Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 18, febrero 2023, ISSN: 2386-4567, pp. 468-501
ARMONIZZAZIONE MASSIMA E MINIMALISMO LEGISLATIVO NEL “NUOVO” DIFETTO DI CONFORMITÀ
DEI BENI DI CONSUMO
FULL HARMONISATION, LEGISLATIVE MINIMALISM AND THE “NEW” LACK OF CONFORMITY IN CONSUMER CONTRACTS FOR
THE SALE OF GOODS
Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 18, febrero 2023, ISSN: 2386-4567, pp. 468-501
Xxxxxx XXXXXXX
ARTICOLO CONSEGNATO: 0 xx xxxxxxx xx 2022 ARTICOLO APPROBATO: 0 xx xxxxxxxxx xx 0000
XXXXXXXX: Il recepimento della Direttiva 2019/771, avvenuto col D.lgs. 170/2021, costituisce una preziosa occasione per meditare sull’attuale panorama normativo, relativo all’obbligo di conformità nella vendita di beni di consumo. Nonostante il legislatore europeo si sia espressamente posto l’obiettivo di perseguire la c.d. armonizzazione massima, i rilevanti spazi decisionali, concessi ai singoli Stati membri, e la ritrosia del nostro legislatore a distaccarsi dal testo della Direttiva fanno però emergere un quadro piuttosto deludente, sia per le sostanziali differenze ancora sussistenti tra le discipline nei diversi ordinamenti, sia per i numerosi interrogativi rimasti irrisolti anche dopo l’intervento.
PAROLE CHIAVE: Obbligo di conformità; beni di consumo; armonizzazione massima; compravendita di beni di consumo; garanzia per vizi; codice del consumo; aliud pro alio.
ABSTRACT: Focusing on the EU Directive 2019/771 (implemented in Italy by D.lgs. 170/2021), the essay analyses the reform regarding the lack of conformity in consumer contracts for the sale of goods. Even though the aim of the Directive is to pursue the so-called “full harmonisation” (reducing the differences between national laws in EU States), this goal looks still far from being achieved. Indeed, the Directive allows every State to regulate differently several (crucial) aspects, and – furthermore – the Italian legislator has not solved many of the issues, raised in the past years.
KEY WORDS: Duty of conformity; consumer sale of goods; full harmonisation; warranty against defects; consumer code; xxxxx xxx xxxx.
SOMMARIO.- I. LA VENDITA DI BENI DI CONSUMO: IL CANTIERE RESTA APERTO.-
II. I (NUOVI?) CONFINI DELL’OBBLIGO DI CONFORMITÀ.- III. LA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ IN CASO DI BENE DIFFORME.- IV. L’INSENSIBILITÀ ALLE RIFLESSIONI SULLA VENDITA DI DIRITTO COMUNE.- V. L’ARMONIZZAZIONE MASSIMA “A SUON DI” MINIMALISMO LEGISLATIVO?.
I. LA VENDITA DI BENI DI CONSUMO: IL CANTIERE RESTA APERTO.
È un dato incontrastato, all’interno della nostra dottrina, che la protezione del consumatore non sia frutto della cultura giuridica italiana, ma che tale esigenza rappresenti piuttosto un «prodotto di importazione»1, nascente dalle spinte comunitarie, a loro volta ispirate dai Paesi dell’Europa settentrionale. Proprio dai continui stimoli provenienti dall’Unione Europea deriva che il diritto del consumatore sia oggetto di un’evoluzione, che ha recentemente compiuto quarant’anni2, ma pare comunque destinata a proseguire anche negli anni a venire.
Non è un caso che – in questo ambito – una figura frequentemente evocata sia quella del “cantiere aperto”3. La Direttiva 2019/771 (ed il suo conseguente recepimento, a livello interno, col D.lgs. 170/2021) rappresenta una perfetta esemplificazione della situazione attuale della disciplina consumeristica: anticipando alcune delle conclusioni a cui si perverrà di seguito e volendo proseguire la metafora, il cantiere resta aperto e i lavori risultano ben lontani dalla loro ultimazione.
Ciononostante, le esigenze di armonizzazione del diritto del consumatore paiono impellenti, in un’epoca in cui il mercato unico rappresenta ormai una realtà4, anche grazie agli strumenti messi a disposizioni dal c.d. e-commerce5. Una simile
1 NICOLUSSI, A: “I consumatori negli anni settanta del diritto privato. una retrospettiva problematica”, Eur. dir. priv., 2007, p. 912.
2 Per la ricostruzione delle tappe, caratterizzanti tale evoluzione, si veda DE XXXXXXXXXX, G.: “40 anni di diritto europeo dei contratti dei consumatori: linee evolutive e prospettive future”, Contr., 2019, pp. 177 ss.
3 Utilizzano tale espressione, tra gli altri, DE CRISTOFARO, G.: “Il ‘cantiere aperto’ codice del consumo: modificazioni e innovazioni apportate dal d. legisl. 23 ottobre 2007, n. 221”, Studium iuris, 2008, pp. 265 ss. e XXXXXXXX, C.: “Il codice del consumo a cinque anni dall’entrata in vigore”, Obb. contr., 2010, pp. 731 ss.
4 A tal punto che, il 13 aprile 2021, il Consiglio Europeo ha adottato la sua Posizione sul programma per il mercato unico per il periodo 2021-2027, fornendo una dotazione di 4,2 miliardi di Euro.
5 Nel 2017, il 65% degli europei ha comprato online: nel 2022 – dopo appena cinque anni – le proiezioni danno tale percentuale in crescita di ben dieci punti, col 75% degli europei qualificabile come e-shopper (fonte: Europe e-commerce report 2022). Di ciò, è ben consapevole il legislatore europeo: cfr. considerando 4 e 5 Dir. 771/2019, che sottolineano come «il commercio elettronico è un motore di crescita chiave nel mercato interno. […] Al fine di rafforzare la competitività dell’Unione e stimolare la crescita, l’Unione deve agire rapidamente e incoraggiare gli attori economici a sfruttare al massimo il potenziale offerto dal mercato interno […]» (considerando 4), aggiungendo poi che «il progresso tecnologico ha contribuito all’espansione del mercato dei beni che incorporano contenuti digitali o servizi digitali o sono interconnessi ad essi. Alla luce del numero crescente di tali dispositivi e della loro diffusione in rapido aumento tra i consumatori,
• Xxxxxx Xxxxxxx
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Xxxxx xxxxxx.xxxxxxx@xxxxx.xx
linea evolutiva segna almeno due questioni urgenti, alle quali risulta necessario che l’ordinamento dia un’immediata (rectius, celere, visto che il legislatore si trova spesso a rincorrere) risposta.
La prima questione è legata alla commercializzazione dei “nuovi beni” o, meglio ancora, della “nuova ricchezza”. A questo fenomeno è, infatti, dedicato ampio spazio, sia all’interno della Dir. 2019/771 – che introduce la definizione di “bene con elementi digitali”6, prevendendone ulteriori elementi di disciplina
– sia, soprattutto, nella “gemella” Dir. 2019/770 – dedicata proprio alla fornitura di contenuti e servizi digitali7. Si tratta di un aspetto senz’altro centrale in questa stagione di riforme, ma che – dovendo compiere una “scelta di campo”, ed insieme un’opportuna premessa di metodo – non sarà oggetto della nostra trattazione.
Piuttosto, il presente contributo sarà dedicato alla seconda delle problematiche, poste dalle esigenze sopra palesate, e cioè alla revisione della disciplina dell’obbligo di conformità, come risultante a seguito della sopra citata Direttiva 2019/771 ed del suo recepimento, avvenuto in Italia con il D.lgs. 170/2021 (entrato in vigore il primo gennaio 2022). Su questa tematica, il legislatore europeo – conscio dell’importanza di delineare uno statuto comune delle garanzie e dei rimedi forniti al consumatore – si lascia alle spalle la “scottatura” del naufragato progetto di disciplina uniforme del contratto di vendita (CESL)8, attingendo però a piene mani proprio da quest’ultimo, anche in considerazione dell’attenta e pluriennale riflessione di cui tale progetto era frutto9.
occorre un’azione a livello dell’Unione per garantire che sussista un livello elevato di protezione dei consumatori e per aumentare la certezza giuridica per quanto riguarda le norme applicabili ai contratti di vendita di tali prodotti. Una maggiore certezza del diritto contribuirebbe a rafforzare la fiducia dei consumatori e dei venditori» (considerando 5). Sul punto, v. altresì la c.d. Xxxxxxxxx omnibus, Dir. 2019/2161,
«per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori», nonché la più recente entrata in vigore dei Regolamenti 2022/1925 (sui mercati digitali) e 2022/2065 (sui servizi digitali), adottati rispettivamente il 14 settembre ed il 19 ottobre 2022.
6 Cfr. sul punto CAMARDI, C.: “Prime osservazioni sulla Direttiva (UE) 2019/770 sui contratti per la fornitura di contenuti e servizi digitali. Operazioni di consumo e circolazione di dati personali”, Giust. civ., 2019, pp. 499 ss.
7 Direttiva recepita con gli artt. 135octies – 135vicies ter cod. cons.: per alcuni spunti, tanto sul D.lgs. 173/2021 (che ha introdotto i suddetti articoli) quanto sulla c.d. Xxxxxxxxx omnibus, si v. XXXXXXXX, X.: “Questioni aperte in materia di contrattazione nelle piattaforme online”, Contr., 2022, pp. 563 ss. e XXXXXXX, A.: “La volontà nel contesto digitale: interessi del mercato e diritti delle persone”, Riv. trim. dir. proc. civ., 2022, pp. 701 ss.
8 ALPA, G.: “Aspetti della nuova disciplina delle vendite nell’Unione europea”, Contr. impr., 2019, p. 825, il quale osserva che «la costola della nuova Direttiva è data dal progetto di disciplina uniforme del contratto di vendita (CESL) con cui si concludeva la stagione della codificazione europea del diritto civile».
9 Prosegue ALPA, G.: “Aspetti della nuova disciplina”, cit., p. 825, osservando che il naufragio della proposta di codificazione europea è dovuta a «diverse ragioni: l’ostilità dei common lawyers verso ogni forma di codificazione, nonostante che l’appartenenza all’Unione avesse comportato l’introduzione di un cospicuo numero di regulations in attuazione delle Direttive comunitarie, sì da far constatare l’avvenuta “europeizzazione” del common law; l’ostilità dei giuristi francesi, intenti a riformare il Code Napoleon, con la speranza di poter diffondere il modello francese a scapito degli altri modelli, anche nelle controversie arbitrali; l’ostilità dei giuristi olandesi, affezionati ad un co- dice nazionale rinnovato di recente e quindi considerato moderno e non sostituibile con altre regole».
Ciononostante, e (anzi) continuando a riconoscere al contratto di vendita la centralità che gli spetta, il legislatore comunitario dichiara di non rinunciare in toto all’ambizioso progetto di avvicinare il più possibile la disciplina della vendita nei diversi Paesi comunitari. Tale obiettivo viene perseguito attraverso il c.d. principio dell’armonizzazione xxxxxxx00 (art. 4 della Direttiva), che pare segnare una netta rottura rispetto al principio di massima tutela, affermato appena vent’anni prima con la Dir. 44/1999.
Eppure, come si cercherà di dimostrare nelle pagine che seguono, la frattura col sistema precedente risulta, nei fatti, meno netta di quanto potrebbe sembrare leggendo i considerando della Dir. 771/201911. Un simile paradosso si giustifica sulla base di due “passaggi” che sono stati compiuti.
In primo luogo, il legislatore comunitario – pur “issando” la bandiera dell’armonizzazione massima – ha lasciato ampi spazi decisionali a ciascun legislatore interno, a cui – in sede di recepimento della Direttiva – sono spettati significativi margini di autonomia decisionale12. Il risultato, tutt’altro che sorprendente, è stato il delinearsi non solo di diverse modalità di recepimento13, ma anche di diverse scelte, prese da ciascun legislatore nell’esercitare la discrezionalità riservatagli.
