Natura del contratto di factoring (causa vendendi o causa mandati). Titolarità dei crediti ceduti. Fallimento
S T U D I O L E G A L E
Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring
N. 4/2018
INDICE:
1. Corte d’Appello Milano, Sez. I, 10 settembre 2018, n. 4045 3
Natura del contratto di factoring (causa vendendi o causa mandati). Titolarità dei crediti ceduti. Fallimento
2. Cassazione Civile, Sez. III, 30 ottobre 2018 n. 27442 22
Contratto di factoring e contratti bancari
3. Tribunale di Milano, Sez. IV, 9 ottobre 2018, n. 10038 39
Contratto di factoring e modifica unilaterale del tasso di interesse
4. Corte d’Appello Roma, Sez. I, 25 ottobre 2018, n. 6755 49
Contratto di factoring, prevalenza delle condizioni speciali di contratto su quelle generali. Attribuzione degli interessi su obbligazioni pecuniarie solo su espressa domanda di parte.
5. Tribunale di Tivoli, 16 ottobre 2018, n. 1409 59
Contratto di factoring e eccezioni opponibili da parte del debitore ceduto
Direttore responsabile: Alessandro Munari
Caporedattore: Massimo Di Muro
La presente pubblicazione è stata predisposta a solo scopo di studio e ricerca, nel pieno rispetto delle previsioni del Codice Deontologico Forense. Le informazioni contenute e le opinioni espresse nella presente pubblicazione non possono essere considerate come pareri legali, né essere utilizzate come fondamento di casi concreti che richiedano un’analisi specifica della fattispecie. Munari Cavani Studio Legale e Assifact non potranno essere considerati responsabili per azioni od omissioni poste in essere per aver fatto uso delle informazioni contenute nella presente pubblicazione senza che sia stato chiesto loro uno specifico parere in merito.
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Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring N. 4/2018
1.
Corte d’Appello di Milano, Sez. I, 10 settembre 2018, n. 4045
Contratto di factoring – Contratto atipico – Causa concreta - Causa vendendi o causa mandati
– Accertamento – Criteri
(Codice Civile, art. 1322; L. 21 febbraio 1991, n. 52)
Il contratto di factoring, anche dopo l'entrata in vigore della L. 21 febbraio 1991, n. 52 sulla cessione dei crediti di impresa, rimane un contratto atipico, il cui nucleo essenziale è costituito dall'obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad altro imprenditore ("factor") la titolarità dei crediti derivati o derivanti dall'esercizio della sua impresa. Tuttavia, in considerazione delle molteplici funzioni economiche del contratto - essendo lo stesso caratterizzato di regola dalla compresenza di plurime operazioni, quali appunto la cessione di uno o più crediti e l’assunzione da parte del factor di obbligazioni non strettamente inerenti alla cessione – occorre accertare, avendo riguardo agli effetti giuridici del contratto e non quelli pratico-economici, se le parti abbiano in concreto optato per la causa vendendi o la causa mandati o per altra ancora e se la cessione del credito abbia funzione di garanzia ovvero solutoria, nonché se vi sia stato trasferimento dei crediti ovvero se le parti abbiano voluto soltanto il conferimento di un mandato in rem propriam
Contratto di factoring – Interpretazione del contratto – Comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto – Misura delle anticipazioni – Rilevanza – Prevalenza della causa mandati - Sussistenza
(Codice Civile, art. 1362; L. 21 febbraio 1991, n. 52)
Qualora il testo delle previsioni contrattuali contenga clausole inerenti alla tipica attività gestoria e, nel contempo, clausole il cui contenuto sia di per sé confondibile con una ipotetica causa vendendi, assume primario rilievo, ai fini della qualificazione causale dell’operazione, il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla conclusione del contratto. In particolare, assume rilievo la misura delle anticipazioni corrisposte le quali, se di valore ridotto rispetto al valore nominale del credito, non possono essere considerate anticipazioni dei corrispettivi, ma rivestono pura finalità di finanziamento. In tal caso le cessioni di crediti previste nel contratto di factoring costituiscono negozi strumentali, assicurando una mera titolarità formale in capo al factor per consentirgli, nei rapporti verso terzi, di dare esecuzione al compito gestionale assunto, con conseguente qualificabilità del contratto quale un mandato alla gestione dei crediti ceduti, cui si collega un negozio di finanziamento.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI MILANO SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dai signori:
Dott. Carla Romana Raineri - Presidente
Dott, Maria Iole Fontanella - Consigliere
Dott. Maria Elena Catalano - Consigliere rel. ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Nella causa civile promossa in grado d'appello con citazione notificata il (omissis) a mezzo PEC e decisa nella camera di consiglio del (omissis)
TRA
[Factor] elettivamente domiciliato in (omissis) presso lo studio dell'avv. (omissis), che lo rappresenta e difende come da delega in atti
Appellante
E
Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring N. 4/2018
[ASL], elettivamente domiciliato in (omissis) presso lo studio del avv. (omissis), che lo rappresenta e difende come da delega in atti
[Fallimento Alfa] elettivamente domiciliato in (omissis) presso lo studio dell'avv. (omissis), che lo rappresenta e difende come da delega in atti
Appellati
Oggetto: Factoring
CONCLUSIONI DELLE PARTI
Per [Factor]
Nel merito, accogliere le domande proposte da [Factor] nella prima fase del giudizio e quindi: Condannare [Asl] in persona del suo legale rappresentante pro tempore, con sede in (omissis), a pagare alla [Factor] la somma di Euro (omissis) oltre agli interessi di Legge conteggiati dalle singole scadenze e sino al saldo effettivo. III. In via istruttoria, solo ove il Collegio adito non ritenga già formata la prova sul quantum debeatur, che invece la scrivente difesa ritiene formata per quanto espresso nell'atto d'appello e nei precedenti scritti difensivi, disporre CTU e/o esame contabile ex art. 198 c.p.c. per quantificare il credito dell'appellante, anche previo ordine ex art. 210 c.p.c, nei confronti dell’[Asl] con riguardo a tutte le contabili in dare ed avere registrate nell'estratto conto consegnato dalla [Asl] alla curatela [Fallimento Alfa] e riprodotto sub 12 della produzione di I grado della curatela [Fallimento Alfa] (doc. 5 del fascicolo di appello dì questa difesa). Riformare la statuizione sulle spese, con vittoria di spese e compensi del doppio grado di giudizio. [Factor] Si riserva espressamente di agire con separato giudizio rispetto al maggior credito descritto al punto iv, iv lett. e) dell'atto di citazione in appello.
Per [Asl]
Dichiarare inammissibile ex art.348-bis l'appello principale notificato da controparte in quanto non ha ragionevole probabilità di essere accolto.
- Dichiarare improponibile l'Appello principale spiegato da controparte, in quanto basato su una eccezione nuova, in aperta violazione del divieto di cui all'ex art 345 c.p.c.
- Dichiarare inammissibile l'Appello principale spiegato da controparte perché lo stesso non specifica la rilevanza ai fini della decisione impugnata delle violazioni di legge sollevate. - Dichiarare inammissibile l'Appello principale notificato da controparte in data 25 ottobre 2017 perché non iscritto al ruolo e, 2 conseguentemente dichiarare irriproponibile ex art 358 c.p.c. l'appello rinotificato in data 30 ottobre ed iscritto al ruolo.
In via preliminare e di appello incidentale tempestivo:
- Riformare il capo della sentenza con cui e stata rigettata l'eccezione di incompetenza per territorio e dichiarare l'incompetenza per territorio del Tribunale di Milano, perché per territorio è competente il Tribunale di Napoli.
Nel merito in via subordinata:
- Per il solo - denegatissimo - caso di non accoglimento della pregiudiziale e della preliminare, qualora fosse accertata la legittimazione attiva dell'appellante Factoring, rimettere la causa in primo grado ex art 354 l comma c.p.c. per la riunione con il procedimento di primo grado ancora in corso tra [Asl] e [Fallimento Alfa] al fine di evitare conflitti di giudicato che portino, per la medesima fornitura di servizi, a due titoli esecutivi che obbligassero, in ipotesi, la
P.A. odierna appellata a pagare contemporaneamente due soggetti distinti, ovvero ad una doppia condanna in favore del [Fallimento Alfa] con importi differenti.
Nel merito in via ulteriormente subordinata:
Per il solo caso di non rimessione al primo grado, riformare il capo della sentenza con cui sono state ritenute assorbite le eccezioni di merito formulate in primo grado che interamente si ripropongono e, conseguentemente:
- Accertare e dichiarare l'assoluta carenza di legittimazione attiva della controparte [Factor], stante la mancanza della necessaria accettazione della cessione da parte della ceduta. -Accertare e dichiarare l'assoluta carenza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità dell'asserito credito azionato.
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- Dichiarare comunque non dovute dalla [Asl] a nessuna delle due controparti le somme a dedursi dal totale di Euro 6.989.579,58 delle fatture prodotte da [Factor]:
- Di cui ai 10 mandati di pagamento prodotti (Doc n 2 di primo grado), per complessivi Euro 2.765.152,12.
- Di cui al pagamento tramite procedura cd. (omissis) per complessivi Euro 1.817,065.66.
- Dovute al procedimento di "regressione tariffarla" (ormai conclusosi per effetto della perenzione del relativo giudizio, giusta doc. di primo grado) per tutti gli anni di cui alle fatture di cui è richiesto ii pagamento, nella misura di Euro 968.809,22 fino al 30/09/2008.
- Dovute alle procedure esecutive direttamente promosse dalla cedente [Fallimento Alfa] nei confronti di [Asl] ovvero da creditori della stessa ed in particolare non meno di Euro 2.942.585,72 che lo stesso fallimento dichiara (pag 5 rigo 7 della comparsa del fallimento) di aver incamerato a seguito del procedimento esecutivo 1(omissis) preso il Tribunale di (omissis) (avverso doc. 11).
In via subordinata istruttoria:
Sempre per il solo caso di non creduto accertamento della legittimazione attiva del Factoring senza rimessione in primo grado, ammettersi esame contabile ex art.198 c.p.c. per una approfondita CTU contabile in loco che, previo il necessario consenso della controparte possa, come previsto nel c.p.c.: A) Tentare la conciliazione. B) Esaminare anche documenti e registri che non è stato possibile produrre in giudizio.
Non si produce copia del fascicolo di parte di primo grado che risulta già acquisito agli atti insieme al fascicolo d'ufficio.
Chiede inoltre, ove ritenuto necessario nel corso del giudizio, ammettersi Consulenza Tecnica d'Ufficio per accertare e determinare gli esatti rapporti di dare/avere tra [Fallimento Alfa] e [Asl] In ogni caso:
-Accertare e dichiarare comunque non dovuti gli interessi ex D. Lgs. 231/01
-Confermare il capo della sentenza con cui è stata condannata [Factor] alla rifusione delle spese legali di primo grado in favore dello scrivente antistatario, condannando altresì [Factor] alla rifusione integrale al sottoscritto antistatario delle spese, diritti ed onorarti di Avvocato di secondo grado.
Per [Fallimento Alfa]
1) dichiarare inammissibile il gravarne, contemplando lo stesso domande, contestazioni ed eccezioni nuove:
2) subordinatamente rigettarlo in quanto infondato;
3) condannare l'appellante al pagamento delle spese di lite. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.) Con sentenza depositata in Cancelleria il giorno 13/07/2017 (omissis) il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando nella causa n. (omissis), promossa da [Factor] contro [Asl], con l'intervento di [Fallimento Alfa] ha così deciso:
"Il Tribunale, definitivamente pronunciando nei soli confronti di [Factor] nei rapporti tra la stessa e le altre parti, ogni diversa domanda o eccezione respinta.
RESPINGE
La domanda di [Factor]
CONDANNA
[Factor] al pagamento di e 25000,00 oltre spese generali cpa e ira in favore di [Asl] con distrazione in, favore dell'avv. (omissis) e di e 25000,00 oltre spese generali cpa e iva in favore di [Fallimento Alfa]”. Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c. pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale.
A questo punto il giudice, in ordine al proseguimento della causa tra [Asl] e [Fallimento Alfa], dispone la rimessione della causa in istruttoria, e fissa udienza ex art. 183 c.p. c. in data 1 7.10.201 7 ore 11,00, riservando alla prosecuzione della causa ogni statuizione ex ari. 89 c,p.c.-
2) Svolgimento del processo di primo grado.
Con atto di citazione, regolarmente notificato, [Factor] conveniva in giudizio la [Asl], allegando
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dì essere cessionaria dei crediti della società [Alfa], da quest'ultima vantati per prestazioni sanitarie in regime di convenzione I, per Euro 6.989.579,58, oltre agli interessi.
L'attrice produceva gli atti di cessione del credito, del 5 giugno 2007 e del 30 maggio 2008, copia delle fatture e delle note di credito, con i partitari del debitore, nonché l'estratto autentico del giornale di cessione e messe in mora (doc. 1-48 fascicolo primo grado [Factor]).
Ciò premesso l'attrice chiedeva: "In via principale e nel merito: condannarsi [Asl] in persona del suo legale rappresentante pro tempore, con sede in (omissis), a pagare al [Factor] la Somma di Euro 6989.579,58, oltre agli interessi di Legge conteggiati dalle singole scadenze e sino al saldo effettivo".
La [Asl] si costituiva con comparsa del 16 novembre 2012 eccependo, in via preliminare, l'incompetenza territoriale del Tribunale dì Milano sotto il profilo del luogo di esecuzione dell'obbligazione (Napoli), in ossequio ai principi di contabilità pubblica, nonché sotto il profilo della clausola di deroga contenuta nel contratto sottoscritto tra la ceduta e l'USL.
Nel merito la convenuta eccepiva la propria carenza di legittimazione per mancata accettazione della cessione del credito da parte di [Asl] nonché per "risoluzione e/o invalidità del contratto di Factoring”.
Alla prima udienza della 6 marzo 2013, i procuratori e le parti si sono riportati ai rispettivi scritti ed invocato l'assegnazione dei termini ex art. 183, VI comma, c.p.c.
Il G.U. ha concesso gli indicati termini, cadenti nelle date del 19 giugno 2013, 19 luglio 2013 e 23 settembre 2013.
2) Con provvedimento del 2 aprile 2014 il Giudice ha ritenuto matura la causa per la decisione ed ha rinviato la causa all'udienza del 16 aprile 2015.
In data 3 dicembre 2014, è intervenuto in giudizio il Fallimento della [Alfa] dichiarata fallita in data 3 aprile 2013 dal Tribunale di (omissis) - affermandosi titolare dei crediti azionati dalla [Factor], quantificando il proprio credito nei confronti di [Asl] nel "minor” importo di Euro 4.820.131,02. Detto minor saldo era -secondo tesi della Curatela Fallimentare- conseguenza delle somme riscosse dalla società oggi fallita all'esito dell'intervento in un procedimento esecutivo instaurato nei confronti della medesima [Asl] presso il Tribunale di (omissis).
La Curatela, nell'atto di intervento, ha invocato la remissione in termini avuto riguardo alla produzione documentale, nonché alla richiesta dell'ordine ex art. 210 c.p.c da impartirsi nei confronti della convenuta [Asl] avuto riguardo a tutte le contabili, registrate in dare/avere nell'estratto conto cliente fornitore e nel libro giornale relativi agli anni 2006, 2007, 2008 e 2009. Anche la difesa di [Asl] ha invocato analoga istanza di remissione in termini.
3) Il giudice di prime cure, ritenendo configurabile un rapporto di pregiudizialità logico giuridico tra i] procedimento in corso e l'impugnazione frattanto proposta dalla [Factor] innanzi alla Suprema Corte, ha rinviato la causa al 16 aprile 2015 onerando le parti del deposito del ricorso per Cassazione.
La causa subiva una serie di rinvii, in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione. Depositata la sentenza della Corte di Cassazione la causa veniva rinviata per precisazione delle conclusioni e decisa ex art. 281 sexies c.p.c.,
Con la sentenza impugnata n. (omissis), il Tribunale di Milano, disattesa l'eccezione di incompetenza formulata da [Asl], statuiva che: "Nel corso del giudizio è intervenuto il curatore del fallimento [Alfa] in liquidazione, società fornitrice, il quale ha allegato l'intervenuto scioglimento dal rapporto di factoring in forza della ritenuta prevalenza della causa mandati sulla causa vendendi, con conseguente venire meno della legittimazione dell'odierna parte attrice [Factor] a proseguire nell'attività di riscossione dei crediti”. Lo scioglimento ha formato oggetto di reclamo ex art. 26 1. fall., che è stato respinto; il ricorso in Cassazione è stato dichiarato inammissibile. Consegue che la domanda di parte attrice è infondata, non essendo quest'ultima legittimata all'attività di riscossione di crediti di terzi. Spese al dispositivo ridotte in conseguenza della modestia della fase istruttoria-.
4) La sentenza del Tribunale di Milano, che ha deciso nei termini di cui sopra, è stata impugnata da [Factor] con atto di appello con il quale chiede la riforma della medesima sentenza e l'accoglimento delle domande proposte in primo grado sulla base dei seguenti motivi:
a) Violazione e falsa applicazione del provvedimento della corte di cassazione - assenza
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di pregiudizialità.
b) Violazione dell'art. 100 c.p.c. - violazione della l. 52 del 1991 ed in particolare dell'art. 7 della l. 52 del 1991 - omessa ed insufficiente motivazione.
e) carenza e/0 insufficiente motivazione sulla natura del contratto del 6 aprile 1999 - violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in merito al contratto di factoring ed alla sua appendice del 19.07.2012, qualificazione del rapporto diversa dal contratto di mandato.
d) Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 111 c.p.c.
e) Sul regime delle spese - violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.
5) [Asl] si è costituita con comparsa di costituzione e risposta e ha chiesto il rigetto dell'appello e la conferma dell'impugnata sentenza. Ha promosso, altresì, appello incidentale sulla base del seguenti motivo:
a) fondatezza dell'eccezione di incompetenza per territorio, tempestivamente sollevata.
6) Si è costituito con comparsa di costituzione e risposta anche il [Fallimento Alfa] in liquidazione e ha chiesto il rigetto dell'appello e la conferma dell'impugnata sentenza.
7) La causa è stata decisa nella camera di consiglio del 17/07/2018. MOTIVI DELLA DECISIONE
I punti sui quali la Corte è chiamata a pronunciarsi sono i seguenti:
A) Questioni preliminari
B) Questione di competenza territoriale
C) Valenza della pronuncia della cassazione n. (omissis) resa tra appellante e Curatela del Fallimento e del decreto di rigetto del reclamo di [Factor] pronunciato tra le medesime parti il (omissis), avverso il provvedimento del G.D. che autorizzava la curatela a sciogliere il contratto di Factoring.
D) Qualificazione della causa del contratto denominato "Factoring- stipulato tra la società [Beta] e l'odierno appellante.
E) Scioglimento del contratto di factoring da parte del curatore
F) Legittimazione all'intervento da parte del curatore del fallimento La Corte, ritenuto l'appello infondato, osserva quanto segue. QUESTIONI PRELIMINARI
1. [Asl] (pag. 8 della comparsa di costituzione) ha eccepito l'"irriproponibilità dell'appello ex art. 358 c.p.c." in quanto notificato due volte (in data 25.10.2017 ed in data 30.10.2017) ed iscritto a ruolo il 26.10.2017.
Parte appellata USL ha rinunciato a detta eccezione relativa alla ipotizzata iscrizione a ruolo della seconda notifica, prendendo atto della iscrizione a ruolo conseguente alla notifica dell'atto di citazione in appello del 25.10.2017. Premesso che si tratta quindi di due notifiche dello stesso appello e che ciò non comporta alcuna inammissibilità secondo l'orientamento univoco della Cassazione (Sez. Un. 1208412016, Cass. 2267912015 e Cass. 16843/2015), parte appellata solleva un'ulteriore questione relativa alla errata certificazione della procura dell'atto notificato e poi iscritto a ruolo-.
2. La Corte rileva che, in ogni caso, ex art. 182 c.p.c., eventuali difetti di procura risultano sanati dalla produzione (anche cartacea) della rituale procura rilasciata dalla società appellante al proprio legale.
3. Quanto alla ulteriore eccezione di inammissibilità dell'impugnazione formulata dalle parti appellate, secondo la quale ratto introduttivo dell'appello conterrebbe una eccezione nuova (Pag. 7 della comparsa di [Asl]) e/o domande nuove (Pag. 7 della comparsa di costituzione della Curatela [Fallimento Alfa]), la Corte rileva che [Factor] non ha formulato né domande, né eccezioni nuove in appello, il che risulta evidente confrontando l'atto di citazione di primo grado con l’atto di appello.
4. La Corte evidenzia, altresì, che a fondamento della propria domanda parte [Factor] ha sempre allegato gli atti di cessione del credito risalenti al 2007 e 2008" quale titolo della propria pretesa proponendo rilievi critici sul ritenuto -giudicato"' intervenuto tra le parti (secondo il primo giudice), sulla interpretazione della causa del contratto di Factoring e sull'autonomia dei
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contratti di cessione del credito.
ECCEZIONE DI INCOMPETENZA TERRITORIALE
5. Nella comparsa di costituzione in appello [Asl] ha proposto appello incidentale avverso la statuizione della sentenza impugnata che rigettava l'eccezione di incompetenza, formulata dalla stessa ASL. Tale appello incidentale è stato formulato nel corpo della comparsa di costituzione, depositata solo il 26 gennaio 2018 sicché deve ritenersi ammissibile, anche se tardivo.
6. [Asl] (pag. 12 della comparsa di costituzione in appello di [Asl]) afferma che principio di "consumazione, così come (troppo) sinteticamente utilizzato dal Giudice di Prime Cure, è presente nell'ordinamento processual-civilistico in relazione alla ben diversa fattispecie dei gravami dichiarati inammissibili (e precisamente agli 358 c.p.c. e 387 c.p.c. rispettivamente Appello e cassazione), che, per effetto della consumazione, non sono riproponibili anche se non sia ancora scaduto il termine originale per impugnare. Pare al deducente che l'applicazione analogica del predetto principio implicitamente fatta dal giudicante di prime cure sia del tutto fuori luogo. Infatti, ostano all’applicazione dei principio di consumazione de qua tre diversi ordini di motivi: 1-Manca una norma espressa...”.
7. Erra l'appellante incidentale, laddove ritiene che il giudice di prime cure, nel ritenere inammissibile l'eccezione di incompetenza sollevata da [Asl] abbia applicato analogicamente le norme sopra richiamate.
8. Infatti, l'art. 38 c.p.c., norma applicabile alla fattispecie, prevede che -l'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. -
In tema di competenza territoriale nelle cause relative a diritti di obbligazione, la disciplina di cui all'art. 38, primo comma, c.p.c., come sostituito dall'art. 45 della L. n. 69 del 2009 -la quale, con riguardo a detta specie di competenza, ha riproposto i contenuti del terzo comma del testo previgente dell'art. 38, sia in punto di necessaria formulazione dell'eccezione -a pena di decadenza" nella comparsa di risposta, sia quanto alla completezza dell'eccezione-comporta che il convenuto sia tenuto ad eccepire l'incompetenza per territorio del giudice adito con riferimento a tutti i concorrenti criteri previsti dagli arti. 18, 19 e 20 c.p.c. (nel caso di cumulo ai sensi dell'art. 33 c.p.c. in relazione a tutti i convenuti), indicando specificamente in relazione ai criteri medesimi quale sia il giudice che ritiene competente, senza che, verificatasi la suddetta decadenza o risultata comunque inefficace l'eccezione, il giudice possa rilevare d'ufficio profili di incompetenza non proposti, restando la competenza del medesimo radicata in base al profilo non (o non efficacemente) contestato. L'attività di formulazione dell'eccezione, vedendosi in tema di eccezione di rito cal. in senso stretta, richiede un'attività argomentativa esplicata (Cass. 4 agosto 2011. n. 17020) ed analitica.
9. Nella fattispecie, le parti disquisiscono sulla validità -ai fini della valutazione della tempestività della proposta eccezione di incompetenza territoriale- di una memoria integrativa della comparsa di costituzione di risposta depositata da [Asl] sul punto (memoria non autorizzata con la quale [Asl] ha completato la disamina di un foro ipoteticamente competente di cui non aveva fatto menzione nella comparsa).
10. Va, altresì, sottolineato che la predetta memoria integrativa fu depositata (dopo la comparsa di costituzione ma), prima del ventesimo giorno precedente la prima udienza.
11, Ritiene questa Corte che, correttamente, il primo giudice abbia ritenuto decaduta [Asl] dall'eccezione proposta.
Il processo civile di primo grado, come espressamente indicato dall'art. 180 c.p.c., è un processo orale.
Conseguentemente, non è prevista la possibilità di deposito di memorie scritte integrative, se non quelle autorizzate previste ex lege (art. 183 sesto comma n.1,2 3 c.p.c.).
Da quanto premesso, richiamato l’art. 38 c.p.c. e la decadenza ivi prevista, consegue che l'eccezione di incompetenza per territorio non è stata sollevata ritualmente e tempestivamente da [Asl] sotto tutti i profili.
VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE —ASSENZA DI PREGIUDIZIALITA'
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12. Lamenta l'appellante che la sentenza impugnata è gravemente viziata in quanto il Giudice di prime cure ha dichiarato l'infondatezza della domanda di parte attrice quale diretta ed automatica -conseguenza- della pronuncia di inammissibilità del ricorso in Cassazione dell'attrice sul provvedimento del Tribunale di Napoli.
13. Il Tribunale, infatti, ritenuto che dopo la pronuncia di inammissibilità della Corte di Cassazione, del ricorso avverso il Decreto emesso dal Tribunale di Napoli in sede di reclamo, in data 8.10.2014, ha ritenuto che da ciò conseguisse la carenza di legittimazione dell'attrice in primo grado alla "riscossione di erediti di terzi."
14. Vero è invece, (come sostenuto dall'appellante) che la sentenza della Corte di Cassazione (n. 13167/2017 doc. 9 fascicolo appellante) argomenta l'inammissibilità del ricorso proprio partendo dalla natura esclusivamente regolatoria del provvedimento del Tribunale di Napoli (pronunciato in sede di reclamo), che non incide sui diritti soggettivi che rimangono da far valere in sede di giudizio ordinario, quale quello che occupava il Giudice di Prime Cure ed oggi la Corte di Appello.
Nella sentenza resa tra la Curatela [Fallimento Alfa] e [Factor] la Cassazione ha ribadito, infatti, che: "il decreto con ii quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 26 L.F., respinge il reclamo avverso ratto con cui il curatore ha esercitato, a norma dell'art. 72 della stessa legge, la facoltà di scioglimento dal contratto pendente, non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti che attengono all'esercizio della funzione di controllo circa l'utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito potendo i terzi interessati contestare nelle sedi ordinarie gli effetti che dall'attività così esercitata si pretendono far derivare .."'
15. Il Giudice di Prime Cure, quindi, per verificare la sussistente legittimazione dell'attrice in primo grado avrebbe dovuto compiere un'analisi non in funzione della statuizione di "inammissibilità" del "impugnativa avverso il decreto del Tribunale di Napoli (pronunciato in sede dì reclamo avverso il provvedimento di autorizzazione del G.D. del Fallimento) della Corte di Cassazione, ma sulla base della verifica della permanenza o meno dei diritti dell'appellante in ragione delle disposizioni effettivamente applicabili e della natura del contratto di factoring stipulato tra le parti.
16. Risulta dalla documentazione prodotta -come sopra accennato- che parte (odierna appellante) ha agito in primo grado in forza del contratto di factoring (doc. 10) e delle cessioni dei crediti dalla società (poi fallita) ad [Factor] (docc. 1 e 2 fascicolo di primo grado) nei confronti del debitore ceduto.
17. Anche la Curatela ha riconosciuto che "la società oggi fallita ha ceduto alla [Factor] crediti per il complessivo importo di Euro 12.344.907,61" (pag. 17 della comparsa di costituzione in appello della curatela [Fallimento Alfa]). Tale titolo risulta azionato da [Factor] prima e dopo l'intervento del curatore Fallimentare nel giudizio di primo grado.
18. Infine, è pacifico in atti, e comunque documentale e che il curatore con una manifestazione di volontà resa nel luglio 2014 (doc. 7 fasc. primo grado appellante) - autorizzata dal Giudice Delegato - ha manifestato la volontà di -sciogliersi" dal contratto di factoring stipulato nel 1999, travolgendo gli effetti delle due cessioni di credito una del 2007 ed una del 2008 (docc. 1 e 2 del fascicolo di primo grado di parte appellante), a fronte dei quali il factor ha reso delle "anticipazioni-
- al cedente, riconosciute dalla stessa curatela.
19. Ciò premesso, la Corte è chiamata a decidere in primo luogo sulla natura del contratto di factoring e delle relative cessioni, ai fine di ritenere o meno legittimata -sotto il profilo sostanziale- la odierna appellante a chiedere il pagamento delle forniture alla debitrice [Asl].
20. Le parti disquisiscono sulla causa (mandati o vendendi) del contratto di factoring e delle cessioni collegate, nonché sulla legittimità dell'esercizio del potere di scioglimento del suddetto contratto da parte del curatore fallimentare.
21. Secondo l'impostazione maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, il contratto di factoring non è stato tipizzato dalla 1. 52/1991. Tale provvedimento legislativo si è limitato a disciplinare gli aspetti più difficili da armonizzare con la disciplina codicistica, sicché il factoring rimane un
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contratto atipico,
22. In particolare, il factoring viene qualificato -dalla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte di Cassazione (tra le altre Cass. 16850/2017 e Cass. n. 24657/2016) - come contratto atipico in cui l'elemento costante è la gestione della totalità dei crediti di un'impresa, attuata mediante lo strumento della cessione dei crediti, in unione, di solito, con un'operazione di finanziamento all'impresa, quale elemento funzionale caratterizzante e talora con un'operazione di assicurazione, quando il factor assume il rischio dell'insolvenza del debitore.
23. Sulla qualificazione giuridica del contratto di factoring vanno ricordate decisioni della giurisprudenza che sottolineano le funzioni diverse che di volta in volta il contratto può assumere, sicché la sua disciplina deve essere ricercata nel tipo negoziale nominato analogicamente assimilabile.
24. Sempre la giurisprudenza di legittimità, (cfr. tra le altre Cass. n. 19716/2015 e Cass. n. 6192/2008) ha rilevato che "il contratto di factoring si configura come una convenzione atipica il cui nucleo essenziale è costituito dall'obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad un altro imprenditore (factor) la titolarità dei crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa, pro saluto o pro solvendo, con effetto traslativo variabile nel tempo a seconda del modo di atteggiarsi dell'accordo, in quanto riconducibile al momento dello scambio dei consensi nel caso in cui la cessione sia globale ed abbia ad oggetto crediti esistenti, ovvero al momento in cui gli stessi vengano ad esistenza se si tratta di crediti futuri, o ancora al momento del perfezionamento della cessione, qualora la convenzione preveda la necessità di trasmettere i singoli crediti con distinti negozi. Com'è noto, le funzioni economiche del contratto sono molteplici, essendo lo stesso caratterizzato di regola dalla compresenza di plurime operazioni, quali appunto la cessione di uno o più crediti (con le possibili varianti del finanziamento in favore dell'impresa, attraverso anticipazioni o smobilizzi, e dell'assunzione del rischio dell'insolvenza) e l'assunzione da parte del factor di obbligazioni non strettamente inerenti alla cessione, aventi ad oggetto la gestione dei crediti; è stato tuttavia precisato che la qualificazione del contratto non dipende dagli effetti pratico-economici, ma da quelli giuridici, dovendosi accertare il risultato concreto perseguito dalle parti e, segnatamente, se le stesse abbiano optato per la causa vendendi o per la causa mandali o per altra ancora e se la cessione del credito abbia funzione di garanzia ovvero funzione solutoria, nonché se vi sia stato trasferimento dei crediti ovvero se le parti abbiano voluto soltanto il conferimento di un mandato in rem propriam".
25. Al cospetto dunque di uno schema negoziale atipico, aperto alle diverse cause, e comunque di un testo contrattuale contemplante le analitiche prestazioni di servizi ed il corrispettivo per esse dovute al Factor, alcun dubbio può sussistere, come del resto rilevato dal Tribunale Fallimentare, circa l'esistenza di una serie di fatti, comportamenti delle parti e pattuizioni, idonei a far convergere la fattispecie, di cui trattasi, nello schema del mandato.
26. Il Tribunale Fallimentare con decreto dell'8.10.2014, nel respingere il reclamo proposto da [Factor] ha, infatti, valorizzato la misura sempre costante delle erogazioni al cospetto delle cessioni dei numerosi crediti e dei vari incassi, quale elemento capace di caratterizzare quelle erogazioni in termini di mero e definitivo finanziamento.
27. Il fatto che quelle anticipazioni venissero poi a ridursi, allorquando il rapporto contrattuale non è stato più caratterizzato da ulteriori cessioni, ha rivelato come le stesse non potessero in alcun modo avere, o comunque acquisire, la valenza di corrispettivi per le intervenute cessioni (cessioni viste dunque come meri atti formali, finalizzati ad agevolare l’attività di riscossione del Factor nei confronti peraltro di un problematico pagatore quale notoriamente è la -ASL-). Tali circostanze emergono dalle allegazioni e dai documenti prodotti dal Fallimento in prime cure.
