COLLEGIO DI MILANO
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA Presidente
(MI) LUCCHINI GUASTALLA Membro designato dalla Banca d'Italia (MI) ORLANDI Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SANTARELLI Membro designato da Associazione rappresentativa degli intermediari
(MI) GIRINO Membro designato da Associazione rappresentativa dei clienti
Relatore XXXXXX XXXXXX
Nella seduta del 18/06/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Nel mese di gennaio 1997, la società odierna ricorrente apriva presso la banca odierna resistente un rapporto di conto corrente, a garanzia dell’apertura di credito accesa sul quale essa costituiva successivamente in pegno a favore della resistente alcune quote di un fondo comune di investimento.
Il 30 gennaio 2015, la ricorrente lamentava il contenuto di due comunicazioni ricevute l’una il 26 gennaio dalla resistente, nella parte in cui quest’ultima dichiarava di provvedere ad eseguire un certo ordine della ricorrente, l’altra il 29 gennaio dalla SGR gestore del citato fondo che dava conferma delle operazioni disposte dalla ricorrente. Quest’ultima, infatti, sottolineava di non aver impartito istruzione alcuna né alla resistente né al gestore e, data la pendenza della decisione del giudice circa la richiesta di concordato preventivo presentata a gennaio 2014 e ben nota alla resistente, la diffidava dall’effettuare qualsivoglia operazione che potesse compromettere lo stato patrimoniale del piano concordatario. La ricorrente, inoltre, sollevava riserve sia con riguardo alle scelte di investimento effettuate dalla resistente nella gestione del citato deposito a garanzia, sia
circa l’onerosità delle condizioni applicate al rapporto in essere, sia con riguardo alle “ragioni del mantenimento in essere della esposizione del c/c e dei conseguenti oneri”.
Nel silenzio della resistente, in data 11 febbraio 2015 la ricorrente presentava ricorso in cui nuovamente contestava il contenuto delle due comunicazioni di cui sopra e domandava al Collegio la valutazione della legittimità del comportamento della resistente in merito al rapporto sia di conto corrente che di deposito a garanzia.
Il 29 aprile 2015 la resistente depositava le controdeduzioni in cui preliminarmente eccepiva la genericità dell’istanza della ricorrente volta, a detta della banca, all’ottenimento di una mera valutazione da parte del Collegio. Nel merito della vicenda, la resistente evidenziava come l’art. 9 del contratto di pegno sottoscritto a dicembre 2001 stabilisse il diritto della banca a far vendere in tutto o in parte i titoli costituiti in pegno nell’ipotesi di inadempimento da parte del cliente delle obbligazioni garantite. In seguito alla presentazione da parte della ricorrente, il 20 gennaio 2014, del ricorso per ammissione alla procedura di pre-concordato, la resistente sospendeva vuoi gli affidamenti vuoi i correlati utilizzi dandone pronta comunicazione alla cliente. Inoltre, dopo il deposito del ricorso per ammissione alla procedura concordataria da parte della ricorrente ad agosto 2014, la resistente inviava a quest’ultima una dettagliata comunicazione della situazione debitoria complessivamente ammontante ad € 2.901.868,16 dovuti in parte allo scoperto di conto, in parte ad effetti insoluti ed in parte a rate impagate di finanziamenti chirografari. Nella dichiarazione resa al competente Tribunale in data 19 settembre 2014, la resistente notificava di essere creditrice della ricorrente in via chirografaria dell’importo di € 2.865.476,56 ed asseriva che l’esposizione sul conto corrente era garantita dal pegno rilasciato dalla ricorrente e così descritto: € 275.000 di valore nominale per 71.214,147 quote di un fondo comune, € 300.000 di valore nominale per obbligazioni oltre a € 195.000 “Netto Ricavo per titoli scaduti in conto infruttifero indisponibili rivenienti da rimborso titoli costituiti in pegno”. Con riguardo al contestato smobilizzo della garanzia, la resistente sottolineava di aver provveduto all’escussione del pegno in forza sia della legge che del contratto, visto che l’art. 4 D.Lgs 170/2004 accorda facoltà al creditore pignoratizio di procedere all’utilizzo della somma oggetto di garanzia per l’estinzione dell’obbligazione garantita anche in caso di apertura di una procedura concorsuale. Quanto infine all’istanza circa l’addebito di oneri ed interessi, la resistente ne contestava la genericità e al contempo rivendicava la regolarità delle condizioni applicate. Pertanto, chiedeva al Collegio la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ed in subordine la reiezione dello stesso.