Di qui il secondo passaggio, che “attenua” l’armonizzazione massima, a cui, al contrario, l’intervento legislativo (comunitario e interno) avrebbe dovuto ispirarsi. Il legislatore italiano – nel recepire la Direttiva con il D.lgs. 170/2019, attraverso l’introduzione degli artt. 128-135septies cod. cons. – ha assunto un approccio “minimalista”14 (nel senso di un intervento timido, principalmente consistito in
10 Così, gli studiosi italiani che si sono occupati della direttiva in esame e, in particolare, PAGLIANTINI, S.: “Contratti di vendita di beni: armonizzazione massima, parziale e temperata della Dir. UE 2019/771”, Giur. it., 2020, pp. 217 ss.; ID.: “A partire dalla dir. 2019/771 (UE): riflessioni sul concetto di armonizzazione massima”, Nuovo dir. civ., 2020, pp. 1 ss. ; DE XXXXXXXXXX, G.: “Verso la riforma della disciplina delle vendite mobiliari b-to-c: l’attuazione della Dir. UE 2019/771 “, Riv. dir. civ., 2021, I, p. 209; ADDIS, F.: “Spunti esegetici sugli aspetti dei contratti di vendita di beni regolati nella nuova direttiva (UE) 2019/771”, Nuovo dir. civ., 2020, pp. 6 s.; XXXXXXXX, F.: “L’armonizzazione massima della direttiva 2019/771UE e le sorti del principio di maggior tutela del consumatore”, Eur. dir. priv., 2019, pp. 957 s., pp. 971 s.
11 Si vedano, sul punto, i considerando 6-8 della Dir. 2019/771, dove si osserva che le norme dell’Unione, applicabili alla vendita di beni, sono ancora frammentate e ciò si ripercuote negativamente sulle imprese e sui consumatori: in particolare, questi ultimi scontano un’incertezza, legata prevalentemente ai diritti contrattuali loro spettanti.
12 MANIACI, A.: “I rapporti fra autonomia privata e disciplina italiana della vendita di beni di consumo dopo il recepimento della Direttiva n. 2019/771”, Eur. dir. priv., 2022, pp. 237 ss.
13 Confermando la scelta già fatta in sede di recepimento della Dir. 1999/44/CE, molti Stati europei (tra cui Germania, Paesi Bassi, Grecia, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Estonia o Croazia) hanno scelto di introdurre le novità normative direttamente nei propri codici nazionali, prevedendo una nuova disciplina generale della responsabilità del venditore per i difetti della cosa venduta, e ritagliando al suo interno un piccolo spazio per le disposizioni riservate alla vendita b-to-c: sul punto, v. DE CRISTOFARO, G.: “Legislazione italiana e contratti dei consumatori nel 2022: l’anno della svolta. verso un diritto “pubblico” dei (contratti dei) consumatori?”, Nuove leggi civ. comm., 2022, p. 25.
14 Espressione più generosa di quella scelta da XXXXXXX, F.: “La violazione della vendita di beni al consumatore per difetto di conformità: i presupposti della c.d. responsabilità del venditore e la distribuzione degli oneri probatori”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo (a cura di G. DE CRISTOFARO), Giappichelli, Torino, 2022, p. 128, che parla di «compitino», svolto dal nostro legislatore.
un’opera di trasfusione del testo della Direttiva all’interno del nostro codice di consumo), che, come si vedrà di seguito, porta con sé rilevanti conseguenze.
Innanzitutto, l’intervento non risolve in alcun modo le questioni rimaste aperte durante i vent’anni di vigenza della «gloriosa»15 Dir. 44/1999 (sul punto: v. §2). Né, d’altro canto, il legislatore risponde in alcun modo agli ulteriori stimoli, provenienti dai recenti interventi giurisprudenziali, in tema di vendita di diritto comune (sul punto: v. §4): eppure, si tratta di tematiche che ben si sarebbero prestate ad una trattazione nell’ambito dell’intervento legislativo, qui esaminato.
A ciò si aggiunge un’ulteriore constatazione, legata ad alcune delle scelte che il legislatore è stato chiamato a compiere (in quanto a ciò obbligato dal legislatore comunitario), in sede di D.lgs. 170/2021. Il quadro, che emerge a seguito della riforma (sul punto: v. §3), non solo risulta tutt’oggi frammentario a livello comunitario, ma – sul piano interno – lo stesso è altresì insoddisfacente, soprattutto nelle parti in cui viene accordato un trattamento di (spesso immotivato) favore al consumatore16, anche a costo di sacrificare le esigenze di certezza di diritto17.
II. I (NUOVI?) CONFINI DELL’OBBLIGO DI CONFORMITÀ.
La ritrosia del nostro legislatore, a prendere posizione sulle principali questioni in tema di conformità dei beni di consumo, emerge nitidamente già da un esame del perimetro dell’obbligo di conformità, così come disegnato dal D.lgs. 170/2021. Al riguardo, il legislatore interno si limita a trasporre nel codice del consumo quanto previsto dalla Direttiva 77118, senza compiere alcuna ulteriore scelta normativa, che sarebbe invece stata necessaria al fine di dirimere le numerose questioni che
– nel vigore della precedente disciplina – erano emerse in sede applicativa.
La prima questione attiene alla disciplina a cui sottostà il c.d. xxxxx pro alio, vale a dire il caso di consegna di un bene radicalmente difforme da quello oggetto del contratto di vendita. La problematica – nota già relativamente alla compravendita
15 XXXXXXX, X.: “Prime osservazioni”, cit., p. 500.
16 Si potrebbe, al riguardo, parlare di una sorta di “ritorno al passato”, nell’ottica di adottare tutt’oggi il principio di massima tutela del consumatore. È bene, però, precisare come quest’ultimo principio non coincida con quello di favor consumatoris. Con “massima tutela” si fa, infatti, riferimento al criterio precedentemente utilizzato, al fine di coordinare la disciplina di fonte euro-comunitaria con quella di diritto interno (nel caso italiano, la disciplina codicistica), facendo prevalere sempre la norma più favorevole nel caso concreto al consumatore. Al contrario, la provocazione – sopra lanciata e rappresentata da un (falso) ritorno al principio di massima tutela – vuole evidenziare una tendenza (e, soprattutto, mettere in guardia da un pericolo), spesso ravvisabile all’interno di questa materia, e consistente nel compiere scelte aprioristicamente orientate a favorire il consumatore.
17 Ciò si verifica nonostante la Direttiva 2019/771 faccia a più riprese riferimento al concetto di certezza dei traffici giuridici (v. considerando 3, 5, 8, 24, 37, 41, 47, 62).
18 Cfr. quanto fatto in tema di presupposti di conformità, oggi suddivisi in oggettivi e soggettivi: sul punto, cfr. XXXXXXXX, X.: “La conformità del bene al contratto di vendita: criteri «soggettivi» e «oggettivi»”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo (a cura di G. DE CRISTOFARO), Giappichelli, Torino, 2022, pp. 65 ss.
codicistica19 – riguarda la qualificazione dell’aliud pro alio quale difformità del bene compravenduto o, in alternativa, quale inadempimento dell’obbligo di consegna: le conseguenze dell’una o dell’altra opzione si ravvisano soprattutto sul piano dei rimedi, a cui tale figura è sottoposta.
Su tale questione, la Direttiva 2019/771 resta silente e, al riguardo, parte della dottrina20 ha paventato la possibilità che – ove il legislatore italiano avesse scelto di ricomprendere (o, al contrario, di escludere) tale figura tra le difformità del bene venduto – ciò sarebbe andato contro il principio di armonizzazione massima. L’Unione Europea ha, infatti, espressamente disciplinato gli obblighi sia di conformità che di consegna, avendo dunque ricompreso la questione dell’aliud pro alio (a prescindere della qualificazione che si voglia dare a tale figura) nella competenza del legislatore comunitario. Se così fosse, una presa di posizione sul punto contrasterebbe con il principio di armonizzazione massima, in quanto si rischierebbe di avere posizioni diverse, all’interno dei vari Paesi, su aspetti (teoricamente) armonizzati: l’unica soluzione per uscire da questa empasse sarebbe, dunque, un intervento sul punto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
L’opinione non pare convincere xxxxxxx, in quanto estende eccessivamente il portato del principio di armonizzazione massima. In altre parole, l’armonizzazione massima consiste nell’impossibilità, per gli Stati membri, di derogare a quanto previsto dall’Unione Europea all’interno della Direttiva in commento21. Dove quest’ultima ha compiuto una chiara scelta, la discrezionalità del legislatore interno incontra un limite invalicabile22: diversamente, sia in tutti i casi in cui l’Unione Europea ha espressamente demandato la scelta agli stati membri, sia dove il legislatore comunitario non ha compiuto alcuna scelta (restando silente), la discrezionalità del legislatore interno si riespande, potendo lo stesso pronunciarsi sul punto.
19 Sull’origine giurisprudenziale di tale figura, XXXXXXXXX, E.: La consegna di cosa diversa, Xxxxxx, Napoli, 1987; XXXXXX, C.M.: “Consegna di aliud pro alio e decadenza dai rimedi per omessa denunzia nella direttiva 1999/44/CE”, Contr. impr./Eur., 2001, pp. 16 ss.
20 AFFERNI, G.: “La nozione di «difetto di conformità»: il problema del vizio giuridico e dell’aliud pro alio”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo (a cura di X. XX XXXXXXXXXX), Xxxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 105.
21 Cfr. la lettera del considerando 18 della Direttiva 2019/771, la quale si propone di «lasciare impregiudicato il diritto nazionale nella misura in cui le materie interessate non sono da essa disciplinate».
22 In tal senso, VENTURELLI, A.: “Risarcimento del danno e sospensione del pagamento del prezzo nella nuova disciplina dedicata alla fornitura di beni di consumo”, Contr. impr., 2022, p. 825, secondo cui, «affinché la direttiva stessa disponga “altrimenti”, non è certo sufficiente la constatazione di una lacuna, anche parziale: il mero fatto che la normativa in commento non si occupi di un determinato profilo della tutela consumeristica vale solo a consentire alla legislazione interna di regolare quel profilo, ma nulla è in grado di dire circa il livello di protezione che deve essere in tal modo assicurato.», nonché PAGLIATINI, S.: “Contratti di vendita di beni”, cit., p. 237.
Resta, dunque, sullo sfondo il fatto che il legislatore europeo abbia affrontato tanto il tema della consegna (Dir. 2011/83) quanto quello della difformità dei beni di consumo (Dir. 2019/771): tali interventi non sono ex se sufficienti a privare in toto il legislatore interno del potere decisionale, relativamente alle tematiche inesplorate dalle Direttive appena citate. Diversamente opinando, bene avrebbe fatto il legislatore a “copia-incollare” la Direttiva Europea, essendogli riservato il ruolo di mero nuncius nella fase di recepimento degli input di matrice comunitaria23.
Sicché, il fatto che il legislatore unionale non abbia in alcun modo contemplato l’aliud pro alio, all’interno dei propri interventi, ha (in teoria) lasciato ai singoli stati la possibilità di prendere posizione sul punto. Così, del resto, ha fatto il legislatore tedesco, il quale – col §434 Abs. 5 BGB24 – ha espressamente ricompreso l’aliud pro alio all’interno della difformità materiale, ad ulteriore dimostrazione che un intervento di tal guisa non è in alcun modo contrario al principio di armonizzazione massima.
Proprio alla luce di queste considerazioni, il silenzio, in tema di aliud pro alio, del D.lgs. 170/2021 risulta particolarmente assordante: e lo è non solo (e non tanto) alla luce del dibattito che era già scaturito sul tema25, quanto piuttosto per le importanti incertezze applicative che derivano proprio da tale omissione26.
23 E, dunque, il legislatore comunitario avrebbe sbagliato a ricorrere allo strumento della Direttiva, al fine di uniformare il regime delle garanzie nei contratti di vendita dei beni di consumo: sarebbe stato, al contrario, opportuno il ricorso allo strumento del regolamento, self executing e dunque sottratto alla fase di recepimento (in cui il legislatore può, invece, esercitare una qualche forma di discrezionalità decisionale).
24 Nel quale si dispone che «Einem Sachmangel steht es gleich, wenn der Verkäufer eine andere Sache als die vertraglich geschuldete Sache liefert» (Parimenti ricorre un difetto di conformità, ove il consumatore consegni una cosa diversa dalla cosa convenuta in contratto).