28. La Curatela, infatti, sulla scorta della documentazione contabile e delle fatture emesse di [Fallimento Alfa] nei confronti di [Asl], ha riscontrato che la società oggi fallita ha ceduto a [Factor] crediti per il complessivo importo di Euro 12.344.907,61.
29. A fronte di ciò [Fallimento Alfa] ha ricevuto dalla società di factoring la somma di Euro 7.350.000,00 (dato questo pacifico e non contestato).
30. Dell'ammontare dei crediti ceduti dalla fallita a [Factor], quest’ultima risulta aver incassato complessivi Euro 5.355.705,65, di cui tuttavia Euro 3.884.482,75 sono stati versati da [Asl], mentre Euro 1.470.838,87 sono stati ad essa versati [Fallimento Alfa], poiché [Asl] aveva pagato
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quest'ultima in luogo del cessionario-.
31. Dalle scritture contabili della fallita e dagli estratti conto la Curatela ha potuto altresì ricostruire la cadenza temporale delle anticipazioni nette, cioè delle anticipazioni operate da [Factor] a [Fallimento Alfa] diminuite dei pagamenti effettuati frattanto dalla ASL a [Factor].
32. Da tale elaborazione emerge -circostanza non contestata- che le anticipazioni nette non hanno mai superato la percentuale del 60% dell'importo complessivo delle fatture progressivamente cedute, con una incidenza anzi via via decrescente.
33. Si riporta l'andamento delle anticipazioni nella sottostante tabella (di cui a pag. 18 e 19 della comparsa di costituzione in appello del Fallimento).
(omissis)
34. Come riscontrabile la società di factoring, nel corso del rapporto, ha anticipato somme senza mai superare l'anzidetta percentuale del 60% del totale ceduto nel dato momento, attendendo che maturassero incassi prima di effettuare ulteriori anticipazioni, di guisa appunto da non sforare mai detto limite.
35. L'andamento del rapporto e la notevole forbice tra l'importo delle fatture cedute e le anticipazioni ricevute mostrano che tali anticipazioni abbiano assolto unicamente e definitivamente una funzione di finanziamento, nel rispetto peraltro di una rigorosa linea di credito che non è stata mai sforata.
36. Il dato economico che vede oggi azionato un credito verso [Asl] di oltre sei milioni di curo a fronte di anticipazioni nette dalla [Factor] per circa un milione e novecentomila Euro (computate ossia senza tener conto degli interessi e delle commissioni dovute al factor) conferma che le somme corrisposte dal factor abbiano assolto ad una funzione di puro finanziamento e non già di regolamento del corrispettivo delle cessioni dei crediti.
37. La forbice tra l'importo complessivo dei crediti ceduti e la misura delle anticipazioni, dimostrano, che le parti non abbiano potuto intendere quelle erogazioni come corrispettivi dei crediti; crediti ceduti quindi al solo fine di favorirne l'incasso.
38. Come noto, in presenza di un contratto di factoring, al fine di stabilire se il Factor sia legittimato ad incamerare o trattenere le somme riscosse dai terzi debitori dopo la dichiarazione dì fallimento dei cliente, il Giudice deve procedere alla qualificazione giuridica del contratto intercorso fra le parti, indipendentemente dalla sua formale denominazione, valutando se le cessioni oggetto del contratto abbiano trasferito al factor la titolarità dei crediti in virtù di un effetto traslativo pieno, ovvero la sola legittimazione all'incasso., in virtù di un mero potere gestorio cui segue l'obbligo di rimettere al fornitore le somme incassate in esecuzione dell'incarico.
39. Invero la Suprema Corte ha ripetutamente affermato -come sopra accennato- che: factoring (anche dopo l'entrata in vigore della L. n. 52 del 1991) rimane un contratto atipico il cui nucleo essenziale è l'obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad altro imprenditore (il factor) la titolarità dei crediti derivati dall'esercizio della sua impresa. Le funzioni economiche del factoring sono molteplici ed esso, di regola, è caratterizzato dalla compresenza di plurime operazioni quali, appunto, la cessione di uno o più crediti (con le possibili varianti del finanziamento in favore dell'impresa attraverso le anticipazioni o smobilizzi, e dell'assunzione del rischio dell'insolvenza) e l'assunzione da parte del factor di obbligazioni non strettamente inerenti alla cessione, aventi ad oggetto la gestione dei crediti (quali: informazione, consulenza, collaborazione nella gestione aziendale etc.) di non secondaria importanza nell'economia del contratto. A fronte di ciò è prevista una commissione in favore del factor che costituisce il corrispettivo di quell'attività variabile in rapporto a molteplici elementi che incidono sui grado di assunzione del rischio dell'operazione. Ne consegue che, ai fini della qualificazione del contratto che dipende dagli effetti giuridici e non da quelli pratico-economici, il giudice deve fare riferimento all'intento negoziale delle parti che renda palese il risultato concreto dalle stesse perseguito, valutando in particolare, se esse abbiano optato per la causa vendendi, per quella mandati, o per altra ancora (Cass, 2746107, Cass. 6192108, Cass. 15797/09, Cass. 17116/04, Cass, 10004/03. Cass, n. 1510/01, Cass, 684/01).
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40. Ne discende che la ricostruzione della comune intenzione delle parti deve essere condotta sulla base di una adeguata interpretazione delle clausole contrattuali, alla luce dei principi e delle regole del Codice Civile (arti. 1362 e ss. c.c.).
41. In tale attività esegetica, secondo le generali regole interpretative, oltre alla terminologia usata nelle clausole contrattuali, assume primario rilievo il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (così come prevede l'art. 1362, II comma, c.c.), senza che l'interprete possa limitarsi al senso letterale delle parole.
42. E ciò a maggior ragione in un caso come quello in esame in cui alle clausole inerenti alla tipica attività gestoria del Factor se ne accompagnano altre di segno diverso, in ossequio alla struttura causale atipica, variabile, del contratto di factoring. Clausole il cui contenuto meramente letterale potrebbe anche essere -di per sé- confondibile con una ipotetica causa vendendi.
43. Nell'interpretare il contratto -ferme le circostanze di fatto sopra evidenziate- si debbono valutare le -condizioni generali per le future operazioni di factoring" di cui al contratto 4/6 aprile 1999 (cfr. doc. 5).
44. Sotto tale profilo assumono particolare rilievo ai fini della individuazione della natura del contratto:
45. – l’art. contente "l'individuazione dell'oggetto del contratto" ove, tra l'altro, si legge: -il presente contratto, di cui le definizioni sopra riportate formano parte integrante e sostanziale, ha per oggetto la disciplina delle future cessioni verso corrispettivo dei crediti del Fornitore nel confronti dei propri debitori
46. - l'art. 6 intitolato -rapporti con i debitori" ove, tra l'altro, sì legge...il Fornitore sarà tenuto a far sì che i pagamenti dei crediti ceduti vengano effettuati dai debitori esclusivamente al Factor. astenendosi da qualsiasi iniziativa tendente all'incasso dei crediti medesimi. I pagamenti dei debitori effettuati al Fornitore comporteranno per il Fornitore di trasmettere immediatamente al Factor le somme e/o gli eventuali titoli debitamente girati ed i valori ricevuti, indicandone l'imputazione specificata dal debitore”
47. - l'art. 9 intitolato: -pagamento anticipato del corrispettivo ed effetti dell'inadempimento del debitore ove, tra l'altro, si legge a) Su richiesta del fornitore, il Factor potrà anticipare il pagamento di tutto o parte del corrispettivo dovuto rispetto all'incasso dei crediti oggetto di cessione o alla diversa data convenzionalmente stabilita: sino a tale data le somme anticipate saranno produttive di interessi nella misura e alle condizioni specificate in apposito accordo. Detta anticipazione, in misura percentuale da convenirsi tra le parti, sarà a valere sull'ammontare complessivo dei crediti ceduti e in essere tenendo comunque presente che le anticipazioni complessivamente effettuate (comprensive di interesse, commissioni e spese) non potrà mai superare il valore nominale dei crediti ceduti. Il Fornitore, conseguentemente. è obbligato a trasmettere prontamente al Factor le somme necessarie a ripristinare il rapporto convenuto tra l'ammontare dei crediti ceduti e quello corrispettivo anticipato qualora lo stesso dovesse modificarsi ...; b) In caso di mancato incasso alla scadenza di crediti ceduti o qualora si possa comunque presumere che il debitore non possa o non voglia adempiere alle proprie obbligazioni, il Fornitore quale garante della solvenza del debitore sarà tenuto, anche per i crediti non ancora scaduti, a restituire al Factor, a semplice richiesta, quanto ricevuto a titolo di pagamento anticipato del corrispettivo, oltre gli interessi maturati Il Factor è in ogni caso esonerato dall' osservanza del disposto dell'art. 1267 c.c., comma 2. Ad avvenuta restituzione del corrispettivo anticipato e di quant'altro dovuto, i crediti insoluti saranno trasferiti nuovamente al Fornitore salvo che, su richiesta e a rischio e spese del Fornitore medesimo, il Factor accetti di esperire le azioni necessarie al loro recupero...”
48. - l'art. 15 intitolato -contabilizzazione: tutte le partite di dare ed avere che sorgeranno in dipendenza del rapporto di factoring, saranno annotate dal Factor in apposito conto, eventualmente articolato in sottoconti"; "il corrispettivo dei crediti oggetto di cessione verrà annotato a credito del Fornitore all'atto dell'accettazione da parte del Factor, ma sarà reso disponibile solo dopo l'avvenuto incasso dei crediti stessi oppure alla diversa data pattuita, salvi i termini dì cui alle apposite appendici in caso di mancato pagamento del debitore il cui rischio
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sia assunto dal Factor. -A debito del Fornitore saranno registrati il corrispettivo di cui il Factor abbia anticipato la corresponsione, gli interessi maturati e quant'altro al Factor stesso dovuto a norma del presente contratto e di ogni altro documento che lo integri o modifichi. Il Factor invierà periodicamente al Fornitore gli estratti conto; in mancanza di contestazioni specifiche da parte del Fornitore a mezzo lettera raccomandata, gli estratti conto si intenderanno approvati trascorsi 60 giorni dal ricevimento degli stessi. Nei medesimi termini e condizioni s'intenderà tacitamente approvato ogni altro documento contabile dei Factor inviato al Fornitore. Le scritture contabile del Factor, le cui risultanze non siano contestate nei termini di cui sopra, faranno piena prova nei confronti del Fornitore. In caso di errori di scritturazione o di calcolo, omissioni o duplicazioni il Fornitore dovrà chiederne la rettifica al Factor con le medesime modalità, a pena di decadenza, entro 6 mesi dal ricevimento degli estratti conto da cui risultino; il Factor potrà ripetere quanto dovutogli per le stesse causali e per indebiti accreditamenti entro il termine di prescrizione ordinaria. Sarà cura del Fornitore richiedere al Factor copia dell'estratto conto, ove questo non gli pervenga secondo la periodicità prevista."
49. Si osserva che il dato testuale di detti articoli (richiamati a sostegno da entrambe le contrapposte difese) si adatta in astratto ad entrambe le cause (vendendi o mandati) a seconda del significato prevalente (o meno) che si dia a determinati termini. Ciò che consente a questa Corte di ritenere sussistente la causa mandati, interpretando quanto previsto letteralmente nelle suddette norme, sono gli effetti giuridici -e non quelli pratico-economici- che le parti hanno voluto ottenere attraverso un rapporto atipico con causa di mandato.
50. Sta di fatto che, nel caso di specie, la contestuale presenza di clausole coerenti talune con una vicenda propriamente traslativa ed altre con la vigenza di un mero mandato gestori all’incasso dei crediti, impone alla Corte di valutare se nella fattispecie i servizi a carico del Factor (gestione, recupero, contabilizzazione) siano prevalenti, o meno, rispetto alla causa vendendi.
51. Solo l'analisi del comportamento delle parti, nel corso di tutto il rapporto, consente di interpretare correttamente l'assetto contrattuale voluto dalle parti stesse.
Proprio l'andamento del rapporto mostra chiaramente come le anticipazioni, coprendo meno del 60% del monte crediti ceduti, non possano essere considerate quali anticipati corrispettivi (o comunque come delle anticipazioni destinate a divenir prezzo al momento dell'incasso del credito ceduto).
52. Peraltro, occorre sottolineare, che il Factor ha contrattualmente diritto anche a provvigioni e spese, donde la previsione contrattuale secondo cui l'ammontare delle anticipazioni non può mai eccedere il valore nominale dei crediti ceduti (cfr. art. 9 del contratto).
53. Nel caso di specie le anticipazioni si sono, viceversa, attestate ad un limite ben inferiore al valore nominale dei crediti ed hanno assolto dunque ad una mera e definitiva finalità di finanziamento. Le cessioni dei crediti, dunque, costituiscono negozi strumentali, assicurando una mera titolarità formale in capo al factor per consentirgli, nei rapporti versoi terzi, di dare esecuzione al compito gestionale assunto.
54. In conclusione, ciò che rileva è il descritto univoco comportamento che vede attestarsi le anticipazioni ad un importo troppo distante dal valore nominale dei crediti ceduti; ciò prova che nella percentuale delle anticipazioni non sono entrati in gioco altri fattori che potessero correlarsi alla maggiore o minore facilità d'incasso dei crediti o solvibilità dell'unico debitore ceduto.
55. Le parti intesero, dunque, concludere un contratto che attribuiva al Factor l'obbligo gestionale di curare la riscossione dei crediti della società oggi fallita nei confronti della "ASL", intento che ben si comprende in relazione proprio alla complessità ed ai ritardi che notoriamente caratterizzano il recupero dei crediti verso la “ASL”: attuazione dell'intento operata tramite cessioni strumentali di crediti, rispetto all'assunto obbligo gestionale di curarne la riscossione. 56, In tal senso va letta anche l'attuale prosecuzione del procedimento ordinario (come da ordinanza di rimessione della causa sul ruolo del primo giudice), innanzi al Tribunale di Milano, concernente il contenzioso tra la società di Factoring e [Asl] nei cui confronti la prima chiede la condanna al pagamento di Euro 6.989.579.58 a fronte di anticipazioni erogate alla Fallita estremamente ridotte.
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57. In altri termini, nonostante si sottolinei come la prestazione essenziale del contratto sia la cessione dei crediti d'impresa, la correlativa obbligazione del factor di gestione amministrazione e riscossione degli stessi, con periodico rendiconto ed effettuazione di anticipazioni sugli importi dei crediti ceduti prima del loro incasso induce ad attribuire al factoring la natura di mandato. La decisione di questa Corte muove dalla considerazione che la prestazione in ogni caso presente sia quella della gestione dei crediti ceduti, mentre le altre prestazioni del factor (corresponsione di anticipi, assunzione del rischio dell'insolvenza del debitore ceduto) risultano meramente accessorie ed eventuali. Ne consegue che il factoring dovrebbe essere qualificato come un mandato alla gestione dei crediti ceduti, cui si collega un negozio di finanziamento (mutuo). Si ricorda, nuovamente, che le cessioni di credito operate nell'ambito di un contratto di factoring, in quanto negozi attuativi dell'unitario programma negoziale e privi di propria autonomia, presentano pertanto la medesima causa di mandato del contratto cui accedono.
58. In conclusione, in forza dei summenzionati dati fattuali non può dubitarsi che i I contratto di factoring abbia nella fattispecie natura di mandato, da cui il Curatore ben ha potuto sciogliersi, producendo l'effetto di riacquisire la legittimazione all'incasso dei crediti, ex art. 78 LF. art. 7 Legge 52/1991, art. 20 contratto di Factoring.
59. Occorre rilevare il non condivisibile richiamo da parte dell'appellante dell'art. 7, Legge 52/91, norma che limita la possibilità di recesso del Curatore ai crediti non ancora sorti alla data della sentenza di fallimento.
Detta disposizione, infatti, non può trovare applicazione nella fattispecie in esame in cui il Curatore, stante la prevalente causa mandati del contratto di factoring, ha inteso sciogliersi dal rapporto determinandone la caducazione; non già recedere da esso.
60. Del pari non corretto il richiamo all'art. 20 del contratto di factoring che l'appellante, a pagina 12 del gravame, formula in relazione al fatto che lo scioglimento dal contratto ha riguardato il solo contratto di factoring e non gli atti notarili di cessione dei crediti della fallita società.
61. Quegli atti di cessione (del 2007 e 2008 prodotti in atti) rappresentano, infatti, come già detto, mere attività esecutive -cosi come emerge dalla parte letterale introduttiva delle stesse cessioni- che traggono la loro causa nel contratto di factoring: sciolto il quale gli stessi vengono meno. Trattasi infatti di cessioni strumentali, volte unicamente a consentire, sotto il profilo formale, che il factor potesse legittimarsi nei confronti della terza debitrice, in quella che, è stata una mera attività di gestione dell'incasso dei crediti.
62. Infine, solo per completezza di esame, si sottolinea che il giudizio di primo grado (che ha visto l'intervento del curatore fallimentare ed il presente procedimento di appello) non ricadono nella fattispecie di cui all'art. 24 L.F.
Infatti, l'intervento del curatore si fonda sulla revoca del mandato conferito all'originaria attrice ed il giudizio non -deriva- dal fallimento, secondo l'accezione di cui all'art. 24.
PRETESA VIOLAZIONE DELL'ART. 111 C.P.C..
63. Sostiene l'appellante che l'impugnata sentenza manifesterebbe i suoi vizi anche laddove si ritenesse intervenuto il ritrasferimento dei crediti per effetto dell'intervenuto scioglimento da parte del Curatore.
In detta ipotesi, a dire di [Factor], risulterebbe applicabile rari 111 c.p.c. con la conseguenza che, verificandosi il trasferimento del diritto controverso, al Giudice sarebbe stato precluso il potere di estrometterla dal processo senza il consenso della stessa.
64. Osserva la Corte che nell'ipotesi considerata non si assiste ad una retrocessione, essendo mancante la causa vendendi tra cedente e cessionario del credito.
Assolvendo la cessione ad una funzione meramente gestoria del credito - rimasto pertanto in capo alla fallita - non vi è margine per l'applicazione dell-art. 111 c.p.c..
SUL PRETESO ERRONEO REGIME DELLE SPESE.
65. Diversamente da quanto sostenuto dall'appellante, il Tribunale ha correttamente posto le spese a carico della parte soccombente, ex art. 92 c.p.c.,
66. Ritenuto assorbito e in ogni caso rigettato ogni altro motivo d'appello, la sentenza del
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Tribunale di Milano deve essere integralmente confermata, seppure con diversa motivazione, nei termini di cui al dispositivo e per i motivi di cui sopra,
67. Le spese di lite del grado d'appello, liquidate come in dispositivo in applicazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal DM 2018 n. 37 seguono la soccombenza, che è totale in capo all'appellante.
68. Sussistono inoltre i presupposti per l'applicazione dell'art. 13. co. I quater, DPR 115/2002. PQM
la Corte
1.Nella causa d'appello tra le parti di cui in epigrafe, rigetta l’appello e conferma la sentenza n. (omissis) del Tribunale di Milano;
I. Condanna [Factor] al pagamento in favore di [Fallimento Alfa] e di [Asl] delle spese di lite, liquidate -per ciascuna parte appellata- in E 10.000,00 complessivi, oltre rimborso spese forfettarie, nella misura del 15%. IVA, e CPA.
II. Ai sensi dell'art. 13, co. L quater. DPR 115/2002, condanna [Factor] al versamento del doppio del contributo unificato.
Così deciso in Milano nella Camera di consiglio del 17.7.2018
* * *
IL CASO
Con Contratto Quadro del 6 aprile 1999, il Cedente, Alfa, ha regolato con il Factor le cessioni dei crediti d’impresa che Alfa avrebbe maturato nell’ambito della propria attività imprenditoriale di fornitura di prestazioni sanitarie in regime di accreditamento. Nell’ambito del rapporto di factoring, sono stati sottoscritti tra il Cedente e il Factor atti pubblici di cessione dei crediti i) in data 5 maggio 2007 in riferimento a crediti, nei confronti di una Azienda Sanitaria Locale, già maturati e che sarebbero maturati per prestazioni rese sino al dicembre 2007; e ii) in data 30 maggio 2008 in relazione a crediti, sempre nei confronti del medesimo debitore Ceduto, già a quella data maturati e che sarebbero venuti a esistenza per prestazioni rese sino al dicembre 2009.
Le cessioni sono state regolarmente notificate alla ASL, seppure dalla medesima non accettate.
A seguito dell’inadempimento del debitore Ceduto, il Factor ha avviato un giudizio avanti il Tribunale di Milano chiedendo il pagamento dei crediti ceduti, ammontanti a un importo di circa 7 milioni di Euro. La ASL si è costituita in giudizio sostenendo, oltre alla incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, il difetto di legittimazione attiva del Cessionario per non aver, essa ASL, accettato le cessioni, nonché la risoluzione e/o invalidità del contratto di factoring.
Nel corso del giudizio di primo grado, è tuttavia intervenuto in giudizio il Fallimento del Cedente (fallimento dichiarato il 3 aprile 2013 dal Tribunale di Napoli) il quale ha allegato che il Curatore si sarebbe sciolto dal contratto pendente ai sensi dell’art. 72 l.f., scioglimento del contratto che, secondo la tesi espressa dalla Curatela, avrebbe comportato il venir meno della legittimazione attiva del Factor alla riscossione del credito1. In sostanza, secondo la prospettazione del Fallimento, il rapporto intercorso tra Alfa e il Factor si sarebbe risolto in un contratto di mandato per la gestione dei crediti di Alfa, con la conseguenza per cui, scioltosi il rapporto a seguito della scelta effettuata dalla Curatela, sarebbe venuta meno la legittimazione del Factor a riscuotere il credito nei confronti della ASL.
Lo scioglimento del contratto di factoring era peraltro stato autorizzato dal Giudice delegato presso il Tribunale di Napoli, con provvedimento reclamato dal Factor ai sensi dell’art. 26 l.f., reclamo contro il cui rigetto il Factor ha proposto ricorso in Cassazione.
Ritenendo di ravvisare un rapporto di pregiudizialità – dipendenza tra il pendente giudizio per Cassazione e l’azione nei confronti del debitore Ceduto esercitata dal Factor, il Tribunale di Milano ha disposto la sospensione di quest’ultimo giudizio in attesa della decisione della Suprema Corte.
1 A norma dell’art. 72, l.f., rubricato Rapporti Pendenti, “Se un contratto a prestazioni corrispettive è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezioni, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendone tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto. […]. 4. In caso di scioglimento, il contraente ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato adempimento, senza che gli sia dovuto risarcimento del danno”.
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La sentenza n. 13167/2017 della Corte di Cassazione ha quindi definito l’impugnazione del reclamo contro il provvedimento del Tribunale di Napoli, limitandosi a rilevare la natura non decisoria dello stesso (con valore quindi solo endofallimentare e insuscettibile di incidere in via definitiva sui diritti delle parti).
Il Tribunale di Milano, preso atto della decisione della Cassazione, ha respinto la domanda del Factor.
Il Factor ha impugnato la decisione di primo grado i) sostenendone la erroneità per aver riconosciuto alla decisione della Corte di Cassazione una efficacia di giudicato sui diritti soggettivi che non le era propria; ii) rilevando che il contratto di factoring intercorso tra Alfa e il Cessionario, in virtù del suo contenuto e alla luce della disciplina di cui alla L. 52/1991 così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, presentava una chiara prevalenza della causa vendendi
La Corte d’Appello milanese ha convenuto che nessun rilievo potesse avere ai fini della soluzione del caso concreto il mancato accoglimento del ricorso in Cassazione, sulla decisione del Tribunale di Napoli di rigetto del reclamo avverso l’autorizzazione allo scioglimento dal rapporto disposto dal Giudice delegato: la pronuncia di inammissibilità era infatti fondata – come rilevato dal Factor – sulla assenza di natura decisoria del provvedimento impugnato, con conseguente possibilità del Tribunale milanese di esercitare pienamente la propria cognizione sui diritti dedotti dalle parti, senza soffrire di alcuna preclusione di giudicato.
Ciò premesso la Corte d’Appello è passata a esaminare la questione, decisiva per la soluzione del caso concreto, circa la qualificazione causale del contratto di factoring intercorso tra Alfa e l’appellante.
Il Giudice di secondo grado ha richiamato la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione che configura il contratto di factoring quale una convenzione atipica, il cui nucleo essenziale è costituito dall’obbligo del cedente di cedere al factor la titolarità di crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa – pro soluto o pro solvendo – con effetto traslativo variabile nel tempo a seconda del modo di atteggiarsi concreto dell’accordo. Sulla scorta della stessa giurisprudenza, la Corte d’Appello ha richiamato poi la molteplicità delle funzioni economiche che possono caratterizzare il factoring, che comprendono sia la cessione di uno o più crediti, sia la funzione di finanziamento (in presenza di anticipazioni finanziarie), sia la funzione di garanzia del rischio dell’insolvenza (nella cessione pro soluto), sia l’assunzione da parte del factor di obbligazioni non strettamente inerenti alla cessione, aventi invece precipuamente a oggetto la gestione degli stessi (contabilizzazione, recupero del credito, incassi). Una molteplicità di funzioni dalla quale la stessa Cassazione fa seguire la considerazione generale secondo la quale la qualificazione sotto il profilo causale del singolo contratti dipende dagli effetti giuridici ravvisabili nel caso concreto, da valutarsi al fine di stabilire se le parti abbiano voluto effettivamente il trasferimento del credito secondo lo schema della causa vendendi ovvero abbiano voluto attribuire al factor una sola legittimazione all’incasso dei credito, attribuendogli un mandato in rem propriam.
Ebbene, secondo la decisione in commento, sarebbe stata, nel caso di specie, ravvisabile questa seconda ipotesi.
Questa convinzione è tratta dal Giudice, essenzialmente, dal rapporto tra anticipazioni e ammontare complessivo del credito. Le anticipazioni, infatti, nel corso del rapporto, non avrebbero mai superato una percentuale del 60% del valore nominale dei crediti ceduti. Questa, secondo la Corte troppo modesta, percentuale indurrebbe a qualificare nel caso concreto tali anticipazioni non quali un pagamento parziale del corrispettivo della cessione, ma quali meri finanziamenti.
Una simile interpretazione, secondo la Corte, valorizzerebbe - in presenza di un testo contrattuale le cui disposizioni contemplerebbero sia clausole compatibili con una causa vendendi, sia clausole espressive di una causa mandati - il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto, come prescritto dall’art. 1362, comma 2, c.c.
In sostanza, l’importo delle anticipazioni a fronte del complessivo ammontare dei crediti ceduti (o meglio, secondo la Corte, oggetto di gestione) consentirebbe di ritenere che il concreto rapporto tra il Factor e Alfa si esaurirebbe nel conferimento di un mandato al Factor per l’incasso del credito, accompagnato da anticipazioni con sola funzione finanziaria, che non potrebbero essere considerate anticipazioni dei corrispettivi e non sarebbero destinate a divenire prezzo al momento dell’incasso del credito ceduto.
Insomma, il contratto di factoring sottoposto all’attenzione della Corte, alla luce della sua concreta esecuzione, si esaurirebbe in un mandato all’incasso affiancato da un mutuo, senza alcun trasferimento del credito.
Ne conseguirebbe anche l’inconferenza del richiamo effettuato dal Factor al chiaro tenore dell’art. 7. L. n. 51/1992 che presuppone, con le eccezioni stabilite dal medesimo articolo e dal precedente art. 5, la opponibilità delle cessioni al fallimento del cedente.
Al Factor non resterebbe pertanto, secondo il decisum della Corte d’Appello, che consentire al Fallimento del Cedente di incassare i crediti oggetto di (non) cessione e insinuarsi al passivo per ottenere, in moneta fallimentare, la restituzione del credito derivante dalle anticipazioni.
Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring N. 4/2018
COMMENTO
La delicata questione relativa alla qualificazione causale del contratto di factoring, che sembrava aver trovato stabili approdi interpretativi alla luce di numerose pronunce della Corte di Cassazione e di Corti di merito che avevano finalmente riconosciuto la corrispondenza tra il factoring socialmente tipico e quello oggetto di disciplina nella legge sulla cessione dei crediti di impresa, torna ad agitare la giurisprudenza, con una pronuncia che suscita notevoli perplessità.
Il tema è di quelli fondamentali, non solo per l’inquadramento dommatico del contratto ma anche per le notevoli ricadute pratiche, icasticamente emergenti anche dalla pronuncia in commento.
E invero, anche in questo Osservatorio, è stata segnalata una linea evolutiva della giurisprudenza che, nello sforzo di sintetizzare le variegate posizioni della dottrina circa la qualificazione causale del factoring, tende sì, sempre, a far salva la necessità di scrutinare nel caso concreto i tratti peculiari della singola fattispecie, ma negli esiti interpretativi è orientata a riconoscere che i rapporti di factoring diffusi nella prassi imprenditoriale italiana sono caratterizzati da un tratto tipologico costituito dalla cessione (effettiva) del credito, in conformità alle disposizioni dettate dalla L. n. 51/1992.
Appare significativo il richiamo alla motivazione di Cassazione, I, 2 ottobre 2015, n. 197162 da cui la stessa Corte d’Appello di Milano prende le mosse per giungere a esiti interpretativi, si reputa, non condivisibili.
Secondo la Cassazione “[…] anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 52 del 1991, il contratto di factoring si configura come una convenzione atipica, il cui nucleo essenziale è costituito dall’obbligo assunto da un imprenditore (cedente o fornitore) di cedere ad un altro imprenditore (factor) la titolarità dei crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa, pro soluto o pro solvendo, con effetto traslativo variabile nel tempo a seconda dell’atteggiarsi dell’accordo, in quanto riconducibile al momento dello scambio dei consensi nel caso in cui la cessione sia globale ed abbia ad oggetto crediti esistenti, ovvero al momento in cui gli stessi vengano ad esistenza se si tratta di crediti futuri, o ancora al momento del perfezionamento della cessione, qualora la convenzione preveda la necessità di trasmettere i singoli crediti con distinti negozi. Com’è noto, le funzioni economiche del contratto sono molteplici, essendo lo stesso caratterizzato di regola dalla compresenza di plurime operazioni, quali appunto la cessione di uno o più crediti (con le possibili varianti del finanziamento in favore dell’impresa, attraverso anticipazioni o smobilizzi, e dell’assunzione del rischio dell’insolvenza) e l’assunzione da parte del factor di obbligazioni non strettamente inerenti alla cessione, aventi ad oggetto la gestione dei crediti; è stato tuttavia precisato che la qualificazione del contratto non dipende dagli effetti pratico-economici, ma da quelli giuridici, dovendosi accertare il risultato concreto perseguito dalle parti, e, segnatamente, se le stesse abbiano optato per la causa vendendi o per la causa mandati o per altra ancora e se la cessione del credito abbia funzione di garanzia ovvero solutoria, nonché se vi sia stato trasferimento dei crediti ovvero se le parti abbiano voluto soltanto il conferimento di un mandato in rem propriam”3. Ebbene, questa pronuncia, nel confermare la decisione oggetto di gravame ha poi proseguito affermando che “Nel procedere alla predetta verifica […] la sentenza impugnata ha espressamente affermato che il contratto di factoring stipulato tra la società fallita ed il [factor], nella sua struttura e operatività, risultava del tutto conforme allo schema negoziale disciplinato dalla L. 52 del 1991, la cui applicazione, postulando che le cessioni abbiano avuto luogo vendendi causa, implica logicamente l’esclusione della configurabilità di un mandato; tale qualificazione trova ulteriore conferma nel rilievo della sentenza impugnata, anch’esso funzionale all’esclusione della natura solutoria delle cessioni [..], secondo cui le stesse dovevano intendersi a titolo oneroso con corrispettivo effettivamente corrisposto per mezzo di accrediti su conto corrente, indipendentemente dalla circostanza per cui l’anticipazione dell’importo dei crediti ceduti desse luogo a corrispondenti addebiti a carico della società cedente”.
In questa linea interpretativa pare collocarsi la giurisprudenza che, ancora una volta pur partendo dalla necessità di valutare le concrete caratteristiche del rapporto, ha rilevato come nel contratto di factoring regolato dalla L. n. 52/1991 la cessione del credito in favore del factor non possa in via generale essere considerato un pagamento anomalo, in quanto l’inserimento
2 In questo Osservatorio, n. 1/2017, 18.
3 In senso conforme v. già Cass. civ., 15 febbraio 2013, n. 3829, in Giust. civ. Mass., 2013; Cass. civ., 28 febbraio 2008, n. 5302, in Foro pad., 2008, 303; Cass. civ., 11 maggio 2007, n. 10833, in Foro it., 2008, I, 1220. Nella giurisprudenza di merito, v. da ultimo, Trib. Benevento, 2 febbraio 2018, n. 226, in questo Osservatorio 3/2018.
