Position paper – Fondo di previdenza complementare presso l’INPS
Position paper – Fondo di previdenza complementare presso l’INPS
Con l’introduzione della cosiddetta previdenza di secondo pilastro, il legislatore intendeva perseguire un duplice intento: da un lato, l’obiettivo era quello coinvolgere il più ampio numero possibile di lavoratori in un sistema che avrebbe permesso un aumento dell’importo delle prestazioni pensionistiche; dall’altro, si puntava a modernizzare un mercato finanziario, come quello italiano, considerato povero di investitori istituzionali e poco efficace nel fornire alle imprese nazionali il necessario capitale di rischio.
A oltre 35 anni dalla sua introduzione, si può dire che l’istituzione della previdenza complementare nell’ordinamento italiano non ha dato, almeno fino ad oggi, i risultati sperati. I numeri delle adesioni rimangono ben al di sotto degli obiettivi del legislatore e una parte prevalente dei fondi raccolti non viene convogliata verso investimenti utili allo sviluppo del sistema produttivo nazionale.
Si pone, quindi, la necessità di un cambio di passo. Quel che si propone è l’istituzione di un Fondo per la previdenza complementare, gestito dall’Inps, alternativo, ma non in concorrenza, rispetto ai fondi attualmente esistenti. Un Fondo ad adesione volontaria, a contribuzione definita e aperto a tutti, lavoratori e non, che coniughi l’esigenza di ottenere maggiori prestazioni pensionistiche alla fine della vita lavorativa con la disponibilità di occasioni di investimento sicure e indirizzate allo sviluppo del sistema produttivo italiano.
Introduzione
La previdenza complementare (o di secondo pilastro) è stata introdotta nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124. Scopo della previdenza complementare è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria (o di primo pilastro). Attualmente, la materia è regolata dal decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 e prevede un sistema di contribuzione volontaria e a capitalizzazione. Con il medesimo decreto legislativo 124/1993 è istituita la Covip, un'autorità amministrativa indipendente, cui spetta il compito di regolare il mercato della previdenza complementare.
Esistono quattro diversi tipi di fondi: fondi pensione negoziali (istituiti dalle parti sociali nell'ambito della contrattazione collettiva), i fondi pensione aperti (gestiti da banche, imprese di assicurazioni, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare), i piani individuali pensionistici e i fondi pensione preesistenti (già esistenti, cioè, al 15 novembre 1992).
Il lavoratore e, in caso di rapporto di lavoro dipendente, il datore di lavoro alimentano con i propri versamenti la posizione individuale del lavoratore. L'ammontare delle prestazioni dipenderà, oltre che dai contributi versati, dai rendimenti netti ottenuti attraverso l'investimento sui mercati finanziari. L’adesione alla previdenza complementare è altresì incentivata da agevolazioni fiscali, riconosciute anche a favore dei familiari dei lavoratori che siano fiscalmente a carico.
I lavoratori dipendenti, entro sei mesi dall’assunzione, possono, inoltre, decidere di conferire il trattamento di fine rapporto (TFR) al fondo al quale hanno aderito. In alternativa, possono decidere di lasciarlo presso il datore di lavoro. Ancora, essi possono non decidere nulla, nel qual caso, vale
una forma di silenzio-assenso. In particolare, In particolare, il datore di lavoro trasferisce il TFR alla forma pensionistica collettiva prevista dalla contrattazione collettiva, salvo accordi aziendali diversi. Nel caso di compresenza di diverse forme pensionistiche, il datore di lavoro trasferisce il TFR al fondo pensione al quale ha aderito il maggior numero di dipendenti. In assenza di forme pensionistiche integrative collettive di riferimento, il datore di lavoro trasferisce il TFR alla forma pensionistica complementare residuale istituita appositamente presso l'INPS (FondINPS). Infine, i lavoratori possono scegliere di decidere la destinazione del TFR in un secondo momento; in questo caso, il TFR resta presso il datore di lavoro e sarà liquidato al momento della risoluzione del rapporto di lavoro.