Il 19 maggio 2015, la ricorrente replicava alle controdeduzioni sostenendo come la
resistente, incurante del mandato ricevuto, avesse “artatamente” agito a danno della società da un lato immotivatamente mantenendo lo scoperto di conto senza compensarne il valore con la realizzazione delle garanzie, dall’altro progressivamente addebitando alla cliente oneri ed interessi calcolati sull’importo lordo, fino alla somma di € 2.421.643,65. Inoltre, in obiezione all’eccezione di genericità mossa dalla resistente, la ricorrente approfondiva i termini della propria istanza quantificando e descrivendo i danni asseritamente patiti, tra cui, inter alia, il rimborso delle spese sostenute per l’elaborazione del piano di risanamento e per il ricorso di ammissione al concordato, il rimborso di interessi ed oneri addebitati sul conto corrente dal marzo 2011 all’aprile 2014 e pari ad € 714.700,25, il risarcimento dei danni personali per “lesioni biologiche e stress da lavoro correlato”.
DIRITTO
In via preliminare, la banca resistente ha eccepito la genericità della domanda formulata dalla società ricorrente, sostenendo che quest’ultima mirerebbe ad ottenere una “valutazione” come tale inidonea ad esprimere la soddisfazione di interesse alcuno.
L’eccezione è infondata. Premesso che, secondo il consolidato orientamento di questo Arbitro, esso, anche in considerazione della natura della procedura tendenzialmente scevra dall’esasperazione formalistica, è tenuto ad applicare con particolare acribia il principio per il quale il giudicante deve individuare il contenuto e la portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, senza limitarsi al tenore meramente letterale delle stesse e prestando invece riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, per come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte richiedente, la domanda svolta dalla ricorrente, espressa con la formula “valutare la legittimità del comportamento della Banca”, è, in tutta evidenza una domanda di accertamento di diritti come tale pacificamente ricadente fra quelle ammesse ai sensi della Sez. I, § 4, alinea 2 delle Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari (in breve “Reg. ABF”), là dove si contempla che “all’ABF possono essere sottoposte tutte le controversie aventi ad oggetto l’accertamento di diritti, obblighi e facoltà, indipendentemente dal valore del rapporto al quale si riferiscono”.
Viceversa, il Collegio deve rilevare d’ufficio l’inammissibilità della connessa domanda di
risarcimento del danno. Oltre ad eccedere per valore i limiti di competenza di questo Arbitro, tale domanda risulta formulata e articolata solo nelle repliche alle controdeduzioni, dunque vuoi tardivamente vuoi attraverso uno scritto irrituale in quanto non previsto dalle norme che governano il procedimento ABF (cfr. in senso analogo Collegio Milano decc. nn. 4264/12 e 3895/12).
Nel merito, il denunciato comportamento di cui la ricorrente chiede accertarsi l’asserita illegittimità, consisterebbe in una duplice condotta: per un verso l’avere artatamente mantenuto in essere l’esposizione debitoria al fine di far maturare interessi, oneri e commissioni sul conto affidato in luogo di ridurne l’esposizione attraverso il ricorso alla garanzia, in parallelo concessa dalla ricorrente mediante costituzione di pegno su titoli; per altro verso l’avere escusso la predetta garanzia quando la società aveva già da un anno depositato ricorso per ammissione alla procedura di concordato preventivo e in assenza di qualsivoglia ordine in tal senso da parte della ricorrente.
Non pare a questo Collegio che il primo comportamento sia suscettibile di censura alcuna. Non essendo minimamente contestata né l’esistenza del credito né l’esistenza e la validità del pegno, la scelta della resistente di escutere la garanzia non appare obbiettivamente sindacabile non esistendo norma alcuna che imponga al creditore di attivare il titolo di garanzia in un momento piuttosto che in un altro, alla sola condizione che l’escussione non avvenga in modo abusivo, circostanza che quivi non pare ricorrere ovvero oltre i termini di validità della garanzia medesima, palesemente non spirati al momento della sua escussione.
