Famiglia e diritto, 10/2016, pag. 846.
relativi punti di incertezza sono tanti e di così grave rilievo che sarebbe impossibile, in questa sede, richiamarli tutti.
Costituire una convivenza è ormai per tutti frutto di una reale libertà di scelta “di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio” (e, ora, pure dalla “unione civile”), per usare le espressioni impiegate dalla Corte costituzionale in una sua fondamentale decisione del 19984; ciò pare rendere ancora più attuale il suo monito a legislatori ed interpreti, nel senso che, se “la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il Legislatore ha sancito per il matrimonio […], l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione del principio di libera determinazione delle parti”5.
La normativa sui rapporti di coppia informali introdotta dalla legge in commento presenta una serie di questioni complesse e per alcuni aspetti inedite, venendo a inserirsi nel sistema senza aver operato una significativa opera di raccordo con la disciplina vigente. D'altra parte sono stati autorevolmente rilevati i problemi che si prospettano al classico compito dell'interprete nell'armonizzare vecchie e nuove regole, sia per la difficoltà di mettere a fuoco le stesse fattispecie oggetto dell'intervento legislativo, sia per la difficoltà di individuarne principi e valori ordinanti nel raffronto, e nel raccordo, con quelli dei rapporti formalizzati6.
4 Corte costituzionale, sentenza 13 maggio 1998, n. 166, in “Convivenze” e “contratto di convivenza”, in
Jus civile, 2/2017, pag. 107.
5 QUADRI E., “Convivenze” e “contratto di convivenza”, in Jus civile, 2/2017, pag. 107.
6 PARADISO M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, Torino, 2017, pag. 475.
Numerosi sono i problemi di coordinamento con le leggi già esistenti, ed in primo luogo con la disciplina del codice civile.
Quanto al rapporto con la parte generale del contratto, va evidenziato, anzitutto, che la negozialità (e poi la contrattualità, se si sceglie questa qualificazione, x. Xxx. 0 par. 4) dell’istituto in oggetto costituisce un dato da cui prendere le mosse per verificare quale sia il regime di disciplina coerente con l’autoregolamento di interessi in materia familiare, imponendosi all’interprete il compito di appurare in che misura al contratto di convivenza debbano applicarsi le previsioni di cui agli artt. 1321-1469 (bis) c.c. e mediante quale processo ermeneutico debba ricostruirsene lo statuto normativo7.
Il presente lavoro si propone quindi come un'analisi dell'operato della dottrina e della giurisprudenza, nel tentativo di dare una risposta alle principali questioni lasciate aperte dal Legislatore. In particolare, sono stati approfonditi i più importanti problemi delle convivenze attinenti all'ambito civilistico, operando altresì un confronto tra la disciplina generale del contratto e quella dei patti di convivenza.
7 NONNE L., La risoluzione del contratto (tipico) di convivenza: una lettura sistematica, in Revista brasileira de Dereito Civil, RBDCivil, 2017, pag. 133-134; XXXXXXX X., L'autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant'anni dopo, in Rivista di diritto civile, 2001, pag. 227.
CAPITOLO 1
I PATTI DI CONVIVENZA: NOZIONE E DISCIPLINA
1.1 La legge 20 maggio 2016, n. 76
La famiglia nucleare italiana, quale unità di affetti fondata sulla solidarietà collettiva e ordinata gerarchicamente per sesso e per età, negli ultimi decenni è stata investita da una trasformazione inedita, tale da modificarne i valori, le regole e i modelli sociali di riferimento. In nome di un imperante principio di libertà, si sono allentati i vincoli tradizionali ed è venuta ad affermarsi una pluralità di forme familiari. I vari interventi legislativi in materia costituiscono la conseguenza dei profondi mutamenti registratisi nel tessuto sociale, con una forte diffusione di nuove forme di relazioni familiari, prime tra tutte le convivenze omo e etero affettive.
Secondo le rilevazioni ISTAT, le famiglie di fatto sono più che raddoppiate dal 2008 al 2014 e aumentate di quasi 10 volte rispetto agli anni 1993-19948.
8 ROMANO C., Unioni civili e convivenze di fatto: una prima lettura del testo normativo, in In pratica
Convivere senza sposarsi è un fatto che l'ordinamento giuridico non considera irrilevante, sia che si tratti di un progetto di vita definitivo sia che, come spesso avviene, costituisca una fase di passaggio provvisoria verso il matrimonio. Infatti il rispetto della decisione di due persone di vivere al di fuori delle regole del matrimonio non può arrivare ad ignorare le aspettative di affidamento reciproco e di solidarietà che è implicato in ogni progetto di vita in comune9.
La nuova legge 20 maggio 2016, n. 76 non è l'unica cornice di riferimento nella regolamentazione dei diritti nelle convivenze di fatto. Lo statuto giuridico oggi è stato allargato dalla nuova legge, non definito per la prima volta. Non vengono meno perciò (ancorché non richiamate dalla nuova legge) le precedenti acquisizioni legislative già riconosciute dalla giurisprudenza e dalle leggi precedenti in vari settori 10 , delle quali la nuova legge svolge una funzione essenzialmente integrativa. Ai conviventi di fatto si applicheranno tutte le norme e tutte le garanzie offerte dalle leggi precedenti alla legge 76/2016, all'unica condizione che rientrino nella definizione di convivenza data dal nuovo comma 36 della legge11.
La legge n. 76/2016 ha aggiunto nel nostro ordinamento un nuovo e
notaio, 2016, pag. 1.
9 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, Milano, 2016, pag. 107.
10 Ad esempio nel settore degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, nel campo della procreazione medicalmente assistita, nel settore dei trapianti di organi, nel computo del triennio di vita comune previsto per i coniugi per l'adozione legittimante, e in tutti gli altri contesti in cui alla convivenza è attribuita dall'ordinamento rilevanza giuridica.
11 Ibidem, pag. 119-120.
importante tassello nel complesso quadro delle unioni civili e delle convivenze.
A livello introduttivo può rilevarsi come i due istituti, attenendo essenzialmente alla stessa materia - quella (genericamente) familiare ed in specie delle relazioni personali tra due soggetti - presentino diversi aspetti comuni, costituiti dalla ricorrenza di una coppia, e quindi di una comunità, diversa dalla famiglia legittima, caratterizzata da relazioni affettive sufficientemente stabili e comunque qualificata a livello sociale e giuridico come formazione sociale (art. 2 Cost.).
Le due ipotesi tuttavia sono fondate su una ratio diversa e su istanze sociali ben distinguibili. Nel caso delle unioni civili, l'esigenza era quella di introdurre, per far venire meno ogni distinzione basata sull’orientamento sessuale, una disciplina legale della vita della coppia omosessuale che prevedesse diritti e obblighi a somiglianza di quelli stabiliti per il matrimonio; esclusa, infatti, l’estensione dell’istituto matrimoniale alle persone dello stesso sesso, occorreva decidere se predisporre una disciplina che sostanzialmente ne attribuisse gli stessi diritti, oppure definire quali fossero le differenze opportune e accettabili per gli interessati12. Al contrario, nell’ipotesi delle convivenze, l’esigenza era quella di non fare riferimento al matrimonio, disciplinando piuttosto in modo organico i rapporti tra la coppia e i terzi, e comunque essenzialmente i profili patrimoniali. In altri termini: nel primo caso si richiedeva una massima regolamentazione
12 XXXXX X., Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in
xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2016, pag. 1.
dell’istituto ed una tendenziale equiparazione al matrimonio, nel secondo una regolamentazione leggera ed una netta differenziazione rispetto al matrimonio13.
La l. n. 76/2016 contiene una regolamentazione asimmetrica, molto ampia ed organica per le unioni civili, alquanto scarna e per certi aspetti insufficiente per le convivenze.
1.1.1 La convivenza come “formazione sociale” ai sensi dell'art. 2 della Costituzione
Le convivenze di fatto tipizzate dal legislatore vengono ricondotte al concetto di “formazione sociale” descritto nell'articolo 2 della Costituzione. La riconduzione a questa categoria era già stata affermata in passato dalla giurisprudenza e, sulla scorta di tale assunto, l'esigenza di disciplinare le convivenze era stata riconosciuta dalla Corte costituzionale in molte pronunce. Per certi versi stride l'assenza nella definizione di convivenze di fatto di cui al comma 36 dell'art. 1, l. 76/2016, dell'esplicito riferimento all'art. 2 Cost., diversamente da quanto invece il Legislatore si è affrettato a specificare per le unioni civili (art. 1 comma 1, l. 76/2016). Ma l'assenza di tale riferimento esplicito fa eco alla copiosa elaborazione della Consulta che, muovendo proprio dal rinvio all'art. 2 Cost., nel riconoscere la necessità di una tutela, mette in luce la differenza tra l'istituto
13 TRIMARCHI M., Unioni civili e convivenze, in IPSOA Famiglia e diritto, 10/2016, Xxxxxxx Kluwer Editore, pag. 860.
coniugale e le convivenze per affermare che non sussiste alcuna esigenza costituzionale di parità di trattamento tra essi14.
Per comprendere, dunque, quale sia la situazione di fatto costituzionalmente protetta, si deve fare riferimento alla giurisprudenza in materia degli ultimi anni, ponendo particolare attenzione ai criteri utilizzati per l'individuazione della cd. “famiglia di fatto”. Il problema è di carattere definitorio, se non altro perché la “convivenza”, nel senso di “formazione sociale” rilevante per l'art. 2 Cost., va distinta dalle ipotesi in cui non si registra la sussistenza della famiglia, bensì la presenza di una mera frequentazione occasionale15.
La giurisprudenza delle alte Corti ha già avuto modo di chiarire che “una famiglia di fatto non sussiste sol perché due persone convivano”16. Già prima dell'emanazione della legge in questione, la giurisprudenza aveva individuato una serie cospicua di indici presuntivi, tra i quali: la risalenza della convivenza, la diurnitas delle frequentazioni, il mutuum auditorium (reciproco sostegno morale). Si è così pervenuti a identificare gli elementi costitutivi della convivenza more uxorio attraverso due più significativi presupposti: uno oggettivo, costituito dalla stabilità del legame nel tempo, e uno soggettivo, rappresentato dalla reciproca
intenzione dei partner di considerarsi “rapporto affettivo”.
14 Corte costituzionale, sentenza 4 maggio 2009, n. 140, in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, pag. 184.
15 XXXXXXX X., in AA. VV., Unione civile e convivenza, commento alla legge 76/2016, Milano, 2017, pag. 440.
16 Cassazione Civile, sez. III, sentenza 21 aprile 2016, n. 8037 in Unioni civili e convivenze, Milano, 2017, pag. 440.
L'elemento maggiormente qualificante la convivenza di fatto è, quindi, la stabilità che, alla luce della nuova legge, assume indici e connotati più incisivi con riguardo alla coabitazione e alla durata.
Sinora la dottrina ha individuato nella affectio e nella stabilità del convivere le coordinate rivelatrici della famiglia non fondata sul matrimonio. In termini analoghi si è espressa anche la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, maturata con riguardo alla famiglia di fatto; essa ha sempre ritenuto necessaria una situazione interpersonale di natura affettiva con carattere di tendenziale stabilità e con un minimo di durata temporale e che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale17. La giurisprudenza si interroga anche sul quantum di tempo necessario per assumere l'esistenza di una convivenza: l'opinione prevalente assegna rilevanza ai contenuti del convivere piuttosto che alla loro protrazione nel tempo, valorizzando, ad esempio, la coabitazione. Risulta evidente come il nucleo costituzionalmente protetto, nella convivenza di fatto, sia l'affectio familiaris, quindi il fatto che i partner si considerino “famiglia”, comunione di vita18.
Dopo l'emanazione della legge in esame, nonostante per l'individuazione della convivenza debbano sussistere i requisiti previsti espressamente dalla legge, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il nucleo di diritti essenziali
17 XXXXX X., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, pag. 189.
18 Cassazione Civile, sez. I, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971, in AA. VV., Unione civile e convivenza di fatto, Milano, 2017, pag. 441.
costituzionalmente protetto non sia cambiato.
1.2 La struttura della legge 76/2016
Le ben note vicissitudini politiche e non politiche delle unioni omosessuali hanno indotto il governo a porre la fiducia su un maxi-emendamento. Ciò ha determinato una peculiare struttura normativa, in quanto la l. 76/2016 è composta da un unico articolo composto di ben 69 commi, di cui i primi 35 riguardano le unioni civili, ed i commi da 36 a 65 riguardano le convivenze19.
In particolare, i commi da 36 a 65 disciplinano le convivenze, e precisamente le conseguenze di diritto derivanti dal mero fatto della convivenza. I commi da 36 a 49 consegnano lo statuto minimo delle convivenze, definendo e riconoscendo il consortium tra due persone, dello stesso sesso o di sesso diverso, indipendentemente dall'avere esse deciso di ricorrere alla regolamentazione dei loro rapporti patrimoniali.
La l. n. 76/2016 rappresenta il raggiungimento tardivo del riconoscimento giuridico delle convivenze, che elimina il ricorso continuo all'autorità giudiziaria per l'ottenimento dei diritti minimi20.
19 XXXXX X. X., La convivenza di fatto dopo la legge 2016/76, in Xxxxxxxx.xx, pag. 1.
20 BLASI M., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 187.
Ai sensi dell'art. 1, comma 36, «ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile». La legge dà una definizione di convivenza meramente qualificata, e la scelta terminologica è altamente significativa. Dalle locuzioni più comunemente usate dagli interpreti, quali “convivenza more uxorio” e “famiglia di fatto”, scompare qualsiasi riferimento al matrimonio (eliminando la qualificazione “more uxorio” dalle convivenze) e alla famiglia (come istituto in cui rinvenire gli elementi “di fatto”). Il risultato è appunto “conviventi” di fatto21.
Il titolo della legge parla in modo generico di “convivenze”, mentre il comma in questione descrive nel dettaglio i conviventi “di fatto”. Si tratta di una contraddizione di termini: prima della legge 76/2016, la famiglia formata da conviventi era detta “di fatto” proprio per l'assenza di una normativa che ne regolasse i contenuti e le caratteristiche; per l'effetto della nuova disciplina, l'unione dei conviventi è coppia “di diritto” e non più di fatto, poiché espressamente regolata dalla legge. L'aporia va risolta dando atto che il Legislatore ha usato l'aggettivazione “di fatto”, nel senso di “non matrimoniale”, “non unita”; come a dire, guardando alla fonte del rapporto, che, nel caso dei conviventi, non è un negozio giuridico bensì un mero “fatto”22.
21 Ibidem, pag. 182-183.
22 XXXXXXX G., in AA. VV., Unione civile e convivenza, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 443.
Nei commi 50 ss. la legge mette a disposizione dei conviventi lo strumento dei “contratti di convivenza”, tramite i quali due parti che convivono stabilmente possono regolare i loro rapporti di tipo patrimoniale.
Dopo il gruppo di norme che trovano applicazione sulla base del fatto (la convivenza stabile), e quindi a prescindere da una dichiarazione negoziale degli interessati, ed anzi anche contro la volontà di (uno di) essi, il Legislatore ha altresì predisposto un regime opzionale, al quale gli interessati possono accedere stipulando il contratto di convivenza di cui all’art. 1 comma 50, posto che sussistano i presupposti di cui al comma 36.
Al primo gruppo di norme segue dunque un vero e proprio regime opzionale (al matrimonio o all’unione civile) basato - come ad esempio avviene in Francia con i PACS - su un atto di volontà degli interessati che decidono di stipulare il contratto di convivenza 23 . Dal punto di vista letterale, appare decisivo che l’espressione conviventi “di fatto”, presente nei commi precedentemente esaminati, relativi alla normativa di tutela, ricorra ancora nel comma 50, cioè nella norma che segna il passaggio al secondo gruppo di commi, ove è previsto che i conviventi possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune mediante un contratto di convivenza. L’espressione conviventi “di fatto” - o convivenza “di fatto” - non è invece mai utilizzata nei commi 51-64, indice inequivocabile che, differentemente dalla prima parte della legge, non si tratta di
23 XXXXX X., Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, op. cit., 2016, pag. 5.
una normativa di tutela basata su un mero fatto, bensì di una disciplina opzionale, la cui applicazione dipende da un atto di volontà dei conviventi.
Avuto riguardo agli altri profili, sia pur patrimoniali, ivi menzionati, non può non sottolinearsi l’ingiustificata restrizione dell’oggetto del contratto. Il riferimento è infatti solo: 1) alla possibilità di fissare le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, ma unicamente sulla scorta del criterio di proporzionalità operante per i coniugi ex art. 143, comma 3, c.c. [lett. b)], pretermettendo quindi la possibilità di riconoscere maggiori spazi all’autonomia privata; 2) [lett. c)] alla possibilità di optare per il regime patrimoniale della comunione dei beni, così omettendo di contemplare la comunione convenzionale, il fondo patrimoniale, ovvero eventuali regimi patrimoniali atipici, la cui configurabilità è da tempo riconosciuta.
