Corso di Laurea in Economia e gestione delle aziende
Corso di Laurea in Economia e gestione delle aziende
Tesi di Laurea
Il contratto di lavoro subordinato e il caso del lavoro intermittente
Relatore
Ch. Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxx
Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx 839123
Anno Accademico
2016 / 2017
IL CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO E IL CASO DEL LAVORO INTERMITTENTE
Introduzione p. 1
CAPITOLO 1. Il lavoro subordinato. 3
1. 1. Il lavoro subordinato: fonti normative ed elementi di qualificazione
del contratto. 3
1.2. I caratteri del lavoro subordinato e il concetto di subordinazione 6
1.3. Gli indici della subordinazione nell’elaborazione giurisprudenziale 9
1.4. Crisi del concetto di subordinazione. Emersione del lavoro autonomo coordinato e continuativo ed il difficile inquadramento sistematico del
lavoro a progetto prima e dopo la riforma del mercato del lavoro 10
CAPITOLO 2. Il contratto di lavoro intermittente 13
2.1. Definizione del contratto di lavoro intermittente 13
2.2. Ipotesi ammissibili di ricorso al lavoro intermittente 21
2.3. Divieti di utilizzazione del contratto di lavoro intermittente 26
2.4. Il principio di non discriminazione e condizione del lavoratore in attesa
di chiamata 32
2.5. Computo del lavoratore intermittente 36
2.6. Natura subordinata o autonoma del lavoro intermittente 38
CAPITOLO 3. Il lavoro intermittente dopo il jobs act 41
3.1. La ratio del Jobs Act 41
3.2 La definizione legale e le tipologie 44
3.3 L’obbligo di chiamata e l’indennità di disponibilità 46
3.4. I presupposti di ammissibilità, i divieti di utilizzo e il regime sanzionatorio 49
3.4.1. I presupposti di ammissibilità 49
3.4.2. I divieti di utilizzo 54
3.4.3. Il regime sanzionatorio 56
3.5. I requisiti di forma e gli obblighi di comunicazione 58
3.6. Il trattamento economico e normativo del lavoratore intermittente 60
3.5. Usi e abusi del lavoro intermittente 62
CONCLUSIONI 65
Bibliografia. 67
INTRODUZIONE
Alla base di questo studio vi è l’analisi del lavoro subordinato, con un particolare focus su una tipologia di lavoro che storicamente ha sempre fatto discutere, il lavoro intermittente.
La motivazione che mi ha spinto ad approfondire tale tema è l’interesse per lo studio del marcato del lavoro, ed in particolare la sua evoluzione nel tempo. Nell’arco di qualche decennio lo scenario viene infatti modificato e i contesti impongono ai Legislatori di adattare le leggi a tali cambiamenti.
L’obiettivo di questa tesi è di vedere in che modo il lavoro intermittente si inserisce nella questione dei confini tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e contestualizzare tale analisi con le ultime disposizioni del Jobs Act riguardo tale fattispecie contrattuale.
La tesi è articolata in tre capitoli. Nel primo troviamo un inquadramento generale del lavoro subordinato con particolare attenzione al problema della distinzione tra lavoro subordinato e autonomo. Sempre in questa prima parte vediamo anche come storicamente sono emerse forme alternative che coprono quella zona grigia che si ha tra subordinazione e autonomia.
Nel secondo capitolo si procede con la definizione di lavoro intermittente, andando ad analizzare le situazioni in cui viceversa è vietato il ricorso a tale tipologia di lavoro.
Nel terzo capitolo si analizza in che modo l’ultima riforma del mercato del lavoro ha regolamentato tale tipologia contrattuale e come si cerca di contrastare il lavoro in nero e gli abusi di tale forma di lavoro, radicalmente differente dal lavoro subordinato in termini di tutele.
CAPITOLO 1
Il lavoro subordinato
1.1 Il lavoro subordinato: fonti normative ed elementi di qualificazione del contratto
Il Codice Civile non indica espressamente quale sia la fonte del rapporto di lavoro subordinato. Per questa ragione la giurisprudenza e buona parte della Dottrina (Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Ghiera, Xx Xxxx, Xxxxxx) sostengono che la fonte del lavoro subordinato sia il contratto individuale di lavoro. Risulta quindi necessario, per la costituzione del rapporto, formalizzare la volontà delle parti tramite il contratto. Le parti, datore e prestatore di lavoro, tramite il contratto si impegnano in uno scambio di remunerazione e prestazione di lavoro.
Prima di trattare le caratteristiche del contratto di lavoro risulta importante ricordare che c’è una parte, seppur marginale, della Dottrina che mette in discussione la natura contrattualistica del lavoro subordinato e dà peso al fatto che il legislatore non definisce espressamente la fonte del rapporto. Da questo filone di pensiero nascono due teorie contrattualistiche:
-teoria istituzionalistica comunitaria. Essa afferma che il rapporto di lavoro si considera costituito col solo inserimento del lavoratore nel luogo di lavoro;
-teoria della prestazione di fatto. Questa teoria, basata sull’articolo 2126 del c.c., afferma che, in virtù del fatto che nullità o annullamento del contratto non producono effetti per il periodo in cui l’esecuzione ha avuto luogo, la base del rapporto non sia il contratto bensì la prestazione di fatto.
Dando peso alla maggioranza della Dottrina, che sostiene che la fonte del lavoro subordinato sia il contratto, andiamo ora a vedere quali sono i requisiti essenziali del contratto.
Il più importante tra i requisiti del contratto è la volontà. Questa è la conseguenza di un accordo tra le parti, datore e prestatore di lavoro. Tale accordo deve essere privo
di vizi. Un caso di vizio in cui si può incorrere è la simulazione. Questa può essere di due tipi:
-assoluta; si ha quando le parti fingono l’esistenza di un contratto anche se non intendono dar luogo ad alcun rapporto di lavoro;
-relativa; si ha quando il contratto stipulato dalle parti è diverso dal contratto che avrebbero dovuto stipulare in virtù del rapporto che realmente intercorre tra di loro. Il caso più frequente si ha in presenza di un contratto di lavoro autonomo quando in realtà tra le parti c’è un rapporto di lavoro subordinato.
Entrambi i casi sono regolati dall’articolo 1414 del c.c.1. Altri vizi riguardanti la volontà possono essere:
-violenza; si ha quando l’assunzione è avvenuta coattivamente, ad esempio con minacce. Il Codice Civile a riguardo afferma che: “la violenza è causa di annullamento del contratto, anche se esercitata da un terzo”2.
-dolo; può avvenire o per affermazioni false o per omissioni. In presenza di dolo il contratto è annullabile “quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contratto”3.
Altro elemento essenziale del contratto è la forma. A riguardo vige il principio della “libertà della forma”4. Ci sono comunque delle eccezioni:
-contratto di arruolamento marittimo, per tale contratto è previsto l’atto pubblico5
-contratto di lavoro parziale6, lavoro intermittente7 e lavoro ripartito8
-contratto di inserimento9
-contratto di apprendistato10
-contratto di formazione e lavoro11
-contratto di lavoro a progetto12
1 Articolo 1414 del c.c.: “Il contratto simulato non produce effetti tra le parti. Se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purchè ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma”.
2 Articolo 1434 del c.c.
3 Articolo 1439 del c.c.
4 X. Xxxxx, Diritto del lavoro, Bari, Cacucci editore,2011.
5 Art. 328, cod. nautico.
6 Art. 2, co. 1, D. Lgs. n. 61/2000.
7 Art. 35, co. 1, D. Lgs. n. 276/2003
8 Art. 42, co. 1, D. Lgs. n. 276/2003
9 Art. 56, co. 1, D. Lgs. n. 276/2003
10 Art. 48, co. 3, lett. a e art. 49, co. 4, lett. a, D. Lgs. n. 276/2003.
11 Art. 8, co. 7, L. n. 407/1990.
12 Art. 62, D. Lgs. n. 276/2003.
-contratto di somministrazione13.
Per i contratti di lavoro parziale, intermittente e ripartito la forma scritta è necessaria ai fini probatori, in caso di mancanza non è pregiudicata l’esistenza del rapporto.
Per quanto riguarda i contratti di inserimento, apprendistato, formazione, a progetto e somministrazione la forma scritta è invece necessaria, pena la nullità. In caso di nullità del contratto si applica l’art. 2126 del c.c. secondo il quale: “Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”14.
C’è una tendenza ad applicare la forma scritta, pena la nullità del contratto, per i patti particolari o gli elementi accidentali del contratto che possono essere lesivi per il lavoratore15.
La forma scritta in realtà è utilizzata spesso anche nei casi in cui non è obbligatoria in quanto, attraverso la consegna di una copia del contratto individuale di lavoro agli uffici pubblici competenti, il datore di lavoro adempie all’obbligo di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto di lavoro16.
Tra gli elementi essenziali del contratto di lavoro c’è anche la causa. Questa, come si evince dal codice civile, consiste nello scambio tra lavoro e retribuzione17.
L’oggetto, elemento anch’esso essenziale del contratto di lavoro, è costituito dalla prestazione di lavoro e dalla retribuzione. Per tutti i contratti, e quindi anche per i contratti di lavoro, l’oggetto deve avere dei requisiti, necessari per tutta la durata del contratto. Il Codice Civile a tal proposito afferma che: “L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”18.
Per “possibilità della prestazione” si intende ciò che il lavoratore è tenuto a fare su richiesta del datore di lavoro. Non sono ammesse attività che risultino irrealizzabili (sul piano dello sforzo richiesto al lavoratore) o non possibili giuridicamente19.
L’oggetto del contratto deve risultare anche lecito. Con “liceità” si intende che non deve essere contrario alle norme imperative, di ordine pubblico e di buon costume.
Infine per “determinato o determinabile” ci si riferisce alle mansioni che il lavoratore è tenuto a svolgere, che devono essere chiare. Di norma il contenuto delle prestazioni
13 Art. 21, D. Lgs. n. 276/2003.
14 Art. 2126 del c.c.
15 X. Xxxxx, Diritto del lavoro, Bari, Cacucci editore,2011.
16 Art. 1, D. Lgs. 152/1997.
17 Art. 2094 del c.c.
18 Art. 1346 del c.c.
19 X. Xxxxxxxxxxxx, Manuale di diritto del lavoro, Napoli, Jovene editore, 2005, p. 80.
viene determinato e formalizzato nel momento dell’assunzione. La mancanza di uno di questi tre requisiti è considerata causa di nullità del contratto20.
Infine oltre ai requisiti essenziali nel contratto possiamo anche trovare elementi accidentali. Questi non sono essenziali per la creazione di un contratto ma se vengono inseriti diventano parte integrante della struttura e costituiscono elementi essenziali per la validità del contratto stesso.
Gli elementi accidentali possono essere di vario tipo ma i più frequenti sono:
-la condizione, si riferisce a un evento incerto che potrebbe verificarsi in futuro. Può essere di tipo sospensivo, il classico esempio è il patto di prova, al termine del quale il contratto diventa effettivo qualora il lavoratore risulti idoneo; o di tipo risolutivo, quando si ha l’estinzione del contratto al verificarsi di un determinato evento. Il verificarsi di un evento che fa cessare il rapporto comunque non ha valore retroattivo e quindi non ha “effetti riguardo le prestazioni già eseguite”21.
-il termine fa parte degli elementi accidentali in quanto il contratto di lavoro normalmente è a tempo indeterminato. Tuttavia negli ultimi anni si è messo in discussione il fatto che “il contratto a tempo indeterminato rappresenti ancora la forma comune dei rapporti di lavoro”22.
1.2 I caratteri del lavoro subordinato e il concetto di subordinazione
Il Codice Civile del 1865 trattava la “locazione delle opere” all’interno della quale facevano parte sia la “locatio operarum”, ossia il lavoro subordinato, sia la “locatio operis”, ossia il lavoro autonomo. L’articolo 1570 definiva la locazione delle opere come “il contratto per cui una delle parti si obbligava a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercade”23. L’articolo 1627 affermava invece che: ”vi sono tre principali specie di locazione di opere e d’industria: quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio; quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che s’incaricano del trasporto delle persone o delle cose; quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo”24. Da quanto scritto in questi due articoli emerge che il rapporto di lavoro subordinato non era minimamente trattato con chiarezza. Infine l’articolo 1628 vietava
20 Art. 1418 del c.c.
21 Art. 1360 del c.c.
22 X. Xxxxx Xxxxxx e X. Xxxxx, Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, Cedam, 2016.
23 X. Xxxxx, Diritto del lavoro, Bari, Xxxxxxx editore,2011, p. 40.
24 X. Xxxxx, Diritto del lavoro, Bari, Xxxxxxx editore,2011, p. 41.
addirittura il carattere indeterminato del contratto. Lo scarso rilievo dato al rapporto di lavoro subordinato non era giustificato dallo scarso ricorso a tale forma di lavoro, viceversa era frequentemente utilizzato.
Andiamo ora a vedere come è stato affrontato il discorso della subordinazione nell’attuale Codice Civile, scritto nel 1942.
Il concetto di lavoro subordinato non viene descritto e definito esplicitamente nel Codice Civile. Questo infatti si limita a dare una definizione di una delle parti che questa tipologia di lavoro prevede: il prestatore di lavoro.
L’articolo 2094 c.c. infatti afferma che: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore“.
La mancanza di una definizione specifica del lavoro subordinato, nonostante si possa inquadrare e dedurre dalla definizione di prestatore di lavoro, fa nascere non pochi problemi.
L’articolo 2094 c.c., con una definizione abbastanza snella, indica gli elementi fondamentali del contratto di lavoro subordinato che sono:
-l’obbligazione mediante retribuzione
-la collaborazione nell’impresa
-un lavoro manuale o intellettuale
-l’eterodirezione.
Il primo e il secondo punto affermano che il lavoratore svolge l’attività lavorativa e per questo ha diritto a una retribuzione. È chiaro come queste due caratteristiche siano comuni a molte tipologie di lavoro non subordinato.
Il terzo punto dice che il lavoro in questione può essere manuale o intellettuale. Tale affermazione ancora più delle altre risulta insufficiente, nel pratico, a definire e delimitare il campo d’azione del lavoro subordinato.
Infine, l’ultimo punto stringe un po’ il cerchio intorno al problema. L’eterodirezione prevede che l’esecuzione della prestazione sia:
-alla dipendenza
-sotto la direzione dell’imprenditore.
Queste due caratteristiche rimangono comunque facilmente opinabili in quanto da un lato ci sono casi in cui tali caratteristiche vengono meno nonostante si tratti chiaramente di lavoro subordinato, dall’altra le direttive sono presenti anche in rapporti di lavoro non di natura subordinata.
Prendiamo ad esempio categorie di lavoratori subordinati come i dirigenti. Questi hanno compiti e ruoli caratterizzati proprio dall’autonomia e dal potere decisionale. Lo stesso discorso vale anche per tutti quei lavoratori i cui compiti sono caratterizzati da mansioni altamente specialistiche e che per tale natura difficilmente sottostanno alle direttive del datore di lavoro che, presumibilmente, non è in possesso delle conoscenze tecniche per gestirle e quindi lascia autonomia al lavoratore specializzato. Un altro esempio più attuale è costituito dal telelavoro. La legge 877/1973 afferma che: “E' lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilita', anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o piu' imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie e dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi. La subordinazione, agli effetti della presente legge e in deroga a quanto stabilito dall'articolo 2094 del codice civile, ricorre quando il lavoratore a domicilio e' tenuto ad osservare le direttive dell'imprenditore circa le modalita' di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell'intera lavorazione di prodotti oggetto dell'attivita' dell'imprenditore committente. Non e' lavoratore a domicilio e deve a tutti gli effetti considerarsi dipendente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato chiunque esegue, nelle condizioni di cui ai commi precedenti, lavori in locali di pertinenza dello stesso imprenditore, anche se per l'uso di tali locali e dei mezzi di lavoro in esso esistenti corrisponde al datore di lavoro un compenso di qualsiasi natura“. Questa tipologia di lavoro subordinato evidenzia come il venir meno di un continuativo potere direttivo del datore di lavoro non metta in discussione la natura subordinata del rapporto stesso. Lo Smart Working è sempre più diffuso, nel 2016 i soli lavoratori subordinati coinvolti erano circa il 7% del totale impiegati, quadri e dirigenti. Viceversa ci sono lavoratori non subordinati che ricevono direttive o indicazioni riguardo lo svolgimento del lavoro. Il contratto d’opera e il contratto d’appalto sono due esempi di rapporti di lavoro la cui natura non è subordinata ma in cui il committente può impartire direttive che nel caso dell’appalto arrivano anche alla nomina di un direttore dei lavori. Anche la Cassazione si è pronunciato in merito con una sentenza che afferma: “Anche ai lavoratori autonomi, ai soci di fatto o agli associati in partecipazione possono essere impartite (dai datori di lavoro o dai consociati) direttive o indicazioni in ordine allo svolgimento del lavoro senza che, per ciò solo, possa ritenersi inequivocabilmente provata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato,
caratterizzato invece da un più pregnante vincolo di natura personale”.25
1.3 Gli indici della subordinazione nell’elaborazione giurisprudenziale
L’art. 2094 c.c., pur rimanendo la base per una definizione generale di subordinazione, è risultato insufficiente sul lato pratico in taluni casi, agli occhi della Giurisprudenza. Quest’ultima ha individuato svariati indici che possono essere d’aiuto nel determinare la natura subordinata piuttosto che autonoma di un rapporto di lavoro. Tra questi, quelli ai quali si ricorre più frequentemente sono:
-l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione
-la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare dell’imprenditore
-l’esclusività della dipendenza da un solo lavoratore
-la retribuzione, generalmente a tempo e indipendente dal risultato. Nella maggior parte dei casi a cadenza mensile, nel caso del lavoro autonomo invece viene elargita per lo più a lavoro finito, salvo preacconti
-il vincolo dell’orario di lavoro
-l’assenza di xxxxxxx00. Xxxxxx e spese di gestione, tendenzialmente vertono sul datore di lavoro, anche se non in tutti i casi o in maniera del tutto determinante.
Tali indici, il cui ricorso dà vita al c.d. “metodo tipologico”27, presi singolarmente non hanno alcun valore decisivo, ma comunque hanno una valenza indiziaria. Questi pur avendo rilievo solo secondariamente rispetto all’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e di controllo, vanno ad assumere un rilievo importante in quelle situazioni grigie, a colmare dei vuoti che l’art. 2094 del c.c. crea per la poca specificità che lo caratterizza. A tal proposito la Suprema Corte ha dichiarato: “l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione,
25 Cass., sentenza 13 Dicembre 2010 n. 25150.
26 X. Xxxxxxx, X. Xx Xxxx Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxx, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, Xxxx Xxxxxxxxx, 2016, p. 41.
27 X. Xxxxxxxxxxxx, Manuale di diritto del lavoro, Napoli, Jovene editore, 2005, p. 89.
l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva”28.
Il metodo tipologico si discosta dal metodo sussuntivo in quanto procede con un giudizio di approssimazione e non di identità. Cercare una coincidenza sul piano astratto e sul piano concreto non sarebbe possibile, per questo la giurisprudenza risolve il problema analizzando il numero di indici che rispecchiano il caso specifico e l’importanza che questi hanno, se rappresentano la maggioranza o se risultano sufficienti per far rientrare l’estrinsecazioni di un rapporto nella subordinazione, mai però cercando la totalità. Il metodo tipologico consiste quindi nel vedere e analizzare la presenza degl’indici e vedere in che combinazione questi sono presenti. Tale valutazione lascia dei margini di discrezionalità al giudice. Da qui nasce il fenomeno chiamato “espansione del diritto del lavoro subordinato”29. Con ciò si intende la tendenza a far rientrare, in seguito a una valutazione degli indici, sotto l’area della subordinazione i rapporti di lavoro la cui qualificazione risulta particolarmente ardua. Tale tendenza si è manifestata a lungo per un motivo, far conquistare le tutele derivanti dalla subordinazione anche a quei rapporti che si discostano dal classico modello di lavoro subordinato.