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della cessione del credito nello schema causale del rapporto di factoring porta necessariamente all’applicazione del principio, ormai consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, per cui la cessione del credito, quale negozio a causa variabile, da ricercarsi in concreto attraverso l’individuazione della reale finalità perseguita dalle parti, è assoggettabile a revocatoria quale mezzo anormale di pagamento ex art. 67, comma 1, n. 2, L.F. soltanto se compiuta in funzione solutoria, cioè per estinguere un debito scaduto ed esigibile, mentre se ne sottrae quando sia stata stipulata a scopo di garanzia per un credito creato contestualmente, dovendo peraltro intendersi la contestualità in senso non già cronologico, ma eminentemente sostanziale e causale4. Anche in questa prospettiva si ha dunque il riconoscimento di un trasferimento effettivo del credito, negozialmente previsto fin dall’instaurazione del rapporto, e non una cessione successiva volta all’estinzione di un diverso credito finanziario. E ancora. Secondo Cassazione I, 7 luglio 2017, n. 16850, in motivazione “[…] nella prassi commerciale il contratto di factoring presenta una serie di varianti e clausole differenziate in relazione alle esigenze dei contraenti, ma il suo nucleo fondamentale e costante è costituito da un accordo complesso in forza del quale un’impresa specializzata, il factor, si obbliga ad acquistare (pro soluto o pro solvendo) per un periodo di tempo determinato e rinnovabile salvo preavviso, la totalità o parte dei crediti di cui un imprenditore è o diventerà titolare; il factor paga i crediti ceduti secondo il loro importo nominale decurtato di una commissione che costituisce il corrispettivo dell’attività da esso prestata o, talvolta, si stabilisce che al cedente il factor conceda delle anticipazioni sui crediti ceduti, nel qual caso al factor spetteranno, oltre alla commissione anche gli interessi sulle somme anticipate”5.
In altri termini, la posizione eclettica assunta dalla Cassazione appare un riflesso dell’annoso dibattito dottrinale che ha caratterizzato, come sopra anticipato, l’individuazione della causa del contratto socialmente tipico di factoring, ma nel contempo pare valorizzare adeguatamente la disciplina introdotta da questa normativa e suoi effetti nella ricostruzione sistematica del contratto di factoring.
Come noto, una parte della dottrina ha ricondotto il contratto di factoring allo schema tipico del contratto di mandato dei crediti ceduti (che, secondo tale tesi, può essere eventualmente collegato ad un contratto di finanziamento o di garanzia). Si tratterebbe, più precisamente, di un contratto di mandato senza rappresentanza con il quale il cedente conferisce al factor il mandato a compiere in nome proprio e nel proprio interesse atti giuridici di gestione dei crediti. Tali crediti sarebbero solo formalmente ceduti al factor, esclusivamente per consentire l’attività gestoria e quindi affinché sia a questi consentito l’esercizio efficiente di tutte quelle attività (es. contabilizzazione, gestione, recupero crediti, etc.) finalizzate allo scopo del realizzo dei crediti6.
Secondo i sostenitori della prevalenza della causa vendendi7, il contratto di factoring è invece un contratto di scambio
4 Cass. civ., 8 luglio 2015, n. 14260, in Fall., 2016, 164, con nota di DI MUNDO, L’inefficacia nei confronti del fallimento del cedente della cessione dei crediti d’impresa; Cass. civ., 10 giugno 2011, n. 12736, in Giust. civ. Mass., 2011, 993; Cass. civ., 27 aprile 2011, n. 9388, in Giust. civ. Mass., 2011, 660; Cass civ., 29 luglio 2009, n. 17683, in Giust. civ. Mass., 2009, 1244; Cass. civ., 22 gennaio
2009, n. 1617, in Giust. civ. Mass., 2009, 1, 100; Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 22014, in Giust. civ. Mass., 2007, 10; Cass. civ., 6
dicembre 2006, n. 26154, in Giust. civ. Mass., 2006, 12; Cass. civ., 31 agosto 2005, n. 17590, in Fall., 2006, 538; Cass. civ., 23
aprile 2002, n. 5917, in Giust. civ., 2003, I, 461; Cass. civ., 5 luglio 1997, n. 6047, in Fall., 1997, 1220.
5 In questo Osservatorio, n. 4/2017, 15.
6 Per la prevalenza del profilo della causa mandati nel contratto di factoring così come riscontrabile nei suoi aspetti socialmente tipici v. in dottrina PICCININI, Qualificazione giuridica delle operazioni di factoring, funzione della cessione dei crediti e revocabilità dei pagamenti effettuati dai debitori ceduti al factor in caso di fallimento dell’impresa cedente, in Banca borsa tit. cred., 2008, II, 614 e, prima della
l. 52/1991, ALPA, Qualificazione dei contratti di leasing e di factoring e suoi effetti nei confronti della procedura fallimentare, in Dir. fall., 1989, I, 190; LIBONATI, Il factoring, in Riv. dir. comm., 1981, I, 317. In giurisprudenza, ex multis, App. Milano, 24 aprile 2007, in Banca borsa tit. cred., 2008, II, 610; App. Lecce, 17 settembre 2001, in Arch. Civ., 2002, 581; Trib. Genova, 10 agosto 2000, in Fall., 2001, 517; Trib. Vicenza, 10 settembre 1998, in Dir. fall., 1999, II, 237; Trib. Genova, 17 ottobre 1994, in Fall. 1995, 315; Trib. Genova, 17 luglio 1991, in Giur. comm., 1992, II, 279.
7 In dottrina, v. ALBANESE – ZEROLI, Leasing e factoring, Milano, 2011, 230 ss; BUSSANI, Contratti moderni. Factoring, franchising e leasing, in Tratt. dir. civ. diretto da SACCO, Torino, 2004, 91; DE NOVA, Factoring in D. disc. priv., Sez. Comm., V, Torino, 1990, 354; ID., Nuovi contratti, Torino, 1994, 126; ID, La nuova disciplina della cessione dei crediti (factoring) in MUNARI (cur.), Sviluppi e nuove prospettive della disciplina del leasing e del factoring in Italia, Milano, 1988, 83. In giurisprudenza, v. già Cass. civ., 2 febbraio 2001, n. 1510, in Giust. civ. Mass., 2001, 197; Cass. civ., 12 aprile 2000, n. 4654, in Dir. fall., 2001, II, 767 (secondo la quale il contratto di factoring è una convenzione complessa nella quale confluiscono elementi sia di finanziamento, sia di trasferimento dei crediti, sia di gestione della totalità dei crediti, con prevalenza delle prime due funzioni di finanziamento e di trasferimento dei crediti); per la giurisprudenza di merito v. App. Lecce, 17 settembre 2001, in Arch. civ., 2002, 581; Trib. Genova, 17 ottobre 1994, cit.; Trib. Genova, 16 maggio 1994, in Fallimento, 1995, 315; App. Genova, 19 marzo 1993, in Riv. it. leasing, 1994, 377; Trib. Genova, 17 luglio 1991, in Giur. comm., 1992, II, 279 (con nota di BONAVERA); Trib. Genova, 19 novembre 1990, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 605 (con nota di DIMUNDO).
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caratterizzato dalla funzione di trasferimento dei crediti al factor, che acquisisce il diritto iure proprio alla loro riscossione. In questa prospettiva gli anticipi versati dal factor all'impresa cedente rappresentano un pagamento parziale del corrispettivo per la cessione dei crediti, in quanto tali anticipi sono calcolati in rapporto al valore nominale dei crediti ceduti ed indipendentemente dalla assunzione della garanzia dell'adempimento del debitore.
Ne consegue che, al momento della riscossione del credito, il factor risulterà debitore del cedente per la differenza tra la somma anticipata e quella effettivamente incassata a seguito dell'adempimento del debitore ceduto.
Ebbene, nella prospettiva della l. n. 52/1991 non vi può essere dubbio che l’operazione di factoring si incentra sulla cessione dei crediti verso corrispettivo8, depone in questo senso non solo la rubrica della legge, il suo tenore letterale e la natura derogatoria-integrativa rispetto alla disciplina della cessione ex artt. 1260 ss. c.c. della disciplina, ma anche regole di opponibilità dettate dagli arrt. 5 e 7.
E ciò è da ritenere pure a reputarsi la cessione in funzione di mera garanzia, e quindi la causa vendendi recessiva e strumentale rispetto a quella di finanziamento9. Come infatti recentemente rilevato dalla Corte di Cassazione, “al centro del factoring a fronte della spesso sottolineata prevalente funzione di scambio (v. Cass. n. 3829-13) – vi è l’affidamento della gestione di un c.d. portafoglio clienti dietro pagamento di un compenso, con conseguente prestazione, da parte del factor, di una serie di servizi collegati, tesi a comprendere tutti gli adempimenti della gestione commerciale; in simile prospettiva il factoring è un contratto atipico complesso (v. recentemente Cass. n. 16859-17) nel quale tuttavia la forma di anticipazione di denaro, corrispondente ai crediti a scadere, identifica e qualifica la stessa funzione di scambio, sì da rilevarne l’aspetto di finanziamento contro cessione dei crediti”10.
In altri termini, al di là delle affermazioni di principio per cui il concreto assetto degli interessi potrebbe ricondurre il singolo rapporto nell’alveo del mandato, pare doversi ritenere, alla luce dei precedenti sopra menzionati, che i contratti di factoring che si strutturino in aderenza allo schema della l. n. 52/1991 prevedano necessariamente e inevitabilmente il trasferimento del credito, effettivo e reale, dal cedente al cessionario.
In un rapporto di reciproco scambio tra legislazione e prassi, difatti, la legislazione del 1991 ha indubbiamente recepito i tratti di tipicità sociale del factoring introducendo una normativa che, anche al fine di favorire il nuovo strumento di finanziamento all’impresa, ha disciplinato alcune possibili patologie del rapporto, in particolare in relazione alla ipotesi di fallimento del cedente.
Di converso la prassi ha fatto costante riferimento alla legge sul factoring, e a essa si richiamano gli schemi contrattuali adottati generalmente dalle imprese di factoring per regolare in modo uniforme i propri rapporti.
In questo contesto, negare in contrasto con il tenore letterale dei contratti, con la disciplina richiamata dagli stessi e con lo stesso intento pratico perseguito dalle parti la applicabilità pressoché integrale della l. n. 52/1991 ai contratti di factoring socialmente tipici, in quanto questi ultimi si atteggerebbero come contratti di mandato, appare una opzione interpretativa obsoleta e scarsamente aderente alla realtà commerciale; si tratterebbe peraltro, di una vera e propria interpretatio abrogans, a distanza di quasi un trentennio dalla sua approvazione, della stessa legge sulla cessione dei crediti di impresa. Alla luce di queste considerazioni emergono i profili di criticità della pronuncia in commento.
Dalla motivazione della Sentenza della Corte d’Appello milanese emerge infatti come il rapporto di factoring oggetto della decisione fosse regolato dalle clausole contrattuali diffuse nella prassi commerciali che prevedono i) quale oggetto del contratto la cessione dei crediti verso un corrispettivo, ii) l’obbligo del cedente di astenersi da qualsiasi iniziativa volta all’incasso del credito e l’obbligo di trasmettere al Factor ogni somma eventualmente incassata dal debitore ceduto; iii) la possibilità di anticipare in tutto o in parte il pagamento del corrispettivo mediante anticipazioni produttive di interessi; iv) il ritrasferimento dei crediti in caso di inadempimento del debitore ceduto; v) l’annotazione dei reciproci rapporti in apposito conto.
Si tratta dunque di clausole caratteristiche del contratto di factoring socialmente tipico. Espungere un rapporto così strutturato dall’ambito di applicazione della l. n. 52/1991, sulla base della considerazione per cui il trasferimento del
Secondo questo orientamento, i singoli negozi di cessione del credito sono lo strumento centrale ed essenziale per il conseguimento dello scopo comune perseguito dalle parti e, pertanto, tali da incidere sulla configurazione della causa giuridica del contratto di factoring il cui dato qualificante è quello dell'effetto traslativo della cessione (in tal senso, v. App. Genova, 19 marzo 2003, in Vita not., 1994, 682).
8 Cfr. BUSSANI, Contratti moderni. Factoring, franchising e leasing, cit., 829.
9 CLARIZIA, Contratti di factoring, in I contratti del mercato finanziario (a cura di GABRIELLI-LENER), II, Torino, 1674. Per l’identificazione, nel contratto di factoring, di una prevalente causa di garanzia, v. anche CARNEVALI, Problemi giuridici del factoring, in Riv. dir. civ., 1978, 310; FOSSATI – PORRO, Il factoring, Milano, 1985, 143.
10 Così Cass. civ., 1° febbraio 2018, n. 2510, in questo Osservatorio, n. 1/2018, 12.
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credito sarebbe solo formale, in contrasto con il tenore letterale dell’accordo e con un corrispondente schema legale che ritiene tale trasferimento effettivo, appare una forzatura interpretativa.
Né appare condivisibile la valorizzazione dell’elemento costituito dal contegno delle parti nella esecuzione del contratto svolta nella decisione in commento, la quale ha rimarcato la circostanza per cui la concessione di anticipazioni non superiori al 60% del valore nominale del credito non potrebbe essere qualificata quale corrispettivo dell’anticipazione.
Il passaggio appare criticabile già per la dirimente ragione per cui il tenore letterale dell’accordo pare in realtà lasciare pochi margini di ambiguità, tali da rendere non condivisibile il richiamo al contegno delle parti per chiarire il senso di un accordo che già di per sé appare inequivoco11.
Inoltre la erogazione stessa delle anticipazioni era prevista nel contratto come meramente eventuale, e quindi indipendente dal verificarsi dell’effetto traslativo.
E ancora, la valorizzazione della percentuale dell’anticipazione pare introdurre un criterio interpretativo estrinseco al momento della conclusione dell’accordo, a esso successivo, e portatore di notevoli incertezza interpretative (quale sarebbe infatti la misura dell’anticipazione idonea a costituire corrispettivo della cessione?)
Ma, soprattutto, la Sentenza pare introdurre una contrapposizione tra causa di finanziamento – dalla Corte milanese ravvisata in anticipazioni modeste rispetto al complessivo ammontare del credito ceduto – e causa di scambio, che sarebbe ravvisabile in caso di più consistenti anticipazioni rispetto al valore nominale del credito ceduto. Si tratta tuttavia di una contrapposizione che pare negata dalla stessa recente giurisprudenza della Corte di Cassazione12 e altresì in contrasto con il consolidato principio per cui lo scopo di garanzia che può caratterizzare la cessione del credito non osta al riconoscimento di un effettivo e reale trasferimento del diritto di credito13.
Ne consegue, dunque, che anche riconoscendo nel contratto sottoposto alla sua attenzione un contratto con causa caratterizzante di finanziamento, la Corte avrebbe dovuto ritenere che il trasferimento dei crediti aveva la funzione di garantire l’anticipazione erogata, con conseguente applicabilità della disciplina di cui alla l. 52/1991. Disciplina che, con le disposizioni di cui agli artt. 5 e 7 e conformemente all’efficacia reale del trasferimento, impedisce che il fallimento del cedente e lo scioglimento del rapporto possa comportare – salvo i casi di invalidità, inopponibilità e revocatorie previsti dalla legge – la retrocessione del credito in capo al fallimento del cedente.
La Sentenza in commento rappresenta dunque un passo indietro nel percorso intrapreso dalla giurisprudenza volto a elaborare uno stabile e rigoroso inquadramento sistematico del contratto di factoring.
Avv. Massimo Di Muro
massimo.dimuro@munaricavani.it
11 E invero, come precisato dalla giurisprudenza, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi - tra i quali risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole - prevalgono su quelli interpretativi–integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività, quando l’applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativo–letterali risulti, da sola, sufficiente per rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti (cfr. Cass. civ., III, 18 dicembre 2015, n. 25450, in Guida al dir., 2016, 8, 92; Cass. civ., III, 11 marzo 2014, n. 5595, in Guida al dir., 2014, 23, 86; Cass. civ., sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6852, in Giust. civ. Mass.. 2010, 416;
Cass. civ., 14 dicembre 2009, n. 26165, in Il Civilista¸2011, 7-8, 30; Cass. civ., sez. lav., 12 novembre 2008, n. 27021, in Giust. civ.
Mass., 2008, 1613; Cass. civ., II, 13 maggio 1998, n. 4815, in Giust. civ. Mass., 1998, 1017; Trib. Milano, 15 dicembre 2009, in
Foro pad., 2011, 1, I, 97.
12 Cfr. Cass. civ., 1° febbraio 2018, n. 2510, cit.
13 Cass. civ., 3 luglio 2009, n. 15677, cit.; Cass. civ., 16 aprile 1999, n. 3797, in Giust. civ. Mass., 1999, 868; Cass. civ., 19 gennaio
1995, n. 575, in Fall., 1995, 838; Cass. civ., 5 novembre 1980, n. 5943, in Giust. civ. Mass., 1980, 11.
Osservatorio della giurisprudenza in materia di factoring N. 4/2018
Il punto di vista dell’industria italiana del factoring
a cura del Coordinatore della Commissione Legale Assifact, avv. Vittorio Giustiniani
La citata sentenza affronta alcuni aspetti rilevanti:
1. la natura di finanziamento del corrispettivo erogato da cui la cessione meramente formale e strumentale all’incasso in quanto avente causa di mandato;
2. il rapporto percentuale di smobilizzo dei crediti che nel tempo si è attestata ad una percentuale che, a dire dell’Organo giudicante, assolveva a una funzione di finanziamento e non di corrispettivo;
3. indirettamente, in quanto oggetto di una pronuncia incidentale su reclamo in Cassazione, della facoltà del curatore di sciogliere ex art. 72 LF i contratti pendenti;
4. l’analisi del testo contrattuale che, nell’orientamento dell’Organo giudicante si può adattare a entrambe le fattispecie di cessione con causa di vendita o con causa di mandato. Nel dubbio di quale valenza attribuire, il Giudice si è soffermato sui servizi prestati dal factor per valutare se prevalenti rispetto alla causa vendendi.
Relativamente al sub 1) la stessa, in realtà, è l’asserzione conclusiva del ragionamento svolto dal giudice sulla base degli altri punti in appresso specificati. Analizzando tali aspetti emergerà l’incongruenza dell’assunto conclusivo.
Relativamente al sub 2) le conclusioni tratte dal Giudice sono errate in quanto è la stessa L.52/91 ad attribuire tutela al Factor nei limiti del corrispettivo pagato: l’art. 5, punto 1, della Legge 52/91 precisa che la cessione è opponibile a una serie di soggetti, qualora il cessionario abbia pagato “in tutto o in parte il corrispettivo” con ciò a legittimare anche un pagamento parziale. Peraltro la norma in argomento non specifica alcuna percentuale minima, da cui l’incensurabilità della percentuale del 60% adottata per fondare la tesi della causa di mandato. Al più la percentuale rileverà ai fini della tutela se integrale o limitata al corrispettivo pagato.
Relativamente al sub 4) viene messa in risalto l’obbligazione di gestione, amministrazione, riscossione dei crediti con previsione di una rendicontazione. Da cui la conclusione che la prestazione principale del contratto sia quella di gestione e le altre meramente accessorie ed eventuali. In ordine a tali aspetti, il servizio accessorio viene inteso quale obbligazione principale del contratto, il che stravolge la “ratio” dell’intervento factoring.
In sostanza, la gestione del credito, in luogo di essere valutata per quanto essa in effetti rappresenta, ossia una attività che non costituisce l’obbligazione principale del contratto, ma attività meramente collaterale in termini di servizio assolto, viene fatta assurgere ad elemento qualificante del contratto e, in quanto tale, presupposto per ravvisare nella cessione una causa di mandato. Il che non è vero.
In ogni caso occorre evidenziare che ciò che il factor pone in essere in tema di cessione pro-solvendo non costituisce un vero e proprio obbligo di rendiconto, sostanziandosi in un onere informativo sullo stato dei pagamenti del debitore ceduti e ciò nella premessa che in tema di pro-solvendo sussiste il diritto di rivalsa verso il cedente nel caso di mancato pagamento del debitore ceduto. Quest’ultimo è un aspetto fondamentale che, se non esattamente compreso e valutato, rischia di comportare una asserzione di equivalenza “pro-solvendo=finanziamento”.
Relativamente al sub 3) non conosciamo i termini della pronuncia della Corte di Cassazione in quanto si tratta di una pronuncia endoprocessuale. In ogni caso dobbiamo rilevare che l’art. 72 della L.F. prevede dei precisi presupposti ai fini dello scioglimento del rapporto ancora pendente (con il richiamo ai contratti con effetti reali). Sul punto non avendo riferimenti non si è in grado di capire cosa sia stato sciolto, se (i) il contratto di factoring o (ii) la cessione di crediti futuri.
Nel primo caso, il contratto, questo è solo un accordo quadro e non possono conseguire gli effetti evidenziati nella sentenza. Nel secondo caso, cessione di crediti futuri, questa ha effetti obbligatori per i crediti non ancora venuti ad esistenza mentre perché per i crediti venuti ad esistenza l’effetto reale si verifica automaticamente. Con riferimento ai crediti non ancora venuti ad esistenza, però, dovrebbe trovare attuazione l’art. 7 della L.n.52/91 e non l’art. 72 LF per cui vi potrebbe essere un conflitto di leggi speciali.
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2.
Cassazione Civile, sez. III, 30 ottobre 2018, n. 27442
Contratti bancari – Interessi moratori e interessi corrispettivi – Tasso di interessi – Soglia usuraria – Nullità – Interessi legali
(Codice Civile, artt. 1224, 1282, 1815; Codice Penale, art. 644; Legge 7 marzo 1996, n. 108, art.
2; D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1)
È nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla Legge 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali.
Il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione o incremento.
Nonostante l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, rispetto questi ultimi non sembra applicabile l’art. 1815, comma 2, cod. civ., atteso che detta norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa; il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire al danneggiato, secondo le norme generali, gli interessi al tasso legale.
* * *
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele - Presidente - Dott. IANNELLO Emilio - Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco - rel. Consigliere - Dott. POSITANO Gabriele - Consigliere -
Dott. GORGONI Marilena - Consigliere - ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24738-2016 proposto da:
[Alfa], in persona del sig. [Tizio] e [Tizio] in proprio, elettivamente domiciliati in (omissis), presso lo studio dell'avvocato (omissis), rappresentati e difesi dall'avvocato (omissis) giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrenti -
contro
[Banco Beta], in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avvocato(omissis), che la rappresenta e difende giusta procura in atti;
- controricorrente - avverso la sentenza n. 2232/2016 della Corte d'appello di Milano, depositata il 06/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/05/2018 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che:
1. Nel 2006 la società [Alfa], stipulò un contratto di leasing con la Banca (omissis) (che in seguito muterà ragione sociale in [Banco Beta]; d'ora innanzi, per brevità, "il Banco").
I debiti dell'utilizzatore verso il concedente vennero garantiti con una fideiussione da [Tizio].
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2. Nel 2013 la [Alfa] e [Tizio] convennero dinanzi al Tribunale di Milano il Banco, esponendo che:
(-) il contratto di leasing sopra indicato prevedeva nel caso di inadempimento dell'utilizzatore interessi moratori nella misura dell'8,6% annuo;
(-) tale saggio di interessi era superiore a quello massimo legale (c.d. tasso-soglia) applicabile ratione temporis, pari al 7,86% (il ricorso non precisa se alla data di pattuizione del saggio, a quella di costituzione in mora, ovvero a quella di introduzione del giudizio);
(-) di conseguenza il saggio degli interessi di mora doveva ritenersi usurario, e quindi nullo il relativo patto;
(-) conseguenza della nullità del patto che fissava la misura degli interessi moratori era la liberazione del debitore dal pagamento di qualsiasi interesse, ai sensi dell'art. 1815 c.c..
Gli attori conclusero pertanto chiedendo che fosse dichiarata la nullità del suddetto patto di interessi moratori in misura ultralegale; che fosse dichiarata l'insussistenza dell'obbligo dell'utilizzatore di pagare interessi; che fosse dichiarata la liberazione del fideiussore ex art. 1956 c.c., e che il Banco fosse condannato alla restituzione "di quanto indebitamente percepito".
3. Il Banco si costituì eccependo - per quanto qui ancora rileva che "il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari" (secondo la dizione di cui all'art. 644 c.p.c., comma 3), ovvero il tasso-soglia, non fosse applicabile agli interessi di mora.
4. Con sentenza 23.12.2014 n. 15315 il Tribunale di Milano rigettò la domanda, ritenendo che la regola per cui gli interessi eccedenti il tasso-soglia sono usurari e non dovuti non si applicasse agli interessi moratori.
La sentenza venne appellata dai soccombenti.
5. La Corte d'appello di Milano, con sentenza 6.6.2016 n. 2232, rigettò il gravame. La Corte d'appello ritenne che:
a) gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono "ontologicamente" disomogenei, poiché:
a’) i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale; a’’) i primi sono necessari, i secondi eventuali;
a’’’) i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento;
b) non esiste nessuna norma di legge che commini la nullità degli interessi moratori eccedenti il tasso soglia;
c) tanto si desume dalla circostanza che la rilevazione periodica, da parte del Ministero del Tesoro, degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari viene effettuata trascurando quelli moratori;
d) sarebbe stato irrazionale, nel caso di specie, ritenere usurari interessi moratori convenzionali al saggio dell'8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%.
6. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione dalla [Alfa] e da [Tizio], con un unitario ricorso fondato su due motivi.
Ha resistito il Banco, con controricorso illustrato da memoria.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso. Considerato che:
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione della L. 7 marzo 1996, n. 108 e dell'art. 644 c.p..
L'illustrazione del motivo esordisce censurando come "contraddittoria" la sentenza d'appello, nella parte in cui da un lato ha negato che esistano norme che fissino la misura massima degli interessi moratori, e dall'altro ha osservato come non potesse ritenersi usurario un saggio di mora, applicato dal Banco, inferiore a quello previsto dalla legge per il caso di ritardo nell'adempimento delle transazioni commerciali (deve ritenersi, di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231).
Prosegue quindi la difesa dei ricorrenti sostenendo che la L. 7 marzo 1996, n. 108 (c.d. legge antiusura) non fa nessuna distinzione tra interessi moratori e corrispettivi; che pertanto anche i primi, come i secondi, possono essere qualificati come "usurari" se eccedenti il tasso soglia; che tale interpretazione sarebbe imposta, oltre che dalla lettera della legge, anche dalla sua ratio, ovvero prevenire i fenomeni
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usurari.
Corollario di tale interpretazione dovrebbe essere, secondo i ricorrenti, che nel caso di pattuizione di interessi moratori usurari il debitore non è tenuto al pagamento di alcun interesse, ai sensi dell'art. 1815 c.c., comma 2, secondo cui "se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi".
1.2. Il motivo è fondato.
Gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, vanno qualificati ipso iure come usurari, con le conseguenze di cui si dirà più oltre.
Questo principio è già stato reiteratamente affermato sia da questa Corte in sede civile e penale, sia dalla Corte costituzionale.
Nondimeno la constatazione di come tale principio resti non infrequentemente trascurato da parte dei giudici di merito; ed il rilievo di come esso appaia sostanzialmente incompreso con riferimento alla prassi seguita da parte degli organi amministrativi preposti a dare attuazione alle prescrizioni di cui alla
L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, inducono questa Corte a ripercorrerne il fondamento, la portata e le conseguenze.
Da questa disamina si trarranno i principi di diritto cui il giudice di rinvio, nel riesaminare l'appello, dovrà attenersi.
1.3. La L. n. 108 del 1996, art. 2, cit., vieta di pattuire interessi eccedenti la misura massima ivi prevista. Questa norma s'applica sia agli interessi promessi a titolo di remunerazione d'un capitale o della dilazione d'un pagamento (interessi corrispettivi: art. 1282 c.c.), sia agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (interessi moratori: art. 1224 c.c.).
Tale conclusione è l'unica consentita da tutti e quattro i tradizionali criteri di ermeneutica legale: l'interpretazione letterale, l'interpretazione sistematica, l'interpretazione finalistica e quella storica.
1.4. (A) L'interpretazione letterale.
Dal punto di vista dell'interpretazione letterale, nessuna delle norme che vietano la pattuizione di interessi usurari esclude dal suo ambito applicativo gli interessi usurari.
L'art. 644 c.p., comma 1, stabilisce: "chiunque (...) si fa dare o promettere (...) in corrispettivo di una prestazione di denaro (...) interessi (...) usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da Euro 5.000 a Euro 30.000".
Il terzo comma della stessa disposizione recita: "la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari".
A tali norme ha dato attuazione la L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, il quale - nel testo vigente all'epoca della stipula del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (2006) - stabiliva che "il limite previsto dall'art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà".
Infine, il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1, (convertito nella L. 28 febbraio 2001, n. 24), nell'interpretare autenticamente l'art. 644 c.p., ha stabilito: "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. (...) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento".
1.4.1. Nessuna delle suddette norme distingue tra i vari tipi di interessi.
La prime tre parlano genericamente di "interessi" tout court; la quarta soggiunge che l'usurarietà va valutata al momento della pattuizione "a qualsiasi titolo".
Ma quella di pagamento degli interessi è una obbligazione, e il "titolo" dell'obbligazione come noto è costituito dalla qualità giuridica della sua fonte.
Poiché dunque gli interessi possono essere pattuiti sia a titolo di corrispettivo della cessione d'un capitale (art. 820 c.c., comma 3; art. 1282 c.c., art. 1499 c.c.); sia a titolo della remunerazione d'una prestazione a pagamento differito (arg. ex art. 1714 c.c.); sia a titolo di mora (art. 1224 c.c.), la previsione secondo cui il giudizio di usurarietà può riguardare gli interessi pattuiti "a qualunque titolo" rende palese che per la lettera della legge anche gli interessi di mora restano soggetti alle norme antiusura.
La conclusione appena raggiunta è confermata dai lavori preparatori della L. n. 24 del 2001 (che, come s'è detto, convertì in legge il D.L. n. 394 del 2000, che a sua volta interpretò autenticamente l'art. 644
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c.p.): nella relazione che accompagnò, nella XIII legislatura, l'esame in aula del D.D.L. n. S-4941 si legge, infatti, al p. 4, che il decreto aveva lo scopo di chiarire come si dovesse valutare la usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse, "sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio".
Appare dunque, impossibile negare che le norme antiusura si applichino agli interessi moratori convenzionali, se lo stesso legislatore, nell'interpretarle autenticamente, intese precisare che esse si dovessero applicare senza distinzioni.
1.4.2. Si è obiettato in dottrina che l'art. 644 c.p., comma 1, incriminando la sola dazione o promessa di interessi usurari "in corrispettivo di una prestazione di denaro", implicitamente limiterebbe il campo applicativo delle norme antiusura agli interessi corrispettivi. L'obiezione non ha pregio.
Infatti - lo si dirà meglio più oltre - la corresponsione degli interessi di mora per il nostro ordinamento ha la funzione di tenere indenne il creditore della perduta possibilità di impiegare proficuamente il denaro, dovutogli.
Gli interessi corrispettivi ex art. 1282 c.c. remunerano dunque un capitale di cui il creditore si è privato volontariamente; quelli moratori ex art. 1224 c.c. remunerano invece un capitale di cui il creditore è rimasto privo involontariamente: ma tanto gli uni, quanto gli altri, rappresentano - secondo la celebre espressione paretiana - "il fitto del capitale".
Anche gli interessi moratori, pertanto, costituiscono la remunerazione di un capitale, e rientrano nella previsione degli interessi "promessi o dovuti in corrispettivo di una prestazione in denaro".
1.5. (B) L'interpretazione sistematica.
Interessi corrispettivi ed interessi convenzionali moratori sono ambedue soggetti al divieto di interessi usurari, perchè ambedue costituiscono la remunerazione d'un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente.
Gli interessi moratori previsti dall'art. 1224 c.c., infatti, hanno la funzione di risarcire il creditore del danno patito in conseguenza del ritardo nel pagamento d'un debito pecuniario.
Ma il danno che il creditore d'una somma di denaro può patire non può che consistere o nella necessità di ricorrere al credito, remunerando con l'interesse chi glielo conceda; o di rinunciare ad impiegare la somma dovutagli in investimenti proficui.
Tanto nell'uno, quanto nell'altro caso, il "danno" patito dal creditore d'una obbligazione pecuniaria altro non è che la conseguenza del principio economico della naturale fecondità del danaro.
Ma questo principio economico è altresì alla base del patto di interessi accessorio ad un contratto di mutuo.
Così come chi dà a mutuo una somma di denaro legittimamente esige un interesse, perché deve essere compensato della privazione di un bene fruttifero (il capitale), allo stesso modo chi non riceve tempestivamente la somma dovutagli deve essere compensato dei frutti che quel capitale gli avrebbe garantito, se ne fosse rientrato tempestivamente in possesso.
Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d'un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione.
1.5.1. La conclusione appena esposta è corroborata dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi sull'art. 1224 c.c.; dalla Relazione al vigente codice civile e da autorevole dottrina.
1.5.2. Questa Corte, nell'interpretare l'art. 1224 c.c., ha già ripetutamente stabilito che questa norma disciplina sì il risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ma il "danno" da ritardato adempimento d'una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario.