Un altro aspetto fondamentale di cui è stata omessa la trattazione è costituito dall’impossibilità di disciplinare con il contratto gli effetti derivanti dalla cessazione della convivenza24 . Certo, le parti potranno comunque disciplinare aspetti patrimoniali concernenti la crisi della convivenza: si tratterà, però, di accordi da considerare pur sempre – in quanto ricadenti al di fuori del perimetro della “tipicità” – assoggettati al generale controllo di meritevolezza, di cui al secondo comma dell’art. 1322 c.c., non diversamente, cioè, da quanto già in precedenza da considerare consentito (come, ad esempio, con riguardo al
24 XXXXX X.X., La convivenza di fatto dopo la legge 2016/76, op. cit., pag. 6; XXXXXX G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx, pag. 7.
meccanismo del vincolo di destinazione, di cui all’art. 2645-ter c.c.)25.
1.2.1 “Contratto di convivenza” e “contratti tra conviventi”
L'elemento caratterizzante del contratto di convivenza è il fatto che l'accordo si collochi nell'ambito di una famiglia di fatto e che i contraenti siano conviventi. In questa ipotesi, già prima che il Legislatore regolasse la fattispecie tipica, si assisteva ad un “contratto tra conviventi”. Non si trattava di una fattispecie contrattuale specialmente riservata alle convivenze, ma l'utilizzo da parte dei conviventi degli strumenti negoziali tipici per organizzare la vita comune. Nel primo caso (contratto tra conviventi), la convivenza rileva solo sul versante soggettivo poiché i contraenti convivono; nel secondo caso, la convivenza è, invece, di fatto, la ragione giustificatrice dell'accordo stesso26. Nei contratti tra conviventi l'elemento fattuale della convivenza può assumere rilevanza giuridica solo se le parti decidono di menzionarlo sotto forma di motivo.
Anche dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, si devono tenere distinti i “contratti di convivenza” con causa tipica e forma vincolata e i “contratti tra conviventi” che sussisterebbero tutte le volte in cui ci troviamo di fronte ad un
25 QUADRI E., “Convivenze” e “contratto di convivenza”, in Ius Civile, 2/2017, pag.188.
26 XXXXXXX X., in AA. VV., Unione civile e convivenza, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 499.
contratto che ha già una sua causa tipica e che viene utilizzato in relazione alla regolamentazione dei rapporti tra conviventi: in questo ultimo caso si dovrebbe applicare, anche con riguardo alla forma, la disciplina di detto contratto tipico27.
1.3 La funzione
Le ragioni che possono portare alla convivenza more uxorio sono molteplici; tra le altre, si possono rammentare: la scelta di sfuggire alle limitazioni giuridiche discendenti dal matrimonio, specie in ordine alla libertà personale; la volontà di continuare a beneficiare di provvidenze e vantaggi di tipo patrimoniale; l'assenza dei requisiti necessari alla celebrazione del matrimonio, come avviene, ad esempio, ove non sia attuale lo scioglimento del precedente matrimonio per divorzio, o non sia stato ancora pronunciato l'annullamento di un precedente matrimonio, contratto da uno o da entrambi i conviventi28.
Il Legislatore del 2016 ha inteso tipizzare il contratto di convivenza. Ci troviamo così di fronte, ora, ad un nuovo istituto tipico, sebbene non ritenuto “degno” di essere inserito nel corpus del codice civile. Va però sottolineata la
27 GRAZIOLI C., Nuovi contratti e tecniche redazionali, in Feder Notizie, 7/2017, pag. 84.
28 BONILINI G., Manuale di diritto di famiglia, Milano, 2016, pag. 45.
xxxxxx presa di posizione in tema di contenuto dei contratti in oggetto, volta per l’appunto ad escludere che il “contratto” (e non “patto”, “accordo”, “pattuizione”, “negozio”, “convenzione” o altro) possa avere ad oggetto rapporti diversi da quelli patrimoniali (come è invece il caso, ad es., per il PACS francese)29.
Nel dibattito che da decenni caratterizza l'evoluzione del tema relativo alla negozialità tra conviventi viene messo in primo piano, quale contenuto dei contratti di convivenza, l'impegno reciproco a contribuire alle necessità del ménage familiare mediante la corresponsione di somme di denaro o la messa a disposizione dei propri beni o della propria attività lavorativa anche solo domestica. Questo aspetto è presente nel nuovo e tipico “contratto di convivenza” disciplinato dalla legge, che indica questo contenuto definendolo «modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo» (comma 53, lett. b). La legge 20 maggio 2016
n. 76 non concepisce, quindi, il contratto di convivenza come un contratto di mantenimento, ma come un più ampio contratto di distribuzione dei compiti relativamente al ménage familiare, anche se l'obbiettivo immediato di questa tutela non è il partner debole ma la famiglia di fatto.
La legge non poteva imporre ai conviventi un obbligo contributivo reciproco giacché la convivenza di fatto è pur sempre caratterizzata dall'assenza di tali obblighi, ma suggerisce uno schema negoziale tipico per assumere un dovere di
29 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag 4.
distribuzione dei compiti di conduzione del ménage familiare.
Questo è il vero contenuto innovativo della negozialità tra i conviventi cui i soggetti interessati possono accedere facilmente con forme negoziali semplificate per la redazione e la pubblicità erga omnes di tali pattuizioni.
L'obbiettivo diretto della tutela del partner debole potrà essere sempre assicurato da altre modalità negoziali (quali il contratto di mantenimento, la trascrizione di vincoli di destinazione, le clausole negoziali relative al diritto sull'abitazione e tutte le altre della tradizione notarile).
L'incipit del comma 50 («i conviventi possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza») sembrerebbe andare nella direzione di una possibile negozialità di tipo generale. Non è così: il Legislatore si occupa soltanto di tipizzare un “contratto di convivenza” a contenuto limitato, attribuendogli in presenza di determinati presupposti la forza dell'atto opponibile a terzi, analogamente a quanto in sostanza il codice prevede per le convenzioni matrimoniali. Si capisce molto bene dal comma 53 (che indica il contenuto limitato dei contratti di convivenza) che l'indicazione di una possibile regolamentazione generale da parte dei conviventi dei loro rapporti patrimoniali nella nuova legge è assente. Naturalmente “accordi tra conviventi” saranno certamente possibili, nei limiti dei diritti della natura indisponibile assicurati dalla nuova legge, con effetti obbligatori tra le parti, fatti salvi gli effetti erga omnes eventualmente garantiti dalle modalità prescelte (ad
esempio la trascrizione di vincoli o di trasferimenti oggetto di tali contratti)30.
1.3.1 Assistenza morale e obbligazioni naturali
Un cenno ai profili non patrimoniali si può cogliere altrove, in particolare nel comma 36, che parla di reciproca assistenza non solo materiale, ma anche morale. In quella sede non si stabilisce, però, la sussistenza di un dovere giuridico in tal senso, limitandosi la disposizione a prevedere che, perché possa parlarsi di “convivenza di fatto”, le due parti siano “unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”. Il piano è dunque quello dei presupposti della fattispecie, non quello dei rapporti giuridici che dalla fattispecie discendono31.
L'assistenza morale e materiale tra i conviventi di fatto cui si riferisce il comma 36 non configura un obbligo, ma viene spontaneamente prestata in ragione del vincolo affettivo che lega i partner: tanto è vero che, sotto questo profilo, si è parlato di finalità solo descrittiva, anziché prescrittiva della previsione in questione32 . Bisogna infatti ricordare che ciò che caratterizza una convivenza
30 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 185.
31 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 4-5.
32 BALESTRA L., Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in IPSOA Famiglia e diritto, 10/2016, Xxxxxxx Kluwer Editore, pag. 928.
affettiva di natura familiare è l'esistenza di un dovere di solidarietà tra i partner che costituisce il minimo inderogabile in ogni formazione sociale in cui si sviluppa la personalità degli individui (art. 2 Cost.). Non si tratta dunque di obbligazioni giuridiche ma di veri e propri doveri morali di solidarietà, appunto vincoli di reciproca assistenza morale e materiale, che non possono mancare in chi pianifica un progetto di vita comune. Il richiamo è allo schema delle obbligazioni, ma non di quelle “civili”, bensì “naturali”, in virtù delle quali il nostro codice civile riconosce la non ripetibilità di quanto corrisposto in attuazione spontanea di quei doveri (art. 2034 c.c.)33.
La riforma presuppone che vincoli giuridici di assistenza morale e materiale non nascano né dal rapporto di fatto, né dalla stipula di un contratto di convivenza. Anche “l’indicazione della residenza” sembra non formare oggetto di alcun obbligo (cfr. il comma 53, lett. a): la mancata effettuazione di tale fissazione non risulta essere sanzionata (a differenza di ciò che accade nell'istituto matrimoniale, dove analogo comportamento, ove riferibile ad un coniuge, è punibile - anche se in modo non automatico - con l’addebito della separazione personale)34.
33 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 117.
34 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 5.
1.4 La natura giuridica del contratto di convivenza
Uno dei problemi più complessi di questa legge è definire la natura giuridica dei contratti di convivenza. Le difficoltà principali di questa individuazione risiedono da un lato nella indeterminatezza della causa, poiché non definita dal codice civile e tuttavia indicata come elemento necessario a pena di nullità (art. 1325 c.c.) (e per questo definita dagli autori come “un oggetto vago e misterioso” 35 ), e dall'altro nel particolare contesto in cui questi contratti si collocano, che sembra uscire dalla logica prevalentemente “egoistica” che caratterizza i contratti, andando a inserirsi in una logica più “solidaristica”, basata sull'assistenza e sul sostegno reciproco durante la vita comune. Ottica in cui generalmente si inseriscono gli istituti di diritto di famiglia.
Dalle prime analisi di questo problema, risulta evidente che la dottrina ha una visione tutt'altro che unitaria.
Molti Autori sostengono che i contratti di convivenza sono qualificabili come dei veri e propri contratti36. A sostegno di questa teoria, oltre al dato letterale del testo della legge nella scelta della denominazione “contratti” (e non invece “patti”, ”negozi”, “convenzioni”, ecc.), vi è senza dubbio la tendenza alla cosiddetta “privatizzazione” e “contrattualizzazione” del diritto di famiglia. L'idea
35 PACIA R., Unioni civili e convivenze, in Ius Civile, 2016.
36 XXXXXXX X., in AA. VV., Unioni civili e convivenze: guida commentata alla legge 76/2016, Santarcangelo di Romagna, 2016, pag. 276-277.
generale alla base di questo fenomeno è quella di riconoscere, ovvero attribuire legislativamente alle parti, il potere giuridico di ricorrere allo strumento contrattuale per regolare i loro rapporti patrimoniali, se non altro nel momento della loro vita comune37. Lo strumento negoziale andrebbe a profilarsi in termini di istituto idoneo alla garanzia del soggetto debole, attribuendo maggiore certezza ai rapporti economici tra i componenti dell'unione. Oggi la legge n. 76/2016 segnerebbe un ulteriore passo sulla xxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx xxxxxxxxx00.
Un altro indice decisivo, secondo questa parte di dottrina, sarebbe la volontà del Legislatore di escludere che i contratti di convivenza possano andare a regolamentare gli aspetti personali della vita comune. Il limitato oggetto del contratto di convivenza, descritto nel comma 53 della legge, in particolare il contenuto delle lettere b) e c), farebbe propendere per la patrimonialità dell'oggetto ai sensi dell'art. 1321 c.c., elemento essenziale ai fini della configurabilità del contratto. Una critica a questo assunto è stata mossa a partire dal contenuto del comma 53, che, nell’elencare i possibili contenuti del contratto, menziona per prima l’indicazione della residenza [lett. a)], che è materia estranea alle pattuizioni aventi natura contrattuale, chiaramente attenendo al profilo personale e non già patrimoniale39. L’indicazione del comma 53º, lett. a), tuttavia, non risulta decisiva,
37 GRONDONA M.., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, Torino, 2017, pag. 669.
38 BLASI M., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 185.
39 BALESTRA L., Unioni civili, convivenze di fatto e modelli matrimoniali, prime riflessioni, in
sembrando piuttosto alludere a una dichiarazione di scienza delle parti contraenti. Deve essere quindi tenuto fermo che, nonostante il suo nomen iuris, tale contratto non può disciplinare la convivenza in quanto tale40.
Con la loro introduzione nel sistema normativo, dunque, i contratti di convivenza avrebbero acquisito la dignità di contratti tipici analogamente alle convenzioni matrimoniali, che sono certamente contratti tipici. Pertanto essi avranno forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e non potranno essere sciolti se non per accordo tra le parti o per le altre cause previste dalla legge.
Per quanto attiene alla qualificazione giuridica, il contratto di convivenza, regolamentando le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune e il regime patrimoniale della comunione dei beni, si presenterebbe come un contratto a esecuzione continuata. Ciò premesso, in base a quanto prevede il secondo comma dell'art. 1373 c.c., la facoltà di recesso potrà sempre essere esercitata, ma senza effetto “per le prestazioni già eseguite”. Con la conseguenza che mai potranno essere oggetto di ripetizione eventuali elargizioni effettuate tra i conviventi in relazione alle obbligazioni assunte reciprocamente con il contratto. Da questo punto di vista l'inquadramento delle contribuzioni reciproche all'interno della categoria delle obbligazioni giuridiche assicurerà gli stessi effetti di irripetibilità tra conviventi derivanti dall'inquadramento delle rispettive elargizioni nell'ambito
Giurisprudenza Italiana, Utet Giuridica Editore, 2/2017.
40 XXXXXX X., L'invalidità del contratto di convivenza, in La nuova giurisprudenza civile commentata, Cedam Editore, 8/2017.
delle obbligazioni naturali41.
I contratti di convivenza costituirebbero quindi la fonte di un rapporto obbligatorio che le parti instaurano nel contesto della vita familiare, considerato come il semplice sfondo ove la relazione si instauri.
Fatte queste considerazioni, bisogna tuttavia evidenziare che una parte non trascurabile della dottrina non è concorde con la visione sopra esposta.
La prima discrasia che viene evidenziata è l'uso del termine “contratto” a fronte di un istituto che, dal punto di vista della struttura, sembra molto più vicino a quello tipico del matrimonio sotto molti profili: si veda la disciplina degli impedimenti, della sospensione degli effetti in pendenza del procedimento di interdizione o del processo penale per il delitto di cui all’art. 88 x.x. (xxxxx 00), xxx xxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxx x xxxxxxx (xxxxx 56) e del regime delle invalidità, trattandosi sempre di nullità assoluta ed insanabile (comma 57). Inoltre, il contratto di convivenza è privo del requisito della vincolatività, poiché può cessare per recesso unilaterale (comma 59, lett. b), e quindi è strutturalmente incapace di sopravvivere alla crisi del rapporto42.
In una prospettiva alternativa a quella contrattuale, i contratti in questione potrebbero essere qualificati come atti che arricchiscono un rapporto principale in sé dotato di un'autonoma rilevanza giuridica. In tale ricostruzione, essi verrebbero
41 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 209.
42 PACIA R., Unioni civili e convivenze, op. cit., pag. 212.
qualificati come accordi che disciplinano, nei suoi aspetti economici, un rapporto che, nel suo nucleo essenziale, non è in realtà un rapporto patrimoniale; in tal modo dovrebbero essere correttamente considerati alla stregua di negozi giuridici non contrattuali di diritto familiare, essendo diretti a regolamentare interessi che si riconducono alla convivenza e sono, perciò, interessi familiari43.
Il contratto di convivenza sarebbe dunque un negozio giuridico bilaterale, in quanto i conviventi possono essere solo due e solo due possono essere le parti che siglano l'accordo. Il negozio in parola è solenne, quanto alla forma. Infatti, la sua stipulazione, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico.
Tenuto conto del suo contenuto, della sua funzione e della sua disciplina, si tratta di un negozio giuridico “tipico”, in quanto delineato dal Legislatore. Per quanto riguarda la sostanza contenutistica, il contratto può contenere a) l'indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alle capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del primo libro del codice civile. A ben vedere, il contenuto tipico della stipula è essenzialmente patrimoniale.
43 GRECO F., in AA. VV., Unioni civili e convivenze di fatto L. 20 maggio 2016, n. 76, Santarcangelo di Romagna, 2016, pag. 272.