1.4 Crisi del concetto di subordinazione. Emersione del lavoro autonomo coordinato e continuativo ed il difficile inquadramento sistematico del lavoro a progetto
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti ci sono casi in cui definire un rapporto di lavoro come subordinato piuttosto che come autonomo è compito assai arduo. Prendiamo in esame il caso di un rapporto di lavoro che è caratterizzato dalla collaborazione nell’attività produttiva, in forma autonoma con natura prevalentemente personale della prestazione, la quale avviene in maniera continuativa e coordinata. Dottrina e Giurisprudenza sono solite inquadrare tale rapporto di lavoro nella c.d. parasubordinazione. Il primo riconoscimento giuridico che hanno avuto tali rapporti di lavoro è avvenuto con la legge 533/1973, proprio in questa troviamo la denominazione di Xx.Xx.Xx. (collaborazioni coordinate e continuative). Gli elementi che caratterizzavano le Xx.Xx.Xx. sono:
-continuità
-coordinamento con l’attività economica del committente
28 Cass., 23 gennaio 2009, n. 1717.
29 X. Xxxxxxx, X. Xx Xxxx Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxx, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, Xxxx Xxxxxxxxx, 2016, p. 44.
-prevalenza della personalità della prestazione sul capitale ed eventuale personale ausiliario. La differenza più evidente rispetto al lavoro subordinato è la mancanza di potere direttivo e coordinativo del committente. Alcune norme di tutela tipiche dei rapporti subordinati sono state estese anche alle collaborazioni, in particolare l’art. 2113 del c.c. in merito a rinunzie e transazioni, l’art 429 c.p.c. che obbliga il datore di lavoro a risarcire i crediti che ha nei confronti del prestatore di lavoro, risarcendo il danno da svalutazione economica e gli interessi nella misura legale. In ottica previdenziale con la L. 335/1995 l’INPS opera una gestione separata per garantire anche a questi lavoratori alcune prestazioni quali ad esempio pensioni d’invalidità, vecchiaia, superstiti, assegno per nucleo famigliare, maternità e paternità, indennità di malattia. Con il D. Lgs. 38/2000 copre anche i lavoratori subordinati l’Assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.
Le agevolazioni per il datore di lavoro avevano fatto si che le Xx.Xx.Xx. si fossero diffuse anche con collaborazioni fittizie, come alternativa ai contratti di lavoro subordinato. Per contrastare tale tendenza il D. Lgs. 276/2003 ha introdotto la formula del lavoro a progetto come alternativa alle Xx.Xx.Xx.. I rapporti di collaborazione continuativa e coordinata per essere stipulati dovevano avere come oggetto uno o più progetti specifici, determinati dal committente e svolti dal prestatore di lavoro. Il progetto doveva avere un risultato finale da raggiungere. La descrizione delle caratteristiche di tale progetto diventavano quindi parte integrante del contratto di lavoro. Il D. Lgs. 276/2003 prevedeva che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa “dovevano essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”30. Sempre l’art. 61 del suddetto decreto afferma che sono escluse dall’ambito di applicazione le prestazioni occasionali, ossia i rapporti aventi durata per lo stesso committente inferiore a 30 giorni nell’arco dell’anno solare salvo che il compenso percepito non superi 5000€. Sono inoltre esclusi i collaboratori le cui professioni prevedano l’iscrizione ad albi professionali, nonché le attività svolte a favore di associazioni o società sportive dilettantistiche e agli enti riconosciuti dal CONI. Riguardo la forma, secondo l’art 62 del D. Lgs. 276/2003, questa deve essere scritta e ai fini probatori deve contenere indicazioni riguardo a)la durata, determinata o determinabile, della prestazione b)il progetto, o le fasi che lo compongono, c)il compenso e le modalità attraverso
30 “Lavoro intermittente”, xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, Edizioni Xxxxxx, 21/01/2016.
cui viene determinato e elargito, d)le forme di coordinamento del lavoratore, e)le disposizioni riguardo la tutela della salute e la sicurezza del collaboratore.
Salvo diversi accordi tra le parti il collaboratore può prestare il proprio lavoro per più committenti, salvo che tali attività non risultino in concorrenza tra loro. L’art 66 del medesimo decreto tratta invece gli altri diritti spettanti al collaboratore. In particolare afferma che gravidanza, malattia e infortunio non comportano l’estinzione del rapporto ma solo la sospensione. In caso di malattia o infortunio il committente può recedere qualora il periodo di sospensione superi un sesto della durata complessiva del rapporto. In caso di gravidanza invece la durata del rapporto è prorogata almeno di 180 giorni.
L’art. 69, infine, prevede che collaborazioni coordinate e continuative prive di uno specifico progetto si trasformino in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato a partire dalla data in cui il rapporto si è costituito.
Con il D. Lgs. 81/2015 le collaborazioni coordinate e continuative possono essere stipulate senza l’obbligo di determinare un progetto. Il Jobs Act vede infatti le collaborazioni regolamentate dal D. Lgs. 276/2003 come “la normale via di fuga dalla subordinazione”31. Se da un lato c’è un ritorno alla disciplina precedente il D. Lgs. 276/2003, dall’altro si applica la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni caratterizzate da prestazioni esclusivamente personali, continuative e i cui tempi e luoghi siano stabiliti dal committente. L’art. 2 del D. Lgs. 81/2015 afferma infatti che se le “modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro si applica la disciplina del lavoro subordinato”32.
Il Jobs Act, con l’intento di eliminare le numerose tipologie contrattuali diverse da quelle di lavoro subordinato e di lavoro autonomo, prevede il c.d. “condono”33. Questo consiste nell’estinzione di illeciti amministrativi, contributivi e fiscali per quei datori che assumono prestatori di lavoro parasubordinato (anche a progetto) con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
31 X. Xxxxx Xxxxxx e X. Xxxxx, Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, Cedam, 2016, p. 584.
32 Art.2, 1° comma D. Lgs. 81/2015
33 X. Xxxxxxx, X. Xx Xxxx Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxx, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, Xxxx Xxxxxxxxx, 2016, p. 64.
CAPITOLO 2
Il contratto di lavoro intermittente
2.1. Definizione del contratto di lavoro intermittente
2.1.1. La nozione e l’evoluzione normativa
La seconda sezione del lavoro si propone di analizzare la configurazione dell’istituto del lavoro intermittente prima del Jobs Act. L’obiettivo è quello di individuare le sue caratteristiche e la disciplina tra il 2003 e il 2015, allo scopo di evidenziare le novità introdotte dal D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81.
Il lavoro intermittente o a chiamata (job on call) è un particolare tipo di contratto attraverso il quale il lavoratore assicura la propria disponibilità a lavorare se e quando il datore di lavoro lo chiamerà.
Tradizionalmente, nell’ambito del diritto del lavoro europeo, vi sono tre tipologie di lavoro intermittente: la prima nella quale il lavoratore è libero di accettare o meno la chiamata del lavoratore; la seconda nella quale il lavoratore si obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro; la terza nella quale il lavoratore si impegna a lavorare durante periodi di tempo predeterminati coincidenti con i periodi di vacanza o i fine settimana. Quest’ultima forma di lavoro a chiamata è utilizzata nel settore del commercio e nella ristorazione per far fronte a periodi di sovraccarico di lavoro, oppure nell’industria per coprire turni lavorativi durante i periodi festivi o i fine settimana34. Nel Libro bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001 si indicava il lavoro intermittente «non tanto come sottospecie del part time, quanto come ideale sviluppo del lavoro temporaneo tramite agenzia». L’elemento fondamentale del rapporto è, quindi, la disponibilità del soggetto lavoratore a rispondere alla chiamata e a rendere la prestazione contrattuale35. Nel contesto italiano il lavoro a chiamata è stato presente
34 X. Xxxxxxx (a cura di), I contratti flessibili: lavoro part-time e lavoro intermittente, Milano, Xxxxxxx, 2016.
35 X. Xxxxxxxxxx, Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Milano, Xxxxxxx, 2016, p. 76.
nella prassi informale di alcuni settori produttivi ed è stato introdotto, anche se come variante del part-time, in alcuni contratti collettivi36.
La disciplina del lavoro intermittente ha conosciuto un’evoluzione particolarmente complessa. Introdotta in Italia dalla Legge Biagi (D. Lgs. n. 276/2003), questa forma di contratto di lavoro è stata abrogata (con esclusione dei contratti in essere) dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247, recante “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”37. Un autore ricorda come questa fattispecie «sia stata molto contrastata per il particolare stato di precarietà che determina e per questo motivo ha subito diverse modifiche a seconda della colorazione politica dei Governi che si sono succeduti»38.
La legge n. 247/2007, che ha recepito le indicazioni delle parti sociali, aveva, delegato però alla contrattazione collettiva il potere, per evitare forme di lavoro irregolare o sommerso e limitatamente ai settori dello spettacolo e del turismo, di introdurre la possibilità di instaurare «specifici rapporti di lavoro finalizzati a sopperire a esigenze di utilizzo di personale per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo»39. A meno di un anno, il d.l. 25 giugno 2008, n. 11240, ha ripristinato il lavoro a chiamata, come era stato modificato nel 200541. Tra il 2011 e il 2012 un disegno di legge presentato dal Governo stabiliva che il job on call dovesse essere «sottratto di nuovo a un regime di regolamentazione legale per essere eventualmente disciplinato
36 Cfr. X. Xxxxx, L’Accordo Xxxxxxx e il «lavoro a chiamata», in Guida lav., 2000, pp. 56 ss.; X. Xxx Xxxxx, Riforma Biagi: il contratto di lavoro intermittente, in Guida lav., 2004, p. 12, che ricorda come sia fallito sul nascere il tentativo, compiuto nel 2000, di introdurre per via contrattuale questo istituto con l’Accordo tra Electrolux-Zanussi e parti sociali. Cfr. X. Xxxx, Contratto di lavoro intermittente e subordinazione, in Riv. it. dir. lav., 2005,1, p. 116.
37 X Xxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxx (a cura di), I nuovi contratti di lavoro,
Rimini, Maggioli, 2012, p. 31.
38 X. Xxxxxxx, Diritto dei contratti di lavoro, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 346; X. Xxxxxxx, Le innovazioni in materia dì lavoro a tempo parziale e di lavoro intermittente, in Lav. dir., 2008, pp. 475 ss.; D. Papa, Somministrazione a tempo indeterminato e lavoro intermittente, in Guida lav., 2008, pp. 124 ss.
39 Art. 1, comma 47, legge n. 247 del 2007.
40 X. Xxxxxxxx, Il ritorno del lavoro a chiamata, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Lavoro, competitività, welfare, voi. II, Dal dd. n. 112/2008 alla riforma del lavoro pubblico, Torino, Utet, 2009, pp. 87 ss.; X. Xxxxxxx, Il lavoro a chiamata, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, P.A. Vatesi (a cura di), Previdenza, mercato del lavoro e competitività, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2008, pp. 384 ss.
41 Un autore ha rilevato che «la reintroduzione del lavoro a chiamata è indice della volontà del legislatore di puntare ancora un volta su un istituto, che, per quanto “di nicchia”, del mercato del lavoro, viene ancora ritenuto in grado di coniugare flessibilità delle imprese ed esigenze di alcune categorie di lavoratori nonché di contribuire alla lotta al lavoro sommerso o irregolare»:
X. Xxxxxxx, Diritto dei contratti di lavoro, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 356.
dall’autonomia collettiva»42. L’abrogazione dell’istituto, del resto, era giustificata dai dati statistici sul lavoro intermittente. Le statistiche dimostravano infatti che il lavoro intermittente aveva avuto una modesta diffusione, sia per quantità di contratti sottoscritti, sia per numero complessivo di ore lavorate. Inoltre, era stato fatto ricorso a questo istituto essenzialmente per l’acquisizione di prestazioni lavorative caratterizzate da bassa qualificazione professionale43, in determinati settori produttivi, come il turismo e il commercio, per l’utilizzazione di prestazioni lavorative inquadrate nella categoria operaia44. Questo contratto, quindi che avrebbe dovuto contribuire a perseguire l’obiettivo di aumentare l’occupazione, anche attraverso l’emersione del lavoro irregolare45, oltre a permettere maggiori opportunità di lavoro a determinati soggetti deboli, alla prova dei fatti non ha corrisposto alle aspettative.
Se il disegno di legge del governo non è stato approvato dal Parlamento, la legge
n. 92 del 2012, ha limitato i casi di ricorso a tale tipologia contrattuale, introducendo alcune modifiche che hanno inciso in modo significativo sull’ambito di operatività
42 X. Xxxxxxxxxx, Il lavoro intermittente, in X. Xxxxxxxxxx, I. Xxxxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di),
Rapporto di lavoro e ammortizzatori sociali, Roma, Ediesse, 2012, p. 86.
00 X. Xxxxx, Xx lavoro intermittente: un’opportunità nelle Information communication technology?,
in X.X Xxxxx «Xxxxxxx X’Xxxxxx», 2005, n. 31, p. 14.
44 ) Istat, L’utilizzo del lavoro a chiamata da parte delle imprese italiane. Anni 2006-2009, in xxx.xxxxx.xx, 2010; P. Xxxxxx, R Xxxxxxxxxx, Il lavoro intermittente, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx (a cura di), Le nuove leggi civili. La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, recante disposizioni in materia dì riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, Milano, Xxxxxxx,2012, pp. 146 ss. L’Istat ha rilevato, in particolare, che tra il 2006 al 2009, in base alle posizioni previdenziali Inps, si è registrata una progressiva crescita dei contratti, interrotta temporaneamente nel 2007. In particolare, nel 2009 risultavano essere stati conclusi 140.000 contratti, tra i quali la componente a tempo indeterminato era maggioritaria, con un aumento del 75%. Particolarmente interessante era la rilevazione secondo cui soltanto 1’1 % percepiva l’indennità di disponibilità. Per quanto riguardava i settori di diffusione, l’Istat ha rilevato che il 62,4% era impiegato nel settore alberghi e ristoranti; il 12% nella sanità e servizi sociali; il 9% nel commercio; quasi il 6% nell’industria. Il 90% degli assunti con contratto di lavoro intermittente, inoltre, ricopriva la qualifica di operaio. Il numero delle ore lavorate, infine, era mediamente di 30 mensili.
45 X. Xxxx, Contratto di lavoro intermittente e subordinazione, in Riv. it. dir. lav., 2005, 1; X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente o «a chiamata»: natura giuridica e tecniche regolative, in Dir. rel. ind., 2005, pp. 117 ss.; X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente, ovvero perché il cavallo non beve, in X. Xxxxxxxx (a cura di), Dopo la flessibilità, cosai Le nuove politiche del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2006; X. Xxxxxxxx, Il ritorno del lavoro a chiamata, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), Xxxxxx, competitività, welfare, voi. II, Dal di. n. 112/2008 alla riforma del lavoro pubblico, Torino, Utet giuridica, 2009, pp. 87 ss.; A Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (diretto da), Trattato dì diritto del lavoro, VI, Padova, Cedam,2012, p. 1252; F.M. Putaturo Xxxxxx, Più trasparente il ricorso al lavoro intermittente, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2013, p. 120.
dell’istituto46. La scelta del legislatore, peraltro, è stata quella di introdurre misure di contrasto all’uso irregolare dell’istituto, senza valutare la vera natura del lavoro intermittente. Si tratta, infatti, secondo la Dottrina maggioritaria, di una tipologia contrattuale che, da un lato, difficilmente può contribuire alla crescita dell’occupazione e, dall’altro, non è idonea a garantire quell’equilibrio tra flessibilità e sicurezza perseguita dallo stesso legislatore del 201247.
A un anno dall’entrata in vigore della nuova disciplina, inoltre, il Governo, con il decreto legge n. 76 del 28 giugno 2013, ha introdotto altre modifiche, dirette da un lato, a evitare un uso distorto dell’istituto e, dall’altro, ad attenuare le conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione degli obblighi di comunicazione introdotti con la legge dell’anno precedente. Ancora più di recente, il D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (Jobs Act) ha ridefinito la normativa dei contratto di lavoro intermittente, nell’ambito di una profonda revisione della disciplina delle mansioni e di tutte le tipologie contrattuali. Attualmente, quindi, il lavoro a chiamata è disciplinato dagli artt. 13-18 del nuovo decreto legislativo.
2.1.2. La qualificazione del contratto di lavoro intermittente
Una delle questioni maggiormente dibattute in materia di lavoro intermittente riguarda la sua natura giuridica. Si tratta, infatti, di una fattispecie negoziale che, per la sua natura particolare e per la sua struttura complessa48, è difficilmente inquadrabile all’interno delle categorie tradizionali del diritto del lavoro49. Ciò spiega le difficoltà evidenziate dalla Dottrina nell’attività di qualificazione del contratto di lavoro intermittente e, in particolare, di quello senza previsione dell’obbligo di rispondere alla
46 P. Xxxxxx, Legge 28 giugno 2012, n. 98. La nuova riforma del lavoro. Guida operativa, Milano, Ipsoa, 2012, p. 61; X. Xxxxxxx, Il lavoro intermittente per periodi predeterminati dall’autonomia individuale, in Riv. it. dir. lav., 2012,1, pp. 681 ss.
47 M.T. Xxxxxxx, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity «all’italiana» a confronto, in Giom. dir. lav. rel. ind., 2012, pp. 527 ss.; X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148, e la «Rivoluzione di agosto» del Diritto del lavoro, in W.P. Csdle
«Xxxxxxx X’Antona». IT, 2011, n. 132.
48 X. Xxxx, Il lavoro intermittente, in X. Xxxxxxx (a cura di), Diritto del lavoro. Commentario, Torino, Utet, 2007, pp. 1400 ss.; X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (direno da), Trattato di diritto del lavoro, VI, Padova, Cedam, 2012, pp. 1252 ss.
49 X. Xxxx, Contratti flessibili: lavoro a tempo parziale e lavoro intermittente, in Lav. dir., 2006, p. 307, osserva come il lavoro intermittente mette «in predicato aspetti di sistema del nostro diritto del lavoro».
chiamata. Alcuni, infatti, lo hanno definito contratto preliminare50, altri, invece, come una specie di contratto normativo51. Altri studiosi hanno evidenziato che la caratteristica principale di questa figura contrattuale è «il mettersi a disposizione», con una situazione di attesa del lavoratore52. Essi hanno negato, quindi, la natura subordinata di questo tipo di rapporto53.
E’ evidente che il lavoratore a chiamata svolge le proprie attività sotto la direzione e alle dipendenze dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2094 c.c.. La particolarità del rapporto è che il prestatore svolge i propri compiti se e quando viene chiamato dall’utilizzatore, sulla base delle esigenze imprenditoriali di carattere intermittente o discontinuo. Il prestatore di lavoro, inoltre, può obbligarsi a rispondere alla chiamata dell’utilizzatore oppure può decidere di non vincolarsi a essa. Ne deriva che solo nel primo caso matura il diritto all’indennità di disponibilità. Ci si chiede, quindi, se nell’oggetto del contratto di lavoro deve essere ricondotta anche la fase di attesa54 e se
«l’esclusione del periodo di non lavoro dall’ambito di applicazione delle norme protettive tipiche del lavoro subordinato non sia in contrasto con la Costituzione»55.
La riforma del 2012 non ha introdotto nessuna modifica dell’art. 33 del D. Lgs. n. 276 del 2003. Quest’ultimo, come si è già ricordato, definisce «il contratto di lavoro intermittente» come il contratto «mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione nei limiti di cui all’art. 34».