Questo "danno" è presunto dal legislatore juris et de jure nel suo ammontare minimo, che non può essere inferiore al saggio legale (art. 1224 c.c., comma 1), poiché "non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; (...) risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo" (Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419 - 01). Ciò conferma che gli interessi moratori, convenzionali o legali che siano, remunerano un capitale, né più, né meno, che gli interessi corrispettivi.
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1.5.3. Che gli interessi convenzionali moratori e corrispettivi abbiano la medesima funzione economica è confermato indirettamente dalla Relazione al codice civile.
Va ricordato, a tal riguardo, che nel codice civile del 1865 l'art. 1831, comma 4, vietava la pattuizione orale di interessi ultralegali (senza distinzione alcuna tra corrispettivi e moratori), e stabiliva che in caso contrario non fosse dovuto alcun interesse.
Tale norma, come noto, non venne riprodotta nel codice civile del 1942. La Relazione al vigente codice civile afferma di avere ritenuto "eccessivo" riprodurre quella norma perchè essa aveva lo scopo contrastare l'usura, ed era divenuta inutile dal momento che "contro l'usura può reagirsi penalmente" (così la Relazione del ministro guardasigilli alla maestà del Re Imperatore sul libro del codice civile "delle obbligazioni", Roma, 1941, 57, p. 60).
Ora, se l'art. 1831 c.c. del 1865 non venne riprodotto nel codice del 1942 perché "contro l'usura può reagirsi penalmente", e se l'art. 1831 c.c. del 1865 pacificamente era ritenuto applicabile a tutti gli interessi convenzionali (tanto corrispettivi quanto moratori), ciò dimostra che la Relazione dava per scontato che anche agli interessi moratori fossero applicabili le norme (in quel caso penali) contro l'usura.
1.5.4. Autorevole dottrina, infine, ha da tempo messo in luce che la fonte degli interessi non ha nulla a che vedere col problema della loro misura.
La fonte può essere legale o convenzionale; la misura incontra il limite della forma scritta ad substantiam per gli interessi ultralegali.
La forma scritta ad substantiam è richiesta dalla legge sia per gli interessi corrispettivi, sia per quelli moratori, e nessuno dubita che sia richiesta a tutela del debitore.
Sarebbe, pertanto, illogico ritenere che la tutela del debitore apprestata dal codice civile si applichi ad entrambi i tipi di interessi, e quella apprestata dalla legge antiusura si applichi solo agli interessi corrispettivi. Identica è, nell'uno come nell'altro caso, la funzione degli interessi; identica è la posizione del debitore, ed identico è il rischio di approfittamento da parte del creditore.
1.5.5. S'è detto sin qui che gli interessi convenzionali moratori e quelli corrispettivi hanno la medesima funzione (remunerare il mancato godimento d'un capitale), e che tale identità di funzione giustifica l'assoggettamento di entrambi alla legislazione antiusura.
Deve ora aggiungersi che le conclusioni appena raggiunte non sono scalfite dalla tralatizia affermazione secondo cui gli interessi corrispettivi e quelli moratori avrebbero una funzione diversa: remunerativa i primi, risarcitoria i secondi.
Ciò per tre ragioni.
La prima ragione è che tale scolastica distinzione prescinde del tutto dalla genesi e dallo sviluppo storico della distinzione tra interessi compensativi e moratori, di cui si dirà più oltre (infra, p.p. 1.6 e ss.).
La seconda ragione è che quella appena ricordata costituisce una delle purtroppo non rare tralatizie affermazioni, spesso irriflessivamente reiterate, dal cui abuso hanno messo in guardia le Sezioni Unite di questa Corte, allorché hanno indicato, come precondizione necessaria per l'interpretazione della legge, la necessità di "sgombrare il campo di analisi da (...) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei "mantra" ripetuti all'infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (...), (il quale) resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l'ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica" (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
La terza ragione è che, anche ad ammettere che gli interessi moratori abbiano lo scopo di risarcire il creditore, e quelli corrispettivi di ricompensarlo per il prestito d'un capitale, tale affermazione resterebbe una mera declamazione teorica. Sul piano del diritto positivo, infatti, mancano sia norme espresse, sia plausibili ragioni giuridiche che giustifichino un diverso trattamento dei due tipi di interessi quanto al contrasto dell'usura.
1.6. (C) L'interpretazione finalistica.
Che gli interessi convenzionali moratori non sfuggano alle previsioni della L. n. 108 del 1996 è confermato dalla ratio di tale legge.
La L. n. 108 del 1996 venne dettata al fine di troncare le infinite questioni che, in precedenza, si ponevano in giudizio allorché si trattava di accertare l'usurarietà di un patto di interesse: se occorresse adottare il criterio oggettivo o quello soggettivo, come valutare il contesto del contratto, quanto rilevasse la condizione e qualità personale delle parti, e via dicendo.
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La L. n. 108 del 1996 ha introdotto un criterio oggettivo al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell'usura, e dall'altro il superiore interesse pubblico all'ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche.
Escludere, pertanto, dall'applicazione di quella legge il patto di interessi convenzionali moratori da un lato sarebbe incoerente con la finalità da essa perseguita; dall'altro condurrebbe al risultato paradossale che per il creditore sarebbe più vantaggioso l'inadempimento che l'adempimento; per altro verso ancora potrebbe consentire pratiche fraudolente, come quella di fissare termini di adempimento brevissimi, per far scattare la mora e lucrare interessi non soggetti ad alcun limite.
1.7. (D) L'interpretazione storica.
Che anche gli interessi convenzionali di mora soggiacciano alle previsioni dettate dalla legge antiusura è conclusione imposta da una millenaria evoluzione storica, dalla quale non può prescindere l'interprete che volesse degli istituti giuridici non già ritenere il vuoto nome, ma intenderne la vim ac potestatem.
L'analisi storica dell'istituto in esame conferma infatti che:
(a) gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; non è dunque storicamente vero che le due categorie di interessi siano "funzionalmente" differenti;
(b) l'opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse non per sottrarre gli interessi moratori alle leggi antiusura, ma per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court;
(c) la presenza nel nostro codice civile di due diverse norme, l'una dedicata agli interessi moratori (art. 1224 c.c.) l'altra agli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) non si spiega con la distinzione tra le due categorie di interessi e non ne giustifica un diverso trattamento rispetto alle pratiche usurarie, ma è retaggio dell'unificazione del codice civile e di quello di commercio, che avevano risolto in termini diversi il problema della decorrenza degli effetti della mora.
La pretesa distinzione "ontologica e funzionale" tra le due categorie di interessi non solo è dunque un falso storico, ma sorse e si affermò per circoscritti e non più attuali fini. Tale inesistente distinzione "funzionale" non giustifica affatto la pretesa che gli interessi moratori sfuggano all'applicazione della L. n. 108 del 1996.
Nei p.p. che seguono si darà conto di tali affermazioni.
1.7.1. I giuristi romani di epoca classica distinsero vari tipi di interessi: tra questi, rileva ai nostri fini la distinzione tra interessi dovuti in virtù d'un patto ad hoc (foenus ex conventione); e quelli dovuti per diritto pretorio (usurae officio iudicis: per tale distinzione, tra i tanti, si veda Marciano, Libri IV Regularum, in Dig., XXII, I, 32, 2).
I primi avevano la funzione di remunerare un capitale dato a mutuo, ed il loro fondamento era spiegato col fatto che il mutuante, privandosi della disponibilità del capitale dato a mutuo, si sarebbe privato anche dei relativi frutti, i quali dovevano perciò essere compensati dall'obbligo di pagamento del foenus. I secondi erano concepiti come una remunerazione compensativa del pregiudizio che il creditore, non
-ricevendo tempestivamente la restituzione o il pagamento di quanto dovutogli, aveva patito per non potere investire l'importo dovutogli e farlo fruttare (foenus odiosum nomen est, usura non item. Usurae non propter lucrum petentium, sed propter moram solventium infliguntur: così Dig., XXII, I, 17, 3).
Tuttavia la distinzione tra interessi dovuti lucri petentis causa ed interessi dovuti morae solventis causa veniva dai giuristi romani affermata solo in astratto: anche i secondi, infatti, venivano concepiti come un surrogato dei frutti del capitale non tempestivamente restituito: usurae vicem fructuum obtinent, scriveva infatti Ulpiano nei suoi Libri XV ad edictum, in Dig., XXII, I, 34.
Nel diritto romano classico, dunque, gli interessi (che oggi chiameremmo) corrispettivi e quelli (che oggi chiameremmo) moratori assolvevano analoga funzione: remunerare un capitale del quale il proprietario era stato temporaneamente privato.
1.7.2. Da questa affinità concettuale tra i due istituti (foenus ed usurae) discese che per lunghi secoli l'uno e l'altro furono sempre soggetti alle medesime regole in tema di usura.
La pratica dell'usura fu infatti sempre odiosissima (omnia conductis coemens obsonia nummis, ricorda Orazio nelle Satire, II, 9), e la sua repressione attraverso la fissazione di un saggio degli interessi invalicabile è antica quanto la nostra cultura giuridica.
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Nel diritto romano arcaico un "tasso soglia" (foenus unciarum) venne introdotto sin dal VI secolo a.C. nella legislazione tavolare (secondo quanto riferisce Tacito, Annales, VII, 16, 2). Questo tasso subì periodiche variazioni, e restò fissato nella misura del 6% dall'imperatore Giustiniano.
Tale limite trovava applicazione sia per gli interessi dovuti ex conventione (o corrispettivi che dir si voglia, con terminologia moderna); sia per gli interessi dovuti ex officio judicis (tra i quali rientravano le usurae moratoriae).
Illuminante, al riguardo, è un rescritto dell'imperatore Giustiniano al prefetto del pretorio Menna (in Codex, IV, XXXII, 26), nel quale, dopo avere stabilito la misura massima degli interessi, si soggiunge: "et eam quantitatem usurarum etiam in aliis omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem exigi usurae solent".
Il saggio oltre il quale gli interessi erano reputati illegittimi trovava dunque applicazione non solo nel caso di interessi concordati quale remunerazione d'un capitale dato a prestito, ma anche "in aliis omnibus casis", e dunque anche nelle ipotesi in cui gli interessi erano dovuti officio judicis.
Interessi moratori e foenus si distinguevano dunque solo nella causa, non nella disciplina, perchè per i giuristi romani tanto gli interessi contrattati (foenus) quanto quelli "legali" (usurae) erano soggetti al limite invalicabile stabilito dalla legge o, nei giudizi di buona fede, dagli usi della regione (mos regionis). Il limite dettato per l'usura pattizia valeva dunque anche per quella da mora (Papiniano, Libri II quaestionum, in Dig., XXII, I, 1; così pure la costituzione imperiale di Gordiano in Codice, IV, XXXII, 15).
1.7.3. Nel diritto tardoantico ed altomedioevale il divieto di pattuire interessi usurari si trasformò in quello di pattuire interessi tout court.
La patristica del V e del VI sec. (ed in particolare San Gerolamo, Sant'Ambrogio, Sant'Agostino) ritenne infatti il prestito ad interesse non consentito dall'esegesi d'un passo del Vangelo di Luca (mutuum date nihil inde sperantes: Luca, 6, 35).
Il divieto canonistico dell'usura, col rifiorire dei commerci e degli studi giuridici nel XII sec., divenne palesemente anacronistico. Fu così che la dottrina tanto canonistica quanto civilistica iniziò a concepire una serie di deroghe legittime ad esso.
Tra queste, una rileva in particolare ai nostri fini: si ammisero le usurae concordate per l'ipotesi di ritardo nel rimborso del prestito, con la giustificazione che in tal caso gli interessi non costituivano l'immeritata percezione d'un compenso senza controprestazione (il che avrebbe incontrato il divieto canonistico), ma il risarcimento d'un danno patito dal creditore per non avere potuto impiegare la somma dovutagli. In quell'epoca, dunque, si distinsero le usurae moratoriae dalle usurae remuneratoriae non perché le une e le altre fossero istituti ontologicamente diversi, ma perché solo la qualificazione degli interessi come moratori consentiva di sottrarli al divieto di pattuire interessi.
Ma anche nel diritto intermedio non si dubitava che gli interessi, quando ammessi perché moratori, incontrassero comunque il limite del saggio previsto dagli usi locali (mos regionis).
1.7.4. L'opinione secondo cui gli interessi moratori hanno lo scopo di risarcire il danno da ritardato adempimento, sorta al fine di svincolare l'istituto degli interessi di mora dai divieti canonistici, non impedì mai ai giuristi delle epoche successive (la Scuola Culta, il Diritto Comune, i Giusnaturalisti) di avere ben chiaro che il "danno" patito dal creditore che si vede tardivamente restituire il capitale è pur sempre un danno da lucro cessante; che esso consiste nella perduta possibilità di investire il capitale dovutogli e ricavarne un lucro finanziario; che la liquidazione di tale danno in forma di interessi non è altro che una convenzione; che, di conseguenza, la funzione degli interessi moratori, proprio come quelle degli interessi corrispettivi, è remunerare il creditore per la forzosa rinuncia a far fruttare il proprio capitale.
Per quei giuristi poteva pur concedersi in astratto che gli interessi corrispettivi garantivano un lucro, e quelli moratori evitavano un danno ("foenus est ad sortem tantum creditam additamentum ex conventione; usura est ad sortem, quae debetur, cuiusve positio est quacumque ex causa, accessio ex conventione, vel officio judicis": così (omissis).
E tuttavia essi non dubitarono mai che l'unica differenza tra gli uni e gli altri riguardava la fonte, non la funzione degli interessi.
Anche coloro che qualificavano gli interessi corrispettivi come "frutti", e quelli moratori come "risarcimento", ammettevano però unanimemente che quest'ultimo aveva lo scopo di tener luogo dei
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frutti perduti, e venivano accordati al posto di quelli ("usura, quae propter moram infligitur, non est foenus, sed pro eo, quod interest, infligitur officio judicis ex tempore morae, ut non male idem Theodorus in hac lege ita scribat, (vedi PDF per citazione greca), confundens cum usuris id quod interest, quia scilicet exiguntur vice eius, quod interest": così, ancora, Cuiacio, Ad librum VII Codicis recitationes solemnes seu commentarli, ad titulum XLVII De Sententiis).
La funzione risarcitoria assegnata agli interessi moratori, teoricamente ineccepibile, non ebbe mai nel diritto comune l'effetto di sottrarli alla disciplina dell'usura.
I giuristi del XVI ed il XVII sec. non esitarono ad affermare che gli interessi moratori "sub colore ejus quod interest ("id quod interest" era definito il danno risarcibile, n.d.e.) nihil aliud quam foeneris, usuraeque vis, ac potestas comprehenditur" (Noodt, De foenore et usuris, I, 12); che sottrarre gli interessi moratori alla disciplina dell'usura era "velut somnium, et deliramentum rejeciendus" (Dumoulin (Molinaeus), Tractatus commerciorum et usurarum, II, 75); che non c'era "nulla di più assurdo" che assoggettare alle norme contro l'usura gli interessi compensativi, ed escluderne quelli moratori, perché anche questi ultimi recavano con sè il sospetto dell'ingiusto guadagno: "lex (...) tantundem faveat iis usuris quae ex mora veniunt, quantum iis quis ex mutuo stipulatus est, quia hae semper suspicionem aliquam improbi lucri secum ferunt" (Hotman (Hotomanus), De usuris, I, 8).
Ancora nel 1788 il giureconsulto partenopeo Niccola Doccilli affermava icasticamente che "le usure lucrative e compensatrici (cioè gli interessi corrispettivi e quelli moratori, n.d.e.), comechè differiscano e nella causa, e nell'obbietto, pure per diritto civile convengono perfettamente in questo: che circa la quantità, il modo (cioè il saggio, n.d.e.) e le une, e le altre, seguon le stessissime leggi".
Principio che veniva fatto discendere dall'abbandono della concezione aristotelica, secondo cui la moneta, essendo infertile, non poteva produrre altra moneta ("nec magis urget quod suapte natura sterilis est pecunia. Nam et domos et res alias natura infoecundas hominum industria fructuosas fecit": così Grozio, De jure belli ac pacis, II, 12, 20, 1; nello stesso senso Voet, Commentario alle Pandette, XXII, 5: "quae enim natura sterilis est, usu tamen hominum fertilis est reddita").
Pertanto anche quando fosse stato chiamato a liquidare gli interessi di mora, il giudice avrebbe potuto applicare il saggio di mora pattuito o risultante dagli usi solo "se non avesse offeso la legge" (porro usura (...) quacumque ex causa infligatur, non potest excedere dupli quantitatem (...). Denique in casibus certis, eundem esse modum (cioè il saggio, n.d.e.) usurae, et eius quod interest": così ancora il Cuiacio, Ad librum VII Codicis recitationes solemnes seu commentarli, ad titulum XLVII De Sententiis).
1.7.5. I principi appena riassunti vennero recepiti nella prima codificazione dell'età moderna, il Code Napoleon del 1804.
Tale codice, abolendo il divieto del prestito ad interesse, ancora vigente in ambiti locoregionali, giustificò la propria scelta - così si legge nei lavori preparatori - reputando "essere strano" che gli interessi fossero illeciti se convenzionali, e leciti se moratori. Ambedue i tipi di interessi dovevano dunque essere ammessi, perché anche il debitore che ritarda il pagamento fa al debitore un "torto capace di essere riparato con una indennità", esattamente come dovrebbe fare chi prende a prestito del denaro (così la "sposizione" del tribuno Bigot-Preameneau, del 6 Piovoso anno XII (27.1.1804), in Motivi, rapporti, opinioni e discorsi per la formazione del codice napoleone, Napoli 1839, 34).
Analogamente, la dottrina giuridica formatasi sul Code Napoleon, sia in Italia che in Europa, mai dubitò che gli interessi moratori compensassero il creditore della perduta disponibilità del denaro ("il creditore non avrebbe tenuti morti i suoi capitali, se a tempo debito gli fossero stati soddisfatti"), e che pertanto essi assolvevano la medesima funzione degli interessi compensativi, con l'unica differenza che la loro misura era predeterminata dalla legge: non perché avesse natura diversa (solo la causa è diversa), ma per evitare il proliferare dei giudizi cui avrebbe inevitabilmente condotto la necessità di accertare caso per caso che uso il creditore avrebbe potuto fare del denaro dovutogli, se gli fosse stato tempestivamente restituito.
1.7.6. Quel che differenziò gli interessi moratori da quelli corrispettivi, in quelle prime codificazioni, non era la loro funzione o la differente soggezione alle regole dettate per contrastare l'usura, ma la loro decorrenza. Mentre, infatti, i crediti liquidi dei commercianti producevano interessi ipso iure, sul presupposto che per il commerciante il denaro è mezzo di produzione di altro denaro (così il p. 289 del codice di commercio prussiano; l'art. 41 cod. comm. Italiano del 1882), i crediti comuni non ebbero
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analogo trattamento, e gli interessi vennero accordati dalla legge al creditore solo nel caso di mora, che il Code Napoleon faceva decorrere dalla domanda (art. 1153) ed il codice civile italiano del 1865 dalla mora (art. 1231).
L'unificazione dei due codici nel 1942 conservò la struttura generale di tali regole, sicché l'art. 41 cod. comm. venne esteso a tutti i crediti e rifluì nell'art. 1282 c.c. attuale, mentre l'art. 1231 c.c. del 1865 rifluì, nell'art. 1224 c.c..
Il che rende conto e ragione della diversità delle due norme attuali: non perché interessi corrispettivi e moratori abbiano "funzione e natura" diversi, come ritenuto dalla sentenza impugnata, ma perché storicamente i primi prescindevano dalla mora, i secondi no. Differenza, quest'ultima, che costituisce ben esiguo fondamento per giustificare la sottrazione degli interessi moratori alla legislazione di contrasto all'usura.
1.8. Detto delle ragioni per le quali la legislazione antiusura si applica agli interessi moratori convenzionali, resta da aggiungere che nessuno degli argomenti posti dalla sentenza impugnata a fondamento della contraria opinione possa essere condiviso.
1.8.1. La Corte d'appello di Milano ha affermato in primo luogo che gli interessi corrispettivi e quelli moratori sarebbero "ontologicamente" disomogenei, poiché i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale; i primi sono necessari, i secondi eventuali; i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento.
Si è già visto tuttavia come la pretesa diversità strutturale tra i due tipi di interesse, se pure non raramente affermata, costituisce oggetto di un aforisma scolastico (supra, p.p. 1.5 e ss.), non giustificata sul piano storico e sistematico. Deve ora aggiungersi che, si pensi che quel che si voglia di tale pretesa diversità "ontologica", essa comunque non varrebbe a giustificare la diversità di disciplina sul piano dell'usura, per le ragioni anche in questo già esposte: tale interpretazione sarebbe infatti asistematica, contrattante con la ratio della L. n. 108 del 1996; contrastante con una esperienza giuridica millenaria.
1.8.2. Nemmeno può condividersi l'affermazione secondo cui non esisterebbe alcuna norma di legge che commini la nullità degli interessi convenzionali moratori eccedenti il tasso soglia.
E' vero, infatti, l'esatto contrario: l'ampia formula dell'art. 644 c.p.; della L. n. 108 del 1996, art. 2; del
D.L. n. 394 del 2000, art. 1, dimostrano che la legge non consente distinzioni di sorta tra i due tipi di interessi, e tale conclusione è espressamente ribadita dai lavori parlamentari, come già detto (supra, p. 1.4.1).
1.8.3. Non rileva, ancora, che la rilevazione periodica da parte del Ministero del Tesoro degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari non prenda in considerazione gli interessi moratori (all'epoca dei fatti; oggidì una rilevazione a campione di tali saggi viene comunque effettuata: cfr. i dd.mm. 27 giugno 2018 (in Gazz. Uff., 30 giugno 2018, n. 150); 28 marzo 2018 (in Gazz. Uff., 31 marzo 2018, n. 76); 21 dicembre 2017 (in Gazz. Uff., 30 dicembre 2017, n. 303)).
La L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 1, stabilisce infatti che la rilevazione dei tassi medi debba avvenire per "operazioni della stessa natura". E non v'è dubbio che con l'atecnico lemma "operazioni" la legge abbia inteso riferirsi alle varie tipologie contrattuali.
Ma il patto di interessi moratori convenzionali ultralegali non può dirsi una "operazione", e tanto meno un tipo contrattuale. Esso può infatti accedere a qualsiasi tipo di contratto, ed essere previsto per qualsiasi tipo di obbligazione pecuniaria: corrispettivi, provvigioni, rate di mutuo, premi assicurativi, e via dicendo.
E' dunque più che normale che il decreto ministeriale non rilevi la misura media degli interessi convenzionali di mora, dal momento che la legge ha ritenuto di imporre al ministro del tesoro la rilevazione dei tassi di interessi omogenei per tipo di contratto, e non dei tassi di interessi omogenei per titolo giuridico.
Ne discende che la mancata previsione, nella L. n. 108 del 1996, dell'obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora "medio" non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della L. n. 108 del 1996, ma anzi giustifica la conclusione opposta: il saggio di mora "medio" non deve essere rilevato non perché agli interessi moratori non s'applichi la legge antiusura, ma semplicemente perché la legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi
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per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile la rilevazione dei tassi medi "per tipo di titolo giuridico".
E non sarà superfluo aggiungere che la stessa Banca d'Italia, nella Circolare 3.7.2013, p. 4, ammette esplicitamente che "in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura" (passo, quest'ultimo, che curiosamente la società controricorrente, pur richiamando e trascrivendo la suddetta circolare, a p. 23 del controricorso, omette).
1.8.4. Osserva altresì ad abundantiam la sentenza impugnata che sarebbe irrazionale ritenere usurari gli interessi moratori concordati ad un saggio dell'8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%.
Anche questo argomento non può essere condiviso.
Il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 5 fissa il saggio "legale" di mora nelle transazioni commerciali, ma lascia alle parti la facoltà di derogarvi, alla sola condizione che gli interessi di mora non siano del tutto esclusi, oppure fissati in misura gravemente iniqua per il creditore (D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7).
Le parti possono dunque avvalersi o non avvalersi della facoltà di derogare al saggio legale previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 5.
Se non vi derogano, il saggio di mora sarà quello previsto da quest'ultima norma. Se vi derogano, il patto di interessi moratori non sarà più disciplinato dal D.Lgs. n. 231 del 2002, ma dalle restanti norme dell'ordinamento: e dunque dalla L. n. 108 del 1996, art. 2.
Il sistema della legge dunque è in sè razionale, in quanto lascia le parti libere di scegliere tra due blocchi normativi, assumendo i rischi e prefigurandosi i benefici dell'uno e dell'altro: o scegliere il sistema del D.Lgs. n. 231 del 2002, evitando i rischi di nullità del patto di interessi ma rinunciando alla libertà negoziale, oppure "far da sè", concordando il saggio di mora ritenuto più vantaggioso, ma soggiacendo alle norme antiusura.
La circostanza che, per effetto del fluttuare dei saggi previsti rispettivamente dalla legge antiusura e da quella contro il ritardo nei pagamenti, il tasso soglia antiusura possa risultare nel caso specifico inferiore al tassi di mora previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 5 non è dunque una "irrazionalità" intrinseca nel sistema della legge, ma una eventualità accidentale che può in concreto accadere, e che non basta di per sè a bollare come "irrazionale" quel sistema.
1.9. A completamento di quanto esposto va soggiunto che il principio per cui le norme dettate a contrasto dell'usura si applicano anche al patto di fissazione del saggio degli interessi moratori è già stato ripetutamente affermato sia dalla Corte costituzionale, sia da questa Corte.
Già Corte cost., 25-02-2002, n. 29, chiamata a valutare la conformità a Costituzione del D.L. n. 394 del 2000, art. 1, cit., osservò che "il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi "a qualunque titolo convenuti" rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori" (Corte Cost. 29/02, cit., p. 2.2 del "Considerato in diritto").
Allo stesso modo anche questa Corte, già vent'anni fa, affermò:
"nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi (compensativi e moratori), pur nella diversità di funzione, come emerge anche dell'art. 1224 c.c., comma 1, nella parte in cui prevede che "se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura".
Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge.
Da ciò trasse la conclusione che la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della L. n. 108 del 1996 è illegittima anche se convenuta in epoca antecedente all'entrata in vigore della detta legge (Sez. 1, Sentenza n. 5286 del 22/04/2000, Rv. 535967 - 01).
Il principio per cui le norme antiusura si applicano anche agli interessi moratori, è stato in seguito ribadito da Sez. 1, Sentenza n. 14899 del 17/11/2000, Rv. 541821 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 8442 del
13/06/2002, Rv. 555031 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5324 del 04/04/2003, Rv. 561894 - 01; Sez. 3,
Sentenza n. 10032 del 25/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 25/01/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9896 del 15/04/2008 (in motivazione); Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 5598 del 06/03/2017, Rv. 643977 - 01; Sez.
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6 - 1, Ordinanza n. 23192 del 4/10/2017. Dello stesso avviso è stata questa Corte anche in sede penale (Cass. pen. sez. 2, 21.2.2017 (ud. 31.1.2017), n. 8448, in motivazione).
1.10. Il primo motivo di ricorso, come anticipato, deve dunque essere accolto, e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d'appello di Milano, la quale nel riesaminare il gravame proposto dalla società Alias Tag applicherà il seguente principio di diritto:
"è nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali".
1.11. Al fine di prevenire ulteriore contenzioso, questo Collegio reputa opportuno soggiungere due notazioni finali.
La prima è che il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento: è infatti impossibile, in assenza di qualsiasi norma di legge in tal senso, pretendere che l'usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato ai sensi della L. n. 108 del 1996, art. 2, ma in base ad un fantomatico tasso talora definito nella prassi di "mora-soglia", ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia.
La seconda notazione finale è che nel giudizio di rinvio resterà precluso, perché coperto dal giudicato interno, l'esame della questione concernente l'applicabilità, al contratto di leasing oggetto del presente giudizio, della previsione di cui all'art. 1815 c.c., comma 2.
La sentenza impugnata, infatti, ha affrontato espressamente tale questione (pag. 14, p. 3.2), stabilendo con autonoma ratio decidendi che la nullità del patto di interessi moratori non potrebbe mai escludere l'obbligo dell'utilizzatore di pagamento degli interessi corrispettivi.
Tale statuizione non ha formato oggetto di impugnazione, e non sarà dunque più discutibile nel giudizio di rinvio.
Reputa nondimeno opportuno questo Collegio aggiungere che, nonostante l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l'applicazione dell'art. 1815 c.c., comma 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, genericamente richiamando l'art. 360 c.p.c. senza ulteriori precisazioni, la violazione dell'art. 346 c.p.c..
Lamentano che la Corte d'appello avrebbe erroneamente rigettato la loro richiesta di disporre una consulenza tecnica d'ufficio contabile.
2.2. Il motivo resta assorbito dall'accoglimento del primo.
3. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione:
(-) accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 17 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
IL CASO
* * *
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Il caso da cui prende le mosse la pronuncia della Corte di Cassazione qui in commento concerne un contratto di leasing tra una società ed una banca, assistito da una fideiussione volta a garantire i debiti dell’utilizzatore verso il concedente.
Utilizzatore e fideiussore hanno convenuto dinanzi al Tribunale di Milano la banca, esponendo che:
(i) il contratto di leasing prevedeva, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, interessi moratori nella misura dell’8,6% annuo;
(ii) tale saggio di interessi risultava ab origine superiore a quello massimo legale (c.d. tasso-soglia) applicabile ratione temporis, pari al 7,86%;
(iii) di conseguenza, il saggio degli interessi di mora doveva ritenersi usurario e, pertanto, nullo il relativo patto;
In considerazione di quanto sopra, è stato richiesto al Tribunale di dichiarare: (a) la nullità del suddetto patto di interessi moratori (perché ad un saggio ultra-legale); (b) l’insussistenza dell’obbligo dell’utilizzatore di pagare interessi; (c) la liberazione del fideiussore ex art. 1956 cod. civ., e la condanna della banca a restituire quanto indebitamente percepito.
La banca, dal canto suo, ha eccepito che il limite oltre il quale gli interessi “sono sempre usurari” (ossia il tasso-soglia) non sia applicabile agli interessi di mora bensì esclusivamente agli interessi corrispettivi.
Il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda, ritenendo che la regola per cui gli interessi eccedenti il tasso-soglia sono usurari e non dovuti non si applica agli interessi moratori.
La sentenza di primo grado è stata dunque impugnata dai soccombenti, ma la Corte d’Appello di Milano ha rigettato il gravame, ritenendo che gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono “ontologicamente” disomogenei, poiché:
(i) i primi remunerano un capitale, mentre i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall’inadempimento e sono pertanto assimilabili alla clausola penale;
(ii) i primi sono necessari, mentre i secondi soltanto eventuali;
(iii) i primi hanno una finalità di lucro, mentre i secondi di risarcimento;
(iv) non esiste nessuna norma di legge che commini la nullità degli interessi moratori eccedenti il tasso-soglia;
(v) tanto si desume dalla circostanza che la rilevazione periodica, da parte del Ministero del Tesoro, degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari viene effettuata trascurando quelli moratori;
(vi) sarebbe stato irrazionale, nel caso di specie, ritenere usurari interessi moratori convenzionali al saggio dell’8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%.
Utilizzatore e fideiussore hanno dunque impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Milano ricorrendo in Cassazione. I ricorrenti hanno richiesto alla Suprema Corte di accertare: che gli interessi di mora possano essere qualificati come usurari qualora eccedenti il tasso-soglia, al pari degli interessi corrispettivi (sostenendo che la L. 7 marzo 1996, n. 108 non fa nessuna distinzione tra interessi moratori e corrispettivi); che pertanto anche i primi, come i secondi, possono essere qualificati come “usurari” se eccedenti il tasso-soglia; che tale interpretazione sarebbe imposta, oltre che dalla lettera della legge, anche dalla sua ratio, ovvero prevenire i fenomeni usurari); con la conseguenza che, nel caso di pattuizione di interessi moratori usurari, il debitore non sarebbe tenuto al pagamento di alcun interesse, ai sensi dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ., secondo cui “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
Con il provvedimento in commento, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Milano; e ha occasione di asserire i principi di diritto supra riferiti ed infra commentati.
COMMENTO
Con l’ordinanza qui in commento, la Suprema Corte torna ad affrontare una tematica sia di indubbio interesse teorico sia di notevole rilevo empirico, ossia la soggezione degli interessi moratori, previsti dai contratti bancari, alla normativa anti- usura (e dunque le conseguenze civilistiche ove un contratto bancario preveda ab origine interessi moratori eccedenti rispetto al c.d. tasso-soglia). Con encomiabile completezza argomentativa e con accurata ricostruzione esegetica, la Corte di
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Cassazione – sul solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato1(sia pur non pacifico, non mancando orientamenti contrari)2 – ribadisce che, nella prospettiva della normativa anti-usura, non vi è differenza tra interessi corrispettivi ed interessi moratori: il divieto di pattuire interessi superiori al saggio massimo legale (il c.d. tasso-soglia) vale infatti per entrambi. In via del tutto incidentale (e, invero, con minore sforzo argomentativo), la Corte di Cassazione ha altresì modo di specificare che: (a) in caso di interessi corrispettivi ab origine superiori al tasso-soglia, sarà applicabile l’art. 1815, secondo comma, cod. civ., con la conseguenza che non saranno dovuti interessi; mentre (b) in caso di interessi moratori convenuti in misura superiore al tasso-soglia, non troverà applicazione il citato art. 1815, secondo comma, cod. civ. e, di fronte alla nullità della clausola, bisognerà attribuire al danneggiato gli interessi al tasso legale.
* * *
Come noto, l’art. 2 della Legge n. 108 del 7 marzo 1996 (di seguito anche “Legge Anti Usura”)3 vieta di pattuire
1 Cass. civ., 4 ottobre 2017, n. 23192, in Diritto & Giustizia, 2017 (secondo cui “In tema di contratto di mutuo, l'art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori”); alle medesime conclusioni perviene Cass., 06 marzo 2017, n. 5598, in Giust. Civ. Mass., 2017, rv 643977-01; cfr. Cass. civ., 25 gennaio 2011, n. 1748, in Guida al diritto, 2011, 12, 49; v. altresì Cass. civ., 4 aprile 2003,
n. 5324, in Giust. civ. Mass., 2003, 4 (secondo cui “In tema di contratto di mutuo, l'art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che gli interessi moratori, ma non si applica ai contratti contenenti tassi usurari stipulati prima della sua entrata in vigore se relativi a rapporti completamente esauriti al momento della entrata in vigore della legge”); analogamente, v. Cass. civ., 13 giugno 2002, n. 8442, in Giust. civ., 2002, I, 2109 (secondo cui “La clausola, contenuta in un contratto di conto corrente bancario stipulato anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina sull'usura (legge n. 108 del 1996) e con la quale siano stati pattuiti interessi divenuti superiori a quelli consentiti da detta normativa, è priva di effetto quanto alla misura degli interessi anteriormente convenuti ed essi possono essere rinegoziati”); Cass. civ., 17 novembre 2000, n. 14899 in Banca borsa tit. cred., 2000, II, 621 (con nota di DOLMETTA ).
Dello stesso avviso sembra la medesima Cassazione anche in sede penale (v. Cass. pen., 21 febbraio 2017, n. 8448, in GP Giur. Pen.).
Il principio per cui le norme dettate a contrasto dell’usura si applicano anche al patto di fissazione del saggio degli interessi moratori è stato altresì affermato Corte Costituzionale che, chiamata a valutare la conformità a Costituzione dell’art. 1 del D.L.
n. 394 del 29 dicembre 2000., osservò che “il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori” (C. Cost. 25 febbraio 2002, n. 29, in Foro it., 2002, I, 934, con nota di PALMIERI; in dettaglio, v. § 2.2 del “Considerato in diritto”).
Sul punto, in dottrina (ex multis) v. VOLPE, Usura e interessi moratori nel linguaggio dell’Arbitro Bancario Finanziario, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 504; FAUSTI, Il mutuo, in Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato, diretto da PERLINGERI, Napoli, 2004, 168.; AVAGLIANO, Profili problematici in tema di usura: interessi di mora e ius superveniens, in Riv. dir. priv., 2001, 339. Cfr. CARRIERO, Credito, interessi, usura: tra contratto e mercato, in Banca Borsa Tit. Cred., 1, 2016, 93.
2 Secondo un diverso (e anzi opposto) orientamento, premessa la riconducibilità degli interessi moratori alla clausola penale, si ritiene che il debitore, ove costretto a pagare interessi che nel loro ammontare risultano eccessivi rispetto all’interesse del creditore alla loro corresponsione, possa fare ricorso al rimedio previsto dall’art. 1384 cod. civ. (infatti, secondo tale ricostruzione, dal momento che la determinazione convenzionale degli interessi moratori integra una liquidazione preventiva e forfettaria del danno risarcibile, la previsione di interessi in misura eccessiva potrà essere oggetto di riduzione in via equitativa da parte del giudice, al pari che si trattasse di una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 cod. civ.).
In giurisprudenza, v. Cass. civ., 18 novembre 2010, n. 23273, in Giust. civ. Mass., 2010, 11, 1464; Cass. civ., 21 giugno 2001, n.
8481, in Giust. civ. Mass., 2001, 1230; Cass. civ., 10 luglio 1996, n. 6298, in Giur. it. 1997, I, 1257; Trib. Milano, 18 gennaio 2017, in questo Osservatorio n. 1/2017; Trib. Napoli, 12/02/2004, in Giur. napoletana, 2004, 137; Trib. Roma, 1° febbraio 2001, in Corr. giur., 2001, 1082 (con nota di LAMORGESE). In dottrina, sul punto, inter alia v. DOLMETTA, Le prime sentenze della Cassazione civile in materia di usura ex lege n. 108/1996, 2000, 627; CARBONE, Usura civile: individuato il “tasso soglia”, in Corr. giur., 1997, 510.
3 La Legge n. 108 del 7 marzo 1996 (pubblicata in Gazz. Uff. 09/03/1996 n. 58 - Suppl. Ordinario n. 44), all’art. 2,dispone testualmente quanto segue:
“1. Il Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dall'Ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d'Italia ai sensi degli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. I valori medi derivanti da tale rilevazione, corretti in ragione delle eventuali variazioni del tasso ufficiale di sconto successive al trimestre di riferimento, sono pubblicati senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale1.
2. La classificazione delle operazioni per categorie omogenee, tenuto conto della natura, dell'oggetto, dell'importo, della durata, dei rischi e delle garanzie è effettuata annualmente con decreto del Ministro del tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi e pubblicata senza ritardo nella Gazzetta Ufficiale 2.
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interessi eccedenti la misura massima ivi prevista.
La Suprema Corte ribadisce4 come suddetta norma si applichi sia agli interessi promessi a titolo di remunerazione di un capitale o della dilazione di un pagamento (interessi corrispettivi: art. 1282 cod. civ.)5, sia agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (interessi moratori: art. 1224 cod. civ.)6. Tale conclusione è, secondo il Supremo Collegio, l’unica consentita da tutti e quattro i tradizionali criteri di ermeneutica legale: l’interpretazione letterale, l’interpretazione sistematica, l’interpretazione finalistica e quella storica7. Infatti:
(i) Seguendo un criterio ermeneutico letterale, nessuna delle norme che vietano la pattuizione di interessi usurari esclude dal suo ambito applicativo gli interessi moratori.
In dettaglio, l’art. 644, primo comma, cod. pen.8, stabilisce che “chiunque (..) si fa dare o promettere (..) in
3. Le banche e gli intermediari finanziari di cui al comma 1 ed ogni altro ente autorizzato alla erogazione del credito sono tenuti ad affiggere nella rispettiva sede, e in ciascuna delle proprie dipendenze aperte al pubblico, in modo facilmente visibile, apposito avviso contenente la classificazione delle operazioni e la rilevazione dei tassi previsti nei commi 1 e 2.
4. Il limite previsto dal terzo comma dell'articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali”.
4 In linea con la giurisprudenza richiamata in precedente nota (e contrariamente all’orientamento opposto, sempre richiamato
supra in nota).
5 L’art. 1282 cod. civ., sotto la rubrica “Interessi nelle obbligazioni pecuniarie”, dispone testualmente che:
“I crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente. Salvo patto contrario, i crediti per fitti e pigioni non producono interessi se non dalla costituzione in mora.
Se il credito ha per oggetto rimborso di spese fatte per cose da restituire, non decorrono interessi per il periodo di tempo in cui chi ha fatto le spese abbia goduto della cosa senza corrispettivo e senza essere tenuto a render conto del godimento”.
6 L’art. 1224, sotto la rubrica “Danni nelle obbligazioni pecuniarie”, dispone testualmente che:
“Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura.
Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l'ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori”.
7 Sia in giurisprudenza sia in dottrina è ravvisabile un orientamento contrario, che muove dall’opposto principio delle diversità di carattere ontologico e funzionale tra interessi corrispettivi e interessi moratori.
Ex multis, in dottrina v. FIORE, Interessi corrispettivi, interessi di mora, usura nel contratto di mutuo, in Relazione tenuta presso il Trib. Nola, 11 aprile 2014; SILVIETTI, I contratti bancari. Parte Generale, in Tratt. Cottino, VI, La banca: l’impresa e i contratti, a cura di CALANDRA BUONAURA, PERASSI, SILVETTI, Padova, 2001, 433; SCOZZAFAVA, Gli interessi di capitali, Milano, 2001; VANONI, Il contratto di usura ed i contratti di credito: un primo bilancio, in Contr. impr., 1999, 523. In giurisprudenza, v. Cass. civ., 22 dicembre 2011, n. 28204, in Giust. civ. Mass., 2011, 12, 1820; Trib. Roma, 11 maggio 2016, nn. 9554 e 9553; Trib. Roma, 2 ottobre 2015; Trib.
Roma, 25 giugno 2015; Trib. Bologna, 17 febbraio 2015, in dirittobancario.it; Trib. Brescia, ord., 16 gennaio 2014, in ilsole24ore.com; Trib. Verona, 9 aprile 2014; Trib. Milano, 22 aprile 2014, in ilsole24ore.com. Cfr. Trib. Verona, 28 aprile 2014, in ilcaso.it. Le medesime osservazioni si trovano inoltre a fondamento di rilevanti decisioni dell’Arbitrato Bancario Finanziario, inter alia: Decisione Coll. Coord., 30 aprile 2014, n. 2666, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 482.; Decisione Coll. Coord., 28/03/2014, n. 1875; Decisione Napoli, 20 novembre 2013, n. 5877. Sul punto, v. altresì questo Osservatorio, n. 1/2017.
8 L’art. 644 del cod. pen., nel testo vigente, è stato introdotto dall’art. 1 della Legge Anti Usura, che dispone testualmente: “1. L’articolo 644 del codice penale e sostituito dal seguente:
“ART. 644 - (Usura) - Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per se o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da lire sei milioni a lire trenta milioni.
Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario.
La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari.
Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito. Le pene per i fatti di cui al primo e secondo comma sono aumentate da un terzo alla metà: 1) se il colpevole ha agito nell’esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare; 2) se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari: 3) se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno;
4) se il reato è commesso in danno di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale; 5) se il reato è commesso da persona sottoposta
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corrispettivo di una prestazione di denaro (...) interessi (..) usurari, è punito (…)”. Il terzo comma della stessa disposizione recita: “la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”. A tali norme ha dato attuazione l’art. 2, quarto comma, della Legge Anti Usura, il quale – nel testo vigente all’epoca della stipula del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (2006) – stabiliva che “il limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà”. Infine, l’art. 1, primo comma, del D.L. n. 394 del 29 dicembre 20007 (convertito nella Legge n. 24 del 28 febbraio 2001), nell’interpretare autenticamente l’art. 644 cod. pen., ha stabilito: “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale (..) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Nessuna delle suddette norme distingue tra i vari tipi di interessi9.
(ii) In una prospettiva sistematica, la Corte di Cassazione sottolinea come gli interessi corrispettivi e gli interessi convenzionali moratori costituiscono – entrambi – la remunerazione di un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente10. Non essendovi alcuna differenza “ontologica” tra le due tipologie di interessi (che anzi risponderebbero ad identica funzione), la Suprema Corte reputa coerente che entrambi risultino soggetti al divieto di interessi usurari.
(iii) Che gli interessi moratori non sfuggano alle previsioni della Legge Anti Usura sembra confermato dalla ratio legis di tale normativa: la Legge Anti Usura venne infatti dettata al fine di troncare le infinite questioni che, in precedenza, si ponevano in giudizio allorché si trattava di accertare l’usurarietà di un patto di interesse (se occorresse adottare il criterio oggettivo o quello soggettivo, come valutare il contesto del contratto, quanto rilevasse la condizione e qualità personale delle parti, e via dicendo). La Legge Anti Usura ha introdotto un criterio oggettivo al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell’usura, e dall’altro il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche.
(iv) La Suprema Corte non si esime da un excursus storico estremamente approfondito (che – non tanto per mero gis- positivismo quanto piuttosto per la connotazione prettamente pratica del presente Osservatorio – qui viene soltanto richiamato sommariamente nelle sue considerazioni conclusive). Dall’analisi storica dell’istituto in esame la Cassazione trova conferma che: (a) gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; (b) l’opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse non per sottrarre gli interessi moratori alle leggi antiusura, ma per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court; (c) la presenza nel nostro codice civile di due diverse norme, l’art. 1224 cod. civ. dedicato agli interessi
con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e fino a tre anni dal momento in cui è cessata l’esecuzione.
Nel caso di condanna, o di applicazione di pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti di cui al presente articolo, è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono prezzo o profitto del reato ovvero di somme di denaro, beni ed utilità di cui il reo ha la disponibilità anche per interposta persona per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari, salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento dei danni”.
2. L’articolo 644-bis del codice penale è abrogato.”
9 Tale conclusione appare peraltro confermata dai lavori preparatori della Legge n. 24 del 28 febbraio 2001(che, come sopra riferito, ha convertito in legge il D.L. n. 394 del 29 dicembre 2002, che a sua volta ha interpretato autenticamente l’art. 644 cod. pen.): nella relazione che ha accompagnato l’esame in aula del d.d.l. n. S-4941 si legge, infatti, al § 4, che il decreto aveva lo scopo di chiarire come si dovesse valutare la usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse, “sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio”.
10 Come osservato dalla Corte di Cassazione, la conclusione sopra esposta appare corroborata, tra l’altro, dalla giurisprudenza dello stesso Supremo Collegio formatasi sull’art. 1224 cod. civ. La Cassazione, nell’interpretare l’art. 1224 cod. civ., ha infatti stabilito che questa norma disciplina sì il risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ma il “danno” da ritardato adempimento d’una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario. Questo “danno” è presunto dal legislatore juris et de jure nel suo ammontare minimo, che non può essere inferiore al saggio legale (art. 1224, primo comma, cod. civ.), poiché “non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell’acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; (...) risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo” (così Cass., Sez. Un., 16 luglio 2008, n. 19499, in Giust. Civ., 2009, 9, 1937, con nota di DI MARTINO).
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moratori e l’art. 1282 cod. civ. dedicato agli interessi corrispettivi, non si spiega con la distinzione tra le due categorie di interessi e non ne giustifica un diverso trattamento rispetto alle pratiche usurarie, ma è retaggio dell’unificazione del codice civile e di quello di commercio, che avevano risolto in termini diversi il problema della decorrenza degli effetti della mora.
Affermata dunque l’equiparazione della funzione degli interessi corrispettivi con quelli moratori e ribadito che, pertanto, anche gli interessi di mora costituiscono la remunerazione di un capitale e rientrano nella previsione degli interessi “promessi o dovuti in corrispettivo di una prestazione in denaro” (essendo pertanto soggetti alla normativa anti-usura al pari degli interessi corrispettivi), la Suprema Corte contesta in radice la decisione della Corte d’Appello di Milano. Contrariamente a quanto sostenuto infatti dal giudice di secondo grado, la Corte di Cassazione osserva come l’ampia formula dell’art. 644 cod. pen., dell’art. 2 della Legge Anti Usura e dell’art. 1 D.L. n. 394 del 29 dicembre 2000 dimostrano che la legge non consenta distinzioni di sorta tra interessi corrispettivi e interessi moratori: tanto gli uni quanto gli altri, in altri termini, devono essere inferiori al saggio massimo legale normativamente previsto (pena la usurarietà).
In modo più o meno indiretto, la Corte di Cassazione sembra contestare altresì una prassi “suggerita” dalla Banca d’Italia con le istruzioni emanate il 3 luglio 201311, secondo le quali i TEG medi pubblicati trimestralmente andrebbero aumentati di 2,1 punti per poi determinare la soglia su tale importo. A tal riguardo, la Suprema Corte ha modo di asserire che è “impossibile, in assenza di qualsiasi norma in tal senso, pretendere che l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato ai sensi dell’art. 2 L. 108/96, ma in base ad un fantomatico tasso, talora definito nella prassi di “mora-soglia” ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia” (specificando – quasi a porre in evidenza una certa contraddittorietà – che, comunque, la stessa Banca d’Italia, nelle sopra citate istruzioni, ammette esplicitamente che “in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti -usura”).
A conclusione delle sopra riferite considerazioni e ricostruzioni (nonché delle confutazioni delle contrarie interpretazioni o applicazioni) la Cassazione detta dunque il principio secondo cui “è nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui all’art. 2 della Legge Anti Usura, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali”12.
* * *
Dopo la – articolatamente motivata e argomentata – conferma del principio che sancisce l’equiparazione degli interessi moratori a quelli corrispettivi nella prospettiva della normativa anti-usura, la pronuncia in esame dedica ben minore spazio (e con minori argomentazioni) ad una problematica non certo di secondaria rilevanza, ossia l’applicazione (o meno) del secondo comma dell’art. 1815 cod. civ.13 agli interessi moratori il cui saggio superi il tasso-soglia.
La norma, come noto, sanziona con la nullità ogni clausola che preveda interessi usurari (specificando altresì che qualora siano contrattualmente previsti interessi usurari, “non saranno dovuti interessi”)14.
Pur premettendo che le era precluso, perché coperto da giudicato interno, l’esame della questione concernente l’applicabilità della previsione di cui all’art. 1815 cod. civ. agli interessi moratori che superino il saggio rilevato ai sensi dell’art. 2 della Legge Anti Usura, la Suprema Corte – al dichiarato fine di “prevenire ulteriore contenzioso” – ha occasione di asserire che “nonostante l’identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l’applicazione dell’art. 1815, comma secondo, cod. civ. agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli
11 Istruzioni denominate “Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura”, emanate da Banca d’Italia in data 3 luglio 2013, consultabili su www.bancaditalia.it.
12 Come già riferito in precedente nota, tale principio sembra conforme a quanto già più volte indicato dalla Corte di Cassazione sia in sede civile sia in sede penale, nonché (e ancor prima) dalla Corte Costituzionale (nella sopra citata sentenza 29 del 25 febbraio 2002).
13 Per completezza, si riporta il testo dell’art. 1815 cod. civ. che, sotto la rubrica “Interessi” dispone quanto segue:
“Salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell'articolo 1284.
Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
14 Sull’art. 1815 cod. civ., come modificato ai sensi della Legge Anti Usura, v. in questo Osservatorio, n. 4/2017. In generale, sulla cumulabilità o meno degli interessi corrispettivi con quelli moratori, si veda altresì in questo Osservatorio, n. 1/2017.
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uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.
Le ragioni che conducono a tale conclusione non sembrano chiaramente esplicitate ed argomentate (o almeno non con la medesima chiarezza, articolazione e completezza argomentativa della restante parte del provvedimento)15.
* * *
È ipotizzabile che, mentre l’ordinanza qui commentata rappresenterà un rilevante parametro con riguardo alla tematica dell’equiparazione degli interessi moratori rispetto a quelli corrispettivi nella prospettiva della normativa anti-usura, lo stesso non sarà con riguardo alla problematica dell’applicabilità del secondo comma dell’art. 1815 cod. civ. agli interessi ultra- soglia (non essendo irragionevole supporre che, nonostante gli auspici della Suprema Corte a tal riguardo, la questione sia tutt’altro che definita) 16.
Avv. Federico Ferraresi
federico.ferraresi@munaricavani.it
15 Va osservato anzitutto che, secondo una interpretazione letterale, il dettato del secondo comma dell’art. 1815 cod. civ. sembra sancire la sanzione della gratuità del mutuo (per il quale non saranno dovuti interessi) qualora siano convenuti interessi usurari, non distinguendosi tra interessi moratori e interessi corrispettivi.
In realtà, sembra che la Corte abbia voluto indicare che, in chiave sistematica e finalistica, l’art. 1815 secondo comma debba leggersi come riferito esclusivamente agli interessi corrispettivi, così come il primo comma del medesimo art. 1815 cod. civ. (là dove richiama l’art. 1284 cod. civ.).
Ciò premesso, sembrerebbe – ma si tratta di una possibile ricostruzione interpretativa (non avendo fornito la Suprema Corte una esplicita motivazione e argomentazione sul punto) – che la Suprema Corte abbia operato un implicito riferimento al meccanismo previsto all’art. 1419, secondo comma, cod. civ. secondo cui “La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”; intendendosi per “norma imperativa” il tasso legale di interessi ai sensi dell’art. 1284 cod. civ.
In concreto, alla luce della pronuncia in esame, quindi, un contratto di finanziamento che preveda i soli interessi moratori ad un saggio superiore al tasso-soglia determinato ex art. 2 della Legge Anti Usura è un contratto valido che non deve essere convertito in contratto a titolo gratuito. Il mutuatario dovrà corrispondere gli interessi corrispettivi pattuiti, mentre dovrà essere dichiarata la nullità della sola clausola che prevede il tasso degli interessi di mora, che andranno riconosciuti (o meglio “ridotti”) al tasso legale.
16 Peraltro, tale passaggio conclusivo e incidentale del provvedimento in esame – “discriminando” gli interessi di mora (con riferimento ai quali l’art. 1815, secondo comma, cod. civ. non sarebbe applicabile) dagli interessi corrispettivi (con riferimento ai quali, invece, detta norma sarebbe applicabile) – potrebbe apparire discostarsi dall’orientamento sul quale si fonda la recente pronuncia delle Sezioni Unite del 19 ottobre 2017, n. 24675 (in Banca Borsa Titoli di Credito, 2018, 3, 304), là dove in tale occasione è stato sottolineata – sia pur a tutt’altro proposito, ossia con riferimento alla usurarietà c.d. sopravvenuta) la stretta correlazione, se non addirittura la sovrapposizione, dell’art. 1815 cod. civ. con l’art. 644 cod. pen. (per un commento a tale sentenza, v. in questo Osservatorio, n. 4/2017).
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3.
Tribunale di Milano, Sez. IV, 9 ottobre 2018, n. 10038
Obbligazioni e contratti - Contratto di factoring - Tasso convenzionale degli interessi -
Modifica unilaterale del contratto - Ammissibilità
(Codice civile, art. 1340; d. lgs 385/1993, Testo unico bancario, art. 118)
In conformità alla normativa vigente in tema di trasparenza dei servizi bancari e finanziari, è legittima la variazione unilaterale da parte del factor delle condizioni contrattuali del contratto, ivi compresa quella riguardante la misura del tasso convenzionale degli interessi sull’anticipazione in senso sfavorevole per il cedente, purché tale variazione sia attuata in conformità a una corrispondente previsione contrattuale, e fermi comunque restando l’obbligo di comunicazione al cedente e la facoltà di recesso accordata a quest’ultimo.
* * * REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO SESTA (EX DODICESIMA CIVILE)
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Rossella Filippi ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 54032/2012 promossa da:
[Alfa], con il patrocinio dell’avv. (omissis) e ,elettivamente domiciliato in (omissis) presso il difensore avv. (omissis)
ATTRICE OPPONENTE
contro
[Factor] con il patrocinio dell’avv. (omissi) e elettivamente domiciliato in (omissis) presso il difensore avv. (omissis)
CONVENUTA OPPOSTA
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come da atti telematici richiamati all’udienza precisazione delle conclusioni. CONCLUSIONI PER PARTE OPPONENTE
Voglia l’Ill.mo Tribunale di Milano, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, previo ogni accertamento - istruttorio e di merito - utile ed opportuno, nonché ogni declaratoria necessaria ed alla luce della sentenza n. 11390/16 resa dal Tribunale in composizione collegiale in relazione alla querela di falso proposta in via incidentale da [Alfa], così giudicare: in via preliminare: revocare l’ordinanza datata 24 marzo 2013, mediante la quale è stata concessa la provvisoria esecuzione al decreto ingiuntivo opposto, per le ragioni ed i motivi tutti illustrati nella prima memoria;
sempre in via preliminare: dichiarare, per i motivi illustrati nella narrativa dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo telematico n. (omissis) – Ruolo Ingiunzioni n. (omissis), nonché nella narrativa della prima memoria, l’inefficacia del decreto ingiuntivo opposto n. (omissis), per essere stato notificato oltre il termine perentorio di sessanta giorni previsto dall’art. 644 del codice di procedura civile; sempre in via preliminare: dichiarare, per i motivi illustrati nella narrativa dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo telematico n. (omissis) – Ruolo Ingiunzioni n. (omissis), nonché nella narrativa della prima memoria, l’inefficacia e/o invalidità e/o nullità del decreto ingiuntivo opposto n. 7067/12, per l’errata individuazione della sede legale della società [Alfa],
sempre in via preliminare: dichiarare, per i motivi illustrati nella narrativa dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo telematico n. (omissis) – Ruolo Ingiunzioni n. (omissis), nonché nella narrativa della prima memoria, l’inesistenza giuridica del ricorso per decreto ingiuntivo opposto, attesa
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l’assenza della sottoscrizione della delega da parte del legale rappresentante pro tempore della società ricorrente e l’omessa allegazione della fonte dell’asserita rappresentanza, con ogni conseguente statuizione e, per l’effetto, dichiarare inefficace, nullo e/o revocare l’opposto decreto ingiuntivo n. (omissis), Ruolo n. (omissis) emesso da codesto Tribunale di Milano;
sempre in via preliminare: accertare e dichiarare decaduta [Factor] da eventuali domande riconvenzionali, nonché da eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio, non essendosi costituita nei venti giorni anteriori alla prima udienza; rigettare, in ogni caso, le domande formulate in via pregiudiziale ed in via preliminare istruttoria (esclusivamente nella parte in cui chiede la pronuncia di ordinanza ai sensi dell’art. 186ter c.p.c.) da controparte, in quanto infondate in fatto ed in diritto ed alla luce della sentenza
n. 11390/16 resa dal Tribunale in composizione collegiale in relazione alla querela di falso proposta in via incidentale da [Alfa], per le ragioni tutte illustrate nella narrativa dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo telematico n. (omissis) – Ruolo Ingiunzioni n. (omissis), nonché nella narrativa della prima memoria ed anche per quelle esposte nel corso delle udienze celebratesi nel presente procedimento; in via subordinata, nel merito: accertata e dichiarata la carenza dei presupposti giuridici delle odierne pretese creditorie di [Factor], per l’effetto, dichiarare inefficace, nullo e/o revocare l’opposto decreto ingiuntivo n. (omissis), Ruolo n. (omissis) emesso da codesto Tribunale di Milano e/o, comunque, dichiarare che nulla deve [Alfa], a [Factor] in relazione ai non chiari titoli azionati; rigettare, in ogni caso, le domande formulate nel merito in via subordinata da controparte, in quanto infondate in fatto ed in diritto, anche per le ragioni tutte illustrate in sede di verbale delle udienze celebratesi nel presente procedimento e per le ragioni tutte esposte nella narrativa dell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo telematico
n. (omissis) – Ruolo Ingiunzioni n. (omissis) e degli atti depositati in giudizio; in ogni caso: a) condannare [Factor] alla rifusione in favore dell’attrice opponente di spese e compensi (già diritti ed onorari) di causa; in via istruttoria: alla luce di quanto già dedotto, [Alfa], chiede - occorrendo e senza inversione dell’onere della prova - ammissione dei seguenti capitoli di prova per testi: 1. Vero che (omissis) S.r.l., prima, e [Alfa], poi, hanno inoltrato lettere di contestazione nei confronti di [Factor] come da documenti 2, 3 e 4 che si rammostrano al teste; 2. Vero che con lettera 6 luglio 2007, (omissis) S.r.l., ha contrastato il documento di sintesi ricevuto ed ha chiesto il ripristino dell’aliquota dello Spread al 1,700% “in vigore con decorrenza 01/01/2005 così come contrattualmente concesso sia alla (omissis) S.p.A. sia alla [Alfa] (vedere allegati)”, nonché il rimborso “di Euro 506,46 (Euro 259,57 + 246,89) dovuti dall’applicazione dell’aliquota 1,750% nelle liquidazioni interessi al 31/12/2006 ed al 31/12/2007”, come da documento 2 che si rammostra al teste; 3. Vero che con lettera 9 gennaio 2008, [Alfa] ha contestato l’importo recato dalla fattura n. 34031/3 del 31.12.2007, lamentando un difetto di comunicazione da parte di [Factor] e la inesatta applicazione di uno spread pari ad Euro 2,10 e chiedendo di “volerci mantenere lo spread di Euro 1,90 e di stornarci parzialmente, con nota di credito, la fattura n. 34031/3 del 31/12/2007”, come da documento 3 che si rammostra al teste; 4. Vero che con lettera 13 luglio 2009, [Alfa] ha contestato le fatture n. 8157/16633/24636/33352/7566 relative ad interessi maturati per il periodo 31.03.2008 – 31.03.2009, pari ad Euro 179.279,19, “Da un controllo effettuato degli estratti conto scalare constatiamo l’applicazione di uno spread non in linea con quanto sottoscritto nel contratto originario. A fronte di Vostre informative con le quali ci comunicavate la variazione delle condizioni economiche contrattuali, prevedendo un aumento ingiustificato dello spread, abbiamo più volte contestato sia via e-mail che per iscritto, senza ricevere alcun riscontro. Pertanto abbiamo provveduto a ricalcolare gli interessi da Voi già fatturati, per il periodo sopraindicato, applicando lo spread di 1.70, di cui alleghiamo nostri conteggi. Dai calcoli da noi effettuati risulta un addebito per interessi pari ad € 167.385,57, oltre alla fattura n. 33353/03 di Euro 19,31 e la fattura n. 8157 di Euro 104,00, per un complessivo di Euro 167.508,88. (...) Vi chiediamo pertanto di provvedere ad emettere note di credito su fatturazione interessi (...)”, come da documento 4 che si rammostra
Foglio di precisazione delle conclusioni nell’interesse della convenuta opposta [Factor] Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, disattesa e rigettata ogni contraria e diversa domanda, deduzione, eccezione e argomentazione, tutte nessuna esclusa, previe le occorrende declaratorie e statuizioni, previa revoca del decreto ingiuntivo n. 7067/12 oggetto del presente giudizio di opposizione, stante la tardività della sua
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notifica, condannare la [Alfa] in persona del suo legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore [Factor] di Euro 84.127,62, o all’eventuale diversa somma sia maggiore che minore, che risulterà essere stata provata in corso di causa, oltre gli interessi convenzionali al tasso Euribor 3 mesi maggiorato di uno spread dell’1,50%, con capitalizzazione trimestrale, maturati dal primo ottobre 2011 al saldo, rigettando contestualmente la relativa opposizione. Con vittoria di spese e competenze di causa e dichiarando sin d’ora di non accettare eventuali domande nuove di controparte.
FATTO E DIRITTO
Con ricorso in data 9 gennaio 2012 [Factor] richiedeva al Tribunale di Milano l'emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti della [Alfa] per Euro 84.127,62, oltre interessi e spese in relazione alle anticipazione effettuate a [Alfa] in forza del contratto di factoring in essere tra le parti. Con decreto n. (omissis) in data 24 febbraio 2012 ingiungeva a [Alfa] di pagare a [Factor] l’importo di Euro 84.127,62, oltre interessi, al tasso Euribor 3 mesi maggiorato di uno spread dell’1,50% con capitalizzazione trimestrale maturati dal primo ottobre 2011 al saldo e le spese della procedura d’ingiunzione.
Con atto di citazione notificato il 17 luglio 2012 [Alfa] proponeva opposizione deducendo: che il decreto ingiuntivo n. (omissis) era divenuto inefficace in quanto notificato oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla sua pronuncia; che il ricorso per decreto ingiuntivo n. (omissis) era stato chiesto nei confronti della[Alfa], presso la sua sede di (omissis), quando invece aveva la propria sede legale a (omissis), con contestuale sua inefficacia; che il decreto era inesistente in assenza di delega da parte del legale rappresentante di [Factor], ed anche in quanto quest’ultima non aveva prodotto copia della delibera del Consiglio di Amministrazione con cui venivano conferiti i relativi poteri a (omissis); che l’estratto autentico notarile prodotto da [Factor] per ottenere l’emissione dell’ingiunzione di pagamento non era idoneo a provare il credito azionato in via monitoria; che [Factor] aveva modificato unilateralmente nel corso del rapporto lo spread relativo agli interessi da corrispondere sulle anticipazioni effettuate. Chiedeva, quindi, che venisse dichiarata l’inefficacia del decreto ingiuntivo n. (omissis) e la revoca del medesimo.
Si costituiva nel giudizio [Factor] deducendo la tardività della notifica dell’atto di opposizione al decreto ingiuntivo e la conseguente inammissibilità ed improcedibilità dell’opposizione; l’infondatezza di tutte le eccezioni svolte dall’opponente. Chiedeva quindi che venisse dichiarata l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’opposizione stante la tardività della notifica dell’ opposizione, previa revoca del decreto ingiuntivo (omissis), stante la tardività della sua notifica, la pronuncia dell’ordinanza prevista dall’art. 186 ter c.p.c., dichiarandola immediatamente esecutiva per € 84.127,62, e, in ogni caso, la condanna di [Alfa] al pagamento in favore di [Factor] della suddetta somma oltre gl’interessi al tasso Euribor 3 mesi maggiorato di uno spread dell’1,50% con capitalizzazione trimestrale dal primo ottobre 2011 al saldo.
Il Giudice concedeva la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, rinviando la causa al 13.11.2012 per l’eventuale precisazione delle conclusioni ex art. 281 sexies cpc. A tale udienza il legale dell’opponente [Alfa] chiedeva di essere autorizzato alla proposizione della querela di falso sulla data di ricevimento della notifica del decreto e il giudice rinviava per l’interpello dell’opposta ex art. 222 c.p.c. dove
quest’ultima dichiarava di volersi avvalere del documento impugnato; la causa veniva rinviata per la proposizione della querela di falso e la decisione sulle relative istanze istruttorie; sentiti i testi la causa veniva rinviata per la decisione sulla sola querela di falso; con sentenza pubblicata il 18.10.2016 n. (omissisi) veniva accertata la falsità del documento poiché la data corretta delle notifica del decreto ingiuntivo n. (omissis) era quella del 7.6.2012 e non quella del 4.6.2017 che compariva sul relativo avviso di ricevimento, data quest’ultima appostavi erroneamente dall’agente postale che esegui la notifica.
La causa proseguiva con l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183 sesto comma c.p.c., e successivamente rinviata per precisazione delle conclusioni e differita per i medesimi incombenti al 10.4.2019; assegnata allo scrivente Giudice in data 26.2.2018 l’udienza di precisazione delle conclusioni veniva anticipata al 5.6.2018 e trattenuta in decisione alla medesima udienza.
L’opposizione deve ritenersi tempestiva, alla luce di quanto statuito dalla sentenza (omissis) la quale ha accertato che la data corretta delle notifica del decreto ingiuntivo n. (omissis) era quella del 7.6.2012 e non quella del 4.6.2017 che compariva sul relativo avviso di ricevimento, data quest’ultima appostavi erroneamente dall’agente postale che esegui la notifica.
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La presente e controversia ha, quindi, per oggetto esclusivamente l’accertamento della pretesa creditoria di [Factor] nei confronti di [Alfa] pari a Euro 84.127,62 oltre interessi e spese.
Con riferimento al motivo di opposizione consistente nell’eccezione di tardività della notifica del medesimo, pacifica in causa, si rileva che tale circostanza comporta necessariamente la revoca del decreto a causa della sua inefficacia, ma non impedisce al Giudice di scrutinare il merito della controversia in conformità al costante orientamento della Suprema Corte secondo cui “La notificazione del decreto ingiuntivo oltre il termine di quaranta giorni dalla pronuncia comporta, ai sensi dell'art. 644 c.p.c., l'inefficacia del provvedimento, vale a dire rimuove l'intimazione di pagamento con esso espressa e osta al verificarsi delle conseguenze che l'ordinamento vi correla, ma non tocca, in difetto di previsione in tal senso, la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale; ne deriva che, ove su detta domanda si costituisca il rapporto processuale, ancorché su iniziativa della parte convenuta (in senso sostanziale) la quale eccepisca quell'inefficacia, il giudice adito, alla stregua delle comuni regole del processo di cognizione, ha il potere-dovere non soltanto di vagliare la consistenza dell'eccezione (con le implicazioni in ordine alle spese della fase monitoria), ma anche di decidere sulla fondatezza della pretesa avanzata dal creditore ricorrente” (Cass. civ., Sez. I, n. 21050 del 28.9.2006 e Cass. civ., Sez. II, n. 67 del 4.1.2002).
Infondata anche l’eccezione svolta dall’ opponente per essere stato il decreto ingiuntivo stato chiesto nei confronti di [Alfa], presso la sua sede di (omissis), quando invece aveva la propria sede legale a (omissis), da cui deriverebbe l’inefficacia del medesimo. Unica circostanza che rileva nel presente giudizio è che la notifica, seppur al secondo tentativo presso il diverso indirizzo della sede, sia stata regolarmente effettuata.
Infondata anche l’eccezione relativa all’ assenza della sottoscrizione della delega da parte del legale rappresentante pro tempore di [Factor] ed alla fonte dei poteri di (omissis) quale suo Vice Direttore. Sul punto appare sufficiente rilevare che il ricorso per decreto ingiuntivo è stato depositato in via telematica, motivo per cui la procura speciale alle liti rilasciata al difensore era stata dal medesimo sottoscritta per autentica con l’apposizione della propria firma digitale certificata ed è stata trasmessa al Giudice
“scannerizzata”, mentre l’originale della procura è rimasta sempre nel fascicolo della ricorrente. Come rilevato dall’opposta il programma di invio telematico dei decreti ingiuntivi, denominato “consolle avvocato”, prevede che la procura speciale alle liti rilasciata in calce al ricorso debba essere inviata telematicamente con un file separato rispetto all’atto principale, ovvero il ricorso per decreto ingiuntivo stesso e specificamente sottoscritta apponendovi la firma digitale dell’avvocato. Tuttavia, dovendo essere la predetta procura speciale alle liti inviata su file separato, in sede di richiesta delle copie autentiche, l’originale del ricorso e del relativo decreto ingiuntivo venivano stampati dalla competente cancelleria privi di procura, motivo per cui parimenti prive di procura risultano anche le copie autentiche rilasciate per la notificazione.
In ogni caso, si rileva che l’opposta, in corso di causa, ha prodotto l’originale di tale procura rilasciatagli da (omissis) quale suo Vice direttore generale (doc.5 [Factor] prodotto con la comparsa di costituzione e risposta). A prova invece dei poteri di rappresentanza in capo a quest’ultimo nominativo così come indicati nel ricorso per decreto ingiuntivo, a fronte della contestazione dell’opponente, [Factor], sempre nel corso del presente giudizio ha prodotto sub doc. 6 copia del verbale del consiglio di amministrazione di [Factor] del 10.11.2010 da cui emerge il conferimento dei i poteri di rappresentanza al (omissis) quale vice direttore generale dell’opposta.
Infondate anche le eccezioni in ordine alla mancata prova e all’inesatta a determinazione del credito vantato da [Factor] sui suoi estratti conto mensili nonché sulla prova di tutti i movimenti contabili intervenuti nel corso del rapporto di factoring. [Factor] ha prodotto a fondamento della richiesta del decreto monitorio l’estratto notarile del proprio libro giornale che, alla data del 19.12.2011, portava un saldo creditorio nei confronti della cedente [Alfa] pari a Euro 84.127,62, doc. 1, il contratto di factoring e le sue condizioni, doc. 2, il documento di sintesi contenete le condizioni generali e specifiche del
rapporto, doc. 3, la comunicazione con cui [Factor] è receduta dal contratto, doc.4.
A fronte delle contestazioni, piuttosto generiche dell’opponente, l’opposta ha prodotto con la memoria
n. 2 estratti conto [Factor] dal 1.1.2008 al 31.12.20112, doc da 7 a 20, documenti di sintesi aggiornamento dal 22.1.2007 al 27.1.2011 docc. da 21 a 28, conti liquidazione, contenenti tutte le operazioni effettuate mensilmente sul conto 077798001 docc. da 29 a 68; copie fatture emesse da [Factor] per un totale di Euro
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84.127,62 docc. da 69 a 84, somma quest’ultima pari a quella di cui all’estratto notarile del libro giornale posto a fondamento della richiesta monitoria.
A fronte della comunicazione degli estratti conto mensili non risulta che parte opponente abbia effettuato altre contestazioni diverse da quelle di cui ai docc. 2,3,4 opponente, comunicazioni dirette ad impedire una modifica peggiorativa dei tassi d’interesse, comprovano. Ne consegue che, in assenza di contestazione, gli estratti conto mensili, devono ritenersi approvati ai sensi dell’art. 16 delle condizioni contrattuali.
Quanto alle modifiche dello spread unilateralmente effettuate da [Factor] si rileva che le modalità di esercizio di tale facoltà sono previste dall’art. 18 delle condizioni generali del contratto di factoring, doc.2. laddove prevede che “Nel rispetto delle norme di cui al Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia in data 25 luglio 2003 che attua le disposizioni di cui alla Deliberazione C.I.C.R. del 4 marzo 2003, il Factor avrà facoltà di modificare la misura dei compensi indicati nell’art. 1 e quantificati in separate pattuizioni costituenti parte integrante del presente contratto, anche in senso sfavorevole al Fornitore, dandogliene comunicazione nei modi previsti dalla legge medesima. In caso di disaccordo, il Fornitore avrà a sua volta facoltà di recedere dal contratto entro 15 giorni liberi dal ricevimento della comunicazione o dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di apposito avviso”.
Ne consegue che sulla base delle previsioni contrattuali e della normativa vigente in tema di trasparenza dei servizi bancari e finanziari [Factor] era facoltizzata a modificare unilateralmente, tra le altre condizioni contrattuali, la misura del tasso convenzionale degli interessi anche in senso sfavorevole per [Alfa] con il solo obbligo di dargliene comunicazione. Quest’ultima, a sua volta, se dissentiva dalla modifica del tasso d’interesse poteva recedere dal contratto entro 15 giorni liberi dal ricevimento della relativa comunicazione.
Come comprova tutta la documentazione sopra indicata, in particolare docc. 21-28, deve ritenersi che [Factor] abbia fornito idonea prova della comunicazione della variazioni dello spread. In particolare le stesse lettere di contestazione dell’aumento dello spread prodotte dall’opponente sub doc. 2,3,4, sono idonee a provare la ricezione dei documenti di sintesi e le proposte unilaterali di modica del contratto di factoring da parte di [Factor] e più in specifico dello spread. Ne consegue che, in assenza dell’esercizio della facoltà di recesso, le modifiche devono ritenersi efficaci.
Alla luce di quanto esposto superflue le istanze istruttorie richiamate dall’opponente sede di p.c.
Alla luce di quanto esposto, deve essere revocato il decreto ingiuntivo n.. 7067/12 in data 24 febbraio 2012 e [Alfa] condannata a corrispondere a [Factor] la somma di Euro 84.127,62 oltre interessi al tasso euribor 3 mesi maggiorato dell’1,50% con capitalizzazione trimestrale maturati dal 1.10.2011 al saldo; Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunziando, ogni altra istanza o eccezione disattesa: revoca il decreto ingiuntivo n. (omissis) in data (omissis);
condanna [Alfa] a corrispondere a [Factor] la somma di Euro 84.127,62 oltre interessi al tasso euribor 3
mesi maggiorato dell’1,50% con capitalizzazione trimestrale maturati dal 1.10.2011 al saldo;
condanna [Alfa] a corrispondere a [Factor] le spese di lite liquidate in Euro 13.430,00 per compenso, oltre spese generali oneri e accessori.
Milano, 8 ottobre 2018 Il Giudice
* * *
IL CASO
La pronuncia del Tribunale di Milano in esame è resa all’esito di una opposizione a decreto ingiuntivo proposta dallaCedente società Alfa, nei confronti del Cessionario, nell’ambito di un rapporto di factoring.
Il Factor aveva ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento di un debito maturato in relazione alle anticipazioni effettuate al Cedente, comprensivo di interessi contrattuali calcolati sulla base del tasso Euribor maggiorato di uno spread variato nel corso del rapporto.
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Alfa, in sede di opposizione, oltre a eccepire l’inefficacia del decreto per tardività della notifica, ha contestato nel merito la modifica unilaterale dello spread – la maggiorazione applicata ai parametri di indicizzazione ai quali viene ancorata la variabilità del tasso di interesse contrattualizzato – posta in essere, nel corso del rapporto, dal Factor. Chiedeva, dunque, che venisse dichiarata l’inefficacia del decreto ingiuntivo e la revoca del medesimo.
Il Factor, per converso, chiedeva la condanna del Cedente al pagamento della somma di cui al decreto opposto.
Risolta l’intricata vicenda in rito con la revoca del decreto1, il Tribunale, nel merito della controversia, ha accertato l’infondatezza delle eccezioni di parte opponente e condannato Alfa al pagamento delle somme originariamente ingiunte.
Con riferimento alle modiche unilaterali dello spread effettuate dal Factor, il Tribunale ha rilevato che le modalità di esercizio di tale facoltà erano previste nelle condizioni generali del contratto di factoring, nel rispetto delle norme di cui al Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia in data 25 luglio 2003 (che attua le disposizioni di cui alla Deliberazione C.I.C.R. del 4 marzo 2003). Era pertanto contrattualmente prevista la facoltà del factor di modificare la misura dei compensi, consistenti nel tasso convenzionale degli interessi, anche in senso sfavorevole al fornitore, con il solo obbligo di dargliene comunicazione.
Nell’ipotesi di disaccordo, in favore del fornitore era prevista la facoltà di esercitare il diritto di recesso dal contratto entro 15 giorni dal ricevimento della predetta comunicazione. Pertanto, ne consegue che il Factor ha legittimamente esercitato la facoltà di modificare unilateralmente il contratto con riferimento alla misura del tasso convenzionale degli interessi.
COMMENTO
La sentenza in commento costituisce applicazione dell’art. 118 del D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), il quale consente alle banche e agli intermediari finanziari, nell’ambito delle operazioni e servizi bancari e finanziari, la modifica delle originarie condizioni contrattuali.
Lo jus variandi in materia bancaria è stato regolato fino agli inizi degli anni ’90 dall’art. 16 delle Norme bancarie uniformi predisposte dall’ABI, con particolare riferimento al conto corrente di corrispondenza. Successivamente, questa facoltà è stata legislativamente riconosciuta dall’art. 4, comma 2, e dall’art. 6, comma 5, della Legge 17 febbraio 1992,
n.154 sulla trasparenza bancaria, con disposizioni l’anno successivo trasfuse, salvo marginali modifiche, nell’art. 118 t.u.b.2 Secondo l’originaria formulazione dell’art. 118 t.u.b. – del quale il Tribunale ha fatto applicazione nella decisione in commento, in quanto pro tempore vigente – lo jus variandi poteva essere esercitato con riferimento ai contratti di durata e poteva avere a oggetto i prezzi, i tassi e le altre condizioni. A pena di inefficacia, le variazioni dovevano essere comunicate alla Clientela nei modi e nei termini stabiliti dal CICR; era comunque riconosciuto al cliente il diritto di recedere dal contratto senza penalità e di ottenere, in sede di liquidazione del rapporto, l’applicazione delle condizioni anteriori alla modifica unilaterale3.
Il CICR, in conformità alla disposizione di legge primaria, con Deliberazione del 4 marzo 2003, aveva stabilito, all’art. 11, che le modifiche dovessero essere comunicate al cliente con chiara evidenziazione delle variazioni intervenute; le variazioni sfavorevoli generalizzate potevano tuttavia essere comunicate alla clientela in modo impersonale, mediante apposite inserzioni
1 Alfa, in sede di opposizione, aveva infatti eccepito l’inefficacia del decreto ingiuntivo in quanto notificato oltre il termine di cui all’art. 644 c.p.c., di sessanta giorni dalla pronuncia, deducendo che l’effettiva data della notificazione sarebbe stata successiva a quella indicata dall’agente postale sull’avviso di ricevimento. Di converso, il Factor aveva dedotto, proprio considerando tale data di notificazione, la tardività dell’opposizione. Sul punto, il Cedente ha vittoriosamente esperito una querela di falso, dimostrando l’errore dell’agente postale. Ne consegue che il Tribunale ha effettivamente revocato il decreto ingiuntivo, tuttavia pronunciandosi nel merito della controversia in conformità al principio per cui l’inefficacia ex art. 644 c.p.c. non fa venir meno la rituale instaurazione del rapporto processuale in relazione alla domanda dell’opposto, con conseguente obbligo del Giudice di pronunciarsi sul merito della controversia (Cass. civ., I, 28 settembre 2006, n. 21050, in Giust. civ. Mass., 2006, 9).
2 Il testo originario dell’art. 118 t.u.b. disponeva: “Se nei contratti di durata è convenuta la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni, le variazioni sfavorevoli sono comunicate al cliente nei modi e nei termini stabiliti dal CICR. 2. Le variazioni contrattuali per le quali non sono state osservate le prescrizioni del presente articolo sono inefficaci. 3. Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione scritta, ovvero dall’effettuazione di altre forme di comunicazione attuate ai sensi del comma 1, il cliente ha diritto di recedere dal contratto senza penalità e di ottenere, in sede di liquidazione del rapporto, l’applicazione delle condizioni precedentemente praticate”.
3 Sulla disciplina introdotta dall’originario art. 118 t.u.b., cfr. per tutti MAJELLO, Art. 118, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Commento al d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, (a cura di) Belli, Contento, Patroni, Griffi, Porzio, Santoro, II, Bologna, 2003, 1945 ss.
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in Gazzetta Ufficiale, purché successivamente comunicate al cliente alla prima occasione utile, nell’ambito delle comunicazioni periodiche o di quelle riguardanti operazioni specifiche.
La disciplina ha subito una prima incisiva modifica con il D. L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni nella
L. 4 agosto 2006, n. 248 (il c.d. primo decreto Bersani sulle liberalizzazioni) il quale ha richiesto, quale requisiti per l’efficacia della modifica unilaterale, sia la necessaria sussistenza di un giustificato motivo4, sia la comunicazione individuale al cliente, con preavviso minimo di trenta giorni5. Con lo stesso intervento normativo è stato introdotto il principio per cui le variazioni dei tassi di interesse conseguenti a decisioni di politica monetaria dovessero riguardare sia i tassi debitori sia i tassi creditori e applicarsi con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente6.
L’ulteriore novella del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141 ha poi distinto la disciplina tra i contratti a tempo indeterminato, nell’ambito dei quali la modifica unilaterale può riguardare qualsiasi condizione prevista dal contratto, e gli altri contratti di durata, nell’ambito dei quali la modifica unilaterale può riguardare esclusivamente le clausole non aventi a oggetto i tassi di interesse, sempre che sussista un giustificato motivo.
Infine, con il D. L. 13 maggio 2011, n. 70 convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 2011, n. 106 (il c.d. Decreto Sviluppo), si è stabilito che - con esclusione dei contratti con consumatori e micro-imprese - nei contratti di durata a tempo determinato la modifica unilaterale relativa a tassi di interessi deve essere prevista in una clausola espressamente approvata dal cliente, la quale predetermini gli specifici eventi e condizioni cui la modifica è subordinata7. Modifica, quest’ultima, peraltro intervenuta all’esito di un travagliato iter legislativo che non ha favorito la chiarezza della disposizione, rimaneggiata in sede di conversione8.
La disposizione oggi vigente è dunque il portato di numerosi innesti che hanno profondamento mutato l’originaria previsione legislativa9.
La pronuncia in esame costituisce quindi lo spunto per una riflessione sullo jus variandi, istituto rispetto al quale, come frequentemente accade, l’alluvionale serie di novelle, non sempre caratterizzate da pregevole tecnica legislativa, non ha
4 La necessità di giustificato motivo per l’esercizio dello jus variandi era già stata introdotta, per i contratti a tempo indeterminato stipulati con i consumatori, dall’art. 1469-bis, comma 5 dalla L 6 febbraio 1996, n. 52. La novella aveva peraltro sollevato una serie di incertezze interpretative circa il coordinamento tra la disciplina consumieristica e quella del t.u.b., incertezze in gran parte superate dalla riforma del decreto Bersani (cfr. SANTONI, Lo jus variandi delle banche nella disciplina della L. n. 248 del 2006, in Banca borsa tit. cred., 2007, 249; sulla valutazione di vessatorietà di clausole che consentono modifiche unilaterali dell’intermediario v. Trib. Roma, 21 gennaio 2000, in Giur. comm., 2000, 211, con commento adesivo di BUONOCORE, Gli effetti sulle operazioni bancarie della nuova disciplina dei contratto con i consumatori).
5 Sull’art. 10 del d.l. 223/2006, v. ex multis SANTONI, Lo jus variandi delle banche nella disciplina della L. n. 248 del 2006, cit. e SIRENA, Il ius variandi della banca dopo il c.d. decreto-legge sulla competitività (n. 223 del 2006), in Banca borsa tit. cred., 2007, 262.
6 La Legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha esteso il principio esposto nel testo alle variazioni dei tassi adottate “in previsione” di decisioni di politica monetaria.
7 La nuova disposizione non è tuttavia, secondo quanto disposto dalla norma transitoria di cui all’art. 8, comma 5, lett. g, l. 106/2011, applicabile ai contratti in corso.
8 V. sul punto, TAVORMINA, Ius variandi e contratti bancari, in Giur. comm. 2013, 309 ss; DOLMETTA, Jus variandi bancario. Tra passaggi legislativi e giurisprudenza dell’ABF le linee evolutive dell’istituto, in www.ilcaso.it (24.07.2011); FERRO-LUZZI, Lo ius non variandi: prime considerazioni, e alcune supposizioni, sul comma 2-bis dell’art. 118, t.u.b., dopo la l. 106/2011, in www.ilcaso.it (07/10.2011). 9 Questo è il testo a oggi vigente: “1. Nei contratti a tempo indeterminato può essere convenuta, con clausola approvata specificamente dal cliente, la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto qualora sussista un giustificato motivo. Negli altri contratti di durata la facoltà di modifica unilaterale può essere convenuta esclusivamente per le clausole non aventi ad oggetto i tassi di interesse, sempre che sussista un giustificato motivo. 2. Qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve essere comunicata espressamente al cliente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula: “Proposta di modifica unilaterale del contratto”, con preavviso minimo di due mesi, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente. Nei rapporti al portatore la comunicazione è effettuata secondo le modalità stabilite dal CICR. La modifica si intende approvata ove il cliente non receda, senza spese, dal contratto entro la data prevista per la sua applicazione. In tale caso, in sede di liquidazione del rapporto, il cliente ha diritto all’applicazione delle condizioni precedentemente applicate. 2-bis. Se il cliente non è un consumatore né una micro-impresa come definita dall’articolo 1, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, nei contratti di durata diversi da quelli a tempo indeterminati di cui al comma 1 del presente articolo possono essere inserite clausole, espressamente approvate dal cliente, che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse al verificarsi di specifici eventi e condizioni, predeterminati nel contratto. 3. Le variazioni contrattuali per le quali non sono state osservate le prescrizioni del presente articolo sono inefficaci, se sfavorevoli al cliente. 4. Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente”.
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agevolato il consolidamento di univoci orientamenti interpretativi10.
L’esercizio del potere dell’intermediario finanziario di modificare unilateralmente le condizioni del rapporto può astrattamente deteriorare in un abuso della libertà contrattuale ovvero rappresentare, all’opposto, un potere necessario all'adattamento del rapporto contrattuale alle sopravvenienze11.
Lo jus variandi è generalmente classificato quale diritto potestativo assegnato a una delle parti – dalla legge o dal contratto
– al fine di determinare, con un atto unilaterale, una modifica del regolamento negoziale. Siffatto potere, apparentemente in contrasto coi principi dell’accordo (art. 1321 c.c.) e della forza del vincolo contrattuale (art. 1372 c.c.), che governano il contratto12, può rivelarsi, come anticipato, invece un fattore risolutivo, nei contratti di durata, dei problemi insiti nella resistenza del regolamento contrattuale al trascorrere del tempo e ai conseguenti mutamenti di contesto e di equilibrio che ciò può determinare13. Cosicché il fenomeno dello jus variandi può rappresentare uno strumento di possibile arbitrio ovvero uno strumento di possibile efficienza, a seconda delle modalità con le quali viene esercitato.
Il potere di modificare unilateralmente il contratto è generalmente assegnato alla parte che è ritenuta in grado di affrontare la sopravvenienza, di capirne le conseguenze e di confezionare una nuova regola negoziale, utile a gestire le esigenze che sono sorte in virtù di nuove circostanze di fatto, così garantendo la continuità del contratto, se non la sua sopravvivenza.
Nell’attuale formulazione, l'art. 118 t.u.b. detta presupposti formali e sostanziali del potere, che deve: i) essere previsto dal contratto; ii) essere assistito da un «giustificato motivo»; iii) essere comunicato per iscritto al cliente con un preavviso di almeno sessanta giorni. La modifica del regolamento contrattuale «si intende approvata ove il cliente non receda, senza spese, dal contratto entro la data prevista per la sua applicazione» (art. 118, comma 2, t.u.b.). L'inosservanza di queste prescrizioni determina l'inefficacia della variazioni peggiorative della posizione dell’altra parte contraente (art. 118, comma 5, t.u.b.).
Secondo parte della dottrina, ne risulterebbe la formazione di un vero e proprio accordo sulla proposta di modifica del regolamento contrattuale formulata dalla Banca alla controparte contraente14: quest'ultima, infatti, esprime il proprio consenso mediante il mancato esercizio del diritto di recesso attribuito dalla legge15. Solo il mancato esercizio della facoltà di recesso fa acquisire alla proposta di modifica validità ed esecutività.
La modificazione deve essere oggetto di una comunicazione che risponda al modello delineato dall'art. 118 t.u.b., con
10 Si è peraltro rilevato che, accanto a una produzione dottrinaria piuttosto ricca, è riscontrabile una limitatezza del formante giurisprudenziale, verosimilmente determinata dallo scarso impatto economico che le modifiche unilaterali dei contratti (in questo senso DOLMETTA, Jus variandi bancario. Tra passaggi legislativi e giurisprudenza dell’ABF le linee evolutive dell’istituto, cit.
11 ROPPO, Il Contratto, Milano, 2011, 525-526.
12 SCHLESINGER, Poteri unilaterali di modificazione (« ius variandi ») del rapporto contrattuale, in Giur. comm., 1992, I, 18 ss.
13 BENEDETTI, Il ius variandi, nei contratti bancari, esiste davvero? appunti per una ricostruzione, in Banca borsa tit. cred., 2018, 613.
14 Cfr. FICI, Osservazioni in tema di modificazione unilaterale del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 2002, 389, in partic. 413-414.
15 In questo senso BENEDETTI, Il ius variandi, nei contratti bancari, esiste davvero? appunti per una ricostruzione, cit., il quale, coerentemente, ritiene che non si possa invero configurare un vero e proprio potere di modifica unilaterale del contratto in quanto la modifica, seppure all’esito di un iter negoziale formalizzato dalla legge, si traduce sempre in un incontro di volontà tra il cliente e l’intermediario. Contra, per l’assenza di una espressione di volontà negoziale da parte del cliente, v. tra gli altri GAMBINI, Ius variandi bancario e finanziario tra tolleranza e reazione del cliente, in Banca borsa tit. cred., 2012, 415.
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l'indicazione di un «giustificato motivo»16, in forma scritta17, con un preavviso di almeno sessanta giorni. Qualora anche uno solo di tali presupposti non sussista, il procedimento di modificazione non si potrà perfezionare ovvero la mancanza dei suoi presupposti determinerà l'inefficacia della clausola oggetto di variazione unilaterale18.
Non costituiscono peraltro una modifica unilaterale del contratto la variazione del tasso di interesse, in caso di tassi indicizzati alla variazione di parametri oggettivi19, né le ipotesi di variazioni di carattere oggettivo e natura aleatoria comunque già previste dal contratto20
Le coordinate interpretative sin qui delineate possono trovare applicazione anche al contratto di factoring e alla variazione delle condizioni del contratto da parte del Factor.
Come rilevato dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, il contratto di factoring, ove stipulato da una banca in relazione a contratti derivanti da rapporti bancari, è soggetto alla disciplina della trasparenza bancaria21. Si tratta invero di una applicazione letterale dell’art. 115 t.u.b., il quale, nel delineare l’ambito di operatività del capo relativo alle disposizioni in materia di trasparenza bancaria - tra le quali è incluso l’art. 118 t.u.b. - stabilisce che “Le norme del presente capo si applicano alle attività svolte nel territorio italiano dalle banche e dagli intermediari
16 La nozione elastica dettata dal legislatore di «giustificato motivo» ha comportato l’apertura di un dibattito in dottrina circa la sua concreta estensione. Per una interpretazione più ampia v. TAVORMINA, Ius variandi e contratti bancari, cit. secondo cui niente impedisce che il potere di modifica sia esercitato anche per ragioni soggettive riguardanti l’intermediario connesse a scelte gestionali dello stesso, come la esigenza di un recupero di redditività, e senza necessità di garantire la parità di trattamento tra i clienti. In senso diverso, v. DOLMETTA, Jus variandi bancario. Tra passaggi legislativi e giurisprudenza dell’ABF le linee evolutive dell’istituto, cit., 34, il quale esclude il rilievo di mutamenti di politica aziendale o adattamenti della politica di bilancio, con salvezza di particolari casi di meritevolezza come per esempio un cambiamento del gruppo societario di appartenenza, con connessa modifica del foro territoriale, oppure l’adeguamento di vecchi contratti a politiche regolamentari diverse come da tempo applicate dall’intermediario ad altri e più recenti contratti in essere; esclude l’esercizio dello jus variandi per la conservazione di un margine di profitto SIRENA, Il ius variandi della banca dopo il c.d. decreto-legge sulla competitività (n. 223 del 2006), cit., 278; anche secondo FERRO-LUZZI, Il “giustificato motivo” nello jus variandi: primi orientamenti dell’ABF, in Banca borsa tit. cred., 2011, 730 “la ragione sottesa alla disciplina dello jus variandi [deve] essere individuata nella possibilità del contraente imprenditore, a fronte di variazioni del mercato, di mantenere un equilibrio economico alla luce di tutti i rapporti posti in essere e non nella facoltà a che l’imprenditore mantenga il proprio livello di utilità contrattuale rispetto al singolo rapporto negoziale”.
Per la possibilità di una valutazione ex bona fide dell’esercizio dello jus variandi v. GORGONI, Il ventaglio delle opzioni a protezione del correntista che subisce l’esercizio dello ius variandi riservato alla banca, in Giur. merito, 2010, 2102.
Nella giurisprudenza dell’ABF è invece solito il richiamo a quanto disposto dalla Circolare 21 febbraio 2007, n. 5574, per cui il giustificato motivo può aver riguardo sia a ragioni che afferiscono la clientela (ad esempio il mutamento del grado di affidabilità in termini di rischio di credito), sia a ragioni derivanti da variazioni di condizioni economiche generali che possono riflettersi in un aumento dei costi operativi degli intermediari (ad esempio, tassi di interesse o inflazione). La stessa circolare ritiene che la variazione non possa comportare l’introduzione di nuove clausole contrattuali (contra ancora TAVORMINA, Ius variandi e contratti bancari, cit. per il quale la modifica è ammissibile anche con l’introduzione o la soppressione di clausole, con il limite della novazione del rapporto).
Secondo DOLMETTA, Jus variandi bancario. Tra passaggi legislativi e giurisprudenza dell’ABF le linee evolutive dell’istituto, cit., 6 la previsione di cui al comma 2-bis dell’art. 118 t.u.b. applicabile alla variazione di modifica dei tassi (che richiede la esistenza di espressa clausola contrattuale che determini specifici eventi e condizioni della variazione) costituisce una sorta di predeterminazione del giustificato motivo; in senso diverso FERRO-LUZZI, Lo ius non variandi: prime considerazioni, e alcune supposizioni, sul comma 2-bis dell’art. 118, t.u.b., dopo la l. 106/2011, cit. per cui si tratterebbe in realtà di una norma meramente ricognitiva di poteri già spettanti all’intermediario ed estranei al tema della variazione unilaterale.
Per la sussistenza di un giustificato motivo di esercizio dello jus variandi in conseguenza di mutamenti delle condizioni di mercato determinate dalla variazioni del tasso Euribor v. da ultimo App. Ancona, 9 gennaio 2018, in deJure, 2018.
17 Tale comunicazione, a seguito della riforma del 2006 (cfr. supra nel testo), deve essere specifica e non può essere sostituita dal mero invio degli estratti conto: cfr. Trib. Modena, 4 gennaio 2016, in deJure, 2016.
18 Si sono peraltro rilevate le eventuali incertezze che potrebbero sorgere in caso di richieste di dichiarazioni di inefficacia notevolmente successive, a seguito di colpevole inerzia del cliente, alla modifica asseritamente inefficace del rapporto: TAVORMINA, Ius variandi e contratti bancari, cit.
19 Trib. Monza, 6 giugno 2017, in deJure, 2017. E infatti solo in caso di modifica unilaterale – e non di mera variazione derivante dall’indicizzazione – potrebbe discorrersi di tassi promessi o convenuti in misura superiore al tasso soglia: SCAGLIOTTI, Ancora sul problema dell’usurarietà sopravvenuta: il rapporto con l’esercizio dello ius variandi, in Banca borsa tit. cred., 2015, 339.
20 Cfr. Cass. civ., 29 maggio 2012, n. 8548, in Dir.&Giust. online 2012, 30 maggio che si occupava dell’allora sensibile tema dei mutui in ECU, con riferimento ai quali la svalutazione della lira aveva determinato il sensibile l’incremento delle rate di ammortamento; su queste premesse, si fonda anche la valutazione di irrilevanza della questione di costituzionalità decisa da C. Cost., 23 giugno 1999, n. 256, in Giur. Cost., 1999, 2206.
21 Cass. civ., 1° febbraio 2018, n. 2510, in questo Osservatorio, n. 1/2018, 12 ss., che si occupava dei requisiti di forma di cui all’art. 117 t.u.b.
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finanziari”, introducendo quindi un criterio soggettivo al fine di individuare gli atti oggetto della specifica disciplina. Peraltro la stessa Banca d’Italia, nel comunicare al pubblico l’estensione delle regole della trasparenza bancaria22, ha chiarito che le regole di trasparenza del t.u.b. si applicano a tutte le operazione e ai servizi di natura finanziaria, offerti dalle banche (italiane e comunitarie) e dagli intermediari finanziari, citando expressis verbis, tra gli esempi più diffusi proprio il factoring.
D’altra parte è opinione diffusa in dottrina e giurisprudenza che, nella variabilità tipologica assunta nella prassi dal factoring, rivesta un ruolo centrale la funzione di finanziamento all’impresa e di smobilizzo del credito associata alle anticipazioni del corrispettivo23. Ne consegue che, se nella erogazione delle anticipazioni sul corrispettivo è ravvisabile una funzione (anche) di finanziamento della operazione di factoring, appare corretto riconoscere che anche rispetto al tasso di interesse applicabile alle anticipazioni debba ritenersi operante la disciplina dell’art. 118 t.u.b.
Ne consegue che trova rilievo, pure rispetto al contratto di factoring, della necessità di gestire le sopravvenienze e le imprevedibili esigenze che possono interessare l’evolversi delle vicende creditorie.
In questo senso l’attribuzione dello jus variandi, quale strumento di gestione delle sopravvenienze utilizzabile dal factor, può garantire una attenuazione dei rischi connessi alle sopravvenienze cui gli operatori professionali sono esposti nell'esercizio delle attività di finanziamento, e può di conseguenza tutelare, anche sotto il profilo dell’interesse generale e della clientela, l’ordinato sviluppo del mercato della cessione dei crediti di impresa.
Dott.ssa Giampaola Marcello
giampaola.marcello@munaricavani.it
Avv. Massimo Di Muro
massimo.dimuro@munaricavani.it
22 BANCA D’ITALIA, La trasparenza delle condizioni contrattuali, in www.bancaditalia.it
23 Si veda in questo senso Cass. civ., 1° febbraio 2018, n. 2510, cit. e, in dottrina, ex multis, CLARIZIA, Contratti di factoring, in I contratti del mercato finanziario (a cura di GABRIELLI-LENER), II, Torino, 1674. Per un richiamo alla ricostruzione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di qualificazione causale del contratto di factoring si rinvia alle pagg. 3 ss. di questo numero dell’’Osservatorio e alle relative note di richiami.
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4.
Corte d’Appello di Roma, Sez. I, 25 ottobre 2018, n. 6755
Contratto di factoring - Obbligazioni e contratti - Condizioni generali di contratto
- Espresso richiamo - Necessità - Prevalenza condizioni speciali di contratto - Fondamento.
(Codice Civile, artt. 1260 e 1264, 1341 e 1342, 1362 e 1363; L. 21 febbraio 1991, n. 52)
In tema di contratti conclusi mediante moduli o formulari, la previsione - accanto alle condizioni generali predisposte che si assumono conosciute dal contraente - di condizioni speciali frutto di una specifica scrittura privata tra le medesime parti contraenti, senza che si faccia riferimento né espresso richiamo alle condizioni generali di contratto, fa sì che le previsioni sul modulo o formulario non prevalgano sulle condizioni speciali successivamente intervenute tra le parti medesime.
Obbligazioni pecuniarie - Interessi in genere - Attribuzione - Espressa domanda di parte - Necessità
(Codice Civile, art. 1277 e ss.; Codice di Procedura Civile, artt. 99 e 112)
In tema di obbligazioni pecuniarie, gli interessi, contrariamente a quanto avviene nell'ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono, sicché gli stessi - siano corrispettivi, compensativi o moratori - possono essere attribuiti, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., soltanto su espressa domanda della parte.
* * * REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI ROMA PRIMA SEZIONE CIVILE
nelle persone dei seguenti Magistrati:
Dottor ROBERTO REALI Presidente relatore Dottoressa ELENA FULGENZI Consigliere Avvocato ALDA COLESANTI Consigliere ausiliario riunita nella camera di consiglio, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello, iscritta al n. 6986 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2015, posta in deliberazione all’udienza collegiale del 13 marzo 2018, con concessione dei termini di legge per il deposito della comparsa conclusionale e della memoria di repliche, e vertente
TRA
[Casa di cura], in persona del rappresentante legale, elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avv. (omissis), che la rappresentano e difendono, ai sensi della procura in margine all’atto di citazione in appello.
APPELLANTE ED APPELLATA INCIDENTALE E
Azienda U.S.L. di (omissis), in persona del rappresentante legale, elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avv. (omissis), e rappresentata e difesa dall’avv. (omissis), ai sensi della procura in calce
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all’atto di citazione in appello notificatole
APPELLATA ANCHE INCIDENTALE
E
[Factor], in persona del rappresentante legale, elettivamente domiciliata in (omissis), , presso lo studio dell'avv. (omissis), con indirizzo di posta elettronica certificata (omissis), che la rappresenta e difende, ai sensi della procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta in primo grado.
APPELLATA ED APPELLANTE INCIDENTALE
CONCLUSIONI All'udienza di precisazione delle conclusioni del 13 marzo 2018 i procuratori delle parti appellante ed appellata incidentale [Casa di cura], appellata anche incidentale Azienda U.S.L. di (omissis) ed appellata ed appellante incidentale [Factor]hanno così
concluso. Per l’appellante ed appellata incidentale [Casa di cura]:
voglia la Corte d'Appello adita, contrariis reiectis ed in accoglimento dei motivi esposti nell’atto di citazione in appello, annullare e/o riformare la sentenza del Tribunale civile di (omissis) n.2568/2015 nell’epigrafe dell’atto di citazione in appello e per l'effetto, in accoglimento della domanda formulata in primo grado, condannare l’Azienda U.S.L. di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, a pagare in favore dell’attuale appellante l’importo di € 437.054,05, oltre interessi ex artt. 4 e 5 D.Lgs. 231/2002, salvo in subordine la rivalutazione monetaria con decorrenza dal 30 luglio 2008 sino all’effettivo soddisfo.
In via subordinata ed istruttoria, ammettere consulenza tecnica di ufficio per l’accertamento della remunerazione dovuta all’Azienda U.S.L. di (omissis) per tutte le prestazioni erogate nell’anno 2007.
Con vittoria delle spese e compensi del doppio grado di giudizio (e con pronuncia di restituzione di quanto fosse stato corrisposto all’Azienda U.S.L. di (omissis) a titolo di spese liquidate in primo grado).
Per l’appellata anche incidentale Azienda U.S.L. di (omissis): voglia la Corte d'Appello adita: -in via preliminare, accertare e dichiarare la nullità dell’atto di
citazione in appello e, per l'effetto, fissare una nuova udienza di comparizione, nel rispetto del termine di legge, entro la quale l’appellante dovrà provvedere all’integrazione della citazione;
-in via principale e nel merito, confermare la sentenza n.2568/2015 emessa dal Tribunale di (omissis), sez.I civile, il 15 ottobre 2015 per quanto espresso nella motivazione della comparsa di costituzione e risposta in appello e/o, in ogni caso, rigettare l’appello proposto poiché infondato in fatto ed in diritto e comunque non provato.
Con vittoria di spese di lite dei due gradi di giudizio. Per l’appellata ed appellante incidentale [Factor]: voglia la Corte d'Appello di Roma così provvedere: nel merito: in accoglimento del presente appello in via incidentale, riformare la sentenza n.2568/2015 del Tribunale di (omissis) e per l'effetto:
1) dichiarare la [Factor] cessionaria e titolare dei crediti di cui alla fattura n.10582 del 30 giugno 2008 emessa dalla [Casa di cura];
2) condannare l’Azienda U.S.L. di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, in qualità
di debitore ceduto, al pagamento in favore della [Factor]della somma di € 437.054,05 quale saldo della predetta fattura.
Con vittoria di spese e compensi professionali del doppio grado di giudizio (e con pronuncia di
restituzione di quanto fosse stato corrisposto all’Azienda U.S.L. di (omissis) a titolo di spese liquidate in primo grado).
MOTIVI DELLA DECISIONE
La motivazione della presente sentenza viene redatta ai sensi dell’art. 132 comma1 n.4) c.p.c., quale novellato dall’art. 45 comma17 legge 18 giugno 2009 n.69. Oggetto del presente giudizio è l’appello proposto dalla [Casa di cura], con atto di citazione notificato ai sensi della legge 27 gennaio 1994 n.53 con atto spedito in data 5 novembre 2015 all’Azienda U.S.L. di (omissis) ed a [Factor] e da entrambe tali parti ricevuto il 6 novembre 2015, nonché l’appello incidentale proposto da [Factor] con la comparsa di
costituzione e risposta depositata in data 11 febbraio 2016, rispetto all’udienza di vocazione in giudizio, da parte dell’appellante principale, del 3 marzo 2016, differita ai sensi di quanto previsto dall’art. 168bis comma5 c.p.c. al 27 settembre 2016, gravami entrambi proposti avverso la sentenza n.2568/2015 del
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Tribunale di (omissis), depositata il 21 ottobre 2015, con cui era stato così statuito: il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così provvede: rigetta la domanda proposta dalla [Casa di cura] e dalla [Factor] che condanna in solido al pagamento in favore dell’Azienda U.S.L. di (omissis) delle spese di lite che liquida in € 2.100,00 per compensi oltre accessori di legge.
Osserva preliminarmente la Corte che la pretesa avanzata in primo grado dalla [Casa di cura] era relativa alla corresponsione, da parte dell’Azienda U.S.L. di (omissis), della somma di € 437.054,05, somma detratta dalla menzionata Azienda dalla complessiva somma di € 776.462,55, importo indicato nella fattura n.10582 del 30 giugno 2008, detrazione effettuata in base all’asserita comunicazione, da parte della Regione Lazio, dell’importo totale delle prestazioni per l’anno 2007, importo corrispondente ad € 9.126.048,70. Detta detrazione era stata contestata dalla società attrice, deducendosi che la Regione Lazio, con la nota in data 5 agosto 2008, aveva precisato che i dati inviati precedentemente alla Aziende Unità Sanitarie Locali erano ancora oggetto di ulteriori verifiche e dovevano pertanto essere utilizzati quali elemento di riallineamento dei dati di contabilità generale e non quale comunicazione della remunerazione effettiva spettante ai soggetti erogatori per l’anno 2007. Il contraddittorio era stato poi integrato nei confronti di [Factor], in quanto cessionaria del credito oggetto della controversia.
Rileva poi la Corte che la [Factor] ha depositato, in forma cartacea, in data 15 maggio 2018, primo giorno successivo alla scadenza, il 14 maggio 2018, del termine ex art. 190 comma1 c.p.c. per il deposito della comparsa conclusionale, istanza di remissione in termini per il deposito di detta istanza, deducendo che l’atto, inviato in via telematica il giorno precedente, era stato rifiutato dall’ufficio ricevente e depositando, contestualmente, la comparsa conclusionale in cartaceo. Successivamente detta società ha depositato, in data 30 maggio 2018, la memoria di replica, senza tuttavia insistere specificamente nella precedente istanza, che deve pertanto ritenersi rinunciata. In particolare si osserva che nella memoria di replica la [Factor] non ha dedotto alcunché in ordine alle difese preclusele, in ipotesi, per effetto dell’impossibilità a depositare in via telematica la comparsa conclusionale. D'altro canto nessuna delle controparti, alle quali comunque comparsa conclusionale di [Factor] era stata comunque inviata, ha eccepito alcunché nel termine previsto per il deposito della memoria di replica, atto per altro non depositato dalla [Casa di cura]. Quanto al gravame proposto in via principale da parte di detta società, l’Azienda U.S.L. di (omissis) ne ha eccepito l’inammissibilità, per l’incompleta indicazione dell’avvertimento ex art. 163 comma3 n.7) c.p.c. Osserva al riguardo la Corte che il Supremo Collegio ha affermato che l’art. 342 c.p.c., laddove prevede che l'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte nell'art. 163, non richiede altresì che l'atto d'impugnazione contenga anche lo specifico avvertimento, prescritto dall'art. 163 comma3 n.
7) c.p.c., che la costituzione oltre i termini di legge implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., atteso che queste ultime si riferiscono solo al regime delle decadenze nel giudizio di primo grado e, in mancanza di un’espressa previsione di legge, la prescrizione di tale avvertimento non può essere estesa alle decadenze che in appello comporta la mancata tempestiva costituzione della parte appellata (Cass. sez. III 13 gennaio 2016 n.341). Tenuto conto di tale principio, condiviso da questa Corte, l’eccezione in esame risulta infondata. Quanto al merito del gravame principale, con un unico articolato motivo si deduce che il Giudice di primo grado aveva travisato l’oggetto del giudizio, oggetto corrispondente alla
somma di €437.054,05, pari alla differenza tra l’importo di € 9.563.102,75, complessivamente certificato
dalla Azienda U.S.L. di (omissis) e l’importo di € 9.126.048,00 determinato da tale Azienda sulla base di dati regionali provvisori, e non all’importo di €614.760,15 come, al contrario, ritenuto da detto Giudice. Infatti quest’ultima somma era risultante dalla differenza tra € 9.740.808,85, importo complessivamente fatturato, ed € 9.126,048,70, somma, come già evidenziato, determinata sulla base di dati regionali provvisori. Conseguentemente non era onere della parte attrice dare la prova di aver reso prestazioni per l’importo di € 614.760,15, dal momento che le fatture emesse dalla [Casa di cura] per l’anno 2007 erano state tutte certificate e non contestate dalla Azienda U.S.L. di (omissis) sino alla concorrenza di € 9.563.102,75. L’oggetto del contendere è piuttosto quello di verificare se, a fronte di detta certificazione, l’Azienda potesse unilateralmente disporre il recupero del preteso credito di € 437.054,05, differenza tra l’importo, per altro certificato, di € 9.563.102,75 e quello di € 9.126.048,70, che l’Azienda U.S.L. di (omissis) assume essere stato determinato dalla Regione Lazio e che risulterebbe da alcune comunicazioni dell’ente
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Regione. Al riguardo la nota della Regione Lazio in data 5 agosto 2008, ritenuta per altro dal primo Giudice quale documento interno per ciò stesso inidoneo a costituire prova dell’erogazione delle prestazioni sanitarie, era stata prodotta dall’appellante principale al fine specifico di confutare la deduzione della difesa dell’Azienda U.S.L. di (omissis), secondo cui il titolo per il recupero dell’importo di
€ 437.054,05 sarebbe stato
costituito dalle citate comunicazioni regionali, che avrebbero ridotto il valore delle prestazioni erogate nel 2007. Inoltre la nota della Regione Lazio in data 26 gennaio 2010, per altro non in atti, non concerneva la [Casa di cura].
Quanto all’appello incidentale proposto dalla [Factor], con lo stesso si aderisce, in primo luogo, alle censure impugnatorie formulate dalla società appellante principale. In secondo luogo si deduce che sussiste la sola legittimazione attiva della [Factor], dal momento che il credito, vantato dalla [Casa di cura] nei confronti dell’Azienda U.S.L. di (omissis) per cui è controversia, era stato ceduto da detta casa di cura all’appellante incidentale con scrittura privata del 5 marzo 2008, autenticata dal notaio Alfonso Colucci, atto di cessione notificato all’Azienda l’11 marzo 2008. Inoltre l’Azienda U.S.L. di (omissis), con nota del 14 aprile 2008, aveva espressamente accettato detta cessione.
Ritiene la Corte di dover esaminare congiuntamente i due appelli, proposti rispettivamente in via principale ed in via incidentale, dovendosi in primo luogo verificare quale sia il creditore legittimato ad agire, attesa la cessione del credito dedotta dalla [Factor].
Quest’ultima società ha prodotto (doc. n.1 del fascicolo di primo grado) copia della scrittura privata in data 5 marzo 2018, autenticata dal notaio Alfonso Colucci. Osserva la Corte che tale copia si riferisce evidentemente alla minuta di tale atto, dal momento che è del tutto priva delle sottoscrizioni sia delle parti contraenti, che del notaio. Tuttavia la [Casa di cura] non ha eccepito l’effettiva sussistenza della pattuizione relativa alla cessione del credito, limitandosi ad eccepire che tale cessione non si riferiva al credito oggetto della presente controversia, in quanto credito non certificato. Al riguardo richiama la previsione di cui all’art. 3 della condizioni generali del contratto. Detto articolo così disponeva: “il cessionario dichiara di rinunciare fin d’ora, come con il presente atto effettivamente rinuncia, alla garanzia
di solvenza del debitore ceduto in relazione ai crediti oggetto di cessione. Resteranno esclusi dalla rinuncia alla garanzia i crediti maturati e da maturare che risulteranno non certificati. Tali crediti si intenderanno pertanto non garantiti dal factor e quindi non ceduti”.
Osserva la Corte che tale previsione non è del tutto conforme a quella di cui all’art. 2 della sopra richiamata scrittura privata, articolo ove era stato così previsto: “il cessionario dichiara di rinunciare fin d’ora, come con il presente atto effettivamente rinuncia, alla garanzia di solvenza del debitore ceduto in relazione ai crediti oggetto di cessione. Resteranno esclusi dalla rinuncia alla garanzia i crediti maturati e da maturare che, all’esito della procedura di certificazione effettuata da parte dell’Azienda ai sensi del protocollo, risulteranno non certificati. Tali crediti si intenderanno pertanto non garantiti dal factor”.
La principale differenza, oltre a quella evidenziata con il carattere grassetto, differenza per altro non sostanziale, è l’espunzione, alla fine dell’articolo, della precisazione conseguenziale “e quindi non ceduti”. Pertanto, mentre secondo le condizioni generali i crediti non certificati, quale, come si esporrà nel prosieguo, quello per cui è controversia, non erano oggetto della cessione, secondo l’art. 3 della scrittura privata erano solo esclusi dalla garanzia, per cui la cessione relativa ad un credito non certificato era pro solvendo e non, come al contrario generalmente previsto dall’art. 2 stessa scrittura, pro soluto.
Osserva la Corte che, premesso e ribadito che non vi è stata alcuna contestazione, da parte della [Casa di cura], dell’effettiva sottoscrizione della minuta di scrittura privata prodotta da [Factor], la previsione dell’art. 2 di detta scrittura prevale su quella dell’art. 3 delle condizioni generali, atteso il rilievo assorbente che in nessuna clausola di detta scrittura erano richiamate le condizioni generali invocate dalla casa di cura.
Si rileva poi che la [Factor] ha prodotto documentazione relativa alla notificazione della cessione all’Azienda U.S.L. di (omissis), seguita in data 11 marzo 2008, nonché la nota di detta Azienda in data 14 aprile 2008, con cui la Azienda medesima aveva comunicato espressamente di aderire alla cessione notificatale, adesione da cui è desumibile che l’atto di cessione del credito notificato non fosse privo delle sottoscrizioni delle parti contraenti.
Ritiene pertanto la Corte che la cessione del credito, anche se non certificato, aveva inciso esclusivamente sul rapporto di garanzia tra detti parti contraenti, ma aveva definitivamente privato la [Casa di cura] della
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legittimazione ad agire per l’esazione del credito ceduto nei confronti del debitore Azienda U.S.L. di (omissis).
Atteso il rilevato difetto, l’appello principale risulta infondato e va conseguentemente respinto. Esaminando la censura impugnatoria proposta con l’appello incidentale della [Factor], va in primo luogo rilevato che il gravame incidentale adesivo, che si connota per l'adesione alle censure già dispiegate dall'appellante principale, a differenza dell'appello per relationem, il quale invece non esplicita le doglianze e fa rinvio a quelle esposte in primo grado, non pone problemi di specificità dei motivi, ma soltanto di tempestività o di tardività, agli effetti dell'art. 334 c.p.c. (Cass. sez.I 8 agosto 2013 n.18957). Quanto alla tempestività, la stessa è stata già sopra rilevata, dal momento che il gravame incidentale è stato proposto dalla [Factor] con la comparsa di costituzione e risposta depositata in data 11 febbraio 2016, rispetto all’udienza di vocazione in giudizio, da parte dell’appellante principale, del 3 marzo 2016, differita ai sensi di quanto previsto dall’art. 168bis comma5 c.p.c. al 27 settembre 2016.
Va poi definito l’oggetto del contendere nella presente controversia. La pretesa del credito ceduto è relativa alla somma di €437.054,05, somma detratta dall’Azienda U.S.L. di (omissis) dalla complessiva somma di € 776.462,55, importo indicato nella fattura n.10582 del 30 giugno 2008, emessa dalla [Casa di cura], fattura relativa alle prestazioni rese a soggetti residenti nella Regione Lazio nel mese di giugno 2018. Detta detrazione era stata effettuata, secondo la prospettazione della menzionata Azienda, per eccedenza del fatturato della casa di cura nel 2007, rispetto a quanto ritenuto spettantele dalla Regione Lazio.
Al riguardo con la nota della richiamata Azienda del 28 luglio 2008 era stato comunicato all’appellante principale: “il fatturato relativo alle attività di ricovero ospedaliero per acuti di competenza anno 2007 di codesta spettabile casa di cura ammonta a € 9.740.808,85 mentre lo spettante comunicatoci dalla Regione Lazio risulta essere di € 9.126.048,70. Pertanto con la presente si invita codesta spettabile casa di cura, ai fini del riallineamento con il dato della Regione Lazio, ad emettere una nota di credito di importo pari ad € 614.760,15. Poiché gli importi relativi all’ammontare delle attività di ricovero ospedaliero per acuto certificati per l’anno 2007 da codesta Azienda U.S.L. ammontano ad € 9.563.120,75, il maggior importo certificato pari a € 437.054,05, come da indicazioni ricevute dalla Regione Lazio, verrà scomputato dalla certificazione della prossima fattura utile del 2008”.
Poi con la nota, sempre dell’Azienda U.S.L. di (omissis), del 30 luglio 2008 era stato così comunicato sempre all’appellante principale: “[Casa di cura] vanta un credito nei confronti dell’azienda per prestazioni erogate nel periodo giugno 2008 a fronte della fattura 10582 del 30 giugno 2008 di importo pari ad € 776.462,55. Considerato che, come già comunicato con nota prot.111/1335/SCB del 28 luglio 2008, codesta struttura deve emettere nota di credito per € 614.760,15, di cui € 437.054,05 verranno stornati sulla fattura suddetta, con la presente si certifica l’importo netto pari ad € 339.408, 50. ”.
Va in primo luogo rilevato che il credito controverso, pari ad €437.054,05, non era quindi certificato, circostanza rilevante con riferimento alla previsione di cui all’art. 3 della scrittura privata del 5 marzo 2008. Va poi osservato che la pretesa, da parte dell’Azienda U.S.L. di (omissis), di detrarre, con riferimento alla fattura n.10582 del 30 giugno 2008, emessa dalla [Casa di cura], la somma di €437.054,05, si fondava sull’assunto che la Regione Lazio aveva verificato l’eccedenza, nell’anno 2007, del fatturato di detta casa di cura. Tuttavia, al di là di quanto dedotto dalla menzionata Azienda, non vi è in atti prova inequivoca della prospettazione dell’Azienda medesima.
In primo luogo la nota della Regione Lazio del 5 agosto 2008, quindi successiva alle due note dell’Azienda
U.S.L. di (omissis) sopra trascritte, nota relativa alle attività di ricovero ospedaliero per acuti nell’anno 2007, aveva precisato che i dati relativi a tali attività erano ancora oggetto di ulteriori verifiche. Inoltre la richiesta di note di debito o di credito nei confronti delle strutture accreditate sarebbe stata effettuata dalle Aziende Unità Sanitarie Locali a seguito di specifica e formale comunicazione, da parte della Direzione Regionale Programmazione Sanitaria della Regione medesima, della remunerazione spettante per l’anno 2007, in esito alla quale comunicazione sarebbero state date precise disposizioni per l’eventuale recupero di somme. Al riguardo l’Azienda U.S.L. di (omissis) richiama la nota della Regione Lazio del 26 gennaio 2010. Va rilevato che detta nota, pur indicata quale documento n.3 nell’indice, vistato dal Cancelliere, del fascicolo di primo grado di detta Azienda, non si rinviene in atti. In ogni caso detta nota è del tutto inconferente alla presente controversia, dal momento che, come pacificamente ammesso dall’Azienda medesima (pag. 8 della comparsa di costituzione e risposta in appello) si riferiva ad altra
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struttura, la casa di cura ICOT, ed è del tutto apodittica la deduzione di tale parte, secondo la quale quanto indicato nella nota richiamata avrebbe valore con riferimento a tutte le strutture accreditate. Ritiene pertanto la Corte che la prospettazione dell’Azienda U.S.L. di (omissis) non trova conforto in alcun documento, proveniente dalla Regione Lazio, di eccedenza, da parte della [Casa di cura], del fatturato nell’anno 2007, con conseguente illegittimità della detrazione della somma dalla fattura n.10582 del 30 giugno 2008.
La pretesa della cessionaria [Factor], relativa al pagamento della somma di € 437.054,05, è pertanto fondata. Si rileva poi, che pur avendo detta parte aderito ai motivi dell’appello principale proposto dalla [Casa di cura], gravame con il quale si chiedeva anche la corresponsione degli interessi previsti dagli artt. 4 e 5 D.Lgs. 9 ottobre 2002 n.231, l’appellante incidentale nulla ha chiesto, nelle conclusioni formulate, a titolo di qualsivoglia tipologia di interessi. Si osserva che sul punto il Supremo Collegio ha affermato che, in tema di obbligazioni pecuniarie, gli interessi, contrariamente a quanto avviene nell'ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono, sicché gli stessi, siano corrispettivi, compensativi o moratori, possono essere attribuiti, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., soltanto su espressa domanda della parte (Cass. sez. II 19 settembre 2016 n.18292). All’esito di quanto esposto, in accoglimento dell’appello incidentale ed in riforma parziale della sentenza impugnata, che va confermata quanto alla reiezione della domanda proposta dalla casa di cura nei confronti dell’Azienda U.S.L. di (omissis), quest’ultima va condannata al pagamento, in favore della [Factor], della somma di € 437.054,05. Quanto alle spese processuali, attesa la soccombenza della menzionata Azienda nei confronti della [Factor], la stesse, con riferimento ad entrambi i gradi di giudizio vanno poste a carico dell’Azienda medesima.
Attesa poi la soccombenza, nel presente grado, della [Casa di cura] nei confronti dell’Azienda U.S.L. di (omissis), le spese processuali di detto grado vanno posta a carico della prima nei confronti della seconda. Atteso quanto previsto dall’art. 13 comma1 quater D.P.R. 30 maggio 2002 n.115, quale introdotto dall’art.
1 comma17 legge 24 dicembre 2012 n.228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante principale [Casa di cura], dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta.
P.Q.M.
A) In riforma parziale della sentenza impugnata, n.2568/2015 del Tribunale di (omissis), condanna l’Azienda U.S.L. di (omissis) al pagamento, in favore della [Factor], della somma di € 437.054,05;
B) respinge l’appello principale proposto dalla [Casa di cura];
C) condanna l’Azienda U.S.L. di (omissis) al rimborso, in favore della [Factor], delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano d'ufficio, quanto al primo grado, in complessivi € 8.000,00 a titolo di compenso onnicomprensivo, oltre al rimborso forfettario delle spese, computato secondo quanto previsto dall'art. 2 comma2 Decreto del Ministero della Giustizia 10 marzo 2014 n.55 e successive modificazioni, ed agli oneri accessori legali, compresi quelli fiscali, e, quanto al secondo grado, in complessivi € 8.500,00 a titolo di compenso onnicomprensivo, oltre alle spese sostenute per il pagamento del contributo unificato, al rimborso forfettario delle spese, computato secondo quanto previsto dall'art. 2 comma2 Decreto del Ministero della Giustizia 10 marzo 2014 n.55 e successive modificazioni, ed agli oneri accessori legali, compresi quelli fiscali;
D) condanna la [Casa di cura], al rimborso, in favore dell’Azienda U.S.L. di (omissis), delle spese processuali del presente grado di giudizio, che si liquidano d'ufficio in complessivi € 8.500,00 a titolo di compenso onnicomprensivo, oltre al rimborso forfettario delle spese, computato secondo quanto previsto dall'art. 2 comma2 Decreto del Ministero della Giustizia 10 marzo 2014 n.55 e successive modificazioni, ed agli oneri accessori legali, compresi quelli fiscali;
E) dà atto, nei confronti della [Casa di cura], della sussistenza dei presupposti, richiesti dall’art. 13 comma 1 quater primo periodo D.P.R. 30 maggio 2002 n.115.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 19 giugno 2018. IL PRESIDENTE ESTENSORE
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IL CASO
Una Casa di Cura ha adito in primo grado il Tribunale di Latina per ottenere la condanna di un’Azienda USL al pagamento della somma di € 437.054,05, importo detratto dalla Azienda medesima dalla maggior complessiva somma di
€ 776.462,55, indicata nella fattura n.10582 del 30 giugno 2008, oltre interessi moratori, salvo in subordine la rivalutazione monetaria con decorrenza dal 30 luglio 2008 fino al soddisfo. Tale detrazione era stata eseguita dall’Azienda USL in ragione dell’asserita comunicazione, da parte della Regione Lazio, dell’importo totale delle prestazioni per l’anno 2007; detrazione contestata dalla Casa di Cura deducendo che la Regione Lazio, con una nota dell’agosto 2008, aveva precisato che i dati inviati precedentemente alle UU.SS.LL. erano ancora oggetto di ulteriori verifiche. Tali dati pertanto avrebbero potuto essere utilizzati quali elementi di riallineamento dei dati di contabilità generale e non quale comunicazione della remunerazione effettiva spettante ai soggetti erogatori per l’anno 2007.
Il contraddittorio era stato poi integrato nei confronti del Factor, cessionario del credito oggetto della controversia, che assumeva di essere l’unico legittimato a ricevere il pagamento di quanto dovuto dalla Azienda USL.
Il Tribunale di Latina ha rigettato la domanda proposta dalla Casa di Cura e dal Factor, condannandoli in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore della Azienda USL.
Ha proposto appello la Casa di Cura chiedendo la riforma della sentenza di prime cure.
Con un unico motivo di appello la Casa di Cura ha sostenuto che il Tribunale avesse travisato l’oggetto del giudizio, ovverossia il pagamento della somma di € 437.054,05, pari alla differenza tra l’importo complessivamente certificato dalla Azienda USL e l’importo determinato dall’Azienda medesima sulla base di dati regionali provvisori, e non al diverso importo calcolato sulla differenza tra l’importo complessivamente fatturato e la somma determinata sulla base dei dati regionali provvisori. L’appellante ha sostenuto che non sarebbe stato suo onere provare di aver reso prestazioni poiché le fatture dalla medesima emesse per l’anno 2007 erano state tutte certificate e non contestate dalla Azienda USL.
Anche il Factor ha proposto appello incidentale verso la pronuncia del Tribunale di Latina, aderendo altresì alle censure mosse dall’appellante principale. Innanzitutto il Factor ha chiesto di accertare e dichiarare di essere cessionario e titolare dei crediti di cui alla fattura n. 10582/2008 emessa dalla Casa di Cura e di condannare l’Azienda USL al pagamento in suo favore della somma di € 437.054,05 a titolo di saldo della indicata fattura. Il Factor ha sostenuto infatti di essere il solo soggetto legittimato dal lato attivo a proporre il gravame dal momento che il credito, vantato dalla Casa di Cura nei confronti dell’Azienda USL, era stato ceduto dalla prima al Factor con scrittura privata autenticata del 5 marzo 2008. Rigettata preliminarmente l’eccezione di inammissibilità dell’atto di citazione in appello sollevata dall’Azienda USL, la Corte territoriale ha ritenuto, sulla base di un’attenta disamina delle condizioni generali e speciali di contratto, la prevalenza delle seconde sulle prime e, dunque, la legittimazione esclusiva del Factor a ricevere il pagamento delle somme dovute dal debitore ceduto, la Azienda USL, che a suo tempo accettò espressamente la cessione.
La Casa di Cura si è infatti opposta alla eccezione di carenza di legittimazione sollevata dal Factor rilevando, non già l’effettiva sussistenza della pattuizione relativa alla cessione del credito, bensì che tale cessione non si riferiva al credito oggetto della controversia, in quanto credito non certificato.
Al riguardo la Casa di Cura ha richiamato la previsione di cui all’art. 3 della condizioni generali del contratto per cui: “il cessionario dichiara di rinunciare fin d’ora, come con il presente atto effettivamente rinuncia, alla garanzia di solvenza del debitore ceduto in relazione ai crediti oggetto di cessione. Resteranno esclusi dalla rinuncia alla garanzia i crediti maturati e da maturare che risulteranno non certificati. Tali crediti si intenderanno pertanto non garantiti dal factor e quindi non ceduti”.
La Corte ha osservato che tale previsione non era conforme al disposto dell’art. 2 delle pattuizioni del contratto di cessione ove si era stabilito che: “il cessionario dichiara di rinunciare fin d’ora, come con il presente atto effettivamente rinuncia, alla garanzia di solvenza del debitore ceduto in relazione ai crediti oggetto di cessione. Resteranno esclusi dalla rinuncia alla garanzia i crediti maturati e da maturare che, all’esito della procedura di certificazione effettuata da parte dell’Azienda ai sensi del protocollo, risulteranno non certificati. Tali crediti si intenderanno pertanto non garantiti dal factor”.
La Corte ha rilevato che la principale differenza tra le due clausole, quella di cui alle condizioni generali e quella indicata specificamente nel contratto di cessione, è l’espunzione, alla fine dell’articolo, della precisazione conseguenziale “e quindi non ceduti”.
Pertanto, mentre secondo le condizioni generali i crediti non certificati - quale, come accertato dalla Corte, quello oggetto di causa - non erano oggetto della cessione, secondo le condizioni speciali della scrittura privata di cessione erano solo esclusi dalla garanzia, per cui un credito non certificato era comunque ceduto con la differenza che la cessione sarebbe stata pro
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solvendo e non, come al contrario previsto dalle condizioni generali, pro soluto.
La cessione del credito, anche se non certificato, aveva inciso esclusivamente sul rapporto di garanzia tra le parti contraenti, ma aveva definitivamente privato la Casa di Cura della legittimazione ad agire per l’esazione del credito ceduto nei confronti del debitore Azienda USL.
La Corte ha dunque concluso per la prevalenza delle condizioni speciali su quelle generali di contratto atteso il rilievo assorbente che in nessuna clausola della scrittura privata erano richiamate le condizioni generali invocate dalla Casa di Cura.
In ragione della carenza di legittimazione della Casa di Cura l’appello principale è stato ritenuto infondato e come tale respinto.
La Corte ha poi esaminato il merito dell’appello incidentale proposto dal Factor (ritenuto tempestivo e adesivo delle doglianze svolte dalla Casa di Cura) al fine di determinare l’ammontare del credito ceduto.
Dalla documentazione agli atti la Corte ha accertato che il credito controverso non era certificato – circostanza, come detto, rilevante con riferimento alla previsione di cui alle condizioni speciali della scrittura privata di cessione tra la Casa di Cura e il Factor - e che l’ammontare dedotto dal Factor era corretto, non avendo l’Azienda USL offerto la prova di quanto dalla medesima dedotto con riferimento al quantum dovuto.
Pur ritenuta fondata la pretesa del Factor cessionario, la Corte ha tuttavia respinto la domanda relativa al riconoscimento degli interessi su detto importo.
Sebbene il Factor avesse aderito ai motivi dell’appello principale proposto dalla Casa di Cura, con la quale quest’ultima aveva chiesto altresì la corresponsione degli interessi moratori, non aveva tuttavia formulato alcuna conclusione in tal senso. La Corte territoriale, uniformandosi all’indirizzo consolidato della Suprema Corte di Cassazione, ha dunque accolto la domanda del Factor solo con riferimento alla somma capitale: in tema di obbligazioni pecuniarie, infatti, gli interessi, contrariamente a quanto avviene nell’ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono, siano corrispettivi, compensativi o moratori, possono essere attribuiti soltanto su espressa domanda della parte, in applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c.
COMMENTO
La pronuncia in commento, a prescindere dalla articolata fattispecie in fatto sulla determinazione dei crediti di natura sanitaria, si occupa sotto il profilo giuridico di due temi fondamentali e interessanti anche dal punto di vista pratico: la prevalenza delle condizioni speciali di contratto su quelle generali e la necessarietà della richiesta degli interessi con riferimento alle obbligazioni pecuniarie.
In tema di contratti conclusi mediante moduli o formulari, la previsione – accanto alle condizioni generali predisposte che si assumono conosciute dal contraente - di condizioni speciali frutto di una specifica scrittura privata tra le medesime parti contraenti, senza che si faccia riferimento né espresso richiamo alle condizioni generali di contratto, fa sì che le previsioni sul modulo o formulario non prevalgano sulle condizioni speciali successivamente intervenute tra le parti medesime.
Nei contratti conclusi mediante moduli o formulari, la presenza nel modulo dell’approvazione specifica di una clausola (anche vessatoria), regolarmente sottoscritta, e nel contempo di una scrittura privata successiva che contempli una clausola derogatoria di quanto contemplato nella previsione compresa fra le condizioni generali, determina una situazione di contrasto fra due clausole che dà luogo ad una questione interpretativa che non può essere risolta affermando che la volontà contrattuale effettiva delle parti è stata quella di volere l’operatività della clausola “generale” e non di quella derogatoria di esclusione della sua operatività, per il fatto che la specifica approvazione dalla prima evidenza una maggiore attenzione del contraente debole all’atto di prestare il consenso, atteso che siffatto criterio interpretativo non risponde ad alcuno dei principi dettati per l’interpretazione dei contratti.
Peraltro questo è quanto disposto dall’art. 1342, comma 1, c.c. che, per il caso di contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, prevede che le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse, anche se queste ultime non sono state cancellate1.
L’indagine in ordine agli elementi essenziali del contratto deve essere svolta sulla base delle generali regole sull’ermeneutica
1 Si tratta di una regola interpretativa che mira a privilegiare, a tutela del c.d. contraente debole, il contenuto del contratto frutto di trattative rispetto a quello risultante dal modulo.
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contrattuale e in particolare deve essere svolta secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali.
Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365 - 1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico. Conseguentemente, l’adozione dei criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro interessi.
I criteri legali di interpretazione soggettiva hanno come fine quello di determinare la specifica volontà delle parti come obiettivizzatasi nel testo contrattuale e ciò in forza del principio cardine di cui all’art. 1362, comma 1, c.c. in virtù del quale “si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.
I criteri di interpretazione soggettiva sono, come si vedrà in seguito, diversi ed hanno tutti carattere “primario”, nel senso che prevalgono su quelli di interpretazione oggettiva tanto che qualora, a seguito della loro applicazione, non risultino spazi di dubbio nella determinazione della volontà delle parti, non potranno in alcun caso trovare applicazione le regole di cui agli artt. 1367, 1368 e 1370.
Se questo criterio “gerarchico” è univoco sia in dottrina sia in giurisprudenza, diversa è la situazione in ordine all’esistenza di un distinto criterio “gerarchico” tra le diverse regole di interpretazione soggettiva.
Infatti, alcuni autori2 e parte della giurisprudenza3 ritengono che i criteri di interpretazione soggettiva siano tutti paritariamente concorrenti e trovino sempre applicazione congiunta, con la conseguenza che l’interprete non dovrà mai limitarsi a considerare il senso letterale delle parole usare dalle parti contrattuali – anche qualora questo non lasci adito a spazi di dubbio – ma dovrà sempre fare applicazione degli altri criteri di interpretazione fondati sulla volontà delle parti. Altri autori, coadiuvati dalla giurisprudenza invero maggioritaria4, ritengono, invece, che, all’interno dei canoni di interpretazione soggettiva, quello letterale abbia un valore prevalente ed assorbente rispetto agli altri, tanto da affermare che, qualora il testo contrattuale sia talmente chiaro da non lasciare spazio a dubbi, non sia consentito il ricorso agli altri canoni di interpretazione soggettiva (in claris non fit interpretatio).
Se si esclude questa difformità di vedute di non poco momento, entrambe i filoni dottrinario-giurisprudenziali sono ormai concordi nel ritenere che per “comune volontà delle parti” si deve intendere solo quella obiettivizzatasi nel testo dell’accordo5. Il significato al quale occorre fare riferimento pertanto è quello “normale” - interpretato secondo un criterio normale di diligenza – dell’accordo raggiunto.
Nella fattispecie la Corte d’Appello di Roma ha messo a confronto il testo della clausola relativa alla cessione dei crediti certificati contenuto nelle condizioni generali di contratto con l’analoga clausola oggetto di specifica negoziazione tra le parti, la separata scrittura privata del 5 marzo 2018.
In ragione del fatto che nella scrittura privata le parti non hanno fatto alcun espresso richiamo alle condizioni generali di contratto, la Corte territoriale ha statuito la prevalenza delle condizioni speciali su quelle generali.
E ciò anche a tutela dei terzi ai quali non è opponibile dalle parti un significato occulto o misterioso opposto a quello apparente e risultante dalla lettura secondo buona fede del testo del negozio. Nella fattispecie la cessione del credito era stata notificata al debitore ceduto, l’Azienda USL, il quale aveva espressamente comunicato di aderire alla medesima.
L’altro tema affrontato nella pronuncia in commento è quello degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie.
Le obbligazioni pecuniarie, caratterizzate dall’avere ad oggetto denaro, sono disciplinate dagli artt. 1277 e ss. c.c. che apprestano una disciplina speciale in ragione delle peculiarità che caratterizzano questa species di obbligazione.
A governo dell’intera materia delle obbligazioni pecuniarie si erge il principio nominalistico, cui si affiancano il principio di naturale fecondità del danaro ed il principio degli interessi moratori.
Il principio nominalistico, codificato all’art. 1277, comma 1, c.c. si sostanzia nella regola secondo la quale le obbligazioni pecuniarie si estinguono con moneta avente valore legale al momento del pagamento e per il suo valore nominale. In altri
2 BIANCA, Il contratto, in Diritto Civile, Milano, 391; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, p. 1051.
3 Cass. civ., 22 ottobre 1981, n. 5528, in Giust. civ. Mass. 1981, 10.
4 Cass. civ. , lav., 26 settembre 2002, n. 13969, in Giust. civ. Mass. 2002, 1726; Cass. civ., 20 agosto 2002, n. 12268, in Giust. civ.
Mass. 2002, 1549; Cass. civ., 18 aprile 2002, n. 5635, in Giust. civ. Mass. 2002, 673; Cass. civ., ss. uu., 30 marzo 1994, n. 3134,
in Giust. civ., 1995, I, 223; Cass. civ., ss. uu., 15 luglio 1998, n. 4635, in Giust. civ., 1989, I, 660.
5 M. BIANCA, op. cit., p. 389.
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termini, al momento della scadenza del termine di adempimento, il debitore si libera pagando l’importo originariamente dovuto al tempo in cui è sorta l’obbligazione.
Intimamente connessa alla disciplina delle obbligazioni pecuniarie è la figura degli interessi.
Il codice civile vigente non offre una definizione di interessi. Essa è piuttosto ricavabile dall’art. 1282 c.c. a norma del quale gli interessi rappresentano il contenuto della prestazione oggetto di una obbligazione accessoria ad altra, di cose fungibili della stessa specie e che sorge periodicamente per il tempo in cui esiste l’obbligazione principale. L’accessorietà è riferita solo al momento genetico dell’obbligazione e il credito agli interessi maturati costituisce un’obbligazione auotonoma6. Da ciò consegue che il credito per interessi forma oggetto di atti di disposizione separata e per ottenerne il riconoscimento occorre un’espressa domanda di parte che ne indichi la fonte e la misura7.
Avendo riguardo alla funzione economica assolta, essi possono essere suddivisi in interessi moratori, compensativi e corrispettivi.
I primi, il cui presupposto è costituito dal ritardo imputabile, hanno funzione risarcitoria, costituendo una liquidazione forfettaria del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie; gli interessi compensativi assolvono, invece, ad una funzione remunerativa, rappresentando un compenso dovuto in cambio del vantaggio della disponibilità di una somma di denaro spettante al creditore.
La giurisprudenza riconosce l’esistenza di una ulteriore categoria, gli interessi corrispettivi, da corrispondere sulle somme date a mutuo e sulle somme liquide ed esigibili.
Tuttavia, assolvendo anch’essi ad una funzione remunerativa, parte della dottrina8 non ritiene ragionevole ipotizzare una ulteriore categoria giustapposta a quella degli interessi compensativi.
Entrambe le categorie di interessi compensativi e corrispettivi sono comunque caratterizzate dalla funzione compensativa del vantaggio insito nel godimento di denaro altrui, funzione che discende dal principio della naturale fecondità della moneta. Fuori dell’ipotesi degli interessi su una somma dovuta a titolo di risarcimento del danno (debito di valore) gli interessi siano essi moratori, compensativi o corrispettivi, integrano obbligazioni distinte rispetto a quelle principali attinenti agli importi ai quali si aggiungono e possono essere attribuiti solo su espressa domanda di parte avendo fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono9.
La Corte d’Appello di Roma, nella fattispecie, richiamando questo un consolidato principio della Supema Corte di Cassazione e attenendosi al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), ha riconosciuto al Facor unicamente la somma capitale oggetto di cessione.
Con la sentenza in commento, pertanto, la Corte d’Appello di Roma si è uniformata in tema sia di interpretazione del contratto sia di riconoscimento degli interessi su obbligazioni pecuniarie al consolidato orientamento giurisprudenziale, offrendone condivisibilmente una corretta applicazione.
Avv. Alessandra Fossati
alessandra.fossati@munaricavani.it
6 Cass. civ., lav., 20 settembre 1991, n. 9800 in Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 9.
7 Cass. civ., ss. uu., 18 marzo 2010, n. 6538, in Foro it. 2010, 2460 con nota di COSTANTINO.
8 Sul punto cfr. BIANCA, La responsabilità, pag. 190 ss. L’Autore rileva, inoltre, che nel codice civile del 1942 gli interessi corrispettivi non sono menzionati. Così Coll. Arb. 19.01.1988 in Arch. Giur. oo. pp. 1988, 1639.
9 Cass. civ., 19 settembre 2016 n.18292, in Giust. Civ. Mass. 2016, rv 641074; Cass. civ., 25 novembre 2005 n. 24858 in Giust.
civ. Mass. 2005, 7/8; Cass. civ., 4 marzo 2004 n. 4423, in Giust. civ. Mass. 2004, 3; Cass. civ. 19 febbraio 2000, n. 1913 in Giust.
civ. Mass. 2000, 413; Cass. civ., 4 febbraio 1999 n. 977 in Giust. civ. Mass. 1999, 259.
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5.
Tribunale di Tivoli, 16 ottobre 2018, n. 1409
Contratto di factoring - Obbligazioni e contratti - Cessione del credito - Efficacia della cessione riguardo al debitore ceduto - Eccezioni del debitore ceduto - Relative all’esatto adempimento - Opponibilità al cessionario.
(Codice Civile, artt. 1260 e 1264; L. 21 febbraio 1991, n. 52)
La cessione dei crediti ha efficacia derivativa anche laddove il debitore ceduto sia una Pubblica Amministrazione, la quale può pertanto far valere nei confronti del cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, ivi comprese quelle attinenti il mancato compiuto adempimento agli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto da cui il credito stesso deriva.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di TIVOLI
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Annamaria Di Giulio ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n.r.g.6427/2015 promossa da:
COMUNE DI (omissis) (C.F. 8700270584) rappresentato e difeso dall’avv. (omissis) ed elettivamente domiciliato in (omissis), presso il difensore
OPPONENTE
contro
[Banca] con il patrocinio dell’avv. (omissis), elettivamente domiciliato in (omissis) presso il difensore avv. (omissis)
OPPOSTA
OGGETTO: opposizione a decreto ingiuntivo CONCLUSIONI: come in atti.
IN FATTO E IN DIRITTO
Nel presente giudizio il Comune di (omissis) ha inteso opporsi al D.I. n. (omissis) emesso dal Tribunale di Tivoli in data 10.10.2015 e depositato in data 24.10.2015 deducendo: che a seguito di gara esperita ai sensi del D.lgs 163/2006 i lavori inerenti “Audit energetici in strutture pubbliche e realizzazione di interventi migliorativi di risparmio energetico nella (omissis)” erano stati aggiudicati alla [Alfa], con cui il Comune opponente in data 19.6.2012 aveva sottoscritto il contratto di appalto rep. N. (omissis); che i lavori avevano avuto inizio in data 21.6.2012; che, successivamente, però, in data 23.7.2012, su disposizione del Direttore, i lavori erano stati sospesi – e risultavano non ancora ultimati - al fine di consentire la redazione della perizia di variante per la definizione della pratica presso il G.S.E. per l’erogazione del servizio di scambio sul posto dell’energia elettrica; che, inoltre, l’art. 7 del contratto di appalto prevedeva che, poiché i lavori di cui al contratto di appalto erano oggetto di finanziamento con L.R. n. 10 del 1991 e Del. G. R. n. 865/35 del 7.10.2009, l’appaltatore non avrebbe potuto pretendere la liquidazione del S.A.L. ove non fosse avvenuta l’erogazione della relativa somma da parte dell’ente finanziatore; che il pagamento dell’ultima rata di acconto sarebbe dovuto avvenire dopo l’ultimazione dei lavori – ultimazione contrattualmente prevista in giorni trenta dal verbale di consegna dei lavori - e la redazione del conto finale; che le somme potevano essere liquidate dal Comune solo acquisita la relativa determina di approvazione, come anche previsto per la liquidazione degli acconti al maturare dei S.A.L.; che, in ogni caso, al termine dei lavori, previo accertamento della regolare esecuzione dei lavori appaltati dal Comune di (omissis) alla [Alfa], doveva essere emesso il certificato di collaudo attestante l’effettiva regolare esecuzione dei lavori in questione;
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che nel caso di specie, la somma ingiunta non era dovuta dall’odierna opponente in quanto la [Alfa] non aveva mai inviato la fattura n. 17/A/2013 al Comune di (omissis), né era dato sapere se la fattura in questione, ceduta all’istituto di credito opposto, fosse stata emessa per il pagamento dell’acconto siccome previsto dall’art. 7 del contratto di appalto e quindi necessariamente legata ad un S.A.L. non prodotto in atti (perché di fatto non esistente né allegato alla fattura ceduta), ovvero se era stata emessa a saldo del compenso dovuto, in ragione della ultimazione dei lavori; che in quest’ultimo caso, certamente, stante la sospensione dei lavori appaltati, l’opera di cui al contratto intercorso tra Comune di (omissis) e [Alfa] non era stata mai ultimata, sicché, mancando il certificato di collaudo attestante la regolare esecuzione e la determina di approvazione necessaria per la liquidazione del saldo, la fattura n. 17/a/2013 non poteva in alcun modo essere emessa dall’appaltatrice, tanto che quest’ultima si era guardata bene dall’inoltrarla al Comune di (omissis).
La [Banca] si costitutiva deducendo: di essere creditrice della [Alfa] della somma di Euro 275.878,56 alla data del 19.3.2015 oltre interessi di mora ulteriori al tasso fisso del 4,90%, quale saldo debitore del rapporto di conto corrente n. 3/057208, sul quale [Alfa] operava anche mediante un fido promiscuo dinamico; che in ragione del rapporto di fido promiscuo dinamico, nella forma di anticipo fatture, la [Banca] avrebbe anticipato alla [Alfa] parte dell’importo della fattura n. 17A/2013 di € 47.080,00 emessa nei confronti del Comune di (omissis) e rimasta insoluta per € 37.665,00; che aveva concesso la predetta anticipazione previa cessione del credito portato dalla predetta fattura con contratto di apertura di credito su fatture del 29.3.2013; che il Comune di (omissis), prima dell’emissione del decreto ingiuntivo, aveva sicuramente (e oggettivamente) avuto conoscenza dell’esistenza di tale fattura in quanto specificamente indicata nell’atto di cessione del credito mediante Racc. A/R in data 8.4.2013 e, inoltre, espressamente fatta oggetto della formale diffida di pagamento con Racc. A/R del 4.2.2014; ce avverso tali formali, espresse comunicazioni il Comune opponente (debitore ceduto) non aveva mai nulla contestato, obiettato, osservato o eccepito.
Rileva preliminarmente questo Giudice che è documentato – e pacifico – il perfezionamento della cessione del credito da parte della [Alfa] alla Banca odierna opposta (come da contratto di cessione dl 29.3.2013, con cui la Banca risulta avere accordato alla [Alfa] un’apertura di credito per l’importo di € 47.080,00 contro cessione, salvo buon fine, del credito vantato dalla predetta società nei confronti del Comune di (omissis)); tale cessione è stata poi notificata al Comune, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1264 c.c. (notifica eseguita in data 8.4.2013).
Ciò premesso, intende l’opponente eccepire al creditore cessionario le eccezioni relative al rapporto da cui il credito stesso deriva, e cioè il mancato compiuto adempimento agli obblighi contrattuali derivanti dall’appalto, stante la sospensione dei lavori, il che sarebbe ulteriormente corroborato, ad avviso dell’opponente, dalla mancata allegazione ad opera di controparte la determina di approvazione dei lavori relativi al singolo SAL e, ove la fattura fosse riferita al saldo dei lavori, il certificato di collaudo attestante l’effettiva regolare esecuzione dei lavori in questione.
Deve ritenersi, nell’assenza di una specifica normativa che disciplini il regime delle eccezioni in caso di cessione del credito, che esse siano opponibili da parte del debitore ceduto, il quale altrimenti risulterebbe pregiudicato dalla cessione (in tal senso, in tema di contratto di factoring, vedasi Cass. civ. del 28.7.2004,
n. 14225/04, secondo cui il debitore può “opporre al factor cessionario non solo le eccezioni attinenti alla fonte negoziale del credito ma anche quelle relative a fatti posteriori alla nascita del rapporto obbligatorio, di cui il ceduto al momento della cessione non abbia avuto conoscenza”, nel medesimo senso vedasi anche Sez. 1, Sentenza n. 24657 del 2.12.2016 secondo cui “in tema di contratto atipico di factoring, la cessione dei crediti che lo caratterizza non produce modificazioni oggettive del rapporto obbligatorio e non può pregiudicare la posizione del debitore ceduto in quanto avviene senza o addirittura contro la sua volontà; ne consegue che il debitore ceduto può opporre al factor cessionario le eccezioni concernenti l'esistenza e la validità del negozio da cui deriva il credito trasferito ed anche le eccezioni riguardanti l'esatto adempimento del negozio, mentre quelle che investono fatti estintivi o modificativi del credito ceduto sono opponibili al factor cessionario solo se anteriori alla notizia della cessione comunicata al debitore ceduto e non ove successivi, in quanto, una volta acquisita la notizia della cessione, il debitore ceduto non può modificare la propria posizione nei confronti del cessionario mediante negozi giuridici posti in essere con il creditore originario”, nonché, più di recente, Sez. 5, Ordinanza n. 9842 del 20.4.2018, secondo cui “la cessione dei crediti ha efficacia derivativa anche ove il debitore ceduto sia il Fisco, il quale, in detta qualità, può pertanto far valere nei confronti del cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, sia
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attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione od anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all'accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto”).
Si rileva che parte opponente non ha proceduto al deposito di documentazione da cui risultasse la prova dell’assunto secondo cui in data 23.7.2012, su disposizione del Direttore, i lavori erano stati sospesi, né è stata in alcun modo fornita la prova – anch’essa documentale – relative alla cause di tale dedotta sospensione. Parimenti l’opponente non ha allegato alcun sollecito alla Regione affinché procedesse all’erogazione del finanziamento previsto per l’opera oggetto dell’appalto.
Tuttavia, partendo dal principio di diritto sopra esposto secondo cui il cessionario subentra nel rapporto di debito-credito nella stessa posizione in cui si trovava il cedente - onde non pregiudicare la posizione, sostanziale e processuale, del debitore ceduto - si ritenere che la prova dell’intervenuto adempimento avrebbe, in ultima analisi, dovuto essere fornita da chi agisce per far valere il proprio diretto al corrispettivo (e cioè dalla Banca opposta quale cessionaria del credito), dovendo altrimenti ritenersi il Comune gravato da una prova negativa (prova dell’inadempimento di controparte ovvero della mancata erogazione del finanziamento da parte della Regione; vedasi, in tal senso, Sez. 2, Sentenza n. 23759 del 22.11.2016, secondo cui “le eccezioni di compensazione e di inadempimento differiscono per presupposti e funzione, i quali implicano una diversa distribuzione dell'onere probatorio: la prima, infatti, rileva quale fatto estintivo dell'obbligazione e presuppone che due soggetti siano obbligati l'uno verso l'altro in forza di reciproci crediti e debiti, sicché grava sulla parte che la invoca l'onere della prova circa l'esistenza del proprio controcredito; la seconda, invece, integra un fatto impeditivo dell'altrui pretesa di pagamento avanzata, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore potrà limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento, gravando sul creditore l'onere di provare il proprio adempimento ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione”. Tale prova avrebbe potuto essere fornita dalla Banca, se del caso, attraverso la richiesta di ordini di esibizione indirizzati alla controparte o all’impresa terza.
In ragione di ciò l’opposizione deve essere accolta, con conseguente revoca del D.I. opposto.
Attesa la natura delle questioni giuridiche proposta, si stima equo compensare per metà le spese di lite, ponendo la restante metà a carico di parte opposta.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
- accoglie l’opposizione e, per l’effetto, revoca il D.I. n (omissis) emesso dal Tribunale di Tivoli in data (omissis) e depositato in data (omissis);
- liquida le spese di lite sostenute da parte opponente in Euro 233,00 per esborsi e in Euro 3.600,00 per compensi, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., come per legge, ponendole per metà a carico dell’opposta e compensandole per la restante metà.
Tivoli, 4.10.2018 Il Giudice
* * *
IL CASO
Con contratto d’appalto del 2012, il Comune di Lariano ha incaricato un’impresa edile di realizzare alcuni interventi migliorativi di risparmio energetico in una scuola elementare avente sede nel Comune stesso.
Il pagamento dei corrispettivi contrattuali è stato modulato in ragione delle modalità di erogazione di un finanziamento pubblico disposto con legge della Regione Lazio e, successivamente, con Delibera della Giunta Regionale della Regione Lazio.
L’impresa di costruzioni cede a una Banca il credito vantato nei confronti del Comune: in ragione di un rapporto di fido promiscuo dinamico, nella forma di anticipo di fatture, la Banca anticipa alla impresa parte dell’importo di una fattura del 2013 emessa nei confronti del Comune di Lariano e rimasta in parte insoluta; detta anticipazione viene concessa previa la cessione del credito portato dalla predetta fattura con contratto del 29 marzo 2013 stipulato tra l’impresa e la Banca. La
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cessione di cui trattasi viene altresì notificata al debitore ceduto, ossia al Comune, con raccomandata del 8 aprile 2013 e, successivamente, fatta oggetto di formale diffida di pagamento il 4 febbraio 2014.
Il factor, per ottenere il pagamento del dovuto, agisce in giudizio ottenendo dal Tribunale di Tivoli l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti del Comune.
Il Comune propone opposizione al decreto ingiuntivo, nella quale eccepisce l’inesigibilità del credito, alla luce delle seguenti circostanze: una clausola espressa del contratto d’appalto con l’impresa prevedeva che, poiché i lavori erano oggetto di finanziamento con legge regionale, l’appaltatore non avrebbe potuto pretendere la liquidazione del SAL ove non fosse avvenuta l’erogazione della relativa somma da parte dell’ente finanziatore; il pagamento dell’ultima rata di acconto sarebbe dovuto avvenire dopo l’ultimazione dei lavori; i lavori non sono mai stati ultimati dall’impresa; le somme potevano essere liquidate dal Comune solo acquisita la relativa determina di approvazione, come anche previsto per la liquidazione degli acconti al maturare dei SAL; in ogni caso, al termine dei lavori, previo accertamento della loro regolare esecuzione, doveva essere emesso il certificato di collaudo attestante l’effettiva regolare esecuzione dei lavori; nel caso di specie, la somma ingiunta non era dovuta dal Comune in quanto l’impresa non aveva mai inviato la fattura azionata in via monitoria, né era dato sapere se la fattura in questione, ceduta all’istituto di credito opposto, fosse stata emessa per il pagamento dell’acconto come previsto dal contratto d’appalto e quindi necessariamente legata ad un SAL non prodotto in atti, ovvero se fosse stata emessa a saldo del compenso, in ragione di una ultimazione dei lavori mai avvenuta da parte dell’impresa.
La Banca si costituiva deducendo: di essere creditrice della impresa; di avere anticipato a questa parte dell’importo di una fattura del 2013; di avere concesso l’anticipazione previa cessione del credito nei confronti del Comune di Lariano, credito appunto portato dalla fattura; che il Comune, prima dell’emissione del decreto ingiuntivo, aveva avuto conoscenza della fattura, indicata nella notificazione della cessione ex art. 1264 c.c. e poi oggetto di diffida; che il Comune in relazioni a tali comunicazioni nulla aveva mai eccepito.
Il Tribunale di Tivoli, sulla scorta di un consolidato orientamento di legittimità, rilevando come il debitore ceduto possa eccepire al creditore cessionario tutte le eccezioni relative al rapporto da cui il credito stesso deriva, e tra queste il mancato compiuto adempimento agli obblighi contrattuali derivanti dall’appalto, e altresì rilevando che la Banca, quale soggetto che agisce per far valere il proprio diritto al corrispettivo, non ha fornito prova dell’intervenuto adempimento dei lavori appaltati, revoca il decreto ingiuntivo.
COMMENTO
La pronuncia in commento si occupa della tematica delle eccezioni che il debitore ceduto può opporre al cessionario, ponendosi in continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui le eccezioni concernenti l’esistenza e la validità del negozio e l’esatto adempimento dello stesso sono sempre opponibili dal debitore ceduto.
Nel conformarsi alla dominante giurisprudenza in materia, il Tribunale di Tivoli ha richiamato, anzitutto, la giurisprudenza maturata in tema cessioni di crediti di imprese per cui, anche a seguito della entrata in vigore della L. n. 52/1991, il contratto di factoring rimane un contratto atipico1, e quindi per gli aspetti non regolati espressamente dovrà farsi riferimento alla disciplina di diritto comune della cessione del credito2.
Tali norme, invero, disciplinano in maniera espressa solo una parte delle possibili eccezioni opponibili al cessionario e, in particolare, l’eccezione di compensazione (art. 1248 c.c.) e quella relativa all’incedibilità del credito (art. 1260, comma 2, c.c.). Nondimeno, la linea guida giurisprudenziale in tema di eccezioni viene individuata nel fatto che il debitore ceduto non debba essere pregiudicato dalla cessione3; ciò in quanto la cessione – che, anche nel quadro di un rapporto di factoring, non produce modificazioni oggettive del preesistente rapporto obbligatorio – avviene senza o addirittura contro la volontà del debitore ceduto.
La Suprema Corte, come rileva anche la sentenza in commento, ha più volte stabilito, in tema di factoring, che poiché la cessione di crediti che lo caratterizza non può pregiudicare la posizione del debitore ceduto, il debitore può opporre al factor cessionario non solo le eccezioni attinenti l’esistenza e la validità del negozio da cui deriva il credito trasferito, ma anche quelle riguardanti l’esatto adempimento del negozio4.
1 DE NOVA, Nuovi contratti, II ed., Torino, 1999, 121; FOSSATI – PORRO, Il factoring, IV ed., Milano, 1994, 164.
2 DE NOVA, Nuovi contratti, cit., 129; Cass. civ., 8 febbraio 2007, n. 2746 in Giust. Civ. Mass., 2007.
3 DE NOVA, Nuovi contratti, cit., 141; BUSSANI, I singoli contratti, 4. Contratti moderni. Factoring Franchising Leasing, in Trattato di Diritto Civile, diretto da SACCO, Torino, 2004, 129.
4 Cfr. ex multis Cass. civ., 2 dicembre 2016, n. 24657, in Giust. Civ. Mass., 2016.
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Il debitore ceduto, pertanto, può sempre opporre al factor le eccezioni concernenti non solo la fonte negoziale del credito, ma anche le eccezioni riguardanti l’esatto adempimento del negozio; in altri termini, potrà opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del creditore originario.
Il principio in questione, peraltro, non è derogato se il debitore ceduto è una Pubblica Amministrazione.
In continuità con una recentissima pronuncia di legittimità5, infatti, il Tribunale ha ritenuto che la cessione dei crediti ha efficacia derivativa anche laddove il debitore ceduto sia una Pubblica Amministrazione (nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’Agenzia delle Entrate), la quale, in detta qualità, può comunque fare valere nei confronti del cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente.
In aggiunta ai principi di diritto sopra esposti, il Tribunale di Tivoli ha infine considerato che la prova dell’intervenuto adempimento dei lavori commissionati dal Comune avrebbe dovuto essere fornita da chi agisce per fare valere il proprio diritto al corrispettivo, ovverosia la Banca, cessionaria del credito, in conformità al noto principio giurisprudenziale per il quale le eccezioni di inadempimento integrano un fatto impeditivo dell’altrui pretesa di pagamento, con la conseguenza che il debitore potrà limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, gravando sul creditore l’onere di provare il proprio adempimento6.
Con la sentenza in commento, il Tribunale di Tivoli, partendo da un consolidato orientamento giurisprudenziale e dando corretta applicazione ai principi in esso esposti, considera la cessione dei crediti con efficacia derivativa anche laddove il debitore ceduto sia una Pubblica Amministrazione, che pertanto può far valere nei confronti del cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente, ivi comprese quelle attinenti il mancato compiuto adempimento agli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto da cui il credito stesso deriva.
Poiché, poi, a fronte della eccezione di inadempimento del debitore ceduto, il cessionario non ha dimostrato il proprio corretto adempimento, come era suo onere, il Tribunale ha condivisibilmente revocato il decreto ingiuntivo opposto.
Avv. Gianluca Reggioli
gianluca.reggioli@munaricavani.it
5 Cass. civ., ord. 20 aprile 2018, n. 9842, in Dejure, 2018.
6 Cass. civ., 22 novembre 2016, n. 23759, in Giust. Civ. Mass., 2017.