25 Tradizionalmente favorevoli all’inclusione dell’aliud pro alio nel difetto di conformità: DE XXXXXXXXXX, G.: “Difetto di conformità al contratto e diritti del consumatore. L’ordinamento italiano e la direttiva 99/44/CE sulla vendita e le garanzie dei beni di consumo”, Cedam, Padova, 2000, p. 255; ID.: “voce Vendita. VIII) Vendita di beni di consumo”, Enc. giur. Treccani, XXXII, Treccani, Roma, 2003, p. 7; BIN, M.: “Per un dialogo con il futuro legislatore dell’attuazione: ripensare l’intero sistema della disciplina della non conformità dei beni nella vendita alla luce della direttiva comunitaria”, Contr. impr./Eur., 2000, pp. 405 s.; XXXXX, R.: “L’attuazione della direttiva n. 44 del 1999: una chance per la revisione in senso unitario della disciplina sulle garanzie e rimedi nella vendita”, ibidem, p. 463; PATTI, S.: “Sul superamento della distinzione tra vizi e aliud pro alio datum nella direttiva 1999/44/CE”, Riv. dir. civ., 2002, II, pp. 623 ss.; CABELLA PISU, L.: “La vendita di beni di consumo”, Tratt. resp. contr. I singoli contratti. Applicazioni pratiche e discipline specifiche, diretto da VISINTINI, II, Cedam, Padova, 2009, pp. 1326 s.; XXXXXXX, E.: “La vendita di beni di consumo: un dilemma tra garanzia e responsabilità”, Riv. dir. civ., 2016, I, pp. 357 s. Di diverso avviso, nel senso di continuare a disciplinare l’aliud pro alio con la disciplina codicistica: XXXXXX, C.M.: “Consegna di aliud pro alio”, cit., pp. 629 ss.; XXXXXXXXX, V.: “«Conformità al contratto» dei beni di consumo e onere della prova”, Corr. giur., 2002, p. 1098; DALLA XXXXXXX, X.: “Art. 1519-nonies”, in Commentario alla disciplina della vendita di beni di consumo (a cura di
X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX-X. MOSCATI-P.M. VECCHI), Cedam, Padova, 2003, pp. 741 ss.; XXXXXXXXX, E.: “Aliud pro alio e difetto di conformità nella vendita di beni di consumo”, Riv. dir. priv., 2003, p. 666; XXXXXXXX, F.: “La vendita di cose mobili”, in Comm. cod. civ., fondato da X. XXXXXXXXXXX, diretto da X.X. XXXXXXXX, Xxxxxxx, Milano, 2004, pp. 391 ss.
Più recentemente, si sono espressi sul punto ADDIS, F.: “La consegna nel codice del consumo riformato”, Contr., 2016, pp. 500 ss., spec. p. 512; XXXXXXXXXXX, S.: “Contratti di vendita di beni”, cit., pp. 223 s., XXXXXXXX, F.: “L’armonizzazione massima”, cit., pp. 971 ss. e 992.
26 Si noti che, essendo l’aliud pro alio un aspetto non “armonizzato” – in quanto lo stesso non è stato oggetto di intervento da parte del legislatore comunitario – il nostro legislatore è nei fatti libero di adottare una soluzione diversa, rispetto a quella praticata dalla Germania (dove, come sopra sottolineato, il legislatore ha scelto di ricondurre la figura ai difetti di conformità): ciò creerebbe sì una discrasia tra gli ordinamenti
È vero, infatti, che il nuovo art. 135bis comma 4 cod. cons. consente di richiedere immediatamente la risoluzione della compravendita, per il caso in cui il difetto sia «talmente grave da giustificare l’immediata riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto di vendita»27, eliminando così una prima differenza con l’inadempimento dell’obbligo di consegna (dove la risoluzione è dovuta ai sensi dell’art. 61 commi 3-5 cod. cons.). Ma ciò non è sufficiente a equiparare le discipline in tema di difformità e di mancata consegna.
Si pensi, ad esempio, a quanto disposto dall’art. 61 comma 7 cod. cons., che consente al consumatore di agire con la risoluzione codicistica ex artt. 1453 ss. cod. civ.: tale possibilità è – proprio alla luce del sopra citato principio di armonizzazione massima, che ispira la riforma – preclusa a colui che agisca per un difetto del bene compravenduto. Costui, piuttosto, potrà unilateralmente risolvere il contratto (art. 135quater comma 2 cod. cons.), senza né passare dal giudice né sottostare al procedimento previsto dall’art. 61 cod. cons. (che prevede un’intimazione ad adempiere del consumatore, salvi i casi previsti dal comma 4 di tale norma). Ricomprendendo l’aliud pro alio nella difformità del bene, il consumatore dovrebbe piuttosto fare attenzione a rispettare il termine prescrizionale di ventisei mesi, prescritto tutt’oggi dall’art. 133 comma 3 cod. cons.28.
Ancora, sotto molti aspetti le differenze applicative tra le soluzioni date al problema paiono ulteriormente acuite: se – nel vigore della precedente Direttiva
– era fatto salvo per il consumatore agire ex art. 1453 c.c. (ove ritenuto più favorevole al medesimo), ciò non è oggi più possibile, essendo il compratore “confinato” ai rimedi concessigli in tema di difformità29 (cfr. art. 135septies cod. cons., il quale fa sì riferimento alla risoluzione codicistica, ma solo limitatamente alle «conseguenze della risoluzione del contratto » e al «diritto al risarcimento del danno», escludendo dunque che si possa far riferimento all’art. 1453 c.c. anche in sede di esperimento dell’azione di risoluzione).
degli stati membri, ma quest’ultima sarebbe fisiologica, in quanto figlia dei margini d’autonomia che l’Unione Europea ha lasciato, sul punto, ai singoli Stati membri.
27 Proprio la sussistenza di tale previsione è uno degli argomenti utilizzati da LUMINOSO, A.: “La nuova disciplina delle garanzie nella vendita al consumatore (una prima lettura del d.lgs. n. 170/2021)”, Eur. dir. priv., 2022, pp. 497 ss., per ricomprendere l’aliud pro alio all’interno delle difformità dei beni di consumo.
28 Sempre a non voler ritenere che l’aliud pro alio debba essere escluso dalla disciplina del cod. cons., come proposto da parte della dottrina (citata supra, alla nt. 25) nell’immediatezza del recepimento della Direttiva 1999/44. Tale opzione pare oggi da scartare, poiché le Direttive europee disciplinano ormai tanto la difformità quanto la consegna dei beni di consumo. Pertanto, all’aliud pro alio dovrebbe applicarsi la normativa del codice del consumo, o in tema di difformità o di mancata consegna. Tertium non datur. Così, anche DE XXXXXXXXXX, G.: “Legislazione italiana e contratti dei consumatori”, cit., p. 27. Il rapporto tra norme sulla mancata consegna o difformità dei beni di consumo e inadempimento ex art. 1453 c.c., in merito all’aliud pro alio dei beni di consumo, è altresì affrontato da ADDIS, F.: “La consegna”, cit., p. 512.
29 Sul punto, cfr. XXXXX XXXXXXX, X.: “Art. 135 septies cod. cons.: il coordinamento tra codice del consumo e codice civile in tempi di armonizzazione massima”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo (a cura di G. DE CRISTOFARO), Giappichelli, Torino, 2022, p. 497, il quale auspica che resti
«aperta al compratore-consumatore la chance di esperire una risoluzione [giudiziale] del contratto la quale non imponga a chi la invoca l’attesa di ‘termini supplementari’ di sorta, secondo quello che è il modello dell’art. 135bis cod. cons.».
Il silenzio legislativo sull’aliud pro alio aiuta, inoltre, a far luce su un ulteriore “vizio di fondo” della riforma, già denunciato da altri autori nelle more del recepimento della Direttiva 771/201930. A seguito della riforma, l’obbligo di consegna e il passaggio del rischio restano disciplinati dagli artt. 61-63 cod. cons. e risultano tutt’oggi distanti (non solo topograficamente, ma anche sistematicamente) dalla conformità dei beni. Si tratta, però, di aspetti che avrebbero meritato di essere contemplati ed approfonditi nella riforma in esame, al fine di dare una maggiore organicità all’intero sistema, in quanto tali argomenti rappresentano una “costola” fondamentale delle obbligazioni (sia lato sia stricto sensu intese) del venditore.
Un opportuno coordinamento tra le due discipline – che non sarebbe equivalso a renderle omogenee31 – avrebbe probabilmente portato anche ad affrontare una questione, quale quella dell’aliud pro alio, che da sempre si colloca sulla sottile linea di confine tra queste fattispecie. Al contrario, la “miopia sistematica” del legislatore italiano – sempre nel solco di quel minimalismo, sopra denunciato, che ha fatto sì che lo stesso intervenisse esclusivamente sugli aspetti disciplinati dalla Direttiva – ha portato ad ignorare il problema dell’aliud pro alio, mantenendo così una notevole distanza tra le discipline su conformità e consegna.
Infine, un aspetto, su cui – almeno apparentemente – il legislatore (prima comunitario e poi italiano) ha fatto chiarezza, è legato alla ricomprensione dell’evizione all’interno dell’obbligo di conformità. Del resto, l’art. 132 cod. cons. fa oggi riferimento «ai casi di impedimento o limitazioni d’uso del bene venduto […] conseguenti ad una restrizione derivante dalla violazione di diritti dei terzi, in particolare di diritti di proprietà intellettuale», disponendo che a tali ipotesi debba ugualmente trovare applicazione la disciplina oggi dettata per i difetti di conformità o, in alternativa, le azioni di nullità, annullamento o risoluzione eventualmente applicabili al caso di specie32.
30 Sul punto, cfr. gli spunti forniti da AZZARRI, F.: “Consegna e passaggio del rischio nelle vendite di beni mobili ai consumatori: considerazioni in vista dell’attuazione della Direttiva (UE) 2019/771”, Resp. civ. prev., 2021, pp. 1095 ss., il quale – nelle more dell’emanazione del D.lgs. 170/2021 – auspica una riforma organica delle obbligazioni nella vendita di beni di consumo, disciplinando in un unico Capo del codice del consumo sia l’obbligo di conformità sia l’obbligo di consegna sia il passaggio dei rischi nella vendita dei beni di consumo.
31 L’obbligo di consegna sarebbe rimasto comunque disciplinato dalla Direttiva del 2011/83, ma un intervento sul punto sarebbe stato opportuno, se non altro per «uniformare l’ambito applicativo delle norme anzidette a quello delle nuove disposizioni sulla vendita dei beni di consumo, la cui validità, mercè la clausola di equiparazione, è stata invero confermata (in linea con l’attuale comma 1 dell’art. 128 cod. cons.) anche a favore dei contratti di permuta, di somministrazione, di appalto e d’opera, nonché verso tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni da fabbricare o produrre» (AZZARRI, F.: “Consegna e passaggio del rischio”, cit., pp. 1120 ss.). Diversamente, in forza dell’art. 60 cod. cons. le norme in tema di consegna e passaggio del rischio continuano ad applicarsi ai soli contratti di compravendita, e non anche agli altri contratti (tra cui quelli di «fornitura di acqua, gas o elettricità, quando non sono messi in vendita in un volume limitato o in quantità determinata, di teleriscaldamento o di contenuto digitale non fornito su un supporto materiale»).
32 La norma contiene, peraltro, una nuova deroga “attenuata” al principio di armonizzazione massima, nel senso di consentire – per il caso in cui l’ordinamento interno preveda la possibilità di far valere la nullità o agire la risoluzione del contratto – al consumatore di scegliere tra far valere i rimedi di cui all’art. 132 cod. cons. e, nel caso italiano, quelli previsti dall’art. 1489 c.c. (o comunque volti a risolvere il contratto o dichiararne la nullità). Un (parziale) ritorno, nel caso di specie, al principio di massima tutela.
La norma appena citata riproduce – senza neppure farne troppo mistero – quanto previsto dall’art. 9 della Direttiva 2019/77133, mutuandone il contenuto e, di conseguenza, la laconicità. Anche in tal caso, il legislatore italiano non era senz’altro obbligato ad attenersi rigorosamente al contenuto della Direttiva recepita, essendo, al contrario, opportuno che la normativa italiana fosse meno avara di indicazioni sul punto. Così non è stato e tale decisione può essere, nuovamente, ricondotta al minimalismo legislativo, sopra descritto: non solo il legislatore italiano si rifiuta di regolare le ipotesi dubbie non contemplate dalla Direttiva, ma lo stesso dice nulla di più di quanto detto dal legislatore europeo.
La scelta non pare delle più felici. Nonostante, a mio avviso34, tra i vizi giuridici, contemplati dalla norma, debbano ricomprendersi anche tutti i casi di acquisto di un bene (totalmente o parzialmente) altrui, non sono mancate voci (molto autorevoli) in dottrina35, che hanno invece ritenuto che la disposizione debba essere interpretata in senso restrittivo. Così opinando, si arriverebbe a concludere che tra i difetti di conformità debba rientrare esclusivamente la sussistenza di diritti reali o personali di terzi oppure di oneri, vincoli o altre limitazioni, anche di natura pubblicistica, sconosciuti al consumatore e che ne limitino il godimento del bene acquistato. Al contrario, resterebbero esclusi dall’applicazione della disciplina consumeristica tutti gli altri “vizi giuridici”, tra cui pignoramenti, garanzie reali o altri vincoli di espropriabilità, gravanti sul bene compravenduto, nonché, a fortiori, le ipotesi di alienità della cosa venduta: secondo tale impostazione, questi vizi resterebbero dunque disciplinati dalla normativa codicistica (artt. 1478-1482 cod. civ.).