La Dottrina, cercando di qualificare il contratto, ha effettuato un inquadramento per “somiglianza” ad altri istituti più “collaudati”. Il primo accostamento è avvenuto con il contratto di lavoro a orario ridotto, caratterizzato dalle cosiddette clausole elastiche e flessibili56. L’elemento comune dei due rapporti è quello di essere espressione di una
50 X. Xxxxx, Il futuro nel contratto di lavoro subordinato, in Lav. dir., 1996, p. 325.
51 X. Xxxxxxxxx, Le nuove tipologie di lavoro: il lavoro a chiamata; il lavoro coordinato e continuativo; il lavoro occasionale e accessorio; il lavoro ripartito, in M.T. Carinci (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e lavoro. Legge n. 30/2003, Milano, Ipsoa, 2003.
52 R. E. Xxxxxxx, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente, in
Riv. it. dir. lav., 2007, I, pp. 191 ss.
53 X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente, ovvero perché il cavallo non beve, in X. Xxxxxxxx (a cura di), Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 58; X. Xxx Xxxxx, Riforma Biagi: il contratto di lavoro intermittente, in Guida lav., 2004, p. 13.
54 X. Xxxx, Contratto di lavoro intermittente e subordinazione, in Riv. it. dir. lav., 2005,1, p. 120.
55 X Xxxx, II lavoro intermittente, in X. Xxxxxxx (a cura di), Diritto del lavoro. Commentario, Torino, Utet, 2007, pp. 1402.
56 X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente o «a chiamata»: natura giuridica e tecniche regolatìve, in Dir. rel. ind., 2005, p. 118, che mette in rilievo che qualificare il lavoro intermittente come part-time pone problemi di legittimità costituzionale.
«destrutturazione dei tempi di lavoro»57, che costituisce una tendenza recente del diritto del lavoro, legata alla trasformazione dei sistemi di produzione. Se le due figure possono essere accomunate «sul piano della funzionalità organizzativa»58, dal punto di vista giuridico non possono essere ricondotte allo stesso tipo contrattuale59. La Corte di Giustizia60 ha affermato, infatti, che le due tipologie contrattuali hanno un oggetto e una causa diversi. Si tratta di istituti diversi in quanto, come osserva un autore, «nel contratto di lavoro intermittente il tempo di lavoro non è oggetto soltanto di uno ius variandi del datore di lavoro, come tale assoggettato a determinate regole, ma a uno ius creandi, in quanto il datore di lavoro non solo decide il quantum e il quomodo della prestazione, ma anche l’an»61.
Il contratto di lavoro a chiamata è più assimilabile alla somministrazione di manodopera. Tuttavia, sia nel Libro bianco del 2001 sia nella circolare interpretativa del ministero del Lavoro del 2005 esso è stato definito un «ideale sviluppo del lavoro tramite agenzia». In entrambi i casi, infatti, il lavoratore alterna periodi di lavoro, quando è in missione, a periodi di non lavoro, durante i quali percepisce un’indennità di carattere economico. Dal punto di vista funzionale, quindi, il lavoro somministrato può essere considerato come un «prototipo» del lavoro a chiamata62.
Anche in questo caso, però, i due tipi di contratto hanno presupposti causali diversi e presentano differenze di regolamentazione. Nel lavoro tramite agenzia vi è un rapporto giuridico triangolare, mentre in quello intermittente è bilaterale. Inoltre, sia nel “vecchio” lavoro interinale sia nella somministrazione la fase di attesa del lavoratore è regolamentata da uno specifico contratto, che attribuisce al prestatore di lavoro i diritti tipici del lavoratore subordinato. Nel contratto di lavoro intermittente, invece,
00 X. Xxxxxx, Xx tempo nel contratto di lavoro subordinato, Xxxxxxx, Bari, 2008; X. Xxxxx, Tempi dì lavoro e tempi sociali. Profili di regolazione giuridica nel diritto interno e dell’Ue, Milano, Xxxxxxx, 2005; X. Xxxxxxxx, Il tempo di lavoro fra persona e produttività, Torino, Giappichelli, 2008.
00 X. Xxxxxx, Xxxxxx a chiamata e Corte di Giustizia. A proposito di fattispecie ed effetti discriminatori, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, p. 778; X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in
X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, VI, Padova, Cedam, 2012, p. 1252.
59 X. Xxx Xxxxx, Riforma Biagi: il contratto di lavoro intermittente, in Guida lav., 2004, p. 13.
00 Xxxxx Xxxxx. Xx, 11 novembre 2004, n. 425, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 4, pp. 777 ss., con nota di V Bavaro, e in Mass. giur. lav., 2005, 3, pp. 181 ss.
61 X. Xxxx, La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, in P. Xxxxxx (a cura di), Lavoro e diritti dopo il d.lgs. n. 276/2003, Bari, Xxxxxxx,2004, p. 255.
62 R, Xxx Xxxxx, Riforma Biagi: il contratto di lavoro intermittente, in Guida lav., 2004, p. 13. Le due tipologie conttattuali sono caratterizzate da quello che è stato definito «tempo di disponibilità» da X. Xxxxxxx, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2010, p. 208.
durante la fase di attesa, come stabiliva la legge Biagi, il lavoratore non è titolare di alcun diritto che sorge da un rapporto di lavoro subordinato tipico63.
La tesi più convincente sembra quella secondo cui la fase di attesa del lavoratore a chiamata rappresenta un tertium genus tra orario di lavoro e tempo di non lavoro. Ciò comporta che questo periodo, a differenza che nell’ipotesi della reperibilità o delle clausole elastiche/flessibili nel part-time, non attribuisce al lavoratore un diritto di credito retributivo, né gli altri diritti connessi al rapporto di lavoro subordinato. Nel lavoro a chiamata, è la legge che impedisce di ricondurre il periodo di attesa all’interno della fattispecie tipica prevista dall’art. 2094 c.c. Si può ritenere quindi che, dal punto di vista funzionale, il contratto di lavoro a chiamata «si presenta bifasico e che ciascun segmento del vincolo contrattuale trova una propria regolamentazione normativa autonoma»64. La fase di attesa viene disciplinata attraverso l’applicazione di istituti tipici del diritto civile, mentre quella di lavoro effettivo è regolamentata in base allo statuto protettivo del lavoro subordinato. Di conseguenza, durante il periodo di attesa non sono applicabili una serie di istituti lavoristici, come l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, la disciplina sulla malattia e quella sul licenziamento individuale.
Il lavoro intermittente va quindi tenuto distinto anche dal lavoro a progetto, per quanto possa presentare alcuni elementi comuni.
Come si è ricordato nel corso del lavoro, la categoria della para- subordinazione è nata (dal punto di vista giuridico) per ricomprendere tutta una serie di rapporti lavorativi che si conciliavano con difficoltà sia con lo schema negoziale di cui all’art. 2222 c.c., sia con quello di cui all’art. 2094 c.c.. Si tratta, cioè, di quelle figure caratterizzate da una prestazione occasionale che non danno luogo a un’unica fattispecie negoziale tipica, ma di un insieme indistinto di rapporti lavorativi che presentano alcuni profili comuni.
La necessità di un intervento ordinatore è stata fatta propria dal D. Lgs. n. 276/2003, che, dando attuazione ai principi e criteri direttivi della legge delega, ha regolato due particolari tipologie contrattuali, definite di lavoro a progetto e di lavoro occasionale65. La prima, secondo la definizione fornita dall’art. 61, comma 1, consisteva nella prestazione resa in esecuzione di «uno o più progetti specifici o
63 Art. 38, comma 3, d.lgs. n. 276/2003.
64 R. E. Xxxxxxx, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente,
cit., p. 196.
65 X. Xxxxxxx, Il lavoro a progetto tra problema e sistema, in Studi in onere di Xxxxxxx Xxxxxx, Padova, Cedam, 2005, p.1357 ss.
programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa». Questa prestazione è necessariamente a tempo determinato o comunque determinabile, in relazione al progetto o programma o alla fase (art. 62, lettera a)66.
A questa figura sempre l’art. 61, comma 1, prescrive che devono essere riconducibili i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409,
n. 3, c.p.c.. La riforma, quindi, ha lasciato inalterati gli elementi essenziali delle collaborazioni (la coordinazione, la continuità, lo svolgimento prevalentemente personale della prestazione). Perciò rimangono validi i criteri che la Giurisprudenza ha fornito in merito, con la precisazione che a questi elementi, perché sia lecito il ricorso alle collaborazioni da parte del committente, se ne deve aggiungere un altro: la riconducibilità ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso67.
Le collaborazioni a progetto non vanno considerate come una tipologia del tutto nuova, ma come una ridefinizione delle preesistenti collaborazioni coordinate e continuative. Il legislatore, infatti, allo scopo di evitare l’utilizzo delle tradizionali xx.xx.xx spesso finalizzate a mascherare rapporti di lavoro subordinato, ha ampliato i requisiti necessari perché il rapporto instaurato si configuri come collaborazione a progetto68. La legge Biagi si è proposta, quindi, di porre un freno all’abuso delle xx.xx.xx., spesso utilizzate in modo reiterato in sostituzione di contratti a tempo indeterminato. L’idea di fondo è stata quella di collegare la collaborazione coordinata a progetti specifici “certificati” per evitare pratiche elusive. Infatti, nel caso in cui il rapporto di lavoro dovesse instaurarsi senza l’individuazione del progetto o del programma, esso avrebbe dovuto essere convertito in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
66 X. Xxxxx, Sul lavoro a progetto, in Diritto del lavoro: i nuovi problemi, Padova, Cedam, 2005, p. 1324 rileva come «nel linguaggio del legislatore le epressioni progetto e programma sono fungibili».
67 X. Xxxxxxxxx, Il lavoro a progetto o occasionale, in Diritto del lavoro: i nuovi problemi, Padova, Xxxxx, 2009, pp. 1368.
68 M. T. Xxxxxxx, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity ‘all’italiana’ a confronto, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2012, 136, x. 000 xx.
0.0. Ipotesi ammissibili di ricorso al lavoro intermittente
Il lavoro intermittente, secondo la formula utilizzata dalla Circolare 1° agosto 2012, n. 20 del Ministero del Lavoro, è una particolare tipologia di rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dall’espletamento di prestazioni lavorative di carattere “discontinuo e intermittente”. Questa tipologia contrattuale, come si è già ricordato, si caratterizza per la estrema flessibilità del rapporto di lavoro e, in particolare, per il fatto che la prestazione non è resa con continuità, come accade in un normale rapporto di lavoro subordinato, ma solo quando vi sia una espressa richiesta del datore di lavoro, che ha la facoltà di chiamare, una o più volte, il lavoratore. Quest’ultimo, a sua volta, non è tenuto a rispondere positivamente alla chiamata del datore di lavoro, salvo che tale obbligo sia stato appositamente ed espressamente previsto nel contratto individuale, a fronte del riconoscimento di una “indennità di disponibilità”69.
Nella vigenza della legge Xxxxx, quindi, era possibile distinguere due forme di contratto di lavoro intermittente:
a) con obbligo di risposta alla chiamata: il lavoratore era obbligato a restare a disposizione del datore per svolgere la prestazione lavorativa, quando il datore lo richiedeva. In questo caso era riconosciuta al lavoratore una indennità mensile di disponibilità nella misura stabilita dai contratti collettivi e comunque in misura non inferiore al 20% della retribuzione minima prevista dal contratto collettivo applicato;
b) senza obbligo di risposta alla chiamata: il lavoratore era libero di rifiutarsi, se richiesto, di prestare la propria attività. In tal caso il lavoratore aveva diritto alla retribuzione corrispondente alle sole ore di lavoro effettivamente prestate70.
Come appare dalle denominazioni usate di solito (“intermittente”, “a chiamata”, “stand-by workers”, “on call contracts”), gli elementi di questo speciale rapporto di lavoro subordinato sono:
● la discontinuità temporale;
● la facoltatività;
● la disponibilità: del lavoratore e del datore di lavoro di dare la massima importanza alla flessibilità71.
00 X.X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, La flessibilità della prestazione nei contratti di lavoro: voucher, lavoro a progetto e intermittente, Assago. Ipsoa, 2010, p. 74.
70 Ivi, p. 75
71 X. Xxxxx, Contratto intermittente e di somministrazione, in Diritto e pratica del lavoro, 2008, 18, p. 1090.
In particolare, il ricorso al lavoro intermittente era consentito in presenza di causali di carattere oggettivo o soggettivo. Questo contratto poteva essere concluso, infatti, sulla base dell’art. 34 della Legge Biagi, come modificato dalla Legge n. 92 del 28 giugno 2012, in vigore dal 18 luglio 2012: a) per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (causale di tipo oggettivo); oppure con soggetti con più di 55 anni di età e con soggetti con meno di 24 anni di età, fermo restando che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età (causale di tipo soggettivo).
La discontinuità è un elemento che incide sulla struttura temporale della prestazione lavorativa. I periodi di occupazione non sono, di solito, prestabiliti e, dal momento che vengono calcolati di solito in ore o a giornate lavorative, presentano intervalli variabili, diversi da quelli degli ordinari rapporti di lavoro72. Il contratto di lavoro intermittente si può attivare nel momento in cui si presenti la necessità di utilizzare un prestatore di lavoro per prestazioni a carattere discontinuo. Al riguardo, il Ministero del Lavoro, con la Circolare 1° agosto 2012, n. 20, ha chiarito che la prestazione può essere considerata discontinua anche quando sia resa per periodi di durata significativa. Questi periodi, per poter essere considerati “discontinui o intermittenti”, devono essere intervallati da una o più interruzioni, in modo tale che non vi sia un’esatta coincidenza tra la “durata del contratto” e la “durata della prestazione”73. Può essere considerato, quindi, di natura intermittente un rapporto di lavoro che presenti esigui intervalli temporali tra una prestazione anche di rilevante durata e l’altra.
La facoltatività incide sulla struttura obbligatoria del rapporto di lavoro e può essere unilaterale, del solo datore, nel caso il lavoratore si sia obbligato a garantire la sua disponibilità. Questo è l’elemento forse più caratterizzante il lavoro intermittente o a chiamata. La disponibilità è un effetto contrattuale previsto sin dalla prima legge in materia («il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro»: art. 33, comma 1, del decreto legislativo 276/2003). Essa, però, è stata
72 M.R. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, La flessibilità della prestazione nei contratti di lavoro: voucher, lavoro a progetto e intermittente, cit., p. 82.
73 R. E. Xxxxxxx, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente,
cit., p. 192.
delineata come «una situazione giuridica, dove si tiene conto dell’interesse del prestatore e, tutt’al più, di un generale obbligo di corretto comportamento. Non è sancito l’obbligo direttamente sanzionabile di rispondere alla chiamata e di rendere la prestazione secondo le modalità convenute (e di informare di eventuali impedimenti)»74. Perché quest’ultimo obbligo sussistesse e la sua violazione venisse sanzionata, la legge Biagi ha previsto la necessità di una pattuizione specifica.
La presenza di tutti questi elementi naturali è stata individuata come necessaria per l’esistenza di un contratto di lavoro intermittente. L’art. 34, comma 2, del D. Lgs. n. 276/200375, prevedeva, inoltre, che l’oggetto del contratto potevano essere prestazioni lavorative discontinue, nel senso di intermittenti, che soddisfacessero «esigenze individuate dai contratti collettivi», o corrispondessero alle tipologie lavorative elencate nel decreto stesso e «alla tabella allegata al regio decreto 2657/1923», o fossero «rese in determinati periodi previsti dalla legge o dall’autonomia collettiva o, alternativamente, e eseguite da soggetti con meno di 25 anni o con più di 45».
Per quel che riguardava il primo requisito, il decreto ministeriale 23 ottobre 2004 si è sostituito in modo provvisorio alla contrattazione collettiva e ha rinviato «alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al regio decreto 2657/1923». Queste tipologie di attività riflettevano occupazioni che richiedevano «un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia», come quelle di custodi, guardiani, portinai, fattorini, uscieri, inservienti, camerieri e personale di cucina, magazzinieri, addetti al trasporto di persone o merci, al carico e scarico ai treni e alle manovre, sorveglianti, centralinisti, paramedici, commessi di negozio, xxxxxxxx e parrucchieri, addetti ai forni, ai quadri elettrici, agli impianti e altri apparecchi, alla manutenzione stradale, all’industria della pesca, agli alberghi, interpreti, artisti, operai e altri addetti agli spettacoli76. La Dottrina ha sottolineato come la discontinuità e l’intermittenza non sono giuridicamente sinonimi e che il requisito presupponeva «sia la tabellazione del tipo di attività, sia l’intermittenza della prestazione»77.
Al riguardo il Ministero del Lavoro, con Circolare 2 febbraio 2005, n. 4, ha chiarito che «le attività indicate nel regio decreto 2657/1923 dovevano essere considerate come un
74 Ivi, p. 193.
75 Come era stato sostituito dall’art. 1 bis, comma 1, lettera b del decreto legislativo 35/2005 che avevaa eliminato il riferimento al carattere sperimentale e allo stato di disoccupazione.
00 X.X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, La flessibilità della prestazione nei contratti di lavoro: voucher, lavoro a progetto e intermittente, cit., p. 88.
77 P. Xxxxxx, Contratto a termine, part-time e intermittente, in Diritto e pratica del lavoro, 2014, 18, p. 1026.
parametro di “riferimento oggettivo” per sopperire alla mancata individuazione da parte della contrattazione collettiva alla quale il decreto ha rinviato per individuare le esigenze a carattere discontinuo e intermittente specifiche per ogni settore». Non era ammesso, quindi, un giudizio caso per caso circa la natura intermittente o discontinua della prestazione «essendo questo compito rinviato ex ante alla contrattazione collettiva o, in assenza, al Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali cui spetta il compito di individuare, mediante una elencazione tipologica o per clausole generali, quelle che sono le esigenze che consentono la stipulazione dei contratti di lavoro intermittente».
La Legge Fornero ha limitato i casi di ricorso al lavoro intermittente intervenendo sia sulle causali di tipo “oggettivo” che “soggettivo”. Per quel che riguarda le causali “oggettive”, con l’abrogazione dell’art. 37 della Legge Biagi, che individuava espressamente «i periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno» in cui era possibile fare ricorso al lavoro a chiamata (ossia i week-end, le ferie estive, le vacanze natalizie x xxxxxxxx), si è voluto demandare solo alla contrattazione collettiva l’individuazione dei cd. periodi predeterminati. Se manca una previsione da parte della contrattazione collettiva, non era possibile ricorrere al lavoro intermittente in determinati periodi della settimana, del mese o dell’anno, salvo che ricorressero altre causali di carattere oggettivo o soggettivo. Allo stesso modo non era possibile individuare questi periodi con il contratto di lavoro individuale. Questa prerogativa, come ha chiarito il Ministero del Lavoro con la Circolare 18 luglio 2012, n. 18 avrebbe finito «evidentemente per rendere del tutto prive di significato le altre ipotesi giustificatrici del lavoro intermittente».
Con riferimento al requisito soggettivo, la norma permetteva, «in ogni caso», alle persone con meno di venticinque anni o con più di quarantacinque di stipulare contratti di lavoro intermittente. La validità del contratto di lavoro intermittente era subordinata, inoltre, come si vedrà meglio nel terzo paragrafo, alla condizione che esso non fosse diretto a sostituire e rimpiazzare lavoratori in sciopero o licenziati nel semestre precedente (per riduzione di personale sulla base della legge 223/1991) o che fosse utilizzato in imprese che avessero in corso sospensioni dei rapporti o riduzioni di orario, o che non avessero effettuato la valutazione dei rischi (come prevedeva il D. Lgs. n. 626/1994)78.