Adesioni: numeri deludenti e distribuzione ineguale
Ad oggi, il numero di adesioni alle diverse forme di previdenza complementare risulta molto limitato e sensibilmente inferiore rispetto alle attese del legislatore. I dati contenuti nella Relazione per l’anno 2018 della Covip ci dicono che a fine 2018 risultano iscritti alla previdenza complementare circa 7,9 milioni di soggetti, il 30,2 per cento delle forze di lavoro. I lavoratori effettivamente versanti sono, però, poco meno di 6 milioni (il 22,7 per cento rispetto alle forze di lavoro).1
Alcune categorie di lavoratori, stando ai dati forniti dalla Covip, sembrano particolarmente svantaggiate dal punto di vista della previdenza complementare. Si tratta, in particolare, dei lavoratori autonomi, dei giovani, dei lavoratori del Mezzogiorno e delle Isole e delle donne.
I lavoratori autonomi fanno registrare una contribuzione marcatamente discontinua. Distinguendo per condizione professionale, infatti, mentre i lavoratori dipendenti fanno registrare mancati versamenti nel 18,1 per cento dei casi, tale percentuale sale al 45,4 per cento nel caso dei lavoratori autonomi e al 42,4 per gli altri iscritti.2 Non va oltre 1.000 euro di contributi il 17 per cento degli autonomi. La classe di iscritti che non versa contributi da almeno tre anni viene definita come quota di non versanti di natura strutturale. Il 9 per cento dei lavoratori dipendenti appartiene a questa categoria, mentre per gli autonomi la percentuale si eleva fino al 31 per cento (il 26 per cento per gli altri iscritti).
I dati della Covip ci mostrano, inoltre, le differenze nel tasso di partecipazione per le varie classi di età, con i giovani che appaiono molto poco interessati alla previdenza complementare. Fermo restando un trend crescente al crescere della classe d’età, il tasso di partecipazione al di sotto dei 35 anni si attesta al 20,4 per cento; nella classe di età 35-44 è pari al 27,9 per cento; nella classe 45- 54 è pari al 32,4 per cento; sfiora il 40 per cento nella classe 55-64.
Molto forti sono, altresì, le differenze territoriali e di genere. A livello regionale, si passa da percentuali pari al 50,5 per cento delle forze di lavoro in Trentino Alto Adige e al 41,4 per cento in Valle d’Aostra, a percentuali di circa il 22 per cento in Campania e in Sardegna. Le regioni meridionali e insulari sono, inoltre, caratterizzate da contribuzioni più basse e inferiori a 2.000 euro.
1 Si definiscono iscritti non versanti i soggetti che non percepiscono la prestazione pensionistica del fondo e hanno una posizione aperta a favore della quale, nell’anno, non sono stati versati né contributi, né il TFR.
2 La relazione Covip per il 2018 definisce gli altri iscritti come “soggetti diversi dai lavoratori, quali i soggetti fiscalmente a carico, coloro che hanno perso i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica per perdita o cambio di lavoro ovvero per pensionamento obbligatorio e, soprattutto, altri soggetti non classificati per i quali la forma pensionistica non dispone di informazioni aggiornate sulla situazione occupazionale.”
Per quel che riguarda il gap di genere, il tasso di partecipazione dei maschi (32,7 per cento) è superiore a quello delle femmine (26,9 per cento). Dividendo la popolazione per fasce d’età, si nota che il divario tra maschi e femmine è crescente al crescere dell’età: si passa dai 5 punti percentuali di differenza per quel che riguarda la fascia 15-24 agli 8 punti percentuali nella fascia 55-64.
Quote modeste di investimenti domestici
Il vigente sistema di previdenza complementare non sembra essere stato in grado di convogliare una adeguata quantità di risorse nel sistema produttivo italiano. Gli investimenti nazionali sono ampiamente minoritari. Sempre in base ai dati forniti dalla Covip, sul totale dei patrimoni delle forme pensionistiche complementari, nel 2018 il 62,7 per cento è stato rivolto a investimenti non domestici e solo il 27,7 per cento a investimenti domestici – quest’ultimo dato in diminuzione di circa 8 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Il rimanente 9,6 per cento è detenuto sotto forma di liquidità o investito in polizze assicurative. La somma tra titoli di capitale (azioni e strumenti equivalenti), OICVM (Organismi di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari) e altri OICR (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio) investiti in Italia nel 2018 non supera il 3 per cento del patrimonio. Il 41,7 del patrimonio è investito in titoli di Stato. L'investimento in titoli di Stato italiani si attesta al 21,4 per cento del totale del patrimonio. Infine, soltanto l’1,9 per cento viene investito in titoli di debito italiani (tra cui obbligazioni) diversi da titoli del debito pubblico.