Quest’ultima non pare – si ripete – un’opzione interpretativa del tutto fedele alla mens legis, volta ad estendere la tutela consumeristica a tutti i casi in cui si palesi un vizio giuridico sul bene compravenduto36. Resta inteso, però, che – come il legislatore ha precisato che resta comunque possibile per il consumatore far valere anche l’annullabilità del contratto – così il medesimo avrebbe potuto compiere un’ulteriore precisazione, in merito alla definizione (e al perimetro) di vizio giuridico, dissipando ogni possibile (e ragionevole) dubbio sul punto.
In sede di attuazione – compiendo uno “strappo alla regola” del minimalismo – il legislatore italiano ha precisato che sono fatte salve le disposizioni non solo in tema di risoluzione e nullità, ma altresì di annullamento, consentendo al consumatore di agire anche per far valere un eventuale errore o dolo (artt. 1428-1439 cod. civ.). Così, AFFERNI, G.: “La nozione di «difetto di conformità»”, cit., p. 113.
33 La quale, peraltro, pare preoccuparsi prevalentemente dei problemi legati alla proprietà intellettuale del bene, con evidente propensione verso la fattispecie di legata a violazioni del copyright, soprattutto in tema di beni con elementi digitali, anch’essi ricompresi nella Direttiva in esame. Del resto, è proprio questa la fattispecie più frequente nella prassi, trattandosi di beni mobili, oggetto di produzione e diffusione di massa.
34 Ma anche secondo AFFERNI, G.: “La nozione di «difetto di conformità»”, cit., p. 114.
35 LUMINOSO, A.: “La nuova disciplina”, cit., pp. 499 s., la cui conclusione è basata sull’osservazione che, in questi casi, «si riscontra non un difetto di conformità del bene bensì il mancato acquisto, il pericolo di perdita o la perdita della proprietà del bene da parte».
36 Cfr. supra. Così, anche PIRAINO, F.: “La violazione della vendita”, cit., p. 135.
III. LA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ IN CASO DI BENE DIFFORME.
Xxxxxxx, adesso, al secondo aspetto della nostra analisi, relativo alla responsabilità37 del venditore in presenza di un difetto di conformità, così come riformata a seguito del D.lgs. 170/2021. Si tratta dell’intervento maggiormente significativo della presente riforma per due ordini di motivi.
In primo luogo, in quanto proprio su questo campo si gioca la rilevante partita della tutela del consumatore, che si avveda di un difetto di conformità sul bene compravenduto. Solo delineando una disciplina che bilanci adeguatamente le esigenze di tutela del consumatore, da un lato, e quelle di competitività delle imprese, dall’altro, è possibile ottenere il risultato prefissato dalla Direttiva 771/201938.
In secondo luogo, tale ambito merita di essere esaminato perché in esso
– come si vedrà meglio di seguito – il legislatore comunitario ha lasciato ampi margini di autonomia al legislatore interno, il quale si è pertanto visto obbligato ad abbandonare (ma solo apparentemente) il suo “minimalismo legislativo”, a favore di un atteggiamento più interventista. È proprio dal tipo di scelte compiute che emerge, però, un appiattimento sulle opzioni “suggerite” dalla legislazione e dalla giurisprudenza comunitarie, nonché un tentativo di assicurare la massima tutela al consumatore, anche a costo di sacrificare un – altrettanto fondamentale – valore, quale la certezza dei traffici giuridici.
Ma andiamo per gradi. Preliminarmente alle nostre riflessioni, è opportuno ricordare come, anteriormente alla riforma, fosse assicurata una garanzia di durata biennale39 al consumatore, il quale – una volta scoperto il difetto – aveva l’onere di denunciare (a pena di decadenza) la sussistenza del vizio entro due mesi dalla sua scoperta, nonché – entro ventisei mesi dalla consegna – agire in giudizio, al fine di non incorrere nel termine prescrizionale, previsto dall’art. 132 cod. cons. ante riforma.
37 Termine utilizzato nella rubrica dell’art. 10 della Direttiva.
38 Cfr. considerando 2 della Direttiva 771/2019, nella quale ci si pone expressis verbis l’obiettivo di «garantire il giusto equilibrio tra il conseguimento di un elevato livello di protezione dei consumatori e la promozione della competitività delle imprese, assicurando al tempo stesso il rispetto del principio di sussidiarietà».
39 Biennio da calcolarsi dalla consegna, quale unico dies a quo utilizzato per la vendita di beni di consumo, a seguito della scomparsa del termine di decadenza (il cui dies a quo era invece posto al momento della scoperta): cfr. considerando 37 della Direttiva 2019/771, nel quale si afferma che «per rafforzare la certezza giuridica per i consumatori e i venditori occorre che sia chiaramente indicato il momento in cui la conformità del bene deve essere valutata. Il momento rilevante per la valutazione della conformità dei beni dovrebbe essere quello della loro consegna» (corsivo aggiunto).
Sulla distinzione tra durata della garanzia e prescrizione, cfr. XXXXXXX, X.: “La violazione della vendita”, cit.,
p. 163 nonchè ID.: “La garanzia nella vendita: durata e fatti costitutivi delle azioni edilizie”, Riv. trim. dir. proc. civ., 2020, pp. 1139 ss.
Con un rapido (ma ben percettibile) colpo di penna, il legislatore cambia solo un aspetto della disciplina appena delineata, espungendo dalla stessa l’onere di denuncia a pena di decadenza, e lasciando invece inalterati gli altri aspetti della disciplina. Pertanto, la garanzia continua a riguardare esclusivamente i difetti manifestatisi entro due anni dalla consegna, e la relativa azione si prescrive tutt’oggi entro ventisei mesi dalla medesima consegna40.
Anche in questo caso, il minimalismo legislativo, sopra denunciato, pare evidente. Il legislatore, anziché procedere ad una rimodulazione più bilanciata della materia – ad esempio, incidendo sulla durata della garanzia41, ovvero sul dies a quo del termine di prescrizione42 –, ha deciso di lasciare inalterati i due termini di durata della garanzia e di prescrizione della relativa azione, mantenendo (immotivatamente) la sfasatura temporale di due mesi43, e confermando che in
40 Come auspicato da DE XXXXXXXXXX, G.: “Verso la riforma”, cit., pp. 242 s., il legislatore non sfrutta la possibilità – prevista dall’art. 10 par. 5 della Direttiva – di introdurre un unico termine prescrizionale, in quanto continua a distinguere tra durata della garanzia e prescrizione dell’azione: la sovrapposizione dei due termini è stata, infatti, foriera di numerosi dubbi all’interno della vendita codicistica.
41 Come avvenuto in Spagna in cui la Ley general per la protezione dei consumatori stabilisce, all’art. 124, una durata triennale della garanzia ed un termine prescrizionale addirittura pari a 5 anni, decorrenti dalla data di scoperta del difetto.
42 Come disposto dall’art. 17, comma 1, del Decreto lei n. 84 del 2021 emanato in Portogallo, dove si prevede un termine prescrizionale biennale decorrente dalla data in cui il consumatore ha comunicato al professionista il difetto di conformità. Ci si potrebbe, al riguardo, chiedere se una simile opzione legislativa sia conforme al principio di armonizzazione massima (cfr. considerando 37, sopra citato, che prescrive che il dies a quo debba essere posto nel momento della consegna): al riguardo, però, l’art. 10 comma 3 della Direttiva consente espressamente agli Stati membri di introdurre termini più ampi di quelli contemplati al primo comma del medesimo articolo. Tale discrezionalità, lasciata ai legislatori, potrebbe essere interpretata sia nel senso della previsione di tempistiche più lunghe (opzione spagnola) sia nel senso di collocare il dies a quo in un momento più recente, rispetto alla consegna, allungando (indirettamente) il termine per richiedere la tutela (opzione portoghese).
43 Prima facie, l’opzione si giustifica sulla base dell’art. 10 par. 4 della Direttiva, nella parte in cui impone che il termine di prescrizione sia fissato in modo da non precludere esercizio di azione per difetti manifestatisi negli ultimi giorni (in tal senso, DE FRANCESCHI, A.: La vendita di beni con elementi digitali, Esi, Napoli, 2019, p. 126 s.). Ciononostante, XXXXXXXX, M.: “Durata della responsabilità del venditore, prescrizione dei diritti del compratore e onere della prova nella nuova disciplina italiana della vendita di beni ai consumatori (d.lgs. n. 170/2021)”, Jus civile, 2022, p. 48, non si spiega il permanere del termine di 26 mesi, in precedenza giustificato dalla sussistenza dell’onere di denuncia (nello stesso senso anche, DE XXXXXXXXXX, G.: “Il recepimento della Direttiva 2019/771/UE nel diritto italiano. Le opzioni fondamentali del legislatore nazionale. I limiti ‘soggettivi’ ed ‘oggettivi’ posti all’ambito di operatività della nuova disciplina”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo, (a cura di G. DE CRISTOFARO), Giappichelli, Torino, 2022, p. 14 nt. 23). Tale sfasatura era stata altresì criticata – nella vigenza della precedente disciplina – da XXXXXXXX, L.: “Note introduttive ad art. 1519-sexies”, in Commentario alla disciplina della vendita di beni di consumo (a cura di X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX-X. MOSCATI-P.M. VECCHI), Cedam, Padova, 2003, p. 527 e XXXXXX, F.: “La vendita di beni di consumo”, in La tutela del consumatore (a cura di X. XXXXXXXXX-A. MUSIO), Tratt. dir. priv. Bessone, XXX, Utet, Torino, 2009, p. 558.
La previsione di una normativa in toto “appiattita” sul momento della consegna pone ulteriori problematiche, per il caso in cui il consumatore venga a conoscenza della possibilità di agire per il difetto di conformità solo dopo un rilevante lasso di tempo. Si pensi alla recente decisione CGUE 14 luglio 2022, n. 145 (C-145/2020), in cui la Corte di Giustizia (nell’ambito del noto scandalo Dieselgate, legato alla messa in circolazione di autoveicoli aventi un software di manipolazione che, nel corso dell’ordinario utilizzo del veicolo, comportava emissioni ambientali di molto maggiori rispetto a quelle dichiarate ed accertate in sede di omologazione) ha stabilito che un veicolo munito di tale software «non presenta la qualità abituale dei beni dello stesso tipo che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi […], pur disponendo di un’omologazione CE in vigore e potendo, di conseguenza, essere utilizzato su strada»: pertanto, sussiste «un difetto di conformità», il quale «non può essere qualificato come “minore” anche laddove, qualora il consumatore fosse stato al corrente dell’esistenza e del funzionamento di detto dispositivo, egli avrebbe nondimeno acquistato tale veicolo». Nel caso di specie, si tratta però di veicoli messi in circolazione (e dunque consegnati) ben più
entrambi i casi il dies a quo sia da individuarsi nel momento di consegna del bene44. L’unica differenza, rispetto alla disciplina ante riforma, è dunque rappresentata dall’eliminazione dell’onere di denuncia, a pena di decadenza.
Tale opzione legislativa ha, indubbiamente, alcuni pregi. In primo luogo, si tratta della scelta “suggerita” dalla Direttiva 2019/77145, ma anche dalla giurisprudenza comunitaria46: è lo stesso legislatore europeo – all’art. 12 della Direttiva – a lasciare però gli stati liberi di «mantenere in vigore o introdurre disposizioni che prevedono che, al fine di godere dei diritti del consumatore, il consumatore deve informare il venditore di un difetto di conformità entro un periodo di almeno 2 mesi dalla data in cui il consumatore ha riscontrato tale difetto di conformità»47. In secondo luogo, questa pare la scelta compiuta dalla maggior parte dei legislatori interni (tra cui anche Francia, Germania ed Austria), i quali già in precedenza avevano rinunciato all’introduzione di un onere di denuncia a pena di decadenza48: l’opzione legislativa italiana è, dunque, in linea con quella adottata dagli ordinamenti più vicini al nostro49.
di ventisei mesi addietro dalla pronuncia della Corte di Giustizia, riconoscente al consumatore il diritto di agire per far valere il difetto di conformità. L’applicazione delle norme che regolano la responsabilità del venditore deve, necessariamente, portarci a concludere nel senso che – trattandosi di vizi emersi ben oltre i due anni dalla consegna e non avendo il consumatore, ignaro che l’installazione del software integrasse un difetto di conformità, esperito la relativa azione (o compiuto altri atti idonei ad interrompere tale prescrizione) – i rimedi (della riparazione, riduzione del prezzo o risoluzione del contratto) debbano essergli preclusi: soluzione, quest’ultima, senz’altro rispondente alle norme sul punto, ma insoddisfacente a livello sistematico, soprattutto ove raffrontata col principio di effettività della tutela, che permea l’intera disciplina delle difformità dei beni di consumo (cfr., sul punto, il caso Xxxxx, di cui alla successiva nt. 46).