78 P.E. Xxxxxxx, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente,
cit., p. 195.
La stipulazione del contratto di lavoro intermittente in forma scritta era richiesta dalla legge non per attestare l’esistenza del contratto, ma per provare alcuni suoi elementi. Si trattava delle pattuizioni o indicazioni relative:
● alla durata (indeterminata, determinata o per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno) e alle ipotesi oggettive (tipologia del lavoro) o soggettive (età e non più disoccupazione) che permettevano «la stipulazione del contratto»79;
● al luogo e alle modalità della disponibilità (intesa come prestazione),
«eventualmente garantita dal lavoratore», e alla durata del «preavviso di chiamata», non inferiore a un giorno lavorativo;
● al trattamento economico e normativo che spettava per la prestazione e all’eventuale indennità di disponibilità per i tempi dell’attesa;
● alle forme e ai modi della chiamata;
● ai tempi e alle modalità di pagamento della retribuzione e della eventuale indennità di disponibilità;
● alle misure di sicurezza specifiche per il tipo di attività80.
La previgente disciplina del lavoro intermittente distingueva, inoltre, i tempi della prestazione lavorativa, durante i quali i diritti e gli obblighi erano identici a quella di qualsiasi altro dipendente, da quelli della semplice disponibilità, cioè dell’attesa di chiamata, quando gli obblighi presentano alcuni aspetti particolare. L’art. 38, comma 1, della legge Biagi stabiliva infatti che «per i periodi lavorati», era garantito un
«trattamento economico e normativo» almeno equivalente a quello riservato ai lavoratori «di pari livello, a parità di mansioni svolte». Il comma 3 dello stesso articolo prevedeva, invece, che «per tutto il periodo» di attesa il lavoratore intermittente non era
«titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati né matura[va] alcun trattamento economico e normativo», con la sola eventuale eccezione dell’indennità di disponibilità. La regolamentazione di questi tempi e il loro inserimento nel rapporto di lavoro subordinato sono stati al centro, peraltro, di un ampio dibattito dottrinale81.
Con riferimento ai tempi di chiamata, era obbligatorio un preavviso di almeno un giorno lavorativo, da indicare nel contratto, «stipulato in forma scritta ai fini della prova».
79 Art. 35 comma 1 del decreto legislativo 276/2003.
00 X.X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, La flessibilità della prestazione nei contratti di lavoro: voucher, lavoro a progetto e intermittente, cit., p. 89.
81 P. Xxxxxx, Contratto a termine, part-time e intermittente, cit., p. 1028.
Il secondo tipo di contratto a chiamata si aveva quando la disponibilità era garantita, vale a dire quando il prestatore avesse assunto un obbligo (formale e specifico) di rispondere alla chiamata e di rendere la prestazione stabilita. In questo caso, il tempo dell’attesa era remunerato con una «indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie», che doveva essere corrisposta al prestatore per i periodi nei quali egli garantiva la disponibilità al datore di lavoro in attesa di utilizzazione82. L’ammontare dell’indennità era stabilita dalla contrattazione collettiva «e comunque non [era] inferiore» a quella prevista dal ministero del Lavoro (pari al del 20 per cento della retribuzione mensile spettante, secondo il contratto collettivo del settore, a un lavoratore di pari livello professionale). L’indennità era assoggettata alla contribuzione, senza minimali, e concorreva «alla formazione dell’anzianità... utile ai fini del diritto e alla misura della pensione».
Il terzo tipo di contratto di lavoro intermittente era quello che disciplinava le
«prestazioni da rendersi il fine settimana, nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali».
2.3. Divieti di utilizzazione del contratto di lavoro intermittente
L’art. 34, comma 3, della Legge Biagi stabiliva che il ricorso al lavoro intermittente era vietato:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, nel caso in cui il rapporto di lavoro intermittente fosse attivato presso unità produttive nelle quali si era proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, sospensione dei rapporti o riduzione dell’orario con diritto al trattamento di integrazione salariale, per lavoratori adibiti alle stesse mansioni;
c) nel caso di aziende che non avessero effettuato la valutazione dei rischi sulla base della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, o che questa valutazione non fosse stata rielaborata secondo quanto prevede l’art. 29, comma 3, del D. Lgs. n. 81/2008. Quindi, ai fini dell’attivazione di contratti di lavoro intermittente, occorreva sempre tenere presente che il documento di valutazione dei rischi doveva essere “attuale” e adeguato alle condizioni strutturali, logistiche e organizzative della realtà aziendale,
82 P.E. Xxxxxxx, Una figura innovativa di rapporto di lavoro: il contratto di lavoro intermittente,
cit., p. 196.
oltre che alle problematiche di formazione e informazione proprie dei lavoratori a chiamata83. Anche in caso di violazione dei divieti, i rapporti di lavoro erano considerati a tempo pieno e indeterminato.
Per quel che riguarda il primo divieto, lo sciopero è uno strumento di autotutela dei lavoratori. Questo si manifesta con un’astensione dal lavoro da parte di lavoratori subordinati col fine di tutelare i propri interessi collettivi.
Il diritto di sciopero deve sottostare a limiti:
-soggettivi. Si esclude la titolarietà del diritto di sciopero ai lavoratori il cui lavoro è volto a garantire diritti costituzionalmente garantiti.
-oggettivi. Lo sciopero per essere legittimo deve essere finalizzato alla tutela degli interessi dei lavoratori.
La Costituzione definisce lo sciopero come un “diritto soggettivo fondamentale e irrinunciabile del prestatore di lavoro”84. Proprio da questa definizione risulta chiaro come il ricorso al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero porterebbe il datore di lavoro a fare una valutazione puramente economica del “disagio” che lo sciopero stesso crea. In tale situazione sarebbe notevolmente ridotto il potere protestativo che, per parte della Dottrina (XXXXXXX-XXXXXXXXXX) è proprio la colonna portante dello sciopero.
Il secondo divieto di utilizzo faceva riferimento, invece, all’assunzione di lavoratori a chiamata in aziende che, nei sei mesi precedenti, avevano effettuato licenziamenti collettivi. Al riguardo va ricordato che la riduzione del personale, in base all’art. 41 Cost., rientra tra la scelte unilaterali dell’imprenditore, relativamente alla dimensione quantitativamente e qualitativamente ottimale per esercitare l’attività di imprese. La tutela costituzionale dell’iniziativa economica privata garantisce, infatti, il libero esercizio dei poteri imprenditoriali di organizzare l’azienda e dimensionarne l’organico. E’ stato rilevato, in proposito, che «poiché attiene direttamente al “come, cosa e quanto produrre”, il taglio delle eccedenze di manodopera rientra nella zona di autonomia imprenditoriale da considerarsi libera da vincoli e controlli di merito in conformità alle regole proprie di un’economia di mercato: regole che, da noi, godono di un espresso riconoscimento costituzionale»85.
83 Circolare 3 febbraio 2005, n. 4.
84 Art. 40 Cost.
85 X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxx, I rapporti di lavoro, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 320.
Nel caso dei licenziamenti collettivi, però, questa scelta non è del tutto libera, ma deve conformarsi ai limiti imposti dalla legge n. 223/1991 a tutela dei lavoratori. Queste limitazioni sono previste, del resto, anche nell’art. 41 Cost., il cui secondo comma afferma che la libertà di iniziativa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Questi limiti sono definiti come limiti “esterni” e sono diretti a impedire che «l’attività stessa, pur di per sé lecita, si svolga con modalità che pregiudichino gli interessi di terzi soggetti o dell’intera collettività, o, infine, di settori di essa»86.
La legge n. 223/1991 ha ridefinito gli istituti delle regole in materia di gestione delle eccedenze di personale e di sostegno all’occupazione ed al reddito.
La legge ruota intorno agli artt. 4, 5 e 24 della legge. L’art. 24 individua la fattispecie dei licenziamenti per riduzione di personale. Gli artt. 4 e 5 prevedono le regole (c. d. procedure di mobilità) che l’imprenditore deve rispettare, sia nell’ipotesi di licenziamenti per riduzione di personale in senso stretto (cioè conformi all’art. 24 della legge), sia nell’ipotesi di “messa in mobilità”, cioè di licenziamenti che seguono a un periodo di Cassa integrazione straordinaria. Questi articoli si propongono di rendere trasparenti le selezioni del personale esuberante, individuando un approccio il più possibile oggettivo. L’art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991, stabilisce infatti che l’individuazione dei lavoratori da porre in mobilità deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale. Questa disposizione non ha risolto, però, i problemi di interpretazione. La direttiva comunitaria recepita dalla legge n. 223/1991 collega la quantificazione dell’eccedenza allo stabilimento. Nella legge del 1991, invece, vi è da un lato il riferimento all’unità produttiva ed al territorio provinciale (art. 24); dall’altro lato quello al complesso aziendale (art. 5). Il testo dell’art. 5 stabilisce infatti che «l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi… ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia, b) anzianità, c) esigenze tecnico-produttive e organizzative».
Quindi, da un lato l’art. 5, comma 1, parla di azienda «nel suo complesso, richiedendo un nesso di causalità tra la decisione dell’imprenditore di ridurre il personale e
86 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxx, Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli, 2008, p. 159.
quella di licenziare i lavoratori entro un determinato ambito aziendale»87. Nello stesso tempo la legge n. 223 fa riferimento alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, permettendo, quindi, che il novero dei lavoratori da cui scegliere non coincida con il totale dei dipendenti dell’impresa. L’imprenditore, quindi, può identificare i singoli lavoratori da licenziare e può tenere conto delle esigenze dell’impresa anche nella comparazione tra lavoratori non insostituibili, dal momento che nell’organizzazione imprenditoriale vi possono essere diversi livelli di funzionalità.
Infine, un terzo caso di divieto di utilizzo del lavoro intermittente riguardava le aziende che non avessero effettuato la valutazione dei rischi sulla base della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, o che questa valutazione non fosse stata rielaborata secondo quanto prevede l’art. 29, comma 3, del D. Lgs. n. 81/2008. Negli ultimi anni, del resto, la sicurezza sul lavoro (safety)88 si è caratterizzata come una dimensione fondamentale della responsabilità sociale dell’impresa, soprattutto alla luce del numero crescente di incidenti mortali sul luogo di lavoro. In particolare, la gestione delle problematiche di sicurezza ha un ruolo particolare nell’ambito della protezione aziendale, in quanto si caratterizza per due aspetti: a) il tipo di rischi, che comportano danni alla salute, prima ancora che danni di natura economico-monetaria; b) i soggetti su cui gravano tali rischi, ossia i lavoratori, che svolgono un ruolo significativo nell’attuazione stessa delle politiche aziendali di safety89.
A metà degli anni ‘90, la normativa italiana in materia di igiene e sicurezza del lavoro è stata profondamente innovata. In particolare, con l’emanazione del D. Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994 (integrato dal successivo decreto di modifica: D. Lgs. 242/96) sono state recepite:
● la direttiva “quadro” CEE 89/391, che sistematizza la materia della sicurezza e dell’igiene sul lavoro, dettando principi e obblighi di carattere generale90;
87 X. Xxxxxxxxx, I licenziamenti per riduzione di personale in Italia, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione di personale in Europa, Roma, Ediesse, 2001, p. 165.
88 Il termine safety è solitamente inteso come l’insieme delle attività svolte a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Per alcuni aspetti tale definizione può però risultare restrittiva, in quanto il concetto di safety può essere riferito più in generale alla tutela della salute dei soggetti con cui l’impresa direttamente o indirettamente interagisce. In particolare, in un’ottica allargata sono riconducibili alla safety sia la tutela dell’ambiente esterno e della salute delle popolazioni residenti in prossimità dei siti produttivi, sia la sicurezza del prodotto e la tutela della salute dei consumatori.
89 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx (a cura di), Ambiente e sicurezza sul lavoro: quali tutele in vista del Testo Unico?, Milano, Angeli, 2008, p. 14.
90 Al riguardo si rinvia al commento consultabile sul CD Salute, Sicurezza e Qualità del lavoro,
Progetto Europeo Xxxxxxxx xx Xxxxx.
● sette direttive «derivate», che hanno introdotto vincoli di natura particolare relativi ad aspetti specifici, come la movimentazione manuale dei carichi, l’uso di attrezzature munite di videoterminali, la protezione da agenti biologici e cancerogeni, l’uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale e alcune prescrizioni minime di sicurezza e salute per i luoghi di lavoro.
L’innovatività di questo provvedimento era legata soprattutto alle disposizioni contenute nella direttiva quadro, che prevedeva norme applicabili a tutte le imprese, a prescindere dal loro specifico profilo di rischio. Questa direttiva ha introdotto un nuovo approccio alla gestione della sicurezza. Essa ha imposto, infatti, procedure gestionali e soluzioni organizzative, finalizzate a introdurre «un’impostazione unitaria di tipo gestionale con cui affrontare le diverse problematiche di sicurezza, superando la tradizionale specializzazione di tipo tecnico»91. Sempre in quest’ottica, il D. Lgs. 626/94 ha definito precise competenze e responsabilità, attribuendo un ruolo centrale al datore di lavoro e prevedendo la responsabilizzazione e il diretto coinvolgimento tutti i lavoratori. La safety è diventata così un aspetto della gestione di cui sono necessariamente chiamati ad occuparsi, anche se in misura e con ruoli differenti, tutti i soggetti aziendali ai vari livelli e non solo coloro che operano nell’ambito delle funzioni tecniche92.
I primi anni del nuovo millennio sono stati caratterizzati da un intenso dibattito sulla salute e la sicurezza sul posto di lavoro. Anche se in tendenziale diminuzione, infatti, la percentuale annua di infortuni in Italia è rimasta, infatti, la più alta in Europa.
91 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, Lavoro, salute, sicurezza: uno sguardo lungo un secolo, Roma, Ediesse, 2011, p. 19.
92 Le principali novità introdotte dalla normativa riguardavano: a) la proceduralizzazione della prevenzione e l’obbligo di realizzare una valutazione dei rischi che orientasse le scelte relative alle misure di prevenzione e protezione da adottare; b) l’introduzione di nuove figure aziendali e l’attribuzione a diversi soggetti aziendali di precise responsabilità in materia di sicurezza e igiene del lavoro; c) il coinvolgimento diretto e la responsabilizzazione dei lavoratori, per i quali venivano previsti sia diritti che obblighi. Successivamente al d.lgs. 626/94 sono stati emanati diversi provvedimenti che hanno contribuito ad integrare o specificare gli obblighi e le prescrizioni contenuti nel decreto o che, svincolati dal decreto del 1994, hanno ulteriormente modificato il sistema normativo in materia di sicurezza sul lavoro:
• la cosiddetta “Direttiva cantieri” (d.lgs. 494/96), riguardante le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri mobili;
● la legge n. 137 del 19 maggio 1997, che ha previsto l’introduzione di una scheda di informazione della popolazione, predisposta dalle imprese esposte a rischi rilevanti e divulgata dal sindaco competente alle comunità locali;
● il decreto del 16 marzo 1998 relativo a “informazione, formazione, addestramento ed equipaggiamento dei lavoratori e di tutti coloro che accedono ai luoghi di lavoro”, che ha imposto obblighi formativi ed informativi aggiuntivi rispetto a quanto già previsto dal d.lgs. 626/94.
Per rimediare alle lacune e ai punti deboli presenti nella disciplina del 1994, quattordici anni dopo è stato approvato il “Testo Unico salute e sicurezza sul lavoro” 93. La nuova disciplina si compone di 303 articoli e ha abrogato il decreto legislativo 626 del 1994. Il nuovo testo, infatti, comprende tutte le norme già presenti nel decreto del 1994 e le altre misure che già esistono in materia di cantieri, vibrazioni, segnaletica, rumore, amianto e piombo94. La suddivisione in titoli rispecchia un ordine sistematico95. Il Testo Unico segue un percorso che parte dalla definizione dei principi comuni, per poi passare alla disciplina di settori lavorativi che comportano rischi particolari e di particolare gravità96.
I soggetti della sicurezza individuati dal Testo unico sono il lavoratore e il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, il responsabile della attività didattica o di ricerca in laboratorio, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il medico competente e il responsabile e gli addetti del servizio di prevenzione e protezione97. La norma amplia notevolmente la nozione di lavoratore ai fini prevenzionistici. Infatti, lavoratore tutelato è ogni «persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici o familiari». Gli elementi che caratterizzano questa definizione sono quindi i seguenti:
• il lavoratore è una persona fisica;
93 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, L’impianto del Testo Unico: quadro di sintesi, in X. Xxxxxxxxxx, Il testo unico delle salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Commentario al decreto legislativo 9 aprile 2008.
n. 81, Milano, Xxxxxxx, 2008, p. 35 ss.
94 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, L’impianto del Testo Unico: quadro di sintesi, cit. p. 36.
95 Nel titolo I è contenuto l’impianto definitorio, e tutto il sistema organizzativo della sicurezza: la definizione del processo di valutazione del rischio, con la relativa previsione degli attori della sicurezza (il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il medico competente). Segue poi la disciplina delle lavorazioni comportanti movimentazione manuale dei carichi (titolo VI) e l’uso di attrezzature munite di videoterminali (titolo VII), la cui diffusione, in entrambi i casi, nei processi di lavoro è tale da dovere quasi sempre essere oggetto di valutazione del rischio in azienda. Il Testo Unico, poi, individua alcuni settori lavorativi ed alcune lavorazioni che presentano rischi particolari, come quelli dell’attività lavorativa nei cantieri edili (titolo IV), le lavorazioni che comportano l’esposizione dei lavoratori ad agenti fisici, come rumore, vibrazioni, campi elettromagnetici e radiazioni ottiche artificiali (titolo VIII), l’esposizione a sostanze pericolose, come agenti chimici, agenti cancerogeni e mutageni e amianto (titolo IX), l’esposizione agli agenti biologici (titolo X) e l’esposizione ad ambienti dove si possono creare atmosfere esplosive (titolo XI).
96 X. Xxxxxxxxxx, Il testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Rimini, Maggioli, 2008, p. 10.
97 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, L’impianto del Testo Unico: quadro di sintesi, cit. p. 37.
• il lavoratore è tutelato indipendentemente dalla tipologia contrattuale che lo lega al suo datore di lavoro; ciò significa che la tutela si estende a tutte le forme contrattuali atipiche: l’elemento distintivo, quindi, non è più la tipologia contrattuale ma la circostanza di fatto che il lavoratore sia inserito nell’organizzazione del datore di lavoro98
• il lavoratore è tale ai fini della tutela della salute e della sicurezza anche se presta la propria opera a titolo gratuito, cioè anche nel caso in cui operi all’interno dell’organizzazione del datore di lavoro «anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione». Il Testo Unico ha superato quindi l’interpretazione fornita da una circolare ministeriale99, che limitava l’ambito soggettivo di tutela ai soli casi in cui vi fosse la presenza di lavoratori subordinati100.
2.4. Xxxxxx, forma e principio di non discriminazione e condizione del lavoratore in attesa di chiamata
Il contratto intermittente, nella disciplina precedente il Jobs Acts, poteva essere stipulato a tempo indeterminato o a tempo determinato (come prevedeva l’art. 33, comma 2, della Legge Biagi).
Con riferimento all’assunzione a tempo determinato il Ministero del Lavoro ha chiarito che non era applicabile la disciplina del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Quest’ultima infatti, oltre a non essere espressamente richiamata dalla normativa sul lavoro intermittente, non avrebbe potuto trovare applicazione perché le ragioni che legittimavano la stipulazione del contratto a termine erano, in questo caso, indicate espressamente dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva per cui sarebbe stato
«inappropriato il richiamo all’articolo 1 del decreto legislativo n. 368 del 2001 come condizione per la legittima stipulazione del contratto di lavoro intermittente»101.
Allo stesso modo, al contratto di lavoro intermittente non si applicavano i limiti, previsti per il contratto a tempo determinato, relativi agli intervalli di tempo tra un contratto e il successivo (c.d. stop & go). Quindi, a un contratto di lavoro intermittente poteva seguire un contratto di lavoro a tempo determinato (o viceversa) senza soluzione di continuità, a meno che questa successione di contratti non venisse utilizzata “in frode
98 X. Xxxxxxx, Tutela civile e penale della sicurezza sul lavoro, Padova, Cedam, 2010, p. 26.
99 Circ. Min. lav. n. 172/1996.
100 X. Xxxxxxxxxx, Il testo unico delle salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 14.
101 Circolare 3 febbraio 2005, n.4.
alla legge” (ad esempio il contratto a chiamata venisse utilizzato strumentalmente tra un contratto a termine e il successivo, a copertura degli intervalli obbligatori previsti dalla legge)102.
La Dottrina si è chiesta se fosse possibile, dopo un primo contratto a termine, assumere lo stesso lavoratore con contratto di lavoro intermittente, senza rispettare gli intervalli temporali. Il Ministero del Lavoro, con la Circolare 22 aprile 2013, n. 37, ha precisato che, «anche se da un punto di vista letterale non risulta una preclusione in tal senso, la condotta, potrebbe integrare la violazione di una norma imperativa (art. 1344 c.c.), trattandosi di un contratto stipulato in frode alla legge, con conseguente nullità dello stesso e trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato».
Va ricordato che con la legge n. 99 del 9 agosto 2013 (cd. Decreto Lavoro) il legislatore ha introdotto un comma 2-bis all’art. 34 della legge Biagi. Questa norma ha “contingentato” (secondo l’espressione del Ministero del Lavoro) l’utilizzo dell’istituto del lavoro intermittente. Il comma 2-bis stabiliva infatti che, fermi restando i limiti di carattere oggettivo o soggettivo individuati dagli artt. 34 e 40 della legge Xxxxx, «il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari». In proposito il Ministero del Lavoro, con la Circolare 29 agosto 2013, n. 35, ha chiarito che il conteggio delle prestazioni avrebbe dovuto essere effettuato, a partire dal giorno in cui si chiedeva la prestazione, a ritroso di tre anni. Questo conteggio tuttavia, secondo il Decreto Lavoro, avrebbe dovuto tenere conto solo delle giornate di effettivo lavoro «prestate successivamente all’entrata in vigore della presente disposizione» e quindi prestate successivamente al 28 giugno 2013. Il vincolo delle quattrocento giornate di effettivo lavoro non trovava applicazione nei settori «del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo»103. In tutti gli altri settori, un eventuale superamento del limite delle quattrocento giornate determinava la “trasformazione” del rapporto in un “normale” rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato dalla data del superamento.
102 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in
X. Xxxxxxxx, E Xxxxxxx (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, VI, Padova, Cedam, 2012, p. 1260. 103 X. Xxxxxxx, Flessibilità in entrata: nuovi e vecchi modelli di lavoro flessibile, in Riv. it. dir. lav., 2014,1, p. 567.
Si è già ricordato che l’art. 25 della legge Biagi stabiliva che il contratto di lavoro intermittente doveva essere stipulato in forma scritta, allo scopo di provare i seguenti elementi:
a) l’indicazione della durata e delle ipotesi, oggettive o soggettive, previste dall’art. 34 della Legge Biagi che consentivano la stipulazione del contratto;
b) il luogo e la modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore che in ogni caso non poteva essere inferiore a un giorno lavorativo (il Ministero del Lavoro, con la Circolare 3 febbraio 2005, n. 4, ha chiarito che nel caso in cui il datore abbia più sedi o più unità produttive deve essere espressamente specificato per quale sede si intende garantire la propria disponibilità se per una sola o per tutte);
c) il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e la relativa indennità di disponibilità, se prevista;
d) l’indicazione delle forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, oltre alle modalità di rilevazione della prestazione adottate in azienda (registrazione libro presenze, badge ecc.);
e) i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità (il Ministero del Lavoro ha chiarito che si ritengono applicabili le norme previste per il contratto di lavoro subordinato, pertanto il datore di lavoro è tenuto a consegnare al lavoratore un prospetto paga, secondo le disposizioni previste in materia, contenente tutti gli elementi che compongono la retribuzione nonché le eventuali trattenute);
f) le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto.
L’art. 35 della legge Biagi non stabiliva nulla circa l’indicazione dell’orario e alla collocazione temporale della prestazione lavorativa. Nessuna indicazione era prevista, inoltre, per regolare l’alternanza dei periodi lavorati con i periodi di inattività o disponibilità. Come è stato chiarito dal Ministero del Lavoro, ciò corrispondeva a una scelta del legislatore di lasciare questa determinazione alla libera autonomia contrattale delle parti «in linea con l’impostazione complessiva della disciplina del contratto di lavoro intermittente che suggerisce esclusivamente uno schema contrattuale di base, e quindi flessibile, adatto a essere modulato e adeguato a seconda delle esigenze specifiche di volta
in volta individuate dalle parti contraenti»104. Il datore di lavoro, infatti, può non conoscere con assoluta certezza e precisione le sue reali future esigenze al momento della stipulazione del contratto di lavoro intermittente. La scelta di questa tipologia contrattuale si può basare, infatti, solo sulla “previsione” di una effettiva necessità di personale aggiuntivo105. Non è applicabile, quindi, neanche per analogia, la disciplina del lavoro a tempo parziale, dal momento che il lavoro intermittente è una fattispecie lavorativa sui generis106. Deve essere applicata, in ogni caso, almeno con riferimento alla tipologia con obbligo di risposta alla chiamata del datore di lavoro, la normativa di legge e di contratto collettivo applicabile in materia di orario di lavoro.
Con riferimento al lavoratore in attesa di chiamata erano applicabili, inoltre, i principi di non discriminazione previsti dalla normativa giuslavoristica. Il divieto di discriminazione in ambito lavorativo sia affermato dalla Direttiva 97/81/CE e dalla Convenzione Oil 175/1994, i cui principi sono stati recepiti dall’art. 4 del D. Lgs. 61/2000.Questa norma si caratterizzava per un maggiore favore verso i lavoratori intermittenti rispetto alla Direttiva comunitaria. In primo luogo, come nella Direttiva comunitaria, era fissato il divieto di discriminazione diretta e indiretta107. Ad esso si affiancava però una regola di parità di trattamento, in quanto il decreto stabiliva che il lavoratore non doveva ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno inquadrato nello stesso livello individuato in forza dei criteri dì classificazione stabiliti dai contratti collettivi108. Quindi, in osservanza del principio di non discriminazione, il lavoratore a tempo parziale poteva esercitare gli stessi diritti attribuiti a un comparabile lavoratore a tempo pieno. In particolare, per i periodi lavorati il lavoratore intermittente non deve ricevere un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte (art. 38, comma 1, della legge Biagi).
Queste norme sono state recepite, come si vedrà nel terzo capitolo, dal D. Lgs. n. 81/2015. La riforma stabilisce, peraltro, soltanto il principio di non discriminazione, secondo cui il lavoratore a tempo parziale ha gli stessi diritti di un lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento. Non vengono più individuati, invece, come faceva il D.
104 Circolare 3 febbraio 2005, n. 4.
105 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in
X. Xxxxxxxx, E Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, cit., p. 1254.
106 Circolare 3 febbraio 2005, n. 4.
107 Art. 4, comma 2 lett. a).
108 X. Xxxxxx, Part-time, genere e accesso al welfare: una lettura del caso Xxxxx Xxxxxx nell’ottica dell’ordinamento italiano, cit., p. 189.
Lgs.n. 61/2000, gli ambiti rispetto ai quali il lavoratore intermittente godeva degli stessi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile.
2.5. L’instaurazione del rapporto
Per quel che riguarda gli adempimenti amministrativi previsti per l’assunzione, anche per il contratto intermittente valgono le disposizioni previste dall’art. 1, comma 1180, della Legge 27 dicembre 2006 n. 296. Quindi, entro il giorno antecedente l’instaurazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro deve comunicare tramite una procedura informatica, utilizzando il modello UNILAV, al Centro per l’impiego:
a) i dati anagrafici del lavoratore;
b) la data di assunzione;
c) la data di cessazione prevista (se il rapporto è a tempo determinato);
d) la qualifica professionale attribuita al lavoratore;
e) il trattamento economico e normativo riconosciuto (cioè il CCNL applicato dal datore di lavoro e il relativo inquadramento nel livello retributivo spettante in base alla qualifica attribuita).
Il datore di lavoro deve inoltre riportare i dati del lavoratore sul Libro Unico del Lavoro e consegnare al lavoratore, all’atto dell’assunzione, e comunque prima dell’inizio della prestazione lavorativa, copia del contratto individuale di lavoro109.
La Legge Fornero ha stabilito che il datore effettui, oltre alla comunicazione obbligatoria pre-assuntiva, anche una comunicazione amministrativa alla Direzione Territoriale competente prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni. Questa comunicazione deve contenere i dati identificativi del lavoratore e del datore di lavoro e la data di inizio e fine della prestazione lavorativa cui la chiamata si riferisce. Al riguardo, il Ministero del Lavoro ha specificato che è possibile anche una pianificazione a lungo termine dell’attività lavorativa, quindi con un solo adempimento possono essere evidenziate più prestazioni di lavoro intermittente110. Inoltre, i trenta giorni possono essere considerati quali giorni di chiamata di ciascun lavoratore e non più come arco temporale massimo all’interno del quale individuare i periodi di attività del lavoratore. Possono, quindi, essere effettuate comunicazioni che prendano in considerazione archi temporali anche
109 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1255.
110 Circolare 1° agosto 2012, n. 20.
molto ampi, a condizione che, all’interno di essi, i periodi di prestazione non superino i trenta giorni per ciascun lavoratore.
La comunicazione deve intervenire prima dell’inizio della prestazione e può essere modificata attraverso una comunicazione successiva. Questa deve pervenire sempre prima dell’inizio della prestazione e, nel caso in cui il lavoratore non si presenti, entro le 48 ore successive al giorno in cui la prestazione doveva essere resa.
In caso di violazione degli obblighi di comunicazione preventiva si applica la sanzione amministrativa da euro 400 a euro 2.400 in relazione a ogni lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione. Il Ministero del Lavoro ha chiarito che la sanzione si applica con riferimento a ogni lavoratore e non per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto l’obbligo di comunicazione111. Quindi, per un ciclo di trenta giornate in cui il datore di lavoro ha omesso di inviare la comunicazione preventiva, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore112. Il Decreto Lavoro ha previsto che questa sanzione «non trova applicazione qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi la volontà di non occultare la prestazione di lavoro». In pratica, se il datore di lavoro ha provveduto a versare la contribuzione per le giornate di lavoro svolte, anche in assenza della comunicazione preventiva, non sarà soggetto alle sanzioni amministrative previste per la violazione degli obblighi di comunicazione113.
Per quel che riguarda le modalità di comunicazione della chiamata, il Decreto del Ministero del Lavoro del 27 marzo 2013, n. 68933 prevede che la comunicazione della chiamata del lavoro intermittente sia effettuata utilizzando il modello di comunicazione "Uni-intermittente", da compilare solo attraverso strumenti informatici. Il modello deve contenere i dati identificativi del lavoratore e del datore di lavoro e la data di inizio e fine della prestazione lavorativa cui la chiamata si riferisce. La Circolare del Ministero del Lavoro 27 giugno 2013, n. 27 ha definito le modalità per l'invio della comunicazione intermittente, che deve essere effettuata solo:
a) attraverso il servizio informatico disponibile sul portale "Cliclavoro";
b) via e-mail, utilizzando l'apposito modello disponibile sul sito del Ministero del Lavoro, all'indirizzo di posta elettronica certificata114. Per utilizzare questa casella di posta, non è necessario che l'indirizzo e-mail del mittente sia un indirizzo di posta
111 Circolare 22 aprile 2013, n. 37.
112 Ivi, p. 14.
113 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1256.
114 Vale a dire xxxxxxxxxxxxx@xxxxxxxx.xxxxxx.xxx.xx
elettronica certificata, poiché è stata abilitata a ricevere comunicazioni anche da indirizzi di posta non certificata;
c) tramite Sms (solo per le aziende registrate al Portale Cliclavoro), esclusivamente però in caso di prestazione da rendersi non oltre le dodici ore dalla comunicazione. L'Sms deve contenere almeno il codice fiscale del lavoratore115.
Solo in caso di malfunzionamento dei sistemi di trasmissione informatici, è possibile effettuare la comunicazione al numero fax della Direzione Territoriale del Lavoro competente. In questa ipotesi, il datore di lavoro deve conservare la copia del fax unitamente alla ricevuta di malfunzionamento rilasciata direttamente dal servizio informatico come prova dell'adempimento dell'obbligo.
2.6. Computo del lavoratore intermittente
Il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente è stabilito da disposizioni normative e da regolamentari.
Innanzitutto è necessario distinguere i periodi in cui il lavoratore effettivamente svolge la prestazione lavorativa rispetto a quelli di inattività. Infatti, per i periodi lavorati, come si è già ricordato, l’art. 38 della legge Biagi stabiliva che si applica il principio di non discriminazione in base al quale, fermi restando i divieti di discriminazione diretta e indiretta previsti dalla legislazione vigente, il lavoratore intermittente non deve ricevere un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni. Viceversa, per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro, ma non lavora (sia in presenza di un obbligo di disponibilità, sia nel caso contrario):
- non è titolare di nessun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati;
- né matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l'eventuale indennità di disponibilità.
Il comma 2 dell'art. 38 della Legge Biagi prevedeva che gli istituti normativi tipici del lavoro subordinato trovavano «applicazione in misura "proporzionale" rispetto alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita», per quanto riguardava l'importo della retribuzione globale e delle sue singole componenti, oltre che per quanto riguardava le
115 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1256.
xxxxx, i trattamenti di malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, maternità e congedi parentali. Va precisato che, per gli altri istituti normativi e previdenziali non citati dal decreto legislativo, operava la disciplina del lavoro subordinato, se compatibile116. Inoltre, l’art. 39 della Legge Biagi stabiliva che il prestatore di lavoro intermittente era computato nell'organico dell'impresa in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre.
Con riferimento alla malattia professionale e all'infortunio, il Ministero del Lavoro ha chiarito che trova applicazione la disciplina prevista per il lavoro subordinato, se questi eventi si verificano in relazione al rapporto di lavoro117. Se, invece, la malattia e l'infortunio si verificano durante i periodi di inattività o disponibilità la normativa non trova applicazione. Inoltre, nel caso in cui la malattia renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, il lavoratore che ha assunto questo obbligo, deve comunicarlo tempestivamente al datore di lavoro, pena la perdita del diritto all'indennità di disponibilità per un periodo di quindici giorni, a meno che il contratto individuale non stabilisca diversamente.
Circa le modalità di fruizione delle ferie eventualmente maturate, il Ministero del Lavoro, con una nota del 31 luglio 2009, ha affermato che il datore di lavoro può “monetizzare” le ferie maturate dai lavoratori a chiamata (ai quali può quindi non essere garantita la fruizione delle ferie mediante giorni di riposo). Egli non può però programmare anticipatamente (ad esempio nell'ambito del contratto di lavoro) la mancata fruizione delle stesse.
Infine, con riferimento alla disoccupazione, nel caso di contratto di lavoro intermittente con obbligo di risposta alla chiamata, è esclusa la corresponsione del trattamento di disoccupazione per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a prestare la propria attività, percependo la relativa indennità di chiamata118. In proposito l’INPS, con la Circolare 13 marzo 2006, n. 41 ha precisato che
«considerato che il lavoratore con contratto di lavoro intermittente è a disposizione del datore di lavoro, il quale può usufruire della sua prestazione lavorativa, si deduce che i lavoratori intermittenti possono accedere alle prestazioni di disoccupazione alla stessa stregua dei lavoratori somministrati; gli stessi principi del lavoro somministrato valgono
116 Circolare 3 febbraio 2005, n. 4.
117 Circolare 3 febbraio 2005, n. 4.
118 Interpello Ministero del Lavoro 22 dicembre 2005, prot. n. 3147.
per l'indennità di disponibilità. L'indennità di disoccupazione, quindi, potrà essere riconosciuta soltanto a seguito di cessazione del rapporto di lavoro».
Nel caso in cui il contratto di lavoro intermittente non preveda invece l'obbligo di risposta alla chiamata, né la corresponsione dell'indennità, al lavoratore «può essere riconosciuto, limitatamente ai periodi di non lavoro, lo stato di disoccupazione indennizzabile con la relativa indennità, ordinaria o a requisiti ridotti, sempre che ricorrano le relative condizioni di natura contributiva e assicurativa»119, Si tratta, infatti, di un rapporto di lavoro privo di qualsiasi garanzia «in ordine sia all'effettiva prestazione lavorativa sia alla retribuzione futura»120.
119 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1258.
120 Interpello Ministero del Lavoro 3 ottobre 2008, n. 48.
CAPITOLO 3
Il lavoro intermittente dopo il Jobs Act
3.1. La ratio del Jobs Act
L’intervento di riordino delle diverse tipologie di contratto di lavoro ha preso avvio, in Italia, allo scopo di adeguare il nostro ordinamento al principio comunitario della flexicurity. Tale nozione, nata dall’integrazione di flessibilità e sicurezza, viene considerata come il modello da adottare per riformare la regolamentazione lavoristica dei Paesi europei e come una modalità efficiente e realistica per affrontare le nuove sfide che interessano i mercati del lavoro. Questo approccio fa riferimento, infatti, a una combinazione di politiche dirette a rafforzare sia la flessibilità che la sicurezza nel mercato del lavoro121.
L’approccio che declina flessibilità e sicurezza è considerato dalla Commissione europea un mezzo per promuovere una risposta attiva alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla rapida innovazione tecnologica, ma soprattutto una risposta agli elevati tassi di disoccupazione e di inattività e alla crescente segmentazione dei mercati del lavoro. Ai principi della flexicurity europea si è ispirata la legge n. 92/2012. Essa si è proposta, infatti, di favorire un progressivo spostamento del sistema italiano dal modello mediterraneo verso un assetto generale più affine a quello dei Paesi nord europei122. Più in particolare, il progetto di legge ha inteso allontanare il paese da un sistema di flexsecurity at the margin (o flexsecurity mediterranea), in cui la flessibilità è realizzata attraverso la creazione, attorno alla figura centrale del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, stabile e rigidamente garantito contro i licenziamenti, di un insieme di figure contrattuali atipiche caratterizzate dalla durata determinata o dalla libera recedibilità. Questa forma di flexsecurity era stata denunciata nel 22° Rapporto
121 M.T. Xxxxxxx, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity ‘all’italiana’ a confronto, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2012, 136, p. 527 ss.
122 X. Xxxxxxxx, X. Xxxx, Diritto del lavoro nell’Unione Europea, Padova, Cedam, 2012, p. 188 ss.; X. Xxxxxx, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in Liber Amicorum Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, Xxxxxxx, 2012.
della Commissione europea sull’occupazione in Europa123 come concausa della segmentazione dei mercati del lavoro e della penalizzazione delle nuove leve (in termini di possibilità di occupazione, di retribuzione, di formazione, di stabilità del rapporto, di protezione sociale).
Alla luce di queste criticità, l’obiettivo della riforma del 2012 è stato quello di introdurre il sistema di flexsecurity nordeuropea. In questo sistema alternativo convivono un contratto standard a tempo indeterminato, caratterizzato da una disciplina dei licenziamenti molto snella e leggera sotto il profilo sanzionatorio (fatte salve le ipotesi di discriminazione o l’arbitrio) e pochi contratti atipici a tempo determinato. In questo modello, la più elevata probabilità di perdere il posto di lavoro è compensata da un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive del lavoro, che permettono tempi di permanenza nello stato di disoccupazione involontaria molto ridotti124.
La volontà di orientare la legislazione italiana verso il modello scandinavo125 è evidente nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio al Senato il 17 novembre 2011126 . Xxxxx ha sottolineato la necessità di riformare le istituzioni del mercato del lavoro e, in particolare, di «colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi (ridurre i vincoli e i costi dei licenziamenti)».
Il modello di riferimento, nel trapasso verso la flexicurity scandinava, è stato quello proposto da Xxxxxx Xxxxxx000. Questa scelta risulta confermata dalla precisazione, resa da Xxxxx, secondo cui «il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non
123 European Union, 22nd Employment in Europe report, 2010.
124 Unione Europea, Valutazione del programma nazionale di riforma e del programma di stabilità 2011 dell’Italia”, del 7 giugno 2011, che sollecita una Raccomandazione del Consiglio europeo al riguardo. Cfr. X. Xxxx, Riequilibrio delle tutele e flexsecurity, in Magnani M., Xxxxxxxxxx M. (a cura di), La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Milano, Xxxxxxx, 2012, p. 23.
125 I modelli scandinavo, danese e olandese sono i modelli presi a riferimento dal Libro verde della commissione europea del 2006. In Italia al modello Danese guarda in particolare il progetto di Xxxxxx Xxxxxx.
126 Il Governo vara la nuova disciplina del lavoro, in “Il Corriere della Sera”, 18 novembre 2011.
127 Cr. X. Xxxxxx, Scenari di riforma del mercato del lavoro, in Italianieuropei, n. 4/2008, p. 1 ss.; Id., Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Milano, Mondadori, 2011. Un’altra variante progettuale eraquella del contratto unico proposta da Xxxxx e Xxxxxxxxx, poi ripresa in alcuni disegni di legge. Cfr. M.C. Carinci, Provaci ancora Xxx: ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, p. 9 ss.
verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere». Si doveva trattare, quindi, di un nuovo sistema di regole da applicare ai neo assunti o a coloro che avessero deciso volontariamente di optarvi128. In realtà la riforma introdotta dalla legge n. 92/2012 ha presentato alcuni rilevanti aspetti critici, evidenziando una notevole distanza rispetto ai modelli europei di flexicurity. Il divario è evidente, oltre che con riferimento all’intero sistema degli ammortizzatori sociali, sul versante della flessibilità del lavoro.
Nel 2014 il governo italiano è intervenuto nuovamente allo scopo di promuovere un riordino e una semplificazione delle diverse tipologie contrattuali. L’obiettivo della legge delega n. 183/2014 è stato quello, infatti, di rendere i contratti di lavoro più coerenti con le attuali caratteristiche del contesto occupazionale e produttivo, allo scopo di aumentare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte dei soggetti in cerca di occupazione.
La legge n. 92/2012 e il D. Lgs. n. 81/2015 sono intervenuti in modo rilevante su diverse tipologie di “lavoro flessibile”, vale a dire sia sui rapporti di lavoro caratterizzati dalla flessibilità di orario (lavoro a tempo parziale), sia sui contratti con flessibilità di durata della prestazione (lavoro a termine), sia infine sui rapporti di lavoro che, coniugando le due tipologie di flessibilità, si caratterizzano per la discontinuità della prestazione lavorativa (il lavoro intermittente). Queste tre tipologie contrattuali hanno subito, nell’ultimo triennio, mutamenti legislativi profondi129. Soprattutto attraverso il
128 Una conferma definitiva di questo orientamento è venuta dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, la quale, illustrando la riforma, ha dichiarato che «un ciclo di vita che funziona è quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all’inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto»: X. Xxxxx, Sull’articolo 18 non ci sono totem, in Corriere della sera del 18 dicembre 2011».
129 Con riferimento al lavoro a termine, ad esempio, il Jobs Acts ne ha profondamente destrutturato le caratteristiche, abbandonando il modello delineato dal d.lgs. 6 settembre 2001,
n. 368. La legge di modifica non è intervenuta sul contratto “acausale” introdotto dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, ma ha eliminato l’obbligo di causale nel contratto a termine, cancellando la necessità di indicazione di una ragione oggettiva (organizzativa, tecnica, produttiva o sostitutiva) per assumere a tempo determinato. Il d.lgs. n. 81/2015 stabilisce unicamente che al contratto di lavoro, per lo svolgimento di qualsiasi mansione, può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe. La nuova disciplina stabilisce, inoltre, che il numero complessivo dei rapporti di lavoro a termine presso ciascun datore di lavoro (non si parla di imprese) non può eccedere il limite del 20% dell’organico complessivo (non si parla solo di dipendenti). Il legislatore è intervenuto in modo altrettanto incisivo sul lavoro a tempo parziale, ridefinendone la disciplina e introducendo novità
Jobs Act il legislatore ha certato di attuare una normativa organica. Non si è trattato di semplice semplificazione della materia dei contratti di lavoro, ma di un riordino delle diverse tipologie contrattuali caratterizzato da due finalità: da un lato, rendere più agevole l’utilizzo; dall’altro, ridurre sensibilmente i margini di interpretazione.130
3.2. La definizione legale e le tipologie
La nuova disciplina del lavoro a tempo parziale è contenuta nella Sezione I del Capo II del D. Lgs. n. 81/2015, rubricata “Lavoro ad orario ridotto e flessibile”. Alla disciplina del part-time sono dedicate nove disposizioni, corrispondenti agli artt. 13-18. Esse confermano di fatto la disciplina dell’istituto come è stato regolamentato dal D. Lgs.
n. 276/2003, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 e dalla legge n. 99/2013131.
Il contratto intermittente viene definito dall’art. 13, in linea con la normativa precedente, come «il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa». Il Jobs Act si è riproposto di ridefinire la disciplina del lavoro a chiamata, sia per cercare di incentivarne l’utilizzo (visto il limitato successo di questa forma contrattuale in Italia, soprattutto a causa della sua limitata praticità), sia per fissarne in modo chiaro i limiti, i casi di utilizzo, la forma e il contenuto del contratto, nonché «lo specifico ambito operativo del contratto collettivo applicato da parte dell’azienda»132.
Un primo aspetto da considerare riguarda la conferma della natura subordinata del lavoro intermittente. Questa natura risulta confermata dalla collocazione di tale contratto nella Sezione II del Capo II del “Codice dei contratti”, vale a dire nell’area dei contratti di natura subordinata133. La Cassazione ha precisato, infatti, che
«l’occasionalità e discontinuità della prestazione non escludono, quindi, che il contratto intermittente presenti un carattere subordinato «quando questi caratteri siano connessi
significative in ordine alle clausole elastiche e al lavoro supplementare. Cfr. X. Xxxxxxx, Il nuovo diritto del lavoro: guida pratica alle novità del Jobs act, Milano, Xxxxxxx, 2015.
130 X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxx, Il Jobs Act, Piacenza, La Tribuna, 2016, p. 45.
131 X. Xxxxxxx, Il nuovo diritto del lavoro: guida pratica alle novità del Jobs act, cit., p. 72.
132 X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxx, Il Jobs Act, cit., p. 48.
000 X. Xxxxxxxx, Dal contratto al mercato: evoluzioni recenti del diritto dl lavoro alla luce del Jobs Act, Torino, Giappichelli, 2017, p. 72.
allo svolgimento di mansioni per le quali rileva il coordinamento con gli altri dipendenti e l’assoggettamento del lavoratore alle direttive specifiche del datore di lavoro»134.
In ogni caso, la particolare flessibilità che connota la prestazione lavorativa “intermittente” e la sua notevole dinamicità fanno sì che il job on call si caratterizzi come una forma “speciale” di lavoro subordinato. La natura speciale della subordinazione, già delineata dalla legge Xxxxx, è stata confermata dalla Circolare n. 4/2005 relativa alle forme del contratto intermittente135.
Il lavoro a tempo intermittente può essere svolto sia a tempo indeterminato che a tempo determinato. L’art. 13 del D. Lgs. n. 81/2015 prevede infatti la possibilità che il lavoro a chiamata possa essere «anche a tempo determinato». Ne deriva che il job on call, secondo la definizione anglosassone, corrisponde all’idea di un lavoratore che, chiamato dal datore di lavoro, risponda e svolga le mansioni richieste. La definizione normativa del contratto intermittente conferma come esso possa assumere quattro diverse forme:
● a tempo indeterminato con l’obbligo di risposta alla chiamata;
● a tempo indeterminato senza l’obbligo di risposta alla chiamata;
● a tempo determinato con l’obbligo di risposta alla chiamata;
● a tempo determinato senza obbligo di risposta alla chiamata;
Queste quattro fattispecie sono accomunate dal fatto che sono caratterizzate da un’alternanza di periodi in cui lavoratore effettua la sua prestazione e fasi in cui egli è inattivo e rimane a disposizione (stand by worker) in attesa che il datore di lavoro lo chiami. Il lavoro intermittente si differenzia, quindi, dal lavoro subordinato ordinario per il fatto dell’intermittenza e della discontinuità della prestazione lavorativa136.
Il Jobs Act ha confermato, quindi, la tipicità del lavoro intermittente, distinguendolo dal lavoro temporaneo e dal part time. Rispetto al primo si distingue in quanto non vi è un’agenzia che svolge un’attività di intermediazione. Il rapporto di lavoro si instaura senza mediazioni di terzi, esclusivamente tra il lavoratore e l’impresa137. Rispetto al lavoro a tempo parziale, la differenza consiste nel fatto che la prestazione di lavoro, una volta avvenuta la chiamata, è assimilabile in tutto a quella ordinaria degli altri lavorati dell’impresa.
134 Cass. 7 gennaio 2009, n. 58, in Lav. Giur., 2010, 1, p. 145.
135 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, Assago, Xxxxxxx Xxxxxx, 2016, p. 194.
000 X. Xxxxxxxx, Dal contratto al mercato, cit., p. 73.
137 X. Xxxxxxx, Il nuovo diritto del lavoro: guida pratica alle novità del Jobs act, cit., p. 72.
In termini generali, il lavoro part-time può essere definito come una prestazione di lavoro erogata secondo modalità orarie e di impegno temporale inferiori rispetto a quelle che caratterizzano il lavoro a tempo pieno138, Il rapporto di lavoro a tempo parziale, in particolare, può essere di tipo orizzontale, verticale e misto. La prima forma è quella in cui la riduzione di orario rispetto al tempo pieno è prevista facendo riferimento all’orario normale giornaliero di lavoro. Il rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale si ha qualora sia previsto che l’attività lavorativa venga effettuata a tempo pieno, ma senza continuità, vale a dire per periodi limitati e predefiniti nel corso della settimana, del mese o dell’anno. Infine, il lavoro a tempo parziale di tipo misto è quello che si svolge combinando la forma di part-time orizzontale con quella verticale139. La nuova disciplina del lavoro a tempo parziale (delineata dagli artt. 4-12 del D. Lgs. n. 81/2015) ha ridotto notevolmente l’estensione della norma che definisce tale tipologia contrattuale, rispetto al precedente art. 1 del D. Lgs. n. 61/2000. L’art. 1 conteneva, infatti, secondo una tecnica di derivazione comunitaria, sei diverse definizioni: tempo pieno, tempo parziale, part-time orizzontale, part-time verticale, part-time misto e lavoro supplementare. Oggi il legislatore si limita a stabilire che «nel rapporto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato, l’assunzione può avvenire a tempo pieno, ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, o a tempo parziale». Il decreto del 2015 tende a confermare, quindi, che la nozione di part-time deve essere identificata “in negativo”, ossia per contrasto con quella di full- time fornita nella normativa generale sull’orario di lavoro: è un lavoratore a tempo parziale chi lavora “al di sotto” dell’orario normale di lavoro, pari a quaranta ore settimanali, o della soglia inferiore stabilita dai contratti collettivi di lavoro140.
3.3. L’obbligo di chiamata e l’indennità di disponibilità
Le osservazioni precedenti evidenziano la differenza che intercorre tra il lavoro intermittente e quello part time.
La conferma del jobs on call da parte del d.lgs. n. 81/2015 trova una giustificazione nella volontà del legislatore di fornire uno strumento che permetta di fare emergere i tipi di lavoro (nero o sommerso) che vengono attivati dal settore
000 X. Xxxxxx, Xx part-time in Europa, Milano, Xxxxxxx, 2011, p. 11.
139 X. Xxxxxxxx, X. Xxxx, Il contratto di lavoro part-time come strumento di efficienza organizzativa,
in Azienditalia. Il personale, 1, 2006, pp. 19-26
commerciale e dei servizi. Questi settori, infatti, in determinati periodi e in particolari situazioni di emergenza, sono soliti utilizzare lavoratori «già in forza presso un altro datore di lavoro oppure disoccupati, svolgendo prestazioni lavorative fortemente limitate nel numero e nella durata, tali, ad esempio, da non poter essere neppure ricondotte ad un lavoro a tempo parziale»141. La preferenza del legislatore è andata, inoltre, per la forma contrattuale con l’obbligo di rispondere alla chiamata, lasciando la tipologia di contratto senza obbligo di risposta alla libera scelta delle parti nell’ambito dell’accordo contrattuale.
Ne deriva che il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato in due forme, vale a dire con o senza obbligo di rispondere alla chiamata. A fronte di questo obbligo, il legislatore ha previsto la indennità di disponibilità che deve essere corrisposta secondo i parametri stabiliti dalla contrattazione collettiva, comunque in misura non inferiore al venti per cento della retribuzione, ed è sottoposta all’ordinaria contribuzione previdenziale142. Se il lavoratore a chiamata è tenuto a rispondere e per un periodo è impossibilitato a farlo, ha l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro documentando l’impedimento. In questo particolare periodo il lavoratore non percepisce l’indennità prevista.
Il rifiuto ingiustificato del lavoratore di aderire alla chiamata è ancora, dopo il Jobs Act, un motivo legittimo di licenziamento e comporta la restituzione dell’indennità. Al contrario, se il contratto non prevede questa indennità, il prestatore di lavoro è libero di accettare o meno la chiamata del datore di lavoro143. Alcuni autori144 hanno evidenziato che tra le criticità dell’istituto job on call vi è la circostanza per cui, in caso di obbligo di rispondere alla chiamata, il prestatore subisca una limitazione alla propria vita, dovendo rimanere sempre “reperibile” per il datore di lavoro. A fronte di questa limitazione, il lavoratore percepisce l’indennità di disponibilità che però può essere spesso bassa e di fatto non sufficiente a giustificare un’attesa “potenzialmente eterna”. Non è infatti certo quando si verrà chiamati dal datore di lavoro, dal momento che la prestazione è resa al bisogno.
141 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 195.
142 A. La Xxxxxxx, Xxxxxx intermittente e comunicazione obbligatoria, in Diritto e pratica del lavoro, 2017, 9, pp. 547-553.
143 X. Xxxxxxx, Lavoro intermittente e comunicazione obbligatoria, in Diritto e pratica del lavoro, 2016, 5, pp. 277-286.
144 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 198.
Per limitare questo onere per il lavoratore, è stato previsto l’obbligo di preavviso per l’imprenditore. Infatti, anche se vi è l’obbligo di rispondere alla chiamata, l’imprenditore deve avvertire il prestatore con 24 ore (almeno) di anticipo. Si tratta di una previsione che riequilibra i diritti e i doversi delle sue parti, essendo diretta a fare sì che «il lavoratore non sia ridotto ad un fattore produttivo da porre a disposizione dell’impresa»145.
Il rifiuto di rispondere alla chiamata, come si è già detto, può essere una giusta causa di licenziamento, oltre a comportare la restituzione dell’indennità per il periodo successivo al rifiuto (comma 5 art. 16, D. Lgs. n. 81/2015). In proposito, va precisato che la normativa previgente (art. 36 della riforma Biagi), disciplinando le conseguenze del rifiuto di rispondere alla chiamata, parlava non di licenziamento, ma di motivo di risoluzione del contratto. La modificazione del testo indica la volontà del legislatore del 2015, di equiparare, per quanto possibile, i lavoratori intermittenti agli altri146.
Inoltre, la legge Xxxxx aveva inserito tra le conseguenze del diniego rivolto al datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore fosse obbligato a rispondere, la previsione di un «congruo risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o in mancanza dal contratto di lavoro». Si trattava di una clausola vessatoria per i lavoratori intermittenti, che la nuova disciplina ha cancellato.
In conclusione, il lavoro subordinato intermittente prevede oggi due tipologie di contratto: a) il lavoro intermittente con garanzia di disponibilità, nel caso in cui il lavoratore assume l’obbligo di rispondere alla domanda del datore di lavoro in cambio di un’indennità per il periodo in cui si rende reperibile; b) il lavoro intermittente senza garanzia di disponibilità, qualora il lavoratore non abbia un obbligo di rispondere alla chiamata e quindi non percepisca l’indennizzo di reperibilità. Una parte della dottrina ha evidenziato come solo la prima ipotesi sia riconducibile alla categoria della subordinazione147. La Circolare n. 4 del 2005 ha precisato, però, che «il vincolo di etero- determinazione è connesso a tutte le ipotesi di lavoro intermittente, indipendentemente dalla disponibilità o meno del lavoratore».
Nel secondo capitolo è già stato ricordato come al contratto di lavoro intermittente non si applicano i limiti, previsti per il contratto a tempo determinato, relativi agli intervalli di tempo tra un contratto e il successivo. Quindi, a un contratto di
145 X. Xxxxxxx, Lavoro intermittente e comunicazione obbligatoria, cit., p. 282.
146 Ibidem.
147 A. Xxxxx, Nuovi dubbi di legittimità in materia di lavoro intermittente al vaglio della Corte di Giustizia Europea, in Giur. it., 2016, 6, p. 1427.
lavoro intermittente può ancora seguire un contratto di lavoro a tempo determinato (o viceversa) senza soluzione di continuità, a meno questa successione di contratti venga utilizzata “in frode alla legge”148. La dottrina si è chiesta se fosse possibile, dopo un primo contratto a termine, assumere lo stesso lavoratore con contratto di lavoro intermittente, senza rispettare gli intervalli temporali. Il Ministero del Lavoro, con la Circolare 22 aprile 2013, n. 37, ha precisato che, «anche se da un punto di vista letterale non risulta una preclusione in tal senso, la condotta, potrebbe integrare la violazione di una norma imperativa (art. 1344 c.c.), trattandosi di un contratto stipulato in frode alla legge, con conseguente nullità dello stesso e trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato».
3.4. I presupposti di ammissibilità, i divieti di utilizzo e il regime sanzionatorio
3.4.1. I presupposti di ammissibilità
A causa delle particolarità del lavoro intermittente, il legislatore si era proposto di limitarne il campo di applicazione ai casi in cui vi fossero determinate esigenze produttive.
Il Jobs Act, al comma 1 dell’art. 1, parla soltanto di «esigenze individuate dai contratti collettivi”. In mancanza di contratti collettivi, «i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro». Il vecchio testo dell’art. 40 della legge Xxxxx aveva utilizzato la stessa tecnica normativa. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali aveva fatto riferimento, infatti, con il d.m. 2 ottobre 2004, ad una tabella allegata al regio decreto n. 2657 del 1923. Questa tabella indica 46 tipologie di lavoratori, alcune delle quali obsolete, altre utilizzate nel panorama lavorativo, come, ad esempio, i fattorini, i custodi, i guardiani, i portinai ed i magazzinieri149.
Una parte della Dottrina ha ritenuto che questo riferimento non sia più utilizzabile in presenza della nuova normativa che non ne fa menzione150. Questa argomentazione è respinta però dalla dottrina maggioritaria. Lo stesso decreto n.
148 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, in X. Xxxxxx (a cura di), Il mercato del lavoro, in
X. Xxxxxxxx, E Xxxxxxx (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, VI, Padova, Cedam, 2012, p. 1260.
149 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 196.
150 X. Xxxxx, X. Xxxxxx Xxxxxx, Commentario breve alla riforma del Jobs Act, Padova, Cedam, 2016, p. 88.
81/2015 chiarisce questo equivoco, prevedendo che, in attesa dei nuovi decreti, restano in vigore le previgenti disposizioni (art. 55 comma 3). E’ quindi valido il richiamo alla tabella del r.d. n. 2657/1923, una circostanza è confermata anche dal Ministero del Lavoro nell’interpello 10/2016.
Un’altra ipotesi applicativa del lavoro intermittente, era, nella formulazione previgente, quella legata a particolari periodi della settimana, del mese o dell’anno. Questa ipotesi era prevista dal primo comma dell’art. 34 in relazione all’art. 37 D. Lgs. n. 276/2003. La successiva abrogazione dell’art. 37 da parte della riforma Fornero del 2012 aveva creato una serie di dubbi applicativi, con opinioni diverse circa la predeterminazione di questi periodi. La circolare del Ministero del Lavoro n. 20 del 1° agosto 2012 aveva già fornito l’interpretazione di questa norma, lasciando alla contrattazione collettiva il compito di predeterminare i periodi. Ad ogni modo, la riforma del Jobs Act ha e corretto questa imprecisione legando la previsione dei particolari periodi dell’anno alla contrattazione collettiva151.
Attualmente l’art. 13 del Jobs Act, riprendendo il testo dell’art. 34 del D. Lgs. n. 276/2003, stabilisce in modo tassativo le ipotesi in cui il datore di lavoro può fare ricorso al lavoro a chiamata, utilizzando una delle quattro forme richiamate in precedenza:
● gli specifici requisiti oggettivi: questo requisito fa riferimento alla fattispecie standard, vale a dire quella relativa allo svolgimento di prestazioni di natura discontinua, individuate dai contratti collettivi (art. 13, comma 1);
● gli specifici requisiti temporali: si tratta dei contratti stipulati con riferimento a periodi predeterminati, anch’essi individuati secondo le specifiche esigenze individuate dai contratti collettivi (art. 13, comma 1);
● gli specifici requisiti soggettivi: sono i contratti stipulati, in qualsiasi settore e per qualsiasi attività, solo nei casi di lavoratori molto giovani o (dal punto di vista della vita lavorativa) più anziani. Il comma 2 dell’art. 13 D. Lgs. n. 81/2015 (sostanzialmente identico al previgente art. 34, comma 2, D. Lgs. n. 276/2003) prevede infatti che i lavoratori assumibili con questo contratto siano i minori di anni 24, purché la prestazione si esaurisca entro il venticinquesimo anno, e quelli con più di 55 anni152.
Va rilevato che nella formulazione originaria dell’art. 34, l’utilizzo della forma di lavoro job on call era previsto per i lavoratori sino ai 25 anni e dai 45 in su. L’intervento
151 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 197.
152 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 198.
della legge n. 92/2012 aveva ristretto, però, questo range sino alla attuale formulazione, confermata dal Jobs Act. Inoltre, il d.l. 28 giugno 2013, n. 76, con le modificazioni apportate dalla legge di conversione n. 99/2013, aveva introdotto una novità, apparentemente favorevole al lavoratore153. Infatti si era previsto che, in caso di utilizzo del lavoratore a chiamata, se quest’ultimo avesse svolto in tre anni solari più di 400 giornate con lo stesso datore di lavoro e con la stessa forma contrattuale, il rapporto di lavoro era convertito in rapporto a tempo pieno ed indeterminato. Questo limite è stato confermato dall’art. 13, comma 3, deal Jobs Act. Si tratta di una disposizione che la Dottrina ritiene giusta, in quanto «anche al netto dei reali bisogni di flessibilità del mercato del lavoro, non può essere consentito che un individuo, avendo un contratto di lavoro a chiamata, studiato per essere discontinuo e appunto intermittente, venga poi stabilmente e quasi giornalmente utilizzato come un classico dipendente subordinato a tutti gli effetti»154.
Il Ministero del lavoro, con la Circolare n. 35 del 29 agosto 2013, ha chiarito che
«il ricorso a prestazioni di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un massimo di quattrocento giornate di effettivo lavoro “nell’arco di tre anni solari”». Il conteggio delle prestazioni deve essere fatto, quindi, dal giorno in cui si richiede la prestazione, a ritroso di tre anni. Il Ministero del Lavoro, con la circ. min. 3 febbraio 2005, n. 4, ha chiarito che i periodi predeterminati sono così individuati:
a) fine settimana: dal venerdì pomeriggio alle 13.00 sino al lunedì mattina ore 06.00;
b) vacanze natalizie: dal 10 dicembre al 1° gennaio;
c) vacanze pasquali: dalla domenica delle Palme al giorno dopo il Lunedì dell’Angelo;
d) vacanze estive: dal 1 giugno al 30 settembre
Il prestatore, quindi, può essere assunto con contratto intermittente, anche nel caso in cui la sua attività lavorativa, sia richiesta, ad esempio, soltanto nei week end. Questa tipologia di contrattazione, come si vedrà meglio in seguito, si presta particolarmente alle esigenze delle attività commerciali con notevoli vantaggi per la parte datoriale. Infatti, anche nel caso vi sia un obbligo di rispondere alla chiamata, con il conseguente diritto a ricevere l’indennità di disponibilità, il datore deve versarla solo in riferimento ai periodi predeterminati. Quindi, facendo l’esempio del lavoro nei fine settimana, l’indennità di disponibilità deve essere calcolata solo sui due giorni e mezzo
del week end, perché è quello l’arco temporale nel quale il prestatore può ricevere la chiamata (cui ha l’obbligo di rispondere).
Va però precisato che il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 4/2005, ha stabilito che «il lavoratore che svolga le prestazioni solo in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, così come indicati nel precedente paragrafo, nell’ipotesi in cui si obblighi a rispondere alla chiamata del datore di lavoro, ha diritto a percepire l’indennità di disponibilità solo in caso di effettiva chiamata. Occorre peraltro precisare che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, in tali casi il datore di lavoro è tenuto a corrispondere l’indennità di disponibilità per tutto il periodo di inattività precedente e posteriore alla chiamata stessa, indennità calcolata secondo le modalità previste dal D.M. 10 marzo 2004. Nell’eventualità in cui, invece, il datore di lavoro non effettui alcuna chiamata per tutta la durata del contratto non è tenuto a corrispondere al lavoratore alcuna indennità».
La previsione del Ministero stabiliva, quindi che, in caso di lavoro a chiamata per periodi predeterminati con previsione di obbligo di risposta e indennità di disponibilità, quest’ultima doveva essere versata solo se la chiamata arrivava. Se ciò non avveniva, il lavoratore poteva essere costretto ad attendere a lungo. Questo, però, è contrario sia alla normativa del lavoro intermittente, sia alla ratio dell’istituto stesso155. Attualmente, alla luce del D. Lgs. n. 81/2015, non viene più considerato operante il riferimento ai periodi predeterminati individuati dalla Circolare, per via del fatto che la nuova disciplina rinvia, per la definizione dei periodi, alla contrattazione collettiva.
Un altro elemento importante, nell’analisi della disciplina del lavoro a chiamata, è costituito dagli obblighi che gravano sul datore di lavoro, per il fatto di utilizzare questa particolare tipologia contrattuale.
La riforma Fornero ha infatti introdotto, in caso di ricorso al job on call, l’obbligo di effettuare una comunicazione amministrativa alla direzione territoriale del lavoro, attraverso modalità semplificate (fax, mail e sms). In questa comunicazione, l’imprenditore deve indicare la durata della prestazione, a meno che non superi i 30 giorni. Infatti, l’art. 15, comma 3 del D. Lgs. n. 81/2015 (richiamando il comma 3-bis dell’art. 35 D. Lgs. n. 276/2003) sembra stabilire che, nel caso in cui la prestazione superi i 30 giorni, non è necessaria la comunicazione, o comunque non è necessario che
la comunicazione specifichi la durata della prestazione lavorativa156. Questo onere per il datore di lavoro è previsto a pena di sanzione amministrativa, che può ammontare, per ogni lavoratore assunto con tali modalità, da 400 a 2.400 euro.
Il vincolo delle quattrocento giornate di lavoro non trova applicazione solo nel settore turistico, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. Il settore turistico, in particolare, è caratterizzato da picchi di clientela di brevissima durata, anche se ripetuti, il che porta alla necessità di contrattare lavoratori (spesso molto giovani) per un breve periodo di tempo. Per questi lavoratori (oltre che per le aziende) il contratto a chiamata rappresenta un passo in avanti, sia sotto il profilo delle coperture sia sotto quello delle tutele157.
L’utilizzo del job on call, può avvenire nel settore turismo per tre diversi ordini di ragioni. In primo luogo attraverso l’individuazione dei periodi predeterminati nell’arco della settimana o dell’anno, come prevede il comma 1 dell’art. 13 D. Lgs. n. 81/2015. Questa individuazione è legata ai fine settimana o ai periodi di festività, in cui le attività turistiche e commerciali sono tipicamente più prese d’assalto. In secondo luogo perché, in mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Se la contrattazione collettiva non dispone nulla a riguardo, opera il richiamo alla tabella del regio decreto n. 2657 del 1923, la quale individua molte figure che fanno parte del settore turistico e dei pubblici esercizi (camerieri, personale di servizio e di cucina negli alberghi, trattorie, esercizi pubblici in genere, carrozze ristoranti e piroscafi). Queste disposizioni, come osserva un autore, dimostrano «la particolare attenzione del legislatore per il settore commercio e turismo che in virtù delle proprie peculiarità, si presta al ricorso al contratto intermittente»158.
Infine, anche le ragioni cd. soggettive rispondono alle esigenze dei datori di lavoro dei settori turistico e commerciale, che spesso ricorrono a soggetti con età inferiore ai 24 anni. La riforma Fornero, come si è già ricordato, è intervenuta per restringere il range di età in cui è sempre consentito il ricorso a questa tipologia contrattuale (in precedenza comprendente i minori di 25 e i soggetti con più di 45 anni e successivamente i giovani sotto i 24 anni e i soggetti con più di 55 anni). Per tutti questi
000 X.X. Xxxxxx, Tipologie contrattuali - Lavoro intermittente: casi di utilizzo, in Diritto e pratica del lavoro, 2016, 17, p. 1103.
000 X. Xxxxxxxx, Xx contratto di lavoro intermittente e la possibile discriminazione per età, in Diritto delle relazioni industriali, 2016, 4, pp. 1111-1118.
158 Ivi, p. 1115.
motivi, i settori del turismo e dei servizi pubblici sono il contesto “naturale” per i contratti di lavoro intermittenti. Questo utilizzo trova una giustificazione nel fatto che l’unica vera alternativa per l’imprenditore sarebbe il lavoro in nero159. Del resto l’importanza della tipologia contrattuale per il comparto turismo e spettacolo è stabilita dallo stesso legislatore che, stabilendo la soglia delle 400 giornate lavorative oltre la quale il lavoratore è considerato a tempo pieno ed indeterminato, esclude l’applicabilità della previsione a questi settori.
Con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ogni lavoratore con lo stesso datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento di questo periodo, il rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato160.
3.4.2. I divieti di utilizzo
In precedenza è stata analizzata la casistica in cui è utilizzabile lo strumento del job on call, vale a dire le fattispecie nelle quali l’imprenditore può impiegare il lavoratore con lo strumento del contratto intermittente.
L’art. 14 del decreto n. 81/2015, ricalcando le disposizioni dell’art. 34, comma 3,
D. Lgs. n. 276/2003, prevede alcune situazioni nella quali non è vietato assumere personale con un contratto di lavoro intermittente. Si tratta di casi analoghi a quelli previsti nel caso di contratto a tempo determinato e fanno riferimento a un criterio di carattere oggettivo, e tre di carattere soggettivo in riferimento alle aziende che dovrebbero farvi ricorso161.
Sul piano oggettivo, è previsto infatti il divieto di utilizzare il lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero. Mentre sul piano soggettivo, il legislatore impedisce il ricorso a questa forma di lavoro, a tutte le unità produttive nelle quali si sia proceduto nei sei mesi precedenti a licenziamenti collettivi, sospensioni o riduzioni dell’orario di lavoro in riferimento a lavoratori aventi le stesse mansioni da attribuire agli intermittenti. Inoltre, è precluso l’utilizzo del job on call, alle aziende nelle quali sia presente una sospensione del rapporto o una riduzione dell’orario, con diritto al
159 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1262.
160 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 197.
161 Ibidem.
trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni.
Infine, un quarto divieto riguarda le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi come previsto della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 14, lett. c, del D. Lgs. n. 81/2015). In sostanza l’aver omesso di ottemperare all’obbligo di valutazione dei rischi, previsto dal T.U. n. 81/2008, preclude l’accesso alla forma contrattuale intermittente, dimostrando l’importanza e centralità attribuita dal legislatore a questo onere del datore di lavoro.
La Circolare n. 20/2012 ha precisato che la valutazione dei rischi deve essere effettuata prima dell’immissione al lavoro dei lavoratori a chiamata. Inoltre, il documento di valutazione dei rischi (Dvr) deve essere aggiornato e adeguato alle condizioni operative dell’azienda. L’art. 28 del T.U. n. 81/2008 individua, infatti, l’ambito della valutazione dei rischi, facendo riferimento a tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, compresi quelli che riguardano gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari (tra cui lo stress lavoro-correlato). Una volta conclusa la valutazione, deve essere redatto un documento di valutazione dei rischi (Dvr) che deve avere una data certa. Questo documento deve contenere obbligatoriamente: l’individuazione delle procedure per attuare le misure da realizzare e i ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere; l’indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale e del medico competente che ha partecipato alla valutazione dei rischi; l’individuazione delle mansioni che possono esporre i lavoratori a rischi specifici che richiedono una particolare capacità professionale e una specifica esperienza. Queste disposizioni rendono necessaria la redazione di un documento dettagliato. Si può parlare, quindi, di “mancata effettuazione della valutazione” sia quando non si provvedere a redigere il documento, sia quando quest’ultimo è insufficiente, incompleto o inadeguato162.
162 Le modalità secondo cui effettuare la valutazione dei rischi sono stabilite dall’art. 29. Questa norma stabilisce che «il datore di lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento di valutazione dei rischi, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente». Queste attività «sono realizzate previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza». Cfr. X. Xxxxxxxxxxx, Obblighi e responsabilità delle imprese nella giurisprudenza penale, in Riv. giur. lav., 2001, I, p. 529 ss.; X. Xxxxxxxxx, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Milano, Ipsoa, 2006, p. 1393..
L’art. 17 del D. Lgs. n. 81/2015 (ricalcando l’art. 38 del D. Lgs. n. 276/2003) stabilisce che lavoratore intermittente «non deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello». Ne deriva che il lavoratore a chiamata gode, nel periodo di attività, degli stessi diritti retributivi che la legge riconosce a tutti gli altri lavoratori subordinati nei periodi di effettiva occupazione. Egli è invece privo di tutela nei periodi in cui rimane a disposizione del datore di lavoro.
3.4.3. Il regime sanzionatorio
Biagi.
Il Jobs Act ha confermato, di fatto, il sistema sanzionatorio delineato dalla legge
Una prima ipotesi è quella in cui il datore di lavoro abbia stipulato un contratto di
lavoro a chiamata senza che vi fossero i presupposti previsti dall’art. 13 della legge n. 81/2015. In questo caso il rapporto di lavoro si converte da contratto di lavoro intermittente a contratto a tempo pieno e indeterminato. Questa conversione opera fin dal momento in cui il rapporto si è costituito, visto che il contratto è nullo per violazione di norme imperative163.
Una seconda ipotesi riguarda il superamento del limite dei 400 giorni di lavoro effettivo nell’arco di tre anni solari164. Anche questa violazione fa venire meno il rapporto di lavoro intermittente e lo sostituisce, a partire dalla data del superamento, con un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato165. La violazione di norme imperativa determina, infatti, la nullità del rapporto di lavoro perfezionato ricorrendo alle norme relative al lavoro a chiamata. La dottrina sottolinea, inoltre, come lo stesso meccanismo di annullamento e sostituzione colpisca i contratti conclusi violando anche uno solo dei casi di divieto previsti dall’art. 14. La tabella seguente sintetizza queste diverse ipotesi di violazione e le corrispondenti sanzioni.
163 Artt. 1418, 1419 el424 cod. civ.; Circolare n. 18/2012.
164 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 208.
165 Circolare n. 35/2013.
Sanzione per conversione del contratto di lavoro intermittente
Un altro gruppo di sanzioni, confermate dal Jobs Act, riguarda l’omessa comunicazione della chiamata. Se il datore di lavoro omette di effettuare (o la fa tardivamente) la comunicazione preventiva alla Direzione Territoriale del Lavoro competente per territorio, come prevede l’art. 15, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015, per ogni lavoratore è applicata una sanzione pecuniaria da 400 a 2.400 euro, senza che possa essere attivata la procedura di diffida precettiva disciplinata dall’art. 13 del D. Lgs.
n. 124/2004. La Circolare n. 18/2012 ha precisato, inoltre, che la sanzione amministrativa deve essere applicata anche nel caso di chiamata del lavoratore in giorni diversi da quelli comunicati inizialmente. Il Vademecum adottato dal Ministero del Lavoro con la Lettera circolare n. 7258 del 22 aprile 2013 ha chiarito che dal quadro normativo «si evince che la sanzione in esame trova applicazione con riferimento ad ogni lavoratore e non invece per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto
l’obbligo comunicazionale. In sostanza, per ogni ciclo di 30 giornate che individuano la “condotta” del trasgressore, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore».
Sanzioni per omessa comunicazione della chiamata
3.5. I requisiti di forma e gli obblighi di comunicazione
Il legislatore della riforma Biagi e poi del Jobs Act ha previsto, all’art. 15, la forma scritta non ad substantiam, ma solo ad probationem. Il contratto deve specificare:
a) durata e ragioni del ricorso al job on call;
b) luogo e modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore e del relativo preavviso di chiamata;
c) il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, se prevista;
d) modalità in cui il datore di lavoro può richiedere la prestazione (es. per telefono chiamando in determinati orari);
e) eventuali misure di sicurezza necessarie per il tipo di attività166.
166 X. Xxxxxx, Il contratto di lavoro intermittente, cit., p. 1265.
Infine, al secondo comma dell’art. 15, il legislatore ha previsto che l’imprenditore sia tenuto con cadenza annuale ad informare le rappresentanze sindacali aziendali, se presenti, sull’utilizzo del contratto a chiamata. Quest’ultimo onere, per il datore di lavoro, è più che altro come una garanzia nei confronti delle rappresentanze sindacali. Esso è diretto a favorire un ruolo attivo del datore di lavoro e al tempo stesso a limitare possibili abusi nel ricorso al lavoro intermittente.
Per quel che riguarda i canali attraverso cui è possibile adempiere all’onere della comunicazione dell’utilizzo del lavoratore a chiamata, a partire da novembre 2014 il Ministero del Lavoro ha messo a disposizione degli utenti una app denominata “Lavoro intermittente”, che consente all’imprenditore di effettuare direttamente dal proprio cellulare la comunicazione di utilizzo del lavoratore a chiamata. Si tratta di un’iniziativa positiva, anche se a giudicare dai feedback degli utenti, l’applicazione sembra non funzionare adeguatamente. Un altro metodo di comunicazione semplificato è inviare una
p.e.c. all’indirizzo xxxxxxxxxxxxx@xxx.xxxxxx.xxx.xx.
Occorre ricordare che la riforma Biagi ha introdotto (con gli artt. 75 e ss. del D. Lgs. n. 276/2003) una novità assoluta per l’ordinamento italiano: vale a dire la certificazione dei contratti di lavoro. Questa certificazione attesta la conformità (e la fedeltà) di ciò che è indicato nel contratto. Il fine è quello di ridurre il contenzioso in materia di corretta qualificazione del rapporto di lavoro. Attraverso la certificazione, però, si può anche derogare alla disciplina normativa lavoristica. Secondo alcuni autori infatti, «dalla concreta esperienza di regolamentazione si ricava che la certificazione, intesa come procedura negoziale che si svolge con l’assistenza di un organo esterno alle parti del contratto individuale, può assolvere almeno quattro funzioni: a) qualificazione “rafforzata” del negozio stipulato; b) assistenza nella definizione dei contenuti contrattuali; e) derogabilità negoziale assistita della disciplina lavoristica inderogabile; d) disponibilità assistita dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore»167.
Anche se la disciplina della certificazione ha subito diverse modifiche (la principale effettuata dal cd. Collegato lavoro nel 2010), l’istituto è sempre in vigore e il legislatore ha sottolineato la necessità di una sua crescita. La Dottrina si è chiesta, peraltro, se sia possibile certificare un contratto di lavoro intermittente, vista la sua
167 X. Xxxxxxx, Certificazione dei contratti di lavoro e arbitrato, WP Xxxxxxx X’Xxxxxx, 2010, p. 4.
notevole flessibilità. Gran parte degli autori rispondono affermativamente, a condizione che vi sia la «comune volontà delle parti»168.
I vantaggi della certificazione stanno nella maggiore certezza del diritto, relativa al contenuto del contratto che si sta per stipulare. Fino ad oggi, tuttavia, l’istituto della certificazione ha avuto una diffusione limitata. In particolare nelle Regioni meridionali i contratti di lavoro certificati sono molto pochi. Ciò è dovuto al fatto che, anche, se è vero che la volontà di certificare un contratto di lavoro deve essere comune, è altrettanto vero che è l’imprenditore a decidere se farlo o meno. Come osserva la dottrina, «trovare un datore di lavoro che voglia certificare un contratto intermittente è difficile, soprattutto in tempi di depressione imprenditoriale, come quelli correnti»169.
3.6. Il trattamento economico e normativo del lavoratore intermittente
In conclusione è opportuno chiarire alcuni aspetti relativi alla previdenza ed assistenza che spettano attualmente al lavoratore a chiamata. Il comma 2 dell’art. 17 del Jobs Act stabilisce che il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente «è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia e infortunio, congedo di maternità e parentale».
Innanzitutto l’imprenditore che utilizza lavoratori intermittenti è obbligato a versare i contributi previdenziali sul totale della retribuzione e anche sull’indennità di disponibilità, se dovuta. L’indennità di disponibilità, però, deve essere considerata nel computo dei calcoli pensionistici effettuati ai fini dell’anzianità contributiva170.
Per quel che riguarda invece gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali, la copertura assicurativa (Inail) opera «in costanza di rapporto di lavoro, solo per i periodi di effettiva attività». Ne deriva che i periodi di attesa, tipici del contratto a chiamata, non sono coperti per eventuali infortuni o malattie professionali, a meno che il contratto non abbia previsto l’indennità di disponibilità e quindi l’obbligo di rispondere alla chiamata171. Questo aspetto era stato chiarito già in relazione alla legge Biagi e risulta
168 X. Xxxxx, X. Xxxxxx Xxxxxx, Commentario breve alla riforma del Jobs Act, cit., p. 132.
169 Ivi, p. 133.
170 P. Xxxxxx, Tutto Jobs Act: la nuova dottrina del lavoro, cit., p. 212.
171 X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente dopo il Jobs Act, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2015, 12, pp. 1129.
confermato dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 81/2015, che ha eliminato dalla disciplina del lavoro intermittente la disposizione per cui, nei periodi di inattività, il prestatore «non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati, né matura alcun trattamento economico e normativo” (vecchio art. 38, comma 3, del D. Lgs. n. 276/2003).
La struttura del lavoro a chiamata permette al prestatore di lavoro di svolgere più attività nello stesso periodo. Il lavoratore a chiamata può, quindi, stipulare più contratti di questo tipo contemporaneamente, lavorando in più aziende, a meno che ciò non violi altre disposizioni o specifiche previsioni del contratto individuale o collettivo. Anche se questa ipotesi è remota, al lavoratore intermittente può essere richiesto di sottoscrivere un patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 c.c. Il patto di non concorrenza è un contratto a prestazioni corrispettive e a titolo oneroso mediante il quale un lavoratore si obbliga a non esercitare, dopo la cessazione del rapporto, un’attività in concorrenza, o comunque a favore di imprese concorrenti, con il proprio ex datore di lavoro172. La Giurisprudenza sottolinea come, in un mercato competitivo e globalizzato, è sempre più forte l’esigenza dell’impresa di proteggere il proprio know how e i propri processi di lavoro, oltre che eventualmente anche elementi esterni all’azienda come la clientela o l’avviamento173. Questa preoccupazione trova una giustificazione nella necessità di evitare che il patrimonio di conoscenze ed esperienze acquisite da un dipendente possa essere disperso, dopo la cessazione del rapporto di lavoro a favore di imprese concorrenti. Il divieto previsto dall’art. 2125 c.c. è diretto, quindi, a mediare tra due interessi contrapposti: quello del datore di lavoro, il quale si preoccupa di salvaguardare gli elementi immateriali della produzione (organizzazione tecnica e amministrativa, procedimenti di lavorazione, know-how aziendale) e il valore dell’azienda (avviamento e clientela); e gli interessi del lavoratore, il quale si preoccupa di non subire un’eccessiva compressione della sua personalità e libertà professionale174.
Riportando l’attenzione sulla possibilità, per il lavoratore a chiamata, di svolgere più lavori, questa circostanza ha conseguenze anche sul piano pensionistico. L’attività multipla crea, infatti, un cumulo tra le prestazioni e tra i contributi versati. Seguendo la stessa ratio, il Ministero del Lavoro, in risposta a un interpello del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, ha chiarito che un lavoratore iscritto nelle liste di mobilità,
172 X. Xxxxxxx, Patto di non concorrenza, Milano, Xxxxxxx, 2010, p. 4 ss.
173 Trib. Milano, 31 luglio 2003, in Foro it., 2003, I, c. 782.
174 X. Xxxxxxx, Patto di non concorrenza, cit., p. 10.
mantiene questa iscrizione in caso di assunzione con contratto intermittente anche a tempo indeterminato, a meno che non abbia l’obbligo di rispondere alla chiamata. Quindi, prestatore iscritto nelle liste di mobilità può svolgere un’attività a chiamata, nel caso in cui non sia prevista l’indennità di disponibilità.
Un caso diverso è quello della prestazione erogata nel periodo di mobilità. Il Ministero ha infatti sostenuto, nell’interpello 15/2015 che «la stipula di un contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato non comporta, ai sensi dell’art. 9, comma 6 lett. a), l. 223/1991, la cancellazione dalle liste di mobilità». Lo stesso Ministero ha rilevato, però, che in caso di assunzione con contratto a chiamata a tempo indeterminato, l’INPS avrebbe dovuto fornire chiarimenti circa il riconoscimento o meno dell’indennità di mobilità, vale a dire la prestazione economica connessa all’iscrizione nelle liste. L’INPS, nella comunicazione n. 7401/2011, ha chiarito che «l’indennità di mobilità può essere riconosciuta limitatamente ai periodi di non lavoro tra una chiamata e l’altra, restando la prestazione sospesa durante i periodi di risposta alla chiamata da parte del lavoratore». Quindi, in caso di assunzione con contratto job on call a tempo indeterminato e sempre che non sia prevista l’indennità di disponibilità, il prestatore resta iscritto nelle liste di mobilità. L’erogazione della prestazione è, però, sospesa nei periodi effettivi di lavoro.
3.7. Usi e abusi del lavoro intermittente
Nell’ordinamento italiano la moltiplicazione dei tipi contrattuali “flessibili” sono stati provocati dall’intento dei legislatori che hanno immaginato di assecondare i mutamenti socio-economici dell’economia globalizzata. Con questo approccio, da un lato, hanno voluto contrastare la disoccupazione e l’inattività lavorativa (specie delle fasce più deboli del mercato del lavoro, interessate a minori impegni lavorativi) e, dall’altro, si sono proposti di favorire la competitività del sistema economico e il miglioramento della produttività. Come sottolinea il rapporto dell’Ocse del 2011, la crisi occupazionale che ha colpito l’Unione Europea nel xxxxx xxxxx xxxx ‘00 ha determinato la diffusione di tipi di lavoro che non possono essere comparati con il lavoro dipendente a tempo pieno di durata indeterminata. Si fa riferimento al lavoro a tempo parziale, al lavoro dipendente a tempo determinato, al lavoro interinale, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa e molti altri schemi di occupazione non
standard. Queste forme di contratto vengono considerate, ormai da tempo, come uno strumento di flessibilizzazione del mercato del lavoro in Europa175.
Il lavoro a tempo determinato viene utilizzato spesso dalle imprese come meccanismo per “flessibilizzare” l’occupazione in relazione alle fluttuazioni del ciclo economico. Inoltre, è frequente la prassi di impiegare questa tipologia di contratto per selezionare dei lavoratori da assumere successivamente a tempo indeterminato. A sua volta il lavoro intermittente costituisce uno degli strumenti principali sia per permettere ad alcune imprese (attive nel settore turistico e dei servizi) di reperire personale occasionale, sia per favorire una maggiore partecipazione al mercato di quelle fasce, molto giovani o di età lavorativa avanzata, che altrimenti ne verrebbero escluse. Nello stesso tempo, però, il ricorso a questi contratti incrementa la concentrazione del turn- over su specifici gruppi di lavoratori, meno professionalizzati e sovra-rappresentati nello specifico segmento del lavoro temporaneo. Ciò determina, per questi lavoratori, un elevato livello di insicurezza dell’occupazione e del reddito.
Il contratto di lavoro intermittente viene utilizzato anche negli altri ordinamenti europei. In Francia, ad esempio, la flessibilità del mercato del lavoro è stata perseguita attraverso il contratto di lavoro part-time, presente sotto diverse forme. Il legislatore francese ha creato, infatti, diversi contratti di lavoro part-time (a seconda della distribuzione del lavoro nell’arco della settimana o dell’anno, così come a seconda dell’entità dell’impiego del lavoratore). Tra questi diversi contratti vi è il contratto de travail intermittent, le cui caratteristiche sono diverse dalla versione italiana. Infatti, il contratto di lavoro intermittente deve contenere l’indicazione della retribuzione e dei periodi durante i quali il lavoratore verrà impiegato. Deve essere indicato, inoltre, il numero annuale minimo di ore per le quali il lavoratore verrà impiegato e la ripartizione delle ore nei periodi lavorativi. Si tratta, quindi, di un contratto meno precario rispetto a quello italiano, considerati i numerosi elementi che devono essere specificati nel contratto176. Basti pensare che i diritti che spettano al lavoratore intermittente francese sono equiparati a quelli del lavoratore a tempo pieno, anche nei periodi non lavorati.
Anche il Regno Unito prevede una serie di contratti di lavoro flessibili, tra i quali non vi è però il lavoro a chiamata. Quest’ultimo tuttavia presenta analogie con il contratto cd. annuale (annualised hour), basato sulla definizione del numero di ore lavorative nell’arco dell’anno e non nell’arco di una settimana. A differenza del contratto
175 X. Xxxxx, X. Xxxxxx Xxxxxx, Commentario breve alla riforma del Jobs Act, cit., p. 31.
176 X. Xxxxx, X. Xxxxxx Xxxxxx, Commentario breve alla riforma del Jobs Act, cit., p. 32.
italiano, in quello inglese già al momento della stipula del contratto individuale il lavoratore sa di dover lavorare un minimo di ore annuali. Ciò riduce la natura precaria della sua attività lavorativa.
In Germania, invece, la disciplina del job on call è più affine e a quella italiana. Essa prevede in ogni caso che sia definito nel contratto l’arco temporale sia all’interno della giornata che nella settimana, entro cui il lavoratore può essere impiegato177. Inoltre, l’ordinamento tedesco impone un preavviso più lungo (quattro giorni) che in Italia.
In Spagna la legislazione lavoristica prevede due forme di lavoro a chiamata: il contratto fijo discontinuo proprio e il contratto fijo periodico. La differenza sta nel fatto che quest’ultimo permette al lavoratore di sapere con anticipo e con una certa sicurezza quali sono i periodi in cui lavorerà. Il contratto fijo discontinuo si avvicina a quello italiano; si tratta, infatti, di un modello caratterizzato da una forte precarietà ed incertezza178.
Un’esperienza unica in Europa è quella olandese. Nel sistema economico olandese è dato un ampio spazio ai contratti part-time, e più in generale, i contratti caratterizzati da forte flessibilità sia in entrata che in uscita. A quest’ultima corrisponde, però, un sistema di ammortizzatori sociali e di sussidi che permette agli olandesi di accettare un sistema così precario. Il lavoro intermittente ha due forme: il min-max contract, che prevede un certo numero di ore settimanali di lavoro che sono garantite al lavoratore; il zero ore, che è più simile al lavoro a chiamata italiano, dal momento che non prevede nessun minimo di ore lavorative. Si tratta di un accordo che stabilisce le condizioni di lavoro, ma il rapporto di lavoro vero e proprio si concretizza solo al momento della chiamata. Alcuni autori rilevano che «il contratto a zero ore, più che un contratto di lavoro può essere definito un pre-accordo che serve a definire i termini del rapporto fra prestatore di lavoro ed imprenditore, che si formalizzerà al momento della effettiva chiamata, sotto forma di contratto di lavoro a termine»179.
Il contratto olandese a zero-ore ha elementi di flessibilità anche maggiori rispetto alla versione italiana, con garanzie quasi nulle per il prestatore. Tuttavia, come si è detto, il mercato del lavoro olandese presenta numerosi ammortizzatori sociali che sostituiscono le tutele presenti in altri ordinamenti.
177 X. Xxxxx, X. Xxxxxx Xxxxxx, Commentario breve alla riforma del Jobs Act, cit., p. 33.
178 Ivi, p. 34.
179 X. Xxxxxxxx, Il lavoro intermittente, ripartito e accessorio, Milano, Xxxxxxx, 2009, p. 158.
Conclusioni
L’analisi condotta nel corso del lavoro ha cercato di evidenziare i vantaggi e le criticità del contratto di lavoro intermittente.
Nelle intenzioni della legge Xxxxx, l’introduzione di questo contratto si proponeva di prevenire il ricorso al lavoro nero. La possibilità di fare ricorso a un contratto così flessibile avrebbe dovuto, infatti, invogliare le piccole imprese a preferirlo rispetto all’impiego di lavoratori irregolari. Ciò avrebbe fornito alcune garanzie (anche se minime) anche agli stessi prestatori, che lavorando in nero sono sprovvisti di qualsiasi tipo di tutela, anche sotto il profilo previdenziale e assicurativo.
Questo tipo contrattuale è stato pensato, in particolare, per regolarizzare almeno in parte il fenomeno del caporalato. Il sistema del caporalato è una costante storica del settore agricolo del Sud Europa. Decine di migliaia di lavoratori (italiani e migranti) si muove nelle regioni meridionali, in relazione alla domanda stagionale di lavoro agricolo, offrendo manodopera sottopagata e sfruttata180. Il caporalato è una prassi di mediazione che si nasconde nell’ambito della lunga filiera produttiva che caratterizza alcune colture (ad esempio i pomodori e gli agrumi). Il caporale è l’anello che permette di soddisfare il fabbisogno di lavoro (spesso in nero), collegando i produttori agricoli ai lavoratori migranti mediante «il reclutamento e il trasporto dei braccianti sui campi di lavoro, l’imposizione di condizioni di lavoro disumane e di soluzioni alloggiative degradanti»181. In questo modo si viene a creare un sistema caratterizzato dallo sfruttamento del lavoro, dalla violenza, dall’omertà, dalla discriminazione e dall’assenza dello Stato.
Il lavoro a chiamata è stato introdotto per intervenire su tutte le situazioni di lavoro occasionale, ma è stato scarsamente utilizzo da parte delle imprese italiane. Si tratta, quindi, di una forma contrattuale, che non è riuscita del tutto ad «aggredire quella fetta di mercato di lavoro nero, trasformandola in lavoro regolare, seppur a chiamata»182. Un pregio della riforma Biagi è stato quello, però, di offrire nuovi strumenti contrattuali alle aziende, in un momento di grande cambiamento dell’economia mondiale, come era l’inizio del nuovo Millennio.
180 Y. Sagnet, X. Xxxxxxxxx, Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento, Roma, Fandango Libri, 2015, p. 20.
181 Ivi, p. 21.
Dopo il 2003 non è stata più proposta, sino al 2015, una legge che si proponesse di riformare il mercato del lavoro in modo organico. La riforma Fornero è intervenuta, infatti, in modo poco coerente su questa materia. Alla vigilia del Jobs Act, il contratto di lavoro a chiamata costituiva un vantaggio per alcune imprese, ma sanciva la precarietà dei lavoratori assunti. Questi prestatori infatti, qualora avessero perso il posto, o restassero "inutilizzati" per lunghi periodi, come è possibile attraverso il job on call, incontravano grandi difficoltà a trovare altro impiego, visto l’alto tasso di disoccupazione presente on Italia.
Un importante passo avanti è stato fatto con l’art. 17 del d.lgs. n. 81/2015. Questa norma ha riportato le disposizioni dell’art. 38 della legge Biagi, ad eccezione del terzo comma. Esso prevedeva che il prestatore che resta fermo, in attesa della chiamata del datore di lavoro, «non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati, né matura alcun trattamento economico e normativo», ad eccezione dell’ indennità di disponibilità, se prevista. Il Jobs Act ha omesso questa previsione, facendo sì che i lavoratori intermittenti vengano ora equiparati agli altri lavoratori, anche quando restano semplicemente in attesa della chiamata. Si tratta di una modifica rilevante, che, come osserva un autore, «rappresenta un segno di civiltà nei confronti di lavoratori, altrimenti considerabili come il punto più alto della precarietà italiana»183.
Oggi è difficile immaginare quale possa essere il futuro del lavoro intermittente. Si tratta di un istituto criticato dai sindacati e da una parte del mondo politico, ma che il legislatore del Jobs Act ha mantenuto allo scopo di offrire uno strumento di assunzione soprattutto di giovani, in un momento di elevata disoccupazione di questo segmento della popolazione. La riforma del 2015 si è proposta di riorganizzare e di ridurre le forme contrattuali. Si è ritenuto, quindi, che le tipologie contrattuali esistenti non sarebbero state sufficienti a sostituire le funzioni e le caratteristiche del job on call. Questa valutazione sembra corretta, in quanto gli incentivi offerti ai datori di lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato incidono poco sull’impiego dei lavoratori a chiamata. Infatti, se in un’azienda c’è bisogno di un lavoratore solo saltuariamente e per un determinato tipo di mansioni, è inevitabile preferire il lavoro intermittente, indipendentemente dagli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato. Il ricorso al job on cali presenta, pertanto, il vantaggio rilevante di offrire un’alternativa legale all’impiego del lavoratore in nero.
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