Capitolo III
Capitolo III
Il contratto
L’evoluzione dell’istituto
Indice: 1. Premessa. L’evoluzione interna e l’evoluzione esterna del diritto contrattuale – 2. I processi di armonizzazione e di unificazione del diritto contrattuale – 3. Le spinte alla armonizzazione e alla uniformazione e i livelli delle fonti – 4. La “base comune” del diritto contrattuale e le scelte difficili dei giuristi – 5. L’acquis communautaire in materia di contratti. - 6. La definizione di contratto e la individuazione dei requisiti del contratto – 7. La clausola di hardship – 8. La clausola penale – 9. La seconda versione dei “Principles of European Contract Law”.
1. Premessa. L’evoluzione interna e l’evoluzione esterna del diritto contrattuale
In materia di contratti, ciò che connota l'evoluzione della elaborazione teorica, della disciplina normativa e delle prassi non è solo la creazione di nuove figure contrattuali relative alla circolazione di beni, all'offerta di servizi, alla proposta di investimenti, e neppure soltanto la regolamentazione di nuove tecniche di contratto negoziale e di formazione del contratto, con riguardo specialmente all'impiego di mass media, di visite domiciliari, di tecnologie informatiche e telematiche. Ciò che più stupisce è la sostanziale uniformità dei trends evolutivi nelle esperienze straniere di maggior riferimento, nei progetti di codificazione uniforme e nelle regole del commercio internazionale. Una uniformità che si risolve nel ripensamento della stessa categoria logica e pratica di “contratto”, e nel dissolvimento del modello tradizionale di contratto.
Il fenomeno a suo tempo era stato posto in luce da Grant Gilmore (1977) con riguardo alla concezione tradizionale (o “classica”) del "contract" nell'esperienza statunitense, e all'uso della "consideration" come tecnica di controllo delle operazioni economiche.
Il problema aperto da Gilmore concernente il superamento della concezione classica, la erosione del ruolo della “consideration” come tecnica di controllo delle operazioni economiche, la progressiva perdita di importanza della pura volontà delle parti, ha avuto grande eco e suscitato un aspro dibattito nella letteratura nord-americana e si è poi trasferito nell’Europa insulare e continentale (Fried, 1981; Atiyah, 1981; Slawson, 1996; Wightman, 1996, Alpa e Delfino, 1997. Nella letteratura francese v. i contributi raccolti in Droits, 12. Le contrat, 1990. Sono da ricordare, in questo contesto, i saggi di Moccia, 1994,I, 819 ss.; Marini, 1995; per l'originalità dei risultati e l'accuratezza della ricerca storica si segnalano le pagine di And. D'Angelo, 1992; id., 1996a).
Questo dibattito concerne l’evoluzione per così dire interna alla concezione del contratto, che si affianca, naturalmente, a una evoluzione esterna, concernente le aree via via acquisite alla provincia del contratto mediante l'invenzione di nuove figure, l'instaurazione di nuove prassi, l'attivazione di nuove tecniche di relazione.
Senza ambizioni di completezza, si possono, tra l'altro, segnalare alcuni degli aspetti più rilevanti di questa evoluzione:
(i) la rilevanza dello status delle parti;
(ii) la rilevanza delle tecniche di controllo interno dell'operazione economica, con strumenti quali la causa, l'oggetto, la forma;
(iii) l'applicazione di criteri di “giustizia contrattuale” con riferimento ai valori della persona e all'equità dello scambio;
(iv) l'applicazione di clausole generali per il controllo del comportamento delle parti nella fase prenegoziale, nella fase di conclusione e in quella di esecuzione del contratto;
(v) l'adattamento del contratto alle circostanze sopravvenute;
(vi) la codificazione sociale di formule contrattuali internazionali;
(vii) l'affidamento della soluzione delle controversie ad organi stragiudiziali.
Su questi aspetti si tornerà più oltre. Dall’esterno provvedono a modificare la disciplina del contratto i processi di armonizzazione e di unificazione del diritto.
2. I processi di armonizzazione e di unificazione del diritto contrattuale.
i) Le radici comuni.
Una opinione tralatizia pone in risalto le radici comuni del diritto contrattuale ai diversi modelli normativi, rinvenendole nel diritto romano (giustinianeo) (Hondius, 1997, 2 ss.). Come spesso accade per molti tớpoi della tradizione, questa opinione corrisponde solo parzialmente alla verità storica.
E' indubbio che gran parte della terminologia e dei concetti utilizzati trovino riscontro nelle fonti romane; è il caso del vocabolo “contratto” (contrat, contract, contrato), oppure del vocabolo “obbligazione”, oppure del vocabolo “debito”, oppure del vocabolo “parte”, a tacer d'altri. Ma, come altrettanto spesso accade, si tratta nella più parte dei casi di omofonia, in quanto a vocaboli che hanno la stessa radice non corrisponde poi il medesimo concetto; se si guarda poi alla disciplina, ci si avvede di qualche singolarità: ad es., la disciplina del contratto nel common law è più vicina alla disciplina romanistica di quanto non accade per la disciplina continentale, forgiata sulle regole razionali enunciate da Domat e Pothier e riversate nel Code Napoléon.
La teoria generale del contratto, come è noto, si è sviluppata soprattutto per merito della Pandettistica, che è andata molto in là, rispetto alle fonti romane, ed ha costruito la categoria generale di “rapporto giuridico”, di “dichiarazione” e di “negozio giuridico” - poi trasfuse nella cultura giuridica tedesca, italiana e spagnola e austriaca.
Per parte sua la cultura giuridica francese ha elaborato la categoria dell'atto giuridico.
Costruzioni logico-geometriche (o ideologiche) di tal fatta non hanno attecchito nella cultura giuridica di common law, ove la figura più generale è stata ritagliata piuttosto sulla “promessa” (promise).
Ma la situazione si è complicata con l'adattamento delle teorie generali alle disposizioni contenute nelle codificazioni, talvolta portando ad una sorta di schizofrenia, con il risultato della sovrapposizione - ottenuta per via ermeneutica - delle nozioni alla normativa vigente. Esempi emblematici per certi versi opposti tra loro sono dati: dall'esperienza italiana, si ragionava (e tuttora si ragiona) in termini di “negozio giuridico”, ma questa nozione è poi stata espunta dal codice civile; dall'esperienza austriaca, dove la teorizzazione generale del negozio giuridico si è sovrapposta al codice civile, per effetto della forza espansiva e persuasiva della Pandettistica nella cultura giuridica austriaca. Sul piano della terminologia si avvertono ulteriori differenze: nella traduzione dei termini, come accade per la traduzione dell'espressione Rechtsgeschaeft (denominata correntemente e senza imbarazzo in italiano e in spagnolo come “negozio giuridico”), ma già incespicante nella lingua inglese (juristic act, legal act, transaction) totalmente stravolta in francese (acte juridique), ove l’acte individua una categoria generale mentre il negozio è una sotto-categoria dell’atto giuridico. Transaction poi presuppone un incontro di volontà, e una pluralità di parti, che alludono solo ad una categoria di operazioni riconducibili al “negozio giuridico”, il quale ben può essere soltanto unilaterale; mentre acte juridique allude anche ad atti che non hanno - secondo alcuni sistemi continentali - valore negoziale, come accade per la traditio.
(ii) I valori comuni
E' opinione tralatizia che la disciplina del contratto nei diversi ordinamenti sia fondata su “valori comuni” (Stein e Shand, trad. it., 1980; e Alpa, 1993.). Anche per questa opinione può ripetersi quanto sinteticamente sopra riferito per le radici romane. E' chiaro che - intendendosi genericamente il contratto come “operazione economica” - si possono riscontrare valori comuni, intesi a dare rilievo al “consenso”, e quindi alla volontà di chi conclude il contratto, alla “libertà di contrarre”, all'esigenza di “conservare” l'operazione economica sia per ragioni di economia dei rapporti sia per la stessa certezza dei rapporti e per lo sviluppo di traffici e commerci; ma è altrettanto chiaro che in alcune esperienze si enfatizzano o si sottolineano valori - come, ad es., il valore della “persona” - che in altre esperienze non sono tutelati in materia contrattuale.
Emblematiche, al riguardo, sono l'esperienza tedesca, ove la giurisprudenza costituzionale ha considerato il valore della persona come incidente sulla stessa validità del contratto che si facesse portatore di valori ad essa contrari (Bundesverfassungsgericht, 19.10.1993), o l'esperienza italiana in cui molto si è discusso sulla rilevanza dei valori della persona in questa materia (Mengoni, 1996, I, 1; Irti, 1995, I, 289; Lipari, 1997, 1; Rescigno, 1994). D'altra parte, una ricognizione dei possibili oggetti o contenuti del contratto è rivelatrice dei valori e dei limiti che nei singoli ordinamenti vengono presi in considerazione: la valenza giuridica dei negozi familiari, la validità giuridica degli accordi per la maternità surrogata, o per il trasferimento di organi del corpo umano, sono altrettante spie delle diverse concezioni dei valori che reagiscono sulla nozione e sulla disciplina del contratto.