44 Opzione criticata da PIRAINO, F.: “La violazione della vendita”, cit., p. 165, il quale propone di individuare il
dies a quo del termine prescrizionale a partire dalla scoperta.
45 Cfr. considerando 46: «Agli Stati membri dovrebbe essere consentito mantenere o introdurre disposizioni che prevedono che, al fine di godere dei diritti del consumatore, il consumatore è tenuto a informare il venditore di un difetto di conformità entro un periodo non inferiore a due mesi dalla data in cui il consumatore ha riscontrato tale difetto di conformità. Gli Stati membri dovrebbero poter garantire al consumatore un livello di tutela più elevato non introducendo tale obbligo».
46 Con la c.d. sentenza Xxxxx (Corte Giust. UE, 4 giugno 2015, causa C-497/13, in Nuova giur. civ. comm., 2016, pp. 5 ss., con nota di PATTI, F.P.: “Tutela effettiva del consumatore nella vendita: il caso «Faber»”; e in Contr., 2015, pp. 1077 ss., con nota di AZZARRI, F.: “Integrazione delle fonti ed effettività delle tutele nella vendita dei beni di consumo”, che ha rimodulato l’onere di denuncia sulla base del principio di effettività. In particolare, si è ritenuto adeguatamente soddisfatto l’onere di denuncia ove il venditore fosse stato informato aliunde della sussistenza del vizio (il bene, nel caso della pronuncia, era stato portato al venditore per la riparazione) e senza che fosse necessario, al fine di beneficiare della presunzione di non conformità di cui all’attuale art. 135 cod. cons., indicare le caratteristiche e le cause del difetto.
47 Nella dottrina tedesca, XXXXXXXXXXXX, D. “Kauf von Waren mit digitalen Elementen – Die Richtlinie zum Warenkauf”, XXX, 0000, p. 2893 e XXXX, I.: “Neue Richtlinien zum Verbrauchsgüterkauf und zu Verbraucherverträgen über digitale Xxxxxxx”, XXX, 0000, p. 1711, ritengono che il legislatore europeo abbia sbagliato a lasciare agli stati la libertà di scegliere, in merito al mantenimento o meno dell’onere di denuncia.
48 Motivo per cui DE XXXXXXXXXX, G.: “Verso la riforma”, cit., p. 239 s. suggerisce prima, e XXXXXXXX, A.: “La nuova disciplina”, cit., p. 501 s. accoglie poi con favore, l’eliminazione dell’onere di denuncia, seppur senza addurre particolari motivazioni.
49 Ciò non equivale, si badi bene, ad affermare che tale scelta sia “obbligata” dal principio di armonizzazione massima. Infatti (come già notato alla precedente nt. 26), nel momento in cui il legislatore comunitario rinuncia – su questo, come su altri aspetti – ad armonizzare la materia (omettendo di disciplinare l’argomento, ovvero lasciando una notevole discrezionalità ai legislatori interni), ciascuno Stato resta libero di esercitare le facoltà lasciategli dalla medesima Direttiva: l’eventuale discrasia tra le discipline interne – e, di conseguenza, il (solo presunto) contrasto con l’intento di armonizzazione massima – è perfettamente fisiologica.
A ben vedere, però, gli svantaggi della nuova disciplina paiono superarne di gran lunga i vantaggi. Innanzitutto, la volontà del legislatore non poteva essere de plano quella di uniformare la disciplina del “nostro” difetto di conformità a quella vigente negli altri Paesi europei: questo intento è, infatti, smentito dalla timidezza del legislatore europeo50, che ha lasciato ampi spazi di autonomia ai legislatori interni. Ciò ha infatti dato luogo a diversi scenari legislativi, proposti all’interno di ciascuno stato membro: durata e dies a quo della prescrizione risultano tutt’oggi disciplinati in termini assai differenti dai singoli ordinamenti. Sicché, non è sufficiente una (sostanziale) uniformità nell’eliminazione dell’onere di denuncia, se poi le discipline risultano completamente diverse relativamente a tutti gli altri termini, che costituiscono di fatto la spina dorsale della disciplina in esame.
Non potendosi, su questi aspetti, parlare di “armonizzazione massima” – in quanto il legislatore unionale ha rinunciato a fornire un’unica soluzione, da seguire in tutti gli ordinamenti – la scelta legislativa potrebbe comunque esser giustificata nell’ottica di una maggiore tutela del consumatore. Il risultato viene sicuramente raggiunto, in quanto il contraente debole viene liberato da uno dei principali ostacoli (forse il principale vincolo), posti a suo carico per usufruire dei rimedi previsti in caso di bene difettoso. Tuttavia, mi sento di poter affermare che – per le ragioni illustrate di seguito – il mezzo (l’abolizione dell’onere di denuncia) ecceda notevolmente il fine (fornire una maggiore tutela al consumatore).
Detto altrimenti, la nuova disciplina potrebbe non superare la prova dei fatti. Nel momento in cui si prevede (accanto alla durata della garanzia) un unico termine perentorio pari a ventisei mesi dalla consegna del bene, il consumatore – pur avvedendosi del difetto nei primi giorni di utilizzo del bene – potrebbe continuare ad utilizzare il medesimo per un notevole lasso di tempo, senza denunciare alcunché ed attendendo l’ultimo momento utile per agire in giudizio51. Il comportamento appena ipotizzato non solo sarebbe contrario alla buona fede, ma renderebbe altresì evidente la mancanza di un vero e proprio difetto di conformità.
Del resto, se il bene è difforme solo ove non idoneo agli scopi a cui il bene è preposto (art. 129 comma 3 lett. a), il fatto che il consumatore lo abbia utilizzato per un lungo periodo di tempo, dopo la sua scoperta, rende evidente l’idoneità del bene ai suoi scopi. Nella fattispecie appena ipotizzata, dunque, il giudice dovrebbe respingere la richiesta del consumatore, non sussistendo il presupposto
50 In tale aspetto, è innegabile che vi sia un “concorso di colpa” del legislatore comunitario, il quale ha lasciato troppo liberi gli Stati di operare scelte in tale ambito, consentendo così il delinearsi di diverse discipline, come effettivamente verificatosi. Così, già ALPA, G.: “Aspetti della nuova disciplina”, cit., p. 829, che ritiene
«deludenti […] le norme relative alla prescrizione e ai rimedi, perché pur registrando una certa uniformità nella maggior parte degli ordinamenti interni, il Parlamento e il Consiglio hanno lasciato libertà agli Stati Membri di elevare il livello di tutela dei consumatori».
51 Infatti, il termine prescrizionale molto lungo – in mancanza di ulteriori riferimenti temporali – potrebbe rendere difficoltoso stabilire il momento in cui sia effettivamente emerso il difetto.
per potersi avvalere dei rimedi previsti all’art. 135bis cod. cons.52. Ciononostante – mancando una qualsivoglia prova in merito al momento di emersione del difetto
– ben difficilmente il venditore potrà dimostrare (o, comunque, il giudice potrà avvedersi) che il consumatore ha continuato ad utilizzare il bene, nonostante il paventato difetto (che non è tale, in quanto il bene è stato – per lungo tempo – idoneo allo scopo a cui lo stesso è preposto).
Proprio l’incertezza, legata al momento in cui si è manifestato il difetto, rappresenta il grave inconveniente del nuovo sistema. Le ricadute, sul piano sostanziale, di tale incertezza si ripercuotono, peraltro, anche sull’inversione dell’onere della prova, prevista dall’art. 135 cod. cons., per tutti i difetti emersi entro l’anno (e non più sei mesi, come previsto ante riforma) dalla consegna. Ora, è vero che tale inversione dell’onere probatorio potrebbe rappresentare un effettivo stimolo per il consumatore ad agire tempestivamente per l’eliminazione del difetto. Ma è vero anche il contrario: come facciamo a sapere il momento in cui è emerso il difetto di conformità, in mancanza di un onere di denuncia? In pratica, il consumatore potrebbe agire dopo venti mesi dalla consegna, per un difetto manifestatosi un mese addietro, sostenendo che lo stesso sia in realtà emerso entro l’anno dalla consegna, e chiedendo dunque di usufruire (indebitamente) dell’inversione dell’onere probatorio prevista dall’art. 135 cod. cons.
Insomma, il tanto criticato onere di denuncia, se da un lato rappresentava senz’altro un (piccolo) aggravio per il consumatore, dall’altro costituiva un comportamento conforme a buona fede e che, soprattutto, riduceva notevolmente le incertezze applicative ed il rischio di abusi, proprio da parte del consumatore (pigro, ma astuto)53. Ciò si pone, peraltro, in dissonanza col considerando 3 della Direttiva 771, che fissa l’obiettivo di accrescere la certezza giuridica, nei rapporti tra consumatore e professionista, come uno dei principali scopi dell’intervento normativo.
52 Sui rimedi, il legislatore del 2021 ha mantenuto il principio di “gerarchizzazione” dei rimedi, in forza del quale il consumatore ha l’onere di pretendere, in primo luogo, la sostituzione o la riparazione, e, solo in un secondo momento, costui ha la possibilità di esercitare il diritto alla riduzione del prezzo o alla risoluzione del contratto. Nota, però, DE XXXXXXXXXX, G.: “Legislazione italiana”, cit., 29, come tale principio risulti indebolito, in quanto il consumatore – con maggiore facilità – può oggi accedere ai rimedi “secondari” della risoluzione del contratto o della riduzione del prezzo. Sul punto, cfr. altresì FADDA, R.: “Il diritto al ripristino della conformità negli artt. 135-bis e 135-ter cod. cons.: tendenze conservatrici e profili innovativi”, in AA.VV.: La nuova disciplina della vendita mobiliare nel codice del consumo (a cura di G. DE CRISTOFARO), Giappichelli, Torino, 2022, pp. 281 ss. e XXXXXXXX, F.: “La nuova disciplina dei c.d. «rimedi secondari»: riduzione del prezzo e risoluzione del contratto”, ibidem, pp. 313 ss.
53 Denuncia i possibili comportamenti opportunistici che possono derivare dall’eliminazione dell’onere di denuncia anche XXXXXXXX, M.: “Durata della responsabilità”, cit., p. 58. In termini simili anche PIRAINO, F.: “La violazione della vendita”, cit., 164. Già in precedenza, lo stesso XXXXXXXX, M.: “La nuova disciplina europea della vendita di beni ai consumatori (Dir. (UE) 2019/771): prospettive di attuazione delle disposizioni sui termini”, Nuove leggi civ. comm., 2020, p. 279 riteneva che l’onere di denuncia favorisse «una più rapida e sicura soluzione di eventuali controversie ed inoltre rappresenta un equo bilanciamento, per il venditore, del vantaggio attribuito al consumatore con l’allungamento dei termini di durata della garanzia rispetto alla disciplina di diritto comune».
Ciò detto, altre sarebbero state le altre strade percorribili, da parte del legislatore. In primo luogo, la tutela del consumatore sarebbe potuta passare non dall’eliminazione dell’onere di denuncia, bensì da un’estensione del periodo di durata della garanzia dovuta dal venditore54, oppure dalla fissazione del dies a quo del termine prescrizionale non dalla consegna, bensì dalla scoperta del difetto55.
Ancora più interessante avrebbe potuto essere una revisione “sistematica” degli istituti della denuncia e dell’inversione dell’onere probatorio, alla luce del loro rispettivo rapporto. Si sarebbe potuto56, infatti, subordinare l’inversione dell’onere della prova (previsto dall’art. 11 Xxxxxxxxx e consistente nel non dover provare, da parte del consumatore, la sussistenza del difetto al momento della consegna) all’avvenuta denuncia del difetto57 entro e non oltre un determinato termine58 dalla consegna del bene.