Quanto alla struttura, si tratta, quindi, di un contratto (art. 1321 c.c.) e possono allora trovare applicazione le norme generali contrattuali, perché compatibili e non derogate dal regime speciale ex lege n.76/2016. Dal punto di vista del perfezionamento, si tratta di un contratto consensuale che può avere sia effetti reali che obbligatori. I conviventi devono indicare le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo: in linea di principio, pertanto, si tratta di un contratto sinallagmatico, in cui si registrano prestazioni corrispettive, e, sempre in astratto, si tratta di un accordo commutativo ove lo scambio di prestazioni è sostanzialmente equivalente. In punto di esecuzione, è un contratto a esecuzione prolungata perché è destinato a protrarsi nel tempo. Non sfuggirà, anche in questo caso, l'accostamento alle convenzioni matrimoniali (art. 162 c.c.) riservate ai coniugi, le quali hanno i medesimi caratteri: contrattuali, bilaterali, solenni44.
Assumendo questa prospettiva, la scelta del Legislatore di adottare il termine “contratto” appare poco comprensibile. L'uso di un termine impreciso (e, secondo alcuni, addirittura improprio) sembrerebbe giustificabile solo tenendo conto della volontà del Legislatore di creare una “patrimonializzazione” del rapporto di convivenza, ma appare drasticamente incomprensibile laddove lo si rapporti alla ratio ispiratrice della riforma che, viceversa, ha quale dichiarato obbiettivo
44 BUFFONE G., in AA. VV., Unione civile e convivenza, op. cit., pag. 499.
primario quello di rafforzare le tutele della coppia convivente, offrendo alla loro autonomia di soggetti una valida e conveniente alternativa, rappresentata proprio dalla regolamentazione del “regime patrimoniale della convivenza”45.
1.5 Apponibilità di termini e condizioni
Il comma 56 vieta l'apposizione di termini o condizioni al contratto di convivenza, prescrivendo che «Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti».
Prima dell’introduzione di questa disposizione normativa non si dubitava in dottrina che le prestazioni oggetto di un contratto di convivenza ben potessero essere temporalmente legate alla durata stessa del ménage o comunque collegate ad una condizione, tanto sospensiva che risolutiva, così come ad un termine, tanto iniziale che finale46.
45 GRECO F., in AA. VV., Unioni civili e convivenze di fatto L. 20 maggio 2016, n. 76, op. cit., pag. 272. 46 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 10.
Al contrario, secondo l'attuale formulazione della norma, gli elementi accidentali del negozio non possono trovare ingresso nel contratto di convivenza, analogamente a quanto avviene in via generale per i cosiddetti “negozi puri”47 (actus legitimi), e in primis per il matrimonio. Con riferimento a quest'ultimo, l'art. 108 c.c. sancisce che “la dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta a termine o condizione”48.
Ove apposti, la condizione e/o il termine vitiatur sed non vitiat, vale a dire si considerano semplicemente non apposti e non inficiano l'atto. E' evidente che questa clausola pone un forte limite all'autonomia privata; alcuni Autori hanno provato a giustificare tale limite con la considerazione che la convivenza, pur non essendo assimilabile al matrimonio, è comunque ispirata ad esso ed integra un rapporto personale a cui non sembra opportuno estendere strumenti ideati per i rapporti di carattere commerciale49.
A questo proposito va considerato, in primis, che alcune disposizioni dei contratti di convivenza introdotte dalla legge in commento sembrano il frutto di un evidente fraintendimento legislativo di quelle che sono le finalità di un contratto di convivenza nella libera unione. L'approccio del Legislatore nel disciplinare in un'unica legge due situazioni tanto diverse (unioni civili e convivenze di fatto) ha
47 Sono considerati negozi puri quei negozi di particolare rilevanza sociale, in merito ai quali risulta fondamentale evitare che sorgano incertezze sulla loro esistenza o durata. Per tale ragione essi non tollerano l'apposizione di elementi accidentali. Tra i negozi puri rientrano, ad esempio, l'adozione, il riconoscimento del figlio naturale, l'accettazione o la rinuncia all'eredità.
48 XXXXXXX X., in AA. VV., Unioni civili e convivenze: guida commentata alla legge 76/2016, op. cit., pag. 276.
49 DE FILIPPIS B., Unioni civili e contratti di convivenza, Milano, 2016, pag. 279.
spesso tradito una certa dose di confusione tra le due prospettive, che ha portato ai risultati attuali: da un lato l’attribuzione, per chi faceva valere istanze di parità di trattamento rispetto alle coppie eterosessuali, di un evidente minus rispetto al matrimonio; dall’altra, per chi chiedeva una regolamentazione “leggera” di una forma di unione diversa da quella coniugale, l'introduzione di pesi ed oneri para- matrimoniali spesso superflui, e talvolta addirittura dannosi.
E' proprio questo il caso del citato comma 56, che si giustifica soltanto in un’ottica puramente “matrimoniale”: mentre ha un senso stabilire che il matrimonio, per la gravità del vincolo che lo caratterizza, e, soprattutto, per il fatto di essere un negozio giuridico essenzialmente personale, non possa essere sottoposto a termini o condizioni, non ha invece alcuna utilità stabilire lo stesso principio per un contratto come quello di convivenza, che si colloca all’interno di un genus caratterizzato dalla patrimonialità degli effetti e per il quale l’apposizione di termini e condizioni risulta un quid del tutto normale. Tant’è vero che, anche nel campo coniugale, l’apponibilità di termini e condizioni, non al negozio matrimoniale in sé, ma alle relative convenzioni patrimoniali appare in tutto e per tutto ammissibile50.
La previsione del comma 56 suscita ulteriori dubbi e perplessità dal punto di vista dei suoi effetti sul piano pratico.
Questa disposizione infatti, se interpretata letteralmente, produce l'effetto di
50 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 11.
vanificare le disposizioni che il Legislatore ha introdotto proprio allo scopo di consentire alle parti di regolare liberamente i loro rapporti di tipo patrimoniale. Le parti finirebbero per ricorrere al contratto di convivenza solo marginalmente, oppure a non ricorrervi proprio, in quanto l'assetto degli interessi economici da loro costruito in un certo modo verrebbe cancellato in radice da un contratto legislativamente imposto, che ovviamente, essendo privo del termine o della condizione, non sarà più in grado di realizzare la medesima causa in concreto, cioè quella funzione economico-individuale per cui era stato pensato. E' stato messo in evidenza come sarebbe paradossale che un ordinamento favorevole alla contrattualizzazione dei rapporti familiari vada a comprimere fino al punto di disincentivare la scelta dello strumento contrattuale51.
Proprio le perplessità suscitate dalle conseguenze di tale divieto hanno portato la dottrina a elaborare interpretazioni fortemente restrittive della disposizione, se non sostanzialmente abroganti52.
Quanto appena riferito fa emergere con chiarezza le principali questioni che investono il comma 56: portata, generale o particolare, del divieto; natura (imperativa o dispositiva) della previsione; rapporto tra disciplina speciale espressa appunto dal comma 56 e disciplina generale del contratto.
Senza dubbio il problema principale attiene al perimetro di estensione del divieto, e cioè se solo il contratto di convivenza come tale non possa essere
51GRONDONA M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag. 674.
52QUADRI E., “Convivenze” e “contratto di convivenza”, op. cit., pag. 117.
sottoposto né a termine né a condizione, oppure se le specifiche pattuizioni in esso contenute lo potranno essere.
In quest'ultimo senso è l'opinione preferibile, che in dottrina si è già affermata come prevalente. In particolare, partendo dal rilievo che le due proposizioni che compongono il comma utilizzano una volta al singolare e una volta al plurale i sostantivi “termine” e “condizione”, si è osservato che, nella prima proposizione, la lettera della norma sembra riferire i due elementi al contratto di convivenza nel suo complesso; nella seconda, visto l'uso del plurale, sorge il dubbio se debba concludersi che tutti i termini o tutte le condizioni dedotti dalle parti nel contratto siano da considerare come non apposti, e ciò anche quando riguardino pattuizioni accessorie, o comunque solo alcune delle clausole contrattuali.
Tale esito ermeneutico è stato considerato inaccettabile. Infatti, se così fosse, si dovrebbe negare la possibilità di prevedere una disciplina dei rapporti per periodi successivi alla convivenza, essendo essa necessariamente condizionata dall'evento futuro della cessazione del rapporto; oppure clausole che stabiliscano diverse modalità di contribuzione per il caso in cui sopravvengano figli o uno dei conviventi cessi di lavorare; o ancora, patti per cui l'impegno di mettere a disposizione alcuni beni abbia effetto da una certa data in avanti, nell'attesa, ad esempio, che l'immobile oggetto della promessa sia restituito da un conduttore che lo sta al momento occupando53.
53 VILLA G, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in Rivista di diritto civile, 10/2016, Cedam Editore, pag. 1341.
Da quanto appena riferito emerge, dunque, come l'espressione contenuta nel comma 50 (“rapporti patrimoniali relativi alla loro vita comune”) debba essere oggetto di una rilettura interpretativa che ne estenda la portata, in modo da far sì che il contratto di convivenza possa avere a oggetto rapporti patrimoniali destinati a produrre effetto nel momento successivo alla rottura della convivenza stessa. Affermare il contrario sarebbe assurdo, proprio perché la contrattualizzazione del rapporto ha senso in quanto funzioni anche in chiave rimediale, a partire dal momento in cui il legame affettivo tra i conviventi sia venuto meno. Il contratto di convivenza dovrebbe dunque assumere una portata temporale ben più ampia rispetto a quella che letteralmente emerge dal comma 53.
Si deve concludere, con specifico riferimento al comma 56, nel senso che una lettura razionale della norma richiede di allontanarsi da simili conseguenze e di confinare il divieto di apporre termini o condizioni al contratto nel suo complesso; ma anche così ristretta, la disposizione alimenta una perplessità ulteriore, tale per cui la proposta interpretazione restrittiva condurrà inevitabilmente a uno svuotamento della norma.
E, in effetti, non è certo incomprensibile la posizione di chi afferma (pur esprimendo un'opinione, almeno al momento, minoritaria) che l'interpretazione più letterale possibile è in sostanza l'unica proponibile per evitare l'abrogazione della norma, risultante appunto dal riferire il termine o la condizione al solo contratto e non alle clausole in esso contenute. Qui la questione è stabilire se la norma riguardi il solo caso di un contratto interamente condizionale, cioè la cui efficacia è
destinata a prodursi o a venire meno al verificarsi di un dato evento che colpisce l'intero contratto e non la parte (clausola), o se, al contrario, riguardi anche le singole pattuizioni del contratto, di cui taluna sia “pura”, e talaltra condizionale. Si deve ritenere che il divieto concerna sia l'una che l'altra ipotesi, dal momento che non si comprenderebbe, diversamente, la razionalità di una previsione che all'unicità del contenuto del patto collegasse due distinte conseguenze a seconda che esso esaurisca o no il contenuto del contratto54.
In senso più generale, le questioni sopra richiamate, di cui il comma 56 è fonte, possono essere impostate e risolte sulla base di due approcci interpretativi reciprocamente inconciliabili.
Il primo, letterale, è quello che mira a restringere al massimo il campo di azione dell'autonomia privata dei conviventi, sicché essa penetri il meno possibile all'interno di territori che il Legislatore ha inteso restringere formulando il detto precetto al fine di evitare che, tramite l'apposizione delle condizioni, i privati possano ampliare le dimensioni della loro autonomia.
Ci troviamo qui di fronte ad un'autonomia privata assistita, che non può che portare ad un'applicazione il più letterale possibile del comma 56. Se in giurisprudenza si dovesse affermare questa lettura, ogni termine o condizione inseriti nel contratto, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a specifiche clausole o al contratto nell'insieme, dovrebbero considerarsi come non apposti.
54 PERFETTI U., Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 12/2016, pag. 1749-1758.
All'interno di tale prospettiva, i commi 51 e 56 dovrebbero essere letti nel senso che, tra le norme imperative che il contratto di convivenza deve rispettare (comma 51), c'è appunto il comma 56, a tenore del quale il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione; e tale imperatività andrebbe giustificata eminentemente nell'ottica di protezione del convivente debole e dei figli minori.
Anche una lettura del genere, almeno prima facie protettiva della parte più debole, tuttavia non potrà non essere ripensata nel suo momento applicativo, soprattutto alla luce dei principi di conservazione del contratto, della causa in concreto e del principio di effettività anche in chiave rimediale. E ciò tenendo ancora una volta presente l'obbiettivo di evitare che il contratto di convivenza sia destinato a rimanere inapplicato.
E', dunque, lecito attendersi interventi giurisprudenziali anche pesantemente correttivi, per evitare che il contratto, privo di quel termine o di quella condizione, perda ogni ratio, rivelandosi uno strumento contrario all'interesse patrimoniale che invece avrebbe dovuto tutelare. Tale rigidità interpretativa, come esposto, senza dubbio indurrebbe le parti a orientarsi o verso altri contratti tipici, oppure verso la xxx xxxx'xxxxxxxxx xxxxxxxxxxxx00.
Il secondo approccio, più attento al contesto, e come tale orientato in direzione della fattispecie concreta, sarebbe allora preferibile, tenuto conto degli
55 GRONDONA M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag.675-677.
effetti che da esso potranno essere fatti discendere in via interpretativa.
Il primo effetto ha a che fare con il campo di applicazione della norma; e sul punto è condivisibile il rilievo per cui il divieto di termini e condizioni attiene a quei soli elementi accidentali che siano eventualmente apposti al contratto nel suo complesso e non già a questa o a quella peculiare situazione patrimoniale, a questa o a quella particolare clausola56. Il che significa che tale contratto sarà pienamente efficace tutte le volte in cui le parti abbiano previsto l'operatività del termine o della condizione ancorandole a specifiche pattuizioni, venendo così del tutto meno il senso del divieto, e sempre che le specifiche pattuizioni oggetto di scrutinio non contrastino con i diritti fondamentali della persona, ovvero siano irragionevoli in riferimento alla ratio economica che dovrebbe sorreggerle; ratio che invece, in questa specifica ipotesi, o manca, o è, in tutto o in parte, inaccettabile, perché non meritevole di protezione da parte dell'ordinamento.
Il secondo effetto è quello per cui al contratto di convivenza si applica il regime generale della condizione (artt. 1353 e ss. c.c.), e non quello speciale del comma 56, tutte le volte in cui, di fronte alla fattispecie concreta, si accerti l'esistenza di interessi economici che verrebbero a essere irragionevolmente pregiudicati se si dovesse optare per l'inefficacia della condizione o del termine.
In questo modo si ottiene l'effetto di sterilizzare il precetto oltremodo limitativo (se inteso letteralmente) contenuto nel comma 56. Appunto perché,
56 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 11.
senza neppure la necessità di ricorrere a un'interpretazione restrittiva (per circoscrivere l'operatività della disposizione in parola solo al contratto e non alle singole pattuizioni di esso), si può ritenere che il contratto contenente un termine o una condizione automaticamente fuoriesca dal campo di applicazione del comma 56, rientrando nel diritto comune dei contratti; ciò dunque consentirebbe di evitare l'interpretazione restrittiva del precetto del comma 56. Tali ragionamenti si inseriscono, evidentemente, all'interno di una visione pan-contrattualista, che ha come merito quello di rivitalizzare il contratto di convivenza a dispetto di alcune discutibili intenzioni del Legislatore.
Di fronte a questa proposta interpretativa si potrà obbiettare che, così operando, si procederà diretti verso l'abrogazione in via ermeneutica della regola contenuta nella disposizione in parola. Si può tuttavia replicare che, alla luce di quanto si è detto, è compito anche dell'interprete fare opera di politica del diritto, almeno se si condivide l'insegnamento per cui la scienza giuridica non è nient'altro che politica del diritto, rispetto alla quale il giudice è uno dei protagonisti.
In questa prospettiva risulta chiaro che l'orizzonte di applicazione del comma
56 cambia radicalmente, perché il contratto di convivenza va inteso come strumento primario di promozione della libertà delle parti in chiave patrimoniale, e dunque interpretato in modo tale che sia salvaguardata non tanto l'autonomia delle parti come tale, ma gli effetti che il concreto esercizio di essa abbia voluto produrre; effetti che andranno salvaguardati tutte le volte in cui il giudice non ravvisi ragioni che ne ostino l'attuazione.
Ovviamente, in questa ipotesi, il comma 56 andrebbe qualificato o come norma dispositiva, o come norma solo parzialmente imperativa, rispetto alla quale l'imperatività non potrebbe operare quoad effectum, appunto per evitare che le conseguenze scaturenti dal termine o dalla condizione possano ripercuotersi irragionevolmente contro la sfera patrimoniale (e non) dell'uno o dell'altro convivente, rimettendo così al decisore il compito di circoscrivere l'ambito degli effetti, appunto in un'ottica conservativa della pattuizione.
A partire da questa lettura alternativa sarà inevitabile un consistente intervento giurisprudenziale, che adegui generalità e astrattezza del precetto tanto al contesto esistenziale ed economico dei conviventi, quanto al contesto assiologico di una legalità globalizzata: un duplice contesto in cui oggi l'interprete fa largamente ricorso per poter predisporre una base di giudizio soddisfacente, nell'idea che il precetto, inteso appunto quale regola di giudizio, non è un “a priori” ma un “a posteriori”, che segue lo svolgimento di quel processo individuale pratico cui ricondurre ogni attività applicativa5758.
57 GRONDONA M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag.677-679.
58 Bisogna infine concludere che, a prescindere dalle discussioni in merito al comma 56, “deve comunque tenersi ferma la considerazione (già messa in luce nella dottrina fin dai lavori preparatori) per cui, dovendo l'oggetto del contratto essere lecito (ex art. 1346 c.c.), si deve in ogni caso escludere la validità di clausole dei contratti di convivenza che incidano sui diritti delineati dalla legge a carattere indisponibile, come ad esempio il diritto agli alimenti (art. 1 comma 65)”, GUAGLIONE L., La nuova legge delle unioni civili e convivenze, Roma, 2016, pag. 141.
CAPITOLO 2
IL REGIME DI PUBBLICITA' DEI PATTI DI CONVIVENZA
2.1 La forma del contratto di convivenza
Ai sensi del comma 51 della legge 76/2016: «Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o con scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico».
Detta previsione, innanzi tutto, rispecchia l'analoga disposizione che governa le convenzioni matrimoniali, parimenti rientranti nella categoria dei negozi solenni, come se il Legislatore avesse reputato di estendere la ratio di quella previsione formale anche agli accordi che, dopo la riforma, pongono le regole di una famiglia non matrimoniale (ma) giuridicamente disciplinata 59 . Tuttavia, come già precedentemente illustrato, la ratio ispiratrice della riforma sulle convivenze di fatto è stata quella di tracciare le linee guida del fenomeno in un'ottica di netta
59 XXXXXXXXX A. M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, Torino, 2017, pag. 633.
differenziazione rispetto alla famiglia legittima e all'istituto matrimoniale; sicché la ratio di questa scelta legislativa dovrà essere ricercata altrove, e in primis all'interno della norma stessa.
Occorre preliminarmente chiedersi quale sia la ragione che ha spinto il Legislatore ad imporre tutto questo formalismo - sanzionato con la nullità - per la stipulazione e le modifiche dei contratti di convivenza, quando invece un pari formalismo non è previsto per gli atti che danno origine alla convivenza stessa; tanto soprattutto se si osserva che nessuna forma è prevista per lo scioglimento della convivenza, scioglimento che può avvenire anche sulla base di semplici comportamenti di fatto60.
Le opzioni che in punto di forma del contratto di convivenza aveva a disposizione il Legislatore, così come individuate dalla dottrina, erano sostanzialmente riconducibili a tre posizioni.
Aderendo ad una prima ed autorevole opinione, per i contratti di convivenza si sarebbe potuto pervenire alla loro completa de-formalizzazione, partendo dal presupposto che il contenuto degli stessi “possa essere desunto dal comportamento reale dei coniugi, nella loro vita comune, come espressione di una loro volontà attuosa”61.
60 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, pag. 1-2.
61 FALZEA X., Problemi attuali della famiglia di fatto, in AA.VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, pag. 52; XXXXXXXX X., Contratto di convivenza, contribuzione e mantenimento, in Famiglia e diritto, 2015, p. 729.
Questa tesi è stata però criticata da chi ha escluso che dalla semplice instaurazione di una convivenza more uxorio possa scaturire, implicitamente, un accordo che non solo disciplini la prestazione della contribuzione reciproca tra i conviventi fissandone la misura a carico di ciascuno, ma addirittura regolamenti gli accrescimenti del patrimonio comune della coppia. In particolare, si è osservato che proprio l’originario rifiuto dei conviventi more uxorio di sottoporre i reciproci rapporti ad effetti giuridici, impedisce di desumere dal loro comportamento una volontà negoziale.
Pertanto, secondo questa seconda opinione, il contratto di convivenza e il suo contenuto devono risultare da una esplicita manifestazione di volontà delle parti, ancorché non necessariamente consacrata in un documento formale, salvo i casi in cui il rispetto di una determinata forma sia imposto per la natura dell’atto (ad esempio quando le parti pongano in essere una liberalità) oppure sia semplicemente raccomandabile (ad esempio quando il valore delle prestazioni reciproche sia squilibrato).
Infine, una terza tesi riteneva che il problema della forma dei contratti di convivenza fosse sostanzialmente riconducibile alla prova del contenuto dell’accordo. Si osservava infatti che, sebbene in linea puramente teorica, si potrebbe presumere l’esistenza dell’accordo economico dall’esistenza della convivenza, nonostante da ciò non si potrebbe ricavare anche il contenuto dell’accordo, che andava provato compiutamente e rigorosamente, non potendo
certo xxxxxxxxx (ad esempio) l’esistenza di un diritto alla divisione in parti uguali dell’intero compendio.
La scelta della legge 76/2016 di imporre la forma autentica per la stipulazione dei contratti di convivenza fa comprendere che la vera ragione che l’ha animata non è quella di stabilire una forma idonea per tutti i possibili contenuti dei contratti di convivenza.
Per certi versi, infatti, la previsione sarebbe risultata inutile, poiché in molte ipotesi la forma dei contratti è stabilita direttamente dalla legge, anche con modalità meno rigorose (si veda la forma minima stabilita dall’art. 1350 c.c. per i diritti immobiliari). In altri casi la forma autentica sarebbe risultata eccessiva, come quando ad esempio le parti si limitino a disciplinare, a favore del convivente debole, gli obblighi di contribuzione o la misura dei mezzi di sussistenza per i quali la previsione di un formalismo appare senza dubbio sproporzionato. In altre ipotesi, invece, la previsione sulla forma sarebbe apparsa difettosa, essendo preclusa la scelta sul tipo di forma da impiegare, quando tra le parti intervenga accordo a forma vincolata (ad es. un accordo di natura liberale che non consente di ricorrere alla scrittura privata autenticata).
La previsione della forma autentica non si spiega neppure se messa in correlazione con la necessità di attuare la pubblicità nei registi anagrafici, dal momento che per questi ultimi non è prevista la registrazione degli atti autentici. Le dichiarazioni anagrafiche eseguite dai soggetti obbligati, come ci ricorda l’art. 13 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, sono effettuate su semplice scrittura privata,
in conformità all’apposita modulistica, sottoscritte dinanzi all’ufficiale di anagrafe o a questo inviate con le modalità di cui all’art. 38 del T.U. n. 445/2000, che contempla l’invio della documentazione, mediante fax o in via telematica, nonché dei documenti identificativi in “copia fotostatica non autenticata”.
Il requisito della forma autentica per i contratti di convivenza, rafforzata con la sanzione civile della nullità, va probabilmente ricercata nell’intenzione del Legislatore di vedere assicurata la trasformazione delle obbligazioni naturali che nascono nella convivenza di fatto in obbligazioni giuridiche.
L’obbiettivo era quindi di avere certezza che una volta che la scelta della coppia convivente si fosse indirizzata verso la stipulazione del contratto, il loro accordo si sostanziasse un atto formale in senso tecnico, così da ottenere quella sacralizzazione ufficiale dell’impegno di vita comune anche sotto il profilo economico62.
Non vi è dubbio comunque che, per effetto della riforma qui in commento, ogni contratto riconducibile alla fattispecie in esame dovrà non solo risultare frutto di un’esplicita manifestazione di volontà delle parti, ma andrà rivestito della forma richiesta ora dalla legge.
Sembra potersi condividere l'idea secondo cui detto obbligo trova applicazione anche per i contratti qualificati (o qualificabili) sottotipi diversi (es. comodato, vendita, donazione, mandato, ecc.) la cui causa, tuttavia, sia
62 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 1-2.
riconducibile a quella descritta dal comma 50, con la conseguenza che anche detti contratti – per quanto ascrivibili integralmente o prevalentemente a diversi tipi contrattuali – debbono essere redatti nella forma del comma 50. Non si tratta, in questo caso, di estendere un obbligo formale, come tale insuscettibile di applicazioni estensive o analogiche; si tratta, semmai, di riqualificare i contratti che, se conclusi tra persone conviventi e destinati a disciplinare i profili patrimoniali del loro rapporto, sia pure mediante il ricorso a figure contrattuali tipiche, debbono rispondere alle medesime esigenze di certezza che hanno indotto il Legislatore a imporre una forma pesante per i contratti di cui al comma 5063.
Quanto detto sopra varrà anche in relazione a tutti quegli accordi che prima della riforma si sarebbero potuti costituire sia verbis (si pensi, ad esempio, alla determinazione della contribuzione o del mantenimento o alla concessione di un comodato sulla casa familiare), sia anche solo con il semplice rispetto della forma scritta (si pensi ancora alla concessione di un comodato sulla casa familiare o alla costituzione di un diritto reale su di essa, ecc.). E’ chiaro, infatti, che il contenuto del contratto descritto dal comma 53, per come testualmente presentato (“Il contratto può contenere…”), può essere il più vario e si estende ad abbracciare senza distinzione tutti i possibili “rapporti patrimoniali relativi alla loro [i.e.: dei conviventi] vita in comune” (cfr. il comma 50). Qualunque tipo di accordo così caratterizzato, dunque, andrà considerato, a prescindere dalla sua possibile astratta
riconducibilità a figure negoziali diverse, alla stregua di un contratto di convivenza e come tale sottoposto alle regole formali previste dalla nuova legge64.
L’espressa menzione, prima dell’inciso “a pena di nullità”, della “forma scritta” sembra voler esprimere l’idea che la regola formale ad substantiam investa non già le due alternative dell’atto pubblico e della scrittura privata autenticata (da notaio o avvocato), bensì la “forma scritta” in generale. Si apre dunque, almeno come tesi astratta, la possibilità di una lettura che ammetta la stipula di un contratto di convivenza per semplice scrittura privata. Viene infatti da chiedersi per quale ragione sarebbe menzionata expressis verbis la forma scritta, posto che non sembrano immaginabili atti pubblici o scritture private autenticate che il requisito della forma scritta non soddisfino. Soccorre al riguardo il successivo comma 52, che, ai fini della pubblicità dell’accordo, considera solo i casi dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata65. Senza contare che questa lettura andrebbe a confliggere con la ratio legis, che è quella di garantire la certezza dei contratti in ordine ai profili patrimoniali della convivenza66.
Il Legislatore individua specificamente un possibile contenuto minimo che il contratto di convivenza “può” recare. E' utile precisare che la forma prevista dal
64 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, in
xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx, pag 6.
65 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag 5.
comma 51 deve rivestire gli elementi essenziali del contratto di convivenza, dovendo essere idonea ad assolvere la funzione di “descrivere” compiutamente il contenuto richiesto dalla legge o, comunque, indispensabile all'identificazione dell'oggetto del contratto.
Prima della nuova disciplina, il problema della forma degli accordi di convivenza veniva risolto applicando le regole generali, ritenendosi che detti accordi necessitassero di forma scritta solo quando specifiche clausole in questi contenute dovessero essere stipulate per iscritto, salvo, naturalmente, le parti decidessero, anche in considerazione degli indubbi vantaggi probatori, di stipulare i loro accordi di convivenza per iscritto, anche ricorrendo alla più pesante forma dell'atto pubblico67.
Nel testo della legge precedente al maxiemendamento del 26 febbraio 2016 si prevedeva che i contratti di convivenza dovessero essere redatti a pena di nullità in forma scritta e ricevuti dal notaio in forma pubblica68.
La scelta dell'atto pubblico infatti non era affatto necessitata.
Già nel disegno del testo di legge, nonché nel comma 52 della legge attuale, la pubblicità prevista dal Legislatore per i contratti di convivenza aveva una funzione essenzialmente dichiarativa, e aveva quindi come obbiettivo quello di rendere gli atti opponibili ai terzi. Ebbene, non esiste un principio in base al quale
67 BENEDETTI A. M., in AA.VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag. 633-634.
68 Con la previsione dell'atto pubblico il testo aveva individuato quindi solo nel notaio il professionista legittimato a ricevere l'atto, il quale poteva assistere i conviventi nella redazione del contratto. Contro questa scelta l'avvocatura ha chiesto e ottenuto in Senato la presentazione di un emendamento che poi ha portato al testo attuale.
gli adempimenti finalizzati alla pubblicità dichiarativa devono essere costituiti necessariamente da atti pubblici. Tali adempimenti possono essere realizzati del tutto legittimamente anche se l'atto è costituito semplicemente da una scrittura privata69.
Il Legislatore ha quindi concesso alle parti la scelta tra due tipologie di forma, ovvero l'atto pubblico e la scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato. La novità è sicuramente l'intervento autenticatore dell'avvocato, professionista particolarmente il grado di assistere le parti anche nella determinazione dei contenuti del contratto di convivenza.
Prima di affrontare tali tematiche, vanno fatte alcune considerazioni di carattere generale.
Nel nostro ordinamento la forma scritta è costituita dall'atto pubblico o dalla scrittura privata. Non esiste un tertium genus: la scrittura privata, solo perché seguita dall'autenticazione, non cambia la propria natura a causa di quest'ultima e non rappresenta una forma ulteriore. “Il documento, considerato dal punto di vista della sua struttura, con riguardo alla qualità del suo autore, si distingue in pubblico o privato. La scrittura privata appartiene appunto a questa seconda specie...”. L'essenza strutturale del documento non potrà che appartenere all'uno o all'altro tipo, e la dicotomia autore pubblico/autore privato non conosce ulteriori possibilità logiche.
69 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, Milano, 2016, pag. 187-188.
Nella sede specifica della teoria del documento, è stato autorevolmente sottolineato che “in base al sistema vigente, l'attività di documentazione (cioè l'attività diretta alla formazione del documento) può essere svolta da notai o altri pubblici ufficiali..., oppure direttamente dai privati”70.
L'autenticazione è solo un quid pluris che si aggiunge, senza interferire sulla natura della scrittura privata, che è preesistente e pre-formata rispetto all'autenticazione della stessa: “l'autenticazione è pertanto, nella sua essenza, un atto amministrativo di scienza, un atto certificativo”. Un posterius, insomma, dal punto di vista logico e cronologico, rispetto alla scrittura.
Per l'esattezza, “l'autentica notarile della sottoscrizione è un atto pubblico che si aggiunge ad un documento privato”71.
Anche la giurisprudenza della Cassazione è molto chiara: ”A norma degli art. 2702 e 2703 c.c., la scrittura privata autenticata non costituisce, sotto il profilo della validità del negozio, un tertium genus rispetto alla scrittura privata non autenticata e all'atto pubblico: si tratta pur sempre di una scrittura privata, come tale facente piena prova fino a quella di falso della provenienza delle dichiarazioni di chi l'ha sottoscritta, se colui contro la quale è prodotta ne riconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta:... l'autenticazione opera cioè esclusivamente sul piano della prova e non della
70 XXXXX X., voce Documento, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1991, pag. 4.
71 XXXXXXXXXX X., Appunti sull'autenticazione delle sottoscrizioni, in Vita notarile, 3/2011, pag. 1737.
validità sostanziale dell'atto”72.
La posizione tradizionale in materia di prova delinea chiaramente la differenza tra l'una e l'altra forma scritta: “A differenza dell'atto pubblico, che è una probatio probata, la scrittura privata, per sé stessa, è una probatio probanda; non costituisce cioè una prova perfetta, finché non sia regolarmente riconosciuta la verità della sottoscrizione dell'obbligato. Questa ricognizione può farsi in vari modi... E dapprima si hanno per riconosciute le sottoscrizioni autenticate...”73.
La forma ad substantiam del contratto di convivenza è quella scritta, prevista e disciplinata dall'art. 1350 c.c. che rimanda alla dicotomia atto pubblico/scrittura privata.
La successiva “autenticazione”, nulla potendo aggiungere alla scrittura del documento già formatosi, è richiesta a fini ulteriori, e segnatamente allo scopo di pubblicità. Il documento già formatosi per (atto pubblico o) scrittura privata realizza, di per sé, la prescrizione del comma 51. L'inciso “a pena di nullità” può essere riferito solo all'espressione che precede (“sono redatti in forma scritta”) e non a quella che segue (“con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata...”) perché quest'ultima prescrizione non fa altro che enunciare le possibilità tra le quali i conviventi possono scegliere; e neanche tutte, come si può vedere: perché una scrittura privata senza autenticazione, pur non potendo trovare
72 Cassazione sez. Lavoro, sentenza 7 agosto 2000, n. 10375, in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, pag. 154.
73 MATTIROLO L., Istituzioni di diritto giudiziario civile, Torino, 1899, pag. 257.
ingresso nei registri anagrafici, avrà intanto soddisfatto i requisiti minimi previsti per la validità dell'atto, e potrà valere tra le parti74.