Poche le rendite, molti i riscatti e le erogazioni in forma di capitale
Altri dati interessanti riguardano la movimentazione delle posizioni. In particolare, assumono rilievo i dati relativi alla distribuzione dei movimenti in uscita tra le seguenti tipologie: riscatto (prestazione erogata in un’unica soluzione, antecedentemente all’accesso al pensionamento in presenza di determinate situazioni attinenti l’iscritto), erogazione sotto forma di capitale e trasformazione in rendita. La Covip segnala che, rispettivamente, le tre soluzioni, nel 2018, hanno fatto registrare 94.000, 91.000 e 4.000 movimentazioni. Ciò significa che soltanto una parte residuale del patrimonio investito viene trasformata in rendita; tale frazione, inoltre, è sostanzialmente concentrata nei fondi preesistenti.
Un nuovo fondo INPS per la previdenza complementare
I dati appena esposti ci invitano, dunque, a una riflessione su quello che vogliamo che sia il futuro della previdenza complementare. La prima questione da affrontare riguarda la ricerca di una maggiore inclusività. Giovani under 35, donne, lavoratori del Mezzogiorno e delle Isole e lavoratori autonomi devono essere messi nelle condizioni di mettere da parte risorse per la propria vecchiaia nelle stesse condizioni degli altri lavoratori. Se questo è senz’altro già previsto dal punto di vista formale, lo è molto meno dal punto di vista sostanziale. Inoltre, se l’obiettivo della previdenza complementare era anche quello di mettere a disposizione del sistema produttivo italiano risorse finanziarie che, altrimenti, sarebbero andate a finanziare gli investimenti al di fuori del Paese, anche da questo punto di vista siamo molto lontani dal raggiungimento dell’obiettivo.
Quel che proponiamo è, dunque, l’istituzione di un Fondo complementare all’interno dell’Inps, allo scopo di andare oltre quei limiti strutturali che hanno impedito il decollo delle forme previdenziali complementari ad oggi esistenti. Questo Fondo, che, come già detto, sarebbe alternativo, ma non in concorrenza, rispetto ai Fondi attualmente esistenti, avrebbe la caratteristica di essere gestito dall’operatore pubblico, il quale, da un lato, opererebbe per fini non di lucro (riducendo, quindi, i margini di intermediazione e consentendo, a parità di altri elementi, l’erogazione di maggiori benefit); dall’altro, il Fondo sarebbe gestito da una tecnostruttura già pronta a prendersi in carico un compito estremamente delicato e gravoso, grazie al consistente know-how dell’Inps in tema di prestazioni previdenziali.
Il Fondo dovrebbe essere aperto a tutti, per poter consentire a chiunque di accantonare risorse che siano investite in impieghi sicuri e al riparo da eccessive oscillazioni dei corsi di borsa dei titoli azionari e dei valori delle obbligazioni, nonché dai rischi di insolvenza insiti in eventuali investimenti più rischiosi affidati a operatori privati.
Si propone, poi, di affiancare all’Inps un soggetto, da individuare sempre all’interno del perimetro degli operatori pubblici, che funga da intermediario tra le capacità di risparmio e gli investimenti; un operatore che sia in grado di individuare gli impieghi più adatti a coniugare la sicurezza del capitale investito e la ricerca di rendimenti capaci di generare prestazioni pensionistiche sufficientemente elevate. Tale operatore, inoltre, dovrebbe operare nella logica di convogliare le risorse verso quei settori produttivi e quei miglioramenti infrastrutturali di cui il nostro Paese ha bisogno, fermo restando il bisogno di garantire la sicurezza e la redditività degli investimenti