Attraverso una simile opzione, si sarebbe potuto ovviare a tutti gli inconvenienti, sopra delineati. Innanzitutto, la mancata denuncia da parte del consumatore – magari dovuta all’ignoranza dello stesso in merito alla disciplina in esame – non avrebbe precluso in toto allo stesso di far valere i diritti al medesimo spettanti: la mancata denuncia avrebbe comportato un semplice aggravio nell’onus probandi, cui il consumatore è di regola sottoposto59. Dall’altro lato, ove opportunamente informato di tale possibilità, la potenziale inversione dell’onere probatorio avrebbe potuto rappresentare un notevole incentivo, per il consumatore, a denunciare tempestivamente il difetto. Così facendo, si sarebbe recuperata la (oggi smarrita) certezza sul momento di emersione del vizio, non solo ai fini dell’inversione dell’onere della prova (stante l’inscindibile collegamento tra quest’ultimo e la denuncia), ma anche al fine di evitare comportamenti abusivi da parte del consumatore60.
54 Come avvenuto in Spagna, cfr. supra nt. 41.
55 Cfr. supra nt. 42. Ove si fosse optato per quest’ultima soluzione, il mantenimento dell’onere di denuncia sarebbe però stato di vitale importanza, al fine di dare certezza all’emersione del difetto.
56 Preme sottolineare che si tratta di un’opzione de iure condendo, la cui iniziativa dovrebbe – probabilmente
– provenire dal legislatore comunitario, in quanto una simile scelta, posta in essere autonomamente dal legislatore italiano, rischierebbe di contrastare col principio di armonizzazione massima. Tale necessità si giustifica non tanto sulla base dell’art. 12 della Direttiva 771 (che consente di introdurre disposizioni che prevedano l’onere di denuncia, al fine di godere dei diritti del consumatore, utilizzando così un’espressione molto ampia, ed al cui interno si potrebbe ricomprendere non solo i rimedi, ma anche l’inversione dell’onere probatorio, previsto dall’art. 11 della medesima direttiva), quanto proprio sull’art. 11 della stessa, il quale vincola il vantaggio (probatorio) per il consumatore alla sola emersione del difetto entro un anno, senza possibilità di legare tra loro le previsioni di cui agli artt. 11-12 della Direttiva.
57 Denuncia da effettuare rigorosamente in via stragiudiziale e senza particolari formalità, in continuità con quanto affermato anche dalla sopra citata sentenza Xxxxx: su questo aspetto si tornerà di seguito, §4.
58 La lunghezza di tale termine avrebbe dovuto essere oggetto di attenta riflessione, al fine di bilanciare le esigenze di certezza di diritto, da un lato, e la possibile inerzia del consumatore, dovuta all’ignoranza dei diritti spettantegli (c.d. asimmetria informativa), dall’altro lato.
59 Sul punto, torneremo a breve: §4.
60 Ove, infatti, il consumatore non avesse denunciato tempestivamente il difetto (ad es., denunciando dopo venticinque mesi un difetto manifestatosi nel primo mese dalla consegna), il venditore avrebbe avuto gioco facile a dimostrare o l’insussistenza del difetto al momento della consegna ovvero, in subordine, il fatto che
Così non è stato e, anzi, l’attuale disciplina del difetto di conformità presenta (per certi versi) criticità ancora maggiori di quelle già sussistenti ante riforma, soprattutto in relazione alle esigenze di certezza del diritto. D’altro canto, anche l’armonizzazione massima non pare obiettivo centrato nel caso di specie, visto che la sussistenza di diversi termini (di durata della garanzia o di prescrizione, ovvero di diversi dies a quo) delinea una disciplina molto diversa da Stato a Stato.
IV. L’INSENSIBILITÀ ALLE RIFLESSIONI SULLA VENDITA DI DIRITTO COMUNE.
Xxxxxxxx affermare – non senza le dovute approssimazioni – che il 2019 è stato “l’anno dei vizi della compravendita”, riferendoci ovviamente alla vendita di diritto comune (disciplinata nel codice civile). Tale affermazione si giustifica in quanto raramente si è potuto assistere a due pronunce a Sezioni Unite della Cassazione61, legate al medesimo tema e intervenute nello stesso anno, nel giro di appena due mesi. Il (prevedibile) risultato dei due arresti giurisprudenziali è stato il rinnovamento di un dibattito dottrinale, su temi che tradizionalmente hanno dato luogo ad un acceso confronto62, che è dunque proseguito nei mesi (e negli anni) a seguire.
Tali riflessioni sono legate – è bene ribadirlo – alla vendita del codice civile, e non sono suscettibili di essere applicate de plano alla vendita b-to-c, qui invece esaminata. Tale osservazione è particolarmente evidente nel nostro ordinamento, in cui il recepimento delle Direttive sulla tutela consumeristica – avvenuto all’interno di un apposito codice – ha dato luogo alla creazione di due distinte discipline: quella della vendita “di diritto comune” e quella della vendita dei beni di consumo63. Pur senza approfondire la tematica del rapporto tra diritto primo e
il consumatore abbia continuato ad utilizzare il bene per lungo tempo, attivandosi solo negli ultimi giorni, e continuando ad utilizzare il bene, pertanto idoneo al proprio scopo (e, dunque, scevro dal difetto).
61 Il riferimento è a Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748, in Contr., 2019, p. 373 ss., con nota di DALLA XXXXXXX, T.: “L’onere della prova dei vizi del bene venduto al vaglio delle Sezioni Unite: resistenza e resilienza del modello della garanzia”; in Nuova giur. civ. comm., 2019, pp. 1055 ss. con nota di XXXXXXXXX, L.: “Le Sezioni Unite confermano l’onere probatorio in materia di garanzia per vizi e la distinzione tra garanzia e obbligazione”; in Giur. it., 2019, pp. 1527 e ss., con nota di XXXXX, R.: “Luci e ombre nella cornice del congedo dalla garanzia edilizia” e a Xxxx., sez. un., 11 luglio 2019, n. 18672, in Corr. giur., 2019, 8-9, 1025, con nota di XXXXX, R.: “Difformità, inadempimento del venditore e denuncia del vizio occulto”; in Foro it., 2019, I, pp. 3116 s., con nota di PARDOLESI, R.-XXXXXXXX, X.: “Sull’interruzione della prescrizione della garanzia per vizi nella compravendita”; in Contr., 2019, pp. 501 ss., con nota di X’XXXXXXX, M.: “Le sezioni unite sull’interruzione della prescrizione in ipotesi di vizi della consa venduta: è sufficiente l’intimazione stragiudiziale”, con chiosa di DALLA XXXXXXX, T.: “Postilla. Per il ripristino di alcune linee di coerenza sistematica dopo la coppia di pronunce a sezioni unite in tema di vendita”.
62 Come si è tentato di dimostrare in COPPINI, P.: “La garanzia per vizi nella vendita: attualità di un dibattito dottrinale mai sopito”, Jus civile, 2019, pp. 691 ss.
63 Cfr. la “soluzione” tedesca (definita, appunto, Große Lösung), già adottata in sede di recepimento della Direttiva 1999/44, e che aveva portato a riformare l’intera disciplina della vendita, prevista nel BGB, adeguandola ai principi di matrice comunitaria, sulla base del convincimento che il diritto del consumatore è sempre più parte del diritto privato generale. Tale soluzione è stata confermata anche per la Direttiva
diritti secondi64, tanto la tecnica legislativa adottata, quanto le diverse logiche che ispirano i due sistemi, hanno dato luogo alla creazione di due distinte discipline65.
Quest’ultima osservazione risulta particolarmente attuale, a seguito dell’abbandono del principio della massima tutela, a vantaggio di quello di armonizzazione massima, di cui l’attuale art. 135septies cod. cons. fornisce una plastica esemplificazione. Le norme del codice civile non trovano applicazione al contratto del consumatore, se non per i casi (ormai piuttosto sparuti) non contemplati dalla normativa speciale: piuttosto, a trovare applicazione sono le generali norme in tema di formazione, validità ed efficacia dei contratti in generale (non solo di compravendita).
Ci troviamo, pertanto, di fronte a due sistemi tendenzialmente non comunicanti: eppure, gli stessi affrontano – seppur con logiche diverse66 – le medesime problematiche, visto che sempre di contratti di compravendita si tratta. Ciononostante, in sede di recepimento della Dir. 2019/771, il legislatore del 2021 ha deciso di mantenere la netta separazione, sussistente tra vendita di diritto comune e vendita di beni di consumo. Inutile nascondere, anche in questo caso, la possibilità di ricondurre tale scelta non tanto ad una volontà di valorizzare le peculiarità di ciascun sistema, quanto al minimalismo legislativo, già sopra descritto.
La scelta di non attingere al dibattito – prima giurisprudenziale e poi dottrinale
– in tema di vendita di diritto comune, al fine di risolvere criticità che potrebbero palesarsi anche in sede di diritto del consumatore, non pare dunque pienamente consapevole, né volta a tracciare una netta linea di demarcazione tra diritto primo (vendita codicistica) e diritto secondo (vendita di beni consumo). Piuttosto, tale soluzione è riconducibile alla scelta di legiferare solo ove la Direttiva ha espressamente statuito: ciò emerge chiaramente ove si vadano ad esaminare da vicino le questioni recentemente affrontate in tema di vendita di diritto comune, in quanto esse sono state affrontate anche nell’ambito della vendita consumeristica (e avrebbero perciò meritato di essere affrontate anche all’interno del D.lgs. 170/2021).
2019/771: si x. XXXXXXXX, X.X.: “Kauf”, X. von Staudingers Kommentar zum BGB. Eckpfeiler des Zivilrechts, Xxxxxxx, Berlin, 2018, pp. 840, pp. 931 ss.
64 Sul rapporto tra vendita di diritto comune (quale diritto primo) e la vendita del consumatore (quale diritto secondo) cfr. già XXXXXXXXXX, C.: “Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema”, Eur. dir. priv., 2006, pp. 397 ss. nonché CAMARDI, C.: “Contratti di consumo e contratti tra imprese. Riflessioni sull’asimmetria contrattuale nei rapporti di scambio e nei rapporti «reticolari»”, Riv. crit. dir. priv., 2005, pp. 581 ss., nonché ZOPPINI, A.: “Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai «codici di settore» (lo ius variandi nei codici del consumo e delle comunicazioni elettroniche)”, Riv. dir. civ., 2016, I, pp. 136 ss.
65 Cfr. XXXXXX, X.X.: “Xx xxxxxxx xxx xxxx xx xxxxxxx (xxxx. 000-000 xxx x.xxx. 0 settembre 2005, n. 206)”, Nuove leggi civ. comm., 2006, pp. 317 ss., il quale parla di un trasloco delle norme dal codice civile al codice del consumo.
66 Con un’ottica strettamente privatistica, la vendita comune, e con un occhio anche alle esigenze pubblicistiche, la vendita consumeristica: denunciava il “moltiplicarsi” delle vendite, all’interno del nostro ordinamento, già CABELLA PISU, L.: “Vendita, vendite: quale riforma delle garanzie?”, Contr. impr./Eur., 2001, pp. 34 ss.
La prima questione è legata alla ripartizione dell’onere della prova dei vizi nella compravendita: tale peso è stato addossato, da parte della sentenza di maggio 2019 sopra citata, a carico del compratore. Senza ripercorrere nello specifico il ragionamento complessivo compiuto dalle Sezioni Unite67, esso si sviluppa complessivamente lungo due direttrici: innanzitutto, la Suprema Corte
– al fine di discostarsi dal “pesante” leading case delle Sezioni Unite del 200168
– ha negato che la garanzia per vizi fosse riconducibile ad un’obbligazione stricto sensu, trattandosi piuttosto di una conseguenza derivante da una discrepanza tra il momento negoziale (quanto “voluto” dalle parti) ed il momento esecutivo (quanto effettivamente “trasferito”)69. In seconda battuta, il ragionamento della Cassazione ha fatto riferimento ai principi della vicinanza della prova e del negativa non sunt probanda – che sono, peraltro, alla base proprio della sopra citata pronuncia del 2001, dalla quale la Corte si è apparentemente discostata – al fine di addossare l’onere di provare la sussistenza dei vizi in capo al compratore: quest’ultimo è, infatti, il soggetto nella cui sfera giuridica si trova attualmente il bene (vicinanza della prova) e che dovrà provare la sussistenza dei vizi (e non – come invece sarebbe toccato al venditore – la loro assenza: negativa non sunt probanda).
Il condivisibile principio enunciato dalle Sezioni Unite è estendibile anche alla vendita dei beni di consumo e ciò sulla base dei medesimi argomenti utilizzati nel precedente del 2019. Il fatto che la normativa parli di “obbligo di conformità” non pare, infatti, decisivo al fine di qualificare la stessa in termini di un’obbligazione in senso stretto70. Ciò pare ancor più evidente alla luce della novella del 2021: se il nuovo art. 130 comma 4 cod. cons. esclude il difetto di conformità ove il
67 Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748, cit.
68 Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Contr., 2002, pp. 113 ss., con nota di XXXXXXXXX, U.: “Inadempimento e onere della prova”, e in Contr. impr., 2002, pp. 903 ss., con nota di VISINTINI, G.: “La Suprema Corte interviene a dirimere il contrasto tra massime in materia di onere della prova a carico del creditore vittima dell’inadempimento”, la quale ha affermato la nota (ma altrettanto discussa) regola secondo cui «il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460». Per una rilettura di tale principio, sia con riferimento alla vendita, sia con riferimento al riparto probatorio in generale, x. XXXXXXXXX, R.: “L’onere della prova nella garanzia per vizi della vendita: il problema irrisolto del riparto probatorio del momento genetico del vizio”, Riv. dir. civ., 2020, I, pp. 467 ss.
69 La riflessione ricorda l’insegnamento di XXXXXXXX, A.: “La compravendita”, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. CICU-X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX, continuato da X. XXXXXXXXXXX, Xxxxxxx, Milano, 2014, pp. 383 ss., il quale fa propria – con le dovute differenze – l’opinione già sostenuta da XXXXXX, D.: “La compravendita”, Xxxxx. dir. civ. comm., diretto da A. CICU e X. XXXXXXXX, Xxxxxxx, Milano, 3a ed., 1971, pp. 629 ss.
70 Ma, di diverso avviso, proprio LUMINOSO, A.: “La compravendita”, cit., 382 secondo cui vi sarebbe stato un ampliamento dell’obbligazione della consegna della cosa, tale da ricomprendere al proprio interno anche l’obbligo di conformità. Così non pare, in quanto la – sopra denunciata – distanza (sistematica e codicistica) pare sottolineare l’autonomia tra obbligo di consegna e obbligo di conformità. In secondo luogo, si può notare come il momento della consegna debba piuttosto essere preso a riferimento, al fine di chiarire il momento a cui deve essere riferita la sussistenza della conformità (in tal senso, anche XXXXXX, G.: “Difetto di conformità e tutele sinallagmatiche”, Riv. dir. civ., 2001, I, p. 881).
consumatore sia stato informato ed abbia accettato il difetto di conformità71, ciò rende chiaro come – anche nella vendita consumeristica – i rimedi conseguano dalla (sopra descritta) discrasia tra voluto e trasferito, mancando gli estremi per poter parlare di un’obbligazione in senso stretto.
A fugare ogni dubbio – oltre al riferimento ai principi di vicinanza della prova e del negativa non sunt probanda, che non perdono di pregnanza nella vendita consumeristica – si potrebbe invocare l’art. 135 cod. cons. – già sopra citato – in base al quale l’esistenza del difetto si presume sussistente, al momento della consegna, ove il difetto sia emerso entro un anno dalla consegna medesima. Ora, è chiaro che l’articolo in questione introduce una deroga in melius per il consumatore, esonerandolo dalla prova a cui – decorso inutilmente l’anno senza l’emersione del difetto – lo stesso sarebbe tenuto. A fortiori, se costui è di regola tenuto a dimostrare la difformità del bene al momento della consegna, lo stesso dovrebbe altresì essere tenuto a dimostrarne anche la sussistenza attuale72. In via interpretativa, pare dunque possibile addossare l’onere della prova sulla sussistenza del vizio/difformità in capo al compratore, non solo in sede di vendita di diritto comune, ma altresì nella vendita di beni di consumo73.
Tuttavia, l’opinione appena sostenuta è tutt’altro che incontrastata in dottrina74, soprattutto in quella anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2019. Il “pericoloso” precedente del 2001, unito al sottile discrimen tra i concetti di obbligazione e garanzia75, rende il dibattito potenzialmente aperto a ribaltamenti. In tal senso milita altresì l’equivocità del testo normativo: del resto, l’art. 135 cod. cons. esonera il consumatore dal dimostrare la sussistenza dei difetto al momento
71 Cfr. con la precedente versione dell’articolo, in cui si faceva riferimento alla semplice conoscenza del difetto: oggi la tutela del consumatore s’intensifica, ponendo l’accento sul momento negoziale-programmatico, quale riferimento per verificare la sussistenza del difetto.
72 Così, anche PROTO, M.: “Garanzia per vizi della cosa venduta e onere probatorio”, in Nuovi orientamenti della cassazione civile (a cura di X. XXXXXXXX), Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pp. 453 ss.
73 In tal senso, anche PIRAINO, F.: “La violazione della vendita”, cit., p. 151.
74 Nel senso di onerare il venditore a provare la difformità, nelle vendite di beni di consumo, si sono espressi: XXXXXXXX, A.-DE XXXXXXXXXX, X.: “La vendita dei beni di consumo. Commento agli artt. 1519 bis - 1519 nonies del codice civile”, Cedam, Padova, 2002, p. 259; DONA, M.: “Vendita di beni di consumo usati e applicabilità dell’art. 1519-sexies codice civile”, Contr., 2005, p. 1131; PATTI, F.P.: “Tutela effettiva del consumatore”, cit., p. 15 e AZZARRI, F.: “Integrazione delle fonti”, cit., p. 1094.
75 Sul rapporto tra il concetto di garanzia (evocato nella vendita codicistica, per la compravendita di diritto comune) e la vendita di beni di consumo (dove, invece, il legislatore parla espressamente – ma, probabilmente, anche atecnicamente – di obbligazione), cfr. XXXXXXXXX, A.: “Diritto europeo della vendita di beni dei consumo e categorie dogmatiche”, Eur. dir. priv., 2003, pp. 525 ss. e XXXXXXXXX, S.; “Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita dei beni di consumo”, Eur. dir. priv., 2004, pp. 1029 ss.
Cfr. sul punto, la soluzione adottata dall’Austria, nel Verbrauchergewähreleistunggesetz del 9 settembre 2021, la quale, al §4, non esita a definire anche l’obbligo di conformità come una “garanzia” (Gewähr), prescrivendo che «Der Unternehmer leistet Gewähr, dass die von ihm übergebene Ware oder die von ihm bereitgestellte digitale Leistung dem Vertrag entspricht, also keinen Mangel aufweist» (Il professionista rilascia garanzia, che i beni da lui consegnati o i servizi digitali da lui forniti sono conformi al contratto, e dunque non presentano difetti): una simile soluzione avrebbe avuto il pregio – ove adottata nel nostro ordinamento – di uniformare, perlomeno sotto il piano dogmatico, garanzia per vizi (nella vendita di diritto comune) e obbligo di conformità (nella vendita consumeristica).
della consegna, senza prendere espressamente posizione sul soggetto su cui grava l’onere di dimostrare la difformità in generale.
Pertanto, un legislatore attento, non solo agli stimoli provenienti dall’Unione Europea, ma anche alla dottrina e alla giurisprudenza interne, avrebbe dovuto dissipare ogni possibile dubbio sul punto, chiarendo espressamente – e mettendo così una pietra tombale sulla questione – che l’onere della prova debba essere addossato al consumatore (o, con una decisione sorprendente, in capo al professionista), salvo quanto disposto dall’art. 135 cod. cons. Così non è stato, e il minimalismo legislativo ha fatto, nuovamente, il corso.
Sorte non dissimile è, infine, toccata alla questione sull’idoneità degli atti stragiudiziali ad interrompere il termine prescrizionale: in senso affermativo, si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione, nella seconda pronuncia sopra citata76, il cui decisum è, però, limitato al solo caso di vendita di diritto comune77. Anche in questo caso, il legislatore del 2021 non ha preso in alcun modo posizione, lasciando irrisolta una problematica che era nata proprio in seno alla vendita dei beni di consumo.
Non è un caso che – pochi anni prima delle Sezioni Unite sul punto – una pronuncia di merito78 avesse deciso proprio sull’idoneità degli atti stragiudiziali ad interrompere il termine prescrizionale, risolvendo peraltro la questione in modo opposto rispetto a quanto fatto, poco dopo, dalla Suprema Corte.
Lasciandoci alle spalle le incoerenze della sentenza del luglio 201979, la conclusione a cui la stessa perviene (vale a dire, ritenere idoneo un atto stragiudiziale ad interrompere la prescrizione della garanzia per vizi) paiono calarsi perfettamente nella vicenda del difetto di conformità, come disciplinato dal codice del consumo. A differenza che nella disciplina codicistica, il codice del consumo predilige tutt’oggi
76 Cass., sez. un., 11 luglio 2019, n. 18672, cit.
77 E ciò ha sorpreso parte degli interpreti, tra cui DE XXXXXXXXXX, G.: “Contratto di compravendita e ammissibilità dell’interruzione con atto stragiudiziale del termine prescrizione del diritto dell’acquirente
«alla garanzia per vizi»: questioni aperte e dubbi irrisolti dopo la sentenza n. 18762 del 2019 delle Sez. un. della Corte di Cassazione”, in Nuovi orientamenti della cassazione civile (a cura di X. XXXXXXXX), Xxxxxxx, Milano, 2020, p. 488.
78 Il riferimento è a App. Roma 9 ottobre 2017, n. 6338, in Contr., 2018, pp. 581 ss., con nota di X’XXXXXXX, M.: “«Gerarchia» dei rimedi e prescrizione nella vendita di beni di consumo”, secondo cui «la richiesta stragiudiziale di sostituzione o riparazione del bene difettoso non interrompe i termini per l’azione di risoluzione del contratto concessa dall’art. 130, comma 7, c. cons. essendo necessaria a tal fine la domanda giudiziale». Nello stesso senso, seppur in tema di vendita di diritto comune, anche Cass. 4 settembre 2017, n. 20705; Cass. 27 aprile 2016, n. 8417; Cass. 27 settembre 2007, n. 20332.
79 La quale, al fine di affermare l’idoneità di un atto stragiudiziale ad interrompere la prescrizione, fa leva sulla natura “obbligatoria” della garanzia per vizi, nonostante le stesse Sezioni Unite, appena due mesi addietro, fossero pervenute all’opposta soluzione in merito alla natura di tale garanzia. Tale contraddizione è stata sottolineata da DALLA XXXXXXX, T.: “Postilla”, cit., p. 515 e da LUMINOSO, A.: “Due pronunce contrastanti delle Sezioni Unite sulla natura della garanzia per vizi nella vendita (e sui riflessi in materia di onere della prova e prescrizione)”, Resp. civ. prev., 2019, pp. 1861 ss., oltreché da COPPINI, P.: “La garanzia per vizi”, cit., pp. 691 ss.
i rimedi della riparazione e sostituzione: per esperire tali rimedi – nonostante la via giudiziale non sia astrattamente preclusa – pare ragionevole ritenere che il consumatore provveda, almeno in prima battuta, a contattare il professionista in via stragiudiziale, chiedendo a quest’ultimo la riparazione o la sostituzione del bene difettoso. Di ciò si avvedono non solo la dottrina italiana che ha affrontato la questione80, ma anche i numerosi legislatori stranieri che – in sede di recepimento della Direttiva 771 – si sono premurati di disciplinare quest’ultimo aspetto81.
La questione, perlomeno all’interno del diritto italiano, resta aperta a possibili (seppur improbabili82) ribaltamenti e ciò, nuovamente, dev’essere ricondotto all’incuranza del nostro legislatore, che ha preferito non prendere un’espressa posizione sul punto, ignorando i chiari segnali provenienti dalla nostra giurisprudenza.
A chiusura di questi brevi spunti di riflessione, con cui si è tentato di costruire una sorta di trait d’union tra vendita di diritto comune e vendita consumeristica, pare possibile affermare che distinguere tali contratti, valorizzandone le rispettive peculiarità, non equivale a ragionare in termini di istituti completamente alieni tra loro (circoscrivendo i problemi, posti in una sede, soltanto a tale specifico settore). Piuttosto, l’autonomia delle due “vendite” deve passare necessariamente dall’esame dei medesimi problemi – sollevati nell’uno o nell’altro ambito –, ai quali si dovranno trovare (uguali o diverse, a seconda dei casi) soluzioni, sulla base dei principi vigenti e degli interessi rilevanti in ciascuna “vendita”.