2.1.1 L'atto pubblico
La scelta dell'atto pubblico (artt. 2699-2701 c.c.) passa naturalmente attraverso l'ausilio del notaio, che redige il contenuto sulla base delle dichiarazioni ricevute dalle parti, alla presenza di due testimoni e in conformità a quanto previsto dagli art. 47 ss. della Legge Notarile. In questa parte della legge non viene richiamato il controllo al rispetto dell'ordine pubblico e delle norme imperative, in quanto tale controllo è implicito, perché connesso ipso iure all'emanazione dell'autentica.
Infatti nello svolgimento delle sue funzioni il notaio non si limita a confezionare atti dotati di fede privilegiata, ma esercita anche un fondamentale controllo di legittimità, un controllo di tipo pubblicistico e ordinamentale75. In virtù di ciò, sul notaio grava – in forza dell'art. 28, legge 16 febbraio 1913, n. 89 – l'obbligo di rifiutare un rogito che riproduca un contratto espressamente proibito dalla legge o che sia manifestamente contrario all'ordine pubblico o al buon costume, potendo, in caso contrario, essere chiamato a rispondere, a titolo di
74 MECENATE F., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, pag. 153-155.
75 MECENATE F., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 156 e 167.
responsabilità professionali, per i danni cagionati alle parti dalla stipula di un rogito invalido.
In questo caso, naturalmente, il notaio compie i necessari accertamenti tenendo conto di quanto previsto dai commi 50 ss. a proposito dei contratti di convivenza (oltre che, ovviamente, in base alla disciplina codicistica applicabile a tutti i contratti)76.
L'operato del notaio è inoltre soggetto a sistematico controllo di merito da parte dell'Autorità Ispettiva.
2.1.2 La scrittura privata con sottoscrizione autenticata
Questa modalità di stipula è sicuramente una peculiarità dei contratti di convivenza, e la sua formulazione crea non pochi problemi interpretativi.
Se le parti preferiscono ricorrere alla scrittura privata con sottoscrizione autenticata, il notaio o l'avvocato “ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico”.
Si tratta di una attestazione oggetto di obbligo da parte dei professionisti prescelti dalle parti, obbligo a cui non è possibile sottrarsi, neppure col consenso o su richiesta delle parti stesse; è dunque evidente che l'autenticazione della
76 BENEDETTI A. M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag. 639-640.
sottoscrizione e la dichiarazione di conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico sono entrambe necessarie per validare, dal punto di vista formale, il contratto di convivenza concluso dalle parti; se manca la dichiarazione di conformità, il contratto è nullo per difetto di forma, anche se il professionista abbia comunque autenticato la sottoscrizione dei conviventi.
Il richiamo alle “norme imperative”, innanzi tutto, comporta che i professionisti sono tenuti ad accertare (e attestare) che il contratto rispetti le norme, certamente imperative, fissate dalla legge per la sua validità, con particolare riferimento a quanto previsto dal comma 57.
Il professionista è chiamato a verificare l'assenza di queste possibili cause di nullità, così come le altre possibili ragioni di invalidità derivanti dalle regole del codice civile, nella misura in cui si accoglie l'idea che la comminatoria della nullità segni il carattere imperativo della disposizione violata; per alcune bastano accertamenti di carattere documentale, per altre il margine di discrezionalità del professionista sembra essere, invece, maggiormente aleatorio. Volendo fare un esempio, l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti dal comma 36 per identificare i “conviventi di fatto” può non essere di così agevole effettuazione, potendo forse ipotizzarsi che, in questo caso, il professionista possa assolvere al suo obbligo anche assumendo sommarie informazioni direttamente dalle parti, al fine di verificare che la coppia che vuole sottoscrivere il contratto soddisfi i parametri della definizione legislativa; certamente, deve accertare il libero stato dei conviventi, che è presupposto necessario a configurare una convivenza
giuridicamente rilevante o, comunque, tale da legittimare le parti a concludere un contratto sui profili patrimoniali.
Tra le norme imperative si collocano tutte le norme penali, e in generale tutte quelle che possono avere rilievo per la conclusione del contratto. Ovviamente notaio e avvocato non possono trasformarsi in investigatori, ma debbono limitarsi alla valutazione delle informazioni (testuali o extratestuali) di cui sono venuti in possesso.
Più complesso, invece, si prospetta il compito del professionista quando deve attestare la conformità all' ”ordine pubblico”, nozione i cui confini sono notoriamente più sfumati e incerti. L'espressione “ordine pubblico” viene comunemente utilizzata per indicare un complesso di principi e di norme inderogabili, di cui tuttavia è prevista una evoluzione e un continuo adattamento alle esigenze giuridiche che ispirano l'ordinamento giuridico dello Stato 77 . Lo stesso codice civile fa riferimento all'ordine pubblico in più occasioni senza definirlo e senza attribuire a questa espressione significati costanti78.
La valutazione di conformità all'ordine pubblico, intanto, richiede un giudizio che entra nei contenuti sostanziali degli accordi conclusi tra i conviventi, al fine di verificare che l'assetto di interessi programmato dalle parti non entri in conflitto
77 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 191.
78 A volte l'espressione viene utilizzata per qualificare un certo tipo di norme come norme di ordine
pubblico (art. 1229 comma 2); altre volte è correlata al buon costume (artt. 31 disp. Preliminari, art. 23
c.c. ultimo comma); altre volte ancora è affiancata dal buon costume e dalle norme imperative (art. 25 comma 1, 643, 1343, 1354 c.c.).
con principi generali posti a protezione dei valori cui l'ordinamento assegna un ruolo preminente sull'autonomia privata. Se si prova a concretizzare questa formula, anche per definire i contorni della valutazione richiesta al notaio o all'avvocato, non può non farsi riferimento ai medesimi principi che governano i rapporti patrimoniali delle altre figure familiari (matrimonio, unione civile), anche constatato che la lettura del comma 53 lett. b) sembra ancorare le modalità di contribuzione alle necessità della famiglia sorta dalla convivenza “alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. Non sembra pertanto eccessivo ipotizzare che il rispetto dell'uguaglianza delle parti sia il primo, e forse anche l'unico, criterio che il professionista deve utilizzare per valutare la conformità all'ordine pubblico dell'accordo concluso dai conviventi.
Certamente, il notaio o l'avvocato non sono giudici, né sono tenuti a compiere una sorta di previsione di ciò che il giudice deciderebbe dell'accordo concluso tra i conviventi; ma sono comunque professionisti del settore legale, dai quali si può pretendere, in relazione al grado di diligenza che grava su chi esegue una prestazione professionale, una conoscenza delle norme tale da giustificare l'affidamento che l'ordinamento pone, sia in un'ottica più generale che nella prospettiva di migliore protezione degli interessi dei conviventi, sulla loro capacità di giudizio.
Ponendo sul documento contrattuale l'attestazione di conformità, il professionista assume nei confronti delle parti una responsabilità professionale; se l'attestazione si rivela inesatta, e quindi frutto di una prestazione professionale
scarsamente diligente ex art. 1176, comma 2, c.c., il notaio o l'avvocato possono essere chiamati a risarcire il danno cagionato alle parti contraenti.
Per quanto riguarda il danno risarcibile, questo si può prospettare solo se il contratto sia stato dichiarato nullo dal giudice; in questo caso, la parte che aveva fatto affidamento sul contratto potrebbe avere titolo per ottenere dal professionista il danno patrimoniale patito a causa dell'accertamento della nullità del contratto di convivenza79 .
L’accostamento operato dal comma 51 tra i primi due documenti e la scrittura privata autenticata dall’avvocato, appare pericolosamente disancorato dal sistema delle prove documentali, dando peraltro l’impressione di una forza che tutti questi atti sprigionerebbero in egual misura per sostenere la struttura documentale del contratto di convivenza.
Con una ambigua propagazione terminologica si giunge dapprima a ritenere equipollente la scrittura privata “autenticata” dal notaio a quella “autenticata” dall’avvocato e, successivamente, in sede di scelta della forma per il contratto di convivenza, a ritenere perfettamente fungibile l’opzione tra l’atto pubblico notarile e la scrittura privata autenticata dall'avvocato.
È possibile sostenere che il comma 51 abbia attribuito all’avvocato il potere di autenticare le sottoscrizioni - secondo quanto previsto dall’art. 2703 x.x. -
00 XXXXXXXXX X. X., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, op. cit., pag. 642-643.
apposte in calce agli accordi di convivenza, così come potrebbe fare il notaio? La lettura degli articoli 2699 e 2703 c.c. conduce ad una risposta senz’altro negativa, e sgombra il campo dall’equivoco a base della (ri)costruzione operata dal Legislatore nel comma 51, che solo apparentemente “equipara” la scrittura privata autenticata dal notaio a quella “autenticata” dall’avvocato. L’attribuzione a quest’ultimo professionista di un potere certificativo che, sul piano terminologico, non si distingue da quello del notaio, non deve portare a ritenere che si tratti dell’attribuzione del potere di autentica formale ex art. 2703 c.c.
Con riferimento agli atti autentici trascrivibili nei registri immobiliari indicati dall’art. 2657 c.c., si è osservato che la “certezza legale” promanante da questa categoria di documenti, è eccezionale e prevista in maniera tassativa, “perché nessun privato … può imporre ad altri privati di assumere come certo un fatto che egli enunci in una propria dichiarazione, se non in base ad una precisa norma di legge”80.
Partendo da questa constatazione si comprende perché l’atto pubblico (art. 2699 c.c.) e la scrittura privata autenticata (art. 2703 c.c.), per gli effetti che l’ordinamento ne fa discendere (artt. 2700 e 2702 c.c.), possono provenire solo da pubblici ufficiali “espressamente” autorizzati dall’ordinamento a porli in essere.
Il potere certificativo, dal quale deriva la fede privilegiata delle attestazioni provenienti dal pubblico ufficiale autorizzato, tanto con riferimento all’efficacia
80 XXXXXXX X., Trattato della trascrizione, diretto da X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Torino, 2014, pag. 116 e ss.
dell’atto pubblico ex art. 2700 c.c., quanto in relazione al contenuto dell’autenticazione delle sottoscrizioni, ex art. 2703 c.c., è espressione di una funzione pubblica che viene delegata dallo Stato, e come tale può estrinsecarsi solo in ipotesi tassativamente predeterminate, non essendo configurabile alcun potere pubblico in difetto di una norma dalla quale esso venga espressamente attribuito. Il solo tra i pubblici ufficiali che è investito di un generale potere certificativo (o potestà documentativa) è il notaio, al quale l'ordinamento attribuisce in via primaria la competenza per gli atti pubblici; solo in presenza di una autorizzazione espressa, tali funzioni possono essere svolte da determinati pubblici ufficiali.
Perché possa parlarsi di atto pubblico, infatti, non è sufficiente che il documento sia formato da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, ma occorre anche - necessariamente - che la legge attribuisca in modo non equivoco a quel pubblico ufficiale una specifica funzione certificativa e con ciò stesso, la capacità di essere fonte di produzione di pubbliche certezze. Il pubblico ufficiale, certificando l’autenticità della sottoscrizione, attribuisce fede privilegiata alla circostanza dell’identificazione della parte e al fatto che questa ha sottoscritto dinanzi al pubblico certificatore, per il resto rimanendo il documento una comune scrittura privata.
Non possono quindi non valere anche in quest’ambito i limiti al potere certificativo delineati dal legislatore per l’atto pubblico, poiché gli effetti che si ricollegano alla scrittura privata autenticata ex art. 2703 c.c. sono coincidenti con quelli della scrittura privata riconosciuta in giudizio (art. 215 c.p.c.), così come
previsto dall’art. 2702 c.c., vale a dire la stessa efficacia probatoria dell’atto pubblico (fino a querela di falso), ancorché limitatamente alla “provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta”.
Da questa norma e dagli art. 72 L.N. e 86 R.N. emerge il nucleo essenziale dell’autentica formale, comune al notaio o agli altri pubblici ufficiali, consistente in una specifica attività di documentazione. Più precisamente dovrà risultare dal testo dell’autentica la dichiarazione (o attestazione) del soggetto che la redige, di aver previamente identificato il sottoscrittore, che quest’ultimo ha sottoscritto dinanzi a lui, nonché l’indicazione del luogo e della data in cui è stata compiuta. Inoltre, ma solo per il notaio, dalla formula di autentica dovrà risultare anche l’eventuale presenza dei testimoni, dei fidefacienti, l’apposizione della formula di autentica “di seguito alle firme” e dell’impronta del sigillo, provvedendo altresì alla repertoriazione e registrazione dell’atto autenticato.
Ben diverso invece si presenta il ruolo dell'avvocato. Ai sensi dell'art. 2 dell'ordinamento della professione forense (l. 31 dicembre 2012, n. 247), ”L'avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza, svolge le attività di cui ai commi 5 e 6. L'avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti”. Inoltre, “L'esercizio dell'attività di avvocato deve essere fondato sull'autonomia e sull'indipendenza dell'azione professionale e del giudizio intellettuale”.
I requisiti dell'autonomia, indipendenza, libertà di giudizio dell'avvocato, imprescindibili mezzi di tutela delle libertà individuali e collettive, sarebbero del
tutto incompatibili con il penetrante sistema di controlli ad opera della Pubblica Amministrazione, cui invece è sottoposto il notaio quale pubblico ufficiale. L' ”autentica” dell'avvocato è qualcosa di estremamente diverso da quella di cui all'art. 2703 c.c.81.
Se non è un'autentica ex art. 2703 c.c., ovviamente non è nemmeno una “autentica amministrativa” ex art. 21 del d.P.R. n. 445/2000, perché il documento autenticato non è un' ”istanza o dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da produrre agli della pubblica amministrazione”, né il soggetto che la rilascia è un “notaio, cancelliere, segretario comunale,...dipendente addetto a ricevere la documentazione o altro dipendente incaricato dal Sindaco”, né il contenuto dell'autentica consiste in un atto in cui “il pubblico ufficiale, che autentica, attesta la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità del dichiarante, indicando le modalità di identificazione, la data e il luogo di autenticazione, il proprio nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché apponendo la propria firma e il timbro dell'ufficio”.
Dato indefettibile dell’autentica c.d. formale, quindi, è la necessità che le firme siano apposte in presenza del pubblico ufficiale, con la conseguenza che in difetto della certezza di tale circostanza, non essendo stato ciò documentato, si è in presenza di un’autentica “minore” o “vera di firma”.
81 MECENATE F., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 160-164.
L’autentica minore non ha una disciplina generale di riferimento, essendo richiamata di volta in volta da leggi speciali per specifiche esigenze, e per tali ragioni viene attribuita a soggetti non titolari di poteri certificativi (si pensi ad esempio alla girata dei titoli azionari, oppure all’accertamento dell’identità del sottoscrittore dell’originale del telegramma nei modi stabiliti dai regolamenti dell’amministrazione postale).
La “vera di firma” si caratterizza per una ridottissima attività certificativa del pubblico ufficiale, benché anche in questo tipo di autentica egli sia previamente tenuto ad identificare - per quanto in forma estremamente sintetica - il sottoscrittore e raccoglierne la firma alla sua presenza, essendo questi passaggi imprescindibili per ricondurre le dichiarazioni contenute nel documento al sottoscrittore. Del compimento di tali attività, però, non vi è alcuna traccia nella formula di “autenticazione”, né sussiste alcun obbligo di documentare.
La differenza tra i due tipi di autentiche, quindi, risiede nelle attestazioni che compie (o, nel caso della vera di firma, non compie) il pubblico ufficiale e che efficacemente la giurisprudenza ha posto in evidenza. Si è chiarito infatti che l’autenticazione di firma risultata apocrifa, in cui il notaio abbia attestato falsamente che la firma è stata apposta in sua presenza da persona da lui previamente identificata, integra il reato di falsità in atto pubblico originale (art. 479 c.p.), “in quanto il mendacio si estende a circostanza inerente l’attività del pubblico ufficiale (identificazione del sottoscrittore) e cade sotto la di lui diretta percezione (sottoscrizione in sua presenza)”.
Diverso, invece, è il caso di falsa attestazione della verità della firma nell’autentica cosiddetta minore, “in cui il notaio si limita a fare una dichiarazione personale di scienza, avente valore limitato (fede non privilegiata) che non presuppone le formalità dell’art. 2703 c.c., in questo caso se la firma o la data risultano false o non vere, il fatto integra il reato di cui all’art. 480 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati)”.
Ma la differenza tra autentica formale e autentica minore oltre che sul piano formale si registra anche su quello sostanziale.
Quando infatti è il notaio a redigere l’autentica formale, all’accentuato formalismo sopra illustrato corrispondono anche penetranti controlli sostanziali, stante la perfetta equiparazione tra atto pubblico e autentica formale, finalizzati al controllo di legalità sul contenuto del documento (che è invece assente nell’autentica minore). Il notaio infatti è obbligato in base al nuovo art 28 L.N. (modificato dalla legge n. 246/2005), a porre in essere quel controllo tutte le volte in cui è richiesto di documentare la conclusione di assetti negoziali, sicché il divieto di porre in essere atti contrari a norme imperative, ordine pubblico o buon costume riguarda sia atti ricevuti che autenticati. Rispetto all’attività notarile ciò denota in modo ancora più marcato la sostanziale fungibilità tra autentica formale e atto pubblico e l’assoluta diversità tra autentica formale e autentica minore.
Una ulteriore differenza tra le due autentiche è quella che attiene al sistema di conservazione degli atti da parte del notaio (non presente in altre professioni) e che fa comprende perché a seguito delle riforme attuate con le leggi n. 80/2005 e
263/2005, solo la scrittura privata autenticata da notaio riveste anche la qualità di titolo esecutivo (relativamente alle sole obbligazioni pecuniarie in essa contenute). Solo il notaio infatti, obbligato per legge a conservare nei suoi atti gli atti autenticati secondo quanto previsto dall’art. 72 L.N., potrebbe essere in grado di rispettare il precetto dell’art. 476 comma 1 in base al quale «non può spedirsi senza giusto motivo più di una copia in forma esecutiva alla stessa parte». Tali considerazioni portano ad escludere, quindi, che quella attribuita all’avvocato dal comma 51 della legge n. 76/2016, sia un potere di autentica equiparabile a quella del notaio, dovendosi invece ritenere che a tale professionista sia stato riconosciuto il potere di eseguire una c.d. “autentica minore”82.
Altra parte della dottrina non è concorde con la visione sopra esposta.
Viene infatti messo in evidenza che la cd. “autentica minore” o “vera di firma”, è pur sempre un atto amministrativo – certificativo, che consiste in una autentica, sia pure in forme ridotte e su atti non negoziali, prevista eccezionalmente da norme speciali come autenticazione semplificata. La falsità dell'attestazione è punita anche in questo caso a titolo di reato proprio di un pubblico ufficiale e, come è noto, l'avvocato è una figura professionale che non riveste tale qualifica.
L'autentica prevista dalla legge n. 76/2016 è dunque una scrittura privata che accede ad un'altra scrittura privata. Essa consiste in una asseverazione emessa da un privato, professionista iscritto a un albo. Appartiene al genere delle
82 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 5-7.
asseverazioni rilasciate dai soggetti abilitati, che la legge conosce e disciplina anche in altri ambiti (ad esempio per determinati interventi edilizi).
Ai fini della responsabilità penale la qualifica dell'avvocato asseverante potrà integrare quella di “privato esercente un servizio di pubblica necessità” (art. 481 c.p.), ma solo relativamente all'asseverazione della genuinità della firma; non certo in ordine alla “conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico”.
La scrittura privata, pur asseverata, è e resta una scrittura privata non autenticata.
L'asseverazione dell'avvocato contiene in primis un giudizio di corrispondenza, cioè di genuinità della firma, e in secondo luogo riguarda “la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico”, dunque il contenuto del contratto. Il contratto di convivenza (o modificativo o risolutivo) costituisce una particolare figura di dichiarazione, e precisamente una dichiarazione negoziale.
Nessun controllo amministrativo, da parte di alcuna Autorità Ministeriale, sarà chiamata a verificare la correttezza del libero convincimento dell'avvocato, la cui responsabilità rileverà solo sul piano del mero rapporto col cliente. Quest'aspetto non deve far sorgere il quesito “Quis custodiet ipsos custodes?” (cioè: chi controlla la congruità del controllo) perché l'attività dell'avvocato è, e deve restare, libera e indipendente. L'avvocato non avrà nemmeno il dovere di provvedere alla registrazione dell'atto, né la responsabilità verso l'Erario per il debito relativo.
Ciò non toglie, tuttavia, l'importanza dell'adempimento ai fini dell'iscrizione
della convenzione nei registri dell'anagrafe, cui le parti e gli ufficiali preposti faranno bene a porre la dovuta attenzione83.
In conclusione, la forma minima prescritta per i contratti in parola, idonea anche all’inserimento nell’anagrafe, è quella della scrittura privata “autenticata” (rectius: certificata come autentica) dall’avvocato nel senso sopra precisato, vale a dire la certificazione dell’autografia delle sottoscrizioni, a cui si accompagna anche l’attestazione da parte di questo professionista della conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico del contratto. Tale forma potrebbe però non essere sufficiente nell’ipotesi in cui il contenuto del contratto di convivenza risulti eventualmente arricchito da accordi negoziali patrimoniali da trascrivere nei registri immobiliari, essendo necessaria allora la forma autentica di provenienza notarile, rappresentata dall’autenticazione c.d. formale ex art. 2703 c.c. e 72 L.N. o addirittura l’atto pubblico con la presenza dei testimoni se il negozio da stipulare richieda tale forma solenne. In queste ultime ipotesi il notaio non sarà anche tenuto ad effettuare alcuna attestazione di conformità dell’accordo a norme imperative o all’ordine pubblico, chiamato ordinariamente a verificarne il rispetto per ogni atto negoziale per il quale è richiesto il suo intervento84.
83 MECENATE F., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 162-164.
84 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 9.
2.2 La registrazione della convivenza ai sensi del comma 37
La legge 20 maggio 2016, n. 76 ha dato una definizione giuridica alla convivenza di fatto e ne ha previsto la registrazione mediante dichiarazione resa all'ufficio anagrafico. E' sancito al comma 37 della legge in commento che: «ferma restando la sussistenza dei presupposti richiesti, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica» prevista dal d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 sulla tenuta dei registri della popolazione civile.
Il Legislatore ha tipizzato il contratto di convivenza per coloro che, avendo registrato la loro convivenza secondo quanto previsto dalla legge, hanno dato rilevanza giuridica al loro legame affettivo.
Bisogna ritenere, infatti, che i due requisiti pubblicitari relativi uno alla registrazione della stabile convivenza (comma 37) e l'altro alla iscrizione del contratto di convivenza (comma 52), abbiano entrambi valore costitutivo della fattispecie tipica del contratto di convivenza. L'inosservanza dell'uno o dell'altro esclude che si possa considerare sussistente la fattispecie medesima, dovendosi piuttosto restare nell'ambito della sfera dell'atipicità con tutte le conseguenze (anche disciplinari) che ne derivano.
Un esempio è la non applicabilità al contratto non iscritto del comma 61 sul recesso unilaterale: la norma del comma 61 rappresenta un'eccezione alla regola generale, e per la sua applicabilità necessita di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. Pertanto il contratto tra conviventi non potrà risolversi per recesso unilaterale, ma solo per accordo tra le parti ex art. 1372 c.c. La registrazione del contratto di convivenza ai sensi del comma 52 verrà trattata successivamente (Capitolo II, Sez. 2.3), in quanto attinente al regime pubblicitario e alla opponibilità ai terzi del contratto. Per il momento si tratterà la tematica della registrazione della stabile convivenza, in quanto attinente alla definizione generale di conviventi85.
La questione che va analizzata riguarda l'individuazione della convivenza di fatto ai fini dell'applicazione della legge in esame, e dunque anche della stipulazione del contratto di convivenza; il problema interpretativo di fondo è quello che attiene all'efficacia della prevista registrazione.
A differenza del matrimonio, che prevede quale momento costitutivo la celebrazione, nonché dell'unione civile, per la quale il Legislatore ha previsto quale presupposto costitutivo la dichiarazione all'ufficiale di stato civile e la conseguente registrazione nell'archivio dello stato civile, per le convivenze di fatto non è previsto alcun presupposto costitutivo di “registrazione”, ma solo gli obblighi già esistenti di natura anagrafica finalizzati alla formazione delle schede personali e di
85 GATT L., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, Torino, 2017, pag. 61.
quelle di famiglia (secondo i nuovi presupposti del comma 36) da cui sono tratti i certificati di residenza e i certificati cosiddetti di stato di famiglia86.
Il comma 37, prevedendo l’iscrizione all’anagrafe dei conviventi, pone il problema se a tale iscrizione debba riconoscersi carattere costitutivo della convivenza oppure se si tratti di un mero indice probatorio della sua esistenza87. Detto in altri termini, il problema che si prospetta è se possa aversi una “stabile convivenza” anche in mancanza della prevista dichiarazione, e in caso, se il relativo accertamento possa desumersi aliunde.
L'accertamento della convivenza di fatto, ai sensi della definizione data nel comma 36, richiede la presenza di “una coppia di persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assistenza materiale e morale, che siano di libero stato e non vincolate reciprocamente da rapporti di parentela, affinità o adozione”. Nel comma 37 la legge qualifica tali elementi nel loro insieme come “presupposti”, e molti dei primi commenti vi leggono una corretta distinzione tra requisiti positivi (che si possono sintetizzare nella “stabile unione”) e requisiti negativi, consistenti nell'assenza di vincoli familiari, ricalcati sulla falsariga degli impedimenti matrimoniali. Volendo essere più precisi, sarebbe preferibile parlare di “requisiti della fattispecie” per quelli cdd. negativi, e di “indici di riconoscibilità del fenomeno” per quelli positivi, se non altro perché i
86 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, Milano, 2016, pag. 137.
87 XXXXX X., Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in
xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2016, pag. 3.
primi si caratterizzano per la loro definita rigidità, mentre i secondi per una connaturata flessibilità nel loro contenuto e nel relativo accertamento88.
Al riguardo già si delinea un diverso apprezzamento nei primi commenti alla legge.
Chi propende per il valore sostanziale della dichiarazione sottolinea l'esigenza di salvaguardare la libertà dei singoli e richiede perciò che essa sia resa da entrambi. Alcuni parlano di “dichiarazione negoziale” vera e propria; altri propongono un concetto più sfumato di “dichiarazione programmatica”, ma la sostanza non cambia: se pur deve riconoscersi che, ove sia resa da entrambi, la dichiarazione possa assumere una limitata “valenza programmatica”, è certo che questa non ammette “motivi” o qualificazioni che valgano a darle una qualche coloritura (in mancanza di talune, specifiche circostanze).
Né si discosta molto chi, pur riservando alla stabilità del rapporto il ruolo di elemento costitutivo della fattispecie, ritiene tuttavia tale dichiarazione imprescindibile, vista l'impossibilità (o divieto) di darne prova altrimenti.
A sostegno di questa tesi è stato evidenziato che l'individuazione dell'inizio della convivenza è indispensabile per sostenere che essa esiste, e che il richiamo di legge viene operato in relazione ad una norma non solo di contenuto cronologico, ma anche sostanziale. A ciò deve aggiungersi che l'iscrizione anagrafica non è opzionale, bensì obbligatoria, per una convivenza “stabile” quale quella ipotizzata
88 PARADISO M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, Torino, 2017, pag. 478.
dalla norma, e di conseguenza non vi potrebbe essere una convivenza di tale tipo priva di iscrizione. Se si accoglie questa interpretazione, l'iscrizione anagrafica risulta essere l'elemento decisivo, nella ricorrenza degli altri requisiti richiesti, per individuare le coppie cui applicare il nuovo regime dalla legge89.
La registrazione viene assunta come elemento e presupposto oggettivo la cui sussistenza, in forza dei richiami al regolamento anagrafico (anche se non completamente pertinenti, v. Capitolo II, Sez. 2.3), dovrà essere accertata dall’ufficiale dell'anagrafe, in base agli stessi principi che disciplinano la famiglia anagrafica e le dichiarazioni anagrafiche. Gli elementi soggettivi sono invece condizionanti, nel senso che in mancanza degli stessi non può costituirsi convivenza di fatto a norma della legge 76/2016 e sono rimessi esclusivamente alla dichiarazione delle parti, non potendosi effettuare alcun tipo di accertamento: la dichiarazione della stabilità dell’unione e dei legami di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale dovrà essere resa personalmente e congiuntamente dalla parti, al fine di richiedere la registrazione come convivenza di fatto. Alla dichiarazione anagrafica dovrà seguire l’accertamento dell’ufficiale di anagrafe sulla sussistenza dei requisiti oggettivi, cioè sulla mancanza dei rapporti di parentela, matrimonio o unione civile, in base alla documentazione presentata dagli interessati o acquisita o esistente presso l’ufficio, e l’accertamento della
89 DE FILIPPIS B., Unioni civili e contratti di convivenza, Milano, 2016, pag. 254-255.
convivenza all’indirizzo dichiarato dagli interessati, come avviene per qualsiasi altra iscrizione anagrafica.
Nulla vieta che la registrazione di una convivenza di fatto possa avvenire all’interno di una famiglia anagrafica già esistente, in quanto la convivenza di fatto si riferisce solo ed esclusivamente alla coppia unita dai legami indicati dalla legge: volendo fare un esempio, in una famiglia anagrafica composta da intestatario scheda, moglie, figlio, compagna del figlio, questi ultimi due potranno chiedere la registrazione della loro convivenza di fatto, che non cambierà i rapporti esistenti con gli altri componenti della famiglia, ma consentirà il rilascio di una specifica certificazione di “convivenza di fatto”. E' evidente, quindi, che anche all’interno di una famiglia anagrafica composta da più di due persone, può esserci una coppia di conviventi di fatto, legati non da vincoli di parentela, affinità, adozione, tutela o da semplici vincoli affettivi, ma uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale.
Se si aderisce all’opinione secondo cui l’iscrizione all’anagrafe presenta carattere costitutivo della convivenza, tutta la nuova disciplina acquista il carattere di un regime opzionale, che trova applicazione a seguito di una dichiarazione di volontà degli interessati: la suddetta iscrizione90.
Inoltre, accogliendo questa tesi, si dovrebbe ammettere l'esistenza di due forme di convivenza: quelle “registrate”, alle quali si applica la nuova legge, e
quelle “non registrate”, prive di una tutela specifica. In questo modo la legge non avrebbe alcun reale significato innovativo, ma anzi avrebbe introdotto il modo di eludere le garanzie finora riconosciute dalla giurisprudenza e da molte disposizioni che già assicurano diritti ai conviventi91.
La consapevolezza delle conseguenze del significato da attribuire all’art. 1, comma 37, aiuta nella sua interpretazione. Il problema non è soltanto quello di attribuire certezza ad una situazione attraverso un atto formale: si tratta, in primo luogo, di individuare il corretto significato della nuova disciplina, riconoscendo la natura di regime opzionale rispetto al matrimonio, oppure quello di normativa di tutela che prescinde da un atto di volontà (indispensabile nel caso del matrimonio e dei PACS) e trova applicazione sulla base del fatto (convivenza)92.
Senza dubbio l'asserita necessità della resa della dichiarazione da parte di entrambi i conviventi mal si concilia con lo specifico richiamo fatto alla disposizione del regolamento anagrafico, che prevede la sola dichiarazione del responsabile delle dichiarazioni anagrafiche (l'art. 13, comma 1, lett. b) del regolamento anagrafico (d.P.R. n. 223/1989). Ma soprattutto, l'asserito valore costitutivo della registrazione si pone in contrasto con la finalità della legge di apprestare una tutela solidaristica alla parte debole del rapporto della convivenza di fatto, in quanto è evidente che tale esigenza si impone a prescindere dalla
91 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 137-140.
formalità della registrazione93. La preoccupazione di salvaguardare la libertà dei singoli è sicuramente apprezzabile, ma tali impostazioni confliggono sia col tenore sociale della disposizione, sia con la ratio complessiva sottesa alla scelta di politica legislativa94.
Tali considerazioni comportano che l'unica interpretazione possibile è quella di ritenere che la legge troverà applicazione per tutte le convivenze stabili rientranti nella definizione del comma 36 ancorché non iscritte all'anagrafe. L'iscrizione anagrafica costituisce solo prova certa della convivenza95.
Questa interpretazione risulta maggiormente ancorata al contenuto letterale della norma e deve essere preferita, con la conseguenza che, ove vi sia una coppia in possesso dei requisiti descritti, ad essa si applica la nuova normativa anche in mancanza di registrazione anagrafica.
Le schede individuali e le schede di famiglia costituiscono un solo elemento di prova della convivenza e della sua durata. Ne è indizio certo il fatto che altrimenti il Legislatore avrebbe previsto un sistema di registrazione presso gli uffici dello stato civile, e non avrebbe invece richiamato il vigente meccanismo di obbligatoria iscrizione anagrafica della popolazione residente dove in ogni caso gli adempimenti costituiscono sempre un obbligo dell'interessato e del comune (art. 3
93 BIANCA C. M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, Torino, 2017, pag. 470.
94 PARADISO M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 488-491.
95 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 137-140.
l. 24 dicembre 1954, n. 1228, Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente).
Se il Legislatore avesse inteso attribuire alle certificazioni anagrafiche richiamate nel comma 37 il valore di una “registrazione” costitutiva avrebbe dovuto esplicitarlo. Quindi non cambia nulla rispetto al passato: la legge non istituisce un obbligo di “registrazione” costitutiva della convivenza, ma conferma la disciplina delle dichiarazioni da rendere all'ufficio dell'anagrafe.
La mancata iscrizione crea comunque problemi nel momento in cui sia necessario provare e documentare lo stato della coppia, divenendo inapplicabile la normativa che prevede il rilascio di certificazioni. E' opportuno osservare che ai fini della prova della convivenza di fatto potrebbe certamente essere sufficiente la sola dichiarazione di residenza nella stessa abitazione, ma sarebbe sicuramente più consistente la prova che deriva dalla certificazione di stato di famiglia e quindi della dichiarazione di aver costituito una nuova famiglia, sia pure formata da conviventi. La nuova legge troverà comunque applicazione anche per quei conviventi che non dovessero aver effettuato nessuna delle dichiarazioni anagrafiche, anche se naturalmente sarà molto più ardua la prova della convivenza ove sorgessero conflitti.
Le dichiarazioni da effettuare all'anagrafe sono un obbligo degli interessati (art. 3 l. 24 dicembre 1954, n. 1228), potendo peraltro l'anagrafe provvedervi d'ufficio ove gli interessati non la effettuino.
L'ufficio anagrafico non ha il potere sostitutivo di formare una scheda di famiglia per i conviventi che non effettuino la dichiarazione (a differenza di quanto avviene per la famiglia che si forma con il matrimonio). L'ufficio anagrafico potrà formare la scheda individuale di residenza e quella di famiglia matrimoniale, ma non certo quella di famiglia tra “conviventi di fatto” che evidentemente, per il tipo di dichiarazione (che presuppone l'esistenza di vincoli affettivi), è possibile soltanto per gli interessati96.
Tale lettura della norma trova supporto sia nella circolare del Ministero dell'Interno n. 7 del 1 Giugno 2016 (a tenore della quale “L'iscrizione delle convivenze di fatto dovrà essere eseguita secondo le procedure già previste... dagli art. 4 e 13, D.P.R. n. 223/1989, come espressamente richiamati dal comma 37 dell'art. 1 della legge 76/2016”), sia, per quanto possa occorrere, nel parere dello stesso Ministero del 6 Febbraio 2017, ove si ribadisce che le risultanze anagrafiche sono “espressamente finalizzate all'accertamento della stabile convivenza e non già alla sua costituzione”. Sembra evidente che gli atti ministeriali confermino il riferimento alla tipologia di dichiarazioni già prevista in via generale per la redazione dei registri anagrafici, che non consente specificazioni o precisazioni oltre a quelle già previste dalla legge97.
96 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 137-140.
97 PARADISO M., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 488-491.
Se si segue la seconda tesi, largamente prevalente in dottrina98, e già accolta in giurisprudenza99, la disciplina non rappresenta un regime opzionale, bensì una normativa di tutela da applicare quando sussistono i presupposti indicati100.
Nella direzione suddetta si è posta anche una recente pronuncia di merito101, la quale, attribuendo alla convivenza natura “fattuale”, in ragione della circostanza che essa si traduce “in una formazione sociale non esternata dai partner a mezzo di un vincolo civile formale”, ha qualificato la dichiarazione anagrafica come “strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo”, traendo conferma di ciò proprio dal comma 36, introduttivo di una definizione normativa “scevra da ogni riferimento ad adempimenti formali”; tanto è vero che l’anzidetta dichiarazione è richiesta dalla l. n. 76/2016 “per l’accertamento della stabile convivenza”, e cioè “per la verifica di uno dei requisiti costitutivi ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale”102.
“In altri termini - afferma il Tribunale di Milano - il convivere è un “fatto” giuridicamente rilevante da cui discendono effetti giuridici ora oggetto di
98 TRIMARCHI M., Unioni civili e convivenze, in IPSOA Famiglia e diritto, 2016, pag. 866; XXXXX M., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, pag. 189.
99 Vedi nota 101.
100 XXXXX X., Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, op. cit., pag. 3.
101 Trib. Milano, sentenza 31 maggio 2016, pronunciandosi nell’ambito di un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., promosso dalla madre di un nascituro, concepito fuori dal matrimonio, al fine di accedere al materiale biologico del preteso padre per utilizzarlo nell’instaurando giudizio avente ad oggetto l’accertamento della paternità ex art. 269 c.c. Nella fattispecie il Tribunale ha ritenuto provata l’esistenza di una convivenza di fatto tra la ricorrente e il preteso padre del nascituro, deceduto qualche mese prima, in virtù del fatto che la coppia avesse già avuto due figli, circostanza ritenuta di per se stessa sintomatica “di un habitat familiare formatosi al di fuori di un vincolo matrimoniale”. Nella pronuncia si legge anche che: “La prova si ricava, comunque, anche dal certificato anagrafico in atti che attesta lo stato di famiglia, nel periodo in cui si è realizzata la morte del (…)”.
102 BALESTRA L., Unioni civili, convivenze di fatto e modelli matrimoniali, prime riflessioni, in
Giurisprudenza Italiana, Utet Giuridica Editore, 2/2017, pag. 2.
regolamentazione normativa”. Tant’è che la dichiarazione anagrafica è richiesta dalla legge 76 del 2016 «per l’accertamento della stabile convivenza», quanto a dire per la verifica di uno dei requisiti costitutivi ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale. In pratica, con queste considerazioni intese a supportare la decisione sul singolo caso relativo a due conviventi non sposati e di cui uno addirittura già deceduto e nemmeno di stato libero, ma solo legalmente separato, il giudice ha continuato ad applicare principi consolidati da tempo, anche dopo l’approvazione di una apposita legge considerata semplicemente regolatrice di un istituto famigliare già esistente.
Tale sentenza non è stata esente da critiche. Gli ufficiali d’anagrafe devono applicare la legge sulla base di una rigorosa interpretazione letterale, senza alcuna possibilità, nel caso si tratti di adottare provvedimenti che attengano a diritti soggettivi, di usufruire di alcuna discrezionalità decisionale; inoltre, come tutti gli organi della pubblica amministrazione, devono dare attuazione alle decisioni dei giudici, che però riguardano il singolo caso sottoposto al loro giudizio, anche qualora la decisione si discostasse da quanto previsto dalla norma di carattere generale103.
In sostanza, si ritiene che la convivenza stabile sia un elemento imprescindibile per la registrazione della convivenza di fatto: naturalmente
103 MINARDI R., Le convivenze di fatto. Profili giuridici di un istituto nuovo per l'anagrafe ma non per la Giurisprudenza. Prima parte, in I servizi demografici, 2017, pag. 1-2.
l’autorità giudiziaria potrà decidere diversamente il singolo caso, ma questo non fa venire meno gli obblighi e gli adempimenti dell’ufficiale di anagrafe104.
Tali considerazioni non sono valse tuttavia a far mutare opinione alla maggioranza della dottrina.
Quanto alla giurisprudenza, è presumibile ritenere che continuerà ad applicare quelle regole, che sono il frutto di un lavoro costante e stratificato nel tempo e che lo stesso Legislatore ha recepito in molti commi della nuova legge, anche per le convivenze non dichiarate: ciò in perfetta armonia con la giurisprudenza della Corte EDU105, per la quale “l’esistenza di un’unione stabile è indipendente dalla convivenza”, almeno se intesa in senso rigidamente formalistico, essendo oggi normale, per qualsiasi coppia, vivere la propria relazione anche “a distanza … per motivi professionali o di altro tipo”106.
2.3 La pubblicità del contratto di convivenza e l'opponibilità ai terzi
Ai sensi del comma 52 «Ai fini dell'opponibilità si terzi, il professionista che
104 CALVIGLIONI R., La costituzione e registrazione dell’unione civile e l’accertamento della convivenza di fatto: certificati dello stato civile e dell’anagrafe e opponibilità ai terzi, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx. 105 Corte EDU, Grande Camera, ric. 29381/09 e 32684/09, Xxxxxxxxxxx e altri c. Grecia, 7 novembre 2013. 106 PACIA R., Unioni civili e convivenze, in Jus civile, 2016, pag. 204.
ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223».
Non vi sono dubbi, dato il tenore della norma, che la pubblicità del contratto di convivenza, della modifica del regime patrimoniale, dell'accordo risolutivo e del recesso unilaterale sia una pubblicità dichiarativa, avente come obbiettivo quello di rendere opponibile ai terzi i fatti di cui è prevista la pubblicità.
Anche il contratto di convivenza è soggetto alla norma fondamentale di cui all'art. 1372 c.c. : ”Il contratto ha forza di legge tra le parti... non produce effetti rispetto ai terzi se non nei casi previsti dalla legge”. Secondo il comma 53 della legge in commento, il contenuto tipico del contratto di convivenza è costituito soltanto da tre elementi (residenza, modalità di contribuzione, scelta del regime di comunione). Ulteriori elementi, per quanto ammissibili (stante il principio dell'autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c.), non potrebbero essere assoggettati a pubblicità con lo stesso effetto dichiarativo di cui al comma 52, che è senza dubbio una norma speciale, dunque non estendibile ad altri ambiti oltre a quelli determinati dalla legge.
Del resto, qualora il contratto di convivenza contenga elementi soggetti ad altre forme di pubblicità (ad esempio, presso i Registri Immobiliari), sarebbe necessario eseguire gli adempimenti propri della pubblicità disposta a tali altri fini.
Quanto agli elementi tipici, si osserva che il primo, la residenza, ha già un suo regime di opponibilità in virtù degli artt. 41 c.c e 31 disp. att. c.c., riconnesso proprio al fatto di essere stato “denunciato nei modi prescritti dalla legge”. Con tale disposizione la legge in commento si inserisce in modo armonico nel sistema preesistente.
Il secondo elemento, cioè “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”, probabilmente avrà una importanza piuttosto residuale.
Il terzo elemento invece è destinato ad avere una importanza più elevata, essendo costituito dalla scelta (in questo caso opzionale) del regime patrimoniale della comunione dei beni. Questo, richiamato in toto, comporta effetti assai rilevanti verso i terzi, perché introduce, anche per chi non fosse sposato ma semplicemente convivente, il regime dell'amministrazione comune, con le conseguenze di cui all'art. 184 c.c. (annullabilità dell'atto) per gli atti di straordinaria amministrazione concernenti gli immobili o i mobili registrati; introduce un regime particolare per le obbligazioni dei conviventi, quale quello disciplinato dagli artt. 186, 189, 190 c.c.
E' ben vero che l'importanza di questa pubblicità comporterà oneri ulteriori per i terzi, perché li costringerà a verifiche presso l'Ufficio dell'Anagrafe anche nei confronti di chi non fosse coniugato107.
107 MECENATE F., in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, op. cit., pag. 170-172.
2.3.1 Le modalità di iscrizione e la circolare ministeriale n. 7 del 1 giugno 2016
Ai fini dell’opponibilità, il legislatore si limita a prevedere l’obbligo del libero professionista di trasmettere al comune di residenza dei conviventi, entro dieci giorni, copia del contratto, “per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7” del d. P. R. 223/1989.
Sorgono dubbi sulla perentorietà di tale termine di dieci giorni per la trasmissione dell'atto al Comune di residenza dei conviventi: in ogni caso, avendo la legge imposto al professionista tale onere, è bene rispettarne la decorrenza, in ragione del giusto adempimento del mandato ricevuto. Il professionista, in ogni caso, risponderà degli eventuali danni causati nei confronti delle parti e dei terzi sul piano civile e deontologico108.
Ora, secondo la dottrina, l’indicazione dell’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli artt. citt. è un richiamo normativo palesemente errato, non sembrando possedere alcun senso compiuto. Le disposizioni in tema di anagrafe, a differenza di quelle (rectius: di taluni profili di quelle) in tema di stato civile, hanno esclusivamente ad oggetto le persone, non certo i contratti109.
108 GASSANI G. E., in AA. VV., La tutela del convivente dopo la legge sulle unioni civili, Milano, 2016, pag. 138.
109 BUFFONE G., in AA. VV., Unione civile e convivenza, commento alla legge 76/2016, Milano, 2017, pag. 502; CALVIGLIONI R., Costituzione e registrazione dell'unione civile e accertamento della convivenza di fatto: certificati dello stato civile e dell'anagrafe e opponibilità ai terzi, in
Secondo alcuni l’infelice formulazione della norma deriverebbe da un progetto elaborato in sede notarile nel 2011, ma trascura di considerare che in quel progetto, da un lato, si prevedeva la possibilità di scegliere un regime di comunione ordinaria, non legale; dall’altro, si stabiliva, per l’opponibilità ai terzi, l’istituzione di un “Registro nazionale dei patti di convivenza”, che nella legge in commento è assente110.
Il Legislatore sbaglia il riferimento all'art. 5 del regolamento anagrafico, in quanto il riferimento corretto è all'art. 4. E' infatti l'art. 4 che si occupa dell'iscrizione anagrafica della “famiglia” (art. 4 Famiglia Anagrafica “1. Agli effetti anagrafici per famiglia di intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona”), mentre l'art. 5 fa riferimento alla “convivenza anagrafica” intendendo però riferirsi a una cosa diversa (“Agli effetti anagrafici per convivenza si intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune. 2. Le persone addette alla convivenza per ragioni di impiego
xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx; DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 194; XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 9-10; XXXXXXX X., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, Torino, 2017, pag. 646; OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag 6; QUADRI E., “Convivenze” e “contratto di convivenza”, in Ius Civile, 2/2017, pag. 121; XXXXX R., Unioni civili e convivenze, op. cit., pag. 211.
110 XXXXXXX F., in AA. VV., Le unioni civili e le convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag.
646; XXXXX R., Unioni civili e convivenza, in Ius Civile, op. cit., pag 211.
o di lavoro, se vi convivono abitualmente, sono considerate membri della convivenza, purché non costituiscano famiglie a sé stanti. 3. Le persone ospitate anche abitualmente in alberghi, locande, pensioni e simili non costituiscono convivenza anagrafica”).
Tra la definizione di “famiglia anagrafica” (famiglia matrimoniale, unioni civili e convivenze di fatto) e la definizione di “convivenza anagrafica” (comunità residenziali) non vi è, insomma, alcuna possibile assimilazione.
Pertanto il contratto di convivenza va registrato nella scheda di famiglia prevista nell'art. 4 (e non nell'art. 5) del regolamento anagrafico, anche se nella circolare ministeriale del 1 giugno 2016 è prevista l'iscrizione anche nelle schede individuali delle parti.
Potrebbe quindi accadere che i conviventi di fatto, venendo meno agli obblighi previsti dall'ordinamento anagrafico, possano non aver proceduto alla loro iscrizione all'anagrafe della popolazione residente sia come individui, sia come famiglia.
E' assolutamente necessario quindi che il professionista, prima della redazione e della sottoscrizione del contratto di convivenza, si adoperi affinché le parti provvedano agli adempimenti eventualmente non assolti di iscrizione della convivenza all'anagrafe. Tutto ciò per facilitare l'annotazione del contratto di convivenza nella scheda anagrafica di famiglia degli interessati. Il contratto di convivenza quindi, con le modalità che i decreti legislativi delegati indicheranno, dovrà essere semplicemente annotato a margine della scheda di famiglia, non
appena trasmesso, ai fini della opponibilità ai terzi.
In difetto, gli uffici anagrafici che ricevessero un contratto di convivenza non potrebbero procedere all'annotazione non potendo provvedere d'ufficio alla formazione della scheda di famiglia, non avendo alcun potere sostitutivo per ciò che riguarda l'indicazione che due conviventi siano tra loro uniti da vincoli affettivi con i requisiti di cui al comma 36.
Per quanto riguarda la natura di tale adempimento formale, il comma 52 parla di “iscrizione” del contratto: meglio avrebbe potuto dire “trascrizione”, dal momento che l'ufficiale dell'anagrafe cura un adempimento di un atto formato da altri e non da lui stesso. D'altronde anche il termine “trascrizione” avrebbe potuto creare confusione. Si tratta, in sostanza, di un adempimento simile all'annotazione delle convenzioni matrimoniali, che tuttavia in questo caso si accompagna anche alla conservazione del contratto da parte dell'ufficio anagrafico.
In base a quanto poi dispone l'art. 35 del regolamento anagrafico (che si occupa del “Contenuto dei certificati anagrafici”), l'esistenza del contratto di convivenza dovrà essere indicata nei certificati rilasciati all'anagrafe in modo che gli interessati avanti causa dai conviventi possano conoscere l'esistenza del contratto ed eventualmente accedere al loro contenuto visionando l'atto o richiedendone alle parti una copia. E' evidente che questa normativa andrà integrata a seguito della nuova legge con le indicazioni operative da parte del Ministero dell'Interno, cui sono devoluti dal regolamento anagrafico i compiti di organizzazione del sistema stesso.
