IPSOA
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i Contratti
Bimestrale di dottrina, giurisprudenza e pratiche contrattuali
ISSN 1123-5047 - ANNO XXVII - Direzione e redazione - Xxx xxx Xxxxxxxxx, x. 00 - 00000 Xxxxxx (XX)
1/2019
TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1, DCB MILANO
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx/xxxxxxxxxx
Alle Sezioni Unite la questione sui buoni postali fruttiferi e la riduzione unilaterale dei tassi di interesse prefissati
L’applicabilità della disciplina sulla vendita dei beni di consumo alla vendita di animali
00237310
Il patto marciano tra tipicità e autonomia contrattuale
DIREZIONE SCIENTIFICA
5 000002 373107
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx X’Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx
COMITATO DI REDAZIONE
Xxxxxxxxx Xxxxx
GDPR E NORMATIVA PRIVACY
COMMENTARIO
a cura di G.M. XXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX
xxxxx
s.
Il Regolamento Generale in materia di protezione dei dati personali (c.d. GDPR) costituisce, a partire dal 25 maggio 2018, il regime primario interno circa il trattamento e la l bera circolazione dei dati delle persone fisiche, insieme al D.Lgs.
10 agosto 2018, n. 101 e al Codice privacy, modificato per adeguare la normativa nazionale alla normativa europea. Il volume, ad opera di avvocati, funzionari del Garante e accademici, commenta i singoli articoli del Regolamento, integrati con le norme del decreto di adeguamento.
Vengono analizzate tutte le novità della disciplina:
- i principi di responsabilizzazione (accountability) e di data protection-by-design e by-default
- il diritto alla portabilità dei dati personali
- la figura del subresponsabile
- il data protection officer (DPO)
- la valutazione d’ impatto privacy (DPIA)
- l’obbligo generale di notificazione e comunicazione di violazioni dei dati
- il quadro sanzionatorio.
€ 140
Cod. 00234766
o il
mpo,
no
Il decreto di adeguamento D.Lgs. n. 101/2018 ha novellat Codice della privacy esistente, garantendone, nel conte la continuità, facendo salvi per un periodo transitorio i provvedimenti del Garante e le autorizzazioni, che saran
il po,
o
oggetto di successivo riesame, nonché i Codici deontologici vigenti.
In Appendice, il testo integrale del D.Lgs. n. 101/2018 e del
Codice della privacy aggiornato.
Y55HBCL
xxxx.xxx.xx 02.82476.1
EDITORIALE
i Contratti
Sommario
Requisiti
del contratto
CONTRATTO E ACCORDO: LA SINTASSI DEGLI ARTT. 1321 E 1325 C.C. NELLA CORNICE DI UNA C.D. “EURO-COMPATIBILITÀ”
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx 5
GIURISPRUDENZA
Vendita di animali
Buoni postali fruttiferi
Leasing
immobiliare
Cassazione Civile, Sez. II, 25 settembre 2018, n. 22728 19
L’APPLICABILITÀ DELLA DISCIPLINA SULLA VENDITA DEI BENI DI CONSUMO ALLA VENDITA DI ANIMALI
di Xxxxx Xxxxxxxx 22
Cassazione Civile, Sez. I, 31 agosto 0000, x. 00000, xxx. 31
I BUONI POSTALI FRUTTIFERI E LA RIDUZIONE UNILATERALE DEI TASSI D’INTERESSE PREFISSATI. IN ATTESA DELLE SEZIONI UNITE
di Xxx Xxxxxxxxx 34
Corte d’Appello di Trieste 18 maggio 2018, n. 202 42
LA NON MERITEVOLEZZA DELLA CLAUSOLA DI RISCHIO CAMBIO, QUALE STRUMENTO FINANZIARIO AUTONOMO CON FINALITÀ SPECULATIVE
di Xxxxx Xxxxxxx 44
Vizi della volontà Tribunale di Bergamo, Sez. IV, 7 febbraio 2018 58
DOLO OMISSIVO E DOVERI DI INFORMAZIONE
di Xxxxx Xxxxx 62
Espromissione Corte d’Appello di Bologna, Sez. I, 19 gennaio 2018 72
ESPROMISSIONE DI DEBITI FUTURI
di Xxxxxxxx Xxxxxxx 76
OSSERVATORIO DELL’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO
con la collaborazione di Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx | 83 | |
ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA | ||
Patto marciano | IL PATTO MARCIANO: TRA TIPICITÀ E AUTONOMIA CONTRATTUALE | |
a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxxx | 86 | |
ARGOMENTI | ||
Contratti di durata | ORGANIZZAZIONE DEI RAPPORTI COMMERCIALI TRA IMPRESE E “CONTRATTI RELAZIONALI” | |
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxxx | 97 | |
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA | ||
OSSERVATORIO EUROPEO | ||
a cura di Xxxxx Xxxxxxxx - Studio Legale De Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Forlani - Bruxelles | 119 | |
INDICI | ||
INDICE DEGLI AUTORI, CRONOLOGICO, ANALITICO | 121 |
a cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxx,
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Xxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xx Xxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
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i Contratti
Sommario
i Contratti
Bimestrale di dottrina, giurisprudenza
e pratiche contrattuali
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Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 febbraio 2004, n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa
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Requisiti del contratto
Contratto e accordo: la sintassi degli artt. 1321 e 1325 c.c. nella cornice di una
c.d. “euro-compatibilità”
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Introduzione
Per restituire al diritto francese dei contratti una vis attrattiva transnazionale, la riforma del 2016 - 2018 ha, com’è largamente risaputo, soppresso la nozione di causa, sostituendo il glorioso art. 1108 Code Napo- xxxx con un più asettico art. 1128 che, inserito in una sezione seconda rubricata “la validité du contrat”, ruota intorno ad un “contenu licite et certain”. Xxxxxx, in un lucidissimo editoriale, apparso proprio un anno fa, Xxxxxxx Xxxxxxx pone il seguente interrogativo: è una “vera “modernizzazione” o, piuttosto” siamo al cospetto “di una ‘rivoluzione delle parole’”? (1), tenendo conto da un lato che il sostantivo contenuto non si presenta con la foggia di un termine inedito e, dall’altro, che objet è vocabolo che il legislatore francese del XXI secolo non ha cancellato (art. 1163), continuando a maneggiarlo per di più in una maniera a dir poco ibrida, dandosi un recitativo che, ai casi in cui si fa questione di un objet de l’obligation quale prestazione dovuta (artt. 1182, 1306 - 1307), alterna norme dove l’objet principal è invece du contrat ma in quanto scopo globale perse- guito dai contraenti (artt. 1196, 1202, 1329 e 1331): e quindi null’altro, ci verrebbe da osservare, che un diverso appellativo ... di quella cause nominalmente bandita sia perché vista come troppo sofisticata sia in quanto reputata una nozione inafferrabile ormai tra- sformatasi, secondo due metafore ricorrenti, in un labirinto o nel jolly joker del diritto dei contratti.
Com’è facile intuire, quello esposto non è un inter- rogativo di maniera ma una domanda stringente visto che, se il diritto ha sempre a che fare con le parole, è innegabile che la “narrazione” italiana dei “contratti in generale” (Titolo II, capi I - XIV-bis - Libro quarto), rimasta immutata dal 1942, lascia risuonare, almeno nella coppia degli artt. 1325 - 1343 c.c., tutt’altro genere di musica. Di passata notiamo che quella “narrazione” si è arricchita, di recente, della figura tipizzata del contratto di convivenza (art. 1, comma 50, L. n. 76/2016), quale convenzione para - matrimoniale che i conviventi del comma 36 possono stipulare al fine di confezionare un regime patrimo- niale opponibile ai terzi. Orbene se, come si scrive, è l’esistenza di una specifica causa convivendi, quale “causa contrattuale tipica (cause suffissante)” (2), a giustificare la previsione normativa di un’opponibi- lità altrimenti inconfigurabile, ne deduciamo allora che, lungi dall’essere in ritirata, la causa, nella ver- sione italiana, si presenta come una nozione ... in espansione. Qui infatti causa e tipo si intrecciano al punto che, se soltanto la fattispecie tipizzata dal legislatore è riguardata come provvista di una causa convivendi, allora avremmo che la suddetta causa trasforma in un appellativo esclusivo pure il nomen “contratto di convivenza”, con tutte le altre intese patrimoniali, stipulate da soggetti che conviventi non sono ai sensi del comma 36, declassate al rango di contratti (di diritto comune) che traggono “motivo dalla convivenza” (3). Va da sé sono dei
(1) In Tempi e luoghi del diritto dei contratti, in questa Rivista, 2018, 13.
(2) Così X’Xxxxx, Contratto di convivenza e atto di destina- zione, in Fam e dir., 2018, 208: e v. pure, passando per Xxxxxxxxx, Autonomos e contratti di convivenza, in Aa.Vv., La famiglia all’im- perfetto?, a cura di Xxxxxxx, Napoli, 2016, 311 s., Xx Xxxx, I contratti di convivenza, in Nuove leggi civ., 2016, 700 (la
tipizzazione del contratto di convivenza “fornisce adeguata solu- zione al tema della causa delle attribuzioni tra [i conviventi]”.
(3) Cfr. D’Amico, Contratto di convivenza e atto di destinazione, cit. 205, nt. 10 (c.vo nel testo). Di un contratto “causalmente collegato alla convivenza tipizzata dal comma 36° l.u.c.c.” discorre pure Sirena, L’invalidità del contratto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1071.
contratti, questi, che non abbisognano certo di una causa sustinendi onera familiae per risultare validi: epperò, per quanto non sia il contratto a risultare costitutivo del rapporto di convivenza, parrebbe che la diversa regola di governo, dei rapporti patrimoniali tra conviventi, fosse stata ordinata dalla legge lungo la direttrice, stando a questa lettura, “causa - motivo” (4). È ovviamente un discorso che, a volerlo coltivare, ci porterebbe molto lontano: a titolo esem- plificativo segnaliamo che, per Xxxxxx, i negozi giu- ridici familiari sono, nel solco di una raffinata tradizione di pensiero, dei negozi e non dei contratti in quanto, ecco il punto, “hanno causa in un interesse familiare” (5).
Di tutto questo, naturalmente, non c’è da stupirsi: come osserva sagacemente Xxxxxxx Xxxxx, già la bilateralità o il decomporre il contratto in due atti unilaterali non è un problema che origini “da una qualità naturalistica del fatto” bensì “da una qualifi- cazione classificatoria operata dalla mente del giurista” (6).
L’art. 1325 c.c. tra aporia, fantasie suprematiste e superfetazione
Conviene prendere le mosse da un’aporia clas- sica (7): se il contratto è l’accordo (art. 1321), quell’accordo non può essere riguardato come il primo dei suoi requisiti (art. 1325), donde un suo sdoppiarsi nella veste rispettivamente di una parte e del tutto. E non solo: se il contratto è l’accordo, la sua carenza genera inesistenza, non già una nullità strut- turale. Se infatti il contratto è concluso quando l’accordo è raggiunto, in difetto di accordo il con- tratto non c’è (8). È plausibile che una mancanza di accordo possa declinarsi, alla Vassalli maniera (9), come difetto di consenso quale vocabolo che seman- ticamente esprimerebbe una “comune volontà” che,
dell’accordo, andrebbea costituire la premessao il risultato (10). E tuttavia, pure a seguito di una siffatta riformulazione, che riprodurrebbe la lettera dell’art. 1104 del codice previgente, il discorso incespica in più di una criticità. Al netto invero della circostanza che nelle fattispecie canoniche di riserva mentale e di errore ostativo il contratto bascula tra validità ed annullabilità, viene fatto di osservare che l’interpolare casi di nullità, in un perimetro già polarizzato tra inesistenza ed annul- labilità, è esercizio, se non vacuo, di sicuro in larga misura evanescente. L’esemplificazione corrente che, muovendo dall’ipotesi della violenza fisica approda alla dichiarazione ioci o docendi causa pas- sando per il medio di quella resa in stato di ipnosi, difficilmente in effetti si lascia riguardare come pertinente, se è vero che, nei casi descritti, già parrebbe difettare una decisione contrattuale impu- tabile che sia “socialmente riconoscibile” come tale (11). È lo stesso, notiamo incidentalmente, per la dichiarazione resa dal bambino e per la pro- posta scritta (ma non trasmessa) di cui il c.d. oblato si sia impossessato mentre, quando la dichiarazione resa dall’incapace naturale si possa dare come social- mente riconoscibile, l’impressione è che non si sfugga dal disposto dell’art. 428 c.c. complice il rilievo, Belvedere docet, che questo disposto regola pure l’ipotesi dell’incapacità di volere. Se invece, com’è prassi abituale, il ragionamento si focalizza intorno alle due fattispecie, non meno classiche, della proposta formata ma non volontariamente indirizzata (A) e della sottoscrizione apocrifa (B), due figure che talora la dottrina cataloga con l’ossi- moro di un accordo apparente (12), orbene ci ver- rebbe da osservare che qui il discorso soltanto di primo acchito si esibisce come più sofisticato. Gli è infatti, nell’ordine, che:
(4) Seppur da un’altra angolazione, non è d’altronde che sia diverso il discorso imbastito da X. Xxxxxxxxxxx, La recente riforma del code civil, in Rass. dir. civ., 2018, 1007, quando scrive che “del contratto può anche essere soppressa formalmente la causa, ma ineliminabile è la sua funzione”.
(5) In Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, Milano, 2005, 18.
(6) Sacco - (De Nova), Il contratto, Milano, 20164, 335, nt. 47 (c. vo aggiunto).
(7) X. Xxxxx, già in Il contratto, in X. Xxxxxxxx, Xxxxx. dir. civ. it., Torino, 1975, 6; G.B. Xxxxx, Xxxxxxxxx e accordo, in G. B. Ferri - X. Xxxxxxxx, Studi sull’autonomia dei privati, Torino, 1997, 63; Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, in id., Il contratto in trasformazione, Milano, 2011, 292, 308 (ove si discorre di accordo come principium individuationis) nonché 318 e Majello, Essenzialità dell’accordo e del suo contenuto, in Riv. dir. civ., 2005, I, 113 ss.
(8) X. Xxxxxxx, sub art. 1325, in Comm. cod. civ., diretto da X. Xxxxxxxxx, Dei Contratti in generale, a cura di Xxxxxxxxxx - Xxxxxxxx,
Torino, 2011, 208 s. e Del Prato, Requisiti del contratto. Art. 1325, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2013, 51 ss.
(9) X. X. X. Xxxxx, Xx xxxxxxxxxxx xx Xxxxxxx Xxxxxxxx in margine a taluni progetti del libro delle obbligazioni, Padova, 1990, 178.
(10) Così Xxxxxxxx, Contratto I) Ingenerale, in Enc. giur., Roma, 1988, IX, 3 e G.B. Xxxxx, Contrattoe accordo, cit. 61. Scrive Majello, La patologia discreta del contratto annullabile, in Riv. dir. civ., 2003, I, 329 ss., spec. 349 che tra accordo e consenso passa la stessa differenza tratteggiabile “tra dichiarazione e volontà”. Consenso, in realtà, è il termine - notiamo - che usano tanto l’art. 1427 quanto l’art. 1372.
(11) Così, lucidamente, Belvedere, Quando il legislatore vuol fare il professore. Appunti sull’art. 1325, adesso consultabile pure in id., Scritti giuridici, Milano, 2016, II, 1030. In termini contigui Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 331.
(12) X. Xxxxx, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a cura di Xxxxxx e Zatti, Milano, 2001, 744 - 746 e Del Prato, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 53 s.
- sub A, tutto alla fine si riduce, come una diffusa opinione non manca di rilevare (13), in un problema di riconoscibilità/irriconoscibilità dell’involonta- rietà dell’emissione, con una cornice rimediale oscil- lante per riflesso tra annullabilità e validità mentre
- sub B, la riflessione si fa, volendo, ancor meno scoscesa visto che tutto, in realtà, ivi parrebbe dipen- dere dalla circostanza che si dia un accordo verbale a monte (14). Nel quale caso, la validità declinerà in nullità se si dovesse vertere in un caso nel quale la forma è prescritta ad substantiam actus (art. 1325,
n. 4), con l’inesistenza che torna invece ad appro- priarsi della scena se quell’accordo dovesse man- care (15). Ha dell’apodittico, proviamo a dirlo così, qualificare come nullo un falso atto scritto quando difetti persino il prius di un’intesa verbale. Il consenso delle parti non è una “condition de validité du contrat, mais une condition de sa conclusion” (16). Ergo, non ci sembra possibile che il soggetto, la cui firma è stata falsificata, possa in un secondo momento appropriarsi del contratto con una ratifica ex art. 1399 c.c. (17): se è vero che la suddetta ratifica dà per presupposto quanto qui non è dato invece registrare, cioè il perfezionamento del contratto (18).
Residua, è vero, il caso notorio del dissenso occulto, esemplarmente stilizzato da Xxxxx con l’ipotesi di una cosa che l’alienante e l’acquirente vengono diversamente ad identificare in quanto la descrittiva contrattuale relativa al produttore ed al prezzo risul- tano “perfettamente compatibili” con l’una e l’altra decisione (19). Orbene, visto che il contrasto non prende la forma dell’errore ostativo di una delle parti, nulla quaestio che qui il contratto sia nullo: epperò viene fatto di pensare che lo sia in quanto è già il suo oggetto che si lascia riguardare come indeterminabile.A ritenere per altro, come in dottrina non è infre- quente (20), che qui le ragioni di nullità si duplichino, lasciando così intravederne una per mancanza di consenso, non è (notiamo) che i termini della que- stione verrebbero (per la verità) più di tanto a spari- gliarsi, se è vero che una “minuscola regione”, per dirlo alla Roppo, non basta a legittimare
“un’affermazione di principio e di generale portata” come quella comandata dall’art. 1418, comma 2 (21). Prima proposizione: così stando le cose, siccome senza accordo in realtà non si dà un contratto, ne dobbiamo dedurre che l’art. 1325, n. 1 è, in realtà, una norma mentitoria? Se, come riteniamo plausibile, così è, mentitorio allo stesso modo si lascerebbe però riguardare, almeno in parte qua, pure l’art. 1418, comma 2 visto che il suo recitativo esordisce, come sappiamo, enumerando una nullità per “mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325”. Ci conforta, al riguardo, una succosa pagina di Xxx Xxxxxxx (22), lucida nel rimarcare l’astratto dogmatismo di una disposizione che, appiattita com’è su di una conce- zione organicistica del contratto, classificante ogni requisito a guisa di un “elemento essenziale”, viene di conseguenza a sporgere per almeno due ragioni: tecnicamente, intanto, abbiamo un articolato suc- cessivo al 1325 ove, anziché provvedere alla defini- zione di ognuno di questi requisiti, la legge non a caso formalizza il perimetro dei limiti che sono di volta in volta preposti alla loro giuridica rilevanza; e poi, se per l’appunto il problema che si dà consiste nell’avere per esistente un requisito quando sia riproduttivo degli attributi che lo identificano normativamente, diventa ellittico discorrere di una nullità per una sua mancanza assoluta giacché questa nullità verrà invece a rampollare sempre e soltanto dalla carenza di una qualità/requisito dei suddetti elementi essenziali (tradotto: liceità, possibilità, determinatezza/deter- minabilità). Viene fatto perciò di domandarsi se, in una prospettiva de iure condendo, non tornerebbe più utile, come sempre Xxx Xxxxxxx suggerisce (23), una riscrittura dell’art. 1418, comma 2 che recitasse di una causa di nullità “per la violazione dei limiti imposti all’autonomia privata rispetto ai requisiti dell’art. 1325”. Non a caso, per il disposto dell’art. 1104 del codice previgente, requisito essenziale per la validità non era l’oggetto in sé bensì un oggetto deter- minato, secondo una formula che, sebbene più rimar- casse l’idoneità dello stesso a risultare “materia di convenzione” (24), ammiccava a quell’objet certain
(13) X. Xxxxxxxxx, Quando il legislatore vuol fare il professore, cit., 1031.
(14) Cfr. Majello, La patologia discreta del contratto annullabile, cit., 335.
(15) Come nota Belvedere, Quando il legislatore vuol fare il professore, cit. 1032, “nel caso di falsificazione della mia firma si dovrebbe affermare che io ho concluso quel contratto, il che mi sembra paradossale” (c.vo nel testo).
(16) Così Chantepie - Latina, La réforme du droit des obliga- tions. Commentaire théorique et pratique dans l’ordre du Code civil, Dalloz, 2016, 234.
(17) Il che è quanto tematizza Xxxxxxx, La paternità delle scrit- ture, Milano, 1997, 158 ss.
(18) X. Xxx Xxxxx, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 55.
(19) V. pure Belvedere, Quando il legislatore vuol fare il pro- fessore, cit., 1032, nt. 61.
(20) X. Xxxxxxx, sub art. 1325, cit., 218.
(21) Così Belvedere, Quando il legislatore vuol fare il profes- sore, cit., 1033.
(22) Nel classico La patologia discreta del contratto annullabile, cit., 335 e 338.
(23) Op. loc. ult. cit.
(24) X. Xxxxxxxxx, Quando il legislatore vuol fare il professore, cit., 1016.
del glorioso art. 1108 Code civil più incentrato, è vero, sul profilo della certezza. Per inciso ivi anche la causa, com’è arcinoto, non rilevava in sé bensì se lecita (rispettivamente “per obbligarsi”/dans l’obligation). Insomma, il combinato disposto degli artt. 1325 e 1418, comma 2, impiantato com’è sull’idea di un contratto nullo quale fattispecie ridotta perché man- cante di un requisito (25), tradisce l’impressione di una norma debole, dettata per “anticipare e riassu- mere”, come ha scritto succosamente Xxxxxx Xxx- gnamiglio, “in termini costruzionistici, i principali problemi ... della disciplina giuridica della mate- ria” (26). Ogni parallelismo tra l’art. 1325 e l’art. 1104 del codice abrogato sarebbe, in effetti, fallace perché quel codice non conosceva un disposto come l’odierno art. 1418, comma 2: ergo in quel testo di legge aveva senso una norma che sunteggiava, a mo’ di un anticipatorio texte d’annonce, talune cause di invalidità comandate nell’articolato successivo. Quanto ai suoi cc.dd. requisiti, tolto da un lato il combinato disposto degli artt. 1350/1351 e, dall’al- tro, l’art. 1347, nel codice vigente - notiamo - non ci sono invece comminatorie espresse di una nullità del contratto prima di quanto è sancito nell’art. 1418, comma 2, norma che esplicita così quell’accusativo, “per la validità del contratto”, di cui tanto la rubrica (“indicazione dei requisiti) quanto il testo dell’art. 1325 sono (nominalmente) sprovvisti (27).
Ma proseguiamo.
Contratto ed “oggetto” tra equivoci, concettualismi e ridondanze
Se il contratto è l’accordo ed il suo difettare, come osservato, nega il contratto (28), certificandone così l’inesistenza, dal recitativo dell’art. 1325 potremmo al più dedurne che è la carenza di uno degli altri tre requisiti, non dandosi qui un vizio che “impedisce ... di identificare il contratto” (29), a materializzare i casi di nullità idonei a mappare il disposto dell’art. 1418, comma 2, c.c., quale precetto reggente la figura
di un contratto incompleto, perché orfano di un requi- sito, che si va a contrapporre alla fattispecie, non più “impoverita” (30), del contratto valido. In realtà, se ci si riflette su un po’, neanche questo è vero, per almeno due ragioni concorrenti ambedue orbitanti intorno al
n. 3 dell’art. 1325, cioè all’oggetto del contratto. La prima. Suffragata com’è dalla lettera degli artt. 1347 - 1349 c.c., diamo per buona l’opinione domi- nante che ravvisa l’oggetto del contratto nelle pre- stazioni di cui le parti dispongono (31), con la res materiale od il bene immateriale etichettabili alla stregua, Roppo docet (32), di un nudo bene. Il disposto dell’art. 1429 c.c., laddove differenzia ai nn. 1 e 2 tra l’errore sull’oggetto del contratto e quello sull’iden- tità ovvero sopra una qualità dell’oggetto della pre- stazione, esemplifica paradigmaticamente questo binomio: del resto, aggiungiamo, è vero pure che una concezione dell’oggetto quale cosa (artt. 1126 e 1128 Code Napoléon nonché art. 1117 cod. prev.), e dunque presupposto esterno al contratto, non si amalgamerebbe neanche un po’ con una lettera del- l’art. 1325 che, facendone un requisito, lo eleva pur sempre “al rango ... di un elemento essenziale” (33). Epperò, tornando alla premessa, se oggetto del con- tratto è la prestazione, vien difficile immaginarne una mancanza in quanto una prestazione o è possibile o non lo è. Come si fa persuasivamente notare, l’esempio notorio dell’immobile alienato, nel frattempo andato distrutto ad insaputa dei contraenti, stilizza sì un caso di nullità ma per un’impossibilità rampollante dal- l’inesistenza in fatto del nudo bene. Vero che se questo non esiste più, non potendosi utilmente attribuirlo, il contratto sarà nullo: epperò non già perché l’oggetto manchi quanto e piuttosto per la ragione che la pre- stazione risulta ivi impossibile. Esistere o non esistere implica infatti un’attività di giudizio che non può venire riferita alla prestazione e, per riflesso, a “qual- siasi comportamento” (34). Dopo di che può essere vero, come fa notare Xxxx Xxxxx (35), che la rile- vanza dell’oggetto tendenzialmente la si apprezza
(25) V., notoriamente, Irti, Due saggi sul dovere giuridico (obbligo - onere), Napoli, 1973, 107 ss.
(26) In Dei contratti in generale, in Comm. Scialoja - Branca, Xxxxxxx - Xxxx, 0000, sub art. 1325, 65 s.
(27) Ma, per l’idea di un genitivo implicito, in quanto requisiti di validità, v. già Fragali, sub art. 1325, in Comm. D’Xxxxxx - Xxxxx, I, Firenze, 1948, 318 s.
(28) X. Xxx Xxxxx, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 51.
(29) Così Breccia, sub art. 1325, cit., 208.
(30) Così Xxxxxxx, La patologia discreta del contratto annulla- bile, cit., 335.
(31) V., per tutti, X. Xxxxxxxxx, L’oggettodelcontratto. Artt. 1346 - 1349, in Il Codice Civile. Commentario diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, passim.
(32) In Il contratto, cit. 336 - 338.
(33) Così Breccia, sub art. 1325, cit., 233.
(34) Cfr. Belvedere, Quandoillegislatorevuolfareilprofessore, cit. 1028. Salvo ritenere, svolgendo così un’osservazione oppo- staci da Xxxxxxxx X’Xxxxx, che la prestazione di trasferire una cosa già di proprietà dell’acquirente non stilizzi, a sua volta, un caso nel quale manca la “prestazione” da parte del venditore. Potremmo replicare riguardando la fattispecie de qua come un caso di prestazione esistente ma giuridicamente impossibile. Rimane vero, quello sì, che xxx non sarebbe concettualizzabile una nullità per difetto di accordo in quanto questo nella specie lo si ha, difettando semmai (o risultando giuridicamente impossi- bile) proprio la prestazione che ne possa formare (effettivamente) oggetto.
(35) X. Xxxxx, Il contratto, cit., 340.
sempre in negativo, cioè quale motivo di impugna- zione. Il fatto è che, mentre l’illiceità e l’impossibilità sunteggiano una qualificazione eteronoma, l’indeter- minabilità, come cercheremo subito di dire, esprime invece un’insufficienza, nella rappresentazione descrittiva delle prestazioni, situata dalla “parte dei contraenti” (36). Non a caso, se ragioniamo in ter- mini di assunzione del rischio, la nuova icona dello smart contrat, di cui tanto si parla, non rivoluziona la nozione di oggetto, dandosi ivi piuttosto il caso di un contratto concluso con oggetto determinabile attra- verso un sistema di intelligenza artificiale (37).
La seconda. Se oggetto del contratto è la prestazione, tecnicamente una sua mancanza la si avrà quando verrà a difettare la sua descrittiva negoziale. Orbene da una siffatta premessa si ricava però che una man- cata rappresentazione della prestazione è fisiologico che esiti in un difetto di accordo, e quindi (di nuovo) in un caso di inesistenza del contratto, in quanto ha del posticcio qualificare come concluso ed al tempo stesso nullo un contratto senza oggetto. L’esempio di Belve- dere, non è un contratto il foglio bianco in calce al quale figurino soltanto due sottoscrizioni, espressiva- mente rende bene l’idea della finzione che si cela dietro il sintagma di un accordo insufficiente giacché per risultare eseguibile un accordo dev’essersi for- mato. Scrive di Majo che, in luogo di una determi- natezza/determinabilità, dovrebbe spostarsi il baricentro “al quid disputatum tra le parti” in quanto “è in base ad esso che l’accordo potrà dirsi suffi- ciente” (38). Nominalmente è così che recita l’art.
2.101 dei PECL nonché il DCFR (sufficient agree- ment: artt. II-4: 101; II-4: 102; II-4:103). Tecnica- mente è questo, ci sembra, un modo elegante per dire, sulla scia del par. 154 del BGB, che nessun contratto si è formato finché le parti non si sono accordate su tutti i punti del contratto sui quali “eine Vereinbarung getroffen werden soll”. Vero infatti è che la determi- natezza/determinabilità può essere tanto legale (artt. 1474 e 1510, c. 1) che giudiziale (artt. 1657, 1709, 1733, 1755, comma 2, 2099, c. 2, 2225 e 2233, comma
1) e vero pure è che l’art. 1374 si lascia riguardare come una norma, detto alla Majello maniera, che non pone limiti quantitativi all’integrazione dispositiva.
E tuttavia, siccome ogni rappresentazione indetermi- nabile delle prestazioni dedotte certifica che le parti non sono riuscite a concordare, qui a riprospettarsi è un non esserci del contratto in quanto le parti non hanno negoziato su quanto reputano essenziale al sorgere del vincolo. Se il vincolo, sottinteso natural- mente, c’è ogni qual volta le prestazioni rispettano un’attitudine di quell’accordo “all’esecuzione” (39). Dunque, come nota un altro Maestro, è insurrogabil- mente necessaria una “determinazione essenziale e, come tale, univoca [delle parti]” (40).
Seconda proposizione: rebus sic stantibus, ne dob- biamo allora trarre la deduzione che l’art. 1325, n. 3 è, di nuovo, una norma mentitoria contagiante per riflesso la lettera dell’art. 1418, comma 2, norma inutile perché, detto all’Ascarelli maniera, neanche potrebbe rettificarsi la nullità, ivi comminata, con un’inesistenza in quanto nessuna norma potrebbe mai direttamente sanzionare questa. Gli è infatti che qualsiasi norma, “per essere applicabile, presup- pone l’esistenza della fattispecie, e poi l’esistenza o l’inesistenza di determinate sue qualifiche” (41). Per inciso rammentiamo che la ridondanza dell’art. 1325 è manifesta pure nel n. 4 in quanto se la forma scritta è requisito (di struttura) eventuale, giacché diviene un elemento necessario solo quando “è prescritta dalla legge sotto pena di nullità”, abbiamo allora che l’art. 1418, comma 2 diventa un doppione ricorsivo visto che si perita di dettare una nullità, per un vizio di quella forma, già comminata da un’altra disposizione. Il fatto, si dirà, è che pur sempre residua, l’ipotesi di una mancanza della causa (n. 2). Epperò pure qui basta intendersi: causa ed oggetto, quali punti di riferimento dell’accordo, son infatti pur sempre da riguardare come la causa e l’oggetto previsti, nel senso di identificativi, per quel tipo legale (42). Donde sì che avremo una nullità, quando quel contenuto difetti e neanche supplisca l’identificativo di un con- tratto atipico: tecnicamente, se l’accordo è un fatto qualificato da norme (43), dovremmo qui però più propriamente ragionare di una nullità per una carenza di quel tipo di contratto. Se il contratto non è scomponibile, il suo significato, come scrive Xxxxxxx Xxxxxxx (44), è “tutto compreso nel
(36) Belvedere, Quandoillegislatorevuolfareilprofessore, cit., 1028.
(37) V. G. Xxxxxxxxxxx, Il contratto nell’era dell’intelligenza artificiale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 441 ss.
(38) Cfr. di Majo, L’accordo, in Lezioni sul contratto, raccolte da
X. Xxxxxxxx, Torino, 2009, 12.
(39) Cfr. Del Prato, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 34 e 47.
(40) Così Breccia, sub art. 1321, cit., 45. Diversamente l’ac- cordo “resterebbe privo di senso compiuto”: così Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 311.
(41) Cfr. Xxxxxxxxx, Inesistenza e nullità, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, 227 ss.
(42) X. Xxxxxxxxxx, X xxxxxxxxx. Xxxxx xxxxxxxx, Xxxxxx, 00000, 24.
(43) X. Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 291.
(44) Sub art. 1325, cit., 211.
contenuto dell’accordo relativo [a quel] rapporto giuridico”. Il caso di una nullità dell’assicurazione per mancanza del rischio (art. 1895) è paradigmatico di un trascorrere dal difetto di causa all’inconfigura- bilità del tipo (45).
Domanda: siccome si è al cospetto di una norma che “noncomanda, nonvietaeneppuredefinisce” (46), ne dobbiamo arguire che l’art. 1325 è in realtà una dida- scalia che si limita a descrivere “la struttura di un fenomeno giuridico”? (47). Se poi si dovesse muovere dalla precomprensione che la normatività di una pre- visione sta tutta nel riconnettere degli effetti ad un fatto o ad una vicenda, potremmo pure riconoscere che l’art. 1325, nella misura in cui decampa da questa unità minima, neanche è una norma quanto e piutto- sto un “frammento di norma” che “solo non può stare” (48). Frammento, non v’è chi non lo veda, è sostantivo che restituisce lucidamente l’istantanea di un art. 1325 quale enunciato sprovvisto di una valenza precettiva autonoma (49). Come nota Xxxxxx xx Xxxx, l’art. 1325 ben può rappresentarsi quale epifania di una lasca concezione essenzialistica visto che il legislatore ha ivi apertamente coltivato “la pretesa di definire l’essenza di un fenomeno” (50), postulando un’assiomatica equipollenza, tra tutti i requisiti, in termini di “presenza/assenza” la quale, torniamo a ribadirlo, nella sua equiordinazione a produrre una nullità, è falsa (51). Come vedremo il Code civil, tanto nella versione originaria quanto in quella rifor- mata, rifugge da una siffatta aporia, in quanto la tecnica legislativa mai è stata orchestrata nel senso di una descrizione degli elementi della fattispecie con- vention/contrat, essendosi preferita la ben diversa policy di una indicazione dei fattori eletti a condizioni di validità del contratto. Condizioni, lo notiamo inciden- talmente, è termine semanticamente duttile e, aggiun- giamo, siccome evoca il “contesto di compimento dell’atto” (52), ci può stare che, nel suo côté, figuri quella capacità di contrattare delle parti, riprodotta pure, sul modello dell’originario art. 1108, nel Code civil riformato (art. 1128, n. 2). Rispetto ad un contesto, un requisito subiettivo non sporge. È un requisito alla
maniera dell’art. 1325, cioè visto come elemento morfologico dell’atto, che costitutivamente non può annoverarlo. Notareche conditions è lemmacheadesso la riformafranceseha soppresso, è esatto: xxxxxx fatto a livello di nomenclatura, non di cifra o di substantia del discorso in quanto, se tra quelle condizioni c’è ancora la capacité de contracter (art. 1128, n. 2), ne ricaviamo che tuttora in Francia non abbiamo un’es- senzialità che sia tarata sulla coppia esistenza/inesi- stenza del contratto.
Contratto ed accordo nell’orizzonte dell’art. 1321 c.c. quale norma provvista di una natura imperativa
Ritornando all’aporia dell’accordo come tutto e primo requisito, è risaputo che la si può bypassare immaginando che l’art. 1325 altro non sia che una mera schematizzazione razionale, così Xxx Xxxxxxx (53), di quanto viene enunciato nell’art. 1321: nel senso che un accordo, sempre stando alla pagina di Majello, è contrattuale e si dà come tale quando questo accordo sia rivolto a costituire, rego- lare od estinguere un rapporto giuridico di tipo patri- moniale. È agevole la deduzione che, nella cornice descritta, funzione o causa, di “c.r. od e.”, è il quid connotante un accordo come contrattuale, con il rap- porto giuridico patrimoniale che ne diviene l’oggetto. In sintesi assistiamo ivi ad una lucida riedizione dell’equazione tra contratto ed autoregolamento, con un’aporia che si dissolve perché se il contratto è l’accordo, di cui la causa e l’oggetto ne rappresentano il contenuto, stiamo allora dicendo che l’art. 1321 è il dispositivo nel quale il legislatore ha indicato quale, tra tutte le forme possibili di accordo, merita l’eti- chetta iuris di contrattuale. Non è questa, notiamo, la prospettiva abituale perché qui accordo, causa ed oggetto non sono più un insieme di requisiti struttu- rali visto che, più linearmente, soltanto l’accordo si presenta con lo stigma di un elemento di struttura, mentre la causa e l’oggetto retrocedono a “punti di riferimento [di quell’] accordo”. Lo aveva già notato
(45) Cfr. Del Prato, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 63.
(46) Così Xxxx, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuri- dico, Milano, 1985, 83.
(47) Cfr. Irti, op. loc. ult. cit. e Belvedere, Quando il legislatore vuol fare il professore, cit., 1017.
(48) Così Xxxx, Idola libertatis, cit., 83.
(49) Non a caso il BGB non contempla, com’è risaputo, una disposizione unica enunciativa dei requisiti/elementi del negozio o del contratto. Piuttosto è vero, come ancora Xxxxxx X’Xxxxx ci ricorda, che l’immagine di un “frammento di norma” non si appaia con l’etichetta, suggerita da Xxxxxxx, di una superfetazione, visto
che, senza quel frammento, la norma, di cui discutiamo, non potrebbe dirsi (mai) integrata.
(50) Cfr. di Majo, L’accordo, cit., 3 in critica alla concezione ribadita da Xxxx, Contratto in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 500. Di un art. 1325 che, al più, configura degli “oneri di fattispecie”, discorre Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 319.
(51) Cfr. Belvedere, Quandoillegislatorevuolfareilprofessore, cit., 1018.
(52) Così Belvedere, op. ult. cit., 1016.
(53) In Essenzialità dell’accordo e del suo contenuto, cit., 113 (e 114 per la citazione che segue).
però Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx (54): se la causa, quale funzione giuridica del contratto, è il punto di riferi- mento dell’accordo, quella causa diventa un “inse- parabile” della nozione di contratto, quale diremmo libertà autoregolativa oggettivata (55).
Certo, e com’è risaputo, quello riportato non è, nel- l’arcipelago dei significati correnti, il senso abituale con il quale la dottrina maneggia la nozione di causa: che, vista quale giustificazione di uno spostamento di ricchezza o degli effetti giuridici del contratto (56), è piuttosto limite in quanto vestimentum di razionalità, come adesso ci ricorda Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx (57), che presiede alla forza di legge del contratto (art. 1372). Quanto qui stiamo invece provando a ri-dire è che se la causa sta ed è funzione di autoregolamento, l’art. 1325 diviene un dispositivo ridondante perché una funzione non può contemporaneamente vestire i panni di un requisito di struttura. Dopo di che, se la causa è un inseparabile della nozione di accordo contrattuale, ne possiamo però pure dedurre che il depennare l’art. 1325 o, alla maniera dell’art. 1128 Code civil, il non annoverarla più tra i requisiti del contratto, non fa in alcun modo di quell’ordinamento un sistema anticausalista. Più banalmente, se la causa indica una specifica funzione autoregolamentativa dell’accordo, diventa un indissociabile da esso. Epperò, lo ripetiamo, non esiste una qualche plausi- bile ragione logica perché un criterio di qualifica- zione, ritorna qui la pagina di Xxxxxxx (58), si sdoppi e divenga un elemento costitutivo della fattispecie - contratto. Siamo nei dintorni, naturalmente, di una causa inquadrata dalla visuale non di un limite, messo a presidio di un interesse generale, bensì e piuttosto quale strumento di tutela delle parti. Il problema che qui si profila è perciò quello di un pattonudo, non di un patto astratto.
Accordo e contenuto: spigolature a margine dell’art. 1128 Code civil. La metafora del contratto - accordo come un “osso di seppia”
Provando allora a ricapitolare: dunque l’accordo è l’unico ed insurrogabile elemento di struttura del contratto, mentre causa ed oggetto si possono ride- nominare, nel loro insieme, come contenuto del
contratto, naturalmente a maneggiare il suddetto lemma nell’accezione di un direzionarsi del suddetto accordo verso un dato ordine di effetti. Se stiamo d’altronde ad un paio dei modi in cui il sostantivo “contenuto” è entrato nel periodare della migliore letteratura, troviamo che per Breccia è la “sostanza di cui sono di per sé costituiti gli effetti contrattuali basilari” mentre, nella prospettiva di Xxxx Xxxxx, è il quid portante a sintesi “i requisiti del contratto e i suoi effetti” (59). Xxxxxxxxx, dunque, quale contenente o, volendo dirlo alla francese, come notion cadre (60). Esemplificativamente può poi tornare utile osservare:
- l’art. 5, comma 3 del c.d. Codice di Pavia, tra i requisiti essenziali del contratto, menziona, in luogo della causa e dell’oggetto, il “contenuto”;
- i PECL ed i Principi Unidroit restituiscono ambe- due l’immagine di una fattispecie contratto quale “accordo”;
- l’art. 1: 101 del DCFR definisce il contratto come “an agreement which gives rise to”, sottolineando così la finalizzazione di una volontà comune ad uno scopo;
- pure la riforma francese ha imbastito del resto un art. 1128 che, come sappiamo, annovera, al suo numero 3, un “contenuto lecito e certo” tra i requisiti di validità del contratto.
Orbene il quartetto citato ci sembra possa fungere da epifania di un approccio definitorio che riserva la qualifica di essentiale, cioè di unico requisito di effi- cacia, all’accordo. Causa ed oggetto, in questa cor- nice, possono pure confluire nella nozione di contenuto: non è forse vero, infatti, che il senso utile di una norma come l’art. 1322, comma 1 è tutto rappreso nel riconoscere che un contenuto liberamente determinabile lo si ha quando le parti, e non altri, scelgono la causa e l’oggetto del contratto? “Contenuto”, notiamo di passata, è lemma che già adesso si mostra, del resto, provvisto di una sua evidenza normativa: figura negli artt. 1389 e 1395, campeggia nell’art. 1419, comma 1 e, passando per il combinato disposto degli artt. 1431 e 1432 c.c., torna nell’art. 1708 (mandato) e nell’art. 1742 (agenzia). È, detto per inciso, un vocabolo che pure il legislatore postmoderno non disdegna visto che l’art. 1, comma 53, L. n. 76/2016 recita di un contratto (di
(54) In Dei contratti in generale, cit., 67 s.
(55) Cfr. Castronovo, Un contratto per l’Europa. Prefazione all’edizione italiana dei Principi di diritto europeo dei contratti, Parte I e II, a cura di Castronovo, Milano, 2001, XXI.
(56) V. di Majo, Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Xxxx- xxxx, XX, Xxxx, 0000.
(57) In La Causa e la rèforme du Code Civil francese, in Persona e mercato, 2017, 205 ss.
(58) Cfr. Essenzialità dell’accordo e delsuocontenuto, cit., 114, nt. 2.
(59) Rispettivamente sub art. 1325, cit. 233 - 235 ed in Il contratto, cit., 330.
(60) X. Xxxxxxxxx - Latina, La réforme du droit des obligations, cit., 235.
convivenza) che “può contenere …”, legalizzando così la versione ancipite di una facoltà/limite stiliz- zante un contenuto (almeno in parte) necessario (61). Una prima domanda, perciò, se sono queste le pre- messe del discorso: attualità od obsolescenza degli artt. 1321 e 1325 quali norme generali regolatrici del diritto dei contratti? Di primo acchito dovrebbe risultare autoevidente che, se l’art. 1321, detto alla francese, è un point - pivot technique, esaltante il principio di “salvaguardia e di valorizzazione dell’au- tonomia contrattuale” (62), l’art. 1325 può invece al più qualificarsi, è bella al riguardo la metafora di Belvedere (63), come un sommario ovvero un indice (64).
Seconda domanda: è migliore un art. 1325, nella sua versione corrente o un art. 1128 Code civil, dove alla celebre quadriga è subentrato un trittico nel quale, come abbiamo testé osservato, è il contenuto che ha surrogato causa ed oggetto? Non è, notiamo, una questione di gusto giuridico in quanto l’Ordonnance del 2016 ha in realtà riscritto pure l’art. 1101. La definizione di contratto che vi si legge è, secondo i dettami della c.d. mistica del consenso, “un accordo di volontà ... destinato a costituire, modificare, tra- smettere od estinguere delle obbligazioni” (un accord de volontés entre deux ou plusieurs persone destiné à créer, modifier, transmettre ou éteindre des obligations). Di là dall’aporia di un reiterato riferimento al modello di un contrat-obligation, si staglia l’idea che il con- tratto è dunque l’accordo quale unico ed imprescin- dibile requisito strutturale, con la causa, verrebbe da notare, quale funzione giuridica di autoregolamento, infeudata in quel destiné recitante semanticamente lo stesso ruolo del nostro per dell’art. 1321: ergo l’ac- cordo è contrattuale quando, riducendo il discorso all’essenziale, produce determinati effetti? Se così fosse, potremmo dedurne, visto che causa ed oggetto sono (volendo) desumibili, pure in Francia dall’art. 1101, che la riscrittura dell’art. 1108 non è soltanto
semantica in quanto la riforma segna sì la caduta della causa e dell’oggetto ma quali elementi di struttura della fattispecie che si affiancano all’accordo. Insomma accordo, causa ed oggetto non sono più la fotografia di un trittico di requisiti costitutivi riguardabili, come ancora pensava Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (65), da “materiali costruttivi” equiordinati.
Spigolando nella letteratura d’Oltralpe emergono altri due quesiti:
-se il nuovo testo dell’art. 1128 stia forse a certificare che le funzioni ritualizzate dalla causa e dall’oggetto sono ormai svanite;
-se si dia un qualche motivo plausibile per ritenere che la nozione di “contenuto” formalizzi una nuova funzione.
Sono due quesiti intriganti ma, al tempo stesso, pure scopertamente retorici. Se infatti la causa, quale funzione giuridica, qualifica ed identifica l’accordo come contrattuale (66), non siamo al cospetto di un art. 1128 dove la causa manchi. E lo stesso vale per l’oggetto, se ne facciamo, alla Majello maniera, il punto di riferimento esterno imprescindibile di ogni accordo contrattuale. Gli è infatti che, se oggetto è il rapporto giuridico patrimoniale, nella versione francese abbiamo allora un oggetto che si trasfigura in quel rapporto obbligatorio che le parti si ripromettono di realizzare costituendolo, modifican- dolo, trasmettendolo od estinguendolo. Il destiné dell’art. 1101 finisce così per ottimizzare la finalità giuridica dell’accordo. Ovvio poi che, in un contesto siffatto, non abbia più senso interrogarsi sulla novitas di un “contenuto” quale termine ibrido, che riunisce in una due condizioni di validità distinte, atteggian- dosi per ciò stesso a lega, come osserva ironicamente Xxxxxxx (67), di altri due metalli. Se infatti causa ed oggetto sono archiviate solo formalmente, in quanto “contenuto” è il loro nuovo stampo quali punti di riferimento dell’accordo, vale allora la metafora sce- spiriana della rosa: che, come ci ricorda Xxxxxx (68),
(61) Se non rispetto alla scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni, almeno riguardo alla definizione delle “moda- lità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”.
(62) Così Xxxxx, Il contratto, cit., 24.
(63) In Quando il legislatore vuol fare il professore, cit., 1017.
(64) Così invece Xxxxxxxxx, Dei contratti in generale, in Com- mentario del codice civile, IV, t. 2, Torino, 19803, 35, ripreso da Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, 170.
(65) Nelle classicissime pagine delle Dottrinegeneralideldiritto civile, Xxxxxx, 00000, rist., 134.
(66) Naturalmente, a testimonianza della relatività di ogni qua- lificazione, tutto il discorso ivi imbastito salta se dovesse coltivarsi l’idea (di Gorla) che sia (non la causa) ma l’intento delle parti a giuridicizzare l’accordo, identificandolo come contrattuale. È que- sta una prospettiva, nella quale a venire in risalto è il ruolo della
volontà, che sposterebbe il focus, com’è facile intuire, sull’art. 1325, derubricando ad inutile l’art. 1321. Sull’accordo come entità che presuppone l’esistenza dell’intento e sulla sponda che, al riguardo offre l’art. 1355, nella prospettiva di una mancanza di serietà dell’intento, v. adesso Xxx Xxxxx, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit.,52.
(67) X. Xxxxxxx - Xxxxxxxx, Observations générales, in LPA,4 sept. 2015, n. 177, 17, ove, non a caso, si discorre di una “sorte de fourre-tout” nel quale saranno collocate le condizioni necessarie alla validità del contratto, diverse dal consenso delle parti, “réu- nies sous l’exigence “d’un contenu licite et certain”. Per un quadro riepilogativo v. poi Deshayes - Genicon - Laithier, Réforme du droit des contrats. Du régime générale et de la preuve des obligations, Paris, 2016, 168 ss.
(68) In La suppression de la cause par le projet d’ordonnance: la chose sans le mot?, in D., 2015, 1557.
non perde il suo dolcissimo profumo anche se la chiamiamo, in chiave di armonizzazione europea, con un altro nome. Se il contenuto, come scrive Xxxx Xxxxx (69), è l’oggetto del contratto qualificato dalla sua causa, cioè la prestazione combinata alla ragione che la giustifica, tecnicamente l’art. 1128 sta soltanto ritualizzando un enunciato del seguente tenore: è il contenuto nel suo complesso, cioè il regolamento, a perimetrare liceità ed eseguibilità del contratto, senza più riferire entrambe, come invece fa il nostro Codice, separatamente alla causa ed all’og- getto (70). Nella sostanza, ci viene fatto di osservare, il Code riformato ha operato un déplacement di quel controllo, che la causa effettuava a monte, spostan- dolo, alla maniera orchestrata dalla disciplina euro- pea sulle clausole abusive (Dir. 93/13), sul terreno del contenuto (71), legalizzando così un modello di garanzia della libertà contrattuale ri-centrato piutto- sto sulla tutela del “c.d. consenso interno” (72). Resta il fatto, come scrivono Xxxxxxxxx e Xxxxxx-Xxxxxxxx, che le idee, come i sentimenti, non obbediscono alle leggi: “dès lors, la cause ne peut pas être supprimée par la loi” (73). Tanto è vero che la causa, soppressa lessi- calmente, riaffiora terminologicamente camuffata da but e contre partie convenue, da substance dell’obligation essentielle a condition déterminante d’une partie, in una pluralità di luoghi normativi (artt. 1162, 1169, 1170 e 1186, comma 2 Code civil) (74), riflesso questo - notiamo - di una sinonimia che da sempre attraversa la sua storia, alimentando così la pre-comprensione diffusa di un suo esserci affidato ad un richiamo
implicito (75). È la tesi, da noi illustrata con dovizia da Xxxxx (76), di una causa non anonima epperò qui ne dit pas son nom.
Piccola chiosa. Se il contratto è l’accordo per come definito nell’art. 1321, norma questa che così cessa, per riflesso, di apparire come una sineddoche (77), ne dobbiamo arguire che una definizione sincopata di contratto, in cui l’accordo funge da “tessuto con- nettivo dell’intera regola contrattuale” (78), è desti- nata a trasformarlo in un “un osso di seppia”? (79) Qui il gioco di metafore che si rincorrono, da un contratto che si contrae o che si sta prosciugando (80), si farebbe intrigante: ma se causa ed oggetto, affin- ché un accordo rilevi giuridicamente come contrat- tuale (81), hanno da esservi, la quaestio posta ha un che, in realtà, di scopertamente retorico in quanto il gioco di prestigio del contenuto, se visto come minimo necessario, postula comunque l’identificazione del- l’una e dell’altro (82). Semmai è vero, come già Xxxxxxxx Xxxxxxx aveva intuito (83), che il recitare (pure da noi) di un “contenuto” metterebbe in forma un aggiornamento dell’art. 1418, comma 2 che, in tempi di tutela performativa di un consenso infor- mato e consapevole, mostra un’aura un po’ agée. Gli è infatti che la lotta contro le asimmetrie informa- tive e le diverse species di disparità contrattuale non passa più, come sappiamo, per la via di un consenso causalmente giustificato e vestito di una forma scritta (84). D’altra parte un accordo cum “causa” ed “oggetto” si può ben designare con l’appellativo di “contenuto” (85).
(69) In Il contratto, cit. 339, mentre Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 311 preferisce dire, in chiave falzeiana, che “ogni interesse umano giuridicamente rilevante ha sempre il suo necessario punto di riferimento oggettivo in un bene”.
(70) Simmetricamente, nel Code ancien, gli artt. 1128 e 1133.
(71) Così Castronovo, Un contratto per l’Europa, cit., XXVI e Lipari, Le categorie del diritto civile, cit., 169.
(72) Cfr. Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 319.
(73) In L’équilibreducontrat(clausesdeprix, clauseabusive...), in JCP 2015, 1209, N. 26. E v. succosamente Xxxxx Xxxxxx, Droit des obligations. 0 - Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, Xxxxx, 00000, 421 ss., 436 ss. e 478 ss.
(74) X. Xxxxxxxxx - Latina, La réforme du droit des obligations, cit. 233 ed xxxxxxx Xxxxxxx, Prime note sulla riforma del diritto dei contratti nell’ordinamento francese, in Riv. dir. civ., 2016, 440 s. e 445.
(75) V., per tutti, con un periodare che la dottrina francese riecheggia apertamente (cfr. Xxxxx - Fauvarque Xxxxxx - Gest, Aux sources de la réforme du droit des contrats, Paris, 2017, 168),
X. Xxxxxxxxxxxx, Problemi della causa e del tipo, in Trattato del contratto, diretto da Xxxxx, II, Regolamento, Milano, 2006, 105 s.
(76) In Une cause qui ne dit pas son nom. Il problema della causa del contratto e la riforma del terzo libro del Code civil, in Riv. dir. comm., 2017, 14 s.
(77) V., ottimizzando l’insegnamento di Xxxxxxx Xxxxx, Mona- xxxx, La sineddoche, Milano, 1984, 189.
(78) Cfr. G.B. Xxxxx, Xxxxxxxxx e accordo, cit. 64 (corsivo nel testo).
(79) Così elegantemente Xxxxxxxxxx, Un contratto per l’Eu- ropa, cit., XXVI.
(80) Per la prima x. Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 330, mentre la seconda si deve sempre alla penna di Xxxxxxxxxx, op. ult. cit., XXV.
(81) Per un accordo contrattuale, alla maniera dell’art. 1321, dove la causa è vista come “giustificazione del consenso” x. Xxxxxx, Le categorie del diritto civile, cit., 170.
(82) Nell’esempio, sopra fatto, di una nullità per impossibilità della prestazione, in quanto lo chalet nelle more della stipula è andato a fuoco, bisogna supporre, non a caso, che il contratto di vendita venga a perdere pure “la sua originaria ragion d’essere pratica, o causa” (così Breccia, sub art. 1325, cit., 234). Per Cataudella, I contratti. Parte generale, cit., 21, l’autoregolamento, se inquadrato “staticamente è il contenuto del contratto, visto dinamicamente è la funzione del contratto o ... la causa dello stesso”.
(83) In La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 319.
(84) Lo abbiamo esposto più ampiamente in Pagliantini, Itine- rari della causa: il Gorla nordamericano ed una critica recente, in Gorla, I problemi fondamentali del contratto, ed. italiana Napoli, 2017, 11 ss.
(85) Cfr. Cataudella, I contratti. Parte generale, cit., 23.
L’idea ricorsiva dell’art. 1321 come una norma esuberante: confutazione. Il mito della bilateralità come reciprocità dialogica, con una nozione di “contratto” che, per riflesso, si restringe
C’è notoriamente un trittico di obiezioni che ven- gono maneggiate a mo’ di contrappunto rispetto all’idea di un art. 1321 quale disposizione comandata a racchiudere la struttura minimale del con- tratto (86), alle corte il suo essere “l’intero” (87). Si adduce nell’ordine: A) l’esistenza, stante il dispo- sto dell’art. 1333, di un contratto senza accordo unitamente alla circostanza B) che il lemma oggetto non figura nell’art. 1321, unitamente al fatto C) che, visto il recitativo dell’art. 1341, commi 1 e 2, l’art. 1321 scopertamente si presta a passare come una norma “esuberante” (88). Xxxxx, non a caso, eti- chetta l’art. 1321 come una “definizione sbagliata” (89).
Sono tre obiezioni, robustamente argomentate, che una copiosa parte della dottrina, sulla scia (risaputa) dell’insegnamento di Xxxx Xxxxx, solitamente espone cercando di valorizzare l’idea, diffusa nell’e- sperienza di common law, di un contratto come bar- gain o quale promessa costitutiva di un affidamento (90). Epperò, proviamo a chiosare così, non è inconsueto, lo sappiamo, che il porre un’osservazione esatta induca talora a compiere delle deduzioni fallaci. Al riguardo, sunteggiando al massimo il discorso, si deve infatti osservare
sub A), l’immagine di un contratto che, siccome a promettere nell’art. 1333 è soltanto una parte, viene qui a formarsi unilateralmente, non ha in realtà come effetto di smontare l’art. 1321. L’art. 1333, come scrive lucidamente Xxxx Xxxxx (91), è un caso para- digmatico di “rilevanza civilistica del silenzio - assenso”, donde un contratto da considerarsi, nel silenzio dell’oblato beneficiario, come concluso in quanto si ha qui una legge che, siccome dalla proposta fatta ridondano soltanto dei vantaggi, carica piutto- sto di valore la protestatio dell’oblato, cioè il suo
rifiuto. Tecnicamente, messa tra parentesi la finzione di una dichiarazione tacita, il sintagma di un silenzio - assenso rende assai bene l’idea di una fattispecie dove normativamente il silenzio, sul presupposto che la promessa di un vantaggio genera un onere di parlare, è assimilato quoad effectum ad un consenso espresso. Scrive di Majo che, nell’art. 1333, non v’è traccia di un accordo nella versione di un “‘comune assentire’ su di un assetto di interessi”: ma questa absentia, come già ammoniva Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx (92), non giu- stifica la deduzione che l’art. 1333 non formalizzi un altro modello di accordo dove, siccome una manife- stazione del consenso non è necessaria, gli viene data la forma di una promessa abbinata, a motivo dell’u- nidirezionalità del vantaggio promesso, ad una “presa d’atto” dell’altro contraente (93). La bilateralità del dispositivo, pur a considerarla ivi anomala (94), non entra in crisi se si ha cura di considerare che una concorrenza di modelli governa, in realtà, il lemma accordo, con la “normale tecnica” di una proposta e di un’accettazione espressa seguita dal diverso “meccani- smo” di una proposta e di un mancato rifiuto quale sequenza cui la legge riconnette la valenza di un atto conclusivo (95). Bilateralità affievolita è il sintagma che pure talora affiora, quale versione dottrinale aggiornata di un procedimento di formazione di cui, di là dai nomina, non si dubita tuttavia che, in mancanza del rifiuto, “si compi[a] automatica- mente” (96). Dopo di che però, se la si intende rettamente, una formula (fortunata) come quella di “negozio unilaterale a rilievo bilaterale” (97), anzi- ché confutare l’essenzialità del binomio contratto - accordo, si ha piuttosto l’impressione che reagisca ad una certa idea di accordo, visto esclusivamente come idem placitum consensus. Idea classica, questa, senza dubbio, ma non un’idea egemone. Figurativamente, stiamo dicendo, è vero che il dispositivo di una “promessa unilaterale più rifiuto” vorrebbe liberare “il principio consensuale dal dogma dell’ac- cordo” (98). E tuttavia è questo un costrutto che regge se la nozione di accordo si appiattisce sul xxxx- vaccio di un concordare che vede la sua sostanza
(86) V. le belle pagine di Xxxxxxx, I profili della conclusione del contratto, Milano, 1968, 31 ss. e spec. 40 (“la via del contratto non passa necessariamente attraverso l’accordo delle parti [in quanto] l’esigenza di questo si pone solo in una determinata serie di casi”).
(87) Così Castronovo, Un contratto per l’Europa, cit., XXVI.
(88) Cfr. Del Prato, Requisiti del contratto. Art. 1325, cit., 45.
(89) Cfr. Sacco - (De Nova), Il contratto, cit. 59.
(90) V., xxxxxxx, G.B. Xxxxx, Xxxxxxxxx e accordo, cit., 53 ss.
(91) In Il contratto, cit., 202.
(92) In I contratti in generale, in Tratt. dir. civ., diretto da Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, 1966, 107.
(93) V. di Majo, L’accordo, cit., 7.
(94) Così Xxxxxxx, Essenzialità dell’accordo e del suo conte- nuto, cit., 133 sul presupposto che l’art. 1333, “contrariamente all’id quod plerumque accidit, ... presume il consenso dell’oblato”.
(95) V., esemplarmente, G. B. Xxxxx, Xxxxxxxxx e accordo, cit., 67.
(96) Così Xxxxxxxxx, L’accordo contrattuale, in Tratt. dir. priv., diretto da Xxxxxxx, Vol. XIII. Il Contratto in generale, T. 2, Torino, 2000, 132.
(97) Messa in forma ed elegantemente sviluppata, com’è risaputo, da X. Xxxxxxxxx, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 191 ss. A livello manualistico x. Xxxxxxx, Obbliga- zioni e contratti, Napoli12, 2006, 861 - 864.
(98) Così di Majo, L’accordo, cit., 8 e 10.
normativa rappresa, alla Savigny maniera, in una “volontà unica indivisa”: quando è intuitivo che il pensare ad un graduarsi dell’accordo ottimizza vice- versa l’idea che ogni sua tipologia manifestativa si interfacci con il genere di effetti prodotti (99). Non c’è, insomma, un’anomalia nel ritenere che il poste- rius degli effetti si rifragga sulla struttura dell’accordo e ne semplifichi la formazione, donde il suo sdoppiarsi, concettualizzato adesso da Roppo, in un accordo in senso forte (quando gli effetti siano bilaterali) ed in uno in senso debole (quando quegli stessi effetti risul- tino invece unilaterali: artt. 1272, 1273, 1936 c.c.). Su questa premessa, diventa poi, ci sembra, una questione di gusto giuridico sostenere che al binomio contratto - accordo dovrebbe preferirsi la coppia con- tratto - rapporto. Archiviata infatti la pre-compren- sione di una sua fissità strutturale, l’aversi un accordo che, quale concetto normativo e non naturalistico, si trova morfologicamente a riflettere l’intensità del- l’intrusione nella sfera giuridica altrui, produce come risultato che le promesse senza corrispettivo sono in realtà contrattuali e, a cascata, che il perimetro del- l’art. 1987, se il mancato rifiuto del promissario è elemento costitutivo dell’accordo, inizia laddove finisce quello, ben più a largo compasso, dell’art. 1333.
Ma proseguiamo.
sub B) nulla quaestio sul fatto che l’art. 1321 non menzioni testualmente l’oggetto così come è vero che gli usi normativi del sostantivo sono plurimi e tra di loro divergenti. Se l’idea di oggetto come cosa, consacrata nell’art. 1116 del codice abrogato, di per sé si sottrae al requisito della liceità, anche l’equa- zione oggetto/bene dovuto, nella misura in cui abbiamo un art. 1174 c.c. che fa della prestazione l’oggetto a sua volta dell’obbligazione, accredita un unicum che continua ad avere una sua ragion d’essere ove il contratto sia soltanto ad effetti obbliga- tori (100). Non è men vero, però, che l’art. 1321 mette in forma un atteggiarsi “dell’accordo rispetto al suo oggetto” scansionabile a mo’ di una “volontà finalizzata” perché è pur sempre il rapporto giuridico patrimoniale, a seconda dei casi bilaterale od unila- terale, reale od obbligatorio, l’oggetto - scopo verso cui
si indirizza la funzione voluta in comune dalle parti (101). Come scrive Xxxxxxxxxx, l’oggetto “annega nell’accordo” e, rispetto a questo, non esibi- sce una vera autonomia in quanto l’accordo, “se tale vuole essere”, cioè realizzabile (102), non può non avere un oggetto” (103).
sub C), continuando, è esatto che la predisposizione unilaterale bypassa l’accordo, nel senso che lo tiene in non cale per l’intero segmento di clausole che derogano (al) o integrano (il) diritto dispositivo. Inconfutabilmente l’art. 1341 stilizza un dispositivo che vede le c.g.c. vincolare sub specie di una cono- scibilità che, se risulta improntata ad un’ordinaria diligenza, viene normativamente equiparata alla conoscenza (104). Ergo, è vero dunque che l’art. 1341 contempla una porzione di contenuto (del contratto) collocata fuori dall’accordo, in quanto contenuto non negoziato “ma solo “conosciuto” e cioè, come accade pure nel par. 308 del BGB, “fatto oggetto di conoscenza” (105): non a caso, com’è risaputo, l’espunzione delle clausole dal testo contrattuale è, nell’economia dell’art. 1341, sanzione dell’inconoscibilità, non già di un difetto di accordo sulle stesse. E tuttavia, siccome nessun scambio può rea- lizzarsi senza che vi sia stato “un accordo di scam- bio” (106), cioè senza un’intesa su quella causa e su quell’oggetto che ne individuano il contenuto essen- ziale, neanche l’art. 1341 opacizza in realtà l’imma- gine di un’essenzialità dell’accordo perché possa aversi un contratto. Come scrive Xxxxxxx, “le modi- fiche [o le integrazioni] della disciplina dispositiva”, cioè detto ellitticamente il contenuto normativo del contratto, non figurano “tra i punti essenziali di riferimento dell’accordo”, costituendone piuttosto la parte “accessoria”, donde il corollario che, al ricor- rere di tutte le condizioni richieste dall’art. 1341 c.c., “tali modifiche prescindano dall’accordo” (107). Norma funzionale all’efficienza dell’attività d’im- presa, l’art. 1341 ha sì per soggetto un potere di predisposizione del professionista che la legge mette in forma sganciandolo dal negoziato ma per la ragione che, nella sua trama, non uno bensì due atti distinti vengono a figurarvi, alla predisposizione unilaterale facendo invero seguito (pure temporalmente) un
(99) A tacer del fatto che il preferire all’accordo la consecutio di una “promessa più repromissione” rischia di occultare un gioco di prestigio se, stando almeno all’opinione corrente, si dà poi per buono che la suddetta ripromissione, anziché a guisa di una “promessa seconda”, va tendenzialmente riguardata come una ““risposta” alla promessa prima” (Cfr. di Majo, L’accordo, cit., 7.).