V. L’ARMONIZZAZIONE MASSIMA “A SUON DI” MINIMALISMO LEGISLATIVO?
Xxxxx Xxxxxxx, in un celebre saggio di venticinque fa83, rilevava come la tesi dualistica (che, cioè, qualifica diritto comunitario e diritto interno come sistemi autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo le prescrizioni del trattato) fosse la concezione che meglio inquadra, concettualmente, i rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, in quanto la stessa «rafforza l’effettività del diritto
80 D’XXXXXXX, M.: “«Gerarchia» dei rimedi”, cit., pp. 586 s., ma anche XXXXXXXXXXX, S.: “Contratti di vendita di beni”, cit., 235 s.: quest’ultimo, proprio alla luce di tale osservazione, pare subordinare l’idoneità dell’atto stragiudiziale a interrompere la prescrizione al fatto che il consumatore abbia agito per i cc.dd. “rimedi primari” (riparazione o sostituzione, appunto), e non anche per le azioni edilizie (riduzione del prezzo o risoluzione).
81 Cfr. l’art. 122 della Ley general per la protezione dei consumatori in Spagna e l’art. 12, comma 4, del Decreto lei portoghese n. 84 del 2021, i quali stabiliscono la sospensione del termine di durata della garanzia (triennale in Spegna e biennale in Portogallo) dal momento di comunicazione del difetto al professionista.
82 Il decisum della Cass., sez. un., 11 luglio 2019, n. 18672, cit., pare – anche in questo caso – spazzare via ogni dubbio, in quanto sarebbe del tutto irragionevole sottoporre il consumatore ad un trattamento deteriore, rispetto a quello riservato al compratore di diritto comune.
83 MENGONI, L.: “Note sul rapporto tra fonti di diritto comunitario e fonti di diritto interno degli Stati membri
?”, Eur. dir. priv., 1997, pp. 523 ss.
comunitario nel campo delle direttive sul presupposto dell’esclusione della loro applicabilità immediata nei rapporti privati». Accogliendo una simile visione, il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno è ricostruibile sulla base di un’efficiente «coordinazione tra i due sistemi normativi»: in altre parole, tanto il legislatore comunitario quanto quello interno devono fare ciascuno la propria parte, al fine di pervenire a soluzioni armonizzate e, allo stesso tempo, rispondenti alle esigenze dei privati (anche alla luce del proliferare delle nuove tecnologie).
A distanza di oltre venticinque anni, le parole appena riportate xxxxxx xxxx’oggi attuali e aiutano a riflettere sull’intervento legislativo, appena esaminato. Naufragato il progetto di codificazione europea84, il legislatore comunitario ha voluto riformare consistentemente la disciplina della vendita di beni di consumo, “mandando in pensione” la vecchia Direttiva 1999/44, con una scelta che – almeno nelle intenzioni – avrebbe dovuto segnare un punto di rottura col sistema precedente85.
Lo strumento legislativo utilizzato è, nuovamente, una Direttiva, e ciò implica – come dicevamo sopra – una cooperazione tra Unione Europea, nella sua emanazione, e Stati membri, nell’opera di recepimento. Eppure, proprio nella disciplina dell’obbligo di conformità – dove sarebbero dovute emergere le differenze tangibili rispetto alla precedente disciplina86 – non sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati dall’Unione Europea, consistenti non solo nell’innovare la disciplina, ma altresì nell’uniformare la stessa tra tutti i Paesi comunitari.
Un simile insuccesso pare riconducibile ad una sorta di “concorso di colpe” tra i due legislatori, i quali – anziché cooperare – hanno compiuto alcune scelte errate nella predisposizione della nuova disciplina.
In primo luogo, è quantomeno singolare notare come, nell’epoca dell’armonizzazione massima, il legislatore comunitario abbia deciso di demandare ai singoli Stati membri alcune scelte decisive, al fine di definire la disciplina dei difetti di conformità. Si pensi, ad esempio, al proliferare delle scelte in tema di durata della garanzia o di prescrizione della stessa, nonché la più volte citata querelle in tema di eliminazione o mantenimento dell’onere di denuncia a pena di decadenza.
All’indecisione del legislatore comunitario ha fatto da eco, in un secondo momento, la timidezza del (nostro) legislatore interno, il quale ha adottato
84 Avverandosi la previsione compiuta dallo stesso Autore in MENGONI, L.: “L’Europa dei codici o un codice per l’Europa?”, Riv. crit. dir. priv., 1992, pp. 515 ss.
85 E ciò emerge anche dalla tecnica legislativa utilizzata, in quanto il legislatore comunitario sceglie di sostituire in toto la vecchia Direttiva, anziché intervenire e aggiornare la stessa.
86 In quanto, le tematiche legate ai beni con elementi digitali o alla fornitura di servizi digitali risultavano prima inesplorate dal legislatore comunitario, e dunque – su questi argomenti – la novità rispetto alla precedente esperienza è in re ipsa.
un approccio che abbiamo più volte definito come minimalista: quest’ultimo si sostanzia, in poche parole, in un’evidente tendenza a non intervenire, a non prendere posizione, oltre il solco segnato dalla Direttiva recepita. Quello che, dunque, può sembrare un “ossimoro giuridico” (armonizzazione massima – minimalismo legislativo), si trasforma piuttosto in un circolo vizioso e, di conseguenza, in una (maldestra) operazione legislativa, che non raggiunge i risultati prefissati: né, infatti, si è addivenuti all’armonizzazione massima, visto il proliferare di diverse discipline in ambito di difetto di conformità; né, d’altro canto, le incertezze, sorte sotto la vigenza della Direttiva 1999/44, sono venute meno, essendo ben pochi gli interrogativi che hanno trovato risposta.
Accantonando per un attimo il “superiore” interesse dell’armonizzazione massima, le mancanze del legislatore comunitario avrebbero potuto essere colmate da quello interno, il quale disponeva degli spazi e dell’autonomia necessaria per mettere a punto una più soddisfacente disciplina. Il caso dell’aliud pro alio è, in tal senso, emblematico: anche a seguito della Direttiva 2019/771 e del D.lgs. 170/2021, la ricomprensione di tale figura, all’interno della disciplina dell’obbligo di conformità (o, in alternativa, nella disciplina della consegna), resta dubbia, in quanto nessuno dei due legislatori si è premurato di prendere posizione sul punto. Eppure, si tratta di una questione che dovrebbe senz’altro rientrare all’interno della materia “armonizzata” a livello comunitario.
Da qui, l’interrogativo che sorge spontaneo è se un eventuale giudice italiano, che si trovi di fronte ad una vendita di aliud pro alio di beni di consumo, debba o meno rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al fine di dare una risposta che possa uniformare la disciplina tra tutti i Paesi comunitari87: tale conclusione dovrebbe giustificarsi sulla base di una lettura che tenti di valorizzare le esigenze di armonizzazione massima.
Come si diceva sopra, una simile lettura sembra, però, estendere eccessivamente il principio di armonizzazione massima, il quale verrebbe applicato ad una materia che il legislatore europeo ha evidentemente rinunciato ad armonizzare: infatti, quest’ultimo – pur avendone avuto l’occasione – ha più volte omesso di disciplinare tale aspetto. Non è un caso che gli altri Stati europei – con una maggiore cura di quella dimostrata dal nostro legislatore nazionale – non abbiano esitato a risolvere internamente le questioni sopra esaminate88. Relativamente a questi aspetti,
87 Come pare suggerito da AFFERNI, G.: “La nozione di «difetto di conformità»”, cit., p. 105.
88 L’aliud pro alio è solo un primo (seppur significativo) caso in cui ciò può verificarsi. Gli stessi interrogativi si pongono, infatti, per le altre questioni (sopra esaminate al §4, quali la ripartizione dell’onere probatorio o l’interruzione della prescrizione con atto stragiudiziale), che nascono in tema di vendita comune, ma che sono facilmente mutuabili ai contratti del consumatore. Anche in tal caso, si tratta di problematiche potenzialmente armonizzabili, seppur, nei fatti, non armonizzate: per tale ragione, esse risultano disciplinate in maniera frammentaria all’interno dell’Unione Europea.
dunque, il principio di armonizzazione massima (inapplicabile al caso di specie) non può servire a giustificare il minimalismo del nostro legislatore nazionale.
Né, dall’altro lato, la scelta omissiva – compiuta nel nostro ordinamento – pare giustificabile sulla base della (errata) convinzione per cui l’armonizzazione massima passi necessariamente da un atteggiamento volutamente remissivo del legislatore interno: quest’ultimo ragionamento si dimostra fallace, ove raffrontato con lo strumento utilizzato dall’Unione Europea89, con i margini di autonomia lasciati dalla Direttiva, nonché con il maggior attivismo palesato dagli altri Paesi comunitari.
Dal quadro appena esaminato ben emergono i motivi per cui la dottrina ha più volte deciso di rinominare l’armonizzazione massima, talvolta additandola come «parziale e temperata»90, altre volte come «specifica»91, altre ancora, addirittura, come «minima»92. Proprio riflettendo su quest’aspetto, ciò che pare sbagliato nel sintagma “armonizzazione massima” non è tanto il sostantivo (armonizzazione), quanto l’aggettivo (massima), che pare evocare – più che il concetto di armonizzazione – quello di uniformazione del diritto comunitario93. Tale scopo non è però raggiungibile, come c’insegnano, attraverso l’emanazione di una Direttiva, la quale – a norma dell’art. 288 TFUE – «vincola lo Stato membro [...] per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi».
Una volta preso atto del fallimento del progetto di codificazione europea94, si sarebbe potuto tentare di definire l’armonizzazione attuata non come “massima” (aggettivo che, in effetti, mal le si addice), bensì con uno degli aggettivi già suggeriti dalla dottrina, che sicuramente attenuano il pesante significato che il binomio armonizzazione-massima rischia altrimenti di assumere. Un maggior realismo,
89 Xxx si fosse voluto azzerare la discrezionalità spettante agli Stati membri, come già sottolineato (nt. 23) la Direttiva sarebbe stato lo strumento legislativo sbagliato: piuttosto, si sarebbe dovuto fare ricorso ad un regolamento, self executing, e che priva i legislatori interni di un ruolo nella fase di recepimento della Direttiva.
90 XXXXXXXXXXX, X.: “Contratti di vendita di beni”, cit., p. 237.
91 Traduzione dell’espressione «targeted harmonizazion», utilizzata da TONNER, K.: “Die EU-Warenkauf- Richtlinie: auf dem Wege zur Relegung langleiber Waren mit digitalen Elementen”, VuR, 2019, p. 367.
92 ADDIS, F.: “Spunti esegetici”, cit., p. 7, il quale parla di «una armonizzazione massima selettiva, limitata a quegli aspetti che sono stati ritenuti di primaria importanza per il corretto funzionamento del mercato interno, vale a dire difetto di conformità e relativi rimedi, ma pronta, per il resto, a cedere nuovamente il passo ad un’armonizzazione, nella sostanza, minima».
93 CASTRONOVO, C.: “Armonizzazione senza codificazione. La penetrazione asfitica del diritto europeo”,
Eur. dir. priv., 2013, p. 905, nelle cui parole emerge la dicotomia tra armonizzazione e uniformazione:
«se assumessimo in senso assoluto l’armonizzazione come obiettivo della legislazione europea, questo significherebbe che l’Europa ha rinunciato o messo a mezz’asta quello che, andando oltre l’armonizzazione, costituisce il compito di un vero diritto europeo: un diritto comune».
94 Per una ricostruzione delle vicende che hanno portato al fallimento del progetto, volto alla creazione di un unico codice civile europeo, si v. SIRENA, P.: “Il discorso di Xxxxxxxx e il futuro del diritto privato europeo”, Riv. dir. civ., 2016, I, pp. 652 ss., spec. pp. 658-664. Sul punto, si v. anche PERLINGIERI, P.: “Quella di Xxxx Xxxxxxx sul «codice civile europeo» non è la via da seguire”, Rass. dir. civ., 2014, pp. 1205 ss., il quale propone una Costituzione, anziché un codice, quale strumento per realizzare una maggiore integrazione tra gli ordinamenti degli Stati membri.
in questo senso, avrebbe potuto responsabilizzare anche i legislatori nazionali (quello italiano in primis), non consentendo a questi di barricarsi dietro lo scudo dell’armonizzazione massima, al fine di porre in essere un intervento così svogliato e xxxxxxxx.
Quel che è certo è che le discipline nazionali risultano oggi solo in minima parte più vicine, permanendo differenze e lacune sostanziali, che lasciano alla giurisprudenza (interna e comunitaria) e alla dottrina un generoso spazio, per poter riflettere sul futuro del difetto di conformità nella vendita di beni di consumo. Il tutto, s’intende, nella speranza che – in un successivo (ma tutt’altro che eventuale) intervento comunitario al riguardo – il legislatore tenga maggiormente conto degli impulsi provenienti dagli interpreti. Riprendendo la metafora che si era evocata all’inizio della presente trattazione, il cantiere della vendita dei beni di consumo resta, dunque, aperto.
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