Discorso diverso richiede la seconda condotta denunciata. La circostanza dell’escussione del pegno dopo l’avvio della procedura concordataria non è di per sé tale da invalidare l’atto satisfattivo. Correttamente la difesa della Banca ha ricondotto la garanzia in questione nell’alveo delle garanzie per obbligazioni finanziarie regolate dal d. lgs. 170/2014 (ossia le obbligazioni contratte fra un intermediario o altro soggetto finanziario ed una persona non fisica), il cui art. 9 preserva la tipologia di garanzie in questione dai limiti imposti dalle procedure concorsuali (altresì espressamente sottraendo siffatte
garanzie al disposto dell’art. 203 d. lgs. 58/1998). D’altronde l’art. 4 dello stesso decreto, espressamente al comma 2° prevede l’obbligo del creditore pignoratizio di informare “immediatamente per iscritto il datore della garanzia stessa o, se del caso, gli organi della procedura di risanamento o di liquidazione in merito alle modalità di escussione adottate e all'importo ricavato”, motivo per il quale la sopravvivenza della garanzia finanziaria alla procedura non può veramente revocarsi in dubbio. L’escussione in pendenza della procedura concordataria non può di conseguenza, per ciò solo, ritenersi illecita o altrimenti abusiva.
Quanto precede non esaurisce, tuttavia, l’indagine circa la legittimità dell’escussione che costituisce oggetto della domanda della ricorrente.
In effetti, lo stesso art. 4 d.lgs. 170/2014 cit. correttamente evocato dalla resistente ai fini dianzi menzionati, nel disciplinare l’escussione del pegno, ammette, al comma 1°, tre metodi alternativi (vendita o appropriazione dei beni pignoratizi o utilizzo del contante) premettendo tuttavia la seguente locuzione: “il creditore pignoratizio ha facoltà ... di procedere osservando le formalità previste nel contratto”. Tale ultima precisazione (“osservando le formalità previste nel contratto”) vale a sottoporre la procedura di escussione anche ai precisi, eventualmente diversi accordi intervenuti fra le parti il cui rispetto diviene dunque essenziale ai fini della validità dell’escussione stessa.
In altri termini, mentre senz’altro dell’intervenuta escussione deve essere data pronta notizia al debitore (o alla procedura), l’eventuale preventiva informazione circa l’intendimento di escutere non viene disciplinata dalla legge ma neppure questa esclude che le parti possano pattiziamente prevederla.
Il rilievo si rende necessario in quanto i vari contratti di pegno susseguitisi nel tempo fra le parti litiganti prevedevano invariabilmente una clausola la quale imponeva alla banca di preavvisare il costituente dell’escussione con almeno 2 giorni di preavviso (5 nel caso in cui il costituente fosse un terzo). Occorre, dunque, verificare se tale formalità, contemplata espressamente nell’accordo inter partes, e dunque costituente, per effetto del richiamo operato nel cit. art. 4 comma 1° alle formalità negoziali, condizione essenziale per la validità dell’escussione sia stata rispettata o meno.
La parte resistente ha prodotto una comunicazione del 9 febbraio 2015, in cui si dà atto dell’intervenuta escussione del pegno, senza tuttavia che la stessa precisi quando questa abbia avuto luogo. La parte ricorrente, in sede di ricorso, afferma, invece, che in data 26 e 30 gennaio 2015, aveva ricevuto comunicazione dalla ricorrente e dal gestore di un fondo (le cui quote, insieme ad altri titoli, costituivano oggetto della garanzia in parola) della vendita dei titoli e quote. Non è chiaro se la comunicazione sia avvenuta o meno per iscritto né se la stessa fosse preventiva o successiva all’alienazione dei beni pignoratizi. A fronte di tale deduzione, la resistente non ha fornito prova alcuna di aver preavvisato il debitore, in forma scritta e anteriormente all’escussione: prova che peraltro sarebbe stato agevole amministrare essendo allo scopo sufficiente la produzione delle copie delle presunte comunicazioni nelle date in cui la ricorrente ha sostenuto di averle ricevute. Tanto convince il Collegio che la resistente non abbia reso tali preavvisi scritti alla ricorrente con ciò violando la formalità da essa stessa pattuita nel contratto di pegno. Il che, per le suesposte ragioni, induce a ritenere illegittima l’escussione.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio accoglie parzialmente il ricorso ai sensi di cui in motivazione.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario corrisponda alla Banca d’Italia la somma di € 200,00, quale contributo alle spese della procedura, e alla parte ricorrente la somma di € 20,00, quale rimborso della somma versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1