(100) Cfr. Roppo, Il contratto, cit., 338.
(101) Così Xxxxxxx, Essenzialità dell’accordo e del suo conte- nuto, cit., 115 e Roppo, Il contratto, cit., 4.
(102) X. Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e prin- cipi, cit., 309.
(103) Cfr. Xxxxxxxxxx, Un contratto per l’Europa, cit., XXVI e nt. 30.
(104) V., nel senso del testo, Xxx Xxxxx, I regolamenti privati, Milano, 1988, 305 ss.
(105) Così, con dire esemplare, di Majo, L’accordo, cit., 10.
(106) Così Xxxxxxx, Essenzialità dell’accordo e del suo conte- nuto, cit., 129.
(107) Cfr. Xxxxxxx, op. ult. cit., 126.
accordo integrato ex iure alla prima “per effetto della conoscibilità (art. 1341, comma 1) o ... della sotto- scrizione di moduli o formulari predisposti (art. 1342, comma 2)” (108). Tradotto l’art. 1321 non è affatto una norma esuberante in quanto l’art. 1341 istituzio- nalizza una superfluità dell’accordo là dove il tema- tizzarlo, infeudato com’è questo interesse del professionista fuori dall’ambito della causa e dell’og- getto, avrebbe dell’antieconomico. Ergo è un’illu- sione ottica vedere nell’art. 1341 c.c. un atto unilaterale di eteronomia, “estraneo alla sfera di applicazione dell’art. 1322 c.c.” (109). D’altra parte non è forse vero che pure l’efficacia delle norme dispositive prescinde dall’accordo (art. 1374) e si riconnette, come anche la dottrina francese adesso certifica (110), alla conoscibilità della legge?
Risultato, a mettere adesso in fila A, B e C: nell’intelaiatura del codice vigente (artt. 1326 ss.), la tenuta dell’accordo è affidata al suo poli- cromatismo (1326, 1327, 1333) giacché, sebbene non ne sia data una definizione (111), sono det- tate per legge le condizioni officianti a che un fatto od un comportamento, oggettivamente e socialmente riconoscibili, xxxxxxxx come accordo contrattuale (112). Non c’è uno schema norma- tivo, in cui l’accordo sia calato, che abbia il monopolio o che si collochi in posizione di premi- nenza: l’intesa, che sia il risultato dello scambio di una proposta e di un’accettazione (art. 1326), tratteggia in realtà uno “schema semplificatorio”, lo dice bene Xxxxxx di Xxxx (113), che non impegna “la sostanza normativa dell’accordo” in quanto è piuttosto vero che comportamenti, rile- vanti come accordo secondo un certo dispositivo normativo, non si lasciano più riguardare come tali rispetto ad altre tipologie di contratto dove, in luogo di dichiarazioni, lo scambio (di beni o ser- vizi) avvenga per facta concludentia (vendite nei grandi magazzini, scambi informatici e
televendite). Scambi senza accordo (114), in un contesto siffatto, è formula sofisticata ma menti- toria in quanto ipostatizza un’essenzialità di quel “dialogo linguistico” che, già estraneo alla trama degli artt. 1327 e 1333, pure nella trama dell’art. 1326 si esibisce, in realtà, come attributo della trattativa e non dell’accordo (115): che di un dialogo è semmai l’epilogo. Come scrive Xxxxxxx (116), mai l’accordo è quel dialogo che si incontra in quell’art. 1326 stilizzante (non il ma) uno dei procedimenti formativi del contratto perché quel dialogo potrebbe pure terminare con un disaccordo: è sempre l’art. 1326, comma 5, del resto, a comandare che proposta ed accettazione siano conformi. Non è da escludere, naturalmente, che la dimensione di una “solitaria unilateralità di due decisioni”, giacché accordo sarebbe “il risul- tato discorsivo e conoscitivo che media i punti di vista delle parti” (117), ammicchi pure alla pre- comprensione (non soltanto) anglosassone secondo cui se due parti eseguono immediata- mente, siccome non necessitano più in executivis dell’aiuto del diritto, qui allora non avremmo più un contratto (118), difettando la sagoma di un qualche obbligo se latita qualsiasi spessore di “durata” (119). È un’idea intrigante che, nella misura in cui postula però (e giust’appunto) una nozione assai ristretta di contratto, fatica in realtà ad attecchire: non a caso, pure nel diritto francese riformato, nonostante l’autorevole lezione sulle vendite di consumo come operazioni perse nella notte del non droit (120), è pacifico che ogni “accord entre deux parties”, dunque un accordo nudo perché sprovvisto di un predicato che lo qualifichi come dialogico, “peut a priori être qualifie de contrat” (121). In Francia il contratto per auto- matico non è che sia reputato diverso, cioè per dirlo alla Sacco maniera, non è che narri “una storia” diversa dagli altri contratti. E la ragione, si
(108) Così Xxxxxxx, op. ult. cit.,129.
(109) In tal senso Orlandi, Le condizioni generali di contratto come fonte secondaria, in Xxxxxxx - Miletti (a cura di), Tradizione civilistica e complessità del sistema. Valutazioni storiche e pro- spettive della parte generale del contratto, Milano, 2006, 370.
(110) X. Xxxxx Xxxxxx, Droitdes obligations, cit., 259 s.
(111) Come rimarcato da Xxxxxxxxx, L’accordo contrattuale, cit., 4 e 16.
(112) X. Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e prin- cipi, cit., 304.
(113) In L’accordo, cit., 15.
(114) X. Xxxx, Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 347 ss.
(115) V. (da subito) Oppo, Disumanizzazione del contratto?, in Riv. dir. civ., 1998, I, 525 ss. Nella letteratura francese è stentorea Xxxxx Xxxxxx, Droit des obligations, cit. 257 (la “négociation
n’est ni une condition d’existence ni une condition de validité du contrat”).
(116) In Essenzialità del’accordo e del suo contenuto, cit., 117.
(117) Così Xxxx, Scambi senza accordo, cit., 349.
(118) X. Xxxxxx, Review of Xxxxxx Xxxxx-Xxxxxx, Les Obliga- tions, in Electronic Journal of Comparative Law, 2005.
(119) Delle vendite “concluse in un attimo, tramite traditio della cosa e pagamento effettivo del prezzo, … sono impensabili senza questi due elementi materiali”: così. Carbonnier, Flexible droit7, (1992), trad. it. a cura di A. De Vita, Milano, 1997, 301 s.
(120) Queste “innumerevoli vendite manuali”, scrive Carbon- nier, op. loc. ult. cit., “il diritto le comprende in massa, mettendosi al posto del venditore”. Rispetto all’individuo, la vendita “entra nella zona crepuscolare della macchina e del gesto meccanico”. Nella letteratura italiana sono intriganti le classiche pagine di Xxxxxxx, Commercio e servizi, Bologna, 1988. 304.
(121) Cfr. Xxxxx Xxxxxx, Droit des obligations, cit., 171.
fa notare, è semplice: due esecuzioni reciproche, oltre ad uno scambio puro, sottendono prima una comune decisione di effettuarlo (122), non fos- s’altro perché, se non c’è contratto senza accordo ma questo nel contempo c’è in quanto dialogo, il paradosso consequenziale è quello di un perimetro del “contratto” che svapora per la concorrenza di quelle variae causarum figurae che il nostro art. 1173 istituzionalizza come terza fonte delle obbli- gazioni (mentre in Francia la tassonomia è affare dell’art. 1100, comma 1). Insomma, la “rottura” di due atti unilaterali e binari, per i quali basterebbe la capacità naturale (art. 2046 c.c.), con una disciplina del contratto che ivi verrebbe perciò ad applicarsi soltanto per via analogica, sa tanto di una finzione che neppure il volontarismo d’Ol- tralpe avalla (123). Anche per il giurista francese, che pure non disconosce l’esistenza di un accordo senza contractus (124), l’asetticità degli scambi di massa, basati su di un esporre ed uno scegliere la merce, non vanifica perciò l’equazione contrat - accord, correndo tra i due termini un “nesso di implicazione assoluta e necessaria” (125). Lungi dallo sparigliare, la sostituzione della lingua con una icona telematica certifica semmai che, ai fini dell’accordo, basta “un mezzo espressivo funzio- nale al risultato” (126). L’accordo, parafrasando Xxxxxxxxx che riferiva la metafora al contratto, “è duro a morire” (127), se non gli posponiamo un aggettivo che lo specifichi: e negli scambi di massa, con una proposta ferma immodificabile ed un prezzo fisso predeterminato che assicura l’unifor- mità di trattamento, la volontà delle parti non è meno “centrale” di quanto lo sia nel contratto stipulato “mediante dichiarazione” (128). Non è forse vero, d’altro canto, che la strategia europea di tutela, in sede di formazione del consenso, del contraente debole si dipana per una via che, lungi
dal contemplare delle tecniche ad hoc, lascia immutata la normativa governante i singoli dispo- sitivi di perfezionamento dell’accordo (art. 19, comma 2, lett. a, c. cons.)? La “cosa”, osserva Xxxxx, “interviene in ogni caso”, ergo non ha senso “contrapporre la parola alla cosa”, quest’ul- tima rilevando nella “speciale ipotesi del con- tratto parlato” (129), figura in declino perché “il confronto”, schiacciante, “è a favore dello scambio senza parole, solo apparentemente [però] impersonale” (130).
Nella riforma francese del resto, e così chiudiamo, i contratti stipulati “par voie électronique” basculano, senza tanti infingimenti, tra una proposta (“offre”: art. 1127-1) ed un’accettazione (“acceptation”: art. 1127- 2), segno che due atti “muti” non decontrattualizzano. Il dibattito sulla data di conclusione del contratto elettronico, se operi quell’art. 1121 che riconnette il perfezionarsi dei contratti alla teoria della ricezione, ergo un contratto si dà “dès que l’acceptation parvient à l’offrant”, ovvero se debba invece farsi questione della regola singulare di cui all’art. 1127-2, donde (ed all’opposto) una formazione del contratto elettronico postergata “à la mise à disposition de l’accusé de réception émanant de l’offrant” (131), è paradigmatica di un’in- tonazione comunque classica del discorso. Se da un lato infatti i contratti elettronici sono riguardati come una fattispecie potenzialmente assoggettabile ad un processo di “formation original”, non è men vero dall’altro che la loro specialità rimane tutta rappresa all’interno dell’accordo quale stigma di bilateralità del contratto. In italiano, e prendiamo commiato, non è diverso: basta prendere le mosse, se l’accordo è criterio di identificazione normativa del contratto, da una nozione di accordo a largo spettro onde inclu- dervi “tutte le modalità previste dalle diverse regole di formazione del contratto e di determinazione del suo contenuto” (132).
(122) Non foss’altro perché ogni congedo dall’accordo “mine- rebbe alle fondamenta la categoria stessa del contratto, determi- nandone la dissoluzione”: così Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit., 330.
(123) Forse perché, in quell’esperienza, ha più fascino l’idea che il dialogo non monopolizzi il linguaggio in quanto pure un atto muto stilizzerebbe “ciò che Xxxxxxx chiama l’originario e intra- scendibile appartenere al linguaggio” (così X. Xxxxxxxxx, Diritto e linguaggio. Variazioni sul “dirittomuto”, in Eur. dir. priv., 1999, 146 s.). Ergo gli scambi di massa non si declassano ad un nulla fenomenologico.
(124) Arrivando a dire che l’accordo è il denominatore comune “entre acte conventionel et contrat”: Chantepie - Latina, La réforme du droit des obligation, cit. 62. Ritorneremo sulla que- stione in un saggio, di prossima pubblicazione, dal titolo Contratto e contrat: il modello italiano (artt. 1321 e 1325 c.c.) e quello francese riformato (artt. 1101 e 1108 Code civil).
(125) Così Xxxxxxx, La conclusione del contratto tra regole e principi, cit. 297. È un nesso, lo notiamo di passata, che neppure la traditio dei contratti reali altera, se si prende contezza che la consegna ivi rileva da “conferma definitiva e irreversibile [dell’] accordo” (333). Consegna, dunque, come componente.
(126) Cfr. Oppo, Disumanizzazione del contratto?, cit., 529 s.
(127) In Proprietà e lavoro nell’impresa, in Riv. giur. lav., 1954, I, 142.
(128) Sacco, Il contratto, cit. 333.
(129) Xxxxx, op. ult. cit., 334, nt. 44.
(130) Sacco, op. ult. cit., 335.
(131) Così Deshayes - Genicon - Laithier, Réforme du droit des contrats, cit., 167.
(132) Così Xx Xxxxxxxx, Xx checosa parliamo quandoparliamo di accordo contrattuale, in Studi in onore di C.M. Bianca, III, Milano, 2006,194.
Vendita di animali
Cassazione Civile, Sez. II, 25 settembre 2018, n. 22728 - Pres. Matera - Rel. Lombardo - G.C. c. Animali Amici di M.T. & C. S.a.s.
La compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del consumo di cui al D.Lgs. n. 206/2005, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto.
Nella compravendita di animali da compagnia o d’affezione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosavendutaè soggetta, ai sensidell’art. 132 c. cons., al termine di decadenzadi duemesidalla data di scoperta del difetto.
Dagli artt. 135, comma 2, c. cons. e 1469 bis c.c. è desumibile l’esistenza, nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, di una chiara preferenza del legislatore per la normativa del Codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al contratto in generale che alla compravendita): nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del Codice del consumo (artt. 128 ss.), potendosi applicare la disciplina del Codice civile solo per quanto non previsto dal Codice del consumo.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. |
Difforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. |
La Corte (omissis)
Motivi della decisione
1. - Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 c.p. c., n. 3) la violazione dell’art. 1496 c.c. - D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 128 e 135 (c.d. codice del consumo), per avere il Tribunale ritenuto che il detto art. 1496 c.c., nel disciplinare la “Vendita di animali”, derogasse alla disci- plina dettata dal codice del consumo e ne escludesse l’applicabilità; e per avere, conseguentemente, ritenuto che il termine di decadenza per la denunzia dei vizi della cosa venduta fosse quello - previsto dall’art. 1495 c.c. - di otto giorni dalla scoperta del vizio, piuttosto che quello di due mesi previsto dall’art. 132 del codice del consumo. Secondo il ricorrente, l’animale d’affezione andrebbe ricompreso nell’ampia nozione di “bene di consumo” di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 128, e l’acquirente di un tale animale dovrebbe qualificarsi “consumatore” ove l’acquisto - come nel caso di specie - non sia collegato all’esercizio di attività imprenditoriale o professionale; pertanto, dovrebbe trovare piena applicazione la disci- plina posta dal codice del consumo a tutela del consuma- tore, e non quella - meno garantista - prevista dal codice civile.
2. - La censura è fondata nei termini che seguono.
2.1. - L’invocata applicazione del codice del consumo esige l’esame della nozione di “bene di consumo” e, prima ancora, della nozione di “bene”, quale oggetto della nego- ziazione giuridica.
In termini generali, col termine “bene”, nel mondo del diritto, si intende l’oggetto della tutela giuridica.
Un “bene” può essere tutelato dal diritto nell’interesse generale della collettività e, quindi, a prescindere dal riconoscimento a taluno di un diritto soggettivo su di esso (si tratta, essenzialmente, della tutela apprestata dal diritto pubblico, tutela che taluna dottrina denomina “obiettiva”). Nel campo del diritto privato, tuttavia, per “bene” si intende l’oggetto di un diritto soggettivo, o di situazioni giuridiche soggettive; in tal caso, il bene, quale “oggetto” del diritto, costituisce il correlato logico-giuri- dico del “soggetto” del diritto medesimo.
Il codice civile, all’art. 810, fornisce la nozione di beni, definendoli come “le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Dal punto di vista ontologico, i concetti di “bene” (bonum) e di “cosa” (res) sono diversi e non sovrapponibili.
La cosa, intesa come una qualsiasi porzione del mondo esterno, è di per sé un’entità naturale, pregiuridica; essa diventa “bene giuridico” quando, per il fatto di essere suscettibile di utilizzazione da parte dell’uomo e di assu- mere “valore economico”, viene presa in considerazione dal diritto, sì da divenire oggetto di rapporti giuridici. In questo senso, non tutte le cose sono beni per il diritto, tali non potendo essere le cose inaccessibili e le res communes omnium.
D’altra parte, l’ordinamento giuridico tutela beni che non sono cose in senso naturalistico (come le attività umane e, in genere, i beni c.d. immateriali, come le opere dell’ingegno).
Nonostante che dal punto di vista naturalistico il concetto di “cosa” non coincida con quello di “bene”, nel diritto positivo i due concetti vengono fatti coincidere. Il codice
civile, infatti, come si è veduto, identifica i beni con le cose che possono formare oggetto di diritti e, comunque, uti- lizza i termini “beni” e “cose” in modo promiscuo. Per questo, la dottrina, sulla scia della tradizione romanistica, distingue tra beni o cose “materiali” (res corporales) e beni o cose “immateriali” (res incorporales).
2.2. - Nel campo dell’esperienza giuridica vanno conside- rati come “cose” anche gli esseri viventi suscettibili di utilizzazione da parte dell’uomo: non solo i vegetali, ma anche gli animali. L’uomo ha sempre manifestato verso gli animali, in quanto esseri senzienti, un senso di pietà e di protezione, quando non anche di affetto. Da qui l’esistenza, in tutte le epoche storiche, di precetti giuridici, essenzialmente di natura pubblicistica, posti a salvaguardia e a tutela degli animali (basti pensare, subito dopo l’unificazione dell’Italia, al codice Zanardelli, che puniva gli atti crudeli, le sevizie e i maltrattamenti verso gli animali; fino alla più recente legge 20 luglio 2004, n. 189, che ha inserito nel libro II del vigente codice penale il nuovo “Titolo IX-bis”, denomi- nato “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”, configurando, a tutela degli animali, una apposita serie di delitti in luogo delle precedenti contravvenzioni).
Non tutti gli animali, però, assumono per l’uomo lo stesso significato ed hanno lo stesso rilievo.
Com’è noto, a parte gli animali selvatici (i quali ricevono protezione attraverso la legislazione che regolamenta la caccia e individua le specie “protette”), gli animali addo- mesticati dall’uomo sono tradizionalmente distinti in ani- mali “da reddito”, utilizzati per il lavoro o per la produzione (carni, latte, uova, lana, pelli, etc.), e animali “da compa- gnia” (o “d’affezione”), per tali intendendosi “ogni ani- male tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari” (D.P.C.M. 28 febbraio 2003, art. 1).
Ed il crescente ruolo che negli ultimi decenni hanno assunto gli animali da compagnia nella società contemporanea ha indotto uno speciale rafforzamento della loro tutela giuri- dica; rafforzamento attuato, principalmente, con la l. 14 agosto 1991, n. 281, (c.d. “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”)e con la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, stipulata a Strasburgo il 13 novembre 1987 e ratificata in Italia con la L. 4 novembre 2010 n. 201.
Va tuttavia precisato che la disciplina pubblicistica che appresta tutela agli animali non rende comunque questi ultimi titolari di diritti.
L’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti per la semplice ragione che è privo della c.d. “capacità giuridica” (che si definisce, appunto, come la capacità di essere soggetti di diritti e di obblighi); capacità che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. L’animale, perciò, è solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica.
In questo senso, la comune espressione “diritti degli ani- mali” va intesa in senso atecnico, agiuridico, con essa intendendosi riferire, non già alla (inconfigurabile) tito- larità di diritti soggettivi da parte degli animali, ma al
complesso della tutela giuridica che il diritto pubblico appresta in difesa di quegli esseri viventi.
2.3. - Si è detto che l’art. 810 c.c., definisce i beni come “le cose che possono formare oggetto di diritti”; e il diritto civile indubbiamente, sulla scia della tradizione romani- stica, considera gli animali come mere “cose mobili”, beni giuridici che possono costituire “oggetto” di diritti reali (cfr. artt. 812, 816, 820, 923, 924, 925, 926, 994, 1160, 1161 e 2052 c.c.) ovvero di rapporti negoziali (cfr. artt. 1496, 1641, 1642, 1643, 1644 e 1645 c.c.). Gli animali, perciò, possono costituire oggetto di compra- vendita (art. 1470 c.c.); e lo stesso codice civile disciplina specificamente la compravendita di animali nell’apposita fattispecie di cui all’art. 1496 c.c. (denominata appunto “Vendita di animali”). La diffusione degli animali da compagnia in fasce sempre più larghe di popolazione ha dato luogo, in tempi recenti, ad un fenomeno commerciale di non poco rilievo; e si sono pro- spettate, con riferimento al commercio di animali d’affezione (su cui specificamente l’art. 8 della richiamata Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia), problematiche di tutela giuridica un tempo ignote.
2.4. - Premesso quanto sopra, tornando all’esame di quanto rileva ai fini della decisione del ricorso, si tratta di stabilire se l’animale, e in particolare l’animale d’affezione, oltre a costituire bene giuridico possibile oggetto del contratto di compravendita, possa essere qualificato anche come “bene di consumo” ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 128. Il giudice di appello ha ritenuto che la normativa prevista dal codice del consumo non possa essere applicata in materia di compravendita di animali, trattandosi di un contratto che trova specifica disciplina nell’art. 1496 c.c., laddove è stabilito che “Nella vendita di animali la garan- zia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali. Se neppure questi dispongono, si osservano le norme che precedono”. Secondo il Tribunale, in assenza di leggi speciali e di usi locali, non rimarrebbe che appli- care la disciplina prevista dal codice civile in materia di vizi della cosa venduta (art. 1490 c.c. e segg.) e, in parti- colare, il termine di decadenza (di otto giorni) previsto dall’art. 1495 c.c., per la denunzia del vizio.
La conclusione cui è pervenuto il giudice di merito non è conforme a diritto.
È noto che la disciplina codicistica della compravendita è stata profondamente incisa dalla normativa sopravvenuta introdotta a tutela del consumatore; a partire dal D.Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24, che, recependo le direttive europee in materia di beni di consumo, ha inserito nuovi articoli nel codice civile (artt. 1519-bis c.c. e segg.) finalizzati a garantire al consumatore un maggiore grado di protezione; fino al successivo D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. codice del consumo), che ha stralciato le nuove disposi- zioni dal codice civile per collocarle nell’ambito di una autonoma legge organica posta a tutela del consumatore. Xxxxxx, non è dubbio che l’interpretazione dell’art. 1496
c.c. (su cui Xxxx., Sez. 3, n. 604 del 6 marzo 1971, relati- vamente alla gerarchia tra le norme applicabili) non può rimanere cristallizzata al tempo della adozione del codice civile, ma deve tener conto dell’evoluzione del sistema
normativo nel suo complesso e, in particolare, della sopravvenuta disciplina posta a tutela del consumatore e del suo riflesso sulle norme codicistiche che regolano la compravendita.
Il significato di una determinata norma, infatti, non si riduce a quello che discende dagli enunciati linguistici che compongono la disposizione legislativa, ma dipende anche dal significato delle altre norme del sistema con le quali essa entra in relazione; dipende anche dal significato delle norme sopravvenute con le quali la norma da interpretare interagisce. Perciò, l’attività interpretativa è, di per sé, “sistematica” e, proprio perché sistematica, è anche “ade- guatrice”, nel senso che è aperta al mutamento, consen- tendo così l’evoluzione dell’ordinamento giuridico.
Tenendo presente quanto appena detto, va peraltro con- siderato che l’art. 135, comma 2, del codice del consumo stabilisce che, in tema di contratto di vendita, le disposi- zioni del codice civile si applicano “per quanto non previ- sto dal presente titolo”; e che l’art. 1469-bis c.c., introdotto dall’art. 142 del codice del consumo, stabilisce che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “Dei contratti in generale” “si applicano ai contratti del consu- matore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore”.
Esiste, dunque, nell’attuale assetto normativo della disci- plina della compravendita, una chiara preferenza del legi- slatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” asse- gnato alla disciplina codicistica (relativa tanto al con- tratto in generale che alla compravendita): nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzi- tutto la disciplina del codice del consumo (art. 128 e segg.), potendosi applicare la disciplina del codice civile solo per quanto non previsto dal codice del consumo.
È necessario tuttavia che sussistano i presupposti per l’applicazione del codice del consumo, secondo le catego- rie da esso predeterminate.
A tal fine, va osservato che l’art. 128 del codice del consumo stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel capo I del titolo III dello stesso codice dal titolo “Della vendita dei beni di consumo”, per “bene di consumo” si intende “qualsiasi bene mobile” e per “venditore” si intende “qualsiasi persona fisica o giu- ridica pubblica o privata che, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, utilizza i contratti di cui al comma 1” (contratti di vendita, permuta, som- ministrazione, appalto etc.).
Ai sensi dell’art. 3 del codice del consumo, per “consuma- tore” si intende poi “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigia- nale o professionale eventualmente svolta”. E, in propo- sito, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha spiegato che la qualifica di “consumatore” di cui al D.Lgs. 6 settem- bre 2005, n. 206, art. 3, - rilevante ai fini della identifica- zione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui all’art. 33, del citato X.Xxx. - spetta alle sole persone fisiche allorché concludano un contratto per la soddisfa- zione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata,
dovendosi invece considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (Cass., Sez. 6 - 3, n. 5705 del 12 marzo 2014; Sez. 6 - 1, n. 21763 del 23 settembre
2013).
Orbene, considerate le ampie nozioni di “consumatore”, di “bene di consumo” e di “venditore” adottate dal codice del consumo, non può dubitarsi che la persona fisica che acquista un animale da compagnia (o d’affezione), per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, vada qualificato a tutti gli effetti “consuma- tore”; e che vada qualificato “venditore”, ai sensi del codice del consumo, chi nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale venda un animale da compagnia; quest’ultimo, peraltro, quale “cosa mobile” in senso giuridico, costituisce “bene di consumo”.
In altri termini, considerato che la disciplina del codice del consumo è prevalente - laddove è applicabile - su quella del codice civile e considerato che, alla stregua di quanto sopra osservato, la compravendita di animali da compagnia non è, di per sé, esclusa dalla disciplina del codice del consumo, non v’è ragione per negare all’acquirente di un animale da compagnia la maggior tutela riconosciuta da tale ultimo codice quando risultino sussistenti i presupposti per la sua applicabilità.
E la maggior tutela, nel caso oggetto della presente con- troversia (con riferimento alla quaestio iuris al centro della materia del contendere), si coglie con riferimento al dispo- sto dell’art. 132 del codice del consumo, che, derogando alla disciplina dell’art. 1495 c.c., stabilisce che il consuma- tore decade dalla garanzia per i vizi della cosa venduta, “se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto”. A tutela del consumatore - ove un consumatore vi sia - deve applicarsi, dunque, non il breve termine di decadenza di otto giorni dalla scoperta del vizio previsto dall’art. 1495 c.c., ma il più lungo termine di due mesi dalla scoperta previsto dall’art. 132 del codice del consumo.
Avendo la sentenza impugnata escluso l’applicabilità del- l’art. 132 del codice del consumo, senza verificare neppure la possibilità di qualificare l’attore quale “consumatore”, essa va cassata con rinvio.
Il giudice di rinvio, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., dovrà conformarsi ai seguenti principi di diritto:
- “La compravendita di animali da compagnia o d’affe- zione, ove l’acquisto sia avvenuto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività impren- ditoriale o professionale eventualmente esercitata dal compratore, è regolata dalle norme del codice del con- sumo, salva l’applicazione delle norme del codice civile per quanto non previsto”;
- “Nella compravendita di animali da compagnia o d’affe- zione, ove l’acquirente sia un consumatore, la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 del codice del consumo, al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto”.
3. - Il secondo motivo, col quale si deduce (ex art. 360 c.p.c.,
n. 3) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1495 c.c.,
in relazione all’accertamento del momento in cui l’attore ha acquisito conoscenza del vizio redibitorio, rimane assorbito.
4. - In definitiva, va accolto il primo motivo di ricorso; va dichiarato assorbito il secondo; la sentenza impugnata va
xxxxxxx con rinvio al Tribunale di Ravenna in persona di altro magistrato, il quale si conformerà ai principi di diritto sopra enunciati.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
L’applicabilità della disciplina sulla vendita dei beni di consumo alla vendita di animali
di Xxxxx Xxxxxxxx (*)
Con la pronuncia 25 settembre 2018, n. 22728 la Corte di cassazione si è per la prima volta occupata, risolvendola in senso positivo, della questione dell’applicabilità ai contratti di vendita di animali della disciplina sulla vendita di beni di consumo di cui agli artt. 128 ss. c. cons. Nel motivare la propria decisione la Suprema Corte ha, inoltre, teorizzato l’esistenza di “una chiara preferenza del legislatore” per la normativa in discorso e di un conseguente ruolo “sussidiario” della disciplina del Codice civile relativa tanto al contratto in generale quanto alla compravendita: in tema di vendita di beni di consumo, quindi, si dovrebbe applicare innanzitutto la disciplina di derivazione europea, mentre quella del Codice civile potrebbe trovare spazio solamente per quanto non previsto dagli artt. 128 ss. c. cons.
Il caso
La decisione in commento (1) trae origine dal con- tratto di compravendita di un cane intercorso tra una società ed una persona fisica che, qualche tempo dopo l’acquisto, tramite l’esecuzione di un esame TAC scopriva la presenza nell’animale di una grave cardiopatia congenita. L’acquirente provvedeva però a comunicare tale circostanza alla controparte sola- mente nove giorni dopo l’esame, inviando una lettera che giungeva a destinazione dopo ulteriori cinque giorni. Quando successivamente egli adiva le vie giudiziarie chiedendo la parziale restituzione del prezzo e il risarcimento del danno, quindi, vedeva le proprie pretese respinte, tanto in primo quanto in secondo grado, per non avere rispettato il termine di otto giorni dalla scoperta previsto, a pena di deca- denza, dall’art. 1495, comma 1, x.x. xxx xx xxxxxxxx xxx xxxx xxxxx xxxx venduta.
La soluzione della Suprema Corte
L’esito dei due giudizi di merito viene ribaltato in sede di legittimità sulla scorta del riconoscimento dell’ap- plicabilità, alla vendita di animali, della disciplina
sulla vendita dei beni di consumo di cui agli artt. 128 ss. c. cons: l’art. 132, comma 2, c. cons. infatti prevede che i vizi - rectius,i “difetti di conformità” - del bene debbano essere denunciati al venditore entro due mesi dalla scoperta, ovverosia entro un termine assai più lungo di quello di otto giorni previsto dal- l’art. 1495, comma 1, c.c. e che nella fattispecie in esame era stato ampiamente rispettato dall’acquirente.
Questa soluzione era stata rigettata tanto dal Giudice di Pace quanto dal Tribunale in quanto ritenuta contrastante con l’art. 1496 c.c., il quale notoria- mente richiama, nel disciplinare la garanzia del com- pratore di un animale viziato, tre ordini di fonti normative: in primo luogo e ove esistano, le leggi speciali applicabili alla fattispecie concreta; in man- canza di tali leggi, gli usi del luogo di conclusione del contratto, che comunque si ritengono valere nei limiti in cui non contrastino con l’ordine pubblico e il buon costume; solo in mancanza dei suddetti usi, infine, le norme del Codice civile - non soltanto relative alla vendita - rilevanti nel caso di specie (2). Nell’argomentare la propria decisione di segno con- trario, la Corte di cassazione evidenzia innanzitutto che gli animali sono considerati “beni” (mobili) da
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Reperibile nella banca dati Pluris e già commentata da Pittalis, L’animale domestico è un “bene di consumo”?, in Quo- tidiano giuridico Pluris, 1° ottobre 2018, 2 ss.
(2) Su questi aspetti v., tra gli altri, Luminoso, La vendita, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2014, 502 s.; C.M. Xxxxxx, La venditaelapermuta, in Trattato Xxxxxxxx, XX xx., XX, Xxxxxx, 0000, 926 ss.; Musy, La vendita di animali, in Musy - Xxxxxxx, La vendita, in Trattato Sacco, Torino, 2006, 109 ss.; Xxxxxxxxx, La garanzia per i vizi della cosa venduta. Artt. 1490-1499, in Commentario
una nutrita serie di disposizioni del Codice civile (3) e sono, quindi, senz’altro suscettibili di rientrare nel- l’ampia definizione di “bene di consumo” offerta dall’art. 128, comma 2, c. cons., che al riguardo parla, per l’appunto, di “qualsiasi bene mobile”.
Per quanto poi concerne le obiezioni sollevate dai giudici di merito sulla base dell’art. 1496 c.c., la Suprema Corte ritiene che le stesse debbano essere superate interpretando tale disposizione alla luce del principio, desumibile dagli artt. 135, comma 0,
x. xxxx. x 0000 xxx x.x., xxxxxxx cui “esiste [...] nell’attuale assetto normativo della disciplina della compravendita, una chiara preferenza del legisla- tore per la normativa del Codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo ‘sus- sidiario’ assegnato alla disciplina codicistica (rela- tiva tanto al contratto in generale che alla compravendita): nel senso che, in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del Codice del consumo (artt. 128 segg.), potendosi applicare la disciplina del Codice civile solo per quanto non previsto dal Codice del consumo” (4).
Perché la disciplina consumeristica sia applicabile alla vendita di animali è chiaramente necessario, come precisa la S.C., che i contraenti di volta in volta considerati rivestano le qualifiche soggettive all’uopo richieste dalla legge e, in particolare, che l’acquirente sia un “consumatore” ai sensi dell’art. 3, lett. a),
c. cons., vale a dire una “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, com- merciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Si tratta di una qualifica che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale (ribadito pure dalla pronuncia in commento), spetta solamente alle persone fisiche che concludono il contratto per soddisfare esigenze della vita quotidiana di natura personale o familiare, estranee all’esercizio della pro- pria attività professionale o imprenditoriale (5) non- ché a scopi anche soltanto connessi con l’attività medesima (6): ciò che per l’appunto può dirsi, secondo Cass. n. 22728/2018, anche di colui che acquista un
c.d. animale da compagnia (o d’affezione), categoria contemplata da diversi provvedimenti normativi quali, per esempio, la L. 14 agosto 1991, n. 281 (“Legge quadro in materia di animali di affezione e
Xxxxxxxxxxx, Milano, 2012, 175 ss.; Greco - Cottino, Della vendita. Art. 1470-1547, in Commentario Scialoja-Branca, II ed., Bologna- Roma, 1981, 295 ss.; Xxxxxxxx - Onnis Cugia, Art. 1496 - Vendita di animali, in Xxxxxxxxx - Luminoso - Fauceglia (a cura di), Codice della vendita, III ed., Milano, 2018, 883 ss.
(3) V., per esempio, gli artt. 820, 923, 924, 925, 926, 994, 1641, 1642, 1643, 1644, 1645 c.c. Ciò precisato, la S.C. ritiene neces- sario sottolineare che da sempre gli animali, in quanto “esseri senzienti”, beneficiano di una tutela particolare rispetto alle altre cose (inanimate), predisposta da una consistente disciplina pub- blicistica che “non rende comunque questi ultimi titolari di diritti. L’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti per la semplice ragione che è privo della c.d. “capacità giuridica” (che si definisce, appunto, come la capacità di essere soggetti di diritti e di obblighi); capacità che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. L’animale, perciò, è solo il beneficiario della tutela apprestata dal diritto e non il titolare di un diritto alla tutela giuridica. In questo senso, la comune espressione “diritti degli animali” va intesa in senso atecnico, agiuridico, con essa intendendosi riferire, non già alla (inconfigu- rabile) titolarità di diritti soggettivi da parte degli animali, ma al complesso della tutela giuridica che il diritto pubblico appresta in difesa di quegli esseri viventi”. Pur non essendo possibile soffer- marsi sull’argomento nell’economia di questo lavoro, va eviden- ziato come da diverso tempo si discuta circa l’opportunità di mantenere questo stato dell’arte e si avanzino varie proposte dirette ad introdurre un trattamento normativo degli animali che li avvicini maggiormente alle persone piuttosto che alle cose: al riguardo v., ex multis, Xxxxxx, Il diritto e gli animali: note gius- privatistiche, Torino, 2012; Castignone - Lombardi Vallauri (a cura di), La questione animale, in Trattato di biodiritto Rodotà- Zatti, Milano, 2012; Gambaro, I beni, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2012, 213 ss.; Pittalis, L’animale domestico, cit., 5 ss.
(4) Xxxxxx, invero, pleonastico l’ulteriore passaggio della pro- nuncia in cui si afferma che “non è dubbio che l’interpretazione dell’art. 1496 c.c. [...] non può rimanere cristallizzata al tempo della adozione del codice civile, ma deve tener conto dell’evoluzione del sistema normativo nel suo complesso e, in particolare, della sopravvenuta disciplina posta a tutela del consumatore e del
suo riflesso sulle norme codicistiche che regolano la compraven- dita. Il significato di una determinata norma, infatti, non si riduce a quello che discende dagli enunciati linguistici che compongono la disposizione legislativa, ma dipende anche dal significato delle altre norme del sistema con le quali essa entra in relazione; dipende anche dal significato delle norme sopravvenute con le quali la norma da interpretare interagisce. Perciò, l’attività inter- pretativa è, di per sé, “sistematica” e, proprio perché sistematica, è anche “adeguatrice”, nel senso che è aperta al mutamento, consentendo così l’evoluzione dell’ordinamento giuridico”.
(5) V., fra le altre, Cass. 12 marzo 2014, n. 5705, ord.; Cass. 8 giugno 2007, n. 13377; Cass. 14 luglio 0000, x. 00000, xxx.
(6) Secondo la giurisprudenza, ad escludere la qualifica di consumatore è infatti sufficiente l’aver concluso il contratto per uno scopo anche solo accessorio o strumentale, ma comunque collegato - e quindi non completamente “estraneo” - all’attività professionale o imprenditoriale svolta, seppure non rientrante nell’ambito dell’esercizio in senso stretto dell’attività medesima (v., ex multis, Cass. 31 luglio 0000, x. 00000, xxx.; Cass. 15 luglio 2013, n. 11773; Cass. 9 giugno 0000, x. 00000, xxx.; Cass. 5 giugno 0000, x. 00000, xxx.; Cass. 8 giugno 2007, n. 13377): in questa prospettiva si ritiene, per esemplificare, che un rivenditore di automobili non possa essere considerato consumatore non solo con riguardo ai contratti di acquisto dei veicoli che poi riven- derà alla sua clientela, ma anche in relazione al contratto con cui egli acquisti un computer o l’arredamento da utilizzare nel proprio ufficio. Tale impostazione, peraltro, è stata da più parti criticata, in quanto eccessivamente rigida nonché incapace di risolvere il problema del c.d. uso promiscuo (o scopo misto), che precisa- mente si presenta quando un individuo si procura un bene o un servizio sia per utilizzarlo nell’ambito della propria attività profes- sionale o imprenditoriale sia per soddisfare esigenze di natura personale o familiare: al riguardo v., fra gli altri, X. Xxxxxxxxx, Sulla nozione di consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1162 ss.; Id., Ilconsumatoree ilprofessionista, in Xxxxxxxxx - Xxxxxxxxx (a cura di), I contratti dei consumatori, in Trattato dei contratti Xxxxxxxx- Gabrielli, Torino, 2005, 17 ss.; C.M. Xxxxxx, Diritto civile, 3, Il contratto, II ed., Milano, 2000, 376 s.
prevenzione del randagismo”), la L. 4 novembre 2010,
n. 201, di ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia stipulata a Strasburgo il 13 novembre 1987, e il
D.P.C.M. 28 febbraio 2003, che all’art. 1 definisce come tale “ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all’uomo, come il cane per disabili, gli animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella pubblicità”.
La possibilità di considerare gli animali
“beni di consumo”
La soluzione elaborata - a quanto consta, per la prima volta in sede di legittimità - da Cass. n. 22728/2018 trova largo riscontro in dottrina, nella quale tende a prevalere un’interpretazione particolarmente ampia della nozione di “bene di consumo” fondata sul rico- noscimento della tassatività dell’elencazione dei beni che dalla nozione medesima rimangono esclusi (7) ai sensi dell’art. 128, comma 2, c. cons. (8).
Ragionando in questa prospettiva, quindi, si ritiene che nessun ostacolo impedisca di applicare la disciplina della vendita dei beni di consumo al contratto avente per oggetto un animale (9) che l’acquirente intenda tenere presso di sé per il mero piacere della sua compa- gnia - è questo, appunto, il caso dell’animale d’affezione
- oppure per soddisfare i bisogni alimentari propri e della propria famiglia (si pensi, per esempio, ai suini e alle galline) (10): conseguentemente, si dovrebbe rico- noscere al compratore dell’animale ‘difettoso’ il diritto di pretendere, secondo la disciplina dell’art. 130 c. cons., la sostituzione dell’animale stesso con un altro della stessa specie oppure la “riparazione” della bestia tramite l’erogazione delle cure idonee a guarirla dalla patologia dalla qualeè affetta (11).
Proprio commentando la sentenza che ci occupa tale soluzione è stata, tuttavia, revocata in dubbio facendo leva su due ordini di argomenti.
Da un primo punto di vista è stato affermato che la nozione di “bene di consumo” dovrebbe essere indi- viduata anche sulla scorta della parte dell’art. 128 c. cons. che equipara alla vendita “tutti gli altri con- tratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o da produrre”: alla luce di questo rilievo, quindi, si dovrebbe circoscrivere la nozione in discorso ai soli beni suscettibili di essere fabbricati o prodotti, ciò che non parrebbe potersi affermare con riguardo agli animali, i quali verreb- bero semmai “allevati” (così si esprime, per esempio, l’art. 2135 c.c.) (12).
Il ragionamento non può essere però condiviso: il richiamo ai “beni di consumo da fabbricare o da produrre” contenuto nell’art. 128 c. cons. non è invero rivolto a specificare le caratteristiche che la cosa deve presentare per essere considerata “bene di consumo”, la sua funzione essendo, piuttosto, quella di estendere la sfera di applicabilità della disciplina di derivazione europea ai contratti aventi per oggetto beni non ancora esistenti al momento della conclu- sione dell’accordo, ovverosia beni futuri che il pro- fessionista si impegna a realizzare nei confronti del consumatore (13).
Al fine di negare l’applicabilità degli artt. 128 ss. c. cons. alla vendita di animali è stato, poi, argomentato che non parrebbero poter trovare spazio, in un simile contesto, il giudizio di conformità del bene al con- tratto di cui all’art. 129 c. cons. così come il diritto del consumatore al ripristino della conformità del bene mediante sostituzione di cui all’art. 130 c. cons., in quanto ogni animale sarebbe caratterizzato, pur nel- l’ambito della specie alla quale appartiene, da “una propria individualità ed indole che lo distingue [rebbe] da tutti gli altri, sotto questo aspetto in
(7) Si tratta dei beni oggetto di vendita forzata o comunque venduti secondo altre modalità dalle autorità giudiziarie, anche mediante delega ai notai; dell’acqua e del gas, quando non confe- zionati per la vendita in un volume delimitato o in quantità deter- minata; dell’energia elettrica.
(8) V., tra gli altri, Bocchini, La vendita di cose mobili. Artt. 1510- 1536, in Commentario Xxxxxxxxxxx, II ed., Milano, 2004, 348; Ciatti, L’ambito di applicazione, in Bin - Luminoso (a cura di), Le garanzie nella vendita dei beni di consumo, in Trattato Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 123; Xxxxxx, Art. 1519-bis, 2° comma, lett. b), in Patti (a cura di), Commentario sulla vendita dei beni di consumo, Milano, 2004, 46 s.
(9) V., oltre agli Autori citati nelle note successive, Xxxxx, Art. 128 - Ambito di applicazione e definizioni, in De Cristofaro - Xxxxxxxx (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013, 813; Xxxxxxxx - De Cristofaro, La vendita dei
beni di consumo. Commento agli artt. 1519 bis - 1519 nonies del Codice Civile, Padova, 2002, 24; Xxxxxxx, Art. 1519-bis. Com- mentoalcomma 2, lett. a), b), c), d), in Xxxxxxxx - Xxxxxxx - Moscati
- Vecchi (a cura di), Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, Padova, 2003, 50.
(10) Lo precisa Ciatti, L’ambito di applicazione, cit., 124, in nt. 32.
(11) Xxxxxx, Il diritto e gli animali, cit.,125.
(12) Pittalis, L’animale domestico, cit., 4.
(13) V., tra gli altri, Addis, Commento all’art. 128, in Vettori (a cura di), Codice del consumo. Commentario, Padova, 2007, 880; Xxxxx, Commento all’art. 128 - I, in C.M. Xxxxxx (a cura di), La vendita dei beni di consumo. Artt. 128-135, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Padova, 2006, 10 s.; Xxxxxx, La vendita di beni di consumo, in Xxxxxxxxx - Musio (a cura di), La tutela del consuma- tore, in Trattato Bessone, Torino, 2009, 527.
maniera del tutto analoga a quello che accade alle persone umane” (14).
Questi ultimi rilievi sembrano in realtà sottendere l’idea secondo cui gli animali d’affezione apparter- rebbero alla categoria dei beni infungibili (15) e, per questa ragione, i contratti che li riguardano rimar- rebbero esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina della vendita dei beni di consumo. Ed invero, l’opinione che inquadra questa tipologia di animali nell’ambito dei beni infungibili è già stata più volte affacciata tanto in dottrina quanto in giurispru- denza, sebbene non senza contrasti (16) e, comun- que, al ben diverso fine di indagare la questione concernente la risarcibilità del danno non patrimo- niale cagionato dall’uccisione dell’animale d’affezione (17).
Al riguardo va tuttavia rilevato che, anche laddove si volesse accogliere una tale prospettiva (18), non ne discenderebbe sic et simpliciter l’inoperatività degli
artt. 128 ss. c. cons.: secondo la condivisibile impo- stazione della dottrina maggioritaria, la sfera appli- cativa della disciplina in oggetto infatti abbraccia anche i beni infungibili (19), con riguardo ai quali vi è solamente da prendere atto del fatto che il rimedio della sostituzione rimarrà escluso in quanto “impos- sibile” ai sensi dell’art. 130, comma 3, c. cons. (20). I rilievi fin qui svolti confermano, quindi, che la disciplina sulla vendita di beni di consumo è appli- cabile anche ai contratti aventi per oggetto animali d’affezione, a prescindere dal fatto che questi ven- gano o meno considerati beni fungibili. Vale la pena precisare, inoltre, che gli animali non potrebbero nemmeno essere equiparati, ai fini dell’applicazione della disciplina in discorso, ai beni usati (21) per il fatto che “abbiano raggiunto un’età tale da non essere più considerati cuccioli. In questo caso non si può parlare di un pregresso uso del bene, ma semplice- mente del progressivo svolgersi dell’esistenza di un
(14) Così, ancora, Xxxxxxxx, L’animale domestico, cit., 4.
(15) Lo afferma esplicitamente Xxxxxx, Il diritto e gli animali, cit., 125, la quale peraltro considera ad essi applicabile la disciplina della vendita di beni di consumo ed altresì ne ammette, differen- temente dall’opinione maggioritaria in tema di beni infungibili (sulla quale v. infra nel testo), la sostituibilità, seppure avvertendo che “si dovrà tener conto del legame affettivo instauratosi prima della sostituzione”.
(16) In senso critico nei confronti della tendenza a ricondurre gli animali d’affezione nell’ambito dei beni infungibili v., per esempio, Xxxxxx, Diritto e sentimento: il danno da perdita dell’animale d’af- fezione, in Danno e resp., 2008, 912: “È agevole osservare che il padrone cui è stata uccisa la bestiola potrebbe agevolmente “sostituirla” con un’altra: è difficile immaginare che con il nuovo animale egli non possa ricostituire un rapporto affettivo (equiva- lente a quello perduto, se non addirittura più intenso) e “recupe- rare” quel “non poter più fare/ricevere” determinato, illico et immediate, dall’illecito (es. passeggiate, carezze, supporto ecc.). Insomma, non credo che l’unicità ed irripetibilità dell’essere umano sia predicabile anche per quello ... canino”.
(17) In dottrina v., in particolare, Xxxxxxxx, Una nuova frontiera per la Corte di Cassazione: il danno non patrimoniale “interspeci- fico” (Prima parte), in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 584 ss. In giurisprudenza v., per esempio, Trib. Milano 30 giugno 2014,
n. 8698, in Xxxxx e resp., 2015, 165, la quale ha affermato che, “non essendo l’animale d’affezione un bene fungibile, non è [...] possibile ripristinare detto legame affettivo-relazionale con qual- sivoglia animale dello stesso genere”.
(18) In questa sede non è possibile soffermarsi ad analizzare in maniera compiuta la questione della riconducibilità degli animali d’affezione alla categoria dei beni fungibili piuttosto che a quella dei beni infungibili, anche considerato che, come vedremo subito infra nel testo, la stessa non assume poi una portata decisiva ai fini dell’applicabilità o meno della disciplina sulla vendita dei beni di consumo alla vendita di animali. Certamente è utile rilevare, però, che la problematicità della questione testé richiamata offre una conferma di come la distinzione tra beni fungibili ed infungibili, e la connessa differenziazione tra beni generici e specifici, costitui- scano temi ben più complessi, articolati e ‘insidiosi’ di quanto si possa essere generalmente portati a pensare: per un approfondi- mento sul punto v., in particolare, le considerazioni di Xxxxxxx, I beni, cit., 151 ss.
(19) V., tra gli altri, Xxxxxxxx - De Cristofaro, La vendita, cit., 17; Xxxxxxxx, Art. 128 - Ambito di applicazione e definizioni, in
Xxxxxxxxxx - Perlingieri (a cura di), Codice del consumo annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli, 2009, 681; Cherti, La vendita di beni diconsumo, in Recinto - Mezzasoma - Cherti (a cura di), Diritti e tutele dei consumatori, Napoli, 2014, 169; Naitana - Dore, Art. 128 - Ambito di applicazione e definizioni, in Xxxxxxxxx - Luminoso - Fauceglia (a cura di), Codice della vendita, III ed., Milano, 2018, 1299; De Cristofaro, La vendita di beni di consumo, in Xxxxxxxxx - Xxxxxxxxx (a cura di), I contratti dei consumatori, II, in Trattato dei contratti Xxxxxxxx-Gabrielli, Torino, 2005, 986.
La minoritaria tesi secondo cui i beni di consumo, per essere tali, dovrebbero necessariamente essere fungibili, ovverosia prodotti o fabbricati - eventualmente anche ‘a mano’ e non mediante l’utilizzo di macchinari, ma comunque - in serie o secondo criteri standardizzati, è stata in particolare sostenuta da Xxxxxx, Art. 1519-bis, 2° comma, lett. b), cit., 30 ss., il quale ha argomentato tale soluzione richiamando i riferimenti ai beni “dello stesso tipo” contenuti nell’art. 129, comma 2, lett. a) e c), c. cons. quali indici del fatto che, per accertare il difetto di conformità, sarebbe sem- pre necessario comparare il bene con gli standard connessi alla produzione in serie. Per un’efficace critica a questa impostazione, v., peraltro, Addis, Commento all’art. 128, cit., 873 s. (e la dottrina ivi citata), ove viene evidenziato che la medesima, oltre ad intro- durre arbitrariamente un’esclusione del campo di applicazione della disciplina in tema di vendita di beni di consumo che non trova alcun riscontro né nella lettera né nella ratio dell’impianto normativo, viene smentita dal fatto che diversi aspetti degli artt. 128 ss. c. cons. sono senza dubbio compatibili con i beni infungi- bili, ad iniziare dalle previsioni in tema di beni usati.
(20) Fra i tanti v., anche per ulteriori citazioni di dottrina con- forme, Bocchini, La vendita di cose mobili, cit., 436; Omodei-Salè, Art. 130 - Diritti del consumatore, in De Cristofaro - Xxxxxxxx (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013, 842; Campione, La sostituzione del bene nella vendita, Torino, 2014, 149; De Cristofaro, La vendita di beni di consumo, cit., 1043; Xxxxxx, Art. 1519-quater, 1°, 2°, 3°, 4°, 5° e 6° comma, in Patti (a cura di), Commentario sulla vendita dei beni di consumo, Milano, 2004, 213; Calvo, Il regime dei rimedi nelle vendite al consumo, in Sirena (a cura di), Vendita e vendite, in Trattato dei contratti Roppo-Benedetti, Milano, 2014, 403 ss.
(21) Dei beni usati si occupano, per la precisione, due disposi- zioni: l’art. 128, comma 3, c. cons., il quale precisa che tali beni sono ricompresi nella disciplina di derivazione europea di tutela dell’acquirente di un bene di consumo, ma “tenuto conto del tempo di pregresso utilizzo degli stessi” e “limitatamente ai difetti
essere vivente e appunto per questo, anche dal punto di vista giuridico, non è possibile l’assimilazione ai beni usati” (22).
Tutto ciò precisato, la dottrina appare peraltro divisa circa il ruolo da attribuire all’art. 1496 c.c. nel conte- sto in esame (23): secondo una prima tesi, tale norma dovrebbe trovare spazio anche in ambito consumeri- stico, sicché la disciplina sulla vendita dei beni di consumo troverebbe applicazione solo in via resi- duale rispetto alle leggi speciali o, in mancanza, agli usi locali in materia di vendita di animali (24); secondo un’altra opinione, invece, gli artt. 128 ss.
c. cons., in quanto costituenti la disciplina generale valevole per i difetti di conformità di ogni bene di consumo, escluderebbero in radice l’applicazione dell’art. 1496 c.c. e delle fonti dallo stesso richia- mate (25). Xx è a quest’ultima impostazione che parrebbe aderire, quantomeno negli esiti finale del proprio ragionamento, anche la pronuncia in esame.
I rapporti tra codice civile e disciplina di tutela del consumatore
Come si è avuto modo di evidenziare, per giungere agli esiti surriferiti Cass. n. 22728/2018 teorizza l’esi- stenza di “una chiara preferenza del legislatore per la normativa del Codice del consumo relativa alla ven- dita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica”, che in tema di vendita di beni di consumo rimarrebbe quindi applicabile “solo per quanto non previsto dal Codice del consumo”. Gli indici normativi nei quali la S.C. ritiene di poter rintracciare il principio testé riferito sono due: l’art. 135, comma 2, c. cons., il quale dispone che, “per
quanto non previsto” dalle norme sulla vendita di beni di consumo, “si applicano le disposizioni del codice civile in tema di contratto di vendita”; l’art. 1469 bis c.c., il quale prevede che le norme del Titolo II del Libro IV del Codice civile, contenenti la disciplina dei contratti in generale, “si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favo- revoli per il consumatore”.
Formulando queste riflessioni, la Corte di cassazione parrebbe voler intervenire - pure con riguardo a questo profilo, a quanto consta, per la prima volta - sulla complessa questione del coordinamento tra codice civile e normativa consumeristica, materia alla quale il nostro legislatore dedica una serie di disposizioni disseminate nel sistema (26), raramente (e comunque malamente) coordinate tra loro e spesso pure caratterizzate da più o meno gravi imprecisioni lessicali (27).
Proprio le previsioni in tema di vendita di beni di consumo contenute nei due commi dell’art. 135 c. cons. rappresentano una delle discipline più intri- cate e dibattute che si possono incontrare nella materia de qua. L’aspetto maggiormente contro- verso sul piano teorico nonché importante sotto il profilo pratico riguarda, com’è noto, l’individua- zione dei diritti attribuiti da norme diverse da quelle contenute negli artt. 128 ss. c. cons. invo- cabili dal consumatore (28): secondo una prima e minoritaria tesi, potrebbero venire in rilievo sola- mente norme contemplanti strumenti di tutela differenti ed ulteriori rispetto a quelli previsti dalla disciplina in tema di vendita di beni di consumo (quali, per esempio, il risarcimento del
non derivanti dall’uso normale della cosa”; l’art. 134, comma 2, c. cons., il quale consente alle parti, in caso di beni usati, di limitare la durata biennale della responsabilità di cui all’art. 132, comma 1, c. cons. a un periodo di tempo comunque non inferiore ad un anno.
(22) Così Xxxxxx, Art. 1519-octies. Commento al comma 2, in Xxxxxxxx - Xxxxxxx - Moscati - Vecchi (a cura di), Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, Padova, 2003, 689.
(23) Anche se vi è unità di vedute, a prescindere dal richiamo all’art. 1496 c.c., sul fatto che la vendita di animali regolata dalle norme in tema di vendita di beni di consumo è da considerare nulla per incommerciabilità (o illiceità) dell’oggetto, alla pari della ven- dita regolata dal codice civile (v. le opere citate nella nota 2), qualora riguardi un animale affetto da una delle malattie infettive e contagiose indicate nel regolamento di polizia veterinaria di cui al
d.P.R. 8 febbraio 1954, n. 320.
(24) Bocchini, La vendita di cose mobili, cit., 343; Xxxxx, Della vendita dei beni di consumo. Art. 1519 bis - 1519 nonies, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, 22; Lumi- noso, Chiose in chiaroscuro in margine al d. legisl. n. 24 del 2002, in Bin - Luminoso (a cura di), Le garanzie nella vendita dei beni di consumo, in Trattato Xxxxxxx, Padova, 2003, 21; Id., La vendita, cit., 545.
(25) Xxxxxx, L’ambito di applicazione, cit., 124 s.; Xxxxx, Note in tema di garanzia per i vizi nella vendita di animali, in Corr. mer., 2005, 167. Al medesimo risultato ermeneutico che fa prevalere sempre e in ogni caso la disciplina sulla vendita dei beni di con- sumo giunge pure Maniaci, Vendita di animali: vizi, difetti e rimedi, in questa Rivista, 2004, 1127, ma argomentando nel senso che la disciplina in parola costituirebbe una delle leggi speciali richiamate dall’art. 1496 c.c.
(26) È appena il caso di ricordare che per esempio si occupa, in termini generali, della questione testé menzionata anche l’art. 38
c. cons., il quale prevede che, “per quanto non previsto dal presente codice, ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista si applicano le disposizioni del codice civile”.
(27) In argomento v., xxxxxxx, Xxxxxxxx, Gli artt. 1469-bis c.c. e 38 c. cons.: il coordinamento tra le norme del codice civile e la disciplina di tutela del consumatore, in Studium Iuris, 2012, 840 ss.; De Cristofaro, Le disposizioni “generali” e “finali” del Codice del consumo: profili problematici, in Contr. e impr./Europa, 2006, 59 ss.
(28) Per una sintesi del dibattito v., oltre agli Autori citati nelle note successive, Campione, Art. 135 - Tutela in base ad altre disposizioni, in De Cristofaro - Xxxxxxxx (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013, 898 ss.
danno o l’eccezione d’inadempimento) (29); la maggioranza degli studiosi invece ritiene, secondo la logica del concorso dei rimedi, che il compra- tore di un bene di consumo potrebbe anche, laddove lo ritenga più conveniente, ‘spogliarsi della veste’ di consumatore per avvalersi delle norme domestiche che prevedono, a favore del- l’acquirente di diritto comune, rimedi identici a quelli già previsti e regolati dagli artt. 128 ss. c. cons. (30).
Xxxxxx, è possibile affermare che, pur non occupan- dosi direttamente delle questioni testé ricordate, la “chiara preferenza del legislatore per la normativa del Codice del consumo relativa alla vendita” elaborata da Cass. n. 22728/2018 possa avere un impatto sulla risoluzione delle medesime?
Dare una risposta al quesito non è certamente age- vole: da un lato, il principio formulato dalla sentenza in esame sembrerebbe in qualche modo avvalorare la prima e più restrittiva delle due soluzioni che sono state sopra illustrate; dall’altro lato, l’opposta tesi del concorso dei rimedi consumeristici e di diritto comune offre al consumatore una più ampia tutela che appare in maggiore sintonia con l’atteggiamento di favore nei suoi confronti che traspare dalla pro- nuncia. D’altro canto, non si può nemmeno escludere che la “chiara preferenza del legislatore per la norma- tiva del Codice del consumo relativa alla vendita” sia stata teorizzata al solo scopo di superare i dubbi sull’applicabilità del Codice del consumo alla ven- dita di animali sollevati sulla scorta dell’art. 1496 c.c., e non possa quindi esercitare alcuna influenza sulla
risoluzione dei problemi ermeneutici relativi all’art. 135 c. cons.
A fronte di questi dubbi, quindi, pare doversi con- cludere che solo osservando la futura evoluzione della giurisprudenza in materia consumeristica si potrà capire se - e in quali termini - la sentenza in com- mento assumerà una valenza sistematica più ampia rispetto alla questione sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi.
La gerarchia dei rimedi a disposizione dell’acquirente di un bene di consumo
La riconduzione della fattispecie concreta nell’am- bito di applicazione della disciplina contenuta negli artt. 128 ss. c. cons. operata da Cass. n. 22728/2018 suscita, infine, un ultimo ordine di considerazioni. Com’è noto, la disciplina in discorso prevede una serie di rimedi organizzati in un rigido ordine gerar- chico che limita in maniera significativa la facoltà di scelta del consumatore (31): quest’ultimo, infatti, può e deve pretendere in via prioritaria la sostituzione o la riparazione, che costituiscono i rimedi ‘primari’ nell’ottica del legislatore europeo; la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo si atteggiano, invece, a rimedi ‘secondari’ accessibili all’acquirente solamente in presenza dei presupposti menzionati dall’art. 130, comma 7, c. cons. (32), i quali fanno riferimento ad una serie di ipotesi in cui “il ripristino della conformità mediante riparazione o sostituzione risulti, in sostanza, impraticabile oppure non abbia dato esiti soddisfacenti” (33).
(29) Così, fra gli altri, Xx Xxxxxxxxxx, I rimedi del consumatore nelle vendite di beni di consumo, in Mercati regolati, in Trattato dei contratti Roppo-Benedetti, Milano, 2014, 233 ss.; Moscati, La vendita di beni di consumo: un dilemma tra garanzia e responsa- bilità, in Riv. dir. civ., 2016, 365 ss.; De Xxxxxxxxxx, Le disposizioni “generali” e “finali”, cit., 62 s.; Id., La vendita di beni di consumo, cit., 997 ss.
(30) Fra i tanti v., anche per ulteriori citazioni di dottrina con- forme, dalla Xxxxxxx, La “maggior tutela” del consumatore: ovvero del coordinamento tra codice civile e codice del consumo dopo l’attuazione della direttiva 2011/83/UE, in Contr. e impr., 2016, 743 ss.; Id., Art. 135 c. cons.: per una sistematica dei rimedi intemadivendita dibenidiconsumo, in Riv. dir. civ., 2007, 123 ss.; Venturelli, Commento all’art. 135, in Vettori (a cura di), Codice del consumo. Commentario, Padova, 2007, 1029 ss.; Xxxxx, Art. 135
- Tutela in base ad altre disposizioni, in Xxxxxxxxx - Luminoso - Fauceglia (a cura di), Codice della vendita, III ed., Milano, 2018, 1434 ss.; Ead., La riparazione e la sostituzione del bene difettoso nella vendita (dal codice civile al codice del consumo), Napoli, 2007, 293 ss.; Sirena, Commento all’art. 135, in C.M. Xxxxxx (a cura di), La vendita dei beni di consumo. Artt. 128-135, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Padova, 2006, 390 ss.; Xxxxxxx, Rimedi e limiti di tutela dell’acquirente, Pisa, 2018, 173 ss.
(31) È altrettanto noto come il suddetto ordine gerarchico sia stato accolto, da una consistente parte della dottrina, con una
serie di aspre critiche, che altri Autori hanno invece ritenuto prive di fondamento: per una sintesi del dibattito sul punto v., per tutti, Omodei-Salè, Art. 130, cit., 835.
(32) In argomento pare opportuno richiamare la recente pro- nuncia di App. Roma 9 ottobre 2017, n. 6338 (in questa Rivista, 2018, 581, con nota di D’Xxxxxxx, “Gerarchia” dei rimedi e pre- scrizione nellavenditadibenidiconsumo), ove è stato stabilito che la richiesta stragiudiziale di sostituzione o riparazione del bene difettoso non interrompe i termini per l’azione di risoluzione del contratto concessa dall’art. 130, comma 7, c. cons., a tal fine essendo necessaria la domanda giudiziale. Com’è stato corretta- mente evidenziato da D’Xxxxxxx, “Gerarchia”, cit., 586 s., tale soluzione non può essere però condivisa, in quanto non tiene conto del fatto che, in virtù della gerarchia dei rimedi contemplati dall’art. 130 c. cons., prima di aver inutilmente chiesto riparazione e sostituzione del bene il consumatore non ha nemmeno il diritto di esercitare l’azione di risoluzione che servirebbe ad interrompere il decorso della prescrizione con riguardo a quest’ultimo rimedio.
(33) Sono parole di Xxxxxx-Xxxx, Art. 130, cit., 834 s., al quale si
rinvia anche per ogni ulteriore citazione dell’abbondante dottrina conforme nonché per la ricognizione delle sparute voci dottrinali che hanno, invece, riconosciuto una sostanziale libertà del consu- matore di scegliere quale rimedio esperire tra quelli elencati nell’art. 130 c. cons. L’esistenza dell’ordine gerarchico di cui si è detto nel testo è stata in giurisprudenza riconosciuta da Trib.
La più attenta dottrina ha, peraltro, messo in luce che il summenzionato ordine gerarchico potrebbe essere in realtà superato sulla scorta di due percorsi ermeneutici (34).
Alla luce del primo si ritiene di poter individuare, sulla scorta dell’interpretazione della stessa disciplina sulla vendita di beni di consumo e della valorizzazione del canone di buona fede, talune ipotesi in cui sussistono ragioni tali da consentire al consumatore di preten- dere direttamente la riduzione del prezzo o la risolu- zione del contratto. A tanto si reputa doversi giungere, per esempio: quando il difetto è stato occultato dal venditore (35); quando la riparazione e la sostituzione sono già prima facie impraticabili entro un periodo di tempo ragionevole o senza arrecare notevoli inconve- nienti per il consumatore (36); quando la violazione dell’obbligo di consegnare un bene conforme è tale da minare la fiducia circa la capacità del venditore di adempiere esattamente l’obbligo in discorso mediante la sostituzione o la riparazione del bene (37).
Una seconda strada che consente di superare l’ordine gerarchico dei rimedi previsti dall’art. 130 c. cons. è, poi, quella che, abbracciando la logica del concorso di rimedi consumeristici e di diritto comune di cui si è detto nel paragrafo precedente, conseguentemente riconosce all’acquirente di un bene di consumo la facoltà di avvalersi delle azioni edilizie previste dagli artt. 1490 ss. c.c. senza dover prima battere inutilmente la via dei rimedi manutentivi previsti dalla disciplina consumeristica (38); ragionando in questa prospettiva,
peraltro, viene pure - e correttamente - puntualizzato che, laddove il consumatore ritenga di muoversi in questo modo, dovrà poi rispettare le condizioni e i limiti di operatività dei rimedi codicistici prescelti (39) e non potrà certo “pretendere di ‘personalizzare’ la propria tutela, assemblando le diverse componenti del rimedio stesso dalle sue concorrenti regolamenta- zioni giuridiche” (40).
Tutti questi profili non sembrano essere emersi negli sviluppi della controversia in esame. Da quanto si evince dalla lettura della sentenza della Cassazione, l’attore aveva infatti chiesto, già in prima battuta, la riduzione del prezzo pagato per l’animale (insieme al risarcimento del danno) (41) ed il venditore conve- nuto si era limitato ad eccepire il mancato rispetto del termine per la denuncia dei vizi previsto dall’art. 1495, comma 1, c.c. nonché l’inapplicabilità, al caso di spe- cie, del più lungo termine previsto dall’art. 132, comma 2, c. cons., senza però contestare alla controparte, per il caso in cui la fattispecie fosse stata dal giudice ricon- dotta alla disciplina sulla vendita dei beni di consumo, il mancato rispetto dell’ordine gerarchico dei rimedi previsto dall’art. 130 c. cons. Né la questione poteva essere rilevata d’ufficio dagli organi giudicanti coin- volti: come autorevole dottrina ha avuto modo di puntualizzare, la domanda di attivazione di un rimedio secondario in difetto delle condizioni previste dall’art. 130, comma 7, c. cons. dev’essere invero essere respinta “per carenza di un presupposto sostanziale di proponi- bilità” (42), ma tale carenza, alla luce della ratio di
Piacenza 14 gennaio 2014 (reperibile nella banca dati Pluris)e da Trib. Mondovì 18 dicembre 2006 (reperibile nella banca dati DeJure).
(34) Xxx quali deve essere tenuta distinta l’ipotesi in cui si addiviene alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo senza prima esperire i rimedi primari della sostituzione e della riparazione sulla base di un apposito accordo tra il venditore e il consumatore: eventualità, quella dell’accordo stragiudiziale in merito al rimedio da esperire per soddisfare gli interessi dell’ac- quirente di un bene di consumo difettoso, che tra l’altro la stessa legge cerca di favorire con le disposizioni contenute nell’art. 130, comma 9, c. cons., le quali vanno senza dubbio intese nel senso che il contenuto dell’accordo potrebbe consistere proprio nella deroga all’ordine gerarchico dei rimedi (Xxxxxxxx - Rodeghiero, Art. 1519-quater. Commento al comma 9, in Xxxxxxxx - Xxxxxxx - Moscati - Vecchi (a cura di), Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, Padova, 2003, 457; Omodei-Salè, Art. 130, cit., 855).
(35) Xxxxxxxx, Commento all’art. 132, in C.M. Xxxxxx (a cura di),
La vendita dei beni di consumo. Artt. 128-135, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Padova, 2006, 323. Va ricordato che dell’occulta- mento del difetto da parte del venditore si occupano espressa- mente i commi 2 e 4 dell’art. 132 c. cons.
(36) Cfr. Xxxxxxxx - De Cristofaro, La vendita, cit., 74 ss.; Xxxxx, Il regime, cit., 424 s.; Omodei - Salè, Art. 130, cit., 835; Xxxxxx, Art. 1519-quater, cit., 208.
(37) Xxxxx, Il regime, cit., 425, il quale argomenta anche dalla disciplina dell’art. 1564 c.c. in tema di somministrazione.
(38) Al riguardo v., però, C.M. Xxxxxx, Commento all’art. 130 - I, in C.M. Xxxxxx (a cura di), Lavenditadeibenidiconsumo. Artt. 128- 135, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Padova, 2006, 203, secondo cui “la domanda giudiziale di risoluzione o di riduzione del prezzo è [...] abusivamente proposta se con essa il consumatore rinunzia senza motivo ad avvalersi dei nuovi rimedi che la legge gli con- cede. L’abusività discende dalla violazione del precetto di buona fede, che impone al compratore di salvaguardare l’utilità del venditore nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio. Il compratore, precisamente, viola il precetto di buona fede se sceglie senza motivo i rimedi più gravosi per il venditore senza consentirgli di sostituire o riparare il bene”.
(39) Sul punto v., tra gli altri, Fadda, Art. 135, cit., 1439 s.; Xxxxxxxxxx, Commento all’art. 135, cit., 1037; dalla Xxxxxxx, La “maggior tutela” del consumatore, cit., 760 ss.; Id., Art. 135 c. cons., cit., 138 ss.
(40) Così si esprime Venturelli, Il diritto applicabile nel risarci- mento del danno da difetto di conformità, in Obbl. e contr., 2010, 774, ove ulteriori citazioni di dottrina conforme.
(41) L’ammissibilità del cumulo del rimedio della riduzione del prezzo e del risarcimento del danno nella vendita dei beni di consumo non sembra dare adito a dubbi: sul punto v., tra gli altri, C.M. Xxxxxx, Commento all’art. 130 - I, cit., 211; Xxxxxxxx - Xxxxxxxxxx, Art. 1519-quater. Commento ai commi 7, 8 e 10, in Xxxxxxxx - Xxxxxxx - Moscati - Vecchi (a cura di), Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, Padova, 2003, 453 ss.
(42) Luminoso, La vendita, cit., 583; Id., La riparazione e la sostituzione del bene, in Bin - Luminoso (a cura di), Le garanzie nella vendita dei beni di consumo, in Trattato Xxxxxxx, Padova,
tutela del consumatore che informa l’intera disciplina della vendita dei beni di consumo, dovrebbe essere eccepita dal venditore e non potrebbe appunto essere rilevata d’ufficio dal giudice (43).
Al di là di quanto appena sottolineato non si può, peraltro, non evidenziare che il risultato finale di quanto accaduto nel caso di specie è che l’attore protagonista della vicenda giudiziaria decisa da Cass. n. 22728/2018 potrebbe finire per avvalersi dell’azione estimatoria prevista dal Codice civile ma nel rispetto dei termini contemplati dall’art. 132 c. cons., usufruendo quindi di una forma di tutela “ibrida” fra diritto comune e disciplina consumeristica che, come è stato in precedenza rilevato, dovrebbe in realtà reputarsi inammissibile.
Considerazioni conclusive
Tralasciando le perplessità sollevate dalla formula- zione dell’ambiguo principio della “chiara preferenza del legislatore per la normativa del Codice del con- sumo relativa alla vendita”, la sentenza in commento si lascia senz’altro apprezzare per avere correttamente riconosciuto l’applicabilità della disciplina sulla
vendita dei beni di consumo alla vendita di animali che era stata negata nei precedenti gradi di giudizio. Le riflessioni svolte nelle pagine precedenti hanno peraltro fatto emergere una serie di interrogativi concernenti tale fattispecie che senza dubbio dovranno essere indagati in maniera più approfon- dita di quanto è stato possibile fare nell’economia di questo scritto (44): l’animale da compagnia va con- siderato un bene fungibile o infungibile? O forse - e come parrebbe in effetti più ragionevole - la risposta può variare a seconda della fattispecie concreta (45)? In tal caso, quali sono le circostanze e gli indici da valutare nell’esprimere il giudizio sul carattere di fungibilità o meno della bestia? Come si atteggia, poi, il relativo onere probatorio (46)? E, soprattutto, come si riflettono le risposte date a queste domande sulla praticabilità e sull’esigibilità dei rimedi della sostituzione e della riparazione del bene previsti in favore dell’acquirente dall’art. 130 c. cons.?
Un ultimo aspetto che vale la pena evidenziare, infine, è che in nessuno dei tre gradi di giudizio è mai stato messo in dubbio il fatto che l’acquirente di un animale d’affezione può invocare, qualora si ritenga inapplicabile la disciplina degli artt. 128
2003, 388. Nella scia di questa dottrina si è più di recente soffer- mato sulla questione Maniaci, Rimedi e limiti, cit., 143, il quale ritiene che “la conseguenza processuale dell’inosservanza del vincolo gerarchico tra rimedi c.d. primari e rimedi c.d. secondari determini [...] l’inammissibilità delle domande di risoluzione e/o riduzione del prezzo”; sempre secondo questo Autore, peraltro, “pare che nulla osti alla proposizione, anche in via principale, dei rimedi secondari, purché, ovviamente, tutti i relativi fatti costitutivi siano allegati. Xxxx, in questo caso non si potrebbe neppure ravvisare una violazione dell’ordine gerarchico, che sarebbe, infatti, rispettato, per il tramite dell’accertamento incidentale della sussistenza dei limiti (o, se si preferisce, dell’inesistenza dei presupposti della) operatività dei rimedi primari”.
(43) Luminoso, La riparazione e la sostituzione, cit., 388, nt. 22.
Per una più estesa riflessione sulla necessità di tenere conto delle esigenze di tutela del consumatore nella ricostruzione della disci- plina processuale delle controversie che lo riguardano, x. Xxxxx, Codice del consumo e Direttiva 1999/44/CE. Risoluzione del contratto e riduzione del prezzo nella compravendita: poteri del giudice, in Riv. dir. proc., 2015, 246 ss.; Zeno-Zencovich - Paglietti, Verso un “diritto processuale dei consumatori”?, in Xxxxx xxxx. xxx. xxxx., 0000, XX, 000 xx. (Xxxxx Prima) e 251 ss. (Parte Seconda).
(44) Senza, tuttavia, mai dimenticare il monito di Xxxxxxxx, “Diritti dei consumatori” e tutele nella recente novella del Codice del consumo, in questa Rivista, 2015, 66, a non trascurare l’im- portanza delle “procedure a disposizione del consumatore per far valere i propri diritti in caso di contestazione”, perché “se a quest’ultimo non vengono resi accessibili procedimenti attra- verso cui ottenere soddisfazione in tempi rapidi, senza apprezza- bili oneri economici e con un limitato dispendio di energie, le pur eleganti discussioni sui rimedi, in cui profonde sforzi ed impegno la nostra civilistica, rischiano di assumere il sapore accademico di un divertissement intellettuale”.
(45) Una prima risposta a questo interrogativo potrebbe essere rinvenuta verificando se e fino a che punto valgano per gli animali le articolate riflessioni di Calvo, Il regime, cit., 403 ss., il quale in particolare sostiene che “la fungibilità dell’oggetto trasferito [...] deve essere intesa secondo criteri soggettivi. [...] La prestazione mirata all’esatto adempimento sotto forma di sostituzione non può essere imposta contro la volontà del consumatore quando egli abbia un particolare interesse meritevole di tutela alla conserva- zione della cosa, che già si trova nella sua sfera giuridica. [...] La materiale sostituibilità della cosa venduta non basta difatti a rico- noscere come fondata la pretesa del venditore al rimpiazzo quando il bene, si metta il caso, abbia un non effimero valore affettivo per il consumatore. La natura fungibile o infungibile delle cose [...] non dipende necessariamente delle loro qualità corporali, potendo essere condizionata dal contingente interesse del com- pratore a considerarle come pezzi unici od insurrogabili”.
(46) Da un lato si potrebbe pensare che l’animale d’affezione va
presuntivamente considerato un bene infungibile e che spetta a chi sostiene il contrario dimostrare che nel caso concreto è invece fungibile; dall’altro, però, si potrebbe anche affermare che, essendo pur sempre una bestia appartenente ad una determinata specie che conta plurimi esemplari, l’animale d’affezione è in linea di principio un bene fungibile, l’infungibilità dovendo essere dimo- strata da chi intende invocarla per trarne determinate conse- guenze giuridiche. In quest’ultimo senso parrebbe essere orientata, per esempio, G.A. Parini, Morte dell’animale di affe- zione e tutela risarcitoria: è ancora uno scontro tra diritto e senti- mento?, in Nuova giur. civ. comm, 2012, II, 614, quando afferma che, al fine di riconoscere il risarcimento del danno non patrimo- niale da uccisione dell’animale d’affezione, “sarà fondamentale dimostrare, da un lato, l’esistenza di un legame forte tra uomo e animale, tale per cui la bestiola non rappresenti per l’uomo sola- mente una mera cosa fungibile della quale è proprietario, dall’altro, le conseguenze pregiudizievoli derivate dalla compromissione di tale legame”.
ss. c. cons., la garanzia prevista per il contratto di vendita in generale negli artt. 1490 ss. c.c. La vicenda giudiziaria in esame sembra costituire, quindi, una buona occasione per mettere definiti- vamente da parte la contraria tesi, isolatamente sostenuta da una ormai risalente pronuncia di merito ma talvolta acriticamente richiamata da dottrina più recente (47), che sulla scorta della già richiamata L. n. 281/1991 in tema di animali di affezione e prevenzione del randagismo aveva rite-
nuto che l’acquirente di un animale da compagnia privo di una destinazione economico-funzionale non potrebbe invocare la garanzia codicistica per vizi della cosa venduta (48): ed invero, al di là della palese irragionevolezza di un esito finale che lascia tale compratore inspiegabilmente privo di tutela, è appena il caso di rilevare che la citata L. n. 281/1991 non opera sul piano dei rapporti tra privati e non contiene alcuna disposizione che possa in qualche modo suffragare una simile impostazione (49).
(47) V., per esempio, Xxxxxxxxx, La garanzia, cit., 176, nonché Xxxxx, “Un toro è tale anche se sterile”? Assenza di capacità riproduttiva e progettualità negoziale nella compravendita di toro da monta: vizio redibitorio, mancanza di qualità o aliud pro alio datum?, in Rass. dir. civ., 2008, 1182.
(48) Pret. Cremona 20 marzo 1998, in Giur. mer., 1999, I, 57 ss., la quale ha in particolare affermato che le finalità della legge testé richiamata “verrebbero eluse, permanendo nell’ordinamento una inopportuna antinomia, ove da un lato si volesse promuovere la corretta convivenza tra uomo e animale d’affezione e dall’altro si ammettesse l’applicazione a detto genere di animale di norme che lo relegano esclusivamente al ruolo di cosa”: di conseguenza,
secondo la pronuncia in discorso, la garanzia per vizi ex artt. 1490 ss. c.c. non potrà operare “se il cane è stato acquistato unica- mente quale animale da compagnia senza che l’acquirente si ripromettesse di adibirlo ad una funzione o ricavarne un utile, ipotesi nella quale si ritiene che la corretta convivenza tra uomo e animale postulata dalla menzionata l. 14 agosto 1991, n. 281 implica che il proprietario dell’animale si faccia carico, in quanto tale, di tutti quegli aspetti (cura, custodia, conservazione, ecc.) delineati e valorizzati dalla legge medesima”.
(49) Lo mettono in luce Rolfi, Note, cit.,169 e Xxxxxxx, Xxxxxxx, cit., 1126.
Buoni postali fruttiferi
Cassazione Civile, Sez. I, 31 agosto 0000, x. 00000, xxx. - Pres. Cristiano - Est. Dolmetta - Poste Italiane S.p.a. c. L.D.
È questione da considerare di massima di particolare importanza ai sensi dell’art. 374 c.p.c., per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione se i buoni postali fruttiferi siano regolati da norme imperative che incidono in modo diretto sul contenuto disciplinare del contratto stipulato tra l’emittente e l’investitore, venendo a costituirne parte integrante, ovvero se il potere discrezionale attribuito al ministro competente di modifica unilaterale delle condizioni economiche dell’investimento di cui al buonopresuppongauna specifica previsionedi tale potere nel contesto del contratto che, in concreto, fonda l’investimento affinché il risparmiatore ne sia effettivamente informato al momento in cui sottoscrive il buono, e in ogni caso se la riduzione unilaterale dei tassi d’interesse comporti la prova che le tabelle con i nuovi tassi d’interesse erano state messe a disposizione dei titolari dei buoni fruttiferi presso gli uffici postali, così come disposto dalla normativa in materia.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Cass., SS.UU., 15 giugno 2007, n. 13979; Cass. 28 febbraio 0000, x. 0000, xxx. |
Difforme | Cass. 16 dicembre 2005, n. 27809. |
La Corte (omissis)
Ritenuto che:
1.- Poste Italiane s.p.a. ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Vibo Valentia che le aveva intimato di rimborsare a L.D., P., M., Pi. e R. un buono postale fruttifero, emesso in data 12 gennaio 1983 e appartenente alla serie denominata O, secondo la misura prevista nel contratto costitutivo, come riportata nel testo del relativo documento. Nell’opporsi, Poste Italiane ha rilevato che le somme dovute in sede di rimborso andavano rideterminate sulla base del decreto ministeriale 13 giugno 1986, che aveva ridotto il tasso degli interessi compensativi relativi ai buoni postali frut- tiferi che facevano parte della predetta serie.
Il Tribunale di Vibo Valentia ha rigettato l’opposizione, con decisione che è stata poi integralmente confermata dalla Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 14 dicembre 2013.
Richiamandosi in via peculiare alla autorità della pronuncia resa da questa Corte a Sezioni Unite, 8 maggio 2007 n. 13979, la Corte territoriale ha rile- vato che “è ormai definitivamente chiarito che le condizioni sottoscritte dai risparmiatori non possono essere unilateralmente modificate dalle Poste e che per i B.P.F. valgono gli interessi indicati dalle Poste ai risparmiatori nel momento in cui vengono sottoscritti e non quelli previsti per legge, sicché le condizioni riportate sui titolo e prospettate al cliente prevalgono sulle disposizioni ministeriali”.
2.-Avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello ricorre ora la s.p.a. Poste Italiane, articolando cinque motivi di cassazione. Resistono L.D., P., M. e Pi. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.
Considerato che:
1.-Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane denuncia nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, assumendo che la corte territoriale non ha assolutamente pronunciato sui motivi dell’appello.
2- Con il secondo motivo deduce, per la medesima ragione, la violazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 111 Cost. 3- Con il terzo motivo, lamentando violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, sostiene che la sentenza impugnata difetta della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
4- Con il quarto, denuncia “violazione e/o falsa applica- zione di norme di diritto contenute nell’art. 173 TU approvato con il D.P.R. n. 156 del 1973, siccome modi- ficato dal D.L. n. 460 del 1974, convertito dalla L. n. 588 del 1974, e nel D.M. 13 giugno 1986, pubblicato sulla G.U. del 28 giugno 1986, n. 148 (artt. 6 e 4 - tabelle dei saggi di interesse ivi previste), nel D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 284, art. 7 comma 3, nel D.M. 19 dicembre 2000, art. 9, commi 1 e 2, e nel D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 5, comma 12, convertito in legge con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, art. 1, nonché nell’art. 2002 c.c.”. 5- Con il quinto si duole dell’omesso esame del fatto, decisivo per il giudizio, che ai buoni postali fruttiferi appartenenti alla serie O erano stati estesi, successiva- mente alla loro emissione, i tassi di interesse previsti per la nuova serie “Q”;
6- Questione dirimente ai fini dell’accoglimento o del rigetto del ricorso è quella posta nel quarto motivo.
7-Il mezzo postula l’erroneità della soluzione di diritto adottata dalla Corte territoriale, che ha ritenuto non riferibile al buono postale oggetto di giudizio il plesso normativo costituito dall’art. 173 cod. postale (nella ver- sione vigente all’epoca dell’emissione del buono, poi abrogata dal D.Lgs. n. 284 del 1999) e dalle disposizioni del
D.M. 13 giugno 1986.
Così impostato, il motivo introduce il tema dell’indivi- duazione delle condizioni necessarie per l’applicazione ai buoni postali già emessi (quali quelli appartenenti alla serie O) della riduzione in corso di rapporto del tasso di interessi compensativo operata, sulla base della norma dell’art. 173 cod. postale, da un apposito intervento ministeriale.
Che è tema - va subito messo in evidenza - molto vissuto, e non meno dibattuto, nell’esperienza della giurisprudenza di merito di questi ultimi anni (con riferimento non esclusivo ai buoni postali appartenenti alla serie O, per la verità, bensì esteso pure alle serie immediatamente precedenti), sul quale si registrano soluzioni contrapposte. Secondo quanto le parti del presente giudizio non hanno mancato, del resto, di rimarcare nel limite del rispettivo interesse, segnalando anche le (contrastanti) decisioni dell’Arbitrato bancario finanziario loro favorevoli.
Non risultano, invece, precedenti propriamente in ter- mini nella giurisprudenza di questa Corte.
La pronuncia delle Sezioni Unite n. 13979/2007, a cui si richiama la sentenza impugnata, in realtà riguarda speci- ficamente - siano o meno adattabili alla fattispecie in esame i principi in essa enunciati il caso di buoni postali emessi con l’apposizione a tergo del documento di tassi più favorevoli all’investitore di quelli all’epoca vigenti. Anche la recente pronuncia di Xxxx., 28 febbraio 2018
n. 4761 - essa pure ispirata ai medesimi principi enunciati dalle Sezioni Unite (“secondo l’insegnamento di questa Corte il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli è destinato a formarsi essenzialmente sulla base dei dati risultanti dai buoni volta a volta sottoscritti”)- riguarda un caso in cui le indicazioni riportate sul testo del buono erano difformi da quelle previste dal decreto isti- tutivo della relativa serie.
8.- L’orientamento fatto proprio dalla ricorrente Poste Italiane, sostiene che “i buoni postali fruttiferi sono rego- lati unicamente dalle disposizioni di legge che li riguar- dano, che sono pubblicate su Gazzetta Ufficiale, e sono soggetti all’applicabilità di nuove e diverse condizioni (anch’esse pubblicate su Gazzetta Ufficiale) in quanto esse sono previste dalla normativa speciale (di cui ai decreti ministeriali)”.
9.- A base di questo convincimento vengono posti, prima di ogni altra cosa, due assunti di ordine generale.
9.1-Il primo è che “i buoni postali fruttiferi costituiscono uno strumento per la raccolta del risparmio per pubblico interesse, il cui concreto esercizio, attesane la natura pubblicistica, nonché l’originaria natura pubblicistica di Poste, viene regolato direttamente dal legislatore mediante norme imperative”. In sostanza - si afferma - i buoni postali sono destinatari di una normativa a sé stante e distinta, separata da quella del sistema generale.
L’altro rilievo discende dalla considerazione, di per se stessa oggi comunemente condivisa, che i buoni postali non sono dei titoli di credito, bensì dei semplici documenti di legittimazione di cui all’art. 2002 c.c. Da tale qualifi- cazione il detto orientamento fa derivare che per i buoni postali “non rilevano le indicazioni riportate sul retro degli stessi”, posto pure - si aggiunge - che essi “devono essere
prodotti e quietanziati ai fini del rimborso che ne deter- mina la relativa estinzione per capitale e interessi (d.P.R. n. 256 del 1989, art. 208)”.
Dall’insieme di questi rilievi, l’orientamento in esame ricava che “la disciplina dei buoni per cui è causa non è contenuta in un contratto tra Poste e il titolare del buono, ma nelle norme di cui al d.P.R. n. 156 del 1973, e al d.P.R. n. 256 del 1989”.
9.2.- Sulla scorta di questa impostazione generale, si ritiene, più in particolare, che il testo dell’art. 173, comma 1, cod. postale vigente all’epoca (“le variazioni del saggio di interesse dei buoni postali fruttiferi sono disposte con decreto ministeriale (omissis) da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale; esse hanno effetto per i buoni di nuova serie, emessi dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, e possono essere estese ad una o più delle precedenti serie”) entri, senza bisogno di mediazione alcuna, nel regolamento dell’emissione dei buoni. Sì che tale norma risulta incidere in modo diretto sul contenuto disciplinare del contratto stipulato tra l’emittente e l’in- vestitore, venendo a costituirne parte integrante.
Con la conseguenza ulteriore - e di rilevanza intuitiva - che sin dal “momento della stipula dei buoni” gli investitori vanno considerati come “pienamente consapevoli della circostanza che i tassi” possono “subire delle variazioni”. 9.3.- A latere dello svolgimento argomentativo appena riportato, l’orientamento che stima la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale condizione sufficiente per l’applica- zione della riduzione del tasso stabilita dal decreto mini- steriale, ritiene di potere trovare conforto ulteriore nell’ambito della normativa che, verso la fine degli anni novanta, ha abrogato (tra le altre) la disposizione di cui all’art. 173 cod. postale.
A tale proposito assumerebbe particolare rilievo la norma del d.P.R. n. 284 del 1999, art. 7, che - nello stabilire l’abrogazione (anche) dell’art. 173 - ha prescritto che “i rapporti già in essere alla data di entrata in vigore dei decreti continuano a essere regolati dalle norme ante- riori”. Tale disposizione - come ha cura di sottolineare la ricorrente - è stata ribadita dal D.M. 19 dicembre 2000, art. 9, comma 2, e, successivamente, anche dal D.L. n. 269 del 2003, art. 5, comma 12, convertito con L. n. 326 del 2003. 10.- L’orientamento che si contrappone a quello appena illustrato, e nel cui ambito si inscrive la sentenza impu- gnata, muove invece dalla considerazione di due diversi momenti del rapporto di investimento: quello della sotto- scrizione del buono e quello inerente al tempo in cui sopravviene, nel corso del rapporto, il decreto ministeriale di riduzione dei tassi.
Ne emergono due profili distinti (che come tali vanno considerati), ma che, tuttavia, non si pongono come tra loro necessariamente alternativi.
11.- Per il primo profilo, relativo alla costituzione del rapporto, si nota in particolare come il tenore dell’art. 173 cod. postale, comma 1, sia chiaro nell’escludere ogni eventualità di allineamento automatico dei tassi delle diverse serie e, in positivo, nell’attribuire al ministro competente un vero e proprio potere discrezionale di modifica unilaterale delle condizioni economiche
dell’investimento di cui al buono; e come pure sia chiaro nel precisare i modi di esercizio di tale potere (in una con il comma 3 della disposizione; v. nel paragrafo successivo). Ciò premesso, si nota altresì che il testo letterale della norma lascia scoperto il punto della definizione dei modi e dei termini in cui questo potere di modifica unilaterale entra a far parte del contenuto contrattuale dell’investi- mento medesimo.
Più ragioni militano - secondo quest’indirizzo - nel senso di ritenere necessaria una specifica previsione di tale potere nel contesto del contratto che, nel concreto, fonda l’inve- stimento: sì che il risparmiatore ne sia effettivamente avvertito al momento di sottoscrivere il buono e possa valutare appieno le opportunità e i rischi che lo stesso comporta.
In questa direzione si porrebbe, prima di tutto, il sistema specifico dei buoni postali, nel quale l’informazione resa al risparmiatore al momento della sottoscrizione e riportata sul retro del buono assume valore determinante, secondo quanto già affermato da questa Corte (cfr. sopra, nella parte finale del par. 7). Nel redigere la sua requisitoria, il Procuratore Generale ha in proposito osservato: pur se riguarda una diversa ipotesi, la sentenza delle Sezioni Unite n. 13979/2007 “ben può essere estesa al caso in esame, nel quale, a maggior ragione, dovrà essere tutelato colui che abbia acquistato sin dall’origine - un buono postale corredato da una tabella per la liquidazione dei tassi perfettamente corrispondente a quella prevista dalla normativa che lo ha istituito, nella mancanza di informa- tiva contrattuale circa la possibilità di successiva varia- zione dei tassi anche in senso peggiorativo (per non essere state apposte sul buono clausole contrattuali, stampiglia- ture e/o diciture a carattere informativo)”.
Nella medesima direzione sta, altresì, il sistema generale dei contratti, nel cui alveo - si sottolinea - anche l’inve- stimento in buoni postali viene in definitiva a collocarsi. In questo sistema - si avverte - l’eventualità che un con- traente possa modificare unilateralmente patti e obblighi convenzionalmente assunti ha natura eccezionale (cfr. la norma dell’art. 1372 c.c., comma 1): la legge che ne contempli l’astratta ammissibilità, per solito ne subordina la praticabilità in concreto alla previsione di tutele ad hoc per l’altro contraente, a cominciare da una specifica infor- mativa in sede di formazione del rapporto (cfr., così, la norma dell’art. 118, comma 1, TUB).
E sempre in detta direzione si ritiene stia, soprattutto, la normativa costituzionale di tutela del risparmio, di cui all’art. 47, comma 1 della Carta: una disposizione di legge che, nel consentire all’emittente di ridurre in corso di rapporto la remunerazione dell’investimento, non si curi nel contempo di far sì che l’investitore sia opportuna- mente avvertito di tale eventualità e dei rischi conse- guenti, non tutela il risparmiatore, ponendolo anzi in posizione deteriore.
Ne segue allora - si aggiunge - che la norma dell’art. 173 cod. postale deve comunque essere interpretata e ricostruita in modo tale da risultare coerente, e non già
contrastante, con l’indicato precetto costituzionale (l’esigenza di affidarsi unicamente a interpretazioni “rispettose” dei precetti costituzionali e, per ciò stesso, costituzionalmente orientate è ribadita, ancora di recente, dalla pronuncia delle Sezioni Unite, 7 feb- braio 2018, n. 2990). Tanto più che quella dell’infor- mazione mirata sul contratto risulta essere l’unica via di tutela del risparmiatore, il sistema non prendendo in considerazione l’eventualità di un recesso del mede- simo, con liquidazione anticipata dell’investimento (con riferimento al momento dell’effettivo esercizio del potere di riduzione dei tassi).
12.- L’altro profilo tenuto in conto dall’orientamento in parola fa riferimento alle modalità di effettivo esercizio del potere unilaterale dell’emittente.
A questo proposito, si è osservato in particolare che la norma dell’art. 173 cod. postale, comma 3, prescrive, nell’occasione del decreto di modifica peggiorativa del tasso, il compimento di una specifica attività da parte dell’emittente, come intesa a rendere disponibili al pub- blico degli investitori le tabelle riportanti i nuovi tassi (“gli interessi vengono corrisposti sulla base della tabella ripor- tata a tergo dei buoni; tale tabella, per i titoli i cui tassi siano stati modificati dopo la loro emissione, è integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali”).
Constatata la peculiare utilità che una simile informazione possiede per la successiva gestione dell’investimento (dalla ricerca di una sua liquidazione a mezzo mercato alla previsione dei potenziali utilizzi della remunerazione in essere), si è rilevato che la norma del comma 3 appare condizionare l’applicazione del nuovo tasso alla messa a disposizione delle relative tabelle. Con la conseguenza - si è precisato - che l’emittente ha l’onere di provare di avere tempestivamente provveduto, negli uffici postali aperti al pubblico, all’effettiva messa a disposizione delle nuove tabelle.
13.- Il resoconto degli opposti orientamenti, appena com- piuto, mette in chiara evidenza la forte complessità delle questioni sollevate dal quarto motivo di ricorso proposto dalla società Poste Italiane.
Già sopra si è riferito della mancanza di precedenti speci- fici nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. n. 7). È da aggiungere, ora, la previsione di una massiccia presenta- zione di ricorsi in proposito, stante la diffusione che nel tempo ha avuto l’investimento dei risparmiatori nei buoni postali fruttiferi, nonché la tendenziale serialità delle problematiche che le diverse serie di emissione degli stessi vengono a presentare.
In ragione di tali considerazioni, il Collegio ritiene che le questioni sollevate dal quarto motivo del ricorso siano da considerare come questioni di massima di particolare importanza ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 1.
14.- In conclusione, il Collegio ritiene di rimettere la causa al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di questa Corte.
(omissis)
I buoni postali fruttiferi e la riduzione unilaterale dei tassi d’interesse prefissati. In attesa delle Sezioni Unite
di Xxx Xxxxxxxxx
L’ordinanza interlocutoria prende atto del contenzioso seriale insorto tra le Poste e i sottoscrittori di buoni postali fruttiferi che, in occasione del rimborso, si sono visti corrispondere una somma per capitale e interessi assai minore di quella riportata nella tabella stampata sul titolo perché successi- vamente alla sottoscrizione dei titoli il Ministro del tesoro aveva ridotto il saggio d’interesse stabilito in precedenza per quei buoni. Per la rilevanza, anche economica, della questione l’ordinanza, dopo avere esposto i due orientamenti contrapposti, sollecita un intervento delle Sezioni Unite.
Queste note intendono dare alla discussione un contributo che, dopo avere inquadrato giuridica- mente il rapporto tra emittente dei titoli e sottoscrittori, analizza le conseguenze che derivano da ciascuno dei due contrapposti orientamenti in merito alla riduzione dei tassi disposta dal decreto ministeriale anche per le serie di buoni postali già emesse.
I buoni postali fruttiferi e il contenzioso che li riguarda
I buoni postali fruttiferi - la cui istituzione risale al lontano 1924 - sono strumenti finanziari emessi dalla Cassa Depositi e Prestiti, garantiti dallo Stato ita- liano e collocati dalle poste italiane (1). Sono emessi in forma cartacea (ed ora anche dematerializzati) ed in tagli di vario importo, e sono offerti in sottoscri- zione ai privati risparmiatori. Essi vengono intestati al sottoscrittore (2), che può ottenerne il rimborso in qualunque momento (cioè “a vista”) presso gli Uffici postali, e recano al recto la lettera della serie di emissione nonché il loro numero e recano al verso una tabella con l’indicazione degli importi, compren- sivi in unica cifra di capitale e interessi, che maturano nel corso del tempo secondo il “taglio” del buono e comunque non oltre un determinato periodo di tempo (trentennale ovvero ventennale) (3). Grazie a questa tabella il risparmiatore che intendesse riscat- tare il buono fruttifero anche prima della scadenza è in qualunque momento in grado di sapere con preci- sione qual è l’importo complessivo per capitale e interessi che gli verrebbe corrisposto dall’ufficio postale.
Le dimensioni del risparmio postale dimostrano con evidenza la sua rilevanza socio-economica. Dall’ul- tima relazione finanziaria annuale della Cassa Depo- siti e Prestiti (2017) risulta infatti che lo stock di
buoni postali fruttiferi, da essa emessi, in possesso degli italiani ammonta a euro 144 miliardi, a cui vanno aggiunti euro 70 miliardi di buoni fruttiferi emessi dal Ministero dell’economia e delle finanze (fonte: relazione semestrale 2017 di Poste Italiane). Si tratta di circa l’8% della ricchezza mobiliare degli italiani.
È pacifico che i buoni postali fruttiferi non sono titoli di credito, ma semplici documenti di legittimazione, il che rende assolutamente essenziale ricostruire in termini tecnicamente rigorosi il sottostante rapporto tra emittente e risparmiatore nel quadro normativo che regola l’emissione dello specifico buono postale. Il vasto contenzioso insorto da alcuni anni tra Poste Italiane e i risparmiatori concernente i buoni postali fruttiferi, che ha condotto anche a quattro pronunce della Cassazione, trae origine (a) da un contrasto tra quanto stampato sul buono fruttifero e la disciplina normativa in vigore al momento dell’emissione del titolo; oppure (b) da un contrasto tra la serie di emissione stampata sul recto del buono fruttifero e la stampigliatura aggiunta sul retro dello stesso; oppure ancora (c) da un contrasto tra la tabella degli importi per capitale e interessi stampata sul retro del buono fruttifero e la disciplina normativa relativa al saggio degli interessi sopravvenuta all’e- missione del titolo stesso. Le controversie sub (c) sono quelle che hanno dato origine ad un ampio contenzioso di natura seriale approdato finora, oltre
(1) All’origine le poste italiane erano organizzate come azienda autonoma statale, nel 1994 furono trasformate in Ente pubblico economico e nel 1998 furono privatizzate divenendo Poste italiane S.p.a.
(2) È ammessa peraltro l’intestazione a più soggetti con facoltà di compiere operazioni anche separatamente (clausola PFR, cioè Pari Facoltà di Rimborso).
(3) Dal 1° al 20° anno gli interessi sono calcolati su base bimestrale in regime di capitalizzazione semplice e capitalizzati annualmente in regime composto. Dal 21° al 30° anno gli interessi sono calcolati su base bimestrale in regime di capitalizzazione semplice.
che all’Arbitrato bancario finanziario, alle sole corti di merito e che costituiscono l’oggetto dell’ordinanza interlocutoria in commento.
La controversia rimessa alle Sezioni Unite
L’art. 000, x.X.X. x. 000/0000 (X.X. delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e tele- comunicazioni) disponeva originariamente, quanto al saggio d’interesse dei buoni postali fruttiferi, che “le variazioni del saggio d’interesse ... disposte con decreto del Ministero del tesoro ... hanno effetto soltanto per i buoni emessi dal giorno dell’entrata in vigore del decreto stesso, e non per quelli emessi anteriormente, per i quali continuano ad applicarsi le tabelle d’interesse esistenti a tergo dei medesimi”. Dunque, nessuna applicazione retroattiva dei nuovi saggi d’interesse ai buoni fruttiferi già emessi.
Nel 1974 la norma suddetta venne però novellata e il testo novellato disponeva che le variazioni del saggio d’interesse “hanno effetto per i buoni di nuova serie, emessi alla data di entrata in vigore del decreto stesso [cioè del decreto ministeriale che variava il saggio degli interessi] e possono essere estese ad una o più delle precedenti serie”. La norma novellata, dopo avere disposto che “gli interessi vengono corrisposti sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni”, specificava: “tale tabella, per i titoli i cui tassi siano stati modificati dopo la loro emissione, è integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali”.
L’origine della controversia sta, perciò, nella facoltà concessa nel 1974 al Ministero del tesoro di modifi- care con un proprio decreto anche in peius il saggio d’interesse dei buoni fruttiferi già emessi e di integrare la tabella stampata a tergo di tali buoni fruttiferi recante l’indicazione in cifra unica dell’importo via via maturato per capitale e interessi con una nuova tabella a disposizione del pubblico presso gli uffici postali aggiornata con i nuovi e minori interessi (4). Facendo uso della suddetta facoltà, il Ministero del tesoro emanava il D.M. 13 giugno 1986, che istituiva una nuova serie Q di buoni fruttiferi con saggi d’in- teresse molto minori rispetto ai saggi d’interesse dei buoni fruttiferi emessi in precedenza (5) e stabiliva che i nuovi saggi d’interesse si applicavano a partire dal 1° gennaio 1987 sul montante maturato a quella
data dei buoni fruttiferi delle serie emesse in precedenza.
In conseguenza di tale disposizione i sottoscrittori dei buoni postali fruttiferi già emessi alla data del citato decreto ministeriale del 1986 si sono visti corrispon- dere dall’Ufficio postale, al momento della riscos- sione del buono, una somma per capitale e interessi molto minore di quella risultante dalla tabella stam- pata a tergo sul titolo presentato per il rimborso e basata sul saggio d’interesse stabilito in origine.
Di qui il ricorso di molti risparmiatori all’autorità giudiziaria e all’arbitro bancario finanziario, e anche la presentazione di varie interrogazioni parlamentari tra il 2014 e il 2016.
L’ordinanza interlocutoria in commento trae spunto dal ricorso di Poste Italiane S.p.a. avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva con- fermato una sentenza del Tribunale di Vibo Valentia favorevole al risparmiatore in quanto aveva ricono- sciuto il diritto di questi di ricevere, in sede di rim- borso del buono fruttifero, la somma per capitale e interessi riportata nella tabella stampata a tergo del titolo stesso e non la minor somma che sarebbe derivata dall’applicazione del citato decreto ministe- riale del 1986.
L’ordinanza interlocutoria espone in maniera suc- cinta, ma chiara, gli argomenti sostenuti dai due contrapposti orientamenti.
L’orientamento favorevole alla tesi di Poste Ita- liane fa leva su due argomenti. Il primo è che i buoni postali fruttiferi, quali strumenti di raccolta del risparmio per pubblico interesse, sarebbero regolati da una normativa di natura pubblicistica e imperativa, e non da un contratto che si forma tra Poste italiane e il sottoscrittore del buono. Il secondo argomento è che i buoni postali fruttiferi non sono dei titoli di credito, ma semplici docu- menti di legittimazione, per cui non ha rilevanza cartolare la tabella stampata sul retro degli stessi (6). Da questi due argomenti viene tratta la conclusione che (a) sin dal momento della sottoscrizione del buono i sottoscrittori dovevano essere considerati pienamente consapevoli della circostanza che i tassi potevano subire per legge delle variazioni anche in peius, e (b) che la disci- plina normativa relativa ai tassi d’interesse incide in modo diretto, senza bisogno di mediazione
(4) Solo nel 1999 il legislatore stabilì che i decreti ministeriali non potevano introdurre condizioni meno favorevoli per i rapporti già in essere con i risparmiatori (cfr. art. 7, comma 3, D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 284).
(5) Nel 1986 l’inflazione aveva subito un drastico calo rispetto a quella degli anni precedenti (dal 21,1% del 1980 al 4,3% del 1986)
e corrispondentemente erano diminuiti gli interessi sui Bot annuali (dal 16% del 1980 al 13% -10% del 1986).
(6) Sui documenti di legittimazione cfr. Spatazza, in Tratt. dir. comm. diretto da X. Xxxxxxx, VII, I titoli di credito, Padova, 2006, 238 ss.
alcuna, sul regolamento dell’emissione dei buoni divenendone parte integrante.
Il contrapposto orientamento esclude, quanto alla disciplina del rapporto tra il sottoscrittore e Poste italiane, un allineamento automatico dei tassi delle diverse serie dei buoni fruttiferi alle variazioni di essi, e sottolinea che l’art. 173, d.P.R. n. 156/1973 sopra citato non specificava i modi in cui il potere discre- zionale di modifica unilaterale dei tassi attribuito al ministro competente entra a far parte del contenuto contrattuale dell’investimento. Sotto quest’ultimo aspetto l’indirizzo in esame afferma che era necessaria una specifica previsione - stampata sul buono frutti- fero - di questo potere discrezionale nel contesto del contratto che, nel concreto, fonda l’investimento, e ciò allo scopo che il risparmiatore ne fosse effettiva- mente avvertito al momento di sottoscrivere il buono fruttifero e potesse valutare appieno le opportunità e i rischi dell’investimento. Quanto alle modalità di effettivo esercizio del potere unilaterale dell’emit- tente di modificare le condizioni dell’investimento, viene sottolineato che l’art. 173 sopra citato prescri- veva che l’emittente mettesse a disposizione del pub- blico “presso gli uffici postali” le tabelle riportanti i nuovi tassi variati in peius, in modo che tale informa- zione consentisse al sottoscrittore di gestire l’inve- stimento (dalla ricerca di una sua liquidazione alla previsione dei potenziali utilizzi della remunerazione in essere). Di qui - sostiene questo indirizzo - discende che l’emittente ha l’onere di provare di avere tempe- stivamente provveduto, negli uffici postali aperti al pubblico, all’effettiva messa a disposizione delle nuove tabelle integrative di quelle stampate sui titoli.
La fonte e la natura giuridica del rapporto tra Poste italiane e i sottoscrittori dei buoni postali fruttiferi
Preliminare ad ogni successiva indagine è prendere posizione sulla fonte e sulla natura giuridica del rapporto che con la sottoscrizione del buono frutti- fero viene ad instaurarsi tra Poste italiane e il rispar- miatore. È la questione sulla quale è radicale il dissenso tra i due contrapposti orientamenti analiz- zati dall’ordinanza interlocutoria.
Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della S.C., che hanno stabilito dei chiari principi in diritto.
Infatti, con sent. 15 giugno 2007, n. 13979 (7) le Sezioni Unite hanno affermato che i servizi postali,
anche quando erano offerti da un’azienda dello Stato, rientravano nell’attività di diritto privato della P.A., essendo organizzati e gestiti in forma d’impresa, e i rapporti con gli utenti si conformavano come rap- porti contrattuali fondamentalmente soggetti al diritto privato. In particolare, con riferimento ai servizi di bancoposta (tra i quali rientra l’emissione dei buoni fruttiferi) le Sezioni Unite affermano: “se è pur vero che tali rapporti erano nondimeno destinati a subire anche gli effetti di una normativa speciale, che ancora risentiva della natura soggettiva pubblica dell’amministrazione postale, è altrettanto vero che la loro attrazione nella sfera del diritto comune era (ed è oggi a maggior ragione) tanto più accentuata proprio per i servizi di bancoposta, comprendenti l’emissione dei buoni fruttiferi, che sono sempre stati del tutto privi di lineamenti autoritativi ed ai quali oggettivamente ineriscono connotazioni con- trattuali giacché, per struttura e funzione, essi sostan- zialmente non si discostano dagli analoghi servizi resi sul mercato delle imprese bancarie (cfr. in tal senso, esplicitamente, Corte Cost. n. 463 del 1997)”.
Dai suddetti principi deriva che il rapporto tra emit- tente e sottoscrittori dei buoni postali fruttiferi va qualificato come contratto soggetto al diritto privato dei contratti, salva l’applicazione delle norme che riguardano specificamente i buoni postali fruttiferi. La citata sentenza delle Sezioni Unite trova supporto nella giurisprudenza costituzionale, la quale ha osser- vato che “negli aspetti generali i servizi di bancoposta (emissione e pagamento di titoli di credito, riscos- sione di crediti, conti correnti e buoni postali frutti- feri) non si discostano sostanzialmente, per struttura e funzione, dagli analoghi servizi propri dell’attività bancaria” e ha qualificato il rapporto tra l’Ammini- strazione che organizza e gestisce i servizi postali come “contrattuale, soggetto al regime di diritto privato” (Corte cost. 30 dicembre 1997, n. 463, che richiama anche la sent. 17 marzo 1988, n. 303).
Il suddetto orientamento giurisprudenziale si pone in totale antitesi con il primo dei due indirizzi analizzati dall’ordinanza interlocutoria, il quale assume, all’op- posto, la natura pubblicistica della raccolta del rispar- mio mediante l’offerta dei buoni postali fruttiferi e sostiene che la disciplina dei buoni non ha fonte in un contratto tra le Poste e il titolare del buono, bensì ha fonte esclusivamente nelle norme dettate dai d.P.R. n. 156/1973 e n. 256/1989.
I principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite meritano di essere condivisi perché coerenti con i
(7) La si veda pubblicata in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 133 ss., con nota adesiva di De Poli, Buoni postali fruttiferi e letteralità.
principi che stanno alla base anche della raccolta del risparmio e degli investimenti mediante l’emissione da parte dello Stato dei titoli di debito pubblico nelle loro varie tipologie. È ben vero che i titoli del debito pubblico consistono in titoli di credito (un tempo cartacei e ora dematerializzati) che incorporano in diritto di credito verso l’emittente, mentre invece i buoni postali fruttiferi consistono in documenti di legittimazione, ma anche i titoli di credito vengono emessi sulla base di un cd. rapporto fondamentale e nel caso dei titoli del debito pubblico questo rapporto fondamentale consiste in un contratto di mutuo tra lo Stato emittente e il sottoscrittore del titolo di debito. A maggior ragione ciò vale per i titoli di legittima- zione quali sono i buoni postali fruttiferi, che non incorporano un diritto di credito, ma il cui possesso ha la semplice funzione di “legittimazione attiva”, cioè di individuare con semplicità l’avente diritto ad una prestazione che ha fonte in un contratto esterno al titolo stesso. Nel caso in esame il contratto esterno al titolo di legittimazione (cioè esterno al buono postale fruttifero) è appunto il contratto di mutuo tra Poste italiane e titolare del buono, il quale costi- tuisce la fonte del diritto di credito del sottoscrittore del buono fruttifero.
L’oggetto dell’accordo contrattuale tra emittente del buono postale fruttifero e sottoscrittore
Una volta accertato che il rapporto tra emittente del buono postale fruttifero e sottoscrittore ha natura contrattuale e poiché ogni contratto risulta dall’in- contro di una proposta con una conforme accetta- zione, occorre chiedersi quale sia l’oggetto sul quale si è raggiunto l’accordo contrattuale delle parti, cioè dell’emittente del buono e del sottoscrittore.
Anche sotto questo aspetto la sopra citata sent. 15 giugno 2007, n. 13979 delle Sezioni Unite della Cassazione ha affermato dei principi importanti.
Invero, nell’interrogarsi “su quali basi si sia instau- rato, in casi come questo, il rapporto giuridico inter- corrente tra l’amministrazione postale ed il sottoscrittore dei buoni fruttiferi, nonché quale sia, e da dove sia, e da dove si desuma, il contenuto effettivo di tale rapporto”, la citata sentenza prende in considerazione una serie di caratteristiche, norma- tive e fattuali, dei buoni postali fruttiferi sulla base
delle quali perviene ad affermare “come il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore del titolo fosse destinato a formarsi proprio sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sotto- scritti”. In altri termini, non è azzardato affermare che in sostanza la S.C. vede una vera e propria proposta contrattuale dell’amministrazione postale nell’ope- razione finanziaria specificata nei termini che sono stampati sui moduli dei buoni fruttiferi in offerta al pubblico (8), e vede una conforme accettazione di tale proposta nel versamento all’ufficio postale della somma indicata nel buono e nella corrispondente intestazione del buono stesso al sottoscrittore (o ai sottoscrittori).
La particolare fattispecie oggetto della decisione sopra citata delle Sezioni Unite permette inoltre di mettere in luce un importante principio affermato implicitamente dalla sentenza stessa e di grande rile- vanza anche per i casi in esame. Xxxxxx, con D.M. 16 giugno 1984 era stata istituita una nuova serie spe- ciale di buoni fruttiferi (contraddistinta con le lettere AB) e gli uffici postali erano stati autorizzati ad utilizzare i moduli già stampati per la precedente serie AA con l’istruzione di sovrastampare sul retro dei moduli stessi una tabella con le nuove (e peggio- rative) condizioni finanziarie dell’investimento (durata e tassi). Avvenne che taluni uffici dimenti- carono di stampigliare sul retro la nuova durata e i nuovi tassi, e di conseguenza i sottoscrittori di tali buoni pretesero il rimborso secondo l’originaria tabella stampata sul retro di essi. La sentenza delle Sezioni Unite giudica fondata la pretesa dei sotto- scrittori e afferma che non si poteva presumere che essi fossero edotti del fatto che già al momento della sottoscrizione del buono postale le condizioni dell’e- missione stabilite dal D.M. 16 giugno 1984 erano diverse da quelle stampate sui titoli e sulle quali si era formato, come sopra si è detto, l’accordo negoziale. L’aspetto che qui va messo in rilievo e che assume grandissima rilevanza per la questione in esame è il seguente: la decisione della Cassazione ha chiara- mente escluso la natura imperativa delle norme che disciplinano i tassi e la durata dei buoni postali (9), altrimenti avrebbe giudicato che il regolamento dei buoni emessi erroneamente senza la stampigliatura dei nuovi tassi e delle nuove scadenze già vigenti al momento della sottoscrizione sarebbe stato automa- ticamente eterointegrato ex art. 1339 c.c. con i xxxxx e
(8) I moduli dei buoni postali oggetto della sentenza delle Sezioni Unite recano sul recto la firma del Direttore generale delle Poste e Telecomunicazioni e la firma del Direttore generale della Xxxxx Xxxxxxxx e Prestiti.
(9) Invero, nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite si legge che i servizi di bancoposta comprendenti l’emissione dei buoni fruttiferi “sono sempre stati del tutto privi di lineamenti autoritativi”.
con le scadenze stabiliti dal D.M. 16 giugno 1984 in sostituzione dei tassi e delle scadenze stampate sul retro del titolo (10). In altri termini: la disciplina normativa relativa ai tassi d’interesse dei buoni frut- tiferi non incide in modo diretto, senza bisogno di mediazione alcuna, sul regolamento contrattuale dei buoni stessi e non ne diviene automaticamente e ipso iure parte integrante, come viceversa assume l’orien- tamento favorevole all’emittente dei buoni fruttiferi.
La modifica da parte dell’emittente dei tassi d’interesse stampati sui buoni postali già emessi. Natura di diritto potestativo del diritto attribuito all’emittente dall’art. 173,
d.P.R. n. 156/1973
Dopo avere posto le due essenziali premesse per cui
(a) tra l’emittente dei buoni postali e il sottoscrittore viene in essere un contratto soggetto al regime dei contratti di diritto privato, e (b) l’accordo contrat- tuale ha per oggetto le condizioni finanziarie (sca- denza, tassi d’interesse) che risultano dalla tabella stampata sul retro del buono postale, è possibile esaminare la specifica questione che costituisce oggetto dell’ordinanza interlocutoria, e cioè la ridu- zione dei tassi d’interesse che il D.M. 13 giugno 1986 ha retroattivamente applicato alle serie di buoni postali emesse in precedenza.
Il primo aspetto della questione consiste nel conci- liare - nella suddetta prospettiva rigorosamente pri- vatistica - la riduzione unilaterale dei tassi d’interesse disposta dal citato decreto ministeriale con il princi- pio secondo cui il contratto “ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 c.c.), il che significa che in linea di principio ogni modifica del regolamento contrattuale deve essere il frutto di un accordo di ambedue le parti. La conciliazione diventa agevole richiamando la nota categoria privatistica del diritto potestativo, che consente ad uno dei contraenti di ottenere uni- lateralmente una modifica del regolamento contrat- tuale alla quale l’altro contraente deve soggiacere. La fonte del diritto potestativo può essere una clausola dello stesso contratto, la quale attribuisce preventi- vamente ad uno dei contraenti la suddetta facoltà, ma fonte può essere la legge stessa. Numerosi sono infatti i casi in cui è una norma di legge che attribuisce ad uno dei contraenti il diritto potestativo di ottenere
una modifica del regolamento contrattuale alla quale l’altro contraente deve sottostare. Si pensi ai casi in cui un contraente può offrire una modificazione del regolamento contrattuale per riportarlo ad equità (artt. 1450 e 1467, comma 3, c.c.), oppure al caso in cui il compratore può chiedere la riduzione del prezzo per i vizi della cosa venduta (art. 1492, comma 1, c.c.).
Appunto questo è avvenuto nel caso dei buoni postali fruttiferi. L’art. 173, d.P.R. n. 156/1973 (nel testo novellato) ha attribuito al Ministro del tesoro il diritto potestativo di modificare con un proprio decreto i tassi d’interesse anche per le serie di buoni già emessi e già sottoscritti, e quindi gli ha attribuito il diritto potestativo di modificare anche in peius il regolamento finanziario dei buoni sul quale si era formato in origine l’accordo negoziale tra emittente e sottoscrittori. Questi ultimi hanno perciò la sola scelta se accettare il nuovo regola- mento finanziario proposto oppure recedere dal contratto d’investimento chiedendo il rimborso dei buoni postali.
Tale inquadramento nella categoria dei diritti pote- stativi del diritto di modificare unilateralmente i tassi è l’unica ricostruzione che può conciliare l’afferma- zione delle Sezioni Unite secondo cui i rapporti contrattuali con i sottoscrittori dei buoni postali sono privi di lineamenti autoritativi e sono soggetti al diritto privato (e quindi alle norme generali sui contratti) con il diritto attribuito all’emittente di modificare unilateralmente l’oggetto dell’accordo contrattuale con i sottoscrittori dei buoni.
L’esercizio del diritto potestativo di modifica dei tassi d’interesse da parte dell’emittente dei buoni postali fruttiferi
Secondo il primo dei due orientamenti analizzati dall’ordinanza interlocutoria, poiché i buoni postali sono titoli di legittimazione e non titoli di credito per i quali soltanto vale il principio della letteralità, è da ritenere che non fosse necessario stampare sul buono postale un’avvertenza che i tassi d’interesse avreb- bero potuto subire in futuro delle variazioni, essendo sufficiente la normativa relativa ai buoni postali a rendere edotto il sottoscrittore di tale possibile evenienza.
(10) Il punto è colto da De Poli, op. cit., 140, che osserva con riferimento alla mancata applicazione dell’art. 1339 c.c. e alla conseguente mancata eterointegrazione con la disciplina legale: “Nel caso concreto, però, una valutazione degli interessi sottesi alla disciplina postale e la constatazione dell’assenza, nella stessa, dell’intento di considerare invalida ogni determinazione contraria a
quella fissata dal legislatore sono considerazioni che ci portano ad escludere il carattere imperativo della disposizione con la quale viene fissato il tasso d’interesse (ed a tacere del problema dato dal fatto che il tasso imposto promanava non da una legge ma da un decreto ministeriale)”.
Invece il secondo dei due orientamenti analizzati dall’ordinanza interlocutoria sostiene che era neces- sario apporre sul buono postale una stampigliatura o comunque una qualche dicitura che rendesse effetti- vamente informato il risparmiatore, al momento della sottoscrizione del buono, della possibilità di un mutamento anche in peius dei tassi mediante decreto ministeriale. Ed in questo senso si era espresso anche il Procuratore Generale nella sua requisitoria riportata nell’ordinanza interlocutoria (11).
Questo secondo orientamento appare maggiormente in linea con una qualificazione in termini privatistici del rapporto contrattuale che viene a formarsi tra emittente dei buoni e sottoscrittori, secondo quanto sopra si è detto sulla scorta della citata sentenza delle Sezioni Unite. È infatti onere del contraente che propone un investimento quello di informare il risparmiatore con esattezza e completezza che l’emit- tente dello strumento finanziario proposto si riserva la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni dell’investimento, il che tradotto nella fattispecie in esame significa che l’emittente del buono postale deve informare il risparmiatore che egli si riserva la facoltà di modificare unilateralmente gli importi per capitale ed interessi riportati nella tabella a tergo del buono sulla quale viene a formarsi l’accordo nego- ziale. Questa informazione data al sottoscrittore del buono postale è essenziale per introdurre il diritto potestativo di modifica del saggio d’interesse nella proposta d’investimento rivolta al risparmiatore e quindi per introdurre tale diritto potestativo nel contenuto negoziale dell’accordo che, secondo le Sezioni Unite, si forma appunto “sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti”.
La necessità della suddetta informativa riportata sul buono postale è stata poi riconosciuta dallo stesso Ministero del tesoro, che con D.M. 20 maggio 1987 aveva disposto che sui buoni postali venisse stampata la seguente dicitura: “I tassi sono suscettibili di variazioni successive a norma di legge”. La dichiarazione assume grande rilievo sotto l’aspetto giuridico, perché è personalizzata, nel senso che, essendo stampata sul titolo, a) è rivolta a quei medesimi sottoscrittori i cui buoni fruttiferi potrebbero subire delle variazioni dei tassi in virtù del diritto potestativo attribuito all’emittente, b) viene necessariamente a loro conoscenza, e di conseguenza c) entra a far
parte del contenuto dell’accordo negoziale che si forma tra emittente del buono postale e sotto- scrittore di esso.
Se si segue questa impostazione rigorosamente “pri- vatistica”, ma supportata dalle argomentazioni della sentenza delle Sezioni Unite richiamata in prece- denza, la conclusione è che, essendo mancata nei casi in esame qualunque informativa stampata sul titolo, il diritto potestativo dell’emittente di modifica del saggio d’interesse non era entrato a far parte della proposta rivolta i risparmiatori e quindi non era entrato nell’accordo negoziale con il sottoscrittore del buono postale. Di conseguenza trova fondamento l’orientamento che nega l’opponibilità ai risparmia- tori della modifica del tasso d’interesse disposta dal Ministero del tesoro anche con riferimento ai buoni fruttiferi già emessi.
Occorre ora passare ad esaminare quali sono invece le conseguenze che discendono dal contrapposto indi- xxxxx analizzato dall’ordinanza interlocutoria, secondo cui il diritto potestativo di modifica degli interessi entrerebbe automaticamente e diretta- mente ex lege nel regolamento contrattuale dei buoni postali.
La questione si sposta allora dal profilo dell’informa- tiva al risparmiatore al momento della sottoscrizione del buono postale (ritenuta non necessaria da questo indirizzo) al profilo attinente alle modalità di eserci- zio da parte dell’emittente del diritto potestativo di variare il saggio d’interessi anche per i titoli già emessi.
A questo riguardo occorre premettere in linea di principio che l’esercizio del diritto potestativo non è un fatto che può restare confinato all’ambito del suo titolare, ma deve pervenire a conoscenza dei soggetti passivi nei cui confronti il diritto potestativo viene esercitato. E ciò è tanto più vero allorché il diritto potestativo consiste, come nella specie, nel comuni- care una proposta di nuove condizioni contrattuali, di fronte alla quale il destinatario della proposta ha la sola scelta se accettarla ovvero se rigettarla e preferire di sciogliersi dal contratto (12).
Si tratta di un aspetto della massima rilevanza. Infatti l’informativa che può ricevere il sottoscrittore circa la possibilità di una futura variazione dei tassi dei buoni fruttiferi non serve a nulla di per sé sola se poi il sottoscrittore dei buoni non è concretamente messo in grado di venire a sapere che i tassi hanno effetti- vamente subito delle variazioni e quali. Nel caso in
(11) Concorda De Poli, op. cit., 140.
(12) Cfr. per tutti Xxxxxxxx - Xxxxxxxxxxx, Manuale di dir. priv.,a cura di X. Xxxxxx - X. Xxxxxxxx, XXXX xx., Xxxxxx, 0000, 86: “Il diritto
potestativo si esercita con la dichiarazione del titolare del potere indirizzata al soggetto passivo (dichiarazione recettizia)”.
esame, potendo i buoni essere rimborsati a vista, i sottoscrittori di essi, solo se adeguatamente informati in merito ai nuovi tassi, erano in grado di valutare se soggiacere alla proposta di modifica unilaterale dei tassi comunicata dall’emittente ovvero se preferire chiedere il rimborso dei buoni per investire altrove. Le modalità del concreto esercizio del diritto di modifica dei tassi sono chiaramente stabilite dall’art. 173, d.P.R. n. 156/1973 (nel testo novellato), che all’ultimo comma dispone: “per tutti i titoli i cui tassi sono stati modificati dopo la loro emissione, [la tabella riportata a tergo] è integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali”.
Questa norma deve essere collocata e interpretata nel contesto del rapporto contrattuale formatosi tra l’emittente dei buoni postali e i sottoscrittori di essi, in cui si assume essere entrato diretta- mente ex lege - come sopra si è detto - il diritto potestativo dell’emittente dei buoni già emessi di modificare i tassi d’interesse e quindi di modifi- care unilateralmente l’accordo negoziale interve- nuto con i risparmiatori al momento della sottoscrizione dei titoli. In questa prospettiva la nuova tabella che deve essere messa a disposizione dei titolari dei buoni fruttiferi presso gli uffici postali e che va ad integrare quella originaria stampata sul titolo non è altro che la proposta dell’emittente rivolta ai titolari dei buoni delle nuove condizioni finanziarie dell’investimento.
A ben vedere, l’art. 173 citato ha anticipato in un certo senso il modello offerto dall’art. 118 T.U.B., che è applicabile - si noti - anche alle attività di bancoposta in virtù dell’art. 2, 3° comma (come novellato con L. n. 221/2012) del d.P.R. n. 144/ 2001. La norma del T.U.B. prescrive che qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, legittimata da una specifica clausola convenuta in precedenza tra le parti, deve essere comunicata espressamente all’altro contraente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula “Proposta di modifica unilaterale del contratto”, e che la
modifica s’intende approvata se il destinatario della proposta non recede entro un termine prestabilito. Se (a) la nuova tabella integrativa rappresenta la proposta di variazione dei tassi fatta dall’emittente nell’esercizio del suo diritto potestativo di modifica dell’accordo negoziale con i sottoscrittori e se (b) la messa a disposizione della suddetta tabella presso gli uffici postali non rappresenta altro che la forma di comunicazione ai sottoscrittori della suddetta propo- sta di modifica dei tassi, ne consegue che l’emittente ha l’onere della prova di avere provveduto a mettere a disposizione la tabella integrativa presso gli uffici postali se vuole sostenere che la proposta di modifica dei tassi sia stata tacitamente accettata dai titolari dei buoni postali che non abbiano provveduto a chiedere il loro rimborso (13).
Conclusioni
Sulla base dell’importante sentenza delle SS.UU.
n. 13979/2007 è possibile incardinare la problema- tica esposta dall’ordinanza interlocutoria su due sicure premesse, e cioè (a) che tra emittente dei buoni postali e i loro sottoscrittori si conclude un contratto che è soggetto alle comuni norme di diritto privato; (b) che l’oggetto sul quale si è formato l’accordo negoziale è quanto risulta dal testo stam- pato sui buoni postali di volta in volta sottoscritti. Muovendo da queste due premesse di carattere pri- vatistico e portandole alle loro logiche conseguenze, si può ritenere che il decreto ministeriale che aveva ridotto i saggi d’interesse anche per le serie di buoni postali già emesse conferiva alle Poste il diritto pote- stativo di modificare unilateralmente il regolamento negoziale dei buoni postali concordato con i sotto- scrittori e risultante da quanto stampato sul titolo. A questo punto l’analisi si diversifica secondo gli assunti dei due contrastanti orientamenti.
Secondo uno degli orientamenti, nei dati risultanti dal titolo doveva essere compresa l’espressa riserva dell’emittente della facoltà di modificare i saggi d’in- teresse riportati sul titolo stesso, perché solo così il
(13) Sarebbe un errore ritenere che la pubblicazione nella G.U. del decreto ministeriale che ha modificato i tassi possa essere considerata un equipollente della messa a disposizione delle nuove tabelle presso gli uffici postali. Anzitutto il citato art. 173, d.P.R., n. 156/1973 è stato ben preciso nell’individuare il mezzo tecnico mediante il quale le nuove tabelle dovevano essere comunicate ai titolari dei buoni postali, e cioè la loro pubblicazione presso gli uffici postali.
Inoltre il citato decreto ministeriale del 13 giugno 1986 che ha modificato in peius i saggi d’interesse stabiliti per le serie dei buoni fruttiferi emesse in precedenza si era limitato a disporre generi- camente che sul montante dei suddetti buoni maturato al 1°
gennaio 1987 si applicavano dalla stessa data i saggi d’interesse fissati per la nuova serie Q di buoni postali istituita dal medesimo decreto ministeriale e risultanti dalle tabelle allegate al medesimo decreto ministeriale. Una disposizione di tale genericità non può essere equiparata alla comunicazione ai titolari dei buoni già emessi di una proposta di nuovi tassi d’interesse. Solo le tabelle integrative che dovevano essere messe a disposizione dei titolari presso gli uffici postali e che indicavano con precisione i nuovi tassi d’interesse e la loro progressione nel tempo fino alla scadenza del buono postale erano il veicolo idoneo, per la sua “pubblicità”,a comunicare agli interessati la proposta di modifica dei tassi.
diritto potestativo delle Poste di modificare anche in peius i tassi sarebbe entrato nell’accordo negoziale con i sottoscrittori. In una prospettiva rigorosamente privatistica della questione questa tesi appare fondata per le ragioni sopra illustrate.
Secondo il contrapposto orientamento, il diritto del- l’emittente di modificare i tassi “tabellati” sul buono postale proponendo ai sottoscrittori i nuovi saggi d’interesse non richiedeva di essere menzionato sul titolo stesso, ma entrava direttamente ex lege nel regolamento contrattuale dei buoni postali. L’inda- gine si sposta allora sulle modalità di esercizio del suddetto diritto dell’emittente così come erano state
anch’esse stabilite ex lege, allo scopo di comunicare ai sottoscrittori la proposta modificativa dei tassi. Que- ste modalità consistevano nel mettere a disposizione dei sottoscrittori presso gli uffici postali le tabelle recanti i nuovi saggi d’interesse integrative di quelle stampate sul buono postale. Perciò l’ente che intende far valere la modifica dei tassi ha l’onere di provare di avere a suo tempo adempiuto a questo requisito formale e quindi di avere con questo adempimento portato a conoscenza dei titolari dei buoni fruttiferi la proposta di modifica in peius dei tassi onde mettere costoro nella situazione di assumere le opportune determinazioni in merito al loro investimento.
Leasing immobiliare
Corte d’Appello di Trieste 18 maggio 2018, n. 202 - Pres. De Rosa - Rel. Colarieti
Sconta il giudizio di non meritevolezza la clausola di rischio cambio inserita in uncontratto di locazione finanziaria perché introduce uno strumento finanziario autonomo e con finalità eminentemente speculative, quindi non solidali né equilibrate in sé e rispetto alla funzione negoziale immaginata alla conclusione del contratto di leasing.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Sulla clausola rischio cambio, riconoscono la natura autonoma di derivato incorporato, Trib. Udine 29 febbraio 2016, n. 263, Trib. Udine 13 maggio 2015, n. 711. Considerano detta clausola come immeritevole di tutela, App. Trieste 18 maggio 2018, n. 198 e App. Trieste 28 maggio 2018, n. 254. |
Difforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. |
La Corte d’Appello (omissis)
Motivi della decisione
(omissis)
contrasti con norme positive: in tale ipotesi sarebbe infatti di per sé nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.
L’immeritevolezza discenderà invece dalla contrarietà (non del patto, ma) del risultato che il patto atipico
Assorbente su ogni questione di merito e determinante per la decisione delle questioni preliminari è il profilo della meritevolezza della clausola “rischio cambio”.
Come affermato da questa Corte con decisioni uniformi cui si intende dare continuità (da ultimo sentenza n. 686/ 2017 dell’8 agosto 2017), la clausola rischio cambio è nulla/invalida per violazione dell’art. 1322 c.c.
Si tratta di clausola del tutto autonoma rispetto all’eco- nomia del contratto, la cui funzionalità non dipende e nemmeno ne è condizionata, tanto che la stessa (omissis) indicando la ragione della sua previsione fa riferimento alla necessità di coprire il rischio derivante dalla dispo- nibilità della valuta estera necessaria a finanziaria convenzione.
Quindi, un rapporto parallelo rispetto al contratto carat- terizzato da ampia aleatorietà, squilibrio di prestazioni e causa concreta del tutto autonoma rispetto a quella che regge il contratto di leasing.
Giova ricordare ai nostri fini quanto scrive il giudice di legittimità secondo il quale “La “meritevolezza” di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, non si esaurisce nella liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. Secondo la Relazione al Codice civile, la meritevolezza è un giudizio (non un requisito del con- tratto, come erroneamente sostenuto da parte della dot- trina), e deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso perseguito.
Tale risultato dovrà dirsi immeritevole quando sia con- trario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, p. 603, 2^ capoverso). Principio che, se pur anteriore alla pro- mulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo; 4, secondo xxxxx, e 41, secondo xxxxx, Cost.
Affinché dunque un patto atipico possa dirsi “immerite- vole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., non è necessario che
intende perseguire con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati. Il giudizio di immeri- tevolezza, in definitiva, non costituisce che una para- frasi moderna del secolare ammonimento di Xxxxx nei Libri LXII ad edictum, ovvero non omne quod licet, hone- stum est (Dig., 50, XVII, 144). (cfr. Cass., 28 aprile 2017).
Da che segue che “Il contratto atipico, all’esito del giudizio d’immeritevolezza, deve ritenersi inefficace fin dalla sti- pulazione, inidoneo a vincolare le parti al reticolo di regole che ne compongono la struttura. Tale è la conseguenza della “irrilevanza giuridica” del medesimo. La valutazione da svolgere è, pertanto, del tutto simile a quella riguar- dante l’accertamento della validità o invalidità del con- tratto ex art. 1418 cod. civ., anzi deve ritenersi che l’indagine relativa alla tipicità od atipicità del contratto, alla sua unitarietà o scindibilità, costituisce un accerta- mento preliminare indefettibile” (cfr. Cass. 15 febbraio 2016, n. 2900).
Si tratta di questione tutt’affatto marginale nel dibattito giuridico tanto che la dottrina riflettendo sull’interpreta- zione da dare alla formula dell’art. 1322 c.c., comma II, c.c. afferma come “la meritevolezza sia coerenza del regola- mento negoziale rispetto alla tutela legale degli interessi in conflitto o la realizzazione di uno scambio economica- mente apprezzabile”.
Il che se manca si risolve in un giudizio di invalidità della clausola che si caratterizza per lo squilibrio economico delle prestazioni e per l’inammissibile (anche oggettiva oltre che soggettiva) alea della pattuizione.
Dunque occorre che l’interesse concretamente perseguito mediante il contratto atipico corrisponda a finalità comunque considerabili degne di tutela, perché assimila- bili a quelle ispiratrici degli schemi tipizzati dell’ordina- mento giuridico.
Problema, quello della meritevolezza, di cui si è occupata, per ovvi motivi, anche la dottrina bancaria che non ha tardato a ricordare che la valutazione positiva è assicurata quando banca e cliente hanno conosciuto e condiviso la qualità e la quantità dell’alea, il modello e il metodo di calcolo del valore finanziario e gli scenari probabilistici. La clausola è così al riparo da un giudizio negativo in termini di meritevolezza, che incombe, perché potrebbe discendere, alternativamente dalla disapprovazione del fatto in sé che un contratto, come il mutuo o il leasing, munito di una causa legalmente e socialmente tipica, sia accompagnato da una componente anomala di rischio, dal semplice sillogismo che per il cliente ha senso chiudere un’opzione finanziaria se l’opzione gli serve per coprirsi, non invece se l’opzione la vende, e la vende inconsape- volmente, quindi senza ricevere il valore finanziario, all’intermediario, il quale si copre contro l’interesse del- l’investitore, oppure dal carattere non equo o sproporzio- nato dell’alea.
Non ignora la Corte le critiche anche dottrinarie a tale indirizzo, il quale importa il rischio di determinare un’il- legittima compressione dell’autonomia privata ed un’i- nammissibile regolazione del mercato e dei suoi interessi attraverso l’indebito richiamo alla previsione degli artt. 2, 38, 41 e 47 Cost.
Tuttavia si tratta di critiche fondate, posto che, soprat- tutto il principio di solidarietà, costituisce un elemento di sintesi insuperabile del principio di buona fede contrat- tuale, principio da cui far scaturire quello di necessario equilibrio delle prestazioni contrattuali. Equilibrio che, proprio perché forma di correttezza, non può, per defini- zione, che costituire un limite alla regolazione degli inte- ressi privati.
Nel merito ed in concreto, la clausola di cui si discute veniva articolata dalla banca secondo la seguente formula: “il locatore determinerà mensilmente la variazione fra il cambio storico e il cambio di scadenza del canone. Se la variazione è positiva, il canone oltre iva maturato sarà suddiviso per il cambio storico di riferimento e moltipli- cata per la differenza tra il cambio storico e quello attuale della scadenza del canone.
L’importo risultante, aumentato dell’IVA costituirà il rischio cambio del mese a carico del Conduttore. Se la variazione è negativa, il canone imponibile maturato sarà suddiviso per il cambio storico di riferimento e moltipli- cato per la differenza tra il cambio storico e quello attuale della scadenza del canone. L’importo risultante aumentato dell’IVA, costituirà il rischio cambio del mese a favore del Conduttore. Il Conduttore prende atto che la presente clausola, per quanto attiene al rischio cambio, ha carattere aleatorio”.
Come scriva parte appellata con argomentazione che si riporta integralmente poiché del tutto condivisibile, l’og- getto della prestazione che trovava origine nella clausola, non era la grandezza di riferimento (il canone), bensì il differenziale tra l’ammontare in franchi svizzeri del canone originariamente pattuito e l’ammontare in franchi svizzeri del canone determinato con riferimento al cambio in vigore alla scadenza del canone stesso.
Differenziale che dipende dalla variabile economica sottostante, vale a dire dal tasso di cambio euro/chf. Perciò la censura perché lo scambio di differenziali avrebbe dovuto essere regolato autonomamente rispetto al pagamento del canone, mentre invece, come risulta dalla dottrina bancaria ampiamente citata dalle parti, la clausola introduce una componente di rischio autonoma “... in quanto promanante dal risul- tato di un’operazione derivativa sui cambi scindibile dal contratto base (e prevede) modalità di calcolo che utilizzando un sottostante diverso dal debito...amplifica il risultato in più o in meno generando un esborso o un vantaggio aggiuntivo a latere diverso da quello dovuto per la restituzione del capitale ...”.
In ciò l’asimmetria tra le parti a seconda della varia- zione positiva (la Banca incamera anche l’IVA) o negativa.
Ed allora, come affermato da questa stessa Corte con la sentenza 8 agosto 2017, l’argomentazione allegata dalla Banca secondo cui la clausola mirava a garantirle la giusta remunerazione per la provvista in valuta estera ed il fatto che l’IVA, per evitare la censura, veniva rimborsata al cliente, non modificano in nulla il giudizio di immerite- volezza della clausola, poiché esso riposa non sul mecca- nismo di funzionamento dell’accordo aleatorio, ma sulla sua stessa ragione.
Ovvero, l’avere introdotto uno strumento finanziario autonomo rispetto al contratto di leasing ed eterogeneo rispetto ai fini di questo, con finalità eminentemente speculative, quindi non solidali e non equilibrate in sé e rispetto alla funzione immaginata.
In altri termini la Banca, se avesse voluto finanziare il contratto con valuta estera, avrebbe potuto, ben più pia- namente, approvvigionarsi della valuta, fissare il cambio al momento in cui l’acquisto veniva fatto e chiederne la remunerazione, anziché approvvigionarsi via via e scom- mettere sull’andamento della valuta rispetto al cambio fissato in modo privo di un legame con uno specifico momento storico.
Non solo, ma senza, peraltro, avere dato dimostrazione della piena consapevolezza da parte del cliente dell’alea sottostante al meccanismo, della sua consapevole parte- cipazione alla scommessa e della piena comprensibilità dei calcoli strutturati.
Altro aspetto, questo (la macchinosa articolazione mate- matica del patto), sul quale la Banca dovrebbe riflettere prima di affermare che si è trattato di una normale e serena regolamentazione degli interessi economici.
In sintesi, perciò, avere previsto un meccanismo di indicizzazione slegato dalle effettive necessità del con- tratto e disallineato rispetto alla corretta remunerazione di un finanziamento in valuta, che, comunque, deter- mina una base di calcolo che parte da un punto arbi- trario (valore della valuta fisato senza riferimento al momento di acquisto della stessa) è ciò che porta all’at- tuale decisione.
Il che, si badi bene, non attiene alla liceità del patto per la violazione della normativa finanziaria perché, prima ed a prescindere da tale eventuale violazione, vale per quanto
ci riguarda quanto appena detto. Cioè la finalità della regolazione di tal fatta degli interessi in gioco viola il limite esterno dell’autonomia privata.
La questione così definita risulta assorbente rispetto alle questioni preliminari sollevate da (omissis).
(omissis)
Ne viene che la sentenza va confermata con la diversa motivazione dovuta all’accoglimento dell’appello inci- dentale del convenuto, dichiarata la nullità della clausola rischio cambio per violazione del canone di cui all’art. 1322, comma II, c.c.
Le spese seguono la soccombenza.
La non meritevolezza della clausola di rischio cambio, quale strumento finanziario autonomo con finalità speculative
di Xxxxx Xxxxxxx (*)
La pronuncia, non isolata ma correlata a varie altre coeve sentenze della stessa Corte di Appello di Trieste, si segnala perché, nel valutare i contratti di leasing con clausola di rischio cambio, la autonomizza, considerando detta pattuizione collegata e causalmente distinta rispetto al leasing cui accede.
Inoltre, nel qualificare come strumento finanziario detta clausola, la Corte d’Appello ne rileva la non meritevolezza degli interessi perseguiti, perché essa, introducendo un meccanismo di computo dei canoni dovuti dall’utilizzatore altamente speculativo, altera l’assetto e l’equilibrio dell’operazione nego- ziale e svia la funzione contrattuale inizialmente immaginata.
Pur non essendo detto tema trattato espressamente dalla sentenza commentata, l’Autrice si sofferma sulla qualificazione e la struttura giuridica dello strumento finanziario in questione, riportando i principali orientamenti dottrinali in tema di c.d. derivati embedded.
La suddetta qualificazione sottende tematiche importanti, ovvero i) il rapporto fra contratto host e clausola atipica contenente l’implicito ed, in particolare, come la presenza di quest’ultima pattuizione reagisca sulla causa e quindi sulla natura giuridica dell’intero contratto; ii) l’applicabilità o meno della disciplina finanziaria oltre che bancaria all’operazione in oggetto.
Il caso e gli esiti del giudizio di primo grado
Il contenzioso in esame trae origine da un contratto di leasing immobiliare in cui, oltre ad essere stata inserita una clausola d’indicizzazione al Libor “CHF 3 mesi lettera”, è prevista una clausola (denominata “rischio cambio”) che contempla un’ulteriore indicizzazione del canone di leasing alle oscillazioni del rapporto di cambio euro/franco svizzero.
L’utilizzatore fonda la propria citazione sulla riquali- ficazione del contratto, in virtù delle clausole in esso inserite, eccependone la nullità o, comunque, la risoluzione, per violazione della normativa imposta agli intermediari dal T.U.F. e dalla normativa regolamentare.
Il Tribunale friulano (1) accoglie solo in parte le domande dell’opponente, qualificando come stru- mento finanziario la clausola di rischio cambio e ritenendola causalmente autonoma rispetto al con- tratto di leasing. In particolare, il Tribunale ha escluso che la clausola rischio cambio acclusa al leasing
individui un contratto complesso, ravvisando piutto- sto un collegamento negoziale.
Ed è in relazione alla clausola di rischio cambio, riqualificata come derivato finanziario, che la società di leasing avrebbe dovuto assolvere agli obblighi formali e contenutistici previsti dalla normativa vigente.
Il Tribunale condanna, quindi, la società convenuta a risarcire i danni per grave inadempimento contrat- tuale, non essendo stati assolti gli obblighi informa- tivi derivanti dalle vigenti disposizioni in materia di intermediazione finanziaria; e respinge la domanda di risoluzione, perché riferita all’intero contratto di leasing e non all’autonomo prodotto finanziario implicito collegato.
Il giudizio in appello e le argomentazioni della Corte
Ricorre in appello la società di leasing, contestando, fra le altre cose, la natura di derivato implicito della
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Trib. Udine 12 settembre 2016, n. 1097.
clausola rischio cambio e sostenendo, invece, le cor- rispettività delle somme elargite dall’utilizzatore in esecuzione della suddetta pattuizione.
L’appellante mette, inoltre, in discussione il colle- gamento negoziale esistente fra contratto di leasing e strumento finanziario “implicito”, ricostruendo l’operazione complessa come negozio misto e rite- nendo applicabile conseguentemente, a fronte della verifica della causa di finanziamento prevalente, la disciplina T.U.B. e non T.U.F.
In via subordinata, nella ricostruzione dell’appel- lante, anche laddove si dovesse ritenere applicabile la normativa sull’intermediazione finanziaria, è con- testato l’inadempimento degli obblighi informativi discendenti dall’applicazione del T.U.F. e della nor- mativa regolamentare e il nesso di causalità fra ina- dempimento e danno contrattuale imputato, nonché la quantificazione del danno stesso.
Si costituisce in giudizio l’utilizzatore appellato, che resiste alle domande attoree, proponendo altresì appello incidentale per l’invalidazione della clausola rischio cambio, sostenendo la violazione della buona fede contrattuale e la violazione di norme imperative e, in particolare, la non meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti.
In questo contesto la pronuncia della Corte è favo- revole all’appellato utilizzatore, perché è respinto l’appello principale, è accolto l’appello incidentale ed è dichiarata invalida e inefficace la clausola di rischio cambio.
Nel suo argomentare la Corte territoriale si sofferma, in particolare, sulla valutazione della meritevolezza dell’assetto degli interessi perseguiti attraverso la clausola di rischio cambio, ponendosi in linea con quella tendenza giurisprudenziale che fa ricorso al vaglio ex art. 1322 c.c. in una logica che è di controllo sia dell’equilibrio contrattuale sia della proporziona- lità fra prestazione e controprestazione nei c.d. con- tratti asimmetrici.
Solo in via del tutto incidentale, la Corte affronta il tema della qualificazione giuridica della clausola
rischio cambio e della sua natura di strumento finan- ziario autonomo.
In realtà, l’aver risolto la questione, attraverso il ricorso al controllo di meritevolezza, che serve a distinguere il regolamento contrattuale rilevante da quello giuridicamente irrilevante, stabilendo limiti di tutela, ha permesso di escludere l’approfondimento e lo sviluppo di ulteriori questioni legate alla natura e alla conseguente disciplina giuridica dei prodotti finanziari in oggetto.
La dissertazione della Corte d’Appello di Trieste sul vaglio di meritevolezza dell’interesse ex art. 1322, comma 2, c.c. risulta particolarmente interessante. Detto controllo riguarda i contratti atipici, nella lettura della Corte. Si tratta di un vaglio distinto da quello di liceità, in linea con Relazione al Codice civile (2), in cui si afferma che il controllo di meri- tevolezza riguarda il risultato e non il patto in sé e non implica, conseguentemente, il contrasto con norme imperative.
Proprio perché il giudizio ex art. 1322, comma 2, c.c. è altro da quello di liceità la conseguenza all’esito del vaglio di immeritevolezza è l’irrilevanza giuridica del regolamento contrattuale atipico.
La vera questione, come efficacemente evidenziato dalla Corte, è individuare i contenuti di tale con- trollo che, almeno nel settore bancario, sono stati definiti dalla dottrina specialistica.
La valutazione positiva ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c. degli strumenti finanziari (in cui determinante è la componente aleatoria) è assicurata quando la banca e cliente “hanno conosciuto e condiviso la qualità e quantità dell’alea, il modello e il metodo di calcolo del valore finanziario e gli scenari probabili- stici”. Quindi, a contrario, il giudizio di disvalore del regolamento contrattuale discende da una “compo- nente anomala di rischio” che permea il contratto o “dal carattere non equo o sproporzionato dell’a- lea” (3) .
Del resto lo squilibrio delle prestazioni contrattuali costituisce il primo limite “alla regolamentazione
(2) Si legge nella Relazione al codice civile del Ministro Guar- dasigilli a p. 127 che “Il nuovo codice, peraltro, non costringe l’autonomia privata a utilizzare soltanto i tipi di contratto regolati dal codice, ma le consente di spaziare in una più vasta orbita e di formare contratti di tipo nuovo se il risultato pratico che i soggetti si propongono con essi di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale, dal buon costume e dall’ordine pubblico (art. 1322, comma secondo): l’ordine giuri- dico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”.
Osserva X. Xxxxxxxxx, Il contratto immeritevole ed il rasoio di Occam, in Nuova giur. civ. comm., 2, 2018, 253 ss. (sp. 254) “La coincidenza tra la relazione ministeriale ed il pensiero di
Betti di quegli anni è totale sia nelle declamazioni teoriche come pure nella casistica allegata”.
(3) La stessa Corte d’Appello di Trieste nella sentenza coeva del 28 maggio 2018, n. 254, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, specifica che “Una clausola, denominata "rischio cambi", inserita in un contratto di locazione finanziaria è immeritevole di tutela giuridica ex art. 1322 c.c. quando crea l’irrazionalità dello scambio tra le parti contraenti (nella specie: banca e cliente) e cioè il maggior vantag- gio assicurato all’istituto di credito in caso di esito favorevole al cambio denominato storico, non contiene precisazioni sul cambio al quale l’istituto si sia procurata, sul mercato estero, la provvista in valuta estera (nella specie: franchi) e comporta una difficoltà di calcoli non in linea con il principio di trasparenza previsto dal TUB”.
degli interessi privati” perché espressione di quel “principio di solidarietà, sintesi insuperabile del prin- cipio di buona fede”.
In altri termini, la Corte d’Appello ravvisa l’imme- ritevolezza dei prodotti finanziari, dei derivati impli- citi nella specie, nella non conformità del regolamento ad un principio di equilibrio (quale espressione di un superiore valore di solidarietà); mancanza di equilibrio che si desume, dalla mancata conoscenza dell’alea o dalla sproporzione dell’alea negoziale.
A seguire, succinte considerazioni sono quelle che la Corte riserva alla tenuta della clausola rischio cam- bio, valutata nel concreto.
La Corte di Trieste, a differenza di quanto precisato dalla sentenza in primo grado del Tribunale di Udine, non affronta espressamente il tema della autonomia negoziale (seppur in una logica di col- legamento) della pattuizione ma, nel merito, si limita a valutare la lettera della clausola: certa- mente il calcolo del canone dipendente mensil- mente dalla variazione tra cambio storico e cambio di scadenza del canone non è né chiaro né lineare, tanto da indurre la Corte ad affermare che con detta clausola si inserisce una componente di rischio autonoma “in quanto promanante dal risul- tato di un’operazione derivativa sui cambi scindi- bile dal contratto base [omissis]”.
Con l’ulteriore considerazione che è impensabile che la formulazione di una clausola di quel tenore serva “a garantire la giusta remunerazione per la provvista in valuta estera” come invece sostenuto dalla Banca appellante. Se l’intento dell’istituto di credito fosse stato, infatti, quello di finanziare il cliente con valuta estera, sarebbe stato sufficiente
approvvigionarsi della valuta, fissare il cambio al momento dell’acquisto e chiederne la remunera- zione, “anziché approvvigionarsi via via della valuta e scommettere sull’andamento della valuta rispetto al cambio fissato in un modo privo di legame con uno specifico momento storico [omissis]”.
In sintesi l’aver creato uno strumento finanziario autonomo, con finalità speculative non condi- vise, implica il perseguire una finalità nella rego- lazione degli interessi in gioco, che viola il limite esterno dell’autonomia privata, perché non meritevole.
Il punto sulla non meritevolezza dell’interesse perseguito nella clausola rischio cambio
Sono doverose delle riflessioni su questo arresto della Corte Territoriale.
Non si può che condividere la distinzione fra giudizio di meritevolezza e quello di liceità; la criticità, tutta- via, sta nel connotare contenuti e finalità dell’uso del vaglio ex art. 1322 c.c.
Procedendo con ordine, in relazione alla prima que- stione, è noto che, fino a tempi relativamente recenti, l’interpretazione giurisprudenziale domi- nante è stata incline ad identificare il giudizio di liceità della causa con il giudizio di meritevolezza (4). La tendenza contraria nella prassi applicativa nasce da un diverso atteggiamento dottrinale che sfocia in generale nella riscoperta delle clausole generali e della meritevolezza nella specie (5).
Dal punto di vista di chi scrive, e solo per richiamare un dibattito noto, uno spazio autonomo al giudizio di
Sempre la Corte d’Appello di Trieste, con sentenza del 18 maggio 2018, n. 198, precisa che “La clausola di rischio cambio inserita in un contratto di leasing immobiliare assume una causa propria rispetto al contratto, perché i pagamenti reciproci trovano la loro fonte non già nelle prestazioni xxxxxxxxxxxx, xxxxx xxxxx xxxxxxxxxxxx xxx xxxxxx (x xxx xxxxx xxxxxxxx), queste, a loro volta, parametrate al canone e agli altri costi del contratto.Stante la sua natura atipica (la clausola contiene una scommessa sul futuro andamento del cambio fra due divise), è necessario valutarne la meritevolezza di tutela giuridica ai sensi dell’art. 1322 c.c.; valutazione, questa, sempre comunque rivolta alla pattuizione singolarmente conside- rata, e non all’intero contratto di leasing, di sicuro meritevole di tutela per gli interessi perseguiti dalle parti”.
(4) L’iniziale distinzione fra meritevolezza e liceità, corrispon- dente all’immediata entrata in vigore del Codice civile del 1942, giustificata dall’esigenza di ancorare la meritevolezza all’afferma- zione di superiori valori ideologici di carattere corporatistico, è stata messa in discussione dal tramonto di tale regime e delle istanze ad esso sottese. In tal senso, si veda X. Xxxxxx, Luci ed ombre nell’interpretazione della legge, in Jus, 1975, 145 e X. Xxxxx, Il contratto, I, Milano, 1954, 199-277; X. Xxxxxxxx, voce “Contratto”, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 829, nt. 149. Per una
rassegna si veda X. Xxxxxxx, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ, 1978, I,
52. Osservava a riguardo G.B. Ferri, in Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968, 406 ss. che “I criteri dei quali l’ordinamento si avvale, per la valutazione della meritevolezza dell’interesse, sono quelli enunciati nell’art. 1343 c.c.: norme imperative, ordine pubblico, buon costume. Solo quando l’inte- resse perseguito con il contratto sia contrario a siffatti principi, l’interesse non è meritevole di tutela”. Per la tesi della coincidenza di meritevolezza e liceità, G.B. Xxxxx, Il negozio giuridico, Padova, 2001, 109 ss.; X. Xxxxx, Il contratto, in Tratt. dir. priv. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 424-425 ss.; X. Xxxxxx, La disciplina della causa, in AA.VV., I contratti in generale, a cura di
X. Xxxxxxxxx, Torino, 1999, 539 ss.; X. Xxxxx, Il contratto, in Tratt. dir. civ. Sacco, Torino, 1993, II, 448 ss.
(5) A fronte di quello che da X. Xxxxxxxxx, in Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in Riv. dir. civ, 1994, 799 ss. è stato definito come “un deciso allargamento della teoria delle fonti, un indebolimento delle dominanti concezioni formali- ste e dal progressivo abbandono del metodo dogmatico paleo o neosistematico”.
meritevolezza nel diritto positivo è stato ritagliato dall’art. 2645 ter c.c. (6).
Infatti, che il controllo ex art. 1322, comma 2, c.c. sia altro da quello ex art. 1343 c.c. è concetto che emerge chiaramente dall’introduzione della norma sulla destinazione patrimoniale.
In questo ambito si è detto che la destinazione patri- moniale è rilevante e valida laddove superi il doppio vaglio di meritevolezza e liceità.
Si condivide, quindi, l’idea che l’interpretazione della nuova disposizione, impone di considerare, in ambito più generale, il ruolo del criterio della meri- tevolezza “come clausola generale su cui misurare l’autonomia privata” (7).
L’art. 2645 ter, in altri termini, ha avuto il pregio di recuperare il ruolo autonomo che l’art. 1322, comma 2, c.c. svolge nel nostro sistema.
Tuttavia, si deve segnalare che la meritevolezza non è solo criterio per scrutinare l’idoneità della conven- zione atipica a dare luogo ad un vincolo contrattuale rilevante; in realtà, viene utilizzata per temperare le iniquità di alcuni contratti (8).
Nella presente disamina, proprio nel tentativo di ricostruire la recente vicenda giurisprudenziale del- l’operatività del giudizio di meritevolezza, quale strumento di controllo sul merito dell’assetto di interessi delineato dalle parti nel contratto, non possiamo che far riferimento ad alcune recenti pro- nunce della Cassazione che hanno negato tutela ai contratti atipici, perché non superano il vaglio ex art. 1322 c.c.
Il richiamo è, per rimanere nell’ambito finanziario, alle pronunce in tema di contratti c.d. for you e my way e in tema di derivati otc (dei cc.dd. irs, in particolare).
In entrambi i casi la finalità dell’intervento giudiziale è di correzione dell’assetto di interessi delineato, attraverso la liberazione delle parti contraenti dal vincolo negoziale (9).
Quanto al primo filone giurisprudenziale, la mole di contenzioso in materia, risalente all’ultimo decen- nio, è importante.
Oggetto delle pronunce è, come noto, un’operazione giuridica complessa, valutata unitariamente sotto il profilo causale, che consta dell’erogazione da parte di un istituto di credito di un finanziamento vincolato a strumenti finanziari, venduti dalla banca mutuante e dalla stessa gestiti. Di norma il regolamento contrat- tuale prevede anche la costituzione di pegno a garan- zia dell’investimento e il pagamento di una penale particolarmente onerosa in caso di recesso del cliente.
Tra le varie rileva la pronuncia della S.C. 15 febbraio 2016, n. 2900 (10) con cui la Cassazione è interve- nuta con considerazioni di portata più generale, in ordine alla qualificazione dei prodotti “For you”, sulla loro atipicità e sull’alterazione dell’equilibrio con- trattuale che li caratterizza, connettendo a tale squi- librio la sostanziale non meritevolezza giuridica e carente tenuta dell’operazione controversa.
La S.C., sul presupposto dell’unitarietà dell’opera- zione finanziaria, ha affrontato il tema concernente
(6) Ricordando solo alcuni tra gli studi monografici sulla desti- nazione patrimoniale, si vedano X. Xxxxxx, La destinazione patri- moniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004; F. Iamiceli, Unità e separazione dei patrimoni, Padova, 2003; X. Xxxxxx, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009;
X. Xxxxxx, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter x.x., Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale: l’art. 2645-ter x.x., Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Attività ed effetto nella destinazione dei beni, Napoli, 2010; M. F. Xxxxxxxx, Gli atti di destinazione ex art. 2645 ter x.x. x xx xxxxxx- xxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; U. La Porta, Destinazione dei beni ad uno scopo e causa negoziale, Napoli, 1994; Id., I “formanti dell’ordinamento giuridico”, il diritto anglosassone e l’iperuranio (Piccola e gioiosa reazione ad un articolo di Xxxxxxxxx Xxxxxxx su trust e trascrizione), in Scritti in onore di X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 115 ss.
(7) X. Xxxxx, voce Atto di destinazione, in Enc. dir. annali, V, Milano, 2012, 69 osserva “Un’interpretazione della nuova dispo- sizione non influenzata dai pregiudizi della passata elaborazione concettuale impone invece di riconsiderare, in ambito più gene- rale, il ruolo del criterio della meritevolezza, come clausola gene- rale su cui misurare l’autonomia privata, secondo una chiave di lettura tra l’altro più consona all’originale disposizione dell’art. 1322 c.c.; proprio in quanto clausola generale, elastica e mute- vole, la meritevolezza è criterio bisognoso di una riconsiderazione dei contenuti, nel senso di non essere più espressione di esigenze superiori ed esterne ai soggetti interessati, secondo la superata
logica della funzione economico-sociale del contratto, bensì cri- terio valutativo dell’assetto voluto dall’autonomia privata affinché si realizzi un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco e quindi sostanzialmente un parametro valutativo della sostan- ziale giustizia contrattuale della fattispecie frutto dell’autonomia privata, intendendo tale concetto non in senso limitato ai con- traenti ma esteso ai terzi interessati”.
(8) La ricostruzione prospettata che scinde liceità e meritevo- lezza è in linea con l’insegnamento di X. Xxxxxxxxxxx, Profili istitu- zionali del diritto civile, III ed., Napoli, 1994, 70; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, III ed., Napoli, 2006, 334 ss. Qui il tema, però, è non solo l’autonomizzazione del vaglio ex art. 1322 c.c. rispetto a quello di liceità ex art. 1343 c.c. ma anche analizzare la centralità che il richiamo alla meritevolezza ha nella valutazione dei contratti finanziari.
(9) Fanno riferimento e utilizzano allo stesso modo il concetto di meritevolezza anche altre sentenze relativamente recenti su con- tratti non finanziari. In tema di contratti assicurativi e di clausole claims made impure, si vedano Cass., SS.UU., 6 maggio 2016, n. 9140, in Foro it., 2016, 2013 ss. con note di X. Xxxxxxxxx - X. Xxxxxxxx -
X. Xxxxxxx, Sul giudizio di meritevolezza, utilizzato per espungere da un disciplinare di concessione di una derivazione d’acqua una clau- sola sconveniente, si veda Cass., SS.UU., 17 febbraio 2017, n. 4224, in Nuova giur. civ. comm., 9, 2017, 1205 ss.
(10) A tale sentenza ha fatto recentemente seguito anche Xxxx. 27 febbraio 2017, n. 4907 e Cass. 19 dicembre 2017,
n. 31183, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
l’alterazione dell’equilibrio contrattuale realizzato con detto modello negoziale.
La non congruità dello scambio, legata alla valuta- zione del caso concreto, scaturisce dalla considera- zione che la banca consegue senz’altro un lucro, corrispondente agli alti interessi pagati dal cliente, il quale invece si espone al rischio che il valore degli strumenti finanziari acquistati sia inferiore all’am- montare degli interessi stessi corrisposti.
In definitiva, mentre la banca effettua un investi- mento sicuramente redditizio, il risparmiatore assume tutti i rischi inerenti all’oscillazione dei mer- cati e alla difficoltà di realizzare il valore dei titoli. Dal sostanziale sbilanciamento del rischio econo- mico del contratto addossato su una soltanto delle parti (il cliente), la Corte fa discendere l’immerite- volezza dell’operazione ai sensi dell’art. 1322 c.c., perché non coerente con i principi di cui agli artt. 38 e 47 Cost., sulla tutela del risparmio e l’incentivo delle forme di previdenza, anche private (11).
Altro scenario giurisprudenziale, in punto di vaglio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., è quello che si delinea in relazione alle ipotesi di derivati e nella specie di interest rate swap negoziati al banco.
Anzi mi si permetta di sottolineare come il criterio di meritevolezza assuma una quasi inedita centralità nella valutazione di questa tipologia di contratti finanziari.
Le decisioni in cui si fa ricorso al vaglio ex art. 1322, comma 2, c.c., sono molteplici.
Analogamente a quanto emerso in materia di opera- zioni finanziarie for you e my way, anche in tema di irs OTC negoziati al banco, la giurisprudenza ha rite- nuto che siano immeritevoli di tutela quei contratti connotati da asimmetricità dell’alea, in cui emerga una ripartizione sbilanciata e non condivisa del rischio negoziale (12).
Ancora, richiama la clausola di meritevolezza, una recente Cassazione (13), concernente un irs OTC sottoscritto dal cliente con l’obiettivo di realizzare una copertura, poi rivelatosi sostan- zialmente speculativo.
Nella specie la Suprema Corte, con questo arresto, misura la meritevolezza dell’irs in base agli artt. 21
T.U.F. e 26 Regolamento Intermediari Consob (nella sua precedente versione n. 11522/1998), norme imperative ed inderogabili che dettano, quali criteri di comportamento degli intermediari, la diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e dell’integrità del mercato.
In buona sostanza il ragionamento si fonda sulla considerazione che l’irs di copertura, per essere rispondente all’interesse oggettivo del cliente rispar- miatore, deve possedere i requisiti che sono indicati nella determinazione Consob del 26 febbraio 1999, DI/999013791, che si inquadra nell’ambito delle misure di attuazione del T.U.F. e del Regolamento Consob (e cioè degli artt. 21 T.U.F. e 26 Regola- mento Intermediari sopra citati).
L’assenza nell’irs delle caratteristiche sopra richia- mate implica mancata cura dell’interesse del cliente e immeritevolezza del contratto ex art. 1322 c.c.
L’impostazione di questa pronuncia per alcuni aspetti si discosta ma per altri è assimilabile al noto indirizzo giurisprudenziale, inaugurato dalla Corte d’Appello di Milano (14), sempre concernente la validità di un’operazione di copertura finanziaria, in concreto inidonea a realizzare tale finalità.
In questo caso la Corte territoriale, considerata la incapacità della negoziazione in derivati ad assolvere la dichiarata funzione di copertura, ne ha sancito la nullità per difetto di meritevolezza.
Nello specifico la Corte ha precisato che il derivato, sia esso speculativo o di copertura, debba essere qualificato come scommessa autorizzata, individuan- done la causa “nella consapevole razionale creazione di alee che, nei derivati c.d. simmetrici, sono reci- proche e bilaterali”.
A conferma di tale qualificazione deporrebbe il dato letterale dell’art. 23, comma 5, T.U.F. che, nell’e- scludere l’applicazione dell’art. 1933 c.c. a tale fatti- specie negoziale, escluderebbe l’assimilazione alla scommessa c.d. tollerata (“ovvero alla scommessa tradizionalmente concepita come socialmente
(11) In dottrina si vedano le considerazioni relative a meritevo- lezza e contratto for you di X. Xxxxxxx, Il giudizio di meritevo- lezza, in Giur. it., 2017, 55 ss.; X. Xxxxx, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Banca, borsa, tit. cred, 2016, II, 1317 ss.; X. Xxxxxxxx, For you, for nothing o meritevo- lezza, in Società, 2016, 729 ss.; X. Xxxxxxxxx, Validità del prodotto finanziario My way e tutela dell’investitore, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 356 ss.
(12) Trib. Roma, Sez. III, 8 gennaio 2016, n. 212, in Ilsocietario. it, 2016, 18 maggio.
(13) Cass. 31 luglio 2017, n. 19013, in Corr. giur., 2018, 339 ss.
(14) App. Milano 19 settembre 2013 diffusamente commen- tata (in questa Rivista, 2014, 213, con nota di Xxxxxxx, Recenti
evoluzioni dell’aleatorietà convenzionale: i contratti derivati OTC come scommesse razionali; in Banca, borsa, tit. cred., 2014, 3, II, con nota X. Xxxxx; in Giur. comm., 2014, 2, II, 277, con nota di Xxxxxx Xxxxxxxx; in Rass. dir. civ., 2014, 1, 295, con nota di Xx Xxxxx), nella cui scia si pongono, tra le altre, Trib. Torino 17 gennaio 2014, in questa Rivista, 2014, 1012 ss.; App. Bologna 11 marzo 2014, n. 734, in questa Rivista; Trib. Milano 16 giugno
Contro tale indirizzo, esclude che la causa e la meritevolezza del contratto dipendano dalla puntuale raffigurazione dei rischi pre- sentati dal contratto, App. Milano 11 giugno 2018, n. 2859 - Pres. Bonaretti, Rel. Catalano, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
improduttiva, del tutto estranea all’area dei contratti di scommessa legalmente autorizzata che il legislatore considera legalmente improduttivi”).
Ora, solo laddove l’alea sia frutto di una “valutazione razionale in termini di entità e natura” risulterebbe soddisfatto il parametro di meritevolezza, condizione di riconoscibilità nel nostro ordinamento.
A tale riguardo le parti saranno tenute a conoscere e concordare il mark to market, la remunerazione del- l’intermediario e gli scenari probabilistici.
La mancanza anche di uno solo di questi elementi determinerebbe la nullità dello swap perché sarebbe in tal caso comunque preclusa l’individuazione del rischio e la convenzionalità dell’alea.
Nella prima pronuncia l’immeritevolezza dell’irs OTC discende dal contrasto dell’assetto di interessi in gioco, palesemente squilibrato, con le norme cogenti desumibili dal T.U.F. e dal Regolamento Intermediari.
Si realizza, quindi, un tentativo di “armonizza- zione” e “una reciproca integrazione del diritto comune e del diritto speciale dell’intermedia- zione finanziaria” (15).
Nella seconda pronuncia l’immeritevolezza del con- tratto atipico, assunta la non riconducibilità dello schema negoziale a quello della scommessa autoriz- zata, discende dalla mancata governabilità dell’alea contrattuale ovvero dalla mancata conoscenza degli elementi che valgono a connotare tale alea. In altri termini, il fatto che banca e cliente non hanno conosciuto e condiviso la qualità e quantità dell’alea, il modello e il metodo di calcolo del valore finanziario e gli scenari probabilistici, esclude la rilevanza giuri- dica e la meritevolezza dell’assetto di interessi attuato in concreto con l’operazione finanziaria.
Entrambi gli arresti, comunque, sono in linea con quanto recentemente affermato dalla Cassazione, sem- pre in merito alla validità degli swaps, sotto il profilo della metodologia del ricorso al giudizio di meritevo- lezza ai fini di riequilibrio equitativo del contratto, per cui il vaglio ex art. 1322 c.c. va compiuto secondo una valutazione effettuata ex ante, non ex post (16).
In questo excursus giurisprudenziale si inserisce anche la presente sentenza della Corte d’Appello di Trieste, in linea con le altre pronunce evocate.
Si registra sicuramente un ricorso innovativo e moderno al controllo di giuridicità dell’atto nego- ziale (17). In altri termini, è evidente una conforma- zione dell’uso del giudizio di meritevolezza che, prescindendo dalla sua vocazione per così dire “fisio- logica”, piega la convenzione a valori extra ordinem, ai principi costituzionali di solidarietà e di eguaglianza sostanziale, non limitandosi ad essere solo veicolo di congruenza fra norma privata e norma costituzionale. Ora, è evidente che su questo diverso uso della meritevolezza incide la mutata percezione dell’auto- nomia contrattuale radicalmente modificata nel corso degli ultimi decenni (18).
Si è detto, addirittura, che ormai sarebbe ana- cronistico parlare di sanctity of contract (19): nel senso che, anche in virtù del condizionamento che discende dal diritto privato europeo e non solo dal diritto costituzionale, si è costituito un sistema di tutela del contraente debole, in primo luogo del consumatore, che profondamente ha inciso sul concetto di autonomia negoziale, tanto da ammettere la configurazione di un principio di equilibrio e di proporzionalità delle prestazioni che permea il sistema giuridico.
Gli orientamenti dottrinali sul ricorso al vaglio di meritevolezza in questa logica sono diversificati.
A posizioni pressoché neutrali (20), si affiancano letture abrogative dell’uso della regola in questione o, “a tutto concedere”, letture “ispirate a grande cautela” (21). Tra gli orientamenti critici, si è detto che è opinabile il ricorso al vaglio di meritevolezza agganciata a valori costituzionali, al solo fine di limitare l’autonomia privata in correlazione a situa- zioni di indole non generale, ma avuto riguardo alla specificità del caso concreto.
Diversamente potrebbe essere apprezzata l’appli- cazione dell’art. 1322, comma 2, c.c., e non se ne tradirebbe il significato, quando detto giu- dizio sia teso a verificare “se vi siano dissonanze
(15) X. Xxxxx, Condotta dei contraenti e meritevolezza degli interessinellaprestazionedeiservizidiinvestimento, in Corr. giur., 2017, 349 ss. (sp. 354-355). È questo un discorso svolto anche da
X. Xxxxxxxxx, La Nullità del contratto e l’interest rate swap, repe- ribile in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 177 ss., sp. 184.
(16) Così da ultimo, Xxxx. 13 luglio 2018, n. 18724 in www. xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
(17) In questo senso X. Xxxxxxxx, For you, for nothing o meritevolezza, cit., 730-731.
(18) X. Xxxxx, Xxxxxxxx generali e discrezionalità del giudice, cit., 134-136.
(19) X. Xxxxxxxxxx, Il controllo giudiziale dell’equilibrio delle prestazioni contrattuali tra apparente interpretazione correttiva e reale integrazione dell’atto di autonomia privata, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 758 ss. Sul punto anche X. Xxxxxxx, voce “Auto- nomia privata (profili costituzionali)”, in Annali, Enc. dir., Milano, 2015, 61 ss.
(20) X. Xxxxxxxx, Autonomia privata e intervento del giudice, in questa Rivista, 2017, 625 ss.
(21) X. Xxxxxxxxx, Il contratto immeritevole e il rasoio di Occam, in Nuova giur. civ. comm., 2, 2018, 253 ss.
tra scopi dell’ordinamento e scopi del tipo contrattuale” (22).
Maggiore apertura, più in generale sul ricorso alle clausole generali come strumenti di riequili- brio del contratto per le mani del giudice, dimo- stra quell’autorevole dottrina che, in una articolata disamina dell’uso dell’argomento costi- tuzionale nella giurisprudenza ordinaria, giunge alla conclusione che le clausole generali, un tempo considerate con sospetto, “possono ora essere ritenute lo strumento giuridico più inci- sivo per garantire la giustizia contrattuale” (23). Lo sviluppo del ragionamento ha come cardini di riferimento alcune pronunce note che connotano l’esperienza giurisprudenziale dell’ultimo ventennio in linea con gli indici della Costituzione.
Nel richiamare la sentenza in materia di riducibilità d’ufficio della clausola penale manifestatamente eccessiva e la pronuncia in materia di abuso del diritto di recesso ad nutum, ispirate entrambe all’ap- plicazione della clausola generale di buona fede con- trattuale e del dovere di solidarietà sociale, l’Autore evidenzia la tendenza a governare l’autonomia pri- vata attraverso una sorta di riequilibrio del contratto per via giudiziale.
Lo scopo di questo orientamento nella prassi appli- cativa è quello “di valorizzare i diritti del soggetto che operi in un determinato contesto socio economico, indipendentemente non solo dalla preventiva previ- sione e regolamentazione legislativa, ma anche dalle pattuizioni contrattuali in cui si esprime l’autonomia privata” (24).
In un ambito così peculiare come quello dei nuovi contratti finanziari, regno dell’asimmetria contrat- tuale, in cui nemmeno la disciplina di settore sembra in grado di piegare lo squilibrio contrattuale, tenden- zialmente insanabile (25), trova giustificazione la scelta dell’autorità giudicante che tutela la parte debole della contrattazione, con un argomentare che non riguarda la patologia negoziale né l’inadem- pimento ma, a priori, l’irrilevanza giuridica delle operazioni contrattuali concluse (26).
In questo modo, si evita aprioristicamente di incor- rere nella distinzione fra regole di validità e regole di condotta degli intermediari, sancita proprio in mate- ria di contratti di intermediazione dalle sentenze Rordorf (27).
Aggiungo che, in questo modo, al vaglio di meritevo- lezza si riconosce un sostanziale ruolo rimediale e che ciò nasce dall’esigenza avvertita di non lasciare all’autono- mia privata il governo del fenomeno contrattuale.
Si supera, infatti, il problema di quale possa essere la conseguenza della violazione degli obblighi informa- tivi imposti dalla disciplina di settore finanziaria, perché a monte l’operazione è valutata come irrile- vante per il nostro sistema, in tal modo dissolvendo il caposaldo delle sentenze Rordorf.
Quello del ricorso alla meritevolezza, in quest’am- bito, ha un senso se collocato in una prospettiva ampia di sistema e, seppur con una certa cautela, la conclusione è che lo strumento potrebbe trovare una sua giustificazione.
Per tornare alla Corte d’Appello di Trieste, lo squili- brio delle prestazioni (che connota in concreto il
(22) X. Xxxxxxxx, Della meritevolezza. Il caso claims made, in
Foro it., 2017, 3117 ss.
(23) X. Xxxxxxx, voce Autonomia Privata (Profili costituzionali), in Enc. dir. annali, Milano, 2015, 61 ss. (sp. 88 -92); si vedano anche le riflessioni di M.C. Perchinunno, Il controllo di meritevolezza delle clausole claims made, in Cont. e impr., 2017, 746 ss. Questa A., in particolare, afferma (755) che “il giudizio di meritevolezza diventa sì un principio che consente di ampliare il raggio di azione dell’autonomia privata, ma diventa altresì un contenitore che, di volta in volta, in relazione al caso concreto, i giudici dovranno riempire per rendere ‘giustizia alla concreta realtà di un rapporto vitale, senza tuttavia il rischio di una incontrollabile soggettivismo della decisione’. (X. Xxxx, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, 11 ss.)”.
Anche X. Xxxxx, Condotta dei contraenti e meritevolezza degli interessi nella prestazione dei servizi di investimento, in Corr. giur., 3, 2018, 349 ss. (sp. 354) osserva che “[omisssi] la sentenza in esame (con riferimento a Xxxx. 31 luglio 2017, n. 19013) compie un passo ulteriore, ravvisando proprio nelle regole di settore un parametro per valutare la meritevolezza degli interessi del con- tratto, così realizzando una armonizzazione e una reciproca inte- grazione del diritto comune dei contratti e del diritto speciale dell’intermediazione finanziaria”.
(24) X. Xxxxxxx, op. cit., 89.
(25) In tal senso X. Xxxxxxxx, Copertura e speculazione: funzioni e disfunzioni dell’interest rate swap, in www.dirittoban- xxxxx.xx.
(26) Colpisce anche l’osservazione, particolarmente adatta al ricorso al vaglio di meritevolezza nell’ambito della disciplina dei contratti finanziari, di X. Xxxx, in Note sulla contrattazione di impresa, in Riv. dir. civ., 1995, I, 639 che autorevolmente ha evidenziato come, onde evitare che la costituzionalizzazione del contratto si tramuti in funzionalizzazione, “basta spostare la mira dall’art. 2 all’art. 41 Cost.” e leggere in particolare i contratti di impresa come strumenti di un’attività economica che non contra- sta l’utilità sociale.
(27) Le sentenze sono le pronunce della Cass. nn. 26724 e 26725 del 19 dicembre 2997 in Corr. giur., 2008, 2, 223 ss., con nota di Mariconda.
Le considerazioni sono di X. Xxxxx, Il contratto inadeguato e il contratto immeritevole, in Contr. e impr., 3, 2017, 921 ss.; Id., Condotta dei contraenti e meritevolezza degli interessi nella pre- stazione dei servizi di investimento, in Corr. giur., 349 ss. L’A., nell’ult. op. cit., 355, osserva che “Il contratto di investimento inadeguato, sotto il profilo della non rispondenza agli obiettivi di investimento del cliente, può, dunque risultare immeritevole, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.”.
Analogamente anche X. Xxxxxxxx, Autonomia privata e intervento del giudice, in questa Rivista, 2017, 625 ss. (sp. 634-635).
regolamento contrattuale) è considerato alla luce di un superiore principio di solidarietà, che si proietta nella regola della buona fede contrattuale.
La Corte, in altri termini, valuta la non meritevolezza dell’assetto di interessi perseguito, operando un bilanciamento dei contrapposti valori in gioco, quello individuale della banca e quello superiore solidaristico che domina e presiede alla regolazione degli interessi privati, in tal modo garantendo ed affermando un superiore principio di congruità contrattuale.
Sullo sfondo di queste riflessioni resta il dubbio che il ricorso alla meritevolezza, da parte della giurispru- denza, sconti il limite e la difficoltà di individuare un punto di equilibrio tra il perseguimento di una finalità equitativa di giustizia contrattuale e lo spettro di un’insufficiente certezza del diritto che nasce dalla imprevedibilità delle decisioni e dal potenziale arbi- trio, conseguente all’attingere alle clausole generali. Inoltre, passando ad una valutazione critica, il ricorso al giudizio di meritevolezza con una copertura costi- tuzionale, ai fini di un riequilibrio equitativo del contratto, pone il problema della individuazione del confine effettivo fra le due modalità di controllo quello di liceità e quello di meritevolezza.
Anche a voler ammettere che il nostro ordinamento sottoponga la causa dell’atto di autonomia ad un duplice vaglio (28), un tema che rimane aperto è
quello di individuare l’ambito d’applicazione del- l’uno e dell’altro, contenendo la tendenza a margi- nalizzare il primo se si amplia la portata del secondo. Il rilievo attribuito alle norme costituzionali, che fonda la c.d. “costituzionalizzazione del con- tratto” (29), riduce, infatti, la configurabilità di negozi con causa illecita per contrarietà all’ordine pubblico e il buon costume, valori assorbiti dall’ap- plicazione del parametro di meritevolezza diretta- mente integrato dai principi costituzionali.
La qualificazione giuridica della clausola rischio cambio come derivato implicito
La valutazione della Corte d’Appello in ordine alla meritevolezza dell’operazione negoziale posta in essere, permette di escludere a priori qualsiasi valu- tazione sulla configurazione e sulla natura giuridica del contratto di leasing con annessa clausola rischio- cambio.
Il che, se da un lato agevola il giudizio, dall’altro certamente non contribuisce alla riflessione sulla categoria dei c.d. embedded.
A tale riguardo, qualche pur breve considerazione è doverosa, perché si ritiene, con ciò anticipando gli esiti del ragionamento, che la forte matrice aleatoria di tale pattuizione legittimi la sua riconducibilità alla fattispecie di derivato (30).
(28) Pur non essendo questa certamente la sede per affrontare un tema tanto articolato, una lettura (X. Xxxxxxxxxxx, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, Napoli, 2014, 588 ss.) che appare condivisibile, ricostruisce il controllo di meritevolezza come controllo positivo di “idoneità dell’atto concreto all’attua- zione del valore” in aggiunta al controllo di liceità che vale come controllo normativo negativo, essendo “diretto a negare tutela giuridica a interessi in contrasto con valori fondamentali”.
(29) X. Xxxxxxxxxxx, Appunti sull’inquadramento della disciplina delle c.d. condizioni generali di contratto, in AA.VV., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, Milano, 1970, spec. 22, anche se da ultimo questo Autore qualifica le norme costituzionali come norme imperative e, quindi, perviene a sinda- care gli atti di autonomia privata direttamente sulla base dei princìpi costituzionali, senza il filtro dell’ordine pubblico: cfr. X. Xxxxxxxxxxx - X. Xxxxxxxx, Manuale di diritto civile, VII ed., Napoli, 2014, 590.
(30) In dottrina, sullo specifico tema dei derivati impliciti,
X. Xxxxxx Xxxxxxxx, Le clausole di indicizzazione come strumenti finanziari derivati?, in Giustizia xxxxxx.xxx del 17 dicembre 2015;
X. Xxxxx, La violazione della regola della trasparenza nel mutuo con tasso floor ed il problema della scommessa razionale nel derivato implicito, in Resp. civ. prev., 2015, 25 ss. In generale sui derivati incorporati, X. Xxxxxxx, Iderivati incorporati sonoderivatiedincidonosullaqualificazionecivilisticadeicontratti di finanziamento, in Società, 2016, 1385 ss.; X. Xxxxxxxx, Di derivati impliciti e di derivati apparenti, in Riv. dir. banc., 4, 2016;
X. Xxxxxxxxx, Componenti derivative e causa di finanziamento, in Le operazioni di finanziamento, bancario, societario, sull’estero, al consumatore, strutturato, a mezzo garanzia, pubblico, diretto da Xxxxxxx e proseguito da Panzarini - Dolmetta - Patriarca, Torino, 2016, 1697 ss.; X. Xxxxxx, I derivati impliciti: vizi e virtù della
scomposizione, in Xxx. xxx. xxxx., 0000, xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx- xxx.xx.
Per riflessioni sulla riqualificazione dell’attività di intermediazione in cambi, si veda X. Xxxxxxx, La riqualificazione dell’attività di intermediazione in cambi come prestazione di servizi di investi- mento in strumenti finanziari, in Le Corti Fiorentine, 2016, 43 ss. Sulla tematica ampiamente dibattuta dei contratti derivati, da ultimo, la monografia di X. Xxxxxxxx, Alla ricerca del “derivato”, Milano, 2016; ma si vedano anche X. Xxxxxxx, Alea giuridica e calcolo del rischio nella scommessa legalmente autorizzata di swap, in Riv. dir. civ., 2016, 1096 ss. e, per una sintesi dei contributi, X. Xxxxxxx, Causa ed autonomia privata nei contratti derivati, in Causa del contratto, contratto - Evoluzioni interpreta- tive ed indagini applicative, Milano, 2016, 193 ss.
Si vedano anche gli scritti di X. Xxxxxxx, Alea giuridica e calcolo del
rischio nella scommessa legalmente autorizzata di swap, in Riv. dir. civ., 2016, 1096 ss.; X. Xxxxxxx, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario e il contratto derivato over the counter come scommessa razionale, in X. Xxxxxxx (a cura di), Swap fra banche e clienti, Milano, 2014, 19. Dello stesso A., sul tema La causa del contratto di interest rate swap e i costi impliciti, in Riv. dir. Banc., 2013; Id., I costi impliciti nell’interest rate swap, in Giur. comm., 2013, I, 648 ss.; Id., Le stagioni dell’orrore in Europa: da Franken- xxxxx ai derivati, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, 3, pt. 1, 280-309. In giurisprudenza, si vedano le pronunce del Trib. Udine 29 feb- braio 2016, n. 263; 13 maggio 2015, n. 711; 20 luglio 2015, n. 1036; 25 agosto 2015, n. 1179; 1° settembre 2015, n. 1196, tutte in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
In relazione alla clausola di indicizzazione degli interessi come strumento finanziario derivato, ne nega l’autonoma configura- zione come derivato implicito, Trib. Udine 13 maggio 2015, n. 711.
Una delle questioni attualmente più controverse in materia di derivati finanziari è proprio quella con- cernente l’individuazione dei derivati c.d. impliciti, che si inseriscono in operazioni di finanziamento.
Risolta tale criticità, sorge un diverso tema di inda- gine: se qualificare dette pattuizioni come autonome (si discute, come meglio si dirà, di clausole limitative delle oscillazioni del tasso di interesse -floor/cap, di clausole di indicizzazione e di clausole di cambio) ovvero se considerare le stesse perfettamente inte- grate nel contratto host principale.
Questione subordinata, perché consequenziale logi- camente, è l’incidenza di dette clausole sulla qualifi- cazione civilistica del contratto di finanziamento incorporante e se le stesse inquinino o meno (31) la funzione del contratto host cui accedono.
Procedendo con ordine, non si può prescindere, per una corretta comprensione, da una descrizione delle diverse fattispecie considerate come possibili ipotesi di embedded.
Un’ampia casistica è offerta, più che dalle pro- nunce giurisprudenziali sul tema, che restano poche (32), dalle numerose pronunce del- l’ABF (33) che si sono succedute negli anni nei collegi di tutta Italia.
Una delle ipotesi in cui è dato di frequente identificare i derivati incorporati è quella che si è posta all’attenzione degli interpreti in virtù delle recenti fluttuazioni al ribasso del tasso di interesse variabile in contratti di natura crediti- zia: si tratta nella specie di contratti di leasing o di mutuo (in genere contratti di finanziamento) che contengono clausole tali da incidere sugli interessi da pagare.
In genere queste clausole si identificano in un floor o in un cap, ovvero nell’individuazione di un tasso soglia, al di sotto del quale o al di sopra del quale, l’interesse variabile, non è dovuto. Il guadagno tratto dal soggetto nel cui interesse è predisposto il tasso soglia è pari alla differenza tra interesse di mercato e interesse al tasso soglia.
La combinazione del floor e del cap formano il c.d. collar, vale a dire una griglia che serve a mantenere in limiti definiti l’oscillazione del tasso variabile.
Tradotto in altri termini, in caso di mutuo con tasso floor, il mutuante acquista, dietro pagamento di un corrispettivo, un’opzione alla riconduzione del tasso variabile al tasso soglia, sicché quando il primo scende al di sotto del limite prestabilito, il mutuante, esercitata l’opzione, ha comunque diritto al tasso soglia (con un guadagno pari al differenziale tra tasso di mercato e tasso soglia, decurtato, ovvia- mente il valore del premio pagato per l’acquisto dell’opzione).
Analogamente ma in senso contrario opera l’apposi- zione di un cap al tasso di interesse variabile, tendente non al ribasso ma al rialzo. Il mutuatario, in questo caso, acquista un’opzione al tasso soglia, esercitata solo quando il tasso variabile eccede il limite stabilito (con un guadagno anche in questo caso pari al diffe- renziale di valore fra tasso di mercato e tasso soglia, decurtato il prezzo per l’acquisto dell’opzione) (34). Altra supposta ipotesi di derivato implicito è quella che ricorre in caso di contratti di finanziamento con clausola di rischio cambio. È questa la fattispecie in cui si decide di ancorare l’indicizzazione del tasso di interesse (nel mutuo) o del canone (nel leasing) alle oscillazioni del rapporto di cambio fra monete diverse.
Si pensi ad es. all’ipotesi di contratto di finanzia- mento, cui sia apposta una clausola che contempli l’indicizzazione del canone alle oscillazioni della valuta per es. franco-svizzera rispetto al cambio sto- rico di riferimento in euro (35) (per riferirci al caso oggetto della pronuncia della Corte di Trieste).
Si tratta in concreto di un accordo con cui i con- traenti si impegnano allo scambio di un differenziale di valore: in buona sostanza, le parti reciprocamente si obbligano a pagare il differenziale tra l’ammontare in franchi del canone pattuito al momento della conclusione del contratto di finanziamento e l’am- montare in franchi dello stesso canone, con
Sulla clausola rischio cambio, riconosce la natura autonoma di derivato incorporato, oltre al Trib. Udine 29 febbraio 2016, n. 263, anche Trib. Udine 13 maggio 2015, n. 711.
(31) Così X. Xxxxxxxx, Di derivati impliciti e di derivati apparenti, in Riv. dir. banc., 4, 2016, 5.
(32) Trib. Udine 29 febbraio 2016, n. 263; 13 maggio 2015, n. 711; 20 luglio 2015, n. 1036; 25 agosto 2015, n. 1179; 1° settembre 2015, n. 1196, tutte in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
(33) Sulla clausola floor inserita in un contratto di mutuo, e sulla sua possibile riqualificazione come opzione floor e quindi come vero e proprio strumento derivato, si vedano da ultimo le pronunce dell’ABF Roma 30 settembre 2015, n. 7669 e ABF Napoli 16 settembre 2015, n. 7355. In relazione a tale clausola floor, sulla sua natura vessatoria, ai sensi dell’art. 1341 c.c., o abusiva, ai sensi
degli artt. 33 ss. del codice del consumo, si veda ABF Napoli 5 maggio 2014, n. 2735.
(34) Inevitabilmente la condivisione dell’apposizione di un tasso soglia oltre il quale è precluso l’aumento del tasso di inte- resse evoca un tema (tra i più dibattuti in diritto bancario e finan- ziario) che è quello della c.d. xxxxx sopravvenuta. La questione, ben nota, è quella dell’usurarietà del tasso di interesse variabile che supera i limiti posti dal tasso di usura corrente non al momento della conclusione del contratto ma successivamente, nella fase di esecuzione del contratto stesso di finanziamento.
(35) Sulle ragioni connesse alla determinazione convenzionale del tasso di interesse, si veda il contributo di X. Xxxxxxxx, Derivati impliciti, clausole floor e zero floor nei contratti bancari, in Diritto della Banca e del Mercato Finanziario, 4, 2016, 717 ss.
riferimento al momento in cui il canone dovrà essere corrisposto.
In altri termini, per essere ancora più chiari, le parti si obbligano reciprocamente all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria futura, ovvero al paga- mento della differenza fra il valore in franchi del canone inizialmente pattuito in euro e il valore in franchi del canone al momento della scadenza, differenza liquidata dal finanziatore o dal finanziato, a seconda dell’oscillazione del tasso di cambio franco/euro. Ora, la connotazione delle fattispecie sopra descritte (floor o cap; clausola rischio cambio) quali derivati (seppur incorporati o embedded), ruota intorno alla ricostruzione del tipo tendenziale di contratto derivato, incentrata proprio sul diffe- renziale di valore (36).
Il ragionamento che, in altri termini, si intende svolgere è il seguente: se è vero che le diverse opera- zioni in derivati sono riconducibili trasversalmente al contratto differenziale, laddove le pattuizioni sopra richiamate siano connotate dalla liquidazione per differenze, che ha in sé il seme dell’aleatorietà con- trattuale, allora detti accordi sono derivati (anche se impliciti e non resi palesi).
È noto che molto si discute, nella dottrina speciali- stica di settore, se nella varietà delle operazioni in derivati, alcuni di essi abbiano la stessa struttura dell’operazione differenziale semplice (37); in tale schema negoziale (si pensi al caso di una compraven- dita a termine di titoli, merci, valute) le parti con- vengono, al momento della stipulazione, di liquidare le reciproche obbligazioni, solo con la corresponsione del differenziale dato dal raffronto fra il valore del- l’entità sottostante al momento della stipulazione e il valore che la stessa entità avrà al momento dell’ese- cuzione; con la conseguenza che, se il prezzo nel frattempo sarà aumentato, guadagnerà il compratore, se sarà diminuito, guadagnerà il venditore.
Il settlement per differenziali costituisce, in questa ipotesi, il riflesso di una scelta funzionale sottostante:
l’incertezza in ordine a chi debba eseguire il paga- mento e al quantum dovuto, concorre, infatti, a determinare la natura aleatoria del contratto concluso (38).
Ebbene, quando nei cc.dd. plain vanilla (option, future, swap) (39) si inserisce il meccanismo del pagamento per differenziale, la clausola incide sotto il profilo strutturale e funzionale del contratto; la liquidazione per differenze qualifica la fattispecie. Le parti non si obbligano, infatti, al reciproco scam- bio di pagamenti ma ad un unico pagamento, da eseguire alla scadenza di un termine convenzional- mente stabilito, incerto in ordine al quantum ma anche al profilo soggettivo, con riguardo cioè al soggetto che sarà tenuto ad adempiere, scegliendo di porre in essere un’operazione palesemente aleato- ria, assimilabile alla scommessa.
Tornando alla clausola rischio cambio e posponendo ad essa le considerazioni svolte, è di tutta evidenza che l’elemento finalistico sotteso al meccanismo finanziario congegnato dal finanziatore, ovvero allo scambio di differenziale, sia la funzione di lucro incerto, connessa all’oscillazione di valore del tasso di cambio di riferimento, che accumuna questa ipo- tesi ai derivati plain vanilla (nei termini descritti) e ai contratti aleatori puri in generale (per tornare ad una qualificazione più strettamente civilistica) (40).
Le conseguenze applicative connesse alla qualificazione giuridica della clausola rischio cambio come derivato implicito
Come anticipato, ci sono due temi legati alla quali- ficazione giuridica dei derivati embedded: il primo concerne il rapporto fra contratto host e clausola atipica contenente l’implicito ed, in particolare, come la presenza di quest’ultima pattuizione reagisca sulla causa e quindi sulla natura giuridica dell’intero contratto; il secondo riguarda, invece, l’applicabilità o meno della disciplina T.U.F. e di quella secondaria
(36) Così anche X. Xxxxxx, Sviluppi giurisprudenziali in materia di derivati over the counter, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 96-97.
(37) Sul punto, X. Xxxxx, Icontratti instrumenti finanziari derivati: nuove strategie di copertura del rischio o dissennata specula- zione,n Jus Civile, Torino, 2015, 10, 577-615; mi sia consentito il rinvio anche a X. Xxxxxxx, Aleatorietà convenzionale dei contratti derivati, Padova, 2013, 94 ss.
(38) Xxxxx configurazione aleatoria del contratto differenziale, si vedano le riflessioni di X. Xxxxxxx D’Xxxxxxxx, in I contratti di borsa e di riporto, in Tratt. dir. civ., diretto da Xxxx - Xxxxxxxx, Milano, 1969, 405; X. Xxxxxxx, I contratti di borsa, in Tratt. dir. comm., II, Padova, 2014, 891.
(39) X. Xxxxxxx, La causa del contratto di interest rate swap e i costi impliciti, in Riv. dir. banc., xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2013; Id., I costi impliciti nell’interest rate swap, in Giur. comm., 2013, I, 648
ss.; Id., Le stagioni dell’orrore in Europa: da Frankenstein ai derivati, in Banca borsa tit. cred., 2012, 3, pt. 1, 280 - 309; Id., Homo oeconomicus, homo ludens: l’incontrastabile ascesa della variante aliena di un tipo marginale, la scommessa legalmente autorizzata (art. 1935 cod.civ.), in Contr. e imp., 2013.
(40) Si tratta, con ciò parafrasando quanto previsto dal Trib. Udine 26 luglio 2015 di un “domestic currency swap”, “in cui le controparti compravendono due forward su ...nozionali di riferi- mento espressi in valute differenti, definendo così un tasso di cambio iniziale e alla scadenza si impegnano a scambiare esclu- sivamente le differenze che saranno verificate” (così si pronuncia
X. Xxxxxxxx, in Della ricerca giurisprudenziale di contenere entro ragionevoli limiti l’operatività in derivati, in Società, 6, 2016, 709 ss. (v. in particolare 717).
che la specifica, ai contratti che contengono un derivato implicito.
Con particolare riguardo all’ipotesi all’attenzione della Corte d’Appello di Trieste, con il solo scopo di calare il ragionamento nel concreto, prescindendo dal fatto che la questione non è affrontata dall’arresto commentato, ci si deve chiedere come, in sostanza, l’inserimento della clausola rischio cambio, conno- tata dalla funzione di lucro incerto, si rapporti con il contratto di leasing cui accede; se la clausola rischio cambio, qualificata derivato implicito, sia soggetta al
T.U.F. e alle disposizioni regolamentari vigenti in tema di negoziazione in derivati.
I temi sopra evidenziati (autonomia del derivato implicito, incidenza sul contratto host, assoggetta- mento alla disciplina in tema di intermediazione finanziaria) sono di notevole interesse ricostruttivo. Quanto alla prima questione, in giurisprudenza l’orientamento prevalente sembra intendere l’opera- zione come collegamento negoziale tra più contratti (contratto host e derivato implicito) (41). In altri termini, scomponendo l’operazione negoziale ed identificando due contratti, pur collegati, si tende a negare la categoria giuridica del derivato implicito, nascosto ovvero dissimulato nel contratto host.
I contributi dottrinali in materia (42) sono, da un lato, nel senso di ammettere il derivato all’interno del contratto principale, riconoscendo la categoria di derivato implicito; dall’altro nel senso di negarne l’autonoma configurazione (43).
Esistono ovviamente delle sfumature di ricostruzione. Secondo un primo indirizzo (44), che riconosce la categoria di derivato implicito, la disciplina che governa la prestazione di servizi di investimento desunta dal T.U.F. deve essere estesa anche ai finan- ziamenti che incorporano derivati, posto che la natura giuridica del derivato incorporato (atto di investimento con connotazione aleatoria) incide sull’intera operazione negoziale in essere.
Una prima riflessione discende dalla valutazione delle ragioni che giustificano l’applicazione all’atti- vità di investimento in prodotti finanziari delle norme in materia di trasparenza finanziaria; è evi- dente che l’applicazione generalizzata di queste disposizioni nasce dall’esigenza di tutelare il cliente in funzione di una finalità sovraordinata che è quella della tutela dell’integrità e correttezza del mercato.
Si sostiene correttamente che la clausola rischio cambio debba essere pubblicizzata, specie se acclusa ad un contratto di finanziamento perché trattasi di un’opzione di riconduzione del canone in euro al canone in franchi, con guadagno per l’ente finanziatore che è quantificato nel differenziale fra valore delle valute al momento della conclusione del contratto e al momento della scadenza del canone.
Il cliente deve conoscere l’operazione economica che sta ponendo in essere, perché deve essere in grado di ponderare il rischio connesso all’operazione scelta. L’unica ragione, osserva la dottrina citata, sufficien- temente forte che potrebbe, in ottica di bilancia- mento di contrapposti interessi, indurre ad escludere l’adempimento degli obblighi informativi che discendono dall’applicazione del T.U.F. (dall’art. 21 T.U.F. e dell’art. 26 del Regolamento Intermediari nella specie) è evitare il gravame di adempimenti che governerebbe in tal modo l’attuazione delle opera- zioni finanziarie di qualunque natura. In altri termini, l’unico motivo per cui in presenza di un derivato di cambio si potrebbe essere portati ad escludere l’ap- plicazione della disciplina dell’intermediazione finanziaria potrebbe essere l’intento di evitare di appesantire in modo severo l’operatività degli intermediari.
Nella difficoltà concreta di stabilire fra questi due opposti valori (tutela del cliente e del mercato da un lato, semplificazione del gravame normativo che attanaglia il sistema dell’intermediazione finanzia- ria) quale debba prevalere, si è ritenuto di affrontare il problema della disciplina applicabile ai derivati impliciti, in una prospettiva sostanzialmente diversa, più legata alla logica contrattualistica intesa in senso stretto, ovvero i) quella della prevenzione e gestione del conflitto di interessi in una logica di trasparenza;
ii) quella della causa contrattuale.
In una prima dimensione emerge evidente che opera in conflitto di interessi e contraddice ogni principio di trasparenza l’intermediario che, nel concludere un contratto di finanziamento, stipula anche un deri- vato di cambio e non comunica alla controparte la natura finanziaria dell’operazione che pone in essere. Con tale omissione, l’intermediario non solo viola l’ufficio di diritto privato ricoperto ma non permette al risparmiatore di agire quale investitore razionale,
(41) Si vedano le sentenze del Tribunale di Udine, richiamate sopra alla nota 31.
(42) X. Xxxxxxx, Xxxxx clausola floor nei contratti di mutuo, in Contr. e impr., 2005, 698 ss.; X. Xxxxxxx, I Derivati incorporati, in Diritto e Prassi dei Mercati Finanziari, Giappichellim Torino, 2016,
463 ss.; X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Clausoledi indicizzazione al franco svizzero, in Società, 2017, 88 ss.
(43) X. Xxxxxx, I derivati impliciti: vizi e virtù della scomposizione, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
(44) X. Xxxxxxx, I Derivati incorporati, cit.
consapevole dei rischi connessi ad ogni atto di inve- stimento in cui è coinvolto.
Considerando il secondo punto di analisi, ovvero quello della causa dell’operazione negoziale in essere, il contratto di finanziamento con derivato implicito è, nella lettura della dottrina che qui si riporta, un contratto che ha una prestazione unitaria ma incerta perché il cliente, finanziato dalla banca, deve resti- tuire una somma di danaro il cui ammontare è calco- lato tenuto presente il derivato di cambio ad una data scadenza. Il fatto che la prestazione sia unitaria per- ché indivisibile ed incerta, perché aleatoria nel suo ammontare, è proiezione di come le parti hanno inteso il contratto stesso e del rischio su cui le parti hanno fondato l’intera operazione negoziale.
La suddetta natura aleatoria dell’intera opera- zione chiama a sé l’applicazione del T.U.F. ed in generale della disciplina dell’intermediazione finanziaria.
Con l’ulteriore conseguenza che tale operazione negoziale atipica risulterà meritevole di tutela per l’ordinamento ex art. 1322 c.c. solo e se quell’alea fondante l’intero contratto sia razionale, ovvero sia governata da entrambi i contraenti, e solo se il cliente conosca e condivida sotto il profilo della componente del rischio l’operazione in essere.
Non tutta la dottrina, che pur condivide la natura unitaria del contratto in questione, e l’autonoma configurazione della categoria di derivato implicito, ritiene tuttavia ad esso applicabile il T.U.F.
Quella diversa posizione dottrinale (45), che nega l’estensione a dette operazioni finanziarie del T.U.F. e, in generale, delle disposizioni di trasparenza in materia di servizi di investimento, qualifica tali con- tratti come “prodotti composti”, richiamando quanto previsto in sede regolamentare dalla Circolare del 2009 di Banca d’Italia (46).
Detto provvedimento distingue i prodotti composti, con duplice funzione: di credito e finanziaria. A seconda che la loro “finalità esclusiva” prevalente e preponderante sia di investimento o di finanzia- mento, si applicano le disposizioni del T.U.F. ovvero la disciplina sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e quindi il T.U.B.
Ora, posto che nel contratto host con embedded la componente causale prevalente è creditizia la
conclusione cui si giunge è che risulta esclusivamente applicabile la disciplina bancaria.
In modo altrettanto radicale una diversa dottrina specialistica nega la rintracciabilità del derivato implicito nel negozio host, affermando che, se esso è scindibile, è derivato autonomamente configurato e sottostà ad una sua autonoma disciplina.
Il principio contabile IAS 39, che connota la rap- presentazione contabile e di bilancio del derivato implicito e le stesse Disposizioni sulla trasparenza dettate da Banca d’Italia depongono in questo senso. Lo IAS 39 (che pur riguarda letteralmente i derivati impliciti) ha, infatti, una limitata funzione di rap- presentazione contabile.
La Circolare di Banca d’Italia, invece, che pur trat- teggia la categoria del “c.d. prodotti composti” (47), non sarebbe dirimente, perché disciplina il fenomeno opposto alla scomposizione (ovvero il collegamento negoziale) e perché in ogni caso tende ad attrarre e ad assoggettare alla disciplina della trasparenza bancaria anche la componente contrattuale non bancaria.
Piuttosto, per la ricostruzione che qui si sintetizza, pare opportuna un’inversione del percorso argomen- tativo: per scorporare il derivato dal contratto host, occorre identificarlo.
I requisiti strutturali per identificare il derivato sono sostanzialmente due, ovvero la c.d. “differenzialità derivativa” e “l’astrazione pura” (48).
La differenzialità derivativa è funzione economica e oggetto del contratto derivato; è il pagamento del differenziale di valore (con riferimento all’oscilla- zione di valore del sottostante sia esso merce o un tasso, il cambio o l’indice) che fonda l’operazione finanziaria e la giustifica.
Con tale requisito concorre l’astrattezza del derivato vale a dire la possibilità che lo strumento finanziario sopravviva alla caducazione del contratto principale cui è connesso o in cui lo strumento è ospitato (c.d “autosufficienza derivativa in caso di separazione genetica”).
Così in caso di operazioni di finanziamento conno- tate non solo da una componente derivativa ma da un contratto derivato, esso non è solo complementare ma, in quanto scindibile, può essere autonomamente qualificato, non riconducibile nell’alveo disciplinare del primo contratto.
(45) X. Xxxxxxx, Sulla clausola floor nei contratti di mutuo, cit., 715.
(46) Provvedimento 29 luglio 2009 e successive modifiche - Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari -
Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti
(47) I prodotti composti sono, infatti, “gli schemi negoziali composti da due o più contratti tra loro collegati che realizzano
un’unica operazione economica”; vedi provvedimento Banca d’Italia, Sez. I par. 3 del provvedimento 29 luglio 2009 e successive modifiche.
(48) X. Xxxxxx, I derivati impliciti: vizi e virtù della scomposizione, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 9 ss.
In particolare, per la dottrina che qui si richiama, il diritto al versamento del mark to market in caso di cessazione precoce del contratto ospite, costituisce un principale elemento di discrimine tra compo- nente derivativa e derivato, in quanto se è possibile liberarsi unilateralmente del rischio connesso ad un derivato, provocando l’estinzione dell’host, del pari è da escludersi l’“autonomia derivativa”, perché l’alea diverrebbe non già una componente essenziale ed indefettibile della complessa operazione economica e finanziaria posta in essere bensì un accessorio eliminabile.
Ovviamente, ove entrambi i requisiti siano rintrac- ciabili, necessariamente deve trovare applicazione ai derivati la disciplina in materia di obblighi di infor- mazione specificatamente contemplati dal T.U.F. e dalla disciplina secondaria attuativa.
Considerazioni conclusive
Fatta una ricognizione delle tesi sostenute in tema di disciplina dei derivati embedded, si condivide l’ipo- tesi di un’autonoma configurazione della categoria giuridica di derivato implicito (49).
È dubbia la riconducibilità del derivato embedded alla fattispecie di prodotto composto individuata da Banca d’Italia nel provvedimento del 2009, che identifica tale tipologia di prodotto finanziario con l’ipotesi di collegamento negoziale (50).
Preclude la riconducibilità alla fattispecie di prodotto composto individuata da Banca d’Italia il fatto che l’Autorità di Vigilanza, nel qualificare i prodotti composti, li individui come “gli schemi negoziali composti da due o più contratti tra loro collegati che realizzano un’unica operazione economica”.
Nello specifico l’operazione finanziaria complessiva- mente intesa, non è certamente un’ipotesi di colle- gamento negoziale ma integra un contratto con causa di finanziamento mista a causa aleatoria (51), poten- dosi così la funzione scomporre in due cause, pro- spettandosi l’applicabilità delle norme relative ai tipi corrispondenti.
Si tratta, a parere di chi scrive, di un unico contratto, in cui il finanziamento, accordato al cliente, si
coniuga con la scommessa sull’oscillazione del valore della valuta estera, cui fa riferimento la clausola rischio cambio.
Occorre quindi considerare in sequenza gli argomenti che possono deporre per la natura mista di queste ipotesi contrattuali.
Un primo argomento è quello letterale. In buona sostanza il derivato implicito altro non è che una pattuizione inserita nel contratto host, mera clausola negoziale. Il finanziamento, in altri termini, include una componente “derivativa” in quanto il derivato non è in radice contratto separato dal contratto principale.
Un secondo argomento attiene ai profili strutturali del contratto: il finanziamento accordato al cliente si coniuga con la scommessa sull’oscillazione del valore della valuta estera, cui fa riferimento la clausola rischio cambio.
L’aleatorietà permea, infatti, l’intima funzionalità del contratto di finanziamento e concorre nel deter- minare la causa giustificativa dell’operazione. In questa ipotesi l’alea contrattuale insiste sugli effetti del contratto principale e incide sulla causa di finanziamento, che si alimenta dell’elemento aleatorio.
Che l’alea contrattuale sia funzione che, per sua stessa natura, si presti ad essere plasmata e modulata dalle parti contraenti, è dato noto; in questo caso l’alea assume una diversa colorazione e incide sulla quali- ficazione complessiva del contratto stesso e sulla disciplina ad esso applicabile.
Ciò è quanto si verifica, analogamente, in altre fatti- specie per c.d. ibride ricorrenti sempre in ambito finanziario in cui la funzione suffissante deve essere individuata alla luce dell’effettività della ragione economica.
Solo per citare alcune fra le ipotesi contrattuali in cui si propongono ragionamenti analoghi a quelli svolti in tema di derivati impliciti, si pensi alle polizze linked e united linked (52).
Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale su queste polizze è noto: si definiscono “prodotti misti assicu- rativo-finanziari” (53) proprio per evidenziarne l’am- bivalente natura giuridica.
(49) X. Xxxxxxx, I Derivati incorporati, in Diritto e Prassi dei Mercati Finanziari, Torino, 2017, 463 ss.
(50) Si è detto (X. Xxxxx, Strumenti finanziari “incorporati” in altri contratti, cit., 23 ss.) che le due fattispecie (quella di derivato implicito e di prodotto composto) siano attigue ma non coinci- denti. Personalmente ritengo di aderire a questa ricostruzione sul presupposto che qualsiasi scelta interpretativa, anche in settori specialistici come quello in esame, non può prescindere da un inquadramento sistematico del fenomeno.
(51) In questo senso espressamente X. Xxxxxxx, op. cit., 714.
(52) X. Xxxxx X’Xxxxxx, Aspetti controversi del contenzioso sui prodotti della finanza strutturata, in Giur. mer., 2010, 3206 ss.
(53) Con riferimento alla categoria dei prodotti misti assicura- tivo-finanziari cfr. le riflessioni formulate da Bin, Il “prodotto misto” assicurativo-finanziario, in Assicurazioni, 1988, 351 ss.;
X. Xxxxxxx, Il “prodotto misto” assicurativo-finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 1988, 91 ss., nonché X. Xxxxxxxxx, I prodotti misti assicurativi e finanziari, in Xxxxxxx Xxxxxx e Ricolfi (a cura di), Banche ed assicurazioni fra cooperazione e concorrenza, Milano, 1997, 107 ss.
Si fa in particolare riferimento a quell’orientamento giurisprudenziale che riflette sulla natura mista del prodotto linked, ritenendo possibile che i prodotti assicurativi finanziari siano contratti di assicurazione ai sensi del codice civile (54).
Ancora, in tema di prodotti finanziari “For you” e “My way” (55), si è specificato che quella delle operazioni in oggetto è una funzione complessa, “a duplice prevalenza”, in cui il peso attribuito alla causa di finanziamento è equiparato a quello rico- nosciuto alla causa di investimento, funzioni com- penetrate e al contempo perseguite dai contraenti sottoscrittori.
Ciò detto, pur lasciando in disparte questioni da sempre aperte, come quella di ricostruire il dibattito fra l’applicazione della teoria della prevalenza piutto- sto che di quella della combinazione in caso di con- tratti misti, pare plausibile sostenere che, aderendo alla teoria della combinazione, ai contratti di finan- ziamento che incorporano un derivato si applichi assieme la disciplina del T.U.B. e del T.U.F.
Il ragionamento si fonda su di un presupposto logico: v’è da chiedersi perché il cliente dovrebbe subire una disparità di trattamento, ed essere palesemente pre- giudicato quando, invece che concludere un finan- ziamento e un collegato domestic currency swap, nel qual caso risulterebbero applicabili sia T.U.B. che T.U.F., sottoscriva un unico contratto di finanzia- mento con accluso un derivato implicito (ovvero una
clausola rischio cambio), governato in virtù della teoria dell’assorbimento dalla sola disciplina in mate- ria di trasparenza bancaria e creditizia (56).
Inoltre, le due discipline di trasparenza del T.U.B. e del T.U.F. rispondono ad esigenze non del tutto sovrapponibili.
Come è stato bene sintetizzato (57), infatti, la tra- sparenza bancaria è volta ad informare sui costi e prezzi del servizio, nonché a regolamentare lo svi- luppo dei rapporti di durata tra intermediario e cliente; la trasparenza finanziaria, invece, ha come obiettivo di informare gli utenti sul contenuto dei prodotti offerti dagli intermediari, obbligando l’in- termediario ad acquisire informazioni sul cliente e a predisporre flussi informativi sul prodotto. Inoltre, nella prestazione di servizi di investimento finanziari, l’intermediario deve valutare l’adeguatezza dell’inve- stimento in relazione al profilo di rischio del cliente investitore e, nel fare ciò, deve servire al meglio gli interessi del cliente, essendo investito di un ufficio di diritto privato.
Ne consegue che l’ammissibilità dell’applicazione di entrambe le discipline è tanto più configurabile in un quadro generale che è di innalzamento di tutela del cliente, che subisce l’imposizione di condizioni det- tate dal contraente più forte in ipotesi di evidente asimmetria contrattuale, in cui scopo della disciplina è quello di “incentivare” il ricorso al risparmio e alla prevenzione dei rischi (58).
(54) Sul punto X. Xxxxxxxxxxx, Dal contratto di assicurazione ai prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione, in IProdotti finanziari assicurativi, a cura di X. Xxxxxxxx, Ipsoa, Milano, 2014, 67 nella specie.
(55) X. Xxxxxxxx, My way, For You, Piano Visione Europa e Corte di Cassazione, in xxx.xxxxxx.xx Cass. 30 settembre 2015, n. 19559, ord.; Cass. 15 febbraio 0000, x. 0000 (xx Società, 2016, 721, con nota di X. Xxxxxxxx, For you for nothing o immeritevo- lezza e in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 855, con nota di
X. Xxxxxxx, Giudizio di meritevolezza e violazione di regole di condotta in materia di intermediazione finanziaria); Xxxx. 29 feb- braio 2016, n. 3949; Cass. 2 novembre 0000, x. 00000, xxx.
(56) In tal senso si veda anche lo scritto di X. Xxxxx, Strumenti finanziari “incorporati” in altri contratti. Regole di condotta, tra- sparenza bancaria e disciplina del consumo, in www.rivistaodc. eu, 23 ss.
(57) X. Xxxxxx, Sistema e sottosistemi nella disciplina della trasparenza bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, 377 ss. (spec. 382-383).
(58) Su quest’ultimo punto, sull’applicabilità di entrambe le discipline, quella T.U.B. e T.U.F., le opinioni dottrinali restano discordanti; da alcuno si è sostenuto la fallacia del tema della causa per individuare la disciplina applicabile alle operazioni nego- ziali in oggetto così X. Xxxxx, Strumenti finanziari “incorporati” in altri contratti, cit., 27; da altri, (X. Xxxxxxxxxxx, Appunti sulla distri- buzione di mutui indicizzati ad una valuta estera, in Riv. dir. banca- rio, 7, 2017, 13-15) con un’astensione sostanziale dall’affrontare il tema, ci si è interrogati sull’opportunità e sull’effettiva utilità di applicare la disciplina dei servizi di investimento all’operazione economica, a condizione di individuare nella disciplina bancaria una lacuna rispetto a quella finanziaria.
La mancanza nella regolamentazione bancaria pare individuata nell’assenza di una regola analoga a quella dell’adeguatezza che caratterizza la prestazione di consulenza da parte dell’intermedia- rio. Nondimeno l’obbligo di valutare il merito creditizio del cliente bancario, che connota la disciplina del credito ai consumatori, si traduce in una parziale valutazione di adeguatezza del prodotto creditizio.
Vizi della volontà
Tribunale di Bergamo, Sez. IV, 7 febbraio 2018 - Giud. Russo - V.F.I. S.r.l. c. G.C. S.a.s.
Ricorre il dolus malus solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, la reticenza sia accompagnata da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Cass. 30 marzo 2017, n. 8260, in Dir. prat. lav., 2017, 18, 1088, con nota di X. x’Xxxxxx; Cass. 20 aprile 2006, n. 9253, in Riv. not., 2007 2, parte 2, 394, con nota di X. Xxxx; Cass. 15 marzo 2005, n. 5549, in Giust. civ., 2006, 3, parte 1, 647; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757, in Giust. civ., 2002, 3, parte 1, Sez. 00, 729; Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, in Foro it., 1995, 6, parte 1, 1903, con nota di X. Xxxxxxxxxxx. |
Difforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. |
Il Tribunale (omissis)
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con atto di citazione regolarmente notificato alla contro- parte, la società V.F.I. S.r.l. adiva il Tribunale di Bergamo, esponendo di aver stipulato con la società G.C. S.a.s., in data 28 febbraio 2013, un contratto preliminare di com- pravendita avente ad oggetto un terreno sito in D. del G., via E. M., al fine di edificarvi 11 edifici di 4 unità abitative ciascuno, come da progetto architettonico predispostodalla stessa parte promittente venditrice e allegato al contratto. Al riguardo, la società attrice faceva rilevare di avere accertato, solo successivamente alla stipulazione del con- tratto preliminare, che la consistenza morfo-geologica del terreno promessole in vendita era tale da impedire la effettiva realizzazione degli immobili progettati o, comun- que, da comportare un consistente aggravio dei costi e un rilevante aumento delle tempistiche di cantiere.
Pertanto, la società V.F.I. S.r.l. concludeva chiedendo al Tribunale:
- in via principale, di disporre l’annullamento del con- tratto preliminare di cui è giudizio ai sensi dell’art. 1439 c.c., statuendo in merito alla restituzione della caparra confirmatoria, o quantomeno di accertare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 1440 c.c.;
- in via subordinata, di disporre l’annullamento del con- tratto per errore e di condannare la controparte alla restituzione della caparra confirmatoria;
- in via ulteriormente gradata, di accertare la legittimità del proprio recesso ex art. 1385 c.c., con condanna della controparte alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria, o di pronunciare sentenza ex art. 2932 c.c., previa rideterminazione del prezzo pattuito, in entrambe le ipotesi in ragione dei vizi del terreno;
- in estremo subordine, di dichiarare l’inefficacia del contratto, stante la irrealizzabilità dell’intervento edifica- torio menzionato nel contratto stesso.
In ogni caso, l’attrice formulava domanda di condanna della convenuta al risarcimento di tutti i danni cagionati.
La società G.C. S.a.s. di G.G. & C. si costituiva con comparsa di risposta depositata in data 22 giugno 2015, con la quale contestava le avverse pretese e ne domandava il rigetto. In via riconvenzionale, chiedeva di pronunciare sentenza ex art. 2932 c.c. condizionata al pagamento da parte della società V.F.I. S.r.l. del prezzo residuo dovuto, pari ad Euro 1.870.000,00 (già detratta la somma di Euro 500.000,00 versata a titolo di caparra confirmatoria). Con Provv. in data 18 maggio 2015, confermato all’udienza del 3 giugno 2015, veniva disposto il sequestro giudiziario dell’assegno bancario n. (...) tratto su U.B.B. - Filiale di Xxxxxx Xxxxxxxx, emesso da V.F.I. S.r.l. ed entrato in possesso della società promittente venditrice dopo un periodo di deposito fiduciario presso il Notaio F. M. Espletata la CTU volta a verificare la consistenza del terreno oggetto del contratto preliminare, all’udienza del 16 maggio 2017, le parti venivano invitate a precisare le conclusioni e, assegnati i termini di legge per il deposito di memorie conclusionali e repliche, la causa passava in decisione. Successivamente, la causa veniva rimessa sul ruolo al fine di acquisire la copia di alcuni documenti andati smarriti e nuovamente trattenuta in decisione all’udienza del 7 dicembre 2017.
È preliminarmente opportuno dare conto dell’esito della CTU eseguita dall’ing. E. G., alle cui conclusioni il Tri- bunale ritiene di aderire, in quanto tratte con ragiona- mento coerente e immune da vizi. Il CTU, dopo avere esaminato i documenti allegati al contratto preliminare e dopo avere eseguito - avvalendosi dell’opera della società
A. S.r.l. - un prelievo di campioni del terreno al fine di verificare l’entità dei possibili cedimenti e i tempi della loro manifestazione, ha accertato quanto segue. Il terreno oggetto del contratto preliminare, il quale “giace a quota inferiore rispetto alla quota delle strade di lottizzazione”, come rappresentato nella documentazione fotografica e visibile ictu oculi, “è di forma planimetrica allungata in direzione circa est-ovest, delimitato verso nord dalla strada di lottizzazione di via E. M. (..) e verso sud dal tracciato della nuova strada di lottizzazione, realizzata solo al rustico” (pag. 9 della CTU); Presso gli uffici comunali
sono presenti due relazioni geologiche inerenti al suddetto terreno, l’una predisposta dal geologo X. e l’altra dal geologo C.; le stesse sono allegate, rispettivamente, al
X.X.X. x xx X.X.X. xxx Xxxxxx xx Xxxxxxxxx xxx Xxxxx. Una diversa relazione geologica del geologo X., risalente al 2008, è allegata al Piano di Lottizzazione ATR/RP2, la cui attuazione è stata autorizzata dal Comune con la Conven- zione Urbanistica a rogito Notaio M.P. rep. (...) racc. (...), depositata presso l’Ufficio Tecnico Comunale e specifica- mente richiamata nel contratto. Nella relazione geologica allegata al P.R.G., l’area in discussione è definita “xxxxxx- cabile con modeste limitazioni”; più precisamente, le aree oggetto del preliminare sono qualificate con la sigla MF (LA2), che individua i terreni con “depositi morenici di fondo (limi e argille con scarsa frazione ghiaioso-sab- biosa), e con la classe di fattibilità “2e”, che significa “fattibilità con modeste limitazioni - aree prevalente- mente urbanizzate pianeggianti e debole pendenza con caratteristiche geotecniche dei terreni da buone a medio- cri”. Una classificazione del tutto sovrapponibile a quella sopra riportata è contenuta nella relazione geologica alle- gata al P.G.T. Le suddette indagini geologiche non con- sentono di ipotizzare con adeguata precisione quale potrebbe essere la risposta meccanica dei terreni di fonda- zione dell’appezzamento di terreno promesso in vendita alla società attrice in caso di realizzazione su di esso di nuove costruzioni, essendo a tal fine necessario eseguire indagini più specifiche.
Analogamente, la relazione allegata al Piano di Lottizza- zione ATR/RP2, sebbene contenga una analisi più appro- fondita della stratigrafia del terreno, suddivisa per zone, e una valutazione qualitativa dei vari sistemi fondazionali, anch’essa differenziata per zone, non può considerarsi uno strumento operativo di dettaglio, utilizzabile per la pro- gettazione esecutiva delle fondazioni del complesso edili- zio prospettato nel contratto preliminare. Per queste ragioni, in sede di CTU, si è reso necessario dare corso a carotaggi con prelievo di campioni e a prove di laboratorio. All’esito delle suddette operazioni, eseguite dalla società
A. S.r.l., l’ing. G. ha verificato che l’intervento descritto nel progetto architettonico allegato al contratto prelimi- nare (nel quale non sono indicate le specifiche tecniche relative alle fondazioni e ai loro dimensionamenti) è pienamente realizzabile, a condizione, tuttavia, che ven- gano adottati alcuni accorgimenti costruttivi, consistenti nel posizionamento di drenaggi verticali distribuiti in tutta l’area oggetto del contratto e nella ricarica del terreno in corrispondenza dei fabbricati, al fine di ridurre al minimo - cioè a circa tre mesi - i tempi di manifestazione dei cedimenti, come ipotizzati negli studi allegati alla CTU (pagg. 22, 40 e 41 della CTU); Gli interventi descritti sono da ritenere straordinari rispetto ad un terreno “non pro- blematico”, ma hanno caratteristiche di “definitività e compiutezza”, essendo idonei ad azzerare “le possibilità di liquefazione degli strati sabbiosi in falda”. I costi di realizzazione sono da stimare in complessivi Euro 82.296,00 - di cui Euro 36.000,00 per i drenaggi verticali da distribuire sull’intera area ed Euro 36.296,00 per la
ricarica del terreno - comprensivi delle spese tecniche di progetto (v. pag. 42 della CTU).
Le conclusioni dell’ing. G., sopra sintetizzate, hanno for- mato oggetto di corpose osservazioni critiche da parte del consulente della società V.F.I. S.r.l., ing. F.
La difesa di parte attrice ha inoltre depositato, successi- vamente alla chiusura delle operazioni peritali, gli esiti di uno studio fatto eseguire sul terreno di cui è causa da due geologi del Centro di Geotecnologia dell’Università di Siena.
Da tale studio si evince la sostanziale vulnerabilità del- l’area alla liquefazione, la quale sarebbe riducibile (ma non risolvibile) solo adottando fondazioni profonde e miglio- rando le caratteristiche del sottosuolo in termini di resi- stenza, densità e caratteristiche del drenaggio (doc. 10 di parte attrice).
Sulla questione, si richiamano innanzitutto le controde- duzioni svolte dal CTU ing. G. nella propria relazione di perizia, il quale, con specifico riguardo al rischio di lique- fazione del terreno in caso di eventi sismici, ha ribadito le proprie conclusioni, argomentando in ordine alla corri- spondenza dei parametri utilizzati nella propria relazione rispetto alle indicazioni metodologiche di cui alle Norme Tecniche per le Costruzioni (N.T.C.) stabilite dal D.M. 14 gennaio 2008 (v. relazione in atti, pag. 26 e ss.).
Assumono inoltre rilievo le considerazioni svolte dall’ing.
G. in merito alle caratteristiche geologiche dei terreni limitrofi a quello oggetto del contratto preliminare dedotto in causa.
Il CTU ha a più riprese fatto rilevare che i suddetti terreni, sui quali le stesse parti del presente giudizio hanno negli anni passati realizzato interventi edilizi più imponenti di quello progettato, senza adottare accorgi- menti particolari, presentano caratteristiche sicura- mente comparabili sotto il profilo geologico a quelle dell’area in discussione e non hanno evidenziato fratture, lesioni o assestamenti apprezzabili.
Il tema è in ogni caso privo di specifica rilevanza ai fini della decisione della causa, alla luce di quanto verrà argomentato nel prosieguo.
Ciò posto, si può procedere all’esame delle singole domande avanzate dalla società attrice.
1. Annullamento per dolo
La società V.F.I. S.r.l. ha dedotto la sussistenza di un’ipo- tesi di dolo omissivo imputabile alla società G.C. S.a.s. per avere sottaciuto le reali caratteristiche del terreno pro- messo in vendita allo scopo di addivenire alla conclusione del contratto, sostenendo che, se fosse stata adeguata- mente informata, non avrebbe manifestato il proprio consenso, o, comunque, avrebbe concluso l’accordo a diverse condizioni economiche.
Al riguardo, è utile rammentare che a norma dell’art. 1439
c.c. per ottenere l’annullamento del contratto per dolo è necessario che i raggiri usati dalla parte siano stati tali che, senza di essi, la controparte non avrebbe prestato il proprio consenso alla conclusione del contratto; risulta in parti- colare necessario che uno dei contraenti ponga in essere un comportamento adeguatamente preordinato, con
xxxxxxx e astuzia, a realizzare un inganno idoneo a deter- minare l’errore dell’altra parte; in questa prospettiva, deve aversi riguardo “alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde sta- bilire se i comportamenti del deceptor siano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza” (x. Xxxx. n. 8260/2017, Cass. n. 12892/ 2015 e Cass. n. 1585/2017). La valutazione della idoneità del comportamento che si assume ingannevole e riservata al giudice del merito, il quale è tenuto a motivare speci- ficamente in ordine alle concrete circostanze - la cui prova è a carico del deceptor - dalle quali desumere che l’altra parte già conosceva o poteva rendersi conto ictu oculi dell’inganno perpetrato nei suoi confronti (Cass. n. 16004/2014).
In applicazione dei principi sopra enunciati, il Tribunale ritiene che, nel caso concreto, la società G.C. S.a.s. abbia provato la conoscibilità in capo alla promissaria acqui- rente della effettiva consistenza dei terreni di D. sul G., via E. M.
Innanzitutto, va richiamato il contenuto del contratto preliminare sottoscritto dalle parti e, più precisamente, il passaggio delle premesse nel quale la società V.F.I. S.r.l. si è dichiarata “ampiamente edotta” del contenuto della Convenzione Urbanistica stipulata in data 31 maggio 2011, avendone ricevuta copia “per approfondita visione” (doc. 3 di parte convenuta).
Nella Convenzione Urbanistica - avente ad oggetto, assieme ad altri, anche il terreno di cui è giudizio - viene fatto espresso richiamo al Piano di Lottizzazione ATR/RP2 e alla relazione geologica redatta dal geologo dott. C. ad esso allegata.
Come già sopra rilevato, la relazione geologica in esame contiene un inquadramento geologico, geomorfologico e idrologico dei terreni ricompresi nella zona di via M./via
V. In particolare, fornisce indicazioni in merito alla natura e alle caratteristiche geologiche del suolo e ne rileva, se pure non nel dettaglio, la problematicità riconducibile alla sua composizione (alternanze di limi, limi sabbiosi e sabbie limose con gradi di addensamento da medio a scarso nello strato più superficiale; alternanze di limi sabbiosi e limi argillosi con bassissima consistenza nel secondo strato; limi sabbiosi e sabbie limose mediamente addensate nel terzo strato; una scarsissima consistenza nel quarto strato; limi sabbiosi e sabbie limose mediamente addensate nello strato più profondo).
Le indicazioni ricavabili dalla relazione del geologo X., benché non possano essere ritenute sufficienti per proce- dere alla progettazione delle fondazioni, sono sicuramente idonee a mettere in evidenza la sussistenza di criticità del terreno oggetto del contratto preliminare sotto il profilo della sua portanza.
A ciò deve aggiungersi che, contestualmente alla sotto- scrizione del contratto preliminare, il terreno di via M. è stato messo a disposizione della società V.F.I. S.r.l., per l’effettuazione di tutti i rilievi ritenuti necessari (punto 1 del contratto preliminare prodotto sub doc. 1 di parte attrice).
Tale essendo il quadro probatorio, va esclusa la ricorrenza di una ipotesi di occultamento doloso di fatti decisivi ai fini della formazione del consenso da parte della società G.C. S.a.s.
Una lettura attenta e diligente della Convenzione Urba- nistica avrebbe dovuto indurre la parte promissaria acqui- rente a verificare il contenuto della relazione geologica ivi menzionata, tanto più ove si consideri che la società V.F.I.
S.r.l. aveva assunto su di sé l’onere della progettazione esecutiva, essendo l’incarico conferito alla società promit- tente venditrice limitato al progetto architettonico. D’altra parte, la società V.F.I. S.r.l. non ha provato i raggiri e gli inganni in ipotesi posti in essere dalla società G.C. S.a.s., ma si è limitata ad allegare di avere preso visione della relazione geologica del geom. C. solo nel 2015 (circa due anni dopo la conclusione del preliminare) e di avere inizialmente confidato nella fattibilità dell’affare, in forza dell’intervento edificatorio realizzato sul terreno limi- trofo, che non aveva presentato alcun problema di cedibilità.
Le argomentazioni difensive della società attrice sono semmai indicative della sua negligenza nella gestione dell’affare; quest’ultima, infatti, nonostante in sede di stipulazione del contratto si fosse dichiarata ampiamente edotta del contenuto della Convenzione Urbanistica rife- xxxx al piano di Lottizzazione ATR/RP2, non aveva in realtà provveduto ad esaminare la stessa in modo appro- fondito, né aveva svolto indagini per verificare l’effettiva consistenza del terreno che si accingeva ad acquistare. A questo proposito, si richiama il principio secondo il quale “ricorre il dolus malus solo se, in relazione alle circostanze di fatto e personali del contraente, il mendacio sia accom- pagnato da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno voluto ed idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza e sussista, quindi, in chi se ne proclami vittima, assenza di negligenza o di incolpevole ignoranza” (Cass. n. 14628/2009).
Va infine evidenziato che, nel contratto preliminare, non si rinvengono dichiarazioni della promittente venditrice inerenti alla qualità e alla consistenza dell’area promessa in vendita, non potendosi pertanto affermare che la stessa abbia garantito determinate caratteristiche geologiche, tacendo o dissimulando il reale stato di fatto dei terreni oggetto del preliminare.
2. Annullamento per errore
(omissis)
3. Recesso ex art. 1385 c.c. o riduzione del prezzo a causa dei vizi del terreno promesso in vendita
(omissis)
4. Presupposizione
(omissis)
5. Risarcimento del danno
Dal rigetto delle domande volte ad ottenere, in via gra- data, l’annullamento del contratto preliminare stipulato in data 28 febbraio 2013, l’accertamento della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c. esercitato dalla promissaria acquirente e la dichiarazione di inefficacia del contratto stesso, deriva l’infondatezza delle pretese risarcitorie a ciascuna di tali domande correlate.
Resta da esaminare la domanda riconvenzionale proposta dalla società convenuta.
Una volta esclusa la ricorrenza dei presupposti per dichia- rare lo scioglimento del vincolo contrattuale secondo le articolate domande della società promissaria acquirente, deve essere accolta la contrapposta pretesa riconvenzio- nale della società promittente venditrice, volta ad otte- nere la pronuncia di sentenza ex art. 2932 c.c., subordinata al pagamento del prezzo residuo da parte di V.F.I. S.r.l. A questo proposito, è opportuno precisare che della somma complessiva di Euro 2.210.000,00, concordata nella scrittura integrativa del 9 luglio 2014, la parte attrice ha ad oggi versato l’importo di Euro 250.000,00 a titolo di caparra confirmatoria.
Deve dunque essere disposto in favore di G.C. S.a.s. il trasferimento ex art. 2932 c.c. del terreno sito in Comune di D. del G., via E. M., incluso parte in zona “ATR/RP2”, parte in fascia di rispetto per infrastrutture della viabilità, parte in ambito di tutela degli specchi e dei corsi d’acqua, censito al Catasto Terreni del Comune di D. del G. come segue: foglio (...), mappale (...), VIGNETO, di ha
00.01.00, classe (...), R.D. Euro 1,47, R.A. Euro 0,70;
foglio (...), mappale (...), SEMINATIVO, di ha
02.11.70, classe (...), R.D. Euro 114,80, R.A. Euro 125,73.
Il suddetto trasferimento è condizionato al pagamento del prezzo residuo di Euro 1.960.000,00 da parte della società attrice.
Al fine di rendere effettivo il contemperamento degli interessi delle parti e di conferire certezza alla statuizione, anche nella prospettiva della ragionevole durata del pro- cesso, si reputa corretto fissare un termine per l’adempi- mento della parte promissaria acquirente.
Tenuto conto della natura dell’affare, il suddetto termine si determina in sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza.
Infine, deve statuirsi in ordine alla pretesa di restituzione dell’assegno sottoposto a sequestro giudiziario con Provv. del 18 maggio 2015, avanzata da G.C. S.a.s. in sede di precisazione delle conclusioni.
Le parti, con la già menzionata scrittura privata integrativa del 9 luglio 2014, oltre a ridefinire il prezzo della compra- vendita, avevano pattuito l’emissione immediata da parte di V.F.I. S.r.l. di un titolo dell’importo di Euro 250.000,00 da lasciare in deposito fiduciario al Notaio F. M. e da consegnare alla promittente venditrice alla stipula del rogito o dopo la scadenza del 31 ottobre 2014, in questo secondo caso a titolo di caparra confirmatoria.
L’assegno in questione, identificato con il numero (...), è stato consegnato dal Notaio F. M. a G.C. S.a.s. in data 9 luglio 2014 ed è poi stato sottoposto a sequestro ex art. 670
c.p.c. nel corso del presente giudizio. La società attrice ha dedotto la nullità del predetto assegno bancario in quanto pervenuto nelle mani della promit- tente venditrice privo di data. La società G.C. S.a.s. ha invece sostenuto che il momento rilevante per la verifica dei requisiti stabiliti per la validità dell’assegno dal R.D. n. 1736 del 1933 è quello della consegna al prenditore; nel caso concreto, la data riportata
sull’assegno sarebbe stata apposta dal Notaio F. M. prima della consegna a G.C. S.a.s.
Sulla questione, il Tribunale osserva che dai documenti allegati al ricorso cautelare depositato da V.F.I. S.r.l. emerge che l’assegno in discussione è stato consegnato al Notaio F. M. privo di data e inserito in una busta e che il Notaio F. M., il 14 maggio 2015, si è limitato a consegnare tale busta a G.C. S.a.s., senza evidentemente provvedere all’inserimento della data nell’assegno.
Ciò posto, in xxx xx xxxxxxxxx, xx rammentato che ai sensi dell’art. 669 novies, comma 3, c.p.c., “il titolo che ha costituito il vincolo giuridico sul bene perde efficacia sia nel caso di dichiarazione di inesistenza, anche se con sentenza non passata in giudicato, del diritto a tutela del quale il provvedimento era stato concesso, sia, stante l’identità di ratio, nell’ipotesi inversa, in cui, accogliendosi la domanda di merito, sia affermato a chi spetta la titolarità del diritto sul bene, la cui integrità ontologica il sequestro aveva la funzione di conservare per assicurare al provve- dimento attributivo o ricognitivo di esplicare la sua pratica efficacia” (Cass. n. 14765/2008).
Nel caso di specie, sono state respinte le domande di merito volte ad ottenere l’annullamento o comunque lo scioglimento del vincolo contrattuale proposte dalla parte che aveva chiesto il sequestro dell’assegno; nondimeno, sono da ritenere fondate le deduzioni dalla medesima svolte nel procedimento cautelare sulla nullità, per man- canza di data, del titolo sottoposto a sequestro e sul conseguente diritto di sottrarlo alla disponibilità del pren- ditore, indipendentemente dall’accoglimento delle domande di merito da quest’ultimo proposte in via principale.
Del resto, il sequestro dell’assegno di cui si discute, nel- l’ambito del giudizio di merito nel quale è stato presentato il relativo ricorso, è da correlare sotto il profilo funzionale (anche) alla tesi sostenuta dalla parte promissaria acqui- rente in ordine alla invalidità della dazione del titolo stesso a titolo di integrazione della caparra confirmatoria.
Tali deduzioni non sono state esaminate compiutamente nella presente sentenza, in ragione dell’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. avanzata da G.C. S.a.s., che ne ha determinato l’assorbimento, ma risultano comunque idonee a fondare la pretesa della società attrice di ottenere la restituzione dell’assegno in sequestro.
Per tutte le considerazioni che precedono, l’assegno ban- cario n. (...), in quanto nullo, non può essere restituito in favore della società promittente venditrice.
Considerato l’esito concreto del giudizio, la parte attrice deve essere condannata a rifondere in favore della parte convenuta le spese di lite, escluse quelle del subprocedi- mento cautelare per sequestro giudiziario, nella misura liquidata in dispositivo, tenendo in conto il valore effet- tivo della causa e l’attività svolta dal difensore.
Per analoghe ragioni, i costi della CTU sono posti a carico della parte promissaria acquirente.
La parte promittente venditrice è invece tenuta a rifon- dere in favore della controparte le spese inerenti al sub- procedimento cautelare di sequestro giudiziario.
Infine, non essendo emerso che la società attrice abbia agito in giudizio con mala fede, va respinta la domanda proposta da G.C. S.a.s. ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
Il Tribunale di Bergamo, sezione IV Civile, definitiva- mente pronunciando, ogni contraria domanda ed ecce- zione rigettata, così provvede:
1. Rigetta le domande proposte dalla società V.F.I. S.r.l.;
2. Dispone ai sensi e per gli effetti dell’art. 2932 c.c. il trasferimento in favore della società V.F.I. S.r.l. della proprietà del terreno sito nel Comune di D. del G., via
E. M., censito al Catasto Terreni come segue: foglio (...), mappale (...), VIGNETO, di ha 00.01.00, classe (...), R.D. Euro 1,47, R.A. Euro 0,70; foglio (...), mappale (...), SEMINATIVO, di ha 02.11.70, classe (...), X.X. Xxxx 000,00, X.X. Euro 125,73;
3. Subordina l’efficacia del trasferimento del terreno di cui al punto 2. al pagamento da parte della società V.F.I. S.r.l. della somma di Euro 1.960.000,00 in favore della società
G.C. S.a.s. di G.G. & C., entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza;
4. Rigetta la domanda di restituzione in favore della società convenuta dell’assegno oggetto del provvedimento di sequestro giudiziario emesso il 18 maggio 2018 in corso di causa;
5. Ordina al Conservatore dei Registri Immobiliari com- petente per territorio la trascrizione della presente sen- tenza, subordinatamente all’avveramento della condizione di cui al precedente punto 3).
6. Condanna la società attrice a rifondere in favore della convenuta le spese processuali del giudizio di merito che si liquidano in Euro 36.145,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, I.v.a. e C.p.a.
7. Condanna la società convenuta a rifondere in favore della società attrice le spese del subprocedimento caute- lare instaurato in corso di causa per il sequestro giudiziario dell’assegno bancario n. (...), che si liquidano in Euro 1.788,00 per compensi, oltre spese generali al 15%,
I.v.a. e C.p.a.
8. Pone le spese della CTU eseguita in corso di causa definitivamente a carico della parte attrice.
Dolo omissivo e doveri di informazione
di Xxxxx Xxxxx
Il dolo, quale vizio della volontà, veniva tradizionalmente configurato come una condotta commissiva. L’errore in cui era indotta la controparte contrattuale, cioè, doveva rappresentare l’evento di un artificio o di un raggiro positivo a cui era legato da un nesso causale. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla possibilità di un errore determinato non da un atteggiamento positivo, così come appena specificato, ma anche da un contegno negativo: il semplice silenzio o la cosiddetta reticenza, più comunemente nota come dolo omissivo. A questa domanda, come vedremo, è stata data una risposta affermativa, sebbene a determinate condizioni. In particolare, quella speciale forma di dolo che è la reticenza, sarebbe ipotizzabile tutte le volte in cui sia stato violato un dovere di informazione. Quando, a questo punto, si può dire che sussista a carico di una delle parti un dovere informativo? Quando, invece, la parte potrebbe ritenersi autorizzata a non divulgare un’informazione in suo possesso?
La fattispecie
V.F.I. S.R.L. e G.C. S.A.S. avevano stipulato un contratto preliminare di compravendita immobi- liare, avente ad oggetto un terreno. Lo scopo della parte promissaria acquirente, V.F.I. S.R.L., era quello di edificare sul predetto terreno alcuni edifici. All’atto della conclusione del contratto, inoltre, era stata corrisposta la somma di euro 500.000, a titolo di caparra confirmatoria.
Solo successivamente alla stipulazione del contratto preliminare, la società edilizia acquirente rilevava che la conformazione morfo-geologica del terreno oggetto di pattuizione non rispecchiava, in realtà, le caratteristiche concordate con la parte promit- tente alienante, ma che, anzi, le condizioni del ter- reno non sarebbero state adatte alla realizzazione
delle unità immobiliari, o, comunque, la loro costru- zione avrebbe comportato un aggravio di costi e delle tempistiche di cantiere considerevoli.
In particolare, la società ricorrente lamentava di essere stata indotta in errore da controparte, mediante omissione di informazioni rilevanti circa la peculiare struttura del terreno. Se queste fossero state adeguatamente esplicitate, infatti, il contratto non sarebbe stato stipulato, oppure sarebbe stato ugualmente siglato, ma a condizioni differenti.
In ragione di ciò, V.F.I. S.R.L. adiva il Tribunale di Bergamo, chiedendo, in principalità, l’annullamento del contratto per dolo, ex art. 1439 c.c., o, quanto- meno, il riconoscimento del dolo incidente, ai sensi del successivo art. 1440 c.c.
La parte convenuta, G.C. S.A.S., che si era regolar- mente costituita in giudizio, chiedeva il rigetto di tutte le pretese attoree e, in via riconvenzionale, l’esecu- zionein forma specifica del preliminare, subordinata al pagamento da parte della società V.F.I. S.R.L. del prezzo residuo dovuto, pari ad euro 1.870.000.
Una volta chiarite le posizioni delle parti in causa, il Giudice era passato a concentrarsi sulle domande avanzate dalla parte attrice.
In relazione alla pretesa principale (annullamento per dolo), di interesse fondamentale ai fini di questa breve trattazione, il Tribunale dimostrava di aderire ad un indirizzo, oramai consolidato, della giurispru- denza di legittimità (1), secondo il quale, perché si possa parlare di dolo, è necessario che uno dei con- traenti abbia indotto in errore l’altra parte mediante una condotta all’uopo preordinata e caratterizzata da malizia ed astuzia.
Il Giudice, per poter valutare ciò, deve considerare non solo le circostanze di fatto ma anche e soprattutto le particolari condizioni soggettive dell’altra parte, in modo da appurare se il comportamento del deceptor fosse effettivamente in grado di sorprendere una persona di normale diligenza.
Nel caso di specie, come si vedrà, questa condizione indispensabile non si verificava, posto che la parte promittente alienante aveva dato possibilità alla società edilizia di rendersi conto di quali fossero le reali caratteristiche del terreno.
Pertanto, veniva disposto il trasferimento del terreno oggetto del contratto preliminare alla parte conve- nuta, ex art. 2932 c.c. Il tutto, ovviamente, subordi- nato al pagamento del residuo del prezzo.
Il dolo contrattuale
Il dolo, insieme alla violenza, all’errore e all’inca- pacità, è annoverato tra i cosiddetti vizi del
consenso. Tali sono, infatti, quelle circostanze in grado di incidere sulla libera e genuina formazione della volontà negoziale in capo al contraente. Il dolo, inteso come artifizio o raggiro idoneo a coar- tare la volontà della controparte contrattuale, è in realtà l’estremo di una vicenda ben più complessa: il comportamento del deceptor rappresenta, infatti, il punto di partenza; l’induzione in errore del decep- tus, il momento centrale; l’azione dell’errore indotto sulla determinazione volitiva, infine, l’estremo finale (2). La fattispecie è declinata dal Legislatore in due ben note modalità configurative: il dolo determinante, o causam dans, e il dolo incidente, rispettivamente agli artt. 1439 c.c. e 1440 c.c. La dottrina (3) è riuscita nell’intento di ricavare dei tratti salienti comuni alle due ipotesi tipiche: in primis, un raggiro, vale a dire un insieme di comportamenti positivi o omissivi, seppur a determinate condizioni, finalizzati ad alterare l’al- trui volontà negoziale; l’effettivo condiziona- mento della determinazione volitiva della controparte e, per ultimo, il nesso di causalità tra il primo e il secondo requisito, da intendersi alla stregua di causa ed effetto. Tutti questi elementi, poi, sono caratterizzati, dal dolo (4), ossia dalla intenzione dell’inganno da parte del deceptor: egli, infatti, non solo è consapevole della falsa rappresentazione della realtà provocata alla con- troparte, ma anche dell’idoneità della stessa falsa rappresentazione ad incidere sulla sua decisione finale (5). Il discrimen, invero, è dato dall’oggetto dell’errore causato dall’altrui inganno: se l’erronea percezione della realtà concerne un aspetto della pattuizione negoziale fondamentale per la parte ingannata, tale per cui essa non avrebbe stipulato il contratto in assenza del raggiro, il dolo è deter- minante, altrimenti è ascrivibile all’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c. (6), il quale offre una tutela
(1) Cfr. Cass. n. 8260/2017, Cass. n. 12892/2015 e Cass. n.
1585/2017.
(2) X. Xxxxxxx, Struttura del dolo: contegno del decipiens e consenso del deceptus, in Riv. dir. civ., 1999, 3 (giugno), parte 1, 373 - 400.
(3) Si vedano sul punto Carresi, Sui requisiti del dolo come vizio del consenso, in Giur. Tos., 1952, 288; Xxxxxxxxx, voce Dolo (diritto civile), in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1957, 150; Funaioli, voce Dolo (dir. civ.), in Enc. dir., XIII, Milano, 747; Xxxxxxx Xxxxxx, sub artt. 1439-1440 c.c., in Xxxxxxx - Peccenini - Memmo - Xxxxxxxx - Xxxxxxx Xxxxxx, Della simulazione. Della nullità del contratto. Dell’annullabilità del contratto (artt. 1414-1446 c.c.), nel Commentario al Codice civile, diretto da Scialoia - Branca, Bologna-Roma, 1998, 444; Gentili, Le invalidità, nel Trattato dei contratti, diretto da Xxxxxxxx-Xxxxxxxxx, I, 2, Torino, 2006, 1614; Xxxxxxx, sub artt. 1439-1440, in Azzaro - Benedetti - Carusi - Di Xxxxx - Fici - Gabrielli - Xxxxxxxx - Xxxxxxx - Marini - Pagliantini - Poletti, Dei contratti in generale (artt. 1425-1469 bis e leggi
collegate), in Commentario del Codice civile, diretto da Xxxxxxxxx, Torino, 2011.
(4) X. Xxxxxxx, Il dolo omissivo incidente nel prisma della respon- sabilità precontrattuale, in questa Rivista, 11/2012, 888 ss.
(5) Xxxxxxxxx, op. cit., 150; C.M. Xxxxxx, Il contratto, in Diritto civile, 3, Milano, 1987, 665; Xxxxxxxx, Un vizio del consenso: il dolo, in studi in onore di Xxxxxx Xxxxxxxx, Milano, 1998. Dissente da questo assunto Xxxxx, l’errore e la mancata informazione, ne Il contratto, a cura di Sacco-De Nova, Torino, 2004, 224 ss. In senso conforme alla dottrina maggioritaria si segnalano Cass., 10 luglio 1972, n. 2311, in Rep. Foro it., 1972, voce Contratti in genere, n. 325, 691.
(6) Interessante è l’osservazione di X. Xxxxxxx, op. cit., 22, il quale s’interroga sul valore effettivo della distinzione: in realtà, sostiene, “il contratto o è voluto o non lo è; e anche quando si può ipotizzare e dimostrare che sarebbe stato concluso a condizioni diverse, resta il fatto che il contratto attualmente concluso a quelle gravose condizioni in realtà non sarebbe stato concluso [...]”.
meramente risarcitoria. È opportuno notare, peral- tro, che un’autorevole dottrina (7) ha ritenuto necessari i requisiti della essenzialità e della rico- noscibilità dell’errore, anche nell’ipotesi dell’in- duzione artificiosa. Tuttavia, questa opinione non ha suscitato forti consensi, posto che le logiche sottese agli artt. 1428-1433 sono differenti rispetto a quelle dell’art. 1439 c.c. Nel caso dell’errore spontaneo, infatti, il Legislatore persegue un obiet- tivo di conservazione del contratto, ragion per cui non tutti gli errori sono idonei a legittimarne l’an- nullamento; lo stesso non può dirsi a proposito dell’errore determinato dal raggiro, data l’inten- zione di proteggere la libera formazione della volontà di ciascun contraente contro l’inganno perpetrato dalla controparte (8). Secondo l’opi- nione prevalente, pertanto, non importa l’entità dell’errore provocato, ma solo l’incidenza dell’in- ganno sulla scelta del contraente (9).
Questo breve quadro riepilogativo costituisce il punto di partenza della trattazione, che ha lo scopo di sviluppare qualche spunto riflessivo offerto dalle domande della parte attrice in principalità. La società promissaria acquirente, infatti, aveva domandato al Tribunale l’annullamento del contratto preliminare, a norma dell’art. 1439 c.c., con conseguente restitu- zione della somma versata a titolo di caparra; in caso di xxxxxxx, aveva chiesto, ugualmente in principalità, il risarcimento del danno per l’induzione in errore non determinante il consenso. Oggetto concreto delle doglianze erano le omesse informazioni, da parte della società promittente venditrice, circa la reale conformazione morfo-geologica dei terreni interessati dal contratto. A questo punto è opportuno interrogarsi sulla possibilità o meno che il dolo si
configuri anche come mero comportamento omis- sivo, nella forma della cosiddetta reticenza.
Il dolo omissivo: la reticenza
È bene ricordare che il dolo contrattuale non ha nulla a che vedere con il dolo inteso come elemento psicolo- gico e dell’illecito civile e del reato. Il dolo è un contegno. Xxxxxx, cioè, nella sua dimensione oggettiva e non coinvolge l’ambito psicologico dell’agente. Certo è che, come è stato detto, chi pone in essere il raggiro è animato da un intento fraudolento (10), ma questo aspetto esula dalla concezione prettamente oggettiva derivante dal dettato normativo. Logico è, pertanto, chiedersi in che cosa consista il comportamento doloso. Più specificamente, cosa integri il raggiro. Secondo l’opinione tradizionale (11), il dolo per poter sussistere deve potersi collocare all’interno di una più ampia cornice fraudolenta, che si risolva nella cosiddetta “macchinazione”. Il raggiro, pertanto, consiste nella messa in scena preordinata all’inganno altrui. Anche la giurisprudenza (12), nell’ammettere la possibilità che pure il mendacio, cioè la bugia o la falsa notizia, possa assurgere a comportamento doloso, reputa imprescin- dibile il requisito della macchinazione. Nella scala gerarchica degli inganni (13), l’ultimo posto è ricoperto dalla cosiddetta reticenza. La mancata informazione rappresenta un contegno che denota un minus rispetto ai precedenti: non è una ricostruzione artificiosa della realtà enon ènemmeno una menzogna. In altri termini, non è espressione di una condotta positiva. L’aver ritenuto, da parte della dottrina e della giurisprudenza, che il dato della macchinazione fosse il minimo comun denominatore per poter qualificare un determinato comportamento come doloso, ha contribuito a
Prosegue citando X. Xxxxxxx, Xxxxx causam dans e metus incidens, in Riv. dir. comm., 1952, I, 28, secondo il quale: “anche nell’ipotesi del vizio incidente i raggiri debbono ritenersi determinanti del consenso quale fu in concreto manifestato”.
(7) Xxxxxxx, Il negozio giuridico, nel Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 2002, 332.
(8) Si vedano al riguardo le considerazioni di X. Xxxxxxxxxxxx, Contratti in generale, nel Trattato di diritto civile, diretto da Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, 1966, 57.
(9) Così Xxxxx, Teoria generale del negozio, nel Trattato di diritto civile italiano, diretto da Xxxxxxxx, Torino, 1960, 457. In senso conforme, Xxxxxxxxxxx op. cit., 56 ss.; Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 169 ss.; C.M. Xxxxxx, Il contratto, in Diritto civile, 3, Milano, 1987, 625; Carresi, Il con- tratto, nel Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, XXI, 1, 1987, 459; Mirabelli, Dei contratti in generale, nel Commentario UTET, 4, 558, Xxxxxxx Xxxxxx op. cit., 440 ss.; Sacco, op. cit., Torino, 2004.
(10) Cfr. X. Xxxxx, Buona fede oggettiva e trasformazioni del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 239 ss. “In particolare Xxxxx (in Sacco, De Nova, Il contratto, Torino, 1993, I, 422 ss.) ha sostenuto
la rilevanza anche dell’inganno colposo”. Si tratta, tuttavia, di un’opinione isolata ma in linea con la tendenza ad espandersi del concetto di dolo.
(11) X. Xxxxxxxxx, voce “Dolo”, in Noviss. Dig. it., VI, s.a., Torino, 1957, 153, secondo cui “non basta quindi tacere, come non basta il semplice mendacio, la notizia falsa, quando non siano accompagnati e quasi avvalorati da un’opera di artificio”. Dello stesso avviso, C.A. Xxxxxxxx, voce “Dolo”, in Enc. del dir., XIII, s.d., Milano, 1964, 746, per il quale “integra il dolus malus la predi- sposizione dei mezzi idonei, rivolti a sorprendere l’altrui buona fede; e così non basta il mendacio e la mera notizia falsa, perché si abbia l’annullamento del negozio per dolo, se questo non sia accompagnato da un’opera di artificio o di raggiro o comunque da un comportamento in cui si concretino le malizie, astuzie o menzogne, volte a realizzare l’inganno che l’animus persegue”.
(12) Cass. 28 ottobre 1993, n. 10178, in Corr. giur., 1994, 351; successivamente, Cass. 24 gennaio 1996, in Giur. it, 1997, I, 1,
502 ss.
(13) Così come sostenuto da X. Xxxxx, ne Il contratto, II ed., Milano, 2011, 763 ss.
diffondere l’idea che dal punto di vista strutturale il dolo dovesse necessariamente consistere in una condotta decettiva di carattere commissivo (14). L’applicazione di questa concezione del raggiro alla vicenda in esame avrebbe sicuramente comportato il rigetto delle domande attoree, poiché, nel caso di specie, non si trattava di un comportamento fraudolento attivo, come una complessa macchinazione, o, quantomeno, una menzogna, quanto, piuttosto, di omesse informa- zioni da parte della parte promittente venditrice. Tut- tavia, nel corso degli anni, si è assistito ad un’evoluzione degli orientamenti sia dottrinali (15) che giurispruden- ziali (16) in tema di dolo omissivo, dovuti anche e soprattutto al comportamento del Legislatore, che in
alcuni specifici settori (17) ha previsto delle norme ad hoc (18) costituenti specifici doveri di informazione. Attualmente, pertanto, la figura del dolo omissivo (19) è riconosciuta come idonea a fondare o l’annullamento del contratto, ex art. 1439 c.c., oppure il risarcimento del danno, qualora si tratti di dolo omissivo incidente, o, ancora, a legittimare tutti edue i rimedi, come vedremo. In concreto, è sufficiente qualsiasi reticenza, silenzio o inerzia, purché circostanziati (20): inseriti cioè, alla stregua di quanto in precedenza detto per la menzo- gna (21), in un più ampio contesto ingannevole (22). Ciò si realizzerebbe tutte le volte in cui la parte disat- tenda un obbligo giuridico di parlare, di esternare e di informare, rimanendo inerte. In altri termini,
(14) Osserva X. Xxxxxxxxx, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, cit., 101, che “è principio caratteristico delle moderne legislazioni quello per cui il dolo vizio consiste in un positivo raggiro ai danni di un contraente e non in un semplice dolo negativo”.
(15) In dottrina, Xxxxx, voce Dolo omissivo e obbligo di infor- mazione, in Dig. dir. priv. Sez. civ., agg., VI, Torino, 2011, 357; Gallo, I vizi del consenso, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), Xxxxxxxxx, I contratti in generale, I, in Trattato Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx, Torino, 2006, 465; Vettori, Anomalie e tutela nei rapporti di distribuzione fra imprese, Milano, 1983, 98-148; Visintini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972; Xxxxx, Reticenza e buona fede oggettiva, in Casi e questioni in tema di contratto, Università di Bari, 1970, 73 ss.
(16) Cass. 2 febbraio 2012, n. 1480; Cass. 19 giugno 2008,
n. 16663, in Rep. Foro it., 2008, voce Contratto in genere, n. 470; Cass. 19 luglio 2007, n. 16031, ivi, 2007, voce cit., n. 528; Cass. 5 febbraio 2007, n. 2479, ibidem, voce cit., n. 533; Cass. 19 settem- bre 2006, n. 20260; Cass. 20 aprile 2006, n. 9253, in Rep. Foro it., 2006, voce cit., n. 586, secondo la quale il dolo omissivo è causa di annullamento solo quando l’inerzia della parte si inserisce in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito. Il semplice silenzio e la reticenza, tuttavia, non costituiscono di per sé causa invalidante del contratto. Cass. 15 marzo 2005, n. 5549, ivi 2005, voce cit., n. 574; Cass. 27 ottobre 2004, n. 20792, ivi 2004, voce cit., n. 549; Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, ivi, 1994, voce cit.,
n. 448; Cass. 28 ottobre 1993, n. 10718, ibidem, I, 423. Nella giurisprudenza di merito, v App. Milano 11 luglio 2003, ivi 2003, voce Contratto in genere, n. 530; Trib. Napoli 11 marzo 2002, ivi 2002, voce Società, n. 852.
(17) Cfr. Granelli, Le pratiche commercialiscorrette traimprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbl. contr., 2007, 781 ss.; Calvo, Le pratiche commerciali sleali ingannevoli, in Bargelli - Calvo - Ciatti
- De Cristofaro - Di Nella-Di Xxxxx, in Lepratichecommercialisleali tra imprese e consumatori, Torino, 2007, 177 ss.
Si considerino, inoltre, gli artt. 8 e 9, D.Lgs. n. 111/1995, in materia di viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”. L’art. 8 impone all’organizzatore o al venditore del pacchetto uno specifico obbligo di comunicazione che deve in ogni caso comprendere tutte le informazioni e gli elementi di maggiore utilità per il consumatore (condizioni generali relative al rilascio del passaporto e del visto, obblighi sanitari da espletarsi per l’effettuazione del viaggio e del soggiorno, etc.); il successivo art. 9 indica le informazioni che l’eventuale opuscolo informativo deve contenere se fornito. Que- sti obblighi, inoltre, sono ribaditi dal D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (c.d. Codice del Turismo) in vigore dal 21 giugno 2011. Altro esempio importante è dato dall’art. 5, D.Lgs. n. 50/1992, in mate- ria di negoziazioni fuori dei locali commerciali: l’art. impone al professionista di informare i consumatori in merito al diritto di
recesso di cui essi godono in forza dell’art. 4 della legge medesima.
Gli artt. 2 e 4, D.Lgs. n. 427/1998 in tema di multiproprietà prevedono, il primo, l’obbligo per il venditore di consegnare a chiunque lo richieda un documento informativo del quale il legi- slatore provvede a prescrivere specificamente il contenuto; l’art. 4 impone, invece, al venditore un obbligo di “trasparenza” che consiste nell’utilizzare il termine “multiproprietà” sia nel docu- mento informativo, sia nella pubblicità commerciale, soltanto quando il diritto oggetto del contratto sia un diritto reale.
Per un quadro più completo cfr. Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Il contratto, Torino, 2017, 29.
(18) Attraverso la novella apportata al Codice del consumo nel 2007, il Legislatore si è mosso nella direzione di dare un pieno riconoscimento alla reticenza. Egli, infatti, oltre a prevedere spe- cifichi obblighi di informazione a carico del contraente professio- nista, all’art. 22, comma 1, ha creato un vero e proprio obbligo generale di informazione, specificando che sono sempre dovute tutte “le informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno” per poter prendere una decisione che sia veramente consapevole, e la cui omissione sia in grado di determinarlo verso “una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Nel codice civile, poi, è possibile trovare numerosi articoli che sanciscono in modo espresso la presenza di doveri di informare: artt. 798, 1338, 1759, 1812, 1821, 1892, 1893 c.c.
(19) Xxxxxxxxx, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972; Xxxxxxx, Mistake, Disclosure, Information and the Law of Contracts, in X. Xxx. Stud., 1978, 4; Grisi, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990.
(20) Per quanto attiene il silenzio, invece, esso rileva partico- larmente nella fase delle trattative. Esso, come è noto, rileva nel momento in cui, alla luce delle circostanze concretamente verifi- catesi, assume un significato univoco. Il silenzio circostanziato, peraltro, deve essere connotato da un quid pluris particolare: deve denotare l’intenzione di omettere l’informazione.
(21) Il concetto di dolo omissivo è stato talmente esteso, da parte della giurisprudenza (Cass. 19 luglio 2007, n. 16031, in Rep. Foro it., 2007, voce Contratto in genere, n. 528, che parla promi- scuamente di reticenza e menzogna; Cass. 5 febbraio 2007,
n. 2479, ibidem, voce cit., n. 533; Cass. 22 dicembre 1983,
n. 7572, ivi, 1983, voce cit., n. 306; Cass. 24 settembre 1954,
n. 3121, in Riv. dir. civ., 1960, II, 238), da arrivare a comprendere al suo interno anche la menzogna. Senonché, la dottrina (Xxxxx, voce Dolo omissivo e obbligo di informazione, in Dig. dir. priv. Sez. civ., agg., VI, Torino, 2011, 357), più correttamente, ha evidenziato che quest’ultima, consistendo, di fatto, in una dichiarazione, denotasse piuttosto un contegno commissivo.
(22) Xxxxxxxx, il dolo omissivo nella giurisprudenza: fine dell’esilio?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 318.
nell’ambito del diritto civile è stata fatta una valuta- zione simile a quella contenuta nell’art. 40, comma 2,
c.p. (23), laddove è prevista l’estensione della disciplina delle fattispecie commissive d’evento alle speculari ipotesi omissive, in modo da poter ugualmente repri- mere non solo colui che abbia cagionato l’evento, ma anche colui che gravato dall’obbligo giuridico di impe- dirlo non si sia attivato: così come è riprovevole l’indu- zione in errore mediante una condotta commissiva,è parimenti riprovevole non aver impedito l’errore della controparte attraverso il silenzio che contrasti con un dovere di informazione. Tuttavia, considerate le diffe- renze intercorrenti tra i due ordinamenti, gli addetti ai lavori hanno preferito rinvenire una ratio giustificatrice all’interno dell’ordinamento civilistico, individuando come fondamentale l’art. 1337 c.c. e il principio di buona fede oggettiva (24).
È interessante notare come a livello europeo, invece, la reticenza venga considerata diversamente rispetto
alla legislazione nazionale. Significativi in questo senso appaiono i Principi di diritto europeo dei con- tratti (PECL), di Xxx Xxxxx. Ai sensi dell’art. 4:107. Dolo. 1) La parte che sia stata indotta a concludere il contratto dai raggiri usati dall’altra parte, mediante parole o comportamenti o qualsiasi mancata informa- zione che invece secondo buona fede e correttezza avrebbe dovuto essere rivelata, può annullare il contratto. L’ul- timo inciso, in particolare, denota una concezione moderna di reticenza, ormai completamente svinco- lata dal raggiro e dalla messinscena. La reticenza, in altri termini, rileva in sé per sé.
Gli elementi costitutivi della reticenza
Nella società contemporanea l’informazione ha assunto un’importanza centrale, tant’è che ogni branca dell’ordinamento ha dovuto, in qualche modo, confrontarvisi: si pensi, ad esempio, ai doveri
(23) Xxxxxxxx, op. cit., 326 ss. il quale, tuttavia, non ritiene che il diritto privato dei contratti possa essere sottoposto ad un regime rigoroso come quello penale, escludendo una perfetta equipara- zione tra i due ordinamenti; De Poli, Servono ancora i raggiri per annullare il contratto per dolo? Note critiche sul concetto di reti- cenza invalidante, in Riv. dir. civ., 2004, II, 2, ss.
(24) In questo senso: Xx Xxxx, Imezzi dell’attività ingannatoria e la reticenza, cit., 653 ss.; Xxxxx, op. cit., 359; Xxxxxxxx, op. cit., 328 ss.; Xxxxxxx, regole di validità e responsabilità di fronte alle Sezioni Unite, in Obbligazioni e contratti, 2008, 2, 104; D’Amico, Mancata cooperazione del creditore e violazione contrattuale, in Riv. dir. civ., 2004, 1, I, 77-106 e Id., Xxxxx fede in contrahendo, in Riv. dir. priv., 2003, 2, 335-362; Roppo, Il contratto, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2001, 120; Di particolare importanza, in giurisprudenza, sul rapporto tra regole di validità e correttezza: Cass., SS.UU., 19 dicembre 2007, n. 26724, con nota di Xxxxxxxx, in Foro it., 2008, I, 784; (nonché in questa Rivista, 2008, 229, con nota di Sangio- vanni; in Società, 2008, 449, con nota di Scognamiglio; in Corr. giur., 2008, 223, con nota di Mariconda; in Xxxxx e resp., 2008, 525, con nota di Roppo e Xxxxxxxxxx; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 423, con nota di Salanitro; in Mondo bancario, 2008, 4, 37, con nota di Capriglione; in Giust. civ., 2008, I, 1175, con nota di Xxxxx; in Giur. comm., 2008, II, 604, con nota di Xxxxx, Xxxxx; in Guidadir., 2008, 5, 41 con nota di Xxxxxxx; Riv. dir. comm., 2008, II, 155, con nota di Xxxxxxx; in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 686, con nota di Corradi); Xxxxx stesso senso: Cass. 29 settembre 2005, n. 19025, con nota di Xxxxxxxx, in Foro it., 2006, I, 1105; (nonché in Danno e resp., 2006, 25, con nota di Roppo e Xxxxxxxx; in questa Rivista, 2006, 446, con nota di Poliani; Mondo bancario, 2006, 1, 53, con nota di Lemma; in Corr. giur., 2006, 669, con nota di Genovesi; in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 897, con nota di Xxxxxxx; in Resp. civ., 2006, 1080, con nota di Xxxxx; in Giur. it., 2006, 1599, con nota di Xxxxxxxxx; Impresa, 2006, 1140, con nota di Xxxxxxx; in Giur. comm., 2006, II, 626, con nota di Xxxxxxxx). Giova ricordare che per buona fede “oggettiva” si intende una regola comportamentale di correttezza, da cui derivano doveri di informazione, chiarezza e segretezza. Sulla buona fede oggettiva si basa la nuova responsabilità precontrattuale, che, secondo Xxxx., SS.UU., n. 14188, ha natura contrattuale: nel momento in cui le parti entrano in trattativa, infatti, sono soggette all’obbligo di comportarsi secondo buona fede ex art. 1337 c.c. Inoltre, giova evidenziare che la buona fede oggettiva rappresenta uno dei principi cardine della contrattazione privatistica anche e soprattutto a livello internazionale: cfr. the Unidroit Principles on
International Commercial Contracts (2010), consultabili su www. xxxxxxxx.xxx, sub art. 1.7 (Good faith and fair dealings), secondo il quale “Each party must act in accordance with good faith and fair dealing in international trade”. “The parties may not exclude or limit this duty”. Dal secondo paragrafo, in particolare, si evince la natura obbligatoria (mandatory nature) di tale principio.
Strettamente correlato all’art. 1.7 è l’art. 3.2.5. (Fraud), in base al quale “A party may avoid the contract when it has been led to conclude the contract by the other party’s fraudulent representa- tion, including language or practices, or fraudulent non-disclosure of circumstances which, according to reasonable commercial standards of fair dealing, the latter party should have disclosed”. Qual è la differenza tra il dolo e il semplice errore, a questo punto? “Fraud may be regarded as a special case of mistake caused by the other party”. “The decisive distinction between fraud and mistake lies in the nature and purpose of defrauding party’s representations or non-disclosure of relevants facts. Such con- duct is fraudulent if it is intended to lead the other party into error and thereby to gain an advantage to the detriment of the other party”.
Cfr., inoltre, Principles, Definitions and Model Rules of European Private Law, in Draft Common Frame of Reference (DCFR) - outline edition, xxxxxxx. european law publishers, 2009, 11 ss., dove la buona fede è inclusa nel novero dei cosiddetti “Principes directeurs” (linee-guida). “[...] They identified three main princi- ples - liberté contractuelle, sécurité contractuelle et loyauté con- tractuelle - [...]”. “The key elements are good faith, fairness and co-operation in the contractual relationship. Loyauté comprises a duty to act in conformity with the requirements of good faith and fair dealing [...]”. “One party’s contractual security is increased by the fact that the other is expected to co-operate and act in accordance with the requirements of good faith and fair dealing. Nothing is more detrimental to contractual security than a con- tractual partner who does not do so”. In particolare, a pag. 85: “A recurring and important idea is that parties are expected to act in
accordance with good faith and fair dealing. For example, a party engaged in negotiations has a duty to negotiate in accordance with good faith and fair dealing and is liable for loss caused by a breach of the duty (II. - 3:301 (2) and (3)) For later stages in the relationship it is provided that: A person has a duty to act in accordance with good faith and fair dealing in performing an obligation, in exercising a right to performance, in pursuing or defending a remedy for non-performance, or in exercising a right to terminate an obligation or contractual relationship (III. 1:103).
di informazione in campo medico; alle banche dati; ai problemi di controllo della veridicità delle informa- zioni divulgate dai media; alla pubblicità inganne- vole; all’informazione, addirittura, come nuova forma di proprietà, fino ad arrivare, più in generale, aidoveri diinformazione inambitocontrattuale (25). Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante, soprattutto con riferimento alla fase antecedente la stipula: la trattiva. Durante il XIX secolo, la soluzione che veniva adottata era abbastanza netta: i doveri di informazione non trovavano riconoscimento da parte di ordinamenti, come specialmente quelli di matrice anglosassone, dove dominava - e, in parte, tuttora domina - il principio del cosiddetto “caveat emptor” (26). Le parti, cioè, non erano tenute a divulgare le informazioni in loro possesso, ma, anzi, potevano ben sfruttare le scarse conoscenze, e quindi la maggior vulnerabilità degli altri contraenti. Il quadro cominciava a mutare a partire dal XX secolo, soprattutto nell’Europa Continentale, dove la rile- vanza della buona fede oggettiva iniziava ad essere sempre maggiore (27). Il mutamento di ideologia, ovviamente, interessò particolarmente i doveri di informazione, che dal XX secolo iniziavano a trovare cittadinanza, sebbene solo nelle ipotesi legalmente previste, come ad esempio nel contratto di assicura- zione. Negli anni settanta dello scorso secolo, infine, l’evoluzione ideologica si completava e la dot- trina (28) arrivava ad ammettere i doveri di informa- zione anche al di fuori dei casi di espressa previsione legislativa. Xxxxxxx chiedersi, a questo punto, quali
siano state le ragioni di tale mutamento di pensiero; in altri termini, qual è la ratio dei doveri di informa- zione. La risposta è fornita da un’analisi condotta secondo la prospettiva economica. Da un punto di vista strettamente economico, infatti, l’informazione è un bene (29) a tutti gli effetti. È un bene, peraltro, molto prezioso, perché consente un maggior benes- sere sia della collettività, sia del singolo individuo: si pensi, ad esempio, alle conoscenze in materia di sviluppo tecnologico, a quelle relative al campo medico, o ancora, alle maggiori probabilità di impiego che astrattamente si profilano per una per- sona con un livello di istruzione più alto. Se quanto appena detto, da un lato, è vero, dall’altro è parimenti vero che il reperimento delle informazioni può essere, in alcuni casi particolarmente costoso. Talune infor- mazioni, infatti, possono essere molto difficili da acquisire, basti pensare a quanto spendono i singoli stati per la ricerca tecnologica o scientifica o agli esborsi che le imprese devono sostenere per la crea- zione di prodotti sempre più competitivi e allettanti per il mercato. Ciò che è sicuramente un dato di fatto è la facilità con la quale l’informazione, benché difficilmente acquisita, può essere trasmessa: un dischetto per computer può, infatti, essere copiato in una manciata di secondi. L’ordinamento, di con- seguenza, dovrebbe prevedere degli appositi stru- menti per tutti coloro che abbiano investito nella ricerca di informazioni preziose in modo da poterne raccogliere i frutti. Se è vero quanto è stato appena detto, cioè che le informazioni sono costose da
(25) Xxxxxxxx, La reticenza nei negozi giuridici, in Studi Xxxxxx, Xxxxxxx, 0000; Xxxxxxxxx, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova, 1937; Visintini, Lareticenza nellaformazione dei contratti, Padova, 1972; Villa, Errore riconosciuto, annullamento del con- tratto ed incentivi alla ricerca di informazioni, in Quadr., 1988, 286; Grisi, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990; X. Xxxxx, Errore sul valore, giustizia contrattuale e trasferimenti ingiu- stificati di ricchezza alla luce dell’analisi economica del diritto, in Quadr., 1992, 672; Id., Buona fede oggettiva e trasformazioni del contratto, in questa Rivista, 2002, I, 239, 242; Id., Responsabilità precontrattuale: La fattispecie, in questa Rivista, 2004, I, 295, 311; Id., I vizi delconsenso, in Xxxxxxxx (Cur.), Xxxxxxxxxxx, XX xx., Xxxxxx, 0000; Xxxx, Ildoverediinformazione, Saggiodi dirittocomparato, Trento, 1999; Valentino, Obblighi di informazione, contenuto e forme negoziali, Napoli, 1999; Xxxxxxx, Obblighi d’informare e procedimenticontrattuali, Napoli, 2000; De Poli, Asimmetrieinfor- mative e rapporti contrattuali, Padova, 2002; Greco, Profili del contratto del consumatore, Napoli, 2005. Si vedano inoltre: Kron- man, Mistake, Duty of Disclosure, Information and Law of Con- tracts, in J. of Leg. Stud., 1978, 4; Xxxxxx, Xxxxxxxx, Salop, The Efficient Regulation of Consumer Information, in Journal of Law & Econ., 1981, 491; Xxxxxx, Le juste et l’inefficace pour un non- devoir de renseignements, in Rev. trim., 1985, 91; Legrand, Pre- contractual Disclosure and Information: English and French Law Compared, Ozford X. Xxx. Stud., 1989, 322; Xxxxxxx, Pre-Con- tractual Duties of Disclosure, in Essays for Xxxxxxx Xxxxxx, Staple- ton, 1991; Xxxxxxx, The Pre-Contractual Obligation to Disclose Informations: English Report, in Xxxxxx, Tallon (Cur.), Contract Law
Today, Oxford, 1991; Xxxxxxx, The Pre-Contractual Obligation to Disclose Informations, in Contract Law Today, Xxxxxx, 0000; Id., Le contract., Xxxxxxxxx, Xxxxx, 0000; Id., Le contract, Les effets, Paris, 1994; Xxxx, Pre Contractual Duties of Disclosure. A Com- parative and Economic Perspective, in Eu. J. of Law and Econ., 2000, 9; Xxxxx - Xxxxxx, De l’obligation d’information dans les contrats, Xxxxx, 0000; Xxxxxx, L’obbligation de conseil, th. Rennes, 1992; Xxxxxxx Xx XxxxxXxxxxxx, Du devoir de conseil, Xxxxx, 0000; Xxxxxxx, Xxxxx, Grigoleit (Cur.), Informationspflichten und Ver- tragsschluss im Acquis communautaire, Tübingen, 2003, con recensione di Troiano, in questa Rivista, 2005, I, 94; Xxxxxxxx, L’information des consommateurs en droit européen et en droit suisse de la consommation, Bruxelles, 2006.
(26) In Inghilterra si può dire che questa concezione non sia ancora cambiata: Musy, op. cit.; De Poli, op. cit., 72; Banque Financière x. Xxxxxxxx Insurance Co. (1989) 2 All E.R., 952, 1012.
(27) X. Xxxxx, Buona fede in senso oggettivo e trasformazioni del contratto, cit.
(28) Visintini, op. cit.
(29) Theil, Economics of Information Xxxxxx, Xxxxxxx, 0000; Xxxxxxx, Information and Efficiency, in 12 X. Xxx and Econ., 1969, 1; Kithch, The Law and Economics of Rights in Valuable Information, in 9J. Leg. Stud., 1980, 683; Xxxxxx, Economics of Information and Law, Boston 1982; Xxxxxxx, L’appropriation de l’information, Xxxxx, 0000; Scheppele, Legal Secrets, Xxxxxxx- Xxxxxx, 0000; Pardolesi - Motti, L’idea è mia, cit.; Id., L’informa- zione come bene, in Dalle res alle new properties, cit., 37 ss.; Xxxxxxx, op. cit.
reperire, che sono facili da diffondere e che è neces- sario tutelare gli scopritori delle stesse, bisogna chie- dersi perché l’ordinamento preveda dei doveri di informazione e, allo stesso tempo, perché una persona che ha speso tempo, denaro ed energie per procurarsi delle conoscenze, tali da collocarlo in una posizione di vantaggio, dovrebbe privarsene (30). La risposta si ricava dal fatto che i mercati caratterizzati da asim- metrie informative sono, in realtà, dei contesti fal- limentari, come dimostra il noto studio di Xxxxxxx (31) sui “Lemons Market”. Le asimmetrie informative, pertanto, sono dannose nella misura in cui non consentano al mercato di funzionare, o, in ogni caso, riducano il volume dei potenziali scambi. Di fronte ad un contesto del genere è chiaro che l’unico rimedio possibile è quello di imporre dei doveri di informazione. Questa soluzione, tuttavia, non tiene conto dei costi sostenuti da colui che si sia procurato l’informazione, secondo quanto detto all’i- nizio. Ci si chiede qual è l’interesse che deve preva- lere: se sia opportuno, in altri termini, privilegiare il privato che abbia investito nella ricerca, oppure evitare l’inefficienza dei mercati caratterizzati da asimmetrie informative. Il problema venne affron- tato da Xxxxxxx (32), il quale sosteneva che l’infor- mazione costosa non dovesse essere rivelata: famoso l’esempio della compagnia petrolifera, che, avendo scoperto l’esistenza di un giacimento all’interno di un terreno, non era tenuta a rivelarlo alla parte vendi- trice. Secondo Xxxxxxx, pertanto, chi investe nella ricerca acquisisce una posizione di vantaggio che gli compete nella maniera più assoluta (33). Nel nostro
ordinamento, però, una soluzione di questo tipo non sarebbe ammissibile. Interessante al riguardo è la riflessione proposta in dottrina (34) sull’art. 932 c.c., che, come noto, si riferisce a quella particolare forma di invenzione avente ad oggetto il tesoro: nel caso del ritrovamento di un tesoro su fondo altrui, infatti, il tesoro spetterà per metà allo scopritore e per metà al proprietario del fondo. La soluzione adottata dal Legislatore è, dunque, quella di un contempera- mento di interessi, attraverso la ripartizione del risul- tato utile. Non solo. La soluzione di Xxxxxxx, inoltre, mal si concilierebbe con il disposto degli artt. 1429 e 1338 c.c.: la vendita di un terreno al cui interno si trovi un giacimento petrolifero, circo- stanza non nota al venditore, configurerebbe sicura- mente un errore essenziale sull’oggetto del contratto e, come tale, se conosciuto da parte della compagnia petrolifera, legittimerebbe una domanda di annulla- mento dello stesso. La parte venditrice, inoltre, potrebbe anche agire per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1338 c.c. Difficile ritenere, in un caso del genere, l’insussistenza di un dovere di informa- zione: quando esiste una sanzione, infatti, è perché è stato violato un obbligo. Si può sostenere, pertanto, che l’ordinamento positivo italiano, sia attraverso la previsione di norme specifiche, sia mediante clausole generali, quali sono gli artt. 1337 e 1338 c.c., tende a privilegiare l’interesse del contraente meno esperto, imponendo alla controparte, in ogni caso, un generico dovere di informazione. Tuttavia, è allo stesso tempo vero che il contraente più debole non è sempre e comunque giustificabile: il concorso di
(30) Xxxxx Xxxxxx, Il diritto all’informazione nei suoi aspetti privatistici, in Riv. dir. civ., 1984, II, 138; Xxxxxx, Obblighi di informazione e contratti informatici, in Rass. dir. civ., 1987, 120; Grisi, Oneri ed obblighi d’informazione, in Nuova giur. civ. comm., 1990, II, 252; Id., Gli obblighi d’informazione, in Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele, Torino, 2002, 144; De Nova, Informa- zione e contratto: il regolamento contrattuale, in Riv. trim., 1993, 706; Vettori, Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2003, 241; Liberanome, Dolo omissivo e Duty of Disclosure, in Studi Cantelmo, Napoli, 2003, II, 5; Gentili, Informazione contrattuale e regole di scambio, in Riv. dir. priv., 2004, 555.
(31) Xxxxxxx, The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in Quarterly Journal of Econ., 84, 1970, 488-500. Lo studio dimostra, attraverso l’esempio del mercato delle auto usate, come il danno derivante da disparità di cono- scenze sia cristallino: infatti, il venditore di un’auto usata è sicu- ramente colui che ha il bagaglio di informazioni più cospicuo all’interno della relazione negoziale. Egli conosce bene sia i pregi che i difetti dell’autovettura. In altre parole, egli conosce con precisione il valore dell’oggetto del contratto. Lo stesso non può dirsi dell’acquirente. Ciò ha come conseguenza che spesso il prezzo non è un indicatore attendibile della qualità del bene e, pertanto, l’acquirente sarà disposto al pagamento di un prezzo medio; di un prezzo, cioè, che tenga conto del rischio di acquistare “un bidone”. Non tutti i venditori di auto usate saranno disponibili a
vendere a tale prezzo medio la loro macchina, ma solo coloro i quali sappiano che effettivamente il valore del bene rientra in quel prezzo medio o, addirittura, è inferiore. Ne deriva un circolo vizioso che porta, in primis, ad una riduzione del prezzo medio, poi ad un’immissione nel mercato di vetture di scarsa qualità, fino a raggiungere il limite dell’esclusione del mercato stesso.
(32) Xxxxxxx, op. cit.
(33) In senso critico: Xxxxxxx, op. cit., 45. Egli ritiene che la visione di Xxxxxxx sia troppo unilaterale e non tenga conto dei rischi che si profilerebbero in mercati caratterizzati da asimmetrie informative.
(34) X. Xxxxx, asimmetrie informative e doveri di informazione, in Riv. dir. civ., 2007, 5, 641, in cui, peraltro, l’autore fa riferimento ad un altro criterio, oltre a quello proposto da Xxxxxxx, che si fonda sulla distinzione tra vizi e difetti del bene venduto e pregi e qualità positive di quello acquistato: “In questa prospettiva men- tre si è tenuti a rivelare tutto quello che attiene agli eventuali vizi o difetti del bene che si vende, non si sarebbe tenuti a comunicare gli eventuali pregi del bene che si acquista”. Tuttavia, osserva Xxxxx, il mutamento della coscienza sociale, rende anche questo criterio difettoso: se Xxxxx, esperto violinista, si accorge che Xxxx, rigat- tiere, vende uno Stradivarius per pochi soldi, deve informarlo delle specifiche qualità del violino. Diversamente, si verificherebbero le medesime conseguenze sopra descritte per il giacimento petro- lifero. Non solo, quindi, devono essere rivelati i difetti del bene venduto, ma anche gli eventuali pregi del bene acquistato.
colpa (35), infatti, potrebbe diminuire o, addirittura, escludere la responsabilità. Accanto ai doveri di informazione esistono anche i doveri di agire in modo responsabile. Ciò significa che ogni contraente deve, in primo luogo, cercare con l’ordinaria dili- genza di procurarsi le informazioni di cui necessita, senza attendere passivamente che il compito sia svolto da altri. Ciò vale salvi i casi in cui, evidente- mente, l’informazione risulti particolarmente diffi- coltosa da reperire (36): in linea di principio, dunque, si è tenuti a rivelare solo quelle informazioni che la controparte non avrebbe potuto procurarsi con l’or- dinaria diligenza.
Le conseguenze giuridiche della reticenza
Dopo aver chiarito la ragion d’essere dei doveri di informazione ed aver, in qualche modo, delineato la tendenza dell’ordinamento italiano in materia, è opportuno focalizzare l’attenzione sulle conseguenze giuridiche che possono derivare dalla reticenza. In particolare, è possibile distinguere due ordini di con- seguenze: il risarcimento del danno a norma degli artt. 1337 e 1338 c.c. e l’annullamento del contratto per dolo omissivo ai sensi dell’art. 1439 c.c. Dato che la reticenza può essere causa sia dell’annullamento del contratto sia del risarcimento del danno, bisogna distinguere tra la reticenza rilevante grave, la reti- cenza rilevante lieve e la reticenza irrilevante. Nel primo caso, la mancata informazione legittimerà una richiesta congiunta di annullamento del con- tratto e di risarcimento del danno; nel secondo caso sarà esperibile il solo rimedio risarcitorio e nel terzo ed ultimo caso l’aver taciuto sarà improduttivo di conseguenze giuridiche (37). Con riferimento alla prima fattispecie, emblematico è l’art. 1338 c.c., il quale individua un primo nucleo di doveri di infor- mazione: infatti, nel caso in cui una delle parti fosse a conoscenza di un vizio che inficiava il contratto, si configurerebbe un’ipotesi di reticenza giuridica- mente rilevante con possibilità di doppio rimedio. Questo vale in tutti i casi di errore essenziale, ai sensi dell’art. 1429 c.c., che, se noto all’altra parte, legitti- merebbe sia la domanda di annullamento del
contratto, sia il risarcimento del danno. Più in gene- rale, si può sostenere che si configuri una reticenza rilevante grave, “ogniqualvolta un contraente, pur essendo consapevole dell’errore essenziale altrui ha volutamente taciuto” (38). L’assunto consente da una parte di individuare, con un certo grado di precisione, la sfera della reticenza giuridicamente rilevante e, dall’altra di conseguenza, di confermare che la proposta di Xxxxxxx, sopra esposta, avrebbe problemi compatibilità con il nostro sistema giuridico.
In sintesi, dunque, la consapevolezza che la contro- parte ha commesso un errore essenziale di cui all’art. 1429 c.c. integra gli estremi della reticenza, rilevante sia ai fini dell’annullamento del contratto per dolo omissivo (art. 1439 c.c.), sia ai fini del risarcimento del danno (art. 1338 c.c.).
Ci si può spingere oltre. È ormai ben nota, in dot- trina, la distinzione tra regole di correttezza e regole di validità (39). Le regole di correttezza, discendenti dal principio di buona fede oggettiva imposto dal- l’art. 1337 c.c., hanno una portata più ampia rispetto alle tassative regole di validità del contratto. Da ciò consegue che la loro rilevanza si può manifestare anche rispetto a contratti validamente conclusi, come, ad esempio, nell’ipotesi di cui all’art. 1440
c.c. La dottrina in questo caso parla di vizi incom- pleti (40) del contratto, proprio perché non tali da inficiarne la validità ma idonei solo a legittimare il rimedio risarcitorio (41). L’ipotesi si verifica in tutti i casi in cui il contratto nasce squilibrato come conseguenza di un vizio minore del consenso (42). Tuttavia, vi sono due limiti che devono, comunque essere rispettati: è necessaria la presenza di un dato oggettivo, vale a dire lo squilibrio contrattuale dovuto alla violazione del principio generale di buona fede ex art. 1337 c.c.; in secondo luogo, non deve sussistere concorso di colpa (art. 1227 c.c.), ma occorre che l’errore in cui sia incorso il dichiarante sia scusabile. Se è vero, dunque, che in presenza di un vizio incompleto del contratto, come sopra definito, si pone solo un problema di risarci- mento del danno e non anche di validità del con- tratto, è altresì vero che è possibile configurare un
(35) Art. 1227 c.c.
(36) Difficoltà da intendere in senso economico.
(37) Cfr. X. Xxxxx, op. cit.
(38) X. Xxxxx, op. cit., cit.
(39) La distinzione è da attribuire agli studi di Xxxxxxxxx, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963; nello stesso senso anche D’Amico, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996.
(40) Xxxxxxxxx, Vizi incompleti del contratto e rimedio risarci- torio, Torino, 1995; X. Xxxxx, Responsabilità precontrattuale e problemi di quantificazione del danno, in Studi Bianca, 2006, 457 ss.; Xxxxxxxxx, Approfittamento e lesione infra dimidium, Xxxxxx, 0000.
(41) Più ampiamente, X. Xxxxx, I vizi del consenso, in Il contratto in generale, a cura di Xxxxxxxx, II ed., Torino, 2006, 457-537.
(42) Xxxxx che, come detto, non incide sulla validità del contratto.
dovere di informazione giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 1337 c.c. L’obbligo di risarcire i danni è infatti la conseguenza della violazione del dovere di comunicare all’altra parte ogni circostanza rile- vante in conformità al principio di buona fede oggettivo (art. 1337 c.c.).
Di conseguenza, dunque, accade che la parte consa- pevole dell’altrui vizio del consenso, ancorché incompleto, nonché del fatto che il contratto avrebbe potuto essere concluso a condizioni diverse, è onerata da un preciso dovere di informazione giuridicamente rilevante, la cui disattenzione com- porta l’obbligo esclusivo di risarcire i danni (artt. 1337, 1441 c.c.).
La reticenza circa un vizio incompleto del contratto, come sopra definito, implica dunque una responsa- bilità di tipo risarcitorio, ferma restando la validità del contratto. In ipotesi di questo tipo la reticenza ha quindi risvolti meno gravi, posto che consente uni- camente di ottenere il risarcimento del danno e non anche l’annullamento del contratto (art. 1441 c.c.) Da ciò deriva un’indubbia estensione della sfera dei doveri di informazione giuridicamente rilevanti, ancorché solo ai fini del risarcimento del danno. Infatti, “Anche la consapevolezza che la contro- parte ha commesso un errore non essenziale, con conseguente squilibrio tra le prestazioni di entità tale da ritenersi determinante il consenso, purché scusabile, comporta violazione dei doveri precon- trattuali di correttezza fondati sulla buona fede in senso oggettivo, con conseguente obbligo di risar- cire i danni” (43).
A questo punto, ragionando a contrario, possiamo avviare la conclusione del ragionamento ed indivi- duare i casi di reticenza giuridicamente irrilevante. Se infatti è vero che la reticenza circa la violazione di una regola di validità del contratto conduce sia ad annullabilità dello stesso per dolo omissivo (art. 1439 c.c.), che a risarcimento del danno (art. 1338 c.c.), ed è altresì vero che la reticenza circa la violazione di una regola di correttezza conduce unicamente al risarci- mento del danno, ferma la validità del contratto (artt. 1337 e 1441 c.c.), ne consegue che a contrario in tutti gli altri casi la reticenza è giuridicamente irrilevante, non produce cioè effetti giuridici di alcun tipo.
In definitiva, la violazione di una regola di validità conduce sia ad annullabilità del contratto che a risarcimento del danno; la violazione di una regola di correttezza conduce unicamente a risarcimento del
danno. Quando non risulta violata nessuna di queste regole, il contratto è pienamente valido ed efficace. Da quanto appena detto deriva che anche i doveri di correttezza e buona fede non operano oltre il limite costituito dalla presenza di un vizio incompleto del contratto come sopra definito. Limite, tuttavia, potenzialmente variabile con un’ulteriore evoluzione della coscienza sociale a riguardo, perché di questo si è sempre trattato.
Considerazioni finali
Venendo, ora, alla fattispecie concreta, la decisione adottata dal Tribunale di Bergamo appare perfetta- mente in linea con gli orientamenti giurispruden- ziali (44) in materia di dolo omissivo. Diversamente dalla concezione di dolo che sembra prevalente nel diritto comune europeo, totalmente svincolata, come è stato detto in precedenza, dal requisito della macchinazione contestualizzante, la giurispru- denza italiana non concede autonoma rilevanza all’o- messa informazione, ma adotta, piuttosto, una soluzione analoga a quanto già fatto in precedenza in tema di mendacio. La reticenza, in particolare, deve inserirsi in un contesto più complesso, caratte- rizzato da malizia ed astuzia, idoneo, cioè, a determi- nare l’errore dell’altra parte. La valutazione di tali caratteristiche è compito esclusivo del giudice, il quale deve far riferimento alle circostanze del caso concreto, nonché alle qualità e alle condizioni sog- gettive dell’altra parte. Solo in questo modo egli è in grado di comprendere se l’omessa informazione avrebbe sorpreso una persona di ordinaria diligenza, visto e considerato che l’affidamento colpevole non può ricevere tutela (45). La parte promissaria acqui- rente aveva chiesto l’annullamento del contratto preliminare ex art. 1439 c.c., o, quantomeno, il risar- cimento del danno in virtù dell’art. 1440 c.c., perché riteneva di essere stata ingannata dalla controparte circa le reali caratteristiche del terreno oggetto del contratto. Parte venditrice, in particolare, avrebbe sottaciuto dati rilevanti in materia di composizione morfo-geologica dei terreni. Tuttavia, il Tribunale ha rilevato come queste dichiarazioni, in realtà, non rispondessero a verità: la società venditrice aveva provato la conoscibilità delle peculiarità del terreno in capo alla promissaria acquirente. In primis, que- st’ultima, nelle premesse del contratto preliminare si era dichiarata pienamente edotta in relazione al
(43) X. Xxxxx, op. cit., cit.
(44) Xx xxxxxx, xxx. Xxxx. xxx. x. 00000/00, Xxxx. n. 8260/2017, Cass. n. 5549/15.
(45) X. Xxxx. x. 0000/00, Cass. n. 12892/15, Cass. n. 1585/17 e Cass. n. 16004/14.
contenuto della Convenzione Urbanistica riguar- xxxxx i terreni oggetto del contratto. Tale Conven- zione, inoltre, era corredata dal Piano di Lottizzazione e da una relazione geologica ad esso allegato, in cui venivano enunciate le caratteristiche del suolo. In aggiunta a quanto appena detto rileva, poi, la circo- stanza che i terreni oggetto del contratto erano stati messi a disposizione della parte promissaria acqui- rente per tutti i rilievi ritenuti necessari. Pertanto si evince immediatamente che il contesto oggettiva- mente malizioso, all’interno del quale deve inserirsi l’omessa informazione per rilevare alla stregua di dolo omissivo, nel caso di specie manca. Non solo. Le stesse argomentazioni difensive addotte da parte attrice rappresentano, piuttosto, l’indice di una sua conclamata negligenza: la Convenzione Urbanistica non era stata letta attentamente, ma, anzi, la rela- zione geologica allegata era stata letta soltanto due anni dopo la stipula del contratto preliminare.
Ne consegue che la parte promittente venditrice ha adempiuto all’obbligo di comportarsi secondo cor- rettezza ex art. 1337 c.c., in quanto le informazioni rilevanti erano contenute in documento fornito alla controparte, che quest’ultima aveva dichiarato di aver letto. Da ritenersi infondata è, dunque, qualunque pretesa risarcitoria. In aggiunta, anche la domanda di annullamento del contratto è priva di ragion d’essere: l’errore in cui è incorsa la parte promissaria acquirente non era certo riconoscibile dalla controparte, visto che la prima aveva dichia- rato di aver preso visione di tutti gli allegati al preliminare.
In definitiva, nel caso di specie, nessuna regola di correttezza né di validità era stata violata. Per- tanto, non esisteva alcun dovere di informazione e, di conseguenza, una responsabilità a titolo di dolo omissivo determinante o incidente non era configurabile.
Espromissione
Corte d’Appello di Bologna, Sez. I, 19 gennaio 2018 - Pres. Parisoli - Cons. Di Xxxxxxxx - Xxx. Taruffi -
F.F. e altri c. Istituti Riuniti di Assistenza per Inabili ed anziani di Parma
L’espromissione presuppone la sussistenza di un’obbligazione altrui, precedente all’assunzione da parte dell’e- spromittente. Essa, pertanto, non può avere ad oggetto un debito non ancora sorto, che sorgerà se e quando il creditore avrà effettuato la sua prestazione, debito indeterminato nell’an, anche se determinabile nel quantum. In mancanza di tale presupposto potrà aversi non espromissione, ma assunzione di un’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, garanzia in relazione alla quale la facoltà di recesso è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Cass., Sez. III, 10 novembre 2008, n. 26863. |
Difforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. |
La Corte d’Appello (omissis)
Con atto di citazione notificato il 29 luglio 2005 gli Istituti Riuniti di Assistenza per Inabili e Anziani di Parma (I.R.A.I.A.) convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Parma i sig.ri F.F., E.F. e E.F. per sentirli condannare, il primo in proprio, la seconda quale sua garante nonché collaterale al pari del fratello X., al pagamento dell’importo complessivo di Euro 34.529,26, ovvero nella maggior o minor somma che risulterà al termine dell’i- struttoria, nonché della penale stabilita secondo il Rego- lamento in ragione di Euro 1,50 al giorno dal ventesimo giorno successivo a ciascun avviso di pagamento in rela- zione alle quote impagate al saldo effettivo, oltre gli interessi legali dal dì del dovuto al saldo.
Esponeva l’Istituto attore che in data 1° luglio 1998 il sig. F.F. era stato ammesso quale ospite autosufficiente al Reparto comune degli Istituti Riuniti di Assistenza per Inabili ed Anziani di Parma con l’autorizzazione del Comune di Parma - Assessorato alle Politiche Sociali ed Assistenziali.
La sorella X. aveva sottoscritto in data 17 giugno 1998 - ai sensi dell’art. 9 del Regolamento delle Strutture assisten- ziali dell’Ente - l’impegno al pagamento della retta, la cui determinazione monetaria veniva stabilita mediante deli- bera del Consiglio di Amministrazione dell’Ente stesso, che decideva il trattamento economico dovuto per il sig.
F.F. dal 1° luglio 1998 al 30 giugno 1999 quale ospite autosufficiente e dal 1° luglio 1999 ed a seguire quale ospite non autosufficiente. Lamentava l’Istituto attore che sino a quando sussisteva la condizione di autosufficienza in capo al sig. F.F. i paga- menti erano stati regolari, mentre da quando si era veri- ficata la condizione deficitaria accertata dalla competente commissione medica in data 30 giugno 1999, la retta era stata corrisposta in misura parziale sino al raggiungimento della residua somma di Euro 34.529,26, per il cui recupero si era infine determinato a instaurare il presente giudizio. Peraltro alla sorte capitale sopra detta si era aggiunta la penale prevista pari ad Euro 1,50 al giorno per ogni giorno di ritardo nel pagamento della retta.
Nel giudizio così introdotto si costituivano con comparsa di costituzione e risposta i sig.ri F.F., E.F. e E.F., conte- stando la domanda attorea ed in particolare la condizione di non autosufficienza del sig. F.F., valutazione operata dalla Commissione Medica U.V.G. (Unità Valutazione Geriatria) in data 30 giugno 1999 e resa a seguito di giudizio non in sintonia con quanto successivamente accertato dai medici della 3 Divisione Geriatria dell’A- zienda O.P., sicché non trovava giustificazione l’aumento della retta così come richiesto e preteso dall’Istituto attore. Peraltro, ogni richiesta dei familiari di conoscere le ragioni dell’aumento della retta e i criteri adottati per la dichia- razione di non autosufficienza del sig. F.F. erano rimaste sempre inevase. I convenuti eccepivano il difetto di legit- timazione passiva dei sig.ri E.F. e E.F. in ordine alle domande di pagamento a loro rivolte invocando il dispo- sto del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 109, così come modificato dal successivo D.Lgs. 3 maggio 2000, n. 130; concludevano per il rigetto della domanda in quanto infondata in fatto e diritto, non sussistendo la condizione di non autosuffi- cienza in capo a F.F.; in subordine, nell’ipotesi di acclarata condizione deficitaria di non autosufficienza del sig. F.F., chiedevano che il Tribunale adito dichiarasse che la quota aggiuntiva per le spese di degenza eventualmente dovute resterà interamente a carico dell’I.R.A.I.A. per la parte non coperta dai redditi esclusivi del sig. F.F. poiché, ad avviso dei convenuti, parte attrice non ha diritto a surro- garsi all’anziano nei diritti alimentari che quest’ultimo può vantare verso i propri parenti ai sensi dell’art. 433 c.c., dovendo pertanto l’Istituto a copertura delle spese della retta richiedere il solo importo di cui alla pensione erogata all’assistito sostenendo interamente l’ulteriore quota integrativa.
Depositate le memorie istruttorie, il Tribunale con ordi- nanza del 29 maggio 2007, resa a scioglimento di riserva assunta all’udienza del 16 maggio 2007, non ammetteva le prove orali e disponeva consulenza tecnica medico-legale sulla persona di F.F., nominando il Dr. F.A., per dire se il convenuto fosse “alla data del 30 giugno 1999 persona
autosufficiente o meno, tenuto conto che tale stato medico-legale va individuato nella capacità o meno di provvedere alla cura della propria persona e mantenere una normale vita di relazione senza l’aiuto determinante di altri. Riferisca altresì il CTU sullo stato attuale di auto- sufficienza del periziando”.
Depositate l’elaborato peritale, il Giudicante di primo grado, ritenuta la causa matura per la decisione, rinviava per la precisazione delle conclusioni.
Con sentenza n. 5252 del 2 luglio 2010, pubblicata il 13 settembre 2010, il Tribunale di Parma accoglieva a domanda attorea nei confronti di F.F. e F.E., che riteneva tenuta e condannava a pagare agli Istituti Riuniti di Assistenza per Inabili ed Anziani di Parma la sola somma di Euro 34.529,26, oltre interessi al tasso legale dalle scadenze indicate in motivazione sino al saldo; riget- tava la domanda nei confronti F.E. e condannava i con- venuti in solido al pagamento delle spese di lite, che liquidava in Euro 7.952,58, di cui Euro 2.880,00 per diritti ed Euro 3.800,00 per onorari, oltre accessori di legge, ponendo definitivamente a carico dei convenuti soccom- benti le spese di CTU.
Proponevano appello F.F. e E.F., chiedendo la riforma della sentenza impugnata senza reiterare in via preliminare l’eccezione di carenza di legittimazione passiva formulata in primo grado; chiedevano in subordine disporsi nuova CTU medico legale sulla persona di F.F., riproponendo in grado di appello le difese già svolte in primo grado, formu- lando due motivi di gravame.
Si costituiva con comparsa di costituzione e risposta il con- venuto Istituto, che chiedeva rigettarsi l’appello e, in acco- glimento dell’appello incidentale proposto, riformare la sentenza impugnata relativamente al mancato accoglimento dell’ulteriore domanda di pagamento delle rette maturate in corso di causa, così come quantificate nella maggior somma di Euro 44.625,62 e nel riconoscimento dell’applicazione della penale pari ad Euro 1,50 per ogni giorno di ritardo oltre il termine di scadenza della retta fissato nel 20 giorno del mese successivo a quello di riferimento.
Precisate le conclusioni all’udienza del 28 marzo 2017, la causa veniva trattenuta in decisione con la concessione dei termini di rito per il deposito delle comparse conclu- sionali e delle memorie di replica.
Motivi della decisione
Preliminarmente si osserva che non è stato impugnato il capo della sentenza che ha rigettato la domanda attorea nei confronti di F.E., sicché tale statuizione è definitiva- mente passata in giudicato non essendo stata neppure oggetto di appello incidentale.
Con il primo motivo gli appellanti reiterano le contesta- zioni mosse alla certificazione dell’U.V.G. per la diagnosi di non autosufficienza di F.F. resa in data 30.06.1999 tenuto conto della diversa valutazione emessa in data 25 ottobre 2002 dalla Divisione di Geriatria che riconosceva l’autosufficienza e la parziale autonomia del paziente; volgono inoltre critiche alle risultanze della consulenza tecnica espletata in primo grado, ritenendo le stesse non
corrispondenti alla reale situazione clinica del F., che risulterebbe essere quanto meno parzialmente autosuffi- ciente. Peraltro, a dire degli appellanti, il Giudicante avrebbe dovuto motivare ed esplicitare compiutamente le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere le critiche formulate dai convenuti alla CTU e non limitarsi a richiamare le valutazioni peritali.
Il motivo è infondato.
Il Tribunale con la sentenza impugnata esamina compiu- tamente le censure rivolte da parte convenuta avverso l’accertamento tecnico svolto dalla competente U.V.G. Partendo dal dato normativo della L.R. dell’Xxxxxx Roma- gna n. 5 del 3 febbraio 1994 e dal concetto di “non auto- sufficienza” dell’anziano ivi indicato, il Giudicante evidenzia che l’Unità di Valutazione Geriatrica (U.V.G.) esercita una potestà autoritativa certificativa demandata alla cura degli interessi pubblici per i quali è deputata ad accordare e/o a negare lo status di persona anziana non autosufficiente, con ogni conseguenza anche economica nella fruizione di servizi socio - assistenziali. Nella valuta- zione dell’asserita, contestata, erroneità del procedimento tecnico eseguito dall’U.V.G., anche per eventuali presup- posti di fatto scorrettamente ricostruiti secondo la conte- stazione mossa dai convenuti, il Tribunale fa proprie le conclusioni, ritenute convincenti, a cui è pervenuto il CTU nominato, riportando un ampio stralcio della rela- zione peritale in sentenza. In particolare, il consulente tecnico riferisce e riporta quanto verbalizzato dalla Com- missione U.V.G. dell’AUSL di Parma in data 30 giugno 1999 in merito alle condizioni fisiche di F.F.: “controllo sfinterico: incontinenza urinaria episodica... disturbi com- portamentali: disturbi dell’umore...”; ed ancora vengono riportatileannotazioni del diario infermieristicodel mese di giugno 1999, che riferisce di insonnia perdurante tutta la notte, di ripetuta incontinenza urinaria; nei successivi mesi del 1999 il diario medico riferisce di “aumento della com- ponente di irrequietezza e aggressività”, con modifica con- seguentedellaterapiafarmacologiaedepisodiingravescenti di agitazione psico-motoria, soprattutto notturna, manife- stazioni di nervosismo, agitazione, urla, con complessivo stato confusionale e psicosi delirante cronica ed innume- revoli episodi di incontinenza fino a che nel 2006 a F.F. veniva riconosciuta l’indennità di accompagnamento per “deterioramento cognitivo, oligofrenia grave con psicosi cronica d’innesto”.
Il Consulente d’ufficio osserva che le valutazioni eseguite sul F. in data 25 ottobre 2002 e successivamente nel 2004, 2005 e 2006, su richiesta dei familiari e che riportano un giudizio di parziale autosufficienza, a cui insistentemente fanno riferimento i convenuti per contestare il giudizio di non autosufficienza dichiarato dalla Commissione U.V. G., non sembrano corrispondenti alla reale situazione clinico - comportamentale del F. come risulta dall’attento esame del quotidiano diario clinico, mettendo il consu- lente in discussione “le modalità di raccolta dei dati da parte degli Esaminatori nelle Valutazioni Multidimensio- nali di base eseguiti successivamente dal 2002 al 2006”,
riferendo che i dati vengono assunti interrogando il fami- liare o la persona che vive a contatto con l’assistito, non potendo l’esaminatore avere conoscenza diretta delle reali condizioni cliniche dell’esaminando se non per le dichia- razioni che gli vengono rese.
Conclude pertanto correttamente il Tribunale ritenendo che i rilievi mossi dalle parti convenute alle risultanze della consulenza tecnica siano ampiamente superati dalla persuasività delle conclusioni a cui è pervenuto il CTU, ritenendo quest’ultimo, e così conformemente il Giudi- cante, che l’efficacia probatoria delle valutazioni multi - funzionali geriatriche non siano in grado di superare le risultanze puntuali del diario infermieristico.
A tali conclusioni perviene anche il Collegio per l’ampio quadro clinico descritto dal Consulente nominato relati- vamente alle condizioni patologiche sofferte dal F., rite- nendo dunque di far proprie le motivazioni del Tribunale ampiamente condivisibili per completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico.
Con la seconda doglianza gli appellanti contestano l’ine- satta individuazione ed erronea applicazione delle norme di legge nella fattispecie esaminata, ritenendo che F.F. rientri di diritto tra quelle categorie di soggetti più deboli e fragili che il Legislatore con il comma 2-ter del D.Lgs.
n. 109 del 1998, riformato dal D.Lgs. n. 130 del 2000 con decorrenza dal 7 giugno 2000, ha ritenuto di tutelare maggiormente prevendendo che la determinazione del costo del loro ricovero venisse calcolato esclusivamente in base ai redditi del loro ISEE personale e che alla data di ingresso nella struttura sanitaria nel nucleo familiare del beneficiario non fosse ricompresa la sorella E., la quale - se fosse stata resa edotta correttamente sulla normativa sta- tale in materia di richiesta di prestazioni sociali agevolate - non avrebbe mai sottoscritto volontariamente impegni solidali per il pagamento della retta dovuta per il fratello X., sollevando peraltro ipotesi di nullità di tale pattuizione in quanto stipulata in frode alla legge per eluderne l’applica- zione nonché per contrarietà della causa a norme impe- rative e/o annullabile per dolo e/o errore essenziale. Anche la seconda doglianza è infondata.
Innanzitutto il Collegio rileva che appare essere nuova, e come tale inammissibile in sede di gravame, la domanda diretta a chiedere l’accertamento della nullità e/o dell’an- nullabilità della scrittura privata con la quale la sig.ra E.F. ha sottoscritto l’impegno a riconoscere ed a pagare all’I- stituto attore la retta dovuta per il fratello F. Tale profilo non è stato formulato dalla precedente difesa dei sig.ri F. e non potrà trovare ingresso in questa sede.
È di tutta evidenza che il documento n. 4, datato 17 giugno 1998 ed indirizzato al Comune di Parma - Asses- sorato ai Servizi Sociali, depositato in allegato all’atto di citazione introduttivo del primo grado, contiene l’assun- zione dell’impegno economico da parte della Sig.ra E.F. ad onorare il pagamento della retta direttamente all’I- stituto e con le modalità da quest’ultimo indicate ine- rente “le rette di degenza determinate annualmente dalla Casa Protetta medesima per il periodo di effettiva ospi- talità, accettando sin d’ora eventuali variazioni degli importi originariamente dovuti conseguenti a maggiori
oneri di assistenza che dovessero imporsi in conseguenza di eventuali aggravamenti delle condizioni di salute dell’ospite”. Tale impegno economico è stato assunto in aderenza al Regolamento delle Strutture Assistenziali dell’Ente, che all’art. 9 prevede espressamente che all’atto della presentazione della domanda di ammis- sione, l’ospite o un suo familiare dovrà formalizzare l’im- pegno economico mediante sottoscrizione di un impegno formale per quanto riguarda l’attività e le modalità di versamento della retta.
In effetti, l’art. 23 della L. n. 328 del 2000, (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”), stabilisce che la verifica delle condizioni economiche del richiedente, ai fini dell’accesso ai servizi di assistenza disciplinati dalla medesima, vada effettuata secondo le disposizioni previste dal X.Xxx. 31 marzo 1998,
n. 109, come modificato dal successivo X.Xxx. 3 maggio 2000, n. 130, che all’art. 3, comma 2 ter prevede che per tutte le prestazioni sociali da erogarsi a favore degli anziani ultrasessantacinquenni e delle persone con handicap gravi si deve fare riferimento solo ed esclusivamente alla loro situazione economica.
Il Tribunale, correttamente, ha riconosciuto che il primo obbligato al pagamento della retta, ivi comprese ogni eventuale differenza dovuta per gli ospiti non autosuffi- ciente, è e rimane il beneficiario delle prestazioni socie - assistenziali ovvero il sig. F.F.; ciò nonostante, la sorella X. ha espresso la volontà di assumersi l’impegno economico di onorare la retta dovuta dal fratello ed è chiamata perciò a rispondere in solido al pagamento delle eventuali pen- denze economiche non saldate dal diretto. Non v’è dubbio che gli enti non hanno facoltà di richiedere ai parenti il pagamento delle prestazioni assistenziali ed in particolare delle rette di ricovero, ma l’assunzione volontaria così come espressa da E.F. supera ogni valutazione in merito né potrà invocarsi da parte dell’odierna appellante la mancata conoscenza della normativa in materia anche in considerazione del tempo trascorso dalla data di sotto- scrizione dell’impegno (17 maggio 1998) alla data di citazione in giudizio (29 luglio 2005) e delle contestazioni mosse per la prima volta dalla convenuta con l’atto di costituzione in giudizio.
La Cassazione, sul punto, è intervenuta osservando che “presupposto giuridico imprescindibile dell’espromis- sione, che non può essere ignorato dal giudice del merito nell’attività logico-giuridica di interpretazione del con- tratto, è la sussistenza di un’obbligazione altrui, precedente all’assunzione da parte dell’espromittente (Cass. 2267/65, 19118/03). Essa, pertanto, non può avere ad oggetto un debito non ancora sorto, che sorgerà se e quando il credi- tore avrà effettuato la sua prestazione, un debito indeter- minato nell’an, anche se determinabile nel quantum. In mancanza di tale presupposto potrà aversi non estromis- sione, ma assunzione di un’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, garanzia in relazione alla quale la facoltà di recesso è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza (Cass. n. 2284/99).” Precisa, inoltre, la Corte che “la facoltà di recesso unilaterale, prevista dall’art. 1373 c.c., per i contratti ad esecuzione continuata
o periodica, che rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vin- colo obbligatorio, in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. 6427/98, 14970/04), spetta al terzo che assume l’obbligazione altrui, non all’ob- bligato originario, che non è parte del contratto di espro- missione.” (cfr. Cass. n. 26863/08 del 6.06.2008).
Sicché il terzo (come nel caso di specie il familiare) può liberarsi dall’obbligo di pagamento delle rette di degenza, obbligo spesso imposto quale condizione per il ricovero, esercitando il diritto di recesso, che avrà effetti liberatori per le prestazioni future, ad esclusione di quelle già scadute.
Agli atti, tuttavia, non risulta che tale recesso sia stato esercitato da parte della convenuta E.F., che pertanto sarà chiamata in solido con l’assistito a corrispondere la retta agli Istituti Riuniti di Assistenza per Inabili e Xxxxxxx di Parma in conformità all’impegno economico assunto.
Con un unico motivo, l’appellante incidentale censura la sentenza impugnata per non aver accolto la domanda di pagamento delle ulteriori rette maturate in corso di causa, precisando che con la prima memoria istruttoria aveva chiesto di poter provare che la differenza fra quanto pagato e quanto dovuto era andato aumentando, sicché sino alla data del 28 febbraio 2007 l’importo dovuto era di Euro 44.625,62, come da estratto conto che versava sub 33 del fascicolo attoreo. Si duole ancora l’appellante incidentale per il mancato riconoscimento della penale giornaliera pari ad Euro 1,50 a norma dell’art. 92 del Regolamento dell’Ente, così come modificato dalla Delib. n. 162 del 16 maggio 2002 (doc. 31 del fascicolo attoreo).
Il motivo è fondato. Il Tribunale, in effetti, ha motivato che la quantificazione della somma da riconoscersi agli Istituti Riuniti di Assi- stenza per Inabili ed Anziani di Parma in accoglimento della domanda attorea dovesse essere limitata all’ammon- tare richiesto in citazione, pari ad Euro 34.529,26, trat- tandosi di importo neppure contestato dai convenuti. La maggiore richiesta di Euro 44.625,62 è stata avanzata, a dire del Giudicante, per la prima volta all’udienza di precisazione delle conclusioni ed è stata pertanto ritenuta inammissibile dal Tribunale.
Diversamente ritenendo questo Collegio, esaminando gli atti di causa, osserva che l’attore, in atto di citazione, richiedeva la condanna dell’importo di Euro 34.529,26 “ovvero in quella maggiore o minor somma che risulterà competere al termine dell’istruttoria”. La difesa di parte attrice, già alla prima memoria autorizzata ex art. 183 c.p.c. testo previgente, depositata il 15 giugno 2006, precisava la domanda chiedendo la condanna dell’importo sopradetto “ovvero in quella maggior o minor somma che risulterà competere al termine dell’istruttoria, tale essendo l’im- porto indicato alla data del 30 giugno 2005 compreso della retta di cui all’avviso di pagamento n. (...) del 30 giugno 2005, oltre la penale stabilita dal Regolamento dell’Ente in ragione di Euro 1,50 al giorno dal ventesimo giorno successivo a ciascun avviso di pagamento in relazione alle
quote impagate al saldo effettivo, oltre gli interessi legali dal dì del dovuto al saldo”.
Nella successiva memoria istruttoria, depositata in data 30 marzo 2007, parte attrice chiedeva di provare per testi la circostanza (sub 14) secondo cui il “credito vantato dal- l’Ente per l’ospitalità continuativamente usufruita dal signor F.F. è andato aumentando rispetto a quanto xxxxxx- sto con l’atto di citazione notificato il 29 luglio 2005, così che, pur annotati gli accrediti nelle more pervenuti, per l’ammontare in pura sorte capitale, comprensivo della retta al 28 febbraio 2007, ammontano ad Euro 44.625,62 come dall’estratto conto che si mostra al teste (doc. 33) “.
La prova orale non è stata ammessa dal Giudicante di prime cure; ciò nonostante parte attrice depositava ritualmente il doc. 33 in allegato alla predetta memoria istruttoria ovvero un prospetto riepilogativo formulato da I.R.A.I.A. alla data del 28 febbraio 2007, documento avverso il quale i convenuti non hanno mosso alcuna contestazione e che riporta appunto l’importo comples- sivo di Euro 44.625,62 quale importo ancora dovuto per le discrepanze fra quanto dai convenuti versato e quanto invece ancora dovuto per il familiare non autosuffi- ciente. Pertanto all’udienza di precisazione delle conclu- sioni, fissata per la data del 31 marzo 2010, parte attrice formalizzava nella somma di Euro 44.625,62 la somma effettivamente dovuta in esito all’istruttoria ancorché documentale.
Il Tribunale motiva poi il rigetto dell’applicazione della penale per il ritardo nei pagamenti richiesta da parte attrice, non risultando - in conformità al disposto dell’art.
9.2 del Regolamento come modificato dalla Delib. n. 51 del 2000 - l’ulteriore delibera di richiesta per la quantifi- cazione della penale giornaliera. In realtà, dall’esame della documentazione versata in atti a cura dell’Ente, risulta sub (...), la deliberazione n. 162 del 16 maggio 2002, con la quale è stata modificato l’art. 9.2 del Regolamento delle Strutture Assistenziali, stabilen- dosi che “la retta deve essere pagata mensilmente, in soluzione unita posticipata ... entro e non oltre il 20 giorno del mese successivo a quello di riferimento”, fissando altresì che “In caso di ritardo rispetto alla scadenza fissata verrà applicata una penale di Euro 1,50 al giorno per ogni giorno di ritardo”. Dovrà dunque riconoscersi la predetta penale con decorrenza dalla data della domanda e per ogni giorno successivo a quello di scadenza stabilito per con- venzione nel 20 giorno del mese successivo a quello di riferimento della retta.
Per le suddette motivazioni, questa Corte rigetta l’appello principale ed accoglie l’appello incidentale e riforma par- zialmente la sentenza impugnata.
La riforma parziale della sentenza comporta l’accogli- mento della domanda attorea con condanna dei conve- xxxx al pagamento dell’importo di Euro 44.625,62 oltre alla penale stabilita dalla Deliberazione sopra citata.
La parziale riforma della sentenza, non comportando alcuna modifica in merito alla totale soccombenza dei convenuti, odierni appellanti, non determina l’obbligo
del giudice d’appello di procedere ad un nuovo regola- mento delle spese processuali del primo grado di giudizio.
Le spese relative all’appello vengono regolate sulla base dei parametri forensi di cui al D.M. n. 55 del 2014 per lo scaglione di riferimento ad esclusione della fase istruttoria non svolta.
Espromissione di debiti futuri
di Xxxxxxxx Xxxxxxx
Una recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna fornisce l’occasione per analizzare l’espro- missione di debiti futuri e le differenze intercorrenti tra l’espromissione e la fideiussione.
Premessa
La sentenza in commento offre l’occasione per tor- nare sull’espromissione di debiti futuri e sulla sua differenza dalle garanzie per debiti futuri.
La controversia su cui i Giudici bolognesi si sono pronunciati ha avuto origine dal mancato paga- mento della retta di degenza di un paziente rico- verato in una casa di riposo. A seguito di un “giudizio di non autosufficienza” prodotto dalla Commissione dell’Unità di Valutazione Geriatrica nei confronti del diretto interessato, era stata con- venuta in giudizio anche una parente, la quale all’atto del ricovero aveva espresso tramite la sot- toscrizione di una apposita scrittura privata la volontà di rispondere in solido all’onere econo- mico delle eventuali “pendenze economiche non saldate”, secondo uno schema negoziale riconduci- bile a prima vista all’espromissione.
Omessa l’analisi delle valutazioni sulla fondatezza della diagnosi alle quali la prima parte della pronun- cia è dedicata, vale invece osservare che sul tema principale la Corte si conforma al consolidato orien- tamento della S.C., per il quale l’espromissione non può avere ad oggetto debiti futuri, e, nel caso in cui vi sia assunzione di tali debiti, il negozio va qualificato piuttosto come una “garanzia”, ossia una fideiussione. La Corte ne ricava che la convenuta si sarebbe potuta liberare dell’onere economico esercitando la facoltà (“pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza” in materia di fideiussione) del recesso unilaterale prevista dall’art. 1373 c.c. e che, non avendola eser- citata, era tenuta al pagamento della retta del degente.
Le argomentazioni addotte dalla Corte d’Appello, come pure quelle della S.C. a cui esplicitamente si rinvia nella motivazione, non paiono pienamente condivisibili e a nostro parere lasciano il dubbio di un’erronea qualificazione della fattispecie.
Sembrerebbe infatti che i giudici si siano affidati nell’interpretazione della scrittura privata sotto- scritta dalla convenuta alla regola, disciplinata dal- l’art. 1371 c.c., secondo cui, laddove nella determinazione delle reali intenzioni delle parti emerga un dubbio sulla qualificazione del negozio, si debba optare per l’opzione meno gravosa per l’ob- bligato; ossia, in ragione del riconoscimento della facoltà di recesso, la fideiussione.
L’art. 1371 c.c. rispetto alle regole che lo precedono nel Capo IV dedicato all’interpretazione del con- tratto (artt. 1362-1370 c.c.) ha però carattere resi- duale. La scelta dell’opzione meno gravosa per l’obbligato deve essere intesa quale estrema ratio; ragione per la quale il giudice che vi si affidi deve motivare espressamente il ricorso a questa disposizione (1).
Ciononostante non si rinviene nel testo alcun riferi- mento, anche solo implicito, all’art. 1371 c.c. ingene- rando l’idea che l’espromissione e la fideiussione siano tra loro sostanzialmente equivalenti, mentre è vero l’opposto. I due negozi, benché difficili da riconoscere all’atto pratico, sono astrattamente distinguibili.
È dunque opportuno tornare sull’argomento, che nella giurisprudenza non è nuovo, per passare in rassegna le differenze, e verificare se nel caso deciso la qualificazione del negozio alla stregua di fideius- sione fosse l’unica possibile.
(1) Come da ultimo sottolineato dalla più recente giurispru- denza: Xxxx. 9 maggio 2017, n. 11211, in Guida dir., 2017.
L’espromissione: natura, causa e struttura
L’espromissione, come è noto, è il negozio con il quale un soggetto (espromittente) assume, ossia fa proprio, il debito di un terzo (espromesso) pattuen- done eventualmente la liberazione con il creditore. Se il debitore originario è liberato l’espromissione è definita liberatoria; se non vi è liberazione invece il debitore originario e il terzo assuntore sono tenuti in solido all’adempimento dell’obbligazione originaria (c.d. espromissione cumulativa).
L’espromissione si distingue dall’accollo (del quale il principale tratto distintivo rispetto all’espromis- sione rimane ad ogni modo l’accordo tra debitore e terzo accollante, anziché tra creditore e terzo espro- mittente) e ancor più dalla delegazione, nella misura in cui il terzo (espromittente) interviene spontaneamente (2), o, più correttamente, senza esternare il rapporto con il debitore originario (3). Il rapporto di provvista non ha pertanto alcuna rilevanza (4), e, se pure tra il debitore originario espromesso e l’espromittente vi fosse un rapporto di mandato, l’art. 1705 c.c. ne rappresenta la cono- scenza da parte del terzo (l’espromissario) come eventuale (5).
Non potendosi tuttavia negare l’esistenza di un inte- resse degno di tutela anche del debitore originario, la dottrina si è interrogata sulla riconducibilità dell’e- spromissione alla disciplina del contratto (6).
Se, tuttavia, questa si può proporre per l’espromis- sione liberatoria, dove il sacrificio del creditore (il cui consenso è espresso), ovvero la liberazione del debi- tore originario, trova il suo corrispettivo nell’assun- zione del debito da parte dell’espromittente, non lo è altrettanto nel caso dell’espromissione cumulativa. In questa, infatti, dove sul consenso del creditore la legge è silente, il corrispettivo dovrebbe ravvisarsi nella (presunta) degradazione dell’obbligazione principale.
Il creditore dovrà così richiedere l’adempimento del- l’obbligazione al debitore originario solo laddove si sia precedentemente rivolto, senza successo, all’e- spromittente (7). L’assunto presenta, come si dirà, elementi di problematicità, che non consentono di recepirlo senza riserve.
Nel caso in commento si ha un’espromissione cumu- lativa; ed è proprio questa a potere essere confusa con la fideiussione, specialmente sotto il profilo della causa, del consenso del creditore e consequenzial- mente sotto il profilo della qualificazione (contrat- tuale o meno) del negozio.
La causa dell’espromissione, oggetto di lungo dibattito nei primi anni di vigenza del Codice civile del 1942, tanto che l’espromissione era annoverata in un primo tempo nell’alveo dei negozi astratti (8), è ora unani- memente riconosciuta nel nucleo minimo dell’“assun- zione del debito altrui” (9).
(2) “Spontaneità” che era considerata da giurisprudenza risa- lente elemento dirimente. Si veda Cass. 16 aprile 1988, n. 2997, in Mass. Giust. civ., 1988.
(3) Come osserva X. Xxxxxx, voce Espromissione, in Enc. dir., XV, Varese, 1966, 782: “ciò che importa è che, stipulando con il creditore, il terzo non manifesti di agire a seguito di quelcontratto o obbligo [...]. Qualora il terzo non manifesti questa sua qualità l’esistenza di un suo precedente vincolo con il debitore è del tutto ininfluente sul negozio stipulato con il creditore”.
(4) L’irrilevanza del rapporto espromittente-espromesso trova la sua prima certificazione nella Relazione del Ministro Guardasi- gilli Grandi al codice civile del 1942-Testo e Relazione Ministeriale,
n. 585: “la delegazione e l’espromissione hanno come carattere comune l’assunzione diretta di un obbligo da parte del nuovo debitore verso il creditore originario, e come carattere differen- ziale il fatto che nella delegazione vi è iniziativa del debitore originario [...] mentre nell’espromissione si ha un intervento spon- taneo (per lo meno da un punto di vista giuridico) del terzo”.
(5) Come osserva X. Xxxxxx, Delegazione, espromissione e accollo, art. 1268-1276, in X. Xxxxxxxxxxx - X. Xxxxxxxx (a cura di), Il Codice Civile Commentato, Milano, 2011, 82: “[...] da ciò, che pure l’espromissione, se è preceduta da un mandato (destinato a non essere posto a fondamento causale del negozio di assun- zione), ha natura “gestoria”, ancorché soltanto nel rapporto interno (tra espromesso, mandante e espromittente, mandatario), giacché il mandatario non deve dichiarare al terzo la sua qualità di intermediario. Del resto, l’art. 1705 c.c. configura come mera- mente eventuale la conoscenza, da parte del terzo contraente (nel nostro caso, l’espromissario), del mandato e la disciplina dettata in materia di mandato si applicherà sulla base del presupposto che il
negozio tra mandatario e terzo sia identificabile come gestorio, ancorché il terzo ignori di aver trattato con un mandatario [...]”.
(6) La teoria contrattualistica ha in realtà origini risalenti alle norme contenute nel Codice del 1865, in particolar modo nell’a- nalisi dell’art. 1275 che prevedeva di fatto esclusivamente l’espro- missione novativa, ossia banalmente la sostituzione del debitore. Sostituzione che assume un significato nuovo alla luce dell’inter- pretazione fornita dalla Relazione Ministeriale del Codice civile del 1942 già citata.
(7) Si veda per una prima enunciazione della regola C.M. Xxxxxx, Diritto Civile, 4, L’Obbligazione, Milano, 1990, 670: “all’espro- messo il creditore non può quindi rivolgersi senza aver prima chiesto inutilmente l’adempimento all’espromittente”.
(8) X. Xxxxxx, op. cit., 788. Vi è anche chi, alla luce dell’irrile- vanza del rapporto di provvista, con il fine di considerare l’inte- resse del debitore ma attribuendo rilevanza al rapporto espromittente-debitore originario, ha individuato nell’espromis- sione una doppia causa. In tal senso si veda X. Xxxxxxx, L’espro- missione, in Diritto Civile, Obbligazioni, III, Il Rapporto Obbligatorio, I, V, 3, Milano, 2009, 374 “l’espromissione gode di una doppia causa, risultante da un rapporto di provvista, relati- vamente alla relazione che si instaura tra espromittente e debitore originario, e da un rapporto di valuta, intercorrente tra espromis- sario e debitore originario”.
(9) C.M. Xxxxxx, op. cit., 666: “Causa dell’espromissione è il
rapporto tra il creditore e il debitore originario. Precisamente, l’espromittente si obbliga nei confronti del creditore a soddisfare l’interesse di quest’ultimo inerente al suo rapporto con l’espro- messo”. E ancora La U. Porta, L’assunzione del debito altrui, in Trattato di diritto civile e comm., diretto da X. Xxxx - X. Xxxxxxxx -
X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxxxxxx - Xxxxxx, 0000, 145: “la causa del
La causa così formulata è compatibile con l’irrile- vanza attribuita al rapporto di provvista, ma manife- sta una sua specificità se confrontata con la causa dei contratti di garanzia.
Non si può negare, infatti, che l’assunzione del debito altrui assolva de facto funzioni di garanzia, ancor più evidenti nel caso di espromissione cumulativa (spe- cialmente quando questa ha ad oggetto debiti futuri) (10). In questo caso però la finalità di garanzia è una conseguenza indiretta e accidentale del nego- zio, mentre della fideiussione ne è la causa, ossia la funzione tipica assunta dal legislatore a base della disciplina del negozio (11); ciò in considerazione del fatto che la fideiussione implica la creazione di una obbligazione nuova, indipendente e accessoria rispetto all’obbligazione garantita (12).
La confusione con il negozio fideiussorio aumenta se si accetta la qualificazione dell’espromissione cumu- lativa come un contratto, e ciò principalmente per i dubbi che possono sorgere sul ruolo del consenso del creditore.
Stando a un’interpretazione letterale dell’art. 1272
x.x. (xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx xxxxxxxx xx xxxx- xxx) (13) l’assunzione del debito, intesa nell’acce- zione di “fare proprio”, presupporrebbe la traslazione del peso economico a carico dell’espro- mittente, che diverrebbe pertanto debitore princi- pale, relegando il debitore originario in una posizione sussidiaria.
Si avrà modo di evidenziare i limiti di questa impo- stazione, ma al momento si può rilevare che, pre- stando il proprio consenso, il creditore si assumerebbe l’impegno di procedere alla preventiva richiesta di adempimento al soggetto espromittente avendo
quale corrispettivo l’aggiunta di un ulteriore debitore (l’espromittente medesimo) per lo stesso importo dovuto dal debitore originario.
In senso critico si potrebbe rilevare che l’aggiunta di un debitore ulteriore (l’espromittente) non possa considerarsi un corrispettivo, infatti, oltre alla duplicazione delle possibilità di adempimento dell’obbligazione principale, si produce un effetto sfavorevole al creditore, ossia l’onere di dover richiedere l’adempimento a un soggetto terzo (si considerino ad esempio le circostanze che potreb- bero presentarsi all’atto della richiesta di adempi- mento dell’obbligazione principale: l’eventuale inaffidabilità del soggetto espromittente o la sua irreperibilità).
La mancanza di una disposizione che disciplini il consenso del creditore impedisce di recepirne l’equiparazione a un corrispettivo, e questo è una degli argomenti che si oppongono all’approccio contrattualistico.
Per quanto qui rileva, le alternative sono a ogni modo due: o si ammette la possibilità che il rapporto obbli- gatorio subisca una modificazione ex lege (14) o unilaterale ad opera dell’espromittente; o si ammette la necessità di un consenso del creditore (15) che non poggi su un effettivo sinallagma, data l’assenza di un corrispettivo che in quanto tale produca esclusiva- mente effetti positivi (16), tra espromittente ed espromissario (17).
In effetti, proprio in ragione delle segnalate difficoltà ricostruttive, al fine di risolvere la questione relativa al consenso del creditore, vi è chi riconduce l’espro- missione cumulativa nella sfera dei negozi unilaterali con obbligazione a carico del solo proponente ex art.
negozio espromissorio è sintetizzata dall’assunzione del debito di valuta, nelle condizioni di esistenza e di rilevanza giuridica al momento della conclusione del negozio di assunzione [...]”. For- mulazione certificata dal celebre precedente in materia di espro- missione Cass. 13 dicembre 2003, n. 19118, in Mass. Giust. civ., 2003. Per un’analisi descrittiva degli snodi argomentativi di tale sentenza si rinvia alla nota di X. Xxxxxxxx, La causa del contratto di espromissione, in questa Rivista, 2014, 7, 653 ss.
(10) Come osserva acutamente anche nell’ottica della distin- zione con i profili della fideiussione X. Xxxxxxx, voce Espromis- sione, in Dig. civ., Disc. priv., Sez. civ., VIII, Torino, 1992, 1: “[...] all’esito dell’espromissione cumulativa, l’obbligazione originaria è chiamata ad assolvere una funzione meramente sussidiaria, la cui natura denota affinità con le obbligazioni di garanzia”.
(11) Si badi tuttavia che quella proposta non è l’unica accezione secondo la quale può essere intesa la causa del contratto. Si pensi in particolar modo alla figura della “causa concreta” e al suo utilizzo come strumento per l’interpretazione del contratto. Si rinvia per una trattazione approfondita della questione a X. Xxxxxxx, La funzione ermeneutica della causa concreta del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1, 2017, 37 ss.
(12) Si vedano: X. Xxxxxxxx - X. Xxxxxxxx, Delegazione, Espro- missione, Accollo, in Commentario del Codice Civile Scialoja-
Branca, Libro IV: Obbligazioni artt. 1268-1276, a cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Bologna, 1992, 80; e X. Xxxxxxx, Garanzie personali, in Trattato di Diritto Civile, I Singoli Contratti, X, 2009, 51 ss.
(13) Così X. Xxxxxx, voce Espromissione, in Enc. giur., XIII, 1989, 8 ss.
(14) Così X. Xxxxxxxxxxx, Assunzione unilaterale ed espro- missione “ex lege”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 1, 27 ss.
(15) Sostenitore della teoria contrattualistica: X. Xxxxxxxxxxxxx, voce Espromissione, in Noviss. Dig. it., VI, 1960, 885 “l’espro- missione si perfeziona solo quando la proposta avanzata dall’e- spromittente viene accettata dal creditore”.
(16) Si veda a tal proposito: X. Xxxxxxxx, L’Espromissione, in Le Obbligazioni, Diritto sostanziale e processuale, a cura di X. Xxxx, Tomo I: Caratteri generali, adempimento, inadempimento, Xxx. XXXXXX, Xxxxxx, 0000.
(17) Così sembrerebbe essersi orientata anche la giurispru- denza. Si veda la storica sentenza Xxxx. 24 maggio 2004, 9982, in Mass. Giust. civ., 2004, in materia di accollo cumulativo, che, ammettendo l’unitarietà “del fenomeno dell’assunzione del debito altrui”, statuisce la compatibilità di sussidiarietà e solida- rietà anche per l’accollo esterno e l’espromissione.
1333 c.c. (18). Sicché l’espromissione avverrebbe tramite atto unilaterale recettizio per il creditore (nel caso in cui questi volesse esprimere un rifiuto), per il perfezionamento del quale non è necessaria la manifestazione del consenso.
I risultati di tale posizione sono condivisibili, perché compatibili con l’approccio volto alla semplifica- zione dell’istituto voluto dal legislatore del 1942 (19); non così le premesse, che sono tra le cause della confusione con la fideiussione. In parti- colar modo non sembra condivisibile l’automatismo solidarietà-sussidiarietà dell’obbligazione principale, che, oltretutto, sarebbe un ulteriore elemento comune ai due negozi (20).
La qualificazione dell’espromissione nel novero dei negozi unilaterali con obbligazione a carico del solo proponente infatti, non comporta la compressione delle esigenze di protezione dell’assetto di interessi dell’espromissario, non altera la formazione della volontà negoziale (21) e, soprattutto, prescinde dal- l’assunto che la manifestazione del consenso del creditore non sia necessaria esclusivamente in ragione della onerosità derivante dalla degradazione dell’obbligazione principale.
L’oggetto dell’espromissione e il recesso
Nella parte in cui non ammette la possibilità di un’espromissione per debiti futuri la sentenza trova conforto, sotto il profilo dell’oggetto
dell’espromissione, in un orientamento giurispru- denziale che pare tuttavia lasciare spazio a qual- che perplessità.
Posto che non vi è norma che preveda esplicitamente l’espromissione di debiti futuri, non si vedono ragioni per le quali non debbano applicarsi al negozio espro- missorio le regole di portata generale ricavabili dagli artt. 1346 e 1348 c.c. (22), e tali per cui l’oggetto del contratto consiste in prestazioni di cose future e deve essere quanto meno determinabile.
Questa argomentazione è stata usata in materia di fideiussione, dove l’art. 1348 c.c. è regola generale e l’art. 1938 c.c. è la regola speciale (23). In particolar modo l’art. 1938 c.c. prevede la determinazione del- l’importo massimo garantito per le obbligazioni future o condizionali, eliminando così qualsiasi forma di indeterminatezza dell’oggetto del nego- zio (24). Inoltre la disciplina della fideiussione con- tiene una norma che àncora necessariamente l’ammontare della garanzia personale al debito garan- tito (art. 1941 c.c.), e che non si rinviene nella disciplina dell’espromissione.
Invece nell’ottica di una analisi parallela degli istituti di assunzione del debito altrui, sia la delegazione che l’accollo di debiti futuri sono stati ammessi sulla base di questo criterio (25).
Di contro, si propone, e la sentenza in commento si allinea a tale seconda opzione teorica, che l’espromissione rappresenti un’eccezione alla regola della determinabilità dell’oggetto
(18) R. De Meo, L’espromissione, in Trattato delle obbligazioni, Vol. IV: La circolazione del debito, Tomo II: Delegazione, espro- missione, accollo, Padova, 2016, 257-258: “si può ritenere, per- ciò, che nell’espromissione cumulativa l’assunzione avvenga in base all’atto unilaterale di disposizione dell’assuntore per il perfe- zionamento del quale non è necessaria l’accettazione espressa del creditore”.
(19) X. Xxxxxxxxx, Appunti sulla struttura dell’espromissione cumulativa, in Riv. dir. civ., 2014, 3, 653: “[...] l’opzione contrat- tualistica [accredita] in effetti una rigidità del momento genetico del rapporto espromissorio che tradisce gli obbiettivi di speditezza perseguiti dal legislatore”. Alternativamente con intervento più recente si veda X. Xxxxxxxxxxx, Espromissione cumulativa, in Obbl. e contr., 2006, 5, 450 ss.
(20) L’orientamento che ritiene applicabile l’art. 1333 c.c. alla fideiussione è condiviso tanto dalla giurisprudenza quanto dalla dottrina. Si veda pertanto per la giurisprudenza più recente Cass. 13 febbraio 2009, n. 3525, in Guida dir., 2009, dove va “osservato come tale negozio possa avere carattere unilaterale”. Mentre per la dottrina si rinvia a X. Xxxxxxx, Fideiussione e Mandato di credito, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Libro IV: Obbli- gazioni art. 1936-1959, a cura di X. Xxxxxxx, Bologna, 1984, 350 ss.
(21) Come osserva sempre X. Xx Xxx, op. cit., 257.
(22) In particolar modo sul tema della “determinabilità” del- l’oggetto si rinvia a: X. Xxxxxxxxx, L’oggetto del contratto, artt. 1346- 1349, in Il Codice Civile Commentato, a cura di X. Xxxxxxxxxxx -
X. Xxxxxxxx, Xxxxxx 0000, 121 ss.
(23) Così sempre X. Xxxxxxx, op. cit., 189 ss., il quale non esclude che l’art 1348 sia, suo malgrado, applicazione di una
regola più generale: “[...] se autonomia della volontà è libertà di agire secondo il proprio apprezzamento, secondo, cioè, la valuta- zione del proprio interesse la più discrezionale e la più incontrol- labile, sembra che possa farsi rientrare in questo potere di autoregolamento la competenza a porre il precetto concreto per la disciplina del proprio interesse nel tempo che meglio si ritiene conveniente”; e X. Xxxxxx, La fideiussione e il mandato di credito, in Trattato di diritto civile comm., diretto da X. Xxxx - X. Xxxxxxxx -
X. Xxxxxxx, Vol. XVIII, tomo 3, Milano, 1998, 156 ss.
(24) La previsione dell’importo massimo garantito per le obbli- gazioni future o condizionali è stata introdotta con l’art. 10,
L. n. 154/1992 in materia di “trasparenza delle operazioni banca- rie” che ha risolto la vexata quaestio in tema di determinazione dell’oggetto della fideiussione omnibus. Si vedano a tal proposito:
X. Xxxxxxxxx, Fideiussione omnibus e determinabilità per relatio- nem del suo oggetto, in Corr. giur., 8, 1996, 901 ss.; X. Xxxxx, Il limite dell’importo massimo garantito: principio di garanzia e di ordine pubblico, in Giur. comm., 3, 2011, 530 ss.
(25) Per quanto concerne la delegazione che sia astratta o titolata si veda Xxxx. 19 maggio 2004, n. 9470, in Mass. Giust. civ., 2004: “[...] può considerarsi ammissibile sia una delegazione di crediti che, ancorché esistenti, non siano ancora liquidi ed esigibili, sia una delegazione di crediti futuri, che, pur non potendo ancora considerarsi esistenti, risultino, tuttavia, collegati ad un non ancora avvenuto svolgimento di rapporti, che siano già in atto al momento in cui viene attuato il rapporto di delegazione”. Per quanto concerne l’accollo si veda Xxxx. 23 settembre 1994, n. 7831, in Mass. Giust. civ., 1994.
dell’obbligazione negoziale, in ragione del fatto che, a differenza dell’accollo e della delegazione, la causa si ridurrebbe proprio alla semplice assun- zione di un debito altrui. Conformemente alla posizione unanime in tema di causa, per i soste- nitori di questa posizione l’espromissione non potrebbe infatti essere ancorata, si aggiunga spe- cialmente sotto il profilo valoriale, al rapporto di provvista (26).
A dirimere il contrasto potrebbe valere l’orienta- mento, che pur vede giurisprudenza e dottrina con- cordi, in materia di cessione dei crediti futuri; è infatti ammessa non solo la cessione di crediti futuri il cui oggetto sia determinato o determinabile, dove il riferimento normativo è ancora una volta l’art. 1348 c.c., ma anche la disciplina in materia di ces- sione dei crediti sperati (27).
Si potrebbe obbiettare che, mentre la cessione del credito comporta inequivocabilmente un vantaggio di natura patrimoniale per l’acquirente, l’assunzione del debito rappresenta sempre una passività che, se variabile, come per esempio, nel caso di specie, per l’aumento della retta a seguito al “giudizio di non auto- sufficienza” del paziente, deve prevedere limiti espliciti o in alternativa anche una forma di recesso, senza i quali il soggetto assuntore resterebbe privo di tutela.
A questa stregua, il rimedio sarebbe stato la dichia- razione della nullità del negozio per violazione della disciplina che ne regola l’oggetto (art. 1418 c.c.) per la sua indeterminatezza (art. 1346 c.c.), con sacrificio del creditore.
Confrontata con tale esito, forse eccessivo, la solu- zione adottata dalla sentenza in commento realizza un compromesso, e da questo punto di vista, non si può negare lo sforzo compiuto dai Giudici per fornire una forma di tutela al terzo interventore (nel caso esaminato, la sorella del degente) qualificando il negozio come una fideiussione. Uno sforzo forse nep- pure necessario, potendosi trovare una adeguata tutela del terzo anche nella disciplina dell’espromis- sione e nella facoltà di recesso unilaterale prevista dall’art. 1373 c.c. per i rapporti ad esecuzione conti- nuata o periodica.
Ad ogni modo la Corte sostiene, in ultima analisi, che il recesso del terzo interventore sembrerebbe essere configurabile nella fideiussione, e, parrebbe, non nell’espromissione.
Tuttavia, la motivazione della sentenza rinvia, tra le varie, a due pronunce della S.C.: la prima pur ammet- tendo il recesso del fideiussore di un contratto senza determinazione di durata, lo sottopone erronea- mente alla condizione che questa sia pattiziamente prevista (28); la seconda che pure affronta caparbia- mente i profili che distinguono la fideiussione dall’e- spromissione, afferma che: “pur volendo ammettere che ricorra nella specie un contratto di espromissione [...] la facoltà di recesso unilaterale, prevista dall’art. 1373 c.c., per i contratti ad esecuzione continuata e periodica, che rappresenta una causa ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato [quale è quello previsto dal caso in commento], rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio [...], spetta al terzo che assume l’obbligazione altrui [...]” (29).
Se si assume che sia l’espromissione che la fideius- sione appartengano al novero dei negozi con obbli- gazioni del solo proponente, allora la sentenza ora citata assurge a fondamentale precedente in materia, vanificando lo sforzo compiuto dalla Corte nella sentenza in commento di fornire una tutela al terzo interventore attraverso una differente qualificazione negoziale, dato che la medesima tutela sarebbe stata già riconosciuta dalla stessa giurisprudenza citata anche per l’espromissione.
Espromissione e Fideiussione
Si sono passati in rassegna i punti di contatto tra fideiussione e espromissione.
Entrambi sono negozi intercorrenti tra un creditore e un soggetto terzo, dove quest’ultimo assume (nell’e- spromissione), o si fa garante di (nella fideiussione), un debito altrui, senza che il debitore originario ne venga necessariamente a conoscenza.
Entrambi i negozi producono sostanzialmente il mede- simo effetto: il soggetto assuntore, purché si tratti di
(26) Per una breve ma ordinata panoramica in materia di causa dell’accollo e della delegazione si rinvia a E. Timpano, La Cassa- zione nega ancora validità all’espromissione di debiti futuri, in Riv. not., 2011, 1, 157, nota a Xxxx. 10 novembre 2008, n. 26863, Mass. Giust. civ., 2008.
(27) X. Xxxxxxxx, Libera cedibilità dei crediti, anche futuri, in Riv. not., 2002, 439, nota a Xxxx. 19 giugno 2001, n. 8333, in Mass. Giust. civ., 2001, dove si ricorda che può essere ammessa la cessione di crediti sperati purché l’atto di cessione indichi “l’am- montare del credito, la persona del ceduto ed il tempo della presumibile venuta a esistenza del credito stesso”.
(28) La sentenza non è recente. Si veda Cass. 15 marzo 1999,
n. 2284, in Mass. Giust. civ., 1999, che: “[...] non essendo una figura di recesso prevista specificamente dalla legge a favore del fideiussore, [...] essa sarà operante solo se pattiziamente prevista”.
(29) Cass. 10 novembre 2008, n. 26863, Mass. Giust. civ., 2008, e relativa nota a sentenza P. X’Xxxxxxxxxx, Espromissione e rapporto di durata: tra debito futuro e attualità dell’assunzione, in Corr. giur., 2009, 11, 1543. Il dispositivo trova conforto in una recente ordinanza della S.C. (Cass. 26 novembre 2014, n. 25171, in Mass. Giust. civ., 2014).
espromissione cumulativa, o il soggetto fideiussore (ex art. 1944, comma 1, c.c.), sono obbligati in solido con il debitore principale al pagamento del debito.
L’attualità (o non futuribilità) dell’oggetto, come abbiamo già visto, non può essere un elemento distin- tivo; né tantomeno si può fare affidamento ai motivi soggiacenti il negozio (30), né può essere considerato elemento dirimente il consenso del creditore o la supposta “sussidiarietà inversa” dei due negozi (che si fondava sull’errato assunto della sussidiarietà del- l’obbligazione fideiussoria) (31).
Diversamente può dirsi per la causa; infatti: se causa dell’espromissione è l’assunzione del debito altrui, e la finalità di garanzia risulta essere una conseguenza indi- retta, causa diretta della fideiussione, è la garanzia stessa. Infatti, nella fideiussione si crea un rapporto obbli- gatorio nuovo e indipendente, sebbene accessorio al rapporto originario, mentre nell’espromissione il rap- porto obbligatorio resta nella sostanza unico (32). Osservazione, quest’ultima, tanto evidente nell’e- spromissione liberatoria, dove si ha unicamente una sostituzione, nel rapporto obbligatorio origina- rio, dal lato passivo, quanto intuitiva nell’espromis- sione cumulativa, dove tra espromittente e debitore originario si crea un vincolo solidale (33).
L’accessorietà in particolar modo dell’obbligazione fideiussoria comporta l’applicazione degli artt. 1939, 1941 e 1945 c.c. (34), che vincolano (e limitano) la
validità della fideiussione a quella dell’obbligazione originaria, determinando una disciplina delle ecce- zioni (si veda l’art. 1945) non compatibile con quella dell’espromissione.
Infatti, mentre l’art. 1945 c.c. prevede che il fideius- sore possa opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale con la sola eccezione di quella relativa all’incapacità, l’espromittente, come recita l’art. 1272 c.c., può opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale pur- ché non siano personali, non derivino da fatti suc- cessivi all’espromissione e non abbiano ad oggetto la compensazione.
Conclusioni
Non si conosce la natura della scrittura privata posta all’attenzione della Corte d’Appello di Bologna e pertanto non è opportuno sindacare sulla scelta dei giudici bolognesi.
Tuttavia il tenore della lettera della sentenza sem- brerebbe fugare ogni dubbio laddove si ammette che la parente del degente aveva “espresso la volontà di assumersi l’impegno economico di onorare la retta dovuta dal fratello”. Inoltre, la mancanza di un riferimento alla regola ex art. 1371 c.c. (35) è espres- sione di una motivazione carente sotto il profilo argomentativo.
(30) Come peraltro asseriva autorevole dottrina: X. Xxxxxx, op. cit., 788, il quale, negando anch’egli che la distinzione potesse risiedere negli effetti, affidava valore dirimente “[...] all’intenzione delle parti o ad una valutazione tipica dei loro interessi”, ovvero non alla causa ma ai motivi addotti dalle parti medesime.
(31) In tal senso la distinzione tra i due negozi sarebbe ridotta alla differente modalità di richiesta di adempimento. Così, posto che sia nella fideiussione che nell’espromissione cumulativa vi è un vincolo solidale, e ammessa la sussidiarietà dell’obbligazione fideiussoria, il creditore avrebbe dovuto chiedere l’adempimento dell’obbligazione medesima in primo luogo al debitore principale e in subordine al fideiussore, salvo che non fosse stata pattuita clausola che preveda un beneficium excussionis; nell’espromis- sione invece, sempre ammessa la sussidiarietà della stessa, il creditore principale avrebbe dovuto chiedere l’adempimento all’e- spromittente e in subordine al debitore principale. Come osserva
X. Xxxxxxx, Solidarietà e sussidiarietà nell’assunzione cumulativa del debito altrui, in xxx.xxxxxxxxx.xx, 2013, 795.
(32) Affermare che il rapporto obbligatorio è, nell’espromis- sione, unico, potrebbe essere fuorviante nella misura in cui può essere confusa con la successione del debito. In tal senso, al fine di fugare ogni dubbio, si rinvia X. Xxxxxx, L’adempimento dell’ob- bligo altrui, Milano, 1936, il quale afferma che (265): “nelle ipotesi considerate [tra le quali l’espromissione, nda] non vi ha una sovrapposizione di obblighi, ma una giustapposizione di negozi strutturalmente autonomi, se pure in una certa misura funzional- mente indipendenti”, il che vale ad affermare che nell’espromis- sione si ha un obbligo autonomo che completa il vincolo obbligatorio. E ancora: “estraneità del fatto giuridico originario e autonomia della nuova fonte negoziale dell’obbligo sono elementi inconciliabili con il concetto di successione, che presuppone identità del rapporto giuridico, ossia conservazione della sua
fonte e della sua indivisibilità”. Così pure si esprime X. Xxxxxx- setti, Espromissione per obbligazione futura e fideiussione, in Obbl. e contr., 2009, 6, 507, nota alla sentenza Xxxx., 10 novem- bre 2008, n. 26863, in Mass. Giust. civ., 2008: “l’assunzione del debito, quindi, rende autonoma (seppure parzialmente) l’obbliga- zione del terzo espromittente e chiarisce che per il tramite della espromissione [...] non può attuarsi una mera successione a titolo particolare del debito”.
(33) Si veda: X. Xxxxxx, Le garanzie del credito, in X. Xxxxxx -
X. Xxxxx (a cura di), Trattato di Diritto Privato, Milano, 2010, 82 ss. Concorde la giurisprudenza, si in merito vedano Cass. 5 marzo 1973, n. 609, in Mass. Giust. civ., 1973 e Cass. 24 marzo 1979,
n. 1715, in Mass. Foro it., 1979: “il criterio discretivo tra espro- missione e fideiussione, secondo la previsione, rispettivamente, degli artt. 1272 e 1936 c.c., va ravvisato nel fatto che, nella prima, si verifica per l’intervento dell’espromittente un mero arricchi- mento, o mutamento del lato passivo (ove il creditore dichiari di liberare l’originario debitore), di un rapporto obbligatorio che resta unico, e rispetto al quale è irrilevante la sussistenza o meno del proposito dell’espromittente di garantire il debito altrui; nella seconda, invece, essenziale e caratterizzante è il sorgere di un nuovo rapporto obbligatorio fra creditore e fideiussore, in posi- zione accessoria rispetto a quello preesistente, nonché la finalità di garantire l’adempimento della obbligazione altrui, quale causa negoziale giustificativa della costituzione del nuovo rapporto”.
(34) Come osserva X. Xxxxxxx, La solidarietà nella delegazione, nell’espromissione e nell’accollo cumulativi, in Contr. e impr., 2014, 3, 696 ss.
(35) Relativamente all’applicazione dell’art. 1371 c.c. in tema di fideiussione si veda X. Xxxxxxx, La solidarietà nella delegazione, nell’espromissione e nell’accollo cumulativi, 700, il quale ricorda che: “[...] questo criterio va temperato ricordando che la “volontà
Prestando invece attenzione a quelle che sembrereb- bero essere state le intenzioni dei giudici bolognesi la qualificazione del negozio quale fideiussione pare poco convincente alla luce della ricostruzione della struttura dell’espromissione. Sono infatti fornite al soggetto espromittente le medesime tutele previste per il fideiussore: ossia il recesso.
È pur vero che l’espromissione è per molti versi un negozio in disuso e che perciò, non avendo presentato
eccesive criticità sin dalla formulazione della disci- plina nel 1942 a differenza degli altri negozi di assun- zione del debito altrui (e ciò è avvenuto anche per l’essenzialità del suo contenuto), rischia di essere tra- volto dalla “fiumana del progresso” (infatti, tanto meno un negozio viene adoperato tanto più le esigenze soddisfatte dallo stesso vengono coperte da altri negozi) (36); ma è anche vero che espromissione e fideiussione non sono negozi tra loro fungibili (37).
di prestare fideiussione” deve essere “espressa” (art. 1937 c.c.)”. Ci si permette tuttavia di affermare che la manifestazione di volontà non rappresenta, in questo contesto, un effettivo cri- terio discretivo, essendo sufficiente che la volontà sia manifestata in modo chiaro e inequivocabile. La norma (art. 1937 c.c.) infatti, ispirata all’omologa del codice francese (art. 2292 Code Civil), non prevede alcun vincolo formale (mentre in Germania è prevista la forma scritta ad substantiam (par. 766 BGB)), potendo, la volontà di prestare fideiussione essere provata anche mediante presun- zioni (si veda per giurisprudenza più recente Cass. 24 febbraio 2016, n. 3628, in Mass. Giust. civ., 2016).
(36) Per uno studio approfondito sul tema e di come stia emergendo una tendenza legislativa volta a favorire l’atipicità
dei contratti e, nel caso specifico, dei contratti di garanzia, aprendo così a una “concezione ampia di garanzia” caratterizzata per il suo profilo funzionale piuttosto che per la sua struttura formale, si rinvia a X. Xxxxxxxxx, “Operazione Economica” e teoria del con- tratto. Studi, Milano, 2013, 132 ss.
(37) Così pure per tutti negozi pur simili sotto il profilo effettuale ma di fatto non compatibili con l’espromissione. Ci si riferisce alla promessa di pagamento (ex art. 1988 c.c.) che avrebbe un valore meramente confermativo, e l’adempimento del terzo che costi- tuisce una mera attività esecutiva, mentre l’espromissione crea un effetto obbligatorio. Così X. Xxxxxxxxxxx, Espromissione cumulativa, 456.
Osservatorio dell’Arbitro Bancario Finanziario
a cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, con la collaborazione di Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Credito ai consumatori
Erronea indicazione T.A.E.G. - Nullità alla luce del
previgente testo dell’art. 000 X.X.X.
X.X.X., Xxxx. xxxxx., 8 novembre 0000, x. 00000, xxx. - Pres. Massera - Est. Xxxxxxx (Ord. rimessione: A.B.F. Napoli 17 settembre 2018, n. 19343)
Ove applicabile ratione temporis, la disposizione del (vec- chio) art. 124, comma 5, T.U.B. deve ritenersi rilevante non solamente nei casi di mancanza, ma anche in quelli di erronea indicazione del T.A.E.G. nei contratti di credito con i consumatori, con conseguente sostituzione del tasso indicato con quello nominale minimo dei buoni del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministero del tesoro, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto.
Anche a prescindere dall’interpretazione data al testo del vecchio art. 124 T.U.B., le clausole che indichino in modo non corretto il T.A.E.G. mancano di chiarezza e non con- sentono al consumatore di avere piena conoscenza delle condizioni dell’esecuzione futura del contratto, dovendo pertanto essere considerate nulle in quanto abusive ai sensi degli artt. 33 ss. D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206.
La questione
Il titolare di un prestito personale stipulato il 24 febbraio 2010 per l’importo di 31.350,00 euro, con un T.A.N. dell’8%, un
T.A.E.G. dell’8,493%, con obbligo di rimborso della somma mediante il pagamento di n. 72 rate da 549,67 euro, lamenta l’erronea indicazione del T.A.E.G. a causa della mancata inclu- sione nel parametro dei costi per imposta sostitutiva (€ 78,38) e per spese di assicurazione (1.410,75 euro). Attesa “la nullità della clausola per violazione di norme imperative inderogabili”, il ricorrente richiede l’applicazione del tasso sostitutivo ex art. 125 bis, commi 6 e 7, T.U.B. e la restituzione delle somme indebitamente versate. L’intermediario si costituisce ecce- pendo che il premio assicurativo è stato correttamente escluso dal computo del TAEG in ragione del carattere facol- tativo della copertura assicurativa, che risulterebbe con chia- rezza dalla documentazione precontrattuale e contrattuale rilevante nel caso di specie. Eccepisce, comunque, l’inappli- cabilità al caso di specie delle conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 125 bis T.U.B., poiché tale disposizione sarebbe entrata in vigore in epoca successiva alla stipula del contratto de quo. Investito del ricorso, il Collegio di Napoli accerta che il T.A.E.G. riportato agli atti non includeva effettivamente né i costi assi- curativi né l’imposta sostitutiva. Applicando le indicazioni di principiogiàelaborate dal Collegio dicoordinamentodell’Arbitro (v. I precedenti), viene chiarito che sebbene la copertura assi- curativa fosse stata formalmente indicata come facoltativa, la
sua analisi in concreto ne metteva in luce la natura sostanzial- mente obbligatoria, dovendo pertanto essere inclusa nel com- puto del T.A.E.G. indicato in contratto. Il Collegio territoriale considerava tuttavia applicabile, ratione temporis, non l’attuale art. 125 bis, ma la precedente disposizione dell’art. 124 T.U.B. (aisensidiquestanorma: “1. Aicontrattidicreditoalconsumosi applical’art. 117, commi 1 e 3. 2. I contratti dicredito al consumo indicano: a) l’ammontare e le modalità del finanziamento; b) il numero, gli importi e la scadenza delle singole rate; c) il TAEG; d) il dettaglio delle condizioni analitiche secondo cui il TAEG può essereeventualmentemodificato; e) l’importoelacausaledegli oneri che sono esclusi dal calcolo del TAEG. Nei casi in cui non sia possibile indicare esattamente tali oneri, deve esserne fornita una stima realistica; oltre essi, nulla è dovuto dal consu- matore; f) le eventuali garanzie richieste; g) le eventuali coper- ture assicurative richieste al consumatore e non incluse nel calcolo del TAEG. 3. Oltre a quanto indicato nel comma 2, i contratti di credito al consumo che abbiano a oggetto l’acquisto di determinati beni o servizi contengono, a pena di nullità: a) la descrizione analitica dei beni e dei servizi; b) il prezzo di acquisto in contanti, il prezzo stabilito dal contratto e l’ammontare del- l’eventuale acconto; c) le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato. 4. Nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse pre- visioni contrattuali. Le clausole di rinvio agli usi per la determi- nazione delle condizioni economiche applicate sono nulle e si considerano non apposte. 5. Nei casi di assenza o nullità delle clausole contrattuali, queste ultime sono sostituite di diritto secondo i seguenti criteri: a) il TAEG equivale al tasso nominale minimo dei buoni del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministro del tesoro, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto; b) la sca- denza del credito è a trenta mesi; c) nessuna garanzia o coper- tura assicurativa viene costituita in favore del finanziatore”). Muovendo da queste premesse, A.B.F. Napoli ha rimesso la questione al Collegio di coordinamento, ritenendo che in que- sta composizione l’Arbitro non avesse ancora affrontato, se non incidentalmente, la questione relativa ai rimedi disponibili al cliente in caso di erronea indicazione del T.A.E.G. vigente la regola contenuta nel vecchio art. 124 T.U.B.
Nella decisione indicata in epigrafe, il Collegio di coordina-
mento si richiama al proprio indirizzo secondo cui, prima del- l’entrata in vigore dell’art. 125 bis T.U.B., la clausola di un contratto di credito al consumo contenente un T.A.E.G. non corretto dovesse essere considerata nulla, in applicazione del vecchio art. 124, comma 5, T.U.B. (con susseguente sostitu- zione del T.A.E.G. indicato con il tasso nominale minimo dei buoni del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministero del tesoro, emessi nei dodici mesi pre- cedenti la conclusione del contratto). Confermando tale orien- tamento, il Collegio illustra le ragioni per cui l’applicabilità della richiamata disposizione di legge non possa essere revocata in
Giurisprudenza
Sintesi
dubbio pur in assenza di un esplicito riferimento alla erroneità del T.A.E.G. Se è vero, infatti, che il testo del vecchio art. 124, comma 5, T.U.B. discorre esclusivamente di “assenza o nul- lità”, il Collegio non considera ragionevole distinguere la man- canza del TAEG dalla non corretta indicazione. In entrambi i casi - si legge nella decisione in commento - il consumatore non è in grado di accedere all’informazione per lui essenziale. È quindi considerata perfettamente in linea con la lettera della legge, e conforme alla ratio della disposizione oggetto d’esame, l’equiparare la mancanza di T.A.E.G. alla non corretta indicazione dello stesso e considerare nulla la clausola conte- nente il T.A.E.G. errato. A ciò l’A.B.F. aggiunge che, diversa- mente opinando, sarebbe difficile comprendere a cosa faccia riferimento il legislatore con l’espressione “nullità delle clau- sole contrattuali” e, in particolare, con nullità del T.A.E.G. Le conclusioni così raggiunte trovano conferma nei più recenti arresti della Corte di Giustizia UE. In particolare, con una sentenza del 20 settembre 2018 (causa C-448/17), la Corte ha ritenuto vessatoria, e in contrasto con la Dir. 93/13/CEE, in quanto mancante di chiarezza, una clausola (come, per l’ap- punto, quella indicante un T.A.E.G. attraverso un’equazione matematica) che non consenta al consumatore di avere piena conoscenza delle condizioni della futura esecuzione del con- tratto sottoscritto, al momento della sua conclusione, e con- seguentemente di disporre di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno.
Ne discende, ad avviso dell’Arbitro, che una clausola che indichi un T.A.E.G. non corretto manchi di chiarezza e non consenta al consumatore di avere piena conoscenza delle condizioni dell’esecuzione futura del contratto. Pur volendo quindi ritenere che il vecchio art. 124, comma 5, T.U.B. non si riferisse (anche) a clausole contrattuali contenenti un’erronea indicazione del T.A.E.G., la nullità delle stesse dovrebbe comunque discendere dalla loro natura vessatoria, ai sensi agli degli artt. 33 ss. d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (“Codice del Consumo”).
I precedenti La decisione prende le mosse dall’orientamento consolidatosi a partire dalla decisione assunta da A.B.F., Coll. coord., 12 settembre 2017, nn. 10617, 10620, 10621, in questa Rivista, 2017, 670, secondo cui “[a]llorché ad un contratto di finanzia- mento risulti abbinata una polizza assicurativa, la sua formale qualificazione come facoltativa, desumibile dalla documenta- zione negoziale, non è di per sé sufficiente ad escluderne la necessaria considerazione nel computo del T.A.E.G.”.
Sull’applicabilità, ratione temporis, dell’art. 124, comma 5, T.U.B., nei casi di contratti di finanziamento contenenti erro- nee indicazioni del T.A.E.G., v. tra le altre A.B.F., Coll. coord., 8 giugno 2018, n. 12832; A.B.F., Coll. coord., 18 febbraio 2016, n. 1430.
Sul valore della chiarezza nell’indicazioni delle condizioni di finanziamento nei contratti con i consumatori, v. Corte di Giustizia UE 20 settembre 2018, C-448/17, EOS KSI Sloven- sko: “L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, nel caso in cui un contratto di credito al consumo, da un lato, non indichi il tasso annuale effettivo globale e contenga soltanto un’equazione matema- tica di calcolo di tale tasso annuale effettivo globale priva degli elementi necessari per effettuare tale calcolo e, dall’altro, non indichi il tasso di interesse, una siffatta circostanza costituisce un elemento decisivo nell’ambito dell’analisi da parte del giudice nazionale interessato della questione se la clausola di detto contratto relativa al costo del credito sia formulata in modo chiaro e comprensibile ai sensi di detta disposizione”.
Mutuo
Nullità della clausola FLOOR - Tasso d’interesse applicabile al rapporto
A.B.F., Coll. coord., 15 novembre 2018, n. 24070 - Pres.
Massera - Est. Massera
(Ord. rimessione: A.B.F. Milano 16 ottobre 2018, n. 21490)
Nel contratto di mutuo a tasso variabile non è giuridica- mente configurabile - in nessun momento della durata del rapporto - un tasso di interesse negativo che incida sul capitale mutuato.
Le clausole che limitano la variabilità dell’interesse, pre- vedendo un tasso minimo (clausola floor) ovvero un tasso massimo (clausola cap) devono essere espressamente pattuite. La clausola che attribuisce all’intermediario il potere di modificare unilateralmente le condizioni del rapporto mediante l’introduzione di un floor o un cap al variare dell’interesse è strutturalmente nulla per contra- sto con l’art. 118, comma 1, T.U.B.
La questione
Il ricorrente stipula, con un l’intermediario successivamente incorporato nel resistente, un contratto di mutuo fondiario alle condizioni fissate per il personale dipendente. In particolare, l’interesse applicato ha un tasso variabile legato all’andamento dell’Euribor a un mese diminuito di 0,875 punti percentuali e non prevede alcuna soglia minima di variazione (clausola floor). In fase di ammortamento, il tasso Euribor scende sotto lo zero, sicché l’intermediario comunica al cliente la modifica unilate- rale del regolamento contrattuale, introducendo un tasso d’in- teresse minimo dell’1,5%.
Esperito con esito negativo il reclamo in autotutela dinanzi alla banca (art. 4, comma 1, della deliberazione CICR 29 luglio 2008, n. 275), il cliente presenta ricorso all’A.B.F. domandando: a) l’accertamento della nullità della clausola introdotta unilateralmente dalla banca; b) l’applicazione delle condizioni economiche originariamente pattuite, con restituzione, per le rate già pagate, degli interessi corrisposti in eccedenza.
In sede di controdeduzioni, la banca deduce la legittima intro- duzione del tasso floor, rilevando che l’art. 8 del contratto prevede la facoltà per l’intermediario di modificare le condi- zioni economiche del mutuo ove ricorra un giustificato motivo. Nel caso in esame, l’esistenza del giusto motivo è argomen- tata osservando che la modifica introdotta avrebbe lo scopo di:
a) ridurre la disparità di trattamento nei confronti degli altri dipendenti dell’intermediario non provenienti dalla banca incorporata; b) mantenere una - pur minima - corrispettività nel mutuo, per sua stessa natura oneroso; c) offrire una interpretazione razionale del contratto, sussistendo tra le parti una “presupposizione” avente ad oggetto il valore posi- tivo dell’interesse. La banca rileva, inoltre, che la modifica del regolamento contrattuale è stata comunicata al cliente tramite il servizio postel e che la spontanea esecuzione del contratto senza alcuna contestazione per un periodo di otto anni avrebbe ingenerato un affidamento qualificato in capo all’intermediario circa l’accettazione della modifica. Donde l’inammissibilità ovvero l’infondatezza del ricorso.
Il Collegio di Milano ha respinto l’eccezione d’inammissibilità e, nel merito, “data la notevole gravità del problema e il non sicuro orientamento dei Collegi territoriali” (pag. 6, ordinanza
di rimessione del Collegio di Milano), ha rimesso la questione al Collegio di Coordinamento.
Nella parte motiva del provvedimento, il Collegio di Coordina- mento segnala l’esistenza di due distinti problemi: da un lato, la legittimità della unilaterale introduzione di clausole floor non previste dal contratto; dall’altro, nel caso di nullità della clau- sola floor così introdotta, la possibilità di applicare al rapporto derivante dal contratto di mutuo un tasso di interesse di segno negativo.
Nella ricostruzione seguita dal Collegio, l’introduzione di un tasso floor alla dinamica dell’interesse costituisce una modi- fica unilaterale delle condizioni contrattuali rilevante ai sensi dell’art. 118, comma 1, T.U.B. Nel testo ratione temporis vigente (art. 118 T.U.B. così come modificato dalla L. n. 248/ 2006), le parti potevano convenire “la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni di contratto qualora sussista un giustificato motivo nel rispetto di quanto previsto dall’art. 1341, secondo comma, del codice civile”. Sicché, nel caso preso in esame, l’introduzione del tasso floor dovrebbe reputarsi un valido esercizio dello jus variandi (si osserva incidentalmente che l’attuale formulazione della norma, prescrivendo che - con l’eccezione dei contratti a tempo indeterminato - “la facoltà di modifica unilaterale può essere convenuta esclusivamente per le clausole non aventi ad oggetto i tassi di interesse, sempre che sussista un giu- stificato motivo”, non lascerebbe adito a dubbi riguardo alla nullità della clausola floor non oggetto di specifico accordo). Pur a fronte di tali premesse, il Collegio reputa ugualmente illegittima la modifica per carenza dei requisiti formali prescritti al secondo comma dello stesso art. 118 T.U.B. per un duplice ordine di ragioni: i) la comunicazione della modifica unilaterale delle condizioni contrattuali trasmessa alla cliente non recava la formula “Proposta di modifica unilaterale del contratto”; ii) non era stato rispettato il “preavviso minimo di trenta giorni” tra la ricezione della comunicazione e l’applicazione dell’inte- resse così come modificato. Di qui, la nullità virtuale (per contrasto con l’art. 118, comma 2, T.U.B. ratione temporis vigente) della clausola floor introdotta dalla banca.
Se il contratto non prevede alcun limite al variare dell’inte- resse, occorre stabilire se, per effetto dello spread contrat-
tuale, l’interesse possa assumere valore negativo per l’intermediario. La decisione del Collegio muove dall’analisi dell’art. 1815, comma 1, c.c., ai sensi del quale, salva diversa volontà delle parti, “il mutuatario deve corrispondere gli inte- ressi al mutuante”. La norma reca una presunzione di onero- sità, sicché il mutuo dovrebbe reputarsi oneroso, salvo che “le parti non si siano avvalse della facoltà di renderlo gratuito”. Essa, inoltre, qualifica il mutuatario come unico possibile soggetto obbligato a corrispondere l’eventuale interesse sulle somme oggetto del mutuo. Sotto questa luce, le parti potrebbero liberamente determinare l’esistenza di un inte- resse e la misura dello stesso (seppur nei limiti dell’usurarietà), ma sarebbero prive del potere di stabilire il titolare dell’obbli- gazione. Appare qui utile ripercorrere l’analisi offerta dall’ordi- nanza di rimessione: “altro è la clausola di interessi; altro, il criterio di determinazione della prestazione di interessi. La clausola feneratizia costituisce fonte (art. 1173 c.c.) di un rapporto obbligatorio che vede la banca creditrice, e il cliente debitore, di una somma determinabile [nel caso di interesse variabile] per relationem. Il criterio di indicizzazione non tocca il profilo del titolo, ossia non costituisce di per sé fonte dell’ob- bligazione, ma si limita a calcolare la misura della prestazione di cui la banca è creditrice in forza della (unica) fonte, ossia della
clausola feneratizia” (pag. 5, ordinanza di rimessione del Col- legio di Milano). La clausola d’interesse implica la costituzione di un rapporto obbligatorio tra mutuante e mutuatario, ove il primo è sempre il soggetto attivo del rapporto, mentre il secondo riveste sempre la qualifica di soggetto passivo. In altri termini, il tasso d’interesse indica la misura della presta- zione dovuta dal mutuatario con il limite logico dello zero, poiché, ove si reputasse applicabile il tasso inferiore allo zero, l’interesse implicherebbe la costituzione di un obbligo in capo al mutuante certamente non coerente con l’interpre- tazione sistematica del contratto di mutuo.
Una volta stabilita l’inammissibilità di un interesse negativo nel contratto di mutuo, il Collegio ha preso posizione sul criterio utile per accertare l’esistenza di un interesse negativo. Il problema riguarda il momento in cui l’interesse debba repu- tarsi negativo. In particolare, l’alternativa si pone: i) tra la possibilità di immaginare un interesse negativo per alcune rate, purché il risultato algebrico finale si mantenga positivo (o pari allo zero) per il mutuante avendo riguardo all’intero periodo di ammortamento; e ii) l’impossibilità di avere un tasso negativo in alcuna delle rate. La soluzione offerta muove dalla disciplina dei frutti civili: viene in rilievo il terzo comma dell’art. 821 c.c., ai sensi del quale “[i] frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto”. Ne discende che, se i frutti maturano giorno per giorno, “in nessun momento della durata del rapporto gli interessi potranno assumere valore negativo”.
Muovendo da queste premesse, il Collegio enuncia il seguente principio di diritto: “Nel contratto di mutuo non è giuridicamente configurabile un tasso di interesse negativo che incida sul capitale mutuato. Conseguentemente, quando il tasso d’interesse sia stato pattuito in misura variabile, esso non può assumere valore negativo in alcun momento della durata del contratto”.
I precedenti
In senso parzialmente conforme alla decisione in epigrafe, l’orientamento maggioritario espresso dai Collegi territoriali ha reputato nulla la clausola floor introdotta dall’intermediario in corso di rapporto. Quanto alla disciplina del rapporto, ha tuttavia sancito l’applicabilità delle condizioni originariamente pattuite (A.B.F. Roma 30 agosto 0000, x. 00000; A.B.F. Milano 13 luglio 2018, n. 15380; A.B.F. Roma 11 maggio 2017,
n. 5135; A.B.F. Roma 11 novembre 2016, n. 10006; A.B.
F. Milano 14 gennaio 2010, n. 254; A.B.F. Milano 1° aprile 2010, n. 181).
In senso parzialmente conforme, A.B.F. Milano 24 febbraio 2016, n. 1676 ha reputato l’art. 118 T.U.B. - nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141 - inapplicabile ai contratti di mutuo. Di qui, ha sancito la nullità delle successive modifiche unilaterali dell’interesse.
In senso conforme, A.B.F. Napoli 14 febbraio 2018, n. 3788 ha rilevato come il rinvio ad un tasso variabile d’interesse debba qualificarsi “come assunzione del rischio che il valore negativo vanifichi l’aspettativa di remunerazione, ma non che inserisca nei rapporti tra le parti una obbligazione non prevista che attribuisce le qualità di creditore e debitore alle parti in modo diverso da quello dedotto in contratto”.
Sotto diverso profilo, si segnala la decisione A.B.F. Napoli 23 novembre 2016, n. 10381, la quale si è pronunciata - rigettando la domanda - sul tema della nullità per vessatorietà della clausola floor pattuita.
Il patto marciano: tra tipicità e autonomia contrattuale
a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxxx
La recente regolamentazione di figure negoziali riconducibili allo schema del patto marciano ha riaperto il dibattito non solo sulla ammissibilità e validità degli strumenti di autotutela esecutiva ma anche sullo spazio lasciato alla autonomia privata al di fuori dei cc.dd. xxxxx xxxxxxxx bancari.
Il presente itinerario ha, pertanto, lo scopo di raccogliere i principali aspetti del patto marciano elaborati nel corso degli anni dalla giurisprudenza e di analizzare la possibilità dei privati di concludere una convenzione marciana indipendentemente dalle fattispecie speciali (artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies T.U.B.) entrate in vigore col D.L. 3 maggio 2016, n. 59 e col D.Lgs. 21 aprile 2016, n. 72.
Il patto commissorio e il patto marciano
Il codice civile disciplina il patto commissorio con le norme degli artt. 2744 c.c. e 1963 c.c.: il primo articolo concerne il patto commissorio in materia di ipoteca e di pegno, il secondo, invece, in materia di anticresi. In entrambi i casi, il legislatore prevede la nullità delle pattuizioni con le quali si conviene che la cosa oggetto, rispettivamente, di pegno o ipoteca o di anticresi, passi in proprietà al creditore in caso di inadempimento delle obbligazioni garantite.
Nello specifico, l’art. 2744 c.c., rubricato “Divieto di patto commissorio”, prescrive la nullità del patto anche se concluso posteriormente alla costituzione dell’ipoteca o del pegno (c.d. patto commissorio ex intervallo).
Nonostante le disposizioni legislative prevedano una convenzione commissoria accedente al pegno, all’ipoteca e all’anticresi, il collegamento tra patto commissorio e garanzia reale tipica è soltanto eventuale, in quanto il trasferimento del bene al creditore può prescindere dalla costituzione del diritto di pegno o di ipoteca. La nullità del patto commissorio non accedente una garanzia tipica (c.d. patto commissorio autonomo) è generalmente riconosciuta dalla giurisprudenza (v. per tutte Cass. 10 febbraio 1997, n. 1233, in questa Rivista, 1997, 455, con nota di Xxxxxxxxx) e dalla dottrina (Xxxxxxxxx, Patto commissorio, in Enc. dir., XXXII, 1982, 502; contro Xxxxxxxxx, Patto commissorio autonomo e libertà dei contraenti, Napoli, 1968, 74).
In merito alla disamina della natura giuridica del patto commissorio, la dottrina negli anni ha elaborato molteplici tesi.
Una dottrina risalente considera il patto commissorio un contratto di vendita, configurando il prezzo nell’ammontare del credito garantito (Pugliatti, Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, 298). Altra dottrina conferisce all’istituto in esame natura di dazione in pagamento condizionata, attribuendo, dunque, al patto commissorio una natura esclusivamente solutoria (Xxxxxx, L’alienazione in funzione di garanzia, Milano, 1996). Infine, un ulteriore indirizzo qualifica il patto commissorio come un contratto di garanzia, strumentale all’obbligazione principale, riconoscendo al creditore un potere di soddisfazione esclusivo (Roppo, Responsabilità patrimoniale del debitore, in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988). La difficoltà di ricercare una soluzione unitaria circa la natura giuridica dell’istituto deriva dalla scarsezza del dettato normativo: gli artt. 1963 e 2744 c.c. non esplicano né la ratio del divieto né gli interessi che il divieto è teso a tutelare (per una maggiore disamina del problema cfr. Xxxxxx, Il divieto del patto commissorio e ilproblema delle alienazioni in funzione della garanzia, alla luce delle novità introdotte dal d.l. 3 maggio 2016 n. 59, in Riv. dir. dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2016, 171).
Sia la dottrina che la giurisprudenza si sono mosse nella ricerca del fondamento del divieto commissorio. È proprio dall’emergere nella prassi commerciale di alienazioni del diritto di proprietà in funzione di garanzia, non connesse alla concessione di una garanzia tipica, che si è reso necessario l’indagine della ratio del divieto e, agli effetti, l’analisi del carattere eccezionale o generale della norma.
La tesi tradizionale individua la ratio dell’art. 2744 c.c. nell’intento di tutelare il debitore dall’inevitabile pregiudizio che gli deriverebbe dalla sproporzione tra il valore del bene oggetto del patto commissorio e l’ammontare del credito garantito. La nullità sottesa alla norma tende a tutelare il debitore e, dunque, la parte debole del rapporto contrattuale che, trovandosi in una situazione di bisogno, sarebbe disposto a concludere un contratto a condizioni inique pur di ottenere un credito (tesi accolta da Xxxx. 16 ottobre 1995, n. 10805, in Giur. it., 1997, I, 1, 682).
L’orientamento che riduce la ratio del divieto unicamente nella esigenza di tutelare il debitore è stata criticata da chi, in primis, evidenzia come tale impostazione non spiega la nullità dei contratti conclusi in seguito alla costituzione di una garanzia e, in secondo luogo, da chi rileva come l’ordinamento tutela (già) la parte debole che abbia concluso il contratto in uno stato di bisogno con l’azione di rescissione per lesione, ai sensi dell’art. 1448 c.c. (Roppo, La responsabilità patrimoniale del debitore, in Tratt. dir. priv., Xxxxxxxx (diretto da), Torino, 1997, 560).
Parte della dottrina tuttavia, proprio in merito alla critica basata su una alienazione commissoria stipulata posteriormente alla concessione di una garanzia tipica, obietta che non possa escludersi a prescindere la mancanza di una coartazione del debitore. Questi, difatti, potrebbe essere spinto alla contrattazione dall’esigenza di ottenere una proroga dell’originario termine di scadenza dell’obbligazione garantita (Cesaro, Lease back e patto commissorio, in Riv. not., I, 1986, 807). Si può, inoltre, osservare come la necessità di evitare un pregiudizio al debitore - derivante dalla sproporzione del valore del bene rispetto al credito garantito - non spiegherebbe la nullità del patto (anche) nel caso in cui il valore del bene sia pari o inferiore al credito e che, in tale ultima ipotesi, difficilmente sarebbe ravvisabile un interesse del debitore alla declaratoria di nullità (Commento all’art. 2744 c.c., in Cendon (diretto da), Commentario al codice civile, Torino, 2009, 86).
Xxxx risalente è quella che ricerca la ratio del divieto nell’esigenza di tutelare gli altri creditori che non hanno preso parte al patto commissorio stipulato dal debitore comune (Xxxxxxxxxx, Note sul patto commissorio, in Riv. dir. comm., 1916, II, 887). Secondo tale orientamento la stipulazione di un patto commissorio, in violazione della parcondiciocreditorum e del principio di tipicità delle cause di prelazione ex art. 2741 c.c., creerebbe in favore del creditore pattizio una prelazione atipica, alterando, per questo, la parità di trattamento tra i creditori.
Ponendosi da una prospettiva diversa, attenta dottrina ha osservato come il patto commis- sorio non verrebbe a creare nessuna causa di prelazione contra legem qualora lo stesso patto inerisce ad un pegno o ad una ipoteca (la prelazione è offerta già da tali garanzie reali); inoltre, nel caso in cui il valore del bene preteso dal creditore superi di gran lunga l’ammontare del debito garantito, la tutela degli interessi dei creditori è affidata in via generale all’azione revocatoria che comporta una dichiarazione di inefficacia relativa dell’atto colpito e non una sanzione (quella della nullità) che prescinde dalla preponderante circostanza che i beni del debitore siano insufficienti a soddisfare gli altri creditori (Carnevali, Patto commissorio, in Enc. dir., XXXII, 1982, 501).
Non meno rilevante, inoltre, è notare che la ricerca della ratio legis nella esigenza di tutelare la par conticio creditorum incontra sia un limite di natura testuale, atteso che la norma non indica espressamente l’esigenza di tutelare i creditori che non abbiano preso parte all’accordo, sia un limite di natura sostanziale, dovuto alla circostanza che, anche nel caso in cui non vi siano più creditori e la possibilità di una lesione alla par conticio, la nullità opera allo stesso modo.
Accanto alle suddette impostazioni tradizionali, c’è chi intravede nel divieto del patto com- missorio un principio di inderogabilità, da parte dell’autonomia privata, delle procedure giudiziali esecutive di attribuzione esclusivamente statale (per un maggiore approfondimento cfr. Xxxx, Il patto marciano: un’analisi critica del nuovo art. 48-bis TUB, in Riv. not., 2016,1111). Il patto commissorio darebbe luogo ad una forma di autotutela esecutiva senza tuttavia l’applicarsi delle fondamentali garanzie previste dalla disciplina in materia di espropriazione forzata: all’inadempimento conseguirebbe una diretta acquisizione del bene del debitore senza la necessità del ricorso ad una azione esecutiva ordinaria.
Criticando tale orientamento, altra dottrina rileva come l’ordinamento civile non stabilisce nessun principio di riserva allo Stato della procedura esecutiva. Inoltre, il divieto dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni non può applicarsi al caso di specie, attesa l’esistenza di un libero accordo tra le parti rinvenibile nel patto commissorio stesso (Xxxxxxxxx, Il divieto del patto commissorio, in Cendon (a cura di), Il diritto privato oggi, Milano, 1999, 115).
È da evidenziare poi come il sistema civilistico positivizza forme in cui, di fatto, si realizza una vera e propria procedura di autotutela esecutiva: si pensi sia all’istituto della cessione dei beni di cui all’art. 1977 c.c., col quale il debitore incarica i creditori di liquidare le sue attività e ripartirne tra loro il ricavato, senza il ricorso all’autorità giudiziaria, ovvero all’istituto del pegno irregolare, di cui all’art. 1851 c.c., con il quale il denaro, merci o titoli, depositati in garanzia dal debitore, passano in proprietà della banca e solo in caso di inadempimento quest’ultima è tenuta a restituire l’eccedenza del valore rispetto al credito garantito.
Infine, autorevole dottrina (Xxxxxx, Diritto Civile, VII, Milano, 2012, 281) ha ravvisato la funzione del divieto del patto commissorio nell’interesse generale ad evitare una diffusione di una tale forma di garanzia, per il pregiudizio sociale che ne deriverebbe.
La tutela dell’interesse del debitore da indebite coercizioni del creditore ovvero la tutela della par conditio creditorum (o la tutela di entrambi gli interessi) lasciano lo spazio alla tutela di un interesse superindividuale che l’ordinamento tutela col divieto del patto commissorio. La ratio della norma si rinviene nell’interesse generale di evitare che il patto commissorio assuma una
portata di carattere generale e che, diventando un patto di stile, venga adoperato nella generalità dei casi per rafforzare la garanzia creditoria. Il patto commissorio realizzerebbe a carico del debitore una distorsione della funzione di garanzia, ma è la sua idoneità a diffondersi come modello tipo che lo converte in danno sociale. Il danno sociale derivante da tale forma di garanzia giustifica una sanzione (quella della nullità) che impedisca preliminarmente e in radice il diffondersi del patto, anziché operare successivamente, attraverso un controllo giudiziale attivato con azioni dirette di volta in volta ad accertare l’abusività del patto.
D’altro canto le molteplici decisioni in materia fanno emergere chiaramente come la giuri- sprudenza non riconduca il fondamento del divieto ad una sola finalità ma ad una duplice ratio: la protezione del debitore da una indebita coercizione del creditore e la tutela della par conditio creditorum (finalità poste sullo stesso piano), unitamente alla necessità di verificare la causa in concreto del trasferimento del bene.
Attualmente la duplice ratio del divieto del patto commissorio è ormai un principio consolidato: “Il divieto del patto commissorio, di cui agli artt. 1963 e 2744 c.c., xxxx a salvaguardare da un lato l’interesse del debitore, sottraendolo alla coazione morale del proprio creditore, dall’altro l’interesse degli altri creditori, i quali verrebbero pregiudicati dalla sottrazione di un bene alla garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c., al di fuori delle cause legittime di prelazione di cui all’art. 2741, e, pertanto, è estensibile ai negozi con cui le parti, al di fuori dell’anticresi o della dazione di pegno o di ipoteca, abbiano attribuito al trasferimento della proprietà di un bene una funzione di garanzia del soddisfacimento di una preesistente obbligazione, solo se si tratta di obbligazione dello stesso alienante, non di un terzo”. (Cass. 12 febbraio 1993, n. 1798, in Mass. Giust. civ., 1993, 292).
Da tali premesse, si è giunti invece a riconoscere la legittimità del c.d. patto marciano, istituto che deve il nome ad un passo del giurista Xxxxxxxx e che solo di recente è stato al centro di rilevanti novità legislative.
La principale differenza tra due istituti risiede nel fatto che solo nel patto marciano il trasferi- mento del bene dato in garanzia non ha luogo se non a seguito di una stima imparziale effettuata successivamente all’inadempimento, con l’obbligo del creditore di riconoscere al debitore l’eventuale differenza (Xxxxxxxxx, La rafforzata tutela dei crediti privilegiati nei confronti di imprese in difficoltà, pegno non possessorio e patto marciano, in Fallimento, soluzioni nego- ziate della crisi e disciplina bancaria dopo le riforme del 2015 e 2016, 2017, 1265)
Sotto un piano esclusivamente sistematico, il meccanismo del patto marciano fonda la sua ammissibilità in quelle disposizioni del codice civile - si pensi agli artt. 1851, 1982, 2084 e 2803
c.c. - che prevedono la realizzazione coattiva del diritto del creditore, disciplinata in modo tale da soddisfare la pretesa creditoria nei limiti dell’ammontare del credito vantato. La struttura negoziale del patto marciano è volta, dunque, ad eliminare qualsiasi possibilità che il creditore possa abusare dello stato di bisogno del debitore, ricevendo il diritto di proprietà di un bene di valore notevolmente superiore all’entità del debito e, agli effetti, escludendo l’applicabilità dell’art. 2744 c.c.
In sostanza, la previsione di un procedimento di stima, ancorato a parametri di valutazione imparziali o oggettivi o rimessa alla determinazione di un soggetto terzo sulla base delle proprie conoscenze tecniche (ex art. 1349 c.c.), permetterebbe di escludere la ricaduta del patto nell’ambito di applicazione del divieto del patto commissorio.
L’excursus giurisprudenziale:
dal patto commissorio al patto marciano
Gli inconvenienti legati al patto commissorio sono eliminati con la stipula del patto marciano che, raffigurando nella sostanza una alienazione in garanzia, racchiude in sé una clausola di “giusta stima” tesa a preservare il debitore da un’indebita locupletazione a suo danno (Xxxxxx, Diritto Civile, VII, Milano, 2012, 286).
La ricerca dogmatica della validità del patto marciano prende sicuramente fondamento dall’estensione ermeneutica del divieto del patto commissorio e nella ricerca degli elementi necessari del negozio giuridico volti a neutralizzare giudizi di illeceità alla base delle alienazioni commissorie.
In una prima fase, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 6 marzo 1978, n. 1104, in Giust. civ., 1979, I, 885; Cass. 2 gennaio 1980, n. 452; Cass. 12 novembre 1982, n. 6005) ha ritenuto di attribuire al patto commissorio una struttura condizionale, tendendo a distinguere due tipi di accordi: quelli in cui l’alienazione della titolarità del bene si trasferisce in capo al creditore al momento dell’inadempimento del debitore (contratti sospensivamente condizionati) e quelli in cui l’effetto reale si produce immediatamente all’accordo, con la consolidazione dell’acqui- sto in capo al creditore nel momento in cui il debitore si renda inadempiente o con la risoluzione del contratto in caso di adempimento del debitore (contratti risolutivamente condizionati). Sulla base del combinato disposto degli artt. 1418 e 2744 c.c., la Suprema Corte ha ritenuto che il divieto del patto commissorio si applicasse soltanto ai trasferimenti sospensivamente condizionati.
Al di fuori di tale circoscritta ipotesi, la giurisprudenza ha considerato leciti e validi i trasferi- menti in garanzia subordinati a condizione risolutiva (tale orientamento è stato condiviso dalla dottrina di Xxxxxxxx, Nullità del patto commissorio e vendita con patto di riscatto, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 161. Di contrario orientamento: Pugliatti, Istituzioni di diritto civile, Milano, 1938, 335 ss.; Xxxxxx, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1975, 145 ss., Carnevali, op. cit., 502 ss.).
La premura della Corte è stata quella di evitare che con il patto commissorio si creassero indebite pressioni a carico del debitore nella fase dell’adempimento, attesa la coincidenza temporale tra l’inadempimento dell’obbligazione ed il trasferimento del diritto. Ciò ha portato ad escludere dall’ambito dell’illeceità quelle pattuizioni il cui trasferimento del diritto di proprietà avveniva in un momento anteriore ovvero posteriore a quello dell’inadempimento. Con un atteggiamento di rottura rispetto al passato, nel 1983, i giudici di legittimità (Cass. 3 giugno 1983, n. 3800, in Foro. it., con nota di Xxxxxxx, 1984, 212) hanno tralasciato l’ambito di indagine sul momento temporale in cui opera il trasferimento della titolarità del diritto, manifestando, invece l’esigenza di ricercare, nell’intera operazione economica costruita, il reale intento delle parti di garantire un credito mediante il trasferimento.
Tale orientamento giurisprudenziale, rilevando nelle decisioni precedenti una eccessiva supervalutazione dell’aspetto cronologico in cui opera il trasferimento, ha focalizzato l’atten- zione sull’aspetto funzionale dell’operazione economica e sul collegamento tra l’effetto traslativo e la causa di garanzia.
Come nei negozi giuridici sottoposti a condizione sospensiva, anche in quelli risolutivamente condizionati può essere certamente presente una causa di garanzia. Nelle alienazioni risolu- tivamente condizionate si può istaurare lo stesso vincolo di destinazione del diritto trasferito, volto a garantire il soddisfacimento dell’interesse creditorio del destinatario dell’attribuzione condizionata: all’inadempimento del debitore consegue automaticamente l’acquisto defini- tivo del bene in capo al creditore, garantito dalla condizione risolutiva.
Con tale pronuncia, la Cassazione ha, nella sostanza, proposto un criterio ermeneutico diverso: per valutare la liceità di un negozio giuridico - nel caso di specie una vendita con patto di riscatto -, non occorre (più) valutare il momento in cui avviene il trasferimento del bene ma la causa effettiva dell’operazione economica. Una vendita con patto di riscatto (ovvero vendita sottoposta a condizione a condizione risolutiva), se stipulata tra le parti allo scopo di fungere da garanzia reale a favore del creditore, può anch’essa essere qualificata da una causa di garanzia, alla stregua di una vendita sottoposta a condizione sospensiva.
Inopportuno appare allora, e nei soli casi di vendita ad effetti traslativi immediati, relegare e minimizzare la volontà delle parti nell’area dei motivi.
Il comune intento delle parti di attribuire alla vendita una funzione di garanzia e l’esistenza di un nesso teleologico tra un contratto di mutuo e quello di compravendita permetterebbero di accertare se l’operazione economica contenuta nella compravendita celi o meno un patto commissorio dissimulato.
In conclusione, il trasferimento (anche immediato) della proprietà del bene al mutuante, volto ad offrire la costituzione una garanzia reale, e il contestuale versamento di una somma al mutuatario da restituire entro un certo termine, rilevano l’effettiva causa del contratto, nettamente divergente dalla causa di contratto di compravendita vero e proprio.
Con due sentenze gemelle, (Cass., SS.UU., 3 aprile 1989, n. 1611, in Corr. giur., 1989, n. 1989, 522; Cass., SS.UU., 21 aprile 1989, n. 1907, in Giust. civ., 1989, I, 1821), aventi ad oggetto in entrami i casi una vendita con patto di riscatto, la giurisprudenza di legittimità, dopo una sentenza che aveva dissentito dal nuovo orientamento (Cass., Sez. II, 12 dicembre 1986,
n. 7385 in Giur. it., 1988, I, 1, 1230), ha fatto definitivamente propria l’impostazione del 1983, secondo la quale il divieto del patto commissorio deve essere interpretato estensivamente, valutando, al di là dello schema negoziale impiegato, il reale assetto di interessi sottoposto alla operazione economica.
La Corte ha, pertanto, ribadito l’irrilevanza dell’immediato trasferimento del bene qualora il reale intento delle parti sia volto a costituire una garanzia e ad attribuire irrevocabilmente il bene al creditore soltanto nel caso di inadempienza del debitore. Tra il negozio di mutuo e quello di compravenda si verrebbe pertanto a creare uno stretto vincolo di interdipendenza integrante un patto commissorio, nullo ex lege.
Dunque, anche la vendita con patto di riscatto, soggetta come tale a condizione risolutiva, può ben svolgere una funzione di garanzia, in quanto tesa - come risultato ultimo - ad attribuire in via definita la proprietà del bene al creditore nel caso di mancata restituzione della somma mutuata. A ben vedere, poco importa che le parti sottopongono il trasferimento ad una condizione risolutiva, ciò che conta è verificare la sussistenza di un onere nei confronti del debitore che il divieto del patto commissorio mira ad evitare. Il divieto del patto commissorio, difatti, mira proprio ad impedire al creditore, mediante un meccanismo che gli permetta di sottrarsi al principio della par conditio creditorum, l’esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto dalle ristrettezze economica alla ricerca di mutuo.
Sia che il bene rimanga nelle mani del debitore sia che il trasferimento abbia effetto immediato, le parti possono ben adottare uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire il risultato vietato dall’art. 2744 cc., configurando una causa illecita che ricade sotto la sanzione dell’art. 1344 c.c.
L’interpretazione estensiva degli artt. 2744 e 1963 c.c., alla base del revirement giurisprudenziale, ha permesso alla Corte di cassazione di considerare illecite per violazione del divieto del patto commissorio tutte quelle operazioni economiche, come il sale and lease back (Cass. 22 marzo 2007, n. 6969, in questa Rivista, 2008, 33), il riporto (Cass. 15 novembre 1993, n. 11278, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 879), il mandato a vendere (Cass. 5 marzo 2010, n. 5426, in Mass. Giust. civ., 2010, 329), la vendita con patto di riscatto (Xxxx. 4 marzo 1996, n. 1657, in questa Rivista, 1996, 442), concluse in pendenza di un rapporto obbligatorio già presente tra le parti (in dottrina x. Xxxxxxx, I nebulosi confini del divieto di patto commissorio, in Giust. civ., 2013).
Nel 1995, la Cassazione (Cass. 16 ottobre 1995, n. 10805, in Giur. it., 1997, I, 1, 682), pronunciandosi in merito alla liceità di un contratto di lease back e sulla sua interferenza con il divieto del patto commissorio, ha ribadito ed individuato il fondamento del divieto nell’esigenza di “impedire al creditore l’esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un meccani- smo che gli consenta di sottrarsi alla regola della par condicio creditorum”.
Il divieto deve ritenersi violato ogni qual volta il contratto di vendita venga piegato al rafforzamento della posizione del creditore, che - acquistando l’eccedenza del valore - abusi della debolezza economica del debitore.
Anche il lease back, come qualsiasi altro contratto, potrebbe essere impiegato per scopi fraudolenti ed, in particolare, ai fini di violazione o eluzione del divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c.
È il giudice che dovrà valutare, caso per caso, se la concreta operazione economica si atteggi in modo tale da perseguire un risultato confliggente con il divieto del patto commissorio. Tale analisi dovrà procedere nella ricerca di una eventuale sussistenza di alterazioni dello schema negoziale socialmente tipico, idoneo a denunciare che l’operazione economica non è volta a perseguire l’assetto di interessi caratterizzante il lease back come contratto d’impresa, ma il perseguimento di una funzione di garanzia, con elementi idonei a realizzare il risultato materiale vietato dall’art. 2744 c.c., avuto a riguardo la ratio di tale divieto.
La giurisprudenza successiva, sulla base dell’ormai consolidato orientamento delle Sezioni Unite, si è soffermata pertanto nell’analisi della funzione in concreto dei negozi traslativi.
Nuovamente in tema di sale and lease back, nel 2012, la Cassazione (Cass. 3 febbraio 2012,
n. 1675, in Giust. civ., 2012, I, 625) ha pertanto rilevato come, nel caso di specie, il versamento del danaro da parte dell’acquirente non costituirebbe il versamento del prezzo ma l’esecu- zione del mutuo e, contemporaneamente, il trasferimento del bene svolgerebbe la funzione di costituire una garanzia provvisoria in grado di consolidarsi nel caso in cui il debitore non adempia all’obbligo di restituire le somme ricevute. Secondo i supremi giudici, dunque, sebbene l’operazione economica non integri direttamente un patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c., “incorre nella sanzione di nullità per violazione del divieto del patto commissorio posto dall’art. 2744 c.c. la convenzione mediante la quale le parti abbiano inteso costituire, con un determinato bene, una garanzia reale in funzione di mutuo, istituendo un nesso teleologico o strumentale tra la vendita del bene e il mutuo, in vista del perseguimento di un risultato finale consistente nel trasferimento della proprietà del bene al creditore-acquirente nel caso di mancato adempimento dell’obbligazione di restituzione del debitore-venditore”.
Pertanto, qualora si accerti, a seguito di una corretta qualificazione della fattispecie, che il versamento del denaro corrisponda all’esecuzione di un mutuo ed il trasferimento integri un atto costitutivo di una garanzia, mancando la funzione di scambio, si realizzerebbe un negozio vietato dalla legge.
È chiaro che una siffatta vendita, seppur non integri direttamente un patto commissorio, costituisce un mezzo per eludere il divieto di cui all’art. 2744 c.c., con conseguenza illeceità della causa che determina l’invalidità del negozio ai sensi degli artt. 1342 e 1418 c.c.
La norma di cui all’art. 2744 c.c. rappresenta, dunque, una norma materiale, applicabile non soltanto alle alienazioni in garanzia sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative condizionate risolutivamente all’a- dempimento del debitore. La norma, esprimendo un “divieto di risultato” garantisce il debitore da illecite coercizioni del creditore e assicura, al tempo stesso, la garanzia della par conditio creditorum.
Nel maggio del 2013 i giudici di legittimità (Cass. 9 maggio 2013, n. 10986, in Imm. e propr.,
2013, 7, 463), aderendo alla tesi tradizionale su esposta, hanno ribadito la nullità della vendita con patto di riscatto (o retrovendita) che, inserita in una ben più complessa operazione contrattuale, sia piegata non già ad un mero trasferimento della proprietà, bensì al
rafforzamento della posizione del venditore tramite l’acquisto definitivo della proprietà a seguito del mancato pagamento del debito garantito, realizzando così il risultato giuridico ed economico vietato dall’art. 2744 c.c.
La Corte ha chiarito che, nella vendita con patto di riscatto o retrovendita, lo scopo di garanzia non costituisce un motivo, ma assurge a causa del contratto: il trasferimento della proprietà trova la propria giustificazione causale nella costituzione di una garanzia.
Se si va ad analizzare la causa in concreto del contratto, dunque, il trasferimento del bene non integra una mera attribuzione al compratore, ma un atto costitutivo di una posizione di garanzia provvisoria, suscettibile di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno.
Pertanto le parti, nonostante l’utilizzazione di uno schema negoziale astrattamente lecito, sono in grado, sulla base di una attenta analisi alla causa in concreto (di garanzia) dell’opera- zione economica, di eludere il disposto della norma imperativa di cui all’art. 1344 c.c.
Ma con tale pronuncia gli Ermellini si sono spinti oltre, ricercando gli elementi sintomatici idonei a denunciare un’operazione fraudolenta volta a raggiungere il risultato giuridico ed economico vietato dall’art. 2744 c.c.
Ciò che rieleva non è tanto l’indagine sull’atteggiamento soggettivo delle parti - come valorizzato da Cass. n. 3800 del 1983 - quanto piuttosto l’accertamento di dati obiettivi. Si pensi, dunque, non solo alla presenza di un rapporto giuridico debitore-creditore preesistente o contestuale alla vendita, ma, in particolar modo, alla sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia. Tali elementi rappresentato certamente i sintomi di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, in grado di acquistare l’eccedenza di valore del bene. Secondo i giudici “non vale opporre che spropor- zione tra entità del credito e valore del bene, e conseguente abusiva appropriazione dell’ec- cedenza non sono espressamente richieste dall’art. 2744 c.c., potendosi replicare che il legislatore, nel formulare un giudizio di disvalore nei riguardi del patto commissorio, ha fondatamente presunto, alla stregua dell’id quod plerumque accidit, che in siffatta conven- zione il creditore pretende di regola una garanzia eccedente l’entità del credito. Appare quindi corretto ritenere che la sussistenza di una sproporzione tra valore del bene ed entità del credito possa offrire, in sede di indagine, uno degli indizi di maggior peso”.
Tuttavia la S.C., richiamando gli istituti del pegnoirregolare, del riporto finanziario, e delc.d. patto marciano, ha escluso l’illiceità dei patti in tutti quei casi in cui, pur in presenza di costituzioni di garanziachepostulanountrasferimentodiproprietà, leparti inseriscanonelloschemanegoziale dei meccanismi in grado di estirpare l’abuso in radice.
Anche in presenza di una sproporzione tra il valore del bene e l’entità credito, l’illeceità non opera in presenza di meccanismi estimatori in virtù dei quali “al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito”.
Nel 2015 la S.C. (Cass. 28 gennaio 2015, n. 1625, in xxx.xxxxxx.xx), offrendo preliminarmente una definizione del c.d. patto marciano, ha delineato i requisiti essenziali che la clausola marciana deve possedere al fine di essere considerata lecita.
Secondo il dettato della Corte si è in presenza del c.d. patto marciano quando le parti inseriscono nel negozio giuridico una clausola contrattuale volta ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore all’ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e che il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore dell’importo eccedente l’entità del credito.
Affinché la clausola marciana possa conseguire un “effetto legalizzante” del contratto (nel caso di specie, era stato sottoposto a giudizio un contratto di leaseback) è necessario che essa preveda, in caso di inadempimento, ossia quando si attiverà la pretesa creditoria (art. 1851 c.c.), un procedimento volto alla stima del bene, entro tempi certi e con modalità definite. Le modalità devono assicurare una valutazione imparziale, ancorata a parametri oggettivi automatici ovvero affidata ad una persona indipendente ed esperta (la Corte richiama l’art. 1349 c.c.), al fine di determinare correttamente l’an e il quantum della eventuale differenza da corrispondere all’utilizzatore.
È essenziale, dunque, che le parti, nella stipulazione contrattuale abbiano previsto che, in caso di inadempimento, il debitore perda la proprietà del suo bene ad un “giusto prezzo”, ottenendo l’eventuale surplus stabilito da parametri oggettivi.
Ebbene, la cautela marciana permetterebbe di superare profili di illeceità del lease back, in quanto, volta ad inserire un meccanismo estimatorio del bene oggetto di garanzia come condizione per il consolidarsi dell’effetto traslativo, e ciò nel caso in cui il valore del bene sia equiparabile all’importo del credito inadempiuto; nel caso in cui l’importo risulti essere inferiore, la condizione del consolidamento dell’effetto traslativo consisterà nell’apposita quantificazione della differenza e nel contestuale pagamento del prezzo aggiuntivo al debitore.
La stima del valore del bene ad opera di un terzo e l’obbligo, da parte del creditore, di restituire l’eccedenza al debitore, assumono la finalità di impedire che il debitore subisca una lesione
come conseguenza del trasferimento con funzione di garanzia e di escludere, pertanto, l’operatività del divieto del patto commissorio.
Il fondamento di un “effetto salvifico” della clausola marciana è da ricercare, dunque, nella idoneità della stessa a ristabilire l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni del contratto e, dall’altro, nella sua capacità ad evitare un’attuazione coattiva del credito senza il controllo dei valori patrimoniali in gioco.
Non è necessario, inoltre, che la clausola marciana subordini l’acquisizione del bene in capo al creditore al pagamento della differenza. Come per il divieto ex art. 2744 c.c., anche la clausola marciana può essere articolata non solo nel senso di ancorare il trasferimento all’inadempi- mento del debitore ma anche nelle ipotesi in cui l’effetto traslativo si sia già verificato, con il consolidamento degli effetti nel caso in cui il creditore corrisponda l’eventuale differenza. Per tali ragioni, è necessario che, sin dalla conclusione del contratto, le parti abbiano previsto anticipatamente dei meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che permettano la verifica di congruenza tra il valore del bene oggetto di garanzia e l’entità del credito.
Nel 2016 la Corte (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1075, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 911) ha ribadito come il divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c. si estenda a qualsiasi negozio, ancorché di per sé astrattamente lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall’ordinamento, di assoggettare il debitore all’illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito.
I giudici hanno ricordato che la vendita con patto di riscatto o retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (invece che di scambio), nell’ambito della quale il versamento del denaro da parte del compratore non costituisca pagamento del prezzo, ma esecuzione del mutuo ed il trasferi- mento del bene serva solo a costituire una garanzia provvisoria dipendente dall’adempimento o meno dell’obbligo di restituire le somme ricevute.
Va esclusa la violazione del divieto del patto commissorio “in caso di mancanza di prova del mutuo (cfr. Cass. 5635/05), oppure qualora la vendita sia pattuita allo scopo, non già di garantire l’adempimento di un’obbligazione con riguardo all’eventualità non ancora verifica- tasi che rimanga inadempiuta, ma di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto (cfr. Cass. 19950/04, Cass. 7885/01) o, quando xxxxxx l’illecita coercizione del debitore a sotto- stare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito che viene a contrarre (cfr. Cass. 8411/ 03); e che il divieto di tale patto non è applicabile allorquando la titolarità del bene passi all’acquirente con l’obbligo di trasferimento al venditore se costui provvederà all’esatto adempimento (Cass. 17-3-10/44 n. 6175).”.
Nel caso di specie gli Ermellini hanno ritenuto corretto la decisione della Corte d’Xxxxxxx di escludere la fattispecie dal divieto del patto commissorio, in quanto l’operazione economica non avrebbe avuto il fine di garantire un credito. Il negozio giuridico in questione non avrebbe avuto lo scopo di garanzia della restituzione del mutuo ma quello di offrire al venditore una provvista per estinguere debiti scaduti.
Da ultimo, la Corte di legittimità ha affrontato la questione del divieto del patto commissorio anche in tema di contratto preliminare. Nel 2017 (Cass. 9 ottobre 2017, n. 23617, in Mass. Giust. civ., 2018) gli Xxxxxxxxx, confermando il risalente orientamento secondo il quale il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c. si estende a qualsiasi negozio, anche di per sé astrattamente lecito, nel caso in cui tale strumento venga impiegato per perseguire il fine concreto, sanzionato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garantire il suo adempimento dell’obbligazione assunta, hanno affermato come anche un contratto preliminare di compravendita possa incorrere nella sanzione dell’art. 2744 c.c.
Il patto commissorio può essere ravvisato anche di fronte a negozi tra loro collegati, quando dall’operazione economica unitamente intesa scaturisca un assetto di intessi complessivo tale da far presumere che il trasferimento del bene sia collegato, non già ad una funzione di scambio, ma da uno scopo di garanzia e, dunque, a prescindere dalla natura obbligatoria o traslativa o reale del contratto, ovvero dal momento in cui l’effetto traslativo si verifichi.
Anche un contratto preliminare di compravendita può ben incorrere nella sanzione dell’art. 2744 c.c. qualora, dall’assetto concreto costruito dalle parti, risulti che il bene promesso in vendita abbia la funzione di costituire una garanzia reale in funzione dell’adempimento delle obbligazioni contratte dal promittente venditore con un altro negozio collegato, così da stabilirsi un collegamento negoziale e strumentale tra i due negozi.
È ravvisabile una violazione dell’art. 2744 c.c. allorché le parti, all’interno del contratto preliminare, abbiano inserito un meccanismo (si peni alla apposizione di una condizione) diretto a far sì che l’effetto definito del trasferimento si realizzi soltanto a seguito dell’ina- dempimento del debitore-promittente venditore.
In tal caso il preliminare costituirebbe un mezzo per raggiungere un risultato vitato dalla legge, in quanto impiegato per conseguire l’illecita coartazione del debitore a sottostare alla volontà del creditore.
Anche in tale ultima pronuncia la Xxxxx ha affermato che affinché possa configurarsi un collegamento negoziale in violazione del divieto del patto commissorio non è necessaria soltanto la ricorrenza di un requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi giuridici, ma anche di un requisito soggettivo, costituito dall’intento comune e pratico delle parti di non voler soltanto l’effetto tipico dei singoli negozi ma l’ulteriore effetto di garantire un credito.
Le garanzie marciane tipiche
La difficoltà del recupero dei crediti da parte degli istituti finanziari, fortemente influenzata dalla crisi del mercato creditizio e dai tempi particolarmente lunghi del processo esecutivo, ha spinto il legislatore italiano ad introdurre nel sistema creditizio forme di soddisfacimento del credito dotate di maggiore celerità (per una maggiore disamina del problema cfr. Xxxxxx, Inadempimento del consumatore e autotutela del finanziatore tra (divieto del) patto commis- xxxxx e patto marciano, in Riv. europa e dir. priv., 2017, 735).
I nuovi istituti, che sembrano integrare dei veri e propri xxxxx xxxxxxxx, sono al centro di tre provvedimenti legislativi: la L. 2 aprile 2015, n. 44 in materia di prestito vitalizio ipotecario; il D.Lgs. 21 aprile 2016, n. 72 (in attuazione della Dir. 2014/17/UE) che ha introdotto l’art. 120 quienquiesdecies nel T.U.B.; infine, il D.L. 3 maggio 2016, n. 59 (c.d. decreto salva banche) che ha introdotto l’art. 48 bis nel T.U.B. Il prestito vitalizio ipotecario è un finanziamento concesso, da una banca o altro intermediatore finanziario, ai consumatori ultrasessantenni con capitalizzazione annuale di interessi e spese, garantito da un’ipoteca di primo grado su un immobile residenziale.
Il capitale finanziato può essere richiesto, integralmente ed in un’unica soluzione, alla morte del mutuatario ovvero in caso di trasferimento, parziale o totale, della proprietà e di altri diritti reali di godimento sull’immobile dato in garanzia o qualora si compiano atti che ne riducano significa- tivamente il valore. Nel caso in cui il finanziamento non venga rimborsato entro 12 mesi dal verificarsi di uno dei suddetti eventi il finanziatore può vendere l’immobile ipotecato (ad un prezzo pari a quello di mercato ovvero determinato da un terzo esperto), utilizzare la somma ottenuta per estinguere il finanziamento ed, infine, versare al finanziato o ai suoi eredi l’eventuale eccedenza tra il capitale finanziato (compreso di interessi e spese) e la somma incassata dalla vendita.
Attenta dottrina rileva come il patto marciano si inserisca solo incidentalmente nella struttura del prestito vitalizio ipotecario, perché tale ultimo istituto non prevede al momento della conclusione del contratto un trasferimento di garanzia ovvero una vendita sospensivamente condizionata. Tuttavia, il conferimento per legge di un mandato a vendere post mortem al finanziatore e la previsione della restituzione dell’eccedenza a seguito di una perizia, perse- guono una funzione ed un risultato analogo a quello del patto marciano (Xxxxxxxxxxxx, Fenomelogia del patto marciano tra tipicità e atipicità, in Riv. not., 2017, 601).
Diversamente, l’art. 120 quinquiesdecies T.U.B. prevede ai commi 3 e 4 una fattispecie di escussione stragiudiziale della garanzia reale che ricalca nella sostanza la struttura del patto marciano.
Con l’obiettivo di favorire la concessione di credito ai consumatori (operazione economica che, pertanto, si riveste di meccanismi tesi a tutelare la parte “debole” del rapporto), il D.Lgs n. 21 aprile 2016, n. 72 ha previsto un meccanismo sostanzialmente volto a superare le lungaggini delle ordinarie procedure esecutive immobiliari. Fermo il disposto dell’art. 2744 c.c., la banca può pattuire con il consumatore-mutuatario una clausola espressa al momento della conclusione del contratto di credito che preveda, in caso di inadempimento del consu- matore, l’acquisizione da parte della banca ovvero il trasferimento a terzi dell’immobile concesso in ipoteca. Se, tuttavia, il valore dell’immobile stimato dal perito ovvero l’entità dei proventi della vendita siano superiori al debito residuo, il consumatore ha il diritto di ricevere tale eventuale eccedenza.
È evidente come il meccanismo delineato dal legislatore incorpora i due elementi qualificanti del patto marciano che, secondo la giurisprudenza (Cass. n. 10986 del 2003; Cass. n. 1625 del 2015, e Cass. n. 1075 del 2016), consentono di neutralizzare in radice la ricaduta della clausola nell’ambito di applicazione del divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c.
Il comma 3 dell’art. 120 quinquiesdecies T.U.B. prevede difatti: a) che il valore del bene immobile del debitore inadempiente, per poter essere acquisito da creditore ovvero da questi venduto a terzi, deve essere stimato da un terzo indipendente al momento dell’inadempi- mento; b) che l’eccedenza tra il valore del bene e il debito inadempiuto deve essere restituito al debitore.
La congiunzione di tali elementi consente di evitare un possibile approfittamento del creditore ai danni del consumatore-debitore, assicurando a quest’ultimo di essere privato del proprio bene solo al giusto prezzo e previa corresponsione dell’eventuale surplus (D’Xxxx,
Commento all’art. 120 quinquiesdecies t.u.b., in Capriglione (a cura di), Commentario al testo unico delle leggi in materia bancarie e creditizia, Padova, 2018).
Il comma 3 dell’articolo in questione, inoltre, affianca all’attivazione del patto un meccanismo di esdebitazione del consumatore anche nel caso in cui il valore dell’immobile risulti inferiore al debito rimasto inadempiuto.
L’art. 48 bis T.U.B. prevede, invece, che il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico ex art. 106 T.U.B. possa essere garantito dal trasferimento di un diritto reale dell’imprenditore o di un terzo, in favore del creditore o di una società controllata o collegata che sia autorizzata ad acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari. L’articolo precisa - qualificando con maggior rigore il negozio giuridico - che il trasferimento è sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore. Per arginare il rischio di rimettere all’autonomia delle parti la decisione in merito all’inadempimento rilevante ai fini del verificarsi della condizione, il legislatore ha previsto un inadempimento per così dire “quali- ficato”. L’inadempimento si verifica quando il mancato pagamento si protrae per oltre nove mesi o dalla scadenza di almeno tre rate nel caso di obbligo di rimborso a rate mensile o dalla scadenza anche di una sola rata in caso di rimborso a rate con scadenza superiore al periodo mensile o, infine, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento nel caso in cui non sia stata prevista la restituzione in via rateale.
In caso di inadempimento e qualora il valore del bene - come stimato dal perito nominato dal Presidente del Tribunale del luogo nel quale si trova l’immobile - sia inferiore all’ammontare del debito, la condizione è avverata al momento in cui il creditore riceva la comunicazione di stima del perito (a differenza dell’art. 120 quinquiesdecies T.U.B., l’articolo in questione non prevede l’operare dell’esdebitazione del debitore qualora il trasferimento riguardi un diritto reale di valore inferiore al credito garantito). Nel caso, invece, in cui il valore dell’immobile sia superiore al debito, la condizione si ritiene avverata soltanto nel momento in cui il creditore paghi al debitore l’eccedenza tra il valore di stima e l’ammontare del debito inadempiuto.
Anche in tale contratto sono, dunque, presenti gli elementi caratterizzanti del patto marciano così come elaborati dalla consolidata giurisprudenza: a) la stima ad opera di un perito del valore del diritto reale immobiliare oggetto del patto (in conformità ai criteri di cui all’art. 568 c.p.c.); b) l’obbligo del creditore di versare l’eventuale surplus su un conto corrente bancario intestato al titolare del diritto reale immobiliare.
Autonomia privata e l’autotutela esecutiva
La previsione legislativa di determinate figure di xxxxx xxxxxxxx rappresenta una importante novità nel sistema della garanzia reale creditizia. Tuttavia, non è facile prevedere se le soluzioni marciane tipizzate dal legislatore siano in grado di soddisfare al meglio l’esigenza di rafforzare la tutela del credito, accelerando e snellendo le procedure volte al recupero e al tempo stesso, garantire un livello di protezione adeguato al debitore (D’Amico, La resistibile ascesa del patto marciano, in Europa dir. priv., 2017, 46).
La maggiore criticità consiste nel domandarsi se tali stipulazioni siano riservate unicamente alle categorie di soggetti previsti dal T.U.B. e con i requisiti strutturali fissati dagli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies T.U.B.
Occorre dunque interrogarsi sulla natura cogente o dispositiva della disciplina dei nuovi marciani e, agli effetti, sullo spazio che rispetto ad essi è lasciato all’autonomia privata.
Si potrebbe sostenere, sebbene sia solo un’ipotesi, che l’introduzione sistematica di una apposita disciplina del patto marciano all’interno del testo unico bancario sia sintomatica della volontà del legislatore di limitare la convenzione marciana soltanto a quelle categorie di creditori in grado di assicurare ai debitori un certo grado di tutela, sulla base di tutti gli obblighi imposti dalla disciplina di settore. I limiti procedurali all’esplicarsi della clausola marciana, come introduzione nella conven- zione di una condizione sospensiva ad un inadempimento “qualificato” del debitore, potrebbero intendersi come una volontà del legislatore di disciplinare un trasferimento in garanzia di un diritto reale immobiliare soltanto entro i limiti e alle condizioni previste dall’art. 48 bis T.U.B., in quanto idonei ad offrire al debitore un sistema di tutela rafforzato (Xxxx, Il patto marciano, cit., 1126). Attenta dottrina (Xxxxxxxx, Xxxxx xxxxxxxx e sottotipi, in Riv. dir. civ., 2017, 1398 e ss.) rileva come le fattispecie legislative di patto marciano rivestano un ruolo significativo per l’inter- prete, in quanto non soltanto offrono conferma circa l’ammissibilità espressa da giurispru- denza e dottrina del patto marciano, ma soprattutto perché forniscono la identificazione degli elementi necessari per integrare una convenzione marciana.
Per una corretta soluzione al problema, è opportuno tener distinto il “patto marciano di diritto comune”, contratto legalmente atipico e modello generale di patto marciano, dai “sottotipi marciani”, contratti tipici previsti dal legislatore e inseriti nel T.U.B.
In mancanza di un intervento legislativo volto a dettare una disciplina generale del patto marciano, il compito dell’interprete è quello, innanzitutto, di valutare se sia possibile per i
privati (al di fuori dall’ambito di applicazione del T.U.B.) elaborare un tipo generale di patto marciano.
Ad un risultato positivo della prima operazione, occorre ricercare, nei principi di diritto comune, nelle pronunce giurisprudenziali rilevanti in materia e nei modelli di cui agli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies T.U.B., gli elementi necessari per integrare una convenzione marciana lecita e che permetta di “trascinare” l’operazione economica al di fuori del perimetro applicativo del divieto del patto commissorio.
In merito al primo profilo e attesa l’assenza di una tipizzazione legislativa di un modello generale di patto marciano, la chiave risolutiva al problema andrebbe ricercata nel giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c. e, dunque, il giudizio sull’idoneità dello strumento elaborato dai privati ad assurgere a modello di regolamentazione degli interessi (Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017).
Difatti il controllo sull’autonomia contrattuale da parte del giudice con riferimento ad un contratto atipico si fonda, in prima battuta, sul giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c.: il giudice dovrà analizzare se lo schema astratto, così come ideato dai contraenti, abbia o meno un significato economico-sociale in termini di scambio di utilità.
Detto giudizio, che opera a livello di “tipo” contrattuale e non a livello di causa in concreto, nei contratti tipici è effettuato a monte e in via astratta dal legislatore, nei contratti atipici è, invece, rimesso al giudice, il quale dovrà valutare se lo schema astratto abbia un rilievo sociale e sia, pertanto, meritevole di tutela.
Con l’introduzione nel T.U.B. di specifici negozi giuridici che ricalcano la forma del patto marciano il legislatore elabora implicitamente un giudizio di ammissibilità del patto marciano di diritto comune, in quanto idoneo ad assurgere a tipo normativo ed a realizzare i concreti interessi delle parti in termini economico-sociale e di scambio di utilità. Si ammette, quindi, la definitiva esistenza di una tipicità sociale del patto marciano di diritto comune e, agli effetti, la sua meritevolezza in astratto ex art. 1322, comma 2, c.c.
Occorre a questo punto stabilire quali requisiti il patto marciano di diritto comune debba possedere per sottrarsi ad un giudizio di illiceità in concreto. Dall’astratto schema regola- mentare che racchiude l’operazione economica, appare necessario spostare l’ambito d’inda- gine sul profilo della liceità dei concreti interessi che i privati perseguono con l’operazione stessa. L’indagine sul “tipo” lascia spazio all’indagine sulla causa e sui concreti risvolti dell’operazione economica. Xxxxxxx che verte su un raffronto tra gli interessi perseguiti dai privati e gli interessi ritenuti leciti e protetti dall’ordinamento.
Così come rileva la giurisprudenza testé richiamata, il primo dei requisiti fondamentali del patto marciano, necessario ad evitare la sfera di applicabilità del divieto del patto commissorio, è l’obbligo di restituire al debitore l’eventuale eccedenza del valore del bene alienato rispetto all’ammontare del debito-credito.
Tale requisito è stato difatti recepito in materia bancaria all’interno degli artt. artt. 48 bis e 120
quinquiesdecies T.U.B.
Il secondo requisito riguarda la stima del bene, effettuata in un momento successivo all’inadempimento ed operata da un perito indipendente ed esperto. Anche tale requisito è stato recepito nella disciplina dei xxxxx xxxxxxxx bancari. Il comma 4, lett. d), dell’art. 120 quinquiesdecies T.U.B. prescrive che il valore del bene sia stimato con una perizia successiva all’inadempimento ed elaborata da un perito esperto ed indipendente, scelto dalle parti ovvero, in difetto d’accordo, dal Presidente del Tribunale, con le modalità di cui al comma 3, dell’art. 696 c.p.c. L’art. 48 bis T.U.B. prevede la nomina, da parte del Presidente del Tribunale, di un perito che proceda alla stima secondo i criteri di cui all’art. 568 c.p.c., il quale comunichi la stima entro sessanta giorni dalla stessa al debitore, al creditore e agli altri creditori con titolo trascritto o iscritto, in modo tale da poter presentare le proprie note.
Nessuna previsione di tipo legislativo osta a considerare che tali requisiti, così come meglio regolati dal legislatore in ambito bancario, possano essere applicati in via analogica al patto marciano di diritto comune, anzi secondo i dettami della Cassazione rappresentano proprio gli elementi qualificanti e legittimanti della clausola marciana.
Potrebbe, a questo punto, attribuirsi carattere cogente ai sottotipi marciani in riferimento soltanto ad una delle possibili modalità attraverso cui realizzare il trasferimento in garanzia, che è in essi prevista.
Considerando, dunque, gli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies T.U.B. come norme speciali volte a regolamentare il trasferimento in garanzia di un diritto reale immobiliare intercorso tra determinati soggetti con una evidente differenza di potere economico (imprenditori e consu- matori, da un lato e le banche e i soggetti autorizzati ai finanziamenti nei confronti del pubblico, dall’altro), non si rinviene nessuna ragione per ritenere che le fattispecie legislative abbiano una efficacia preclusiva alla legittimità di tutte quelle fattispecie negoziali che - dal punto di vista funzionale - possano ricondursi al modello marciano, si pensi al mandato a vendere ovvero il sale and lease back.
Le banche e i finanziatori, potrebbero, dunque, continuare a concludere negozi giuridici con una funzione di garanzia non rientranti negli schemi di cui agli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies
T.U.B. con la premura, tuttavia, di inserire i meccanismi elaborati dalla giurisprudenza ed idonei ad escludere che la causa in concreto del contratto persegua ogni tipo di abuso ai danni del debitore e, agli effetti, l’operatività del divieto del patto commissorio. È essenziale, ovviamente, che nell’intera operazione economica costruita, le parti contrattuali abbiano anticipatamente previsto che il debitore perda il diritto di proprietà sul bene ad un “giusto prezzo”, determinato, al tempo dell’inadempimento, mediante meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che permettano la verifica di congruenza tra il valore del bene oggetto di garanzia e l’entità del credito, con l’eventuale restituzione dell’eccedenza al debitore. Tali meccanismi, in sostanza, permetterebbero di escludere, al vaglio di liceità dei giudici, che l’operazione contrattuale sia piegata unicamente al rafforzamento della posizione del credi- tore e realizzare il risultato economico e giuridico vietato dall’art. 2744 c.c., e ciò varrebbe non soltanto per i xxxxx xxxxxxxx stipulati tra due privati, ma anche per i xxxxx xxxxxxxx stipulati dai soggetti di cui agli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies T.U.B. al di fuori delle fattispecie negoziali che gli stessi articoli prevedono, come ad esempio un mandato a vendere ovvero un contratto di sale and lease back.
Contratti di durata
Organizzazione dei rapporti commerciali tra imprese
e “contratti relazionali”
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxxx (*) (**)
Il contributo ripercorre brevemente il superamento della visione atomistica dello scambio istantaneo e il progressivo riconoscimento delle specificità dei contratti di durata. In particolare, ci si sofferma sulla variabile “tempo”, in quanto questi ultimi si differenziano dallo scambio a esecuzione istantanea e dal contratto sottoposto a termine poiché lo svolgimento del rapporto per un periodo più o meno lungo è funzionalmente connesso all’interesse delle parti alla continuità dell’esecuzione. Movendo dalla teoria nordamericana dei relational contracts, gli Autori illustrano i mutamenti giurisprudenziali e dottrinali intervenuti nel sistema italiano. In particolare, sempre con riferimento ai rapporti di durata, ci si interroga sui rimedi contro l’“autorità” e il “potere” che una parte può acquisire, assumere ed esercitare nei confronti dell’altra, soprattutto quando la loro relazione, proiettata verso il futuro, è preceduta da investimenti specifici che potrebbero indurre uno dei contraenti a “subire” le scelte altrui.
1. Una variante del modello tradizionale: dallo scambio istantaneo (e isolato)
al rapporto di durata
Fra le tante definizioni dell’autonomia negoziale è possibile muovere da quella riconducibile al feno- meno sociale, non puramente psicologico, attraverso il quale i privati si danno delle regole proprie e con esse costituiscono un “ordinamento autonomo” diretto a disciplinare le loro relazioni economico- sociali (1).
Se all’interno del vasto mondo dell’autonomia privata consideriamo il contratto, quale sua manifestazione più emblematica, è difficilmente controvertibile la considerazione secondo la quale l’idea di contratto
sottesa alla parte generale della sua disciplina, espressa dal nostro codice civile, così come quella che fa capo alla teoria generale degli atti negoziali, ruota intorno al concetto di scambioistantaneo a prestazioni corrispet- tive. La volontà dei contraenti, in sede di stipulazione, acquista rilevanza centrale e assorbente: le parti stabi- liscono a monte, in maniera tendenzialmente com- pleta, il regolamento dei loro interessi, per cui, laddove il contratto si rileva incapace di soddisfare la volontà espressa al momento della sua conclusione, il rimedio offerto dal codice è la risoluzione.
Tale ricostruzione teorica adotta come suo prototipo il contratto di compravendita, espressione dell’“affare” secondo l’id quod plerumque accidit, punto in cui si
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(**) Con l’aggiunta delle note a piè di pagina, il saggio costitui- sce la rielaborazione dell’intervento al convegno “I poteri privati e il diritto della regolazione. A quarant’anni da ‘Le autorità private’ di C.
M. Bianca”, organizzato dalle Università Roma Tre e Bocconi, svoltosi a Roma il 27 ottobre e a Milano il 9 novembre 2017. Autrice dei parr. 1-3 è Xxxxxx Xxxxxxxxx; i parr. 4-9, invece, sono di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx.
(1) C.M. Xxxxxx, Le autorità private, Napoli, 1977, 1 ss., secondo il quale “l’affermazione che l’atto negoziale è costitutivo di norme può rispondere infatti all’idea di un autonomo ordina- mento dei privati ma può anche rispondere all’idea di un unico
ordinamento statale che conceda ai privati una ristretta compe- tenza normativa”. Secondo X. Xxxxxxxxxxxx, Contributo alla teo- ria del negozio giuridico, Napoli, 2008, 91, “deve astrattamente ritenersi che il diritto, come sistema di norme intese a regolare i rapporti tra gli associati, prende ad oggetto delle sue statuizioni i fatti nel loro significato sociale, non in quello naturale; opinione che assurge, ci sembra, a piena certezza, rispetto a un fatto, l’autonomia privata, che assume, come già si è detto, altresì una specifica rilevanza sociale”. Precisa poi l’Autore che “per autonomia negoziale in senso proprio deve intendersi un feno- meno sociale, non psicologico, e precisamente l’attitudine dei privati a darsi regola da sé nel campo delle loro relazioni econo- mico-sociali”.
Argomenti
Contratti in generale
incontrano la domanda e l’offerta di mercato (2). Non vi è spazio, quindi, per il mantenimento in vita della relazione negoziale, ove il contratto si riveli incapace di realizzare il programma originariamente concordato. Questa elaborazione riflette la concezione del negozio giuridico tradizionalmente utilizzato nello studio dei rapporti patrimoniali tra privati. Lo scopo dello scambio è il trasferimento di ricchezza, lo strumento per realiz- zarlo il contratto ad effetti reali (3).
Il mercato in cui si svolge lo scambio istantaneo è tipicamente quello dei beni, all’interno del quale i contraenti s’impegnano ad acquistare o a cedere la proprietà di una cosa certa e determinata.
Con riferimento ai rapporti tra imprese, il modello dello scambio istantaneo individua unicamente le operazioni commerciali occasionali tra operatori autonomi di mercato, rispetto alle quali la gestione delle sopravvenienze, al fine del mantenimento in vita del contratto, acquista rilevanza soltanto quando le parti stesse si siano preoccupate ex ante di indivi- duare, con sufficiente precisione, le regole di gestione del rischio. Il contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione istantanea non appare, tuttavia, idoneo a valorizzare in modo totalizzante la negoziazione e le modalità di svolgimento degli affari tra imprenditori commerciali.
Tra gli operatori di un determinato settore eco- nomico, infatti, si instaurano frequentemente relazioni sociali, prima ancora che giuridiche. Tali relazioni si formalizzano nei contratti non solo, e non tanto, per dar vita ad uno scambio episodico, ma soprattutto per predisporre un modello organizzativo. Il contratto diventa la sede in cui si dà veste esteriore alla collaborazione tra operatori economici. I contraenti non sono
operatori autonomi che negoziano occasional- mente, ma soggetti legati da vincoli stabili e ben radicati, in dipendenza economica l’uno dal- l’altro (4). Il mercato di riferimento è quello del commercio integrato e lo strumento negoziale “tipico” è quello dei contratti distribuzione (5). La struttura del contratto traslativo, pertanto, è idonea a raffigurare solo una parte delle transazioni del mercato. La logica dello scambio istantaneo presuppone che le parti abbiano interessi contrap- posti e utilizzino il contratto come strumento di composizione e regolamentazione dei lori interessi. Tuttavia, laddove sia individuabile una relazione stabile tra imprese, queste potrebbero voler perse- guire uno scopo comune e usare il contratto come strumento di pianificazione della propria attività economica. La logica del puro scambio pare cedere il posto a quella associativa: il contratto non appare più solamente un veicolo di massimizzazione dell’u- tilità del singolo operatore, ma uno strumento per raggiungere il risultato economico comune a più contraenti.
I rapporti contrattuali tra imprese testimoniano il tramonto della società in cui i soggetti economici si obbligano reciprocamente secondo le regole proprie di etica individuale e denotano l’affermazione della cooperazione per scopi condivisi (6). Data la colla- borazione itinerante tra le imprese contraenti, una volta concluso il contratto associativo, non sarà più possibile scindere l’atto negoziale dall’attività che ne costituisce l’esecuzione, in quanto, per sua natura, destinato ad esplicare effetti per tutto il tempo di durata della “relazione sociale” (7).
L’affermazione della validità giuridica dei contratti a lungo termine è un’acquisizione piuttosto recente,
(2) X. Xxxxxxx, voce Vendita. 1) Profili generali, in Enc. giur., XXXII, Roma, 1994; X. X’Xxxxx, La disciplina della vendita come “tipogenerale” (elogio della differenziazione), in X. Xxxxxxx - M. N. Xxxxxxx (a cura di), Tradizione civilistica e complessità del sistema. Valutazione storiche e prospettive della parte generale del con- tratto, Milano, 2006, 429.
(3) Cfr. X. Xxxxxxx, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, 57, secondo il quale “è indiscutibile la distanza che separa tale concezione del contratto (relazionale) da quella tradizionalmente adottata nello studio dei rapporti patri- moniali tra i privati, che fa capo invece alla logica, prettamente civilistica, in cui s’inquadra la figura del negozio giuridico, quale strumento di disposizione della ricchezza, e del contratto, come negozio giuridico bilaterale, finalizzato, essenzialmente, a trasfe- rire reciprocamente la ricchezza: ciò che avviene per mezzo del contratto ad effetti reali che, grazie al consenso, trasferisce la ricchezza ovvero la proprietà di una cosa certa e determinata”.
(4) Sul concetto di “terzo contratto” quale strumento di disci- plina dei rapporti tra imprese (c.d. businesstobusiness), si veda X. Xxxxxx, Ilterzo contratto. Ilproblema, in X. Xxxxx - X. Xxxxx (a cura di), Il terzo contratto, Bologna, 2009, 10.
(5) Cfr. X. Xxxxxxx, Il commercio. Saggio di economia del diritto, Bologna, 1979, 117 ss., il quale pone a raffronto i ruoli degli operatori economici nei modelli del commercio indipendente e del commercio integrato, sottoponendo ad un’accurata analisi le molteplici forme d’integrazione che si sviluppano nella prassi dell’economia. Si veda anche X. Xxxxxxxxx, I contratti di distribu- zione, Napoli, 1979, spec. cap. 1, ove vengono esaminate le modalità organizzative del processo distributivo, considerato quale strumento di congiunzione tra l’industria e il commercio.
(6) X. Xxxxxxxx, Industriegesellschaft und Privatrechtsord- nung, Frankfurt a. M., 1974, trad. it., Diritto privato e società industriale, Napoli, 1983, 37, rileva, sebbene in una diversa pro- spettiva, che “i momenti eticamente più vivi dello sviluppo del diritto sociale, nel contratto di lavoro, nell’organizzazione azien- dale, nelle locazioni e nell’edilizia, ma soprattutto nei criteri di valutazione del moderno diritto delle obbligazioni, prevalevano senz’altro le funzioni di cooperazione per scopi utili a una libera associazione di molti, e insieme vari livelli di concentrazione dell’autonomia economica e sociale”.
(7) In questo senso, X. Xxxxx Xxxxx, I contratti associativi, Milano, 2001, 322.
specchio di un’evoluzione sociale, e poi giuridica, comune a diversi ordinamenti (8).
Ove sia necessario ripetere nel tempo, per esigenze imprenditoriali, la stessa operazione commerciale, non è agevole concludere tanti contratti quanti sono i casi in cui è necessaria quella prestazione, ma piuttosto addivenire ad un unico “affare”, suscet- tibile di subire variazioni per quanto concerne l’en- tità del dovuto e le modalità di adempimento.
Completato il processo di industrializzazione, tra fine Ottocento e inizio Novecento, gli ordina- menti giuridici prendono atto di tali esigenze imprenditoriali, esigenze che avrebbero potuto essere soddisfatte soltanto attraverso programmi negoziali a lungo termine, caratterizzati dalla fles- sibilità del regolamento d’interessi. Ne consegue il superamento della prevalenza della causa di scam- bio su quella di durata e, quindi, il riconosci- mento della validità delle prestazioni ripetute nel tempo, rispetto alle quali è meno visibile, almeno in via immediata, il nesso tra una pre- stazione e l’altra (9).
Con riferimento specifico all’Italia, il superamento della visione atomistica dello scambio e il progressivo riconoscimento delle specificità dei contratti di durata può individuarsi nel periodo compreso tra l’entrata in vigore del codice del commercio del 1882 e quella del codice unificato del 1942. Il muta- mento della sensibilità giuridica è rappresentato emblematicamente dal contratto di somministra- zione, che, distinguendosi dalla compravendita, diventa il modello negoziale tipico dei contratti d’impresa, a carattere continuativo e duraturo,
utilizzabile nel mercato delle materie prime, quanto in quello della distribuzione finale (10).
Il nucleo centrale del contratto di somministrazione era individuabile nella ripetizione delle prestazioni determinate in sede di stipulazione. In tale prospet- tiva, però, al contratto di durata non si conferiva ancora una propria autonoma rilevanza, poiché l’ele- mento temporale appariva solo come una modalità di adempimento delle prestazioni scambiate. Il con- tratto di somministrazione rientrava, nella classifica- zione del codice del commercio del 1882, nei cc.dd. atti obbiettivi di commercio e ricorreva solo laddove l’imprenditore avesse assunto la somministra- zione (11). Si guardava, pertanto, non alle peculiarità giuridiche del tipo negoziale, ma all’elemento empi- rico della reiterata fornitura da parte dell’impresa. Sembrava muoversi nuovamente intorno all’idea dello scambio, o meglio di tanti scambi ripetuti nel corso del rapporto contrattuale.
Siffatta impostazione era stata, del resto, resa esplicita in ambito europeo dal par. 984 dell’Allgemeines Lan- drecht prussiano (ALR) del 1794, secondo il quale ad ogni prestazione effettuata in esecuzione del con- tratto di somministrazione era applicata la disciplina della vendita (12).
Con l’entrata in vigore del codice del 1942, la som- ministrazione è stata “autonomizzata” dalla compra- vendita, qualificata normativamente quale fattispecie contrattuale con causa di durata, e non di scambio, avente ad oggetto obbligazioni ad esecu- zione continuata o periodica (art. 1559 c.c.) (13). La durata è indice delle necessità del somministrato, il cui bisogno influenza l’organizzazione della
(8) Per un’analisi storico-comparativa della disciplina del con- tratto di somministrazione nei sistemi di common law di fine Ottocento, si veda X. Xxxxxxxxxx, voce Somministrazione (Con- tratto di), in Dig. it., XXII, 1, Torino, 1899, 22 ss.
(9) Per un esame approfondito, in chiave storico-comparati- stica, sull’evoluzione dei contratti di durata, con particolare riferi- mento all’Italia e agli Stati Uniti d’America, si veda X. Xxxxxxxx, Il tempo e il contratto. Itinerario storico-comparativo sui contratti di durata, Milano, 2007, 90 ss.
(10) X. Xxxxx, La somministrazione, in X. Xxxxxxx (a cura di), Contratti commerciali, in Tratt. dir. comm. Xxxxxxx, XVI, Padova, 1991, 237 ss. segnala come, in Italia, la nozione tecnico-econo- mica di “contratto volto al soddisfacimento di bisogni futuri (e caratterizzato, pertanto, da prestazioni reiterate e durature)” è più risalente rispetto alla nascita giuridica del contratto di sommini- strazione. Sulla somministrazione quale contratto la cui struttura si incentra sull’elemento temporale, in qualità di tratto distintivo e aspetto funzionale della fattispecie negoziale, si veda C. Xxxxxxx- xxxxx, La permuta. Il contratto estimatorio. La somministrazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da X. Xxxx - X. Xxxxxxxx, XXIV, t. 1, Milano, 1960, 257. Rispetto ai contratti di distribuzione, cfr. X. Xxxxxxxxx, I contratti di distribuzione, cit., 237 ss.
(11) Art. 3, n. 6, c. comm. 1882: “La legge reputa atti di commercio: [...] le imprese di somministrazioni”.
(12) X. Xxxxx, Il contratto di somministrazione, Cagliari, 1914, 36 ss. Si veda anche X. Xxxxxxx, Del contratto estimatorio. Della somministrazione, in Commentario Sciajola e Branca, Bologna- Roma, 1970, 77, il quale segnala che l’ordinamento germanico fu il primo in Europa a prevedere normativamente il contratto fornitura in una legge bavarese del 1747 in materia di birra.
(13) Si veda X. Xxxxxxxx, Il tempo e il contratto, cit., 106 ss., il quale rileva come “il passaggio definitivo dell’evoluzione (peraltro inimmaginabile ai tempi in cui veniva teorizzata l’autonomia della fattispecie) è quello del nuovo codice, sebbene la soluzione a noi pervenuta sia anche in parte frutto di coincidenze. Nei progetti codice D’Amelio del 1925 (art. 348) e Vivante del 1922 (art. 454), la somministrazione è ancora un sottotipo della vendita e, dunque, ancora legata all’idea di scambio più o meno istantaneo; ciò conferma la difficoltà che, ancora di recente, il diritto dei contratti ha affrontato nel riconoscere una dimensione diacronica dell’isti- tuto contrattuale. La distinzione tra somministrazione e vendita si rinviene soltanto a partire dal progetto di codice del commercio del 1941, all’interno del quale la somministrazione è configurata come prestazione periodica o continuata. Siffatta soluzione sarebbe poi prevalsa in sede di fusione del codice del commercio in quello civile, nel quale risulterà risolta anche la vexata quaestio della riconduzione della fornitura di servizi alla somministrazione. Non senza ulteriori difficoltà sistematiche, la prestazione periodica o continuativa di servizi a mente dell’art. 1677 c.c., diviene l’oggetto