Il Ministero dell'Interno, con l'intenzione di dare qualche prima indicazione agli uffici anagrafici per la corretta applicazione della legge, ha emanato la circolare n. 7 il 1 giugno 2016.
Quanto all'iscrizione anagrafica delle convivenze di fatto, la circolare si limita a richiamare il comma 37, ricordando che esse devono essere effettuate secondo quanto già previsto per tutte le persone residenti nel comune dall'art. 4 e dall'art. 13 del regolamento anagrafico.
In ordine alla registrazione all'anagrafe dei contratti di convivenza, nonostante la circolare provenga dalla Direzione Centrale dei Servizi Demografici, contiene un grave strafalcione in quanto, sintetizzando il contenuto del comma 52, non si avvede del clamoroso errore in cui è caduto anche il Legislatore, richiamando l'art. 5 e non l'art. 4.
La circolare, inoltre, non indica nemmeno in che modo dovrebbe avvenire la completa registrazione del contratto di convivenza, dal momento che non ne viene approfondita la praticabilità. Non è sufficiente affermare che il contratto va registrato “nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali” e che gli uffici anagrafici devono “assicurare la conservazione agli atti dell'ufficio della copia del contratto”. Il problema, infatti, rimane come garantire che il contenuto del contratto possa essere opponibile ai terzi. In assenza di altre indicazioni i terzi dovranno richiedere una copia del contratto ai contraenti ovvero all'ufficio dell'anagrafe per esaminarne il contenuto.
La circolare ministeriale non risolve tale problema, dando soltanto
l'indicazione di “assicurare la conservazione agli atti dell'ufficio della copia del contratto”, ma questa indicazione invero non risolve il problema del meccanismo di opponibilità ai terzi, sui quali graverà in ogni caso l'onere di esaminare gli atti archiviati in anagrafe111.
2.3.2 La mancata attuazione del regime pubblicitario
Il sistema pubblicitario apprestato dalla legge n. 76/2016 per la pubblicità dei contratti di convivenza è senz’altro inadeguato, e credo che difficilmente si possa dissentire da questa affermazione.
A parte l’erroneo richiamo all’art. 5, concernente non la “famiglia anagrafica” (contemplata nell’art. 4), ma le “convivenze anagrafiche” (quelle, cioè, costituite per motivi religiosi, di cura, di pena e simili), l’art. 1 della L. 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente), dopo aver detto che “nell’anagrafe sono registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze”, prosegue affermando che “gli atti anagrafici sono atti pubblici”.
Da questa disposizione si comprende come per stabilire se l’iscrizione nei registri anagrafici dei contratti di convivenza possa o meno produrne l’
111 DOSI G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, commento alla legge 76/2016, op. cit., pag. 194-199.
“opponibilità” ai terzi, non debba essere solo considerata l’estraneità di questi contratti e del loro contenuto dal novero delle informazioni registrabili nell’Anagrafe (destinataria delle informazioni sulle persone e non sui contratti), ma debba essere anche verificata quale sia la rilevanza giuridica delle risultanze anagrafiche e delle certificazioni rilasciate dagli ufficiali anagrafici.
Ai fini che qui interessano, sancire che gli atti anagrafici sono “atti pubblici”, in realtà, non chiarisce - se non che si tratta di atti accessibili al pubblico - se alle registrazioni anagrafiche possa essere riconosciuta l’efficacia di atti facenti fede fino a prova contraria. È infatti di fondamentale importanza che il notaio o chiunque si debba approvvigionare di informazioni certe ed affidabili, lo possa fare consultando un sistema pubblicitario in grado di fornire certezze legali sugli atti destinati alla conoscibilità mediante quel sistema.
Questo perché il notaio in particolare, quando è chiamato a ricevere atti negoziali, anche non dispositivi, di beni di proprietà dei conviventi, crea atti fidefacienti destinati a loro volta ad essere inseriti in un sistema di pubblicità, alimentato solo da atti produttivi di certezze legali (i registri immobiliari o quelli di stato civile).
L’intervento del notaio nei rapporti patrimoniali tra conviventi, in sostanza, segna un passaggio fondamentale, perché immette sul binario delle certezze legali una categoria di rapporti che fino a quel momento potevano contare solo su un sistema di pubblicità notiziale o informativa.
Questa infatti è la natura della pubblicità attuata nell’anagrafe, dal momento che le informazioni contenute nelle rispettive schede, secondo quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, danno luogo a semplici presunzioni, superabili con prove contrarie senza che sia necessario ricorrere alla querela di falso o ad altri specifici procedimenti giudiziari, come invece per lo stato civile.
Gli atti compiuti dall’ufficiale di anagrafe, infatti, non sono né “certazioni”, con le quali si crea una realtà nuova, prima inesistente, attribuendosi una qualità giuridica (es. il certificato di sana e robusta costituzione), né “accertamenti”, caratterizzati da una o più verifiche circa l’esistenza di qualità o di modi di essere tecnici di cose e persone e che si concludono con un giudizio valutativo. Sono invece semplici trascrizioni di dichiarazioni altrui (rese da soggetti privati o da ufficiali di stato civile), rispetto alle quali è sempre possibile dimostrare l’esistenza di una realtà diversa.
Da qui la ridotta efficacia probatoria delle risultanze anagrafiche che, inevitabilmente, si riflette sulle certificazioni rilasciate dall’ufficiale competente. Queste, deve essere ricordato, sono l’unico strumento per il notaio di conoscere gli atti conservati presso l’anagrafe, se si considera quanto disposto dall’art. 37 del
D.P.R. n. 223 del 1989, in base al quale “è vietato alle persone estranee all’ufficio di anagrafe l’accesso all’ufficio stesso e quindi la consultazione diretta degli atti anagrafici”. Il notaio dunque non può ispezionare gli atti che si trovano presso l’anagrafe, diversamente da altri registri pubblici presso i quali ha accesso.
Quanto agli effetti delle certificazioni rilasciate dall’ufficiale di anagrafe, deve essere richiamata la distinzione - pacifica in dottrina - tra certificazioni in senso proprio ed improprio, ed in cui solo le prime sono produttive di certezza legale.
La certificazione in senso proprio consiste nella trascrizione integrale o parziale di un preesistente atto di certezza, risultante da registri pubblici o equiparati, e volto a mettere in circolazione e a disposizione di chiunque quella certezza. Fungendo il certificato da veicolo della certezza che si rinviene altrove, le certificazioni proprie devono essere assunte da ogni operatore giuridico esprimendo l’”unica rappresentazione possibile della realtà”.
Gli atti di certezza legale, incidendo profondamente sull’autonomia privata e sulle libertà costituzionali, sono rigorosamente e tassativamente disciplinati dalla legge.
Completamente diverse, invece, sono le certificazioni improprie, nelle quali è assente la riproduzione documentale di certezze precostituite. In questa categoria si raggruppano tutti quegli atti che costituiscono il risultato di un’attività di accertamento e di valutazione, compiuta volta per volta e prima della loro emanazione, da pubbliche autorità o da “altri soggetti equiparati” nell’esercizio delle proprie competenze.
Le certificazioni improprie quindi sono atti contenenti giudizi, indagini, analisi compiute dal soggetto emittente e che esprimono “dichiarazioni di scienza”, non idonee a creare certezze legali ed ammettendosi pertanto contro di esse prova
contraria. Esse costituiscono certezze informative o notiziali, ponendosi come un’indicazione, una guida, la cui fondatezza può essere sempre disattesa. Sulla base di quanto detto sulla ridotta efficacia probatoria delle registrazioni anagrafiche, è evidente che la certificazione delle stesse, che altro non è se non una attestazione della loro esistenza riprodotta in un documento, produce effetti giuridici della stessa intensità e quindi non può essere considerata una certificazione propria.
Tale è d’altra parte l’orientamento della giurisprudenza, che ha infatti ritenuto che i certificati rilasciati dagli uffici anagrafici comunali, se costituiscono prova delle risultanze dei relativi registri (e cioè che all’interno di una determinata scheda anagrafica risultino determinate informazioni), non valgono però a dimostrare la corrispondenza di quelle risultanze alla reale situazione di fatto. Le risultanze dei certificati anagrafici costituiscono pertanto null’altro che semplici presunzioni, che possono essere superate con prove contrarie. Xxx si guardi alle convivenze di fatto, tale conclusione appare in tutta la sua verità.
Le iscrizioni delle dichiarazioni anagrafiche non hanno l’efficacia di acclarare con efficacia preclusiva la situazione di fatto dichiarata rispetto a determinati soggetti. Proprio perché di fatto e non formalizzata, la convivenza potrebbe venire meno e ciò non risultare dall’anagrafe qualora la relativa dichiarazione non sia avvenuta.
Al contrario, le risultanze dei registri dello stato civile da questi formalmente risultanti, costituiscono certezze legali relativamente allo status familiare di
determinati soggetti, anche se a chi consulta quei registri risulti incontrovertibilmente uno status reale diverso. Pertanto tali certezze legali, finché non siano rimosse con appositi procedimenti previsti dall’ordinamento, si impongono a chiunque come l’unica rappresentazione possibile, e pertanto in questo modo la verità legale si impone alla verità reale.
Se per i dati che tradizionalmente sono inseriti nei registri anagrafici, le relative certificazioni non costituiscono fonte di certezza legale, a maggior ragione occorre pervenire alla stessa conclusione per quelle informazioni non contemplate dalla legge del 1954 - come i contratti di convivenza e il loro contenuto - che dopo la legge 76/2016 arricchiscono la scheda anagrafica e delle quali pure l’ufficiale di anagrafe andrebbe a dare contezza nella certificazione rilasciata.
Questo vale per l’esistenza del contratto di convivenza, la cui certificazione varrà nei limiti sopra detti; per cui un eventuale scioglimento della convivenza per mutuo dissenso, non dichiarata dalle parti o - si noti - non denunciata dal professionista perché non tenuto a farlo (cfr. comma 61), renderà vana la certificazione dell’esistenza del contratto che, per l’effetto, risulterà a sua volta sciolto. Ma varrà, a fortiori, per la certificazione del contenuto del contratto da parte dell’ufficiale di anagrafe, rispetto al quale quest’ultimo effettuerà una vera e propria valutazione giuridica sul contenuto del contratto di convivenza, quindi sulle lettere b) e c) del comma 53, ma soprattutto sul comma 54, vale a dire sulle modifiche del regime patrimoniale scelto.
Sotto questo profilo, quindi, la certificazione emessa è senz’altro impropria.
C’è tuttavia un altro aspetto che rende la pubblicità in esame piuttosto inefficace, ed è rappresentato dalla circostanza che la certificazione dell’ufficiale di anagrafe potrebbe basarsi su una copia (cfr. comma 52) non conforme del contratto di convivenza. Questa scelta del legislatore corrisponde a quanto stabilito dalla legislazione anagrafica, che per la forma delle dichiarazioni da inserire nello schedario anagrafico prevede la semplice scrittura privata.
Nell’ipotesi in cui la copia del contratto di convivenza sia stata effettuata dall’avvocato, che lo abbia redatto in conformità al comma 51, questa è certamente copia non conforme all’originale secondo quanto prescritto dal codice civile e dal TU sulla documentazione amministrativa, non essendo l’avvocato né «depositario pubblico autorizzato» (artt. 2714 e ss. c.c.), né «pubblico ufficiale dal quale è stato emesso o presso il quale è depositato l’originale» (art. 18 D.P.R. 445/2000).
Pertanto ad eccezione dell’ipotesi in cui la copia depositata sia di provenienza notarile ovvero, seguendo un’interpretazione evolutiva del comma 51, prodotta dallo stesso ufficiale di anagrafe al quale - anziché essere trasmessa la copia - venga esibito l’originale del contratto (art. 18 D.P.R. 445/2000: “l’autenticazione delle copie può essere fatta dal pubblico ufficiale… al quale deve essere prodotto il documento”), la certificazione dell’ufficiale di anagrafe si baserà su una copia non autentica di cui è incerta la reperibilità dell’originale, non essendo l’avvocato obbligato per legge a tenere un archivio degli atti.
La reperibilità dell’originale sarà sempre possibile, invece, quando è il notaio a ricevere ed autenticare il contratto di convivenza, che nella funzione di deposito
e conservazione degli atti originali ricevuti o autenticati (e, dopo la cessazione del notaio, presso l’Archivio notarile) ha il suo punto di forza. Ciò permette in ogni tempo alle parti di consultare il documento originale ed ottenerne copia e, allo Stato, di procedere alle attività ispettive biennali ordinarie o a quelle straordinarie.
Sulla base di queste considerazioni è seriamente dubitabile che con il sistema approntato dalla legge n. 76/2016 si sia attuata l’opponibilità ai terzi del contratto di convivenza di cui al comma 52.
In linea con i primi commentatori, può osservarsi che il meccanismo pubblicitario prescelto dal Legislatore, non garantendo in concreto una reale affidabilità del sistema, in quanto basato su notizie e informazioni acquisite con modalità non autentiche, non sembra nemmeno lontanamente paragonabile a quelli
- come ad esempio i registri immobiliari - che attuano la c.d. pubblicità dichiarativa, e quindi una piena opponibilità ai terzi, degli atti inseriti112.
L’unico riferimento presente è ai meccanismi di raccolta delle informazioni in ordine alla popolazione residente, che risulta completamente estranea a qualsiasi effettiva funzionalità al fine indicato. Il tutto aggravato dalla possibilità, ai sensi del comma 54, di modificare il regime patrimoniale “in qualunque momento nel corso della convivenza”, nonché di risolvere il “contratto di convivenza” per accordo delle parti o recesso unilaterale da esso (commi 59-61). Vicende risolutive,
112 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 9-12.
queste ultime, per le quali pure è previsto il meccanismo pubblicitario di cui al comma 52113.
A meno che l’opponibilità ai sensi del comma 52, nelle intenzioni del Legislatore, vada intesa non come pubblicità dichiarativa, preclusiva delle situazioni giuridiche diverse da quelle rappresentate, ma come semplice pubblicità informativa o notiziale delle vicende patrimoniali della coppia convivente, in conformità a quanto già stabilito per tutte le altre risultanze anagrafiche.
La mancata attuazione di un regime di pubblicità dichiarativa per i contratti di convivenza, che li renda pienamente opponibili erga omnes analogamente a quanto stabilito dall’art. 162 comma 4 c.c. per le convenzioni matrimoniali, è destinata a creare non pochi problemi in sede di circolazione dei diritti reali immobiliari114.
Problemi ulteriori sorgono nel caso in cui i due conviventi abbiano deciso, tramite il contratto di convivenza, di optare per il regime di comunione dei beni.
E' evidente che quando un qualsiasi soggetto vende o acquista beni immobili o mobili registrati, i terzi potenziali aventi causa dovrebbero essere in grado di sapere se quel trasferimento ha inciso su di una situazione di comunione legale, vuoi ex latere venditoris, vuoi ex latere emptoris; lo stesso è a dirsi, naturalmente, per i creditori, che sono trattati in modo assai differenziato, in relazione alla
«categoria» cui appartengono (se, cioè creditori «della comunione» o creditori
113 QUADRI E., “Convivenze” e “contratto di convivenza”, op. cit., pag. 121.
114 XXX X., Forma e pubblicità dei contratti di convivenza, op. cit., pag. 12.
«personali»), a seconda che essi tentino di agire in executivis contro beni comuni o, viceversa, personali dei coniugi: cfr. artt. 186, 187, 188, 189 e 190 c.c.
Qui, tanto per fermarsi alle lacune più vistose, se non verrà istituito un adeguato sistema pubblicitario, il terzo non si troverà mai in condizione di sapere se il bene rispetto al quale intende porsi quale avente causa o creditore agente in executivis sia di proprietà esclusiva del suo dante causa/debitore, ovvero in contitolarità con il (la) convivente115.
115 OBERTO G., La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, op. cit., pag. 12-13.
CAPITOLO 3
L'INVALIDITA' DEL CONTRATTO DI CONVIVENZA A CONFRONTO CON LA DISCIPLINA GENERALE
3.1 La nullità del contratto di convivenza
Il comma 57 individua le ipotesi di nullità del contratto di convivenza. Tali elementi sono utili anche per chiarire il profilo degli elementi ostativi alla stessa realizzazione della convivenza.
Il comma 57 prevede che il contratto di convivenza sia affetto da nullità insanabile se concluso:
a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) in violazione del comma 36;
c) da persona minore di età;
d) da persona interdetta giudizialmente;
e) in caso di condanna per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile116.
116 LUISO F. P., La convivenza di fatto dopo la legge 2016/76, in Xxxxxxxx.xx, pag. 6-7.