(iii) Le tecniche di armonizzazione funzionale
E' evidente, allora, che i processi di armonizzazione e di unificazione della disciplina del contratto non si realizzano in ragione delle asserite radici comuni, e neppure sotto il segno di una fittizia definizione di una trama comune di valori, quanto piuttosto attraverso i propositi pratici ed economici che accomunano i giuristi nel tentativo di agevolare gli scambi di beni, di servizi, di capitali. E', in altre parole, il sostrato economico il vero tessuto connettivo di questi processi; è la concezione del contratto come “veste giuridica” dell'operazione economica quella che accomuna i testi predisposti per il raggiungimento di una lingua comune, una autentica koiné terminologica, concettuale e normativa.
Come accade per tutte le koiné, i risultati che si ottengono hanno una valenza funzionale, piuttosto che non una valenza estetica o filologica: i termini si semplificano, i concetti si annacquano, le particolarità od originalità di attenuano fino a scomparire. E' una rinuncia collettiva, che si impone a ciascun portatore di una propria cultura, di una propria tradizione, di proprie convinzioni, di proprie usanze, per il perseguimento di obiettivi comuni che si ritengono prevalenti rispetto a quelle. Non quindi la prevalenza di un modello sull'altro, di una concezione sull'altra è il percorso da compiere, quanto piuttosto la concertazione di strumenti terminologici, concettuali e normativi univoci. Si debbono perciò abbandonare le velleità particolaristiche , proprie di quanti sono desiderosi di mantenere in vita il passato e il presente, - per pensare a progettare il futuro; ciò, anche se questa rinuncia implica sacrifici e difficoltà di adattamento, fantasia e semplificazione. In fin dei conti, le aspirazioni alla conservazione dell'esistente (nelle sue componenti terminologica, concettuale e normativa) urtano contro la naturale convergenza dei sistemi (Markesinis, 1996), e appaiono, nella sostanza, antistoriche.
Non si costruisce un'Europa comune se non si costruisce un edificio giuridico comune; non si promuovono le relazioni economiche se si mantengono in vita gli steccati costituiti da lingue diverse, da categorie concettuali diverse o contrapposte, da regole giuridiche diverse o confliggenti. Per far ciò, occorre disponibilità al dialogo e volontà di addivenire, in via convenzionale, ad un terreno comune a tutti. In questa prospettiva, sono da superare sia le critiche alle iniziative per la redazione di un codice europeo dei contratti, sia le remore alla fissazione di principi generali che sovrintendano il commercio internazionale.
D'altra parte, è la stessa realtà delle cose che ci invita a guardare queste iniziative con occhio benevolo e con la mente sgombra da pregiudizi: una realtà che - come spesso è accaduto per il diritto - si contrappone ai vecchi schemi, alle vecchie regole, per forgiarne di nuovi, più adatti ai tempi e alla vocazione europea ed universale, che anima le relazioni economiche. In ogni caso, non è una realtà solo immaginifica, ma una realtà che è in corso di maturazione. Contro questo processo non ci si può opporre: sarebbe una lotta contro i mulini a vento (Legrand, 1996, 779 ss.). Se ne deve prendere atto, e cooperare per raggiungere gli scopi prefissi con il metodo migliore (Ma non si deve neppure assumere un atteggiamento superficiale o semplicistico: sono preziosi al riguardo gli avvertimenti segnalati da alcuni studiosi francesi, come C. Spinosi e B. Oppetit, v. gli atti del seminario organizzato all'Università di Firenze da A. De Vita, nel corso dell'anno acc. 1996-1997).
(iv) Il metodo.
I processi di armonizzazione e di unificazione del diritto dei contratti non nascono ex novo. Si elevano da un retroterra affascinante e complesso al tempo stesso. Si tratta di un retroterra che si compone di vari strati, spesso amalgamati, sovente sovrapposti tra loro. Tra gli altri, si deve tener conto della comparazione, dell'analisi economica, dell'analisi ermeneutica.
Gli studi dei comparatisti più avvertiti hanno approfondito il tema della circolazione dei modelli nazionali, e sotto il profilo delle codificazioni, e sotto il profilo dei principi generali, e sotto il profilo delle leggi speciali, e sotto il profilo dei modelli concettuali (V. per tutti Gambaro e Sacco, 1996; per l'analisi di alcuni settori specifici (fonti, persone, contratti, responsabilità civile, accesso alla giustizia; v. anche le ricerche coordinate da Alpa, 1996a; per la materia dei contratti sono rimarchevoli i lavori di Markesinis, 1997a; e, naturalmente, Zweigert e Koetz, trad. a cura di A. Di Majo e A. Gambaro, 1992; qualche utile indicazione in Vranken, 1997.); (ii) gli studi dei gius-economisti hanno introdotto strumenti concettuali uniformi per la valutazione degli effetti economici delle regole giuridiche (per la materia contrattuale è particolarmente congeniale al giurista continentale l'apporto di Schaefer e Ott, 1995, 321 ss.); la costruzione dell'analisi economica del diritto è divenuto un modo comune di dialogare tra giuristi di diversa origine e formazione, di soppesare strumenti e tecniche, di comparare soluzioni e problemi; la varietà delle teorie e le differenze di impostazione e di presupposti ideologici non ha impedito la circolazione di testi, manuali, saggi, la loro discussione, il loro apprezzamento; i gius-realisti ci hanno abituato all'idea che i fenomeni giuridici debbono essere intesi non solo nella loro forma, ma anche nella loro sostanza; dietro, anzi, dentro la norma vi sono interessi concreti e reali che debbono essere apprezzati, soppesati, composti; gli atteggiamenti dei giuristi non possono essere intesi come un dato di fatto ineliminabile, ma piuttosto come il portato di tradizioni e culture che debbono essere decodificate, secondo codici analitici convenzionali e appunto per questo necessariamente uniformi; gli interessi dei prestatori di lavoro, dei professionisti, dei consumatori, dei risparmiatori, le dinamiche dei mercati, interni, comunitari e internazionali, divengono perciò altrettante linee guida per l'analisi dei modelli normativi e per la realizzazione di modelli uniformi.
Ma non si tratta solo della circolazione di modelli giuridico-formali: si tratta anche della circolazione di prassi contrattuali e commerciali, della circolazione di modelli di decisione.
La circolazione delle prassi invita a considerare gli effetti, sul piano giuridico, degli scambi economici e commerciali; la circolazione delle decisioni - mediante la comparazione della giurisprudenza, cioè dei casi che alimentano i testi normativi o i principi normativi - induce ad allargare gli orizzonti, a verificare ciò che accade in altri paesi, a soppesare i risultati della applicazione di norme e principi.
3. Le spinte alla armonizzazione e alla uniformazione e i livelli delle fonti
I giuristi italiani, e, in particolare il Consiglio Nazionale Forense, dal 1999 seguono con particolare attenzione l’evolvere delle iniziative che perseguono programmi di avvicinamento delle regole che governano i rapporti tra gli operatori economici in ambito sovranazionale; da quell’anno il Consiglio Nazionale Forense ha avviato a cadenze semestrali seminari di aggiornamento che tengono conto sia della evoluzione del diritto interno, sia della evoluzione delle esperienze straniere più rilevanti, sia dei tentativi di codificazione destinati a sfociare in regole comuni a tutti i Paesi Membri dell’ Unione, sia della elaborazione e della applicazione dei testi di diritto uniforme proposti dall’ Unidroit (aa.vv., 2001; aa.vv., 2002a; aa.vv., 2003b; aa.vv., 2004c). Sono stati e sono tuttora anni di grande fermento intellettuale e di grande lavoro per i giuristi: si pensi alla riforma del Libro V del codice civile e alla riformulazione dell’intero diritto societario, al progetto di riforma del Libro I, all’ammodernamento della normativa bancaria e finanziaria, per non parlare delle diverse procedure speciali che si affiancano a quelle previste dal codice di procedura civile e dalle leggi speciali; si pensi ancora alle iniziative di cooperazione giudiziaria promosse dall’ Unione europea, per non parlare, in prospettiva di comparazione, della incalzante legislazione con cui i sistemi di common law si adeguano alle direttive comunitarie, della ricodificazione in corso nella Germania riunificata, dei tentativi di individuazione di modelli di normazione per l’economia “globalizzata”.
L’inizio del terzo millennio presenta novità estremamente interessanti nel settore del diritto contrattuale:
(i) nel diritto interno,
- la giurisprudenza, avvalendosi della sua interpretazione creativa, sta adattando via via le disposizioni del codice civile alle esigenze emergenti dalla prassi; un quadro delle novità più recenti è stato oggetto di una ricerca pubblicata su I Contratti in occasione del decennale della Rivista (v. Maniaci, 2002, 833 ss.; Barca, 2003, 845 ss.);
- il legislatore, anche per l’attuazione delle direttive comunitarie in materia, sta coniando nuove regole, novellando il codice civile (artt. 1469 bis e ss.; 1519 bis e ss.), oppure trasformando alcuni tipi sociali, che l’autonoma privata aveva introdotto nella prassi, in tipi legali, disciplinati se non completamente almeno parzialmente, e limitando così la libertà negoziale per ragioni di interesse pubblico, di interesse sociale, di tutela della parte contrattuale più debole, come è avvenuto, ad esempio, per il franchising e per la trasparenza nei contratti bancari;
- la prassi ha promosso l’utilizzazione di nuovi modelli contrattuali, nuove clausole contrattuali, persino nuove tecniche di conclusione del contratto;
- organismi istituzionali o privati si sono proposti per la risoluzione stragiudiziale delle controversie, sia ricorrendo alla conciliazione e alla mediazione, sia diffondendo ulteriormente il ricorso ai procedimenti arbitrali;
(ii) nel diritto comunitario,
- prosegue l’approvazione di direttive (fino ad oggi dodici) che investono il settore, con particolare riguardo alla tutela del consumatore; il complesso di queste direttive estende l’ acquis communautaire ed impegna gli Stati Membri ad introdurre nella legislazione interna regole che, pur adattate al sistema giuridico che le riceve, tendono a uniformare quando più è possibile le norme in sub-settori del diritto contrattuale;
- la giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea continua ad elaborare principi di valenza generale riguardanti vari temi che incidono il diritto contrattuale, quali la nozione di consumatore e di professionista, la nozione di buona fede, la nozione di clausola vessatoria, gli effetti delle intese anticoncorrenziali, i confini del danno contrattuale, etc.;
- la Commissione, con la DG Concorrenza, si è proposta di elaborare una direttiva sui servizi professionali, con la DG Mercato interno ha elaborato una proposta di direttiva generale sui servizi, con la DG Giustizia e affari interni si è proposta di promuovere la conoscenza del diritto comunitario e del diritto internazionale privato, con la DG Salute e Consumatori si è proposta di redigere un “common frame of references” in cui consolidare i principi generali in materia di diritto contrattuale;
(iii) nel diritto dei Paesi Membri,
- prosegue l’indirizzo di convergence dei sistemi giuridici verso formule simili di normazione del diritto contrattuale;
- si sono introdotti nuovi codici (come quello olandese) e si sono novellati interi libri dei codici vigenti (come il libro II del B.G.B.), o si stanno redigendo codici “regionali”, come il codice civile scozzese o il codice civile catalano, che afferiscono anche alla materia contrattuale;
(iv) a tutto ciò si aggiungono le iniziative di Istituti privati, Università e Gruppi interuniversitari che promuovono la redazione di “codici” di diritto uniforme, muovendo dal diritto contrattuale per espandersi poi alle altre fonti delle obbligazioni e ai contratti tipici più frequentemente utilizzati: è il caso dell’Accademia dei giusprivatisti europei, con sede a Pavia, che ha predisposto un Codice di diritto contrattuale (in argomento v. aa.vv., 2003d), il caso dello Study Group, coordinato da Christian v.Bar, che ha sede a Osnabrueck (la cui attività è documentata nei volumi del CNF sopra menzionati); il caso della Commissione coordinata da Ole Lando e Hugh Beale, che ha predisposto un ampio “codice” intitolato Principles of European Contract Law (PECL) (aa.vv., 2001e);
(v) nel diritto internazionale, oltre alle iniziative dell’ Unidroit – con i Principles of International Commercial Contracts (PIICC) – si segnala l’ avant-projet della Organisation pour l’ Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires (OHADA) che ha in animo di adottare un Acte uniforme sur le droit des contrats; analoga iniziativa hanno assunto gli organizzatori del Mercosur, per i Paesi dell’ America Latina.
Tutte queste iniziative sono rivolte ad avvicinare gli ordinamenti giuridici al fine di dettare regole il più possibile vicine, migliorare e incrementare lo sviluppo dei rapporti commerciali, tra professionisti e tra i professionisti e i consumatori, dare maggior certezza giuridica agli operatori e ridurre i costi transattivi, consentire agli operatori di prevedere le soluzioni che giudici nazionali e arbitri, nazionali e internazionali, potrebbero adottare in caso di conflitto tra le parti, sottrarsi alle incertezze determinate dalla scelta della legge applicabile e dal “forum shopping” su cui si basa la c.d. concorrenza tra ordinamenti (aa.vv. 2004f; e, in generale, Alpa, Bonell, Corapi, Moccia, Zeno-Zencovich, 2004).
Per quanto riguarda il diritto interno si è parlato addirittura di “nuove frontiere del diritto contrattuale”.
Le nuove frontiere non riguardano soltanto i nuovi ambiti in cui si sta espandendo il diritto contrattuale, ma anche il fenomeno, del tutto recente, della relatività della concezione gerarchica delle fonti: vi sono fonti di grado inferiore rispetto a quelle considerate formalmente come preordinate (la Costituzione e i Trattati comunitari, le altre fonti normative comunitarie, il codice civile e le leggi speciali) che hanno un peso, cioè una influenza diretta sulla disciplina del contratto sempre più rilevante: si pensi ai regolamenti e in generale ai provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti, ai codici di autodisciplina, alle prassi negoziali a cui si deve la circolazione di modelli contrattuali si provenienza straniera. Tra gli esempi più significativi, si pensi ai provvedimenti di Banca d’Italia, Consob e Isvap per i contratti del mercato finanziario; ai provvedimenti dell’Autorità antitrust su intese e M& A, ai codici di autodisciplina degli operatori di molti settori del mercato, ai formulari di contratti o ai testi di clausole (anche arbitrali) – redatti in modo uniforme - che ormai sono in uso in molte esperienze, compresa la nostra.
Per effetto dei fattori propulsivi di cui si è detto si è avviato un processo irreversibile di revisione dei dogmi consegnati dalla tradizione. Si consideri per esempio:
(i) il superamento del dogma della neutralità del contratto rispetto allo status delle parti (di volta in volta il consumatore, il risparmiatore, il subfornitore, il minore, il convivente more uxorio);
(ii) il superamento del dogma della simmetria informativa delle parti;
(iii)il superamento del dogma del contratto fondato sull’accordo inteso come l’espressione di una volontà personale;
il superamento del dogma della libertà contrattuale quanto al contenuto vincolante predisposto dal legislatore per determinati tipi contrattuali o per determinate informazioni che le parti si debbono scambiare prima della conclusione del contratto;
(v) il superamento del dogma della causa;
(vi) il superamento del dogma della forma, intesa oggi prevalentemente con intenti protettivi della parte più “debole”;
(vii) il superamento del dogma della equivalenza soggettiva delle prestazioni e l’intervento della equità correttiva;
(viii) il superamento del dogma della “legge del contratto” con l’ingresso di forme di recesso unilaterale a scopo protettivo della parte più “debole”; il superamento del dogma della inefficacia assoluta, con l’ingresso di ipotesi di inefficacia relativa e con il moltiplicarsi delle ipotesi di nullità relativa;
(ix) il superamento del dogma della natura soggettiva del contratto a cui segue la sua oggettivazione;
(x) il superamento del dogma della sacertà del contratto con la legittimazione degli interventi correttivi del giudice o dell’arbitro.
Questo processo di revisione è sostenuto dalle svolte della giurisprudenza, con cui si incrinano i dogmi o quanto meno di invertono tendenze consolidate e stratificate nel tempo. Il panorama è vastissimo, e tocca non solo la giurisprudenza di legittimità e la giurisprudenza costituzionale, ma anche la giurisprudenza delle corti di merito, fino a quella dei giudici di pace, nonché la giurisprudenza arbitrale e i provvedimenti degli organismi deputati alla risoluzione stragiudiziale delle controversie “minori”.
Per segnalare alcune di queste vicende, si pensi:
(i) in materia di clausole contrattuali, alla legittimazione delle clausole “if and when” (Cass. 4124/01), alla conservazione della clausola arbitrale (Cass. 14860/00), alla riduzione d’ufficio della clausola penale (Cass. 10511/99,), al controllo delle clausole abusive, rilevabili d‘ufficio (Corte di Giustizia CE, 27 giugno 2000, C-240-244), nei contratti più diffusi , bancari e assicurativi (Trib. Roma, 21 gennaio 2000; Trib.Roma, 28 ottobre 2000);
(ii) in materia di contratti atipici, ai contratti di swap (Cass. 11495/01; Trib. Milano, 27 marzo 2000; App. Milano, 26 gennaio 1999; Trib. Torino, 10 aprile 1998);
(iii) all’impiego della buona fede nel recesso dal contratto (Cass. 15066/00; Cass. 12724/00; Cass. 9321/00);
(iv) alla rilevanza della buona fede nel reciproco inadempimento che porta alla risoluzione del contratto (Cass. 2788/99) e all’onere della prova in materia di inadempimento (Cass. sez. un., 13533/01).
Sono poi sempre più frequenti le questioni inerenti la volontà di obbligarsi e gli “accordi” non qualificabili come contratto in senso proprio: si pensi agli accordi familiari nella separazione di fatto, nella separazione consensuale e in vista del divorzio (Cass. 2955/98), alle liberalità d‘uso nella convivenza (Cass. 11894/98), ai gentlemen agreements (Cass. 9662/00), ai contatti sociali contrattualizzati (come il contratto del medico dipendente della ASL: Cass. 589/99), alla minuta contrattuale (Cass. 7857/97), alla lettera di intenti (Cass. 4853/98).
E si pensi ancora alla emergenza del danno morale contrattuale, ora dipinto come danno biologico derivante dall’inadempimento, ora come danno esistenziale (ad es., Trib. Milano, 2 luglio 1998; Trib. Venezia, 24 settembre 2000).
Ma si registrano ancora resistenze al cambiamento: nell’ambito di una giurisprudenza dilagante sulla buona fede contrattuale, la buona fede interpretativa è tuttora considerata criterio sussidiario di interpretazione del contratto (Cass. 18 maggio 2001,n. 6819) ed è ribadita la vigenza dell’esecrando principio “in claris non fit interpretatio” (Cass. 13104/99).
4. La “base comune” del diritto contrattuale e le scelte difficili dei giuristi
Tutte le iniziative che, in modo appena accennato, e senza pretesa alcuna di esaustività, si sono sopra indicate presentano una particolarità: al fine di agevolare la diffusione degli scambi commerciali e di far sì che gli operatori, a qualunque status appartengano, conservino la loro fiducia nel mercato e nella amministrazione della giustizia – pubblica o privata – e tengano un comportamento conforme alle elementari regole di correttezza atte a “moralizzare” i mercati, esse prevedono che le parti, già nella fase della trattativa e poi nella fase della conclusione, della interpretazione e della esecuzione del contratto, osservino:
il principio di buona fede e di fairness;
il principio di ragionevolezza;
il principio di trasparenza e di simmetria nell’informazione;
il principio di tutela dell’interesse creditorio;
il principio di conservazione del contratto;
il principio di adeguatezza nel rapporto tra le prestazioni.
Legislatori nazionali e attività dei giudici e degli arbitri già hanno promosso l’applicazione di questi principi, ovviamente tenendo conto delle singole tradizioni giuridiche, delle regole vigenti, delle prassi in corso, e quindi adattandoli al contesto normativo e culturale in cui tali principi debbono operare: ciò significa che, senza ledere eccessivamente l’autonomia negoziale, le parti contraenti sono tenute – o sulla base di regole di natura generale, o sulla base di regole specifiche destinate a disciplinare singoli rapporti – a seguire i percorsi dettati da tali principi.
Ne emerge una concezione del contratto, innovativa per alcuni ordinamenti, confermativa per altri, in cui la pattuizione privata non ha più un’aurea sacrale, intangibile dall’esterno, ma viene intesa come un rapporto in cui incidono regole che possono portare alla interpretazione oggettiva dell’atto, alla valutazione del comportamento anteriore e successivo alla sua approvazione, alla integrazione delle eventuali lacune, alla declaratoria di nullità/inefficacia di singole clausole, alla introduzione di nuovi rimedi in caso di inadempimento, alla conservazione dell’atto e alla sua modificazione – in casi eccezionali e giustificati – da parte del giudice/arbitro al fine di riequilibrare il programma economico delle parti quando esso sia sconvolto da circostanze esterne che reagiscono sulla originaria pattuizione.
Ancora. Le parti, pur sempre considerate tendenzialmente su di un piano paritetico, sono valutate anche dal punto di vista del loro “potere contrattuale”, sì che, se una di esse può apparire più “debole”, questi principi, e le regole che li applicano, provvedono a riequilibrare le posizioni: quando i contratti sono conclusi dai “professionisti” con i “consumatori”, si terrà conto della simmetria informativa; quando sono conclusi tra “professionisti”, si terrà conto dell’eventuale abuso della posizione economica della parte più “forte” per acquisire vantaggi che altrimenti non si sarebbero convenuti.
Infine, per poter attuare questi principi, al giudice/arbitro si assegnano poteri più ampi di quelli ordinariamente concessi nel passato.
Questi temi, e i diversi testi o progetti a cui ho fatto un semplice cenno, sono stati sviluppati in modo approfondito e perspicuo in un convegno organizzato a Roma nei giorni 27-28 settembre 2002 in occasione della celebrazione del LXXV anniversario della fondazione dell’ Unidroit, ed ora l’ Uniform Law Review, 2003-1/2 ne ha pubblicato gli atti. Vorrei segnalare in modo particolare le relazioni di Kronke (2003); Basedow, (2003); Hartkamp (2003); Bonell (2003); Farnsworth, (2003).; Lando (2003); Béraudo (2003); Wilhelmsson (2003).
Inoltre una compiuta ricognizione dei principi Unidroit, alla luce della nuova edizione del 2004 è offerta da Bonell (2004a).
Quando si tratta di operazioni transnazionali, nella preparazione delle operazioni rivolte alla redazione e alla conclusione del contratto l’avvocato che assiste la parte contrattuale deve effettuare una scelta fondamentale e preliminare, sempre che ne abbia la possibilità e che la negoziazione con il suo avversario lo consenta: la scelta della legge applicabile al contratto. La prassi ci insegna che molte volte un’operazione economica, se complessa, implica la redazione di più atti, la costruzione di un congegno di rapporti, l’intervento di soggetti terzi (come istituti bancari, società fiduciarie, etc.) e che nella gran parte dei casi essa implica l’applicazione di regimi fiscali che incidono sulla scelta del tipo contrattuale da adottare, sul luogo nel quale concludere il contratto, sul luogo nel quale effettuare le prestazioni, sui tempi della procedura, sulla corte che potrà essere investita delle controversie emergenti dal rapporto.
Si deve anche tener conto che il contratto, pur unitariamente considerato, può essere assoggettato a diverse leggi nazionali, se si dà ingresso al fenomeno del morcellement, cioè della sua scomposizione con l’assoggettamento di single clausole o di gruppi di clausole a leggi nazionali diverse.
Gli avvocati possono anche concordare di assoggettare il contratto a principi predisposti da Istituzioni internazionali o accreditati dal prestigio dell’ Istituzione che li ha coniati.
Nel caso dei PECL la speranza che accomuna i giuristi che li hanno proposti è che essi possano essere adottati come un “codice modello” che anche le parti aventi la medesima nazionalità possono seguire, in alternativa alla loro legge nazionale, o addirittura che essi possano essere adottati dall’ Unione europea mediante uno degli strumenti di cui essa si può avvalere (il regolamento, la direttiva, la raccomandazione).
Nel caso dei PICC (i “Principi dei contratti del commercio internazionale” elaborati dall’Unidroit) si è in presenza di regole che traducono con maggior precisione e certezza i principi che un tempo appartenevano alla lex mercatoria. La loro efficacia è documentata dal successo che essi hanno segnato sia nella prassi arbitrale, sia nelle decisioni giudiziali che li hanno utilizzati, sia nei modelli legislativi che li hanno adottati o seguiti.
Comunque, non appare fondata l’opinione in base alla quale la legge della parte più “forte”, cioè la legge che l’avvocato della parte più forte sarebbe in grado di imporre, sia sempre,in ogni caso, la legge più favorevole a quella parte.
Per poter dare contezza di questi assunti occorrerebbe tener conto di una letteratura pressoché sterminata, e occorrerebbe pure scendere nei dettagli, per raffrontare i testi già vigenti o in corso di elaborazione e illustrare le modalità con cui quei principi sono intesi e applicati alle fattispecie concrete, ed occorrerebbe anche indicare le innumerevoli varietà di elaborazione e di soluzione che si registrano nelle diverse esperienze.
Ai nostri fini è sufficiente prospettare alcuni esempi, perché si possa “toccar con mano” sia le difficoltà che tuttora persistono per raggiungere gli obiettivi sperati, sia per segnalare l’opportunità che si giunga, nei tempi necessari, alla migliore uniformazione possibile delle regole che disciplinano i contratti.
5. L’ acquis communautaire in materia di contratti
5.1. L’ambito dell’indagine
Per delineare l’ambito dell’ acquis communautaire in materia di contratti occorre muovere da alcune opzioni che variano a seconda delle prospettive di indagine adottate dall’interprete. Ogni opzione amplia o restringe il campo d’indagine. Si può pertanto procedere dall’ambito più ristretto all’ambito più ampio e verificare i risultati che si ottengono tenendo conto di diversi criteri di sistemazione della materia:
(i)il criterio terminologico, che serve a chiarire il significato dei termini impiegati nelle fonti comunitarie, costituite dal Trattato per la Costituzione europea (che è stato sottoscritto ma non ancora ratificato dai venticinque Paesi Membri) e dai Trattati in cui si sono consolidati i testi normativi che si sono susseguiti dagli anni Cinquanta ad oggi; dai regolamenti e dalle direttive, nonché dalle decisioni della Corte di Giustizia;
(ii) il criterio nozionale, che serve a chiarire le nozioni o i concetti impiegati dal legislatore o dal giudice comunitario;
(iii) il criterio sostanziale o contenutistico, che serve a chiarire i contenuti della disposizione o della sua interpretazione;
(iv) il criterio teleologico, che serve a chiarire gli scopi perseguiti dal legislatore o dal giudice;
(v) il criterio gius-politico, che serve a chiarire le tecniche di risoluzione dei conflitti degli interessi coinvolti nelle vicende disciplinate .
Questi criteri, tutti presenti nelle indagini degli interpreti, non sempre sono esplicitati.
A loro volta, gli scopi della ricostruzione dell’ acquis communautaire sono molteplici. Si devono infatti considerare:
(i)gli scopi cognitivi, dal momento che l’enorme produzione normativa posta in essere dagli organi comunitari con ritmo impressionante pone problemi di conoscibilità delle regole da parte dei loro destinatari, ma anche da parte degli organi di produzione;
(ii) gli scopi sistematici, dal momento che questo corpo normativo (inclusivo delle disposizioni e della loro interpretazione) pone problemi di coordinamento e di sovrapposizione;
(iii) gli scopi funzionali, dal momento che questo corpo normativo deve essere valutato sul piano della sua efficacia, sia nel senso della pronta attuazione da parte degli Stati Membri delle regole introdotte , sia nel senso degli effetti, economici e sociali, che esso provoca.
Il nucleo centrale delle disposizioni che riguardano la materia del contratto sono date dall’azione comunitaria a favore del consumatore, nei rapporti che questi istituisce con il professionista.
Un nucleo più ampio riguarda la disciplina di singoli rapporti contrattuali diversi da quelli che hanno come parti il professionista e il consumatore, come i contratti informatici, la subfornitura, i contratti di assicurazione e di intermediazione assicurativa, i contratti bancari e di intermediazione finanziaria, i contratti di distribuzione.
Un nucleo più ampio ancora riguarda la materia delle obbligazioni, che include la legge applicabile, la disciplina dell’euro, la disciplina dei pagamenti, la disciplina della responsabilità civile.
Un nucleo più esteso riguarda le intese ed ogni altro rapporto che inerisce alla disciplina della concorrenza e alla circolazione di beni, servizi e capitali, nonché utte le operazioni che si compiono in ambito societario e che hanno alla loro radice un’intesa, un patto, una deliberazione e così via.
Per convenzione, e semplicità espositiva, i manuali e i saggi che si occupano di “diritto contrattuale europeo” si arrestano all’esame del nucleo più ristretto, ma è necessario avvertire che molteplici sono le regole destinate a disciplinare i rapporti contrattuali che esorbitano da questa circoscritta area.
Ancora, e non solo per convenzione, ma per rispettare le tecniche normative degli organi comunitari, prevalentemente dedicate a regolare singoli settori dei rapporti contrattuali, i contenuti delle regole sono esposti guardando all’ interno di ciascun settore, tralasciando quindi criteri sistematici.
Qui di seguito si offrono solo alcuni esempi di organizzazione sistematica dell’ acquis concernente i contratti dei consumatori, con qualche incursione negli altri nuclei sopra citati. Come si avrà modo di rilevare, non solo emergono sovrapposizioni o addirittura contrasti tra le discipline specifiche, ma anche varianti della terminologia e dei concetti.
5.2. Esempi di organizzazione sistematica della disciplina dei contratti dei consumatori.
Si è già accennato al fatto che la quasi totalità delle norme concernenti i contratti dei consumatori derivano da direttive.
(i) Le parti.
Scomponendo la produzione normativa oggetto di questo primo nucleo secondo la concezione di contratto accreditato nell’esperienza italiana , la prima questione che emerge riguarda la nozione di parte del contratto. Nei capitoli precedenti si sono date diverse definizioni di consumatore e di professionista, e si è detto come nelle varie esperienze legislatori e giudici hanno variamente inteso queste nozioni.
(ii) L’informazione precontrattuale.
Le direttive che regolano la fase precontrattuale sono numerose, dal momento che scopo precipuo della loro introduzione è la formazione di un consumatore “informato”, in modo da ridurre l’asimmetria informativa esistente tra il professionista e i destinatari dei suoi prodotti o dei suoi servizi. Il consumatore informato dovrebbe infatti essere in grado di fare scelte consapevoli ed oculate, e prevenire ogni rischio determinato dalla erronea o recettiva informazione acquisita sul mercato.
Il mezzo più usuale impiegato dal professionista per segnalare prodotti e servizi all’attenzione del consumatore è costituito dalla pubblicità commerciale. Due direttive si occupano della materia: la direttiva sulla pubblicità ingannevole (n.84/450/CEE) e la direttiva sulla pubblicità comparativa (n.97/55/CE), che ha modificato alcune disposizioni della precedente.
In questo senso si colpisce la pubblicità – intesa come qualsiasi messaggio utilizzato nell’esercizio di una attività commerciale, industriale, artigianale o professionale – che in qualsiasi modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, dato il suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il comportamento economico di dette persone, o leda o possa ledere un concorrente; si colpisce altresì la pubblicità comparativa, che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente.
I rimedi previsti non hanno tuttavia natura contrattuale, ma solo lo scopo di prevenire, di sospendere o di far cessare la diffusione del messaggio o di obbligare il professionista a fornire tutte le prove relative alla liceità del messaggio.
In ogni ordinamento nazionale si possono dunque applicare rimedi diversi per reagire agli effetti che si siano prodotti sul rapporto precontrattuale o contrattuale istituito dal consumatore che abbia fatto affidamento sul messaggio che contravvenga alle direttive citate.
Con la Comunicazione sulle pratiche commerciali sleali [COM (2003) 0356] la Commissione ha licenziato un testo, adottato in posizione comune con il Parlamento e il Consiglio europeo, e modificato dalla risoluzione del Parlamento europeo (con provvedimento del 24.2.2005), che colpisce ogni pressione di vendita – quindi i contatti con il consumatore – che implichi l’obbligo di contrarre del consumatore, le visite personali non autorizzate, le informazioni relative alla gratuità di un prodotto o di un servizio, ed ogni altra pratica che possa risultare sleale.
Si prevede, nella direttiva sui contratti a distanza (n. 97/7/CE) che in tempo utile prima della conclusione del contratto il consumatore debba ricevere informazioni relative alla identità del fornitore, le caratteristiche essenziali del bene o del servizio, il loro prezzo, le eventuali spese di consegna, le modalità di pagamento, consegna o esecuzione del contratto, l’esistenza del diritto di recesso, il costo dell’utilizzo della tecnica di comunicazione, la durata della validità dell’offerta o del prezzo e la durata minima del contratto (se si tratti di contratto ad esecuzione continuata o periodica). Le informazioni devono essere effettuate in modo chiaro e comprensibile, e con lealtà. Le informazioni devono essere effettuate per iscritto e confermate dal consumatore.
Anche in questo caso nulla si dice sui rimedi precontrattuali o contrattuali, in caso di violazione degli obblighi imposti al professionista.
Analoghe previsioni sono portate dalla direttiva n. 2002/65/CE sulla “commercializzazione” a distanza di servizi finanziari ai consumatori. Tuttavia, gli obblighi sono più dettagliati, perché riguardano l’identità del fornitore, il servizio finanziario, il contratto a distanza, il reclamo e i ricorsi del consumatore, e le informazioni fornite mediante telefonia. Si prevede altresì che le informazioni siano chiare e comprensibili, ed effettuate nella lingua del consumatore, tenendo conto dei principi di buona fede e di protezione delle persone (in particolare degli incapaci , quali i minori).
In più, si prevede che al consumatore siano comunicate le condizioni contrattuali su supporto cartaceo. E per la rima volta, pur rimettendosi agli ordinamenti nazionali le regole concernenti i rimedi in caso di violazione, si prevede che il consumatore possa risolvere il contratto in qualsiasi momento, senza costi e senza penali, misura che si può applicare anche in caso di violazione delle regole sull’informazione precontrattuale.
Informazioni analitiche sono previste per il credito al consumo (direttiva n. 87/102/CEE), per i viaggi , vacanze e circuiti tutto compreso (direttiva n. 90/314/CEE) e per la disciplina della multiproprietà, in cui si obbliga il professionista a consegnare agli interessati un documento informativo, assai analitico, riguardante l’identità del venditore, l’unità immobiliare, la sua qualificazione urbanistica ed edilizia, il prezzo, il diritto di recesso, e così via.
Nel caso di vendite fuori dei locali commerciali (direttiva n. 85/577/CEE), l’obbligo del professionista è più circoscritto, perché consiste solo nell’ informare per iscritto il consumatore del suo diritto di recesso dal contratto ( la direttiva, impropriamente, usa il termine “rescindere”) , nonché di comunicare il nome e l’indirizzo della persona nei cui riguardi può essere esercitato tale diritto.
Anche in questo caso spetta agli ordinamenti nazionali prevedere “misure appropriate per la tutela del consumatore qualora non venga fornita l’informazione “ in esame.
Per i rapporti bancari e finanziari le informazioni preliminari sono oggetto di una normativa molto più complessa e completa.
Altrettanto dettagliate debbono essere le informazioni del professionista che si affidi al commercio elettronico (direttiva n. 2000/31/CE) perché la comunicazione deve essere identificabile come tale, deve essere evidenziata l’identità del soggetto per cui si effettua la comunicazione, le offerte promozionali debbono essere esplicitate, i giochi e i concorsi debbono essere leciti.
(iii) La conclusione e la forma del contratto
Per lo più, le direttive non si occupano delle tecniche di conclusione del contratto, salvo quanto di è detto a proposito dei contatti preliminari e della presentazione dell’offerta. Non sindacano l’operato del professionista che propone al consumatore un contratto rivestendo il ruolo di oblato, anziché di proponente. Mentre, come si è precisato, vi sono direttive che postulano la conoscenza del testo contrattuale da parte del consumatore.
Tuttavia, il problema emerge in caso di contratto negoziato a distanza. In questo caso la direttiva sul commercio elettronico prevede che il destinatario della prestazione debba essere informato previamente sulle varie fasi tecniche della conclusione del contratto, se il contratto concluso sarà archiviato dal prestatore e come si potrà accedervi, i mezzi per modificare l’ordine, la lingua disponibile, le condizioni contrattuali. La direttiva prevede altresì l’obbligo del prestatore di accusare ricevuta dell’ordine del destinatario del servizio e stabilisce che “l’ordine e la ricevuta dell’ordine si considerano pervenuti quando le parti cui sono indirizzati hanno la possibilità di accedervi.
Nulla si dice quanto ai rimedi precontrattuali o contrattuali in caso di violazione di queste disposizioni, se non che le sanzioni previste debbono essere effettive, proporzionate e dissuasive.
Anche la forma del contratto – forma di protezione – è affidata agli ordinamenti nazionali, salvi i casi in cui sia prevista la forma scritta (come nel caso di vendita a distanza, di vendita elettronica, di multiproprietà, di viaggio, di contratti del settore bancario, finanziario e assicurativo).
(iv) Contenuto del contratto.
Per le operazioni più complesse si stabiliscono in modo dettagliato i contenuti del contratto, come avviene per i contratti del settore bancario, finanziario e assicurativo, per la multiproprietà, per i viaggi. Ed anche per le garanzie nella vendita al consumo (direttiva n. 1999/44/CE), in cui si dispone che la garanzia debba indicare che il consumatore è titolare dei diritti previsti dalla disciplina nazionale, l’oggetto della garanzia, gli elementi essenziali per farla valere, la sua estensione e la identificazione del soggetto che la presta.
Una regolamentazione analitica è prevista per le clausole vessatorie, di cui si parlerà diffusamente infra.
(v) Esecuzione del contratto.
Assai ridotte sono le previsioni che riguardano l’esecuzione del contratto. La direttiva sui contratti a distanza prevede che l’ordinazione deve essere eseguita entro trenta giorni dal giorno successivo a quello in cui il consumatore ha trasmesso l’ordinazione al fornitore; il consumatore deve essere informato della mancata disponibilità del bene o del servizio e il fornitore può consegnargli un bene o un servizio di qualità e prezzo equivalenti. La direttiva sui viaggi prevede la “buona esecuzione del contratto” e la scelta, a favore del consumatore, di usufruire di servizi di qualità equivalente o superiore.
Più dettagliata è la direttiva sulle garanzie, dal momento che tutta la disciplina della vendita è incentrata sulla conformità al contratto dei beni oggetto della vendita.
(vi) Rimedi. Il recesso.
La gran parte delle direttive prevede nuove forme di invalidità: invalidità relative, invocate dal consumatore, e invalidità assolute, quando le disposizioni sono equiparabili a norme imperative, o comunque non siano derogabili da parte del consumatore.
In qualche raro caso si menziona il danno contrattuale, che è di natura patrimoniale o di natura morale, come avviene nel caso di contratti di viaggio.
Alle maggiori innovazioni che riguardano la materia contrattuale (oltre alla disciplina delle clausole abusive) si deve ascrivere il recesso dal contratto. Normalmente considerato negli ordinamenti nazionali quale oggetto di scelta convenzionale delle parti, più raramente previsto ex lege, questo diritto di ripensamento (o di ius poenitendi) è previsto nelle vendite fuori dai locali commerciali, nelle vendite a distanza, nel commercio elettronico, nei contratti dell’intermediazione finanziaria, nei viaggi. Il diritto di recesso non abbisogna di giustificazioni per il suo esercizio, anche se variano nelle direttive i termini temporali e le modalità di esercizio del diritto. Inoltre, il recesso non implica sanzioni, né spese, che potrebbero dissuadere il consumatore dal suo esercizio. Il recesso ha efficacia retroattiva ed obbliga le parti alle restituzioni. Tuttavia, la disciplina delle restituzioni è affidata agli ordinamenti nazionali.
In conclusione, salvo quanto si dirà a proposito della disciplina delle clausole vessatorie, le regole in materia contrattuale si incentrano soprattutto sulla informazione preliminare e sul recesso, , mentre, via via che ci si addentra nella conclusione e nella esecuzione del contratto, o nei rimedi all’inadempimento, o nelle forme di invalidità, si moltiplica il rinvio alla disciplina nazionale, facendo salvi quindi i diversi modelli imperanti nei Paesi Membri dell’ Unione. Il che espone il consumatore alle “sorprese” che si annidano nei modelli stranieri, quando la legge applicabile al contratto , imposta dal professionista al consumatore, sia diversa dalla sua legge nazionale.
La definizione di contratto e la individuazione dei requisiti del contratto.
Nei diversi ordinamenti sono variegate sia le definizioni legislative di contratto, là dove esse esistono, sia le nozioni di contratto costruite dalla giurisprudenza e dalla dottrina (Sacco, 1991).
Sia i PICC sia i PECL non dànno la definizione di contratto. Entrambi i testi, tuttavia, si premurano di salvaguardare la libertà contrattuale.
(i) I PICC
I Principi dell’ Unidroit si aprono con una enunciazione di carattere generale, concernente la libertà contrattuale, secondo la quale "le parti sono libere di concludere un contratto e di determinarne il contenuto". La prima impressione è che l'area della libertà contrattuale sia circoscritta, rispetto all'ampiezza che in ogni ordinamento le si assegna, sia con riguardo alla scelta del contraente, sia con riguardo alla scelta del tipo, sia con riguardo alla forma. Ma le regole successive ampliano questa nozione, affermando che il contratto può essere concluso per iscritto, oppure può essere provato con tutti i mezzi, anche testimoniali (art. 1.2); da questo punto di vista, i principi vanno al di là del disposto del cod. civ. it., che prevede limitazioni all'uso della prova testimoniale: la prova per testi non è ammessa quando il valore dell'oggetto supera le lire cinquemila (art. 2721: in pratica non è ammessa), così come non è ammessa la prova di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento se anteriori o contemporanei alla conclusione (art. 2722), mentre è ammessa per i patti posteriori, ma solo se appaia verosimile, considerate la natura del contratto e ogni altra circostanza, che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723). In ogni caso, riguardando i principi contratti del commercio internazionale, la libertà di scelta del contraente e la libertà di scelta del tipo sono implicite nell'enunciazione di carattere generale.
Negli ordinamenti che prendono a modello il Code Napoléon si prevede, per legge, la natura vincolante del contratto (per il cod. civ. it. v. l'art. 1372). La previsione esplicita è stata ritenuta superflua ed enfatica, anche se dettare con chiarezza una regola di tal fatta può essere utile per richiamare l'attenzione delle parti su quanto stanno concludendo, e a sottolineare che secondo diritto il fatto della conclusione di un contratto è giuridicamente rilevante. Negli ordinamenti di common law il contratto è giuridicamente vincolante sia per ragioni utilitaristiche (in tanto il promittente promette in quanto è sicuro che anche controparte prometterà) sia per ragioni di correttezza commerciale (se le parti concludono il contratto senza intenzione di vincolarsi non si possono concludere affari e il commercio deperisce). Qui la previsione è necessaria perché ci si muove in un contesto non giuridificato, ma nell'ambito della c.d. lex mercatoria, ove la prassi è l'unico riferimento. Perciò i redattori hanno introdotto il principio in base al quale il contratto che sia stato formato validamente vincola coloro che lo hanno concluso" (art. 1.3).
Va da sé che se le parti fossero libere di modificare unilateralmente il contenuto dell'accordo, il vincolo sarebbe vanificato; perciò l'art. aggiunge che le modificazioni sono ammesse solo se provengano dalla comune intenzione delle parti, ovvero derivino dalla applicazione dei principi ulteriormente enunciati.
Sempre in tema di libertà contrattuale, si è osservato che i principi espressi dall'Unidroit debbono essere intesi in modo elastico, sicché le parti possono anche escluderne la portata, modificandone il contenuto, o riducendone parzialmente l'applicazione (Bonell, 1994b, 57). Tuttavia, ai sensi dei principi, vi sono regole che non possono essere derogate dalle parti: basti pensare ai principi di buona fede e correttezza (good faith and fair dealing), di cui all'art. 1.7, alla disciplina della validità, alla determinazione del prezzo (art. 5.7.2), all'inadempimento (art. 7.4.13.2); così come non sono derogabili le regole imperative previste dalla legge statuale, da convenzioni internazionali, etc. (art. 1.4).
Oltre al principio di libertà contrattuale, i valori fondamentali su cui poggia l'impalcatura dei principi dell'Unidroit contemplano pure la rilevanza degli usi, il favor contractus, la buona fede e la correttezza, la repressione della slealtà (Bonell, 1994b, 61 ss ).
Vi sono coincidenze con il diritto italiano anche a questo riguardo.
Ed infatti, gli usi si ritengono noti e accettati dalle parti anche se non espressamente richiamati in contratto, sia che si tratti di usi normativi, sia che si tratti di usi commerciali e in genere contrattuali; essi sono richiamati dalle disposizioni preliminari in materia di fonti (art. 1, 8, 9) e, per il contratto, dal cod. civ. it. in materia di integrazione (art. 1374) e in materia di interpretazione, (art. 1368).
Quanto alla conservazione del contratto, il favor per l'operazione economica conclusa dalle parti emerge da numerose regole, sia in tema di formazione (art. 2.1, 2.11.2,2.12, 2.14, 2, 22), sia in tema di validità (art. 3.2, 3.3), sia in tema di hardship (art. 6.2.2, 6.2.3), sia in tema di inadempimento (art. 7.3.1, 7.1.4, 7.4.8).
Salva la disciplina dell'istituto dell'hardship, di cui si dirà, le altre regole richiamano un principio ben noto nel diritto italiano, che dedica alla conservazione una disposizione in materia di interpretazione (art. 1367 del cod. civ.), ma ne fa applicazione in numerose disposizioni, che, in modo implicito, ad esso si possono riferire: tanto per esemplificare, si pensi alla nullità parziale, alla convalida del negozio annullabile, alla conversione del negozio nullo, alla validità del contratto dissimulato, etc.
Il principio di buona fede (inteso in senso oggettivo, ovviamente) è universalmente accettato nei sistemi continentali, in cui sia la letteratura giuridica, sia la giurisprudenza, soprattutto negli ultimi decenni ne hanno esteso l'impiego a numerosissime fattispecie. La scelta dell'Unidroit è molto importante, perché la buona fede, codificata quale principio generale, viene a costituire un valore universale, e quindi è applicata anche in settori diversi da quelli ove, in common law, le si riconosce preminente rilevanza: si applica dunque anche al di fuori del settore della formazione del contratto (Bonell, 1994, 80). I principi dell'Unidroit richiamano la buona fede negli artt. 1.7, 2.4, 2.14, 2.16, 2.17, 2.18, 4.1, 4.2, 4.8, 5.2, 5.3, 5.8, 7.12, 7.17, 7.2.2, 7.4.8). Al medesimo principio si richiama, nelle regole di apertura, la Convenzione di Vienna dell'11-4-1980 (art. 7) sulla vendita di merci (ratificata e resa esecutiva con l. 11-12-1985 n. 765 ed entrata in vigore il 1-1-1988) che promuove l'osservanza della buona fede nel commercio internazionale (Bonell, 1989c).
Particolarmente interessante è il complesso delle regole che si propongono di controllare e prevenire la mala fede dei contraenti (c.d. policing against unfairness: Bonell, 1989c, 88, 90 ss ). E' pur vero che i contratti del commercio internazionale sono di solito conclusi tra soggetti provvisti di competenza professionale e interessati a mantenere un corretto comportamento al fine di non essere emarginati dal mercato, ma è altrettanto vero che la funzione dei principi è anche di natura persuasiva, e quindi moralizzatoria delle contrattazioni.
Di qui non solo le regole sul dolo (3.8) e sulla violenza (3.9), ma anche le regole in materia di contratti per adesione e conclusi mediante moduli o formulari. La disciplina non poteva essere così incisiva come in alcuni ordinamenti si è disposto, con riguardo ai contratti con i consumatori, in cui vi è, presuntivamente, una parte debole di fronte all'impresa. Linea seguita dal diritto comunitario con la direttiva del 5-4-1993. Ciò sia perché i principi tendono a legittimare la prassi e a non incidere più di tanto sulla volontà negoziale, sia perché i contratti di cui si occupano sono conclusi tra parti tendenzialmente provviste del medesimo status professionale.
Però si prevede che le clausole già predisposte possano avere efficacia solo se espressamente richiamate (art. 2.19), non possano avere un effetto "sorprendente" (art. 2.20), non prevalgano sulle clausole aggiunte (art. 2.21), siano interpretate a favore della controparte (art. 4.6).
Il cod. civ. it. introduce una disciplina più restrittiva, sostanzialmente legittimando le condizioni generali di contratto sempre che siano, ove vessatorie, espressamente sottoscritte (art. 1341 c. 2); vi è identità quanto alla prevalenza delle clausole aggiunte (art. 1342) e all'interpretazione (art. 1 370). Sulla sorpresa, si può dire che, pur usando altre espressioni, come quella di "conoscenza" o di "conoscibilità", la regola è simile (art. 1 341).
Più interessante è il trattamento di singoli tipi di clausole, quali ad es., le clausole di esonero da responsabilità (art. 7.1.6) perché i principi sono restrittivi, mentre il cod. civ. it. è lassista: l'art. 1229 infatti le legittima tutte, fino al limite della colpa grave e del dolo.
Sul trattamento della clausola penale si dirà più oltre.
Grande novità per l'ordinamento italiano è data dalle previsioni concernenti la disparità di posizioni giuridico-economiche tra le parti: presso di noi, il rapporto tra le prestazioni non è sindacabile dal giudice, a meno che non vi sia approfittamento dello stato di bisogno ovvero conclusione del contratto in stato di pericolo (artt. 1447, 1448 cod. civ. it.), oppure errore, violenza, dolo, oppure presupposizione.
I principi dell'Unidroit, per contro, consentono di intervenire sulla "gross disparity" tra le prestazioni dei contraenti (art. 3.10). Il vantaggio eccessivo tratto da una parte in danno dell'altra derivato dalla situazione economica in cui si trova o da sua inesperienza, può comportare l'annullamento oppure l'intervento del giudice per adattare le condizioni contrattuali a maggior equilibrio, sempre per conservare il contratto.
(ii) I PECL
Anche i PECL della Commissione Lando-Beale non recano la definizione di contratto ; le definizioni incluse riguardano altri termini, in particolare l’atto, ma solo nel senso che questo termine include l’omissione (art. 1.301) o la promessa , ma solo nel senso che “la promessa che si intende essere giuridicamente vincolante senza necessità di accettazione produce effetti vincolanti per il suo autore” (art.2.107).
La definizione di “contratto” è dunque affidata all’interprete.
Il commento precisa che la nozione di contratto utilizzata nei PECL comprende gli accordi mediante i quali due o più parti assumono l’obbligazione di eseguire una prestazione, gli accordi in cui l’oblato accetta l’offerta eseguendo l’atto o tollerando l’atto che l’offerente richiede, gli accordi in cui solo una parte assume obbligazioni e la sua promessa richiede l’accettazione dell’oblato, le promesse in cui la parte vincolata non richiede l’accettazione dell’altra (ex art. 2.107).
L’omissione della definizione di cui all’art. 1321 cod.civ.it. non crea particolari problemi, in quanto l’art.2.101 non esclude che il contratto possa essere diretto non solo a creare obbligazioni ma anche a produrre effetti reali; occorrerà verificare il testo che sarà predisposto dalla commissione apposita che opera nel progetto di redazione di un “codice civile europeo” diretto di Chistian von Bar sul trasferimento della proprietà e sulla disciplina della compravendita e degli altri contratti che producono effetti reali per accertare la reale portata di questa nozione. In ogni caso, il poter essere il contratto diretto a modificare o estinguere un rapporto giuridico è previsto – in termini più circoscritti, perché riferiti al contratto già concluso – dall’art. 1.107, a mente del quale i PECL si applicano, in quanto compatibili, agli accordi diretti a modificare o a estinguere un contratto.
I requisiti perché il contratto “si possa ritenere concluso” (secondo le nostre categorie, diremmo piuttosto valido, oppure validamente concluso) non corrispondono esattamente ai requisiti previsti dall’art. 1321 cod.civ.it.: si indicano infatti (a) l’intenzione di vincolarsi e (b) la sufficiente completezza dell’accordo; il requisito sub (a) può essere riferito all’ “accordo” di cui all’art. 1321 n.1, e il requisito sub (b) può essere riferito all’ “oggetto” o al “contenuto” di cui al n.3; in ogni caso, sono omesse la causa e la forma.
Il requisito sub (a), si legge nel commento, non deve essere inteso nel senso soggettivo, intimistico, ma nel senso oggettivo, cioè nell’affidamento creato nella controparte. Il suo significato si inferisce dalla specificazione indicata nell’art. 2.102, che riguarda – tra i criteri per accertare la intenzione di vincolarsi – le dichiarazioni della parte di cui si deve accertare l’intenzione e i suoi comportamenti così come essi potevano esser ragionevolmente intesi dalla controparte. La promessa che crea un affidamento è vincolante anche nel nostro ordinamento, quindi non si creano frizioni con i PECL.
Il requisito sub (b) è specificato dall’art. 2.103, nel senso che il contenuto deve essere sufficientemente definito tra le parti in modo da rendere il contratto produttivo di effetti, oppure deve essere determinabile mediante il ricorso ai PECL. Si risolvono in tal modo – unitariamente - due problemi che sono distinti nella nostra esperienza: la completezza dell’accordo e la determinazione o determinabilità dell’oggetto. La formula impiegata non contrasta con le soluzioni accolte da dottrina e giurisprudenza italiane a proposito della formazione progressiva del contratto, della minuta contrattuale o puntuazione e della definizione degli elementi essenziali dell’accordo. Ciò che appare utile è il c.2 dell’art. 2.103, in cui si precisa che ove una parte abbia rifiutato di concludere un contratto se con la controparte non avesse raggiunto l’accordo su di uno specifico aspetto non si può ritenere che il contratto esista, a meno che non si accerti che l’accordo sul punto fosse già stato raggiunto. L’incidenza della volontà di una parte è temperata dalla valutazione dell’avvenuta conclusione dell’in idem sentire; ed in ogni caso, deve risultare in modo inequivoco quale fosse il punto ritenuto essenziale da una parte, una sorta di “elemento” così determinante da escludere la sua intenzione di obbligarsi, e da escludere che l’altra parte potesse fare affidamento sull’avvenuta formazione del consenso.
L’omissione della forma è giustificata dal c.2 dell’art. 2.101, ma questo principio si pone in contrasto con la forma legale richiesta dal cod.civ. o dalle leggi speciali. Ci si può chiedere inoltre se la forma convenzionale sia compatibile con l’art.2.101. Quanto alla forma convenzionale, dal momento che l’art.2.101 non si autodefinisce come “inderogabile”, e dal momento che nel commento all’art.1.103 non si annovera tra i principi inderogabili l’art.2.101, si può ritenere che la forma convenzionale sia ammessa dai PECL.
Per la forma legale il discorso è diverso. Lo stesso art.1.103 non sembra dare ingresso alle norme imperative derivanti dalla legge nazionale quando le parti abbiano deciso di fare ricorso ai PECL, a meno che la norme siano inderogabili secondo i principi del diritto internazionale privato.
Come si sarà notato né i PICC né i PECL tengono conto della “causa” o della “consideration”. Neppure i principi dell’ OHADA ne tengono conto. Può essere una scelta sorprendente, sia per i giuristi di tradizione codicistica che seguono il modello romano-francese, sia per i giuristi di common law. Ma la scelta è senz’altro felice: non solo perché sia nelle esperienze che fanno uso della causa e in quelle che fanno uso della consideration le due nozioni sono assai controverse, ma anche perché gli scopi ai quali si piega questa nozione (il controllo della meritevolezza dell’interesse creditorio, il controllo della liceità dell’operazione, la sussistenza di una controprestazione nei contratti di scambio) si possono realizzare mediante altri requisiti del contratto, come ad esempio l’ oggetto. Se si prescinde dunque dai dogmi e si adotta il metodo funzionale, che sorregge le iniziative dell’ Unidroit come le iniziative della Commissione Lando-Beale, la soppressione di causa e consideration non dà luogo a preoccupazione alcuna. Senza aggiungere che in qualche esperienza la “causa” è addirittura pretermessa, come nell’ordinamento tedesco, in altre è svilita, come in Francia, in altre ancora si registrano persistenti orientamenti anti-causalisti, come in Italia, e nel common law la consideration è ritenuta da molti un elemento necessario ma svuotato di contenuto pregnante. E’ dunque ragionevole giungere alla conclusione che “ malgré le role de condition essentielle que paraissent respectivement jouer les notions de “cause” et de « consideration » dans les droits qui retiennent l’une ou l’autre, il est parfaitement possible de construire un droit des contrats viable sans y recourir ‘ (Fontaine, 2004, 265).
7. La clausola di hardship.
(i) I PICC
In tutti gli ordinamenti si prevedono regole, esplicite o costruite dalla interpretazione dottrinale o giurisprudenziale, in ordine all'eventualità che l'esecuzione divenga eccessivamente onerosa. Nell'esperienza italiana si distinguono due ipotesi: quella in cui l'onerosità eccessiva fosse straordinaria e imprevedibile, con la conseguenza della risoluzione del contratto (art. 1467) e quella in cui le circostanze onerose fossero prevedibili ma non effettivamente previste dalle parti. In questo caso, si deve accertare la possibilità di applicare la teoria della presupposizione, che, collegata con la clausola di buona fede, con la causa del contratto, con la base negoziale (cioè con il piano di riparto di vantaggi e dei rischi), può comportare la risoluzione del contratto.
Nel commercio internazionale si tende, come sottolineato più volte, a mantenere in vita il contratto. Quindi l'enunciazione generale secondo la quale le parti sono tenute a eseguire le rispettive prestazioni anche se siano diventate più onerose (art. 6.2.1) è corretta dall'istituto dell'hardship.
I caratteri di questo istituto sono tratteggiati dall'art. 6.2.2, ove essi sono così indicati: l'onerosità deve dipendere da un rischio non accettato in contratto, da circostanze esterne, che non devono dipendere dalla parte che le invoca, e devono essere sopravvenute o, se anteriori, non dovevano essere note o conoscibili alla parte che le invoca.
L'effetto dell'hardship è diretto al mantenimento del rapporto. Perciò si concede alla parte che l'invoca la possibilità di riaprire la trattativa senza indugio e senza sospensione dell'esecuzione della prestazione dovuta.
Nel caso la trattativa non sortisca esiti positivi, la parte interessata può adire il giudice (nel nostro caso, l'arbitro).
Qui si apre un ulteriore spazio di intervento che negli ordinamenti codificati è del tutto ignorato, anzi, avversato: infatti, il giudice può - al di là della pronuncia di risoluzione del contratto, che è la conseguenza ordinaria - l'adattare il contratto al fine di ristabilire l 'equilibrio tra le prestazioni" (art. 6.2.3).
(ii) I PECL
L’art. 6.111 tratta del mutamento delle circostanze. Le ipotesi considerate si avvicinano alla eccessiva onerosità sopravvenuta, che, secondo il nostro ordinamento, è causa di risoluzione del contratto (art. 1467 ss. cod.civ.it.). Tuttavia diverse sono le conseguenze che l’ordinamento italiano prevede al riguardo: il giudice non ha facoltà di interferire nel piano di ripartizione dei rischi, dei vantaggi e degli svantaggi, essendo consentito solo alla parte contro la quale è domandata la risoluzione di evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto (art.1467 c.3).
Ora, nei PECL si prevedono due meccanismi per riportare il contratto ad equità, senza necessità di risolverlo: l’obbligo di rinegoziazione (art.6.111 (2)) e l’intervento del giudice, il quale, a sua scelta, può risolvere il contratto oppure modificarlo per distribuire perdite e profitti (art.6.111 (3) (a) (b)). Qualora una parte rifiuti di trattare o receda dalla trattativa in mala fede il giudice può condannarla al risarcimento del danno causato.
Rinegoziazione delle parti e modificazione giudiziale del contratto possono avere luogo a tre condizioni: che il mutamento delle circostanze si sia verificato dopo la conclusione del contratto, che esso non potesse esser previsto al momento della conclusione del contratto, che la parte danneggiata non fosse tenuta ad assumersi il rischio del mutamento (art.6.111 (2) (a.)(b)(c)).
Queste condizioni di operatività non divergono dalla disciplina del cod.civ.it., ma la giurisprudenza ha dato ingresso alla teoria della presupposizione (derivandola dalla figura tedesca della “Geschaeftsgrundglage”) sulla base della quale, per via interpretativa, con riferimento alla buona fede oggettiva e al tipo contrattuale impiegato dalle parti, se risulta che le parti nella formazione del consenso abbiano tenuto presente, pur senza farvi espresso riferimento, una certa situazione di fatto o di diritto, considerandola come presupposto condizionante il contratto, il difetto di questo presupposto assumerebbe rilievo per il contratto stesso, sempreché si tratti di un presupposto oggettivo , esterno, non dipendente dalla volontà delle parti, e comune ad entrambe (Cass. 5460/95, et al.). Ed allora, è possibile che il difetto del presupposto fosse originario, e non soltanto sopravvenuto (di qui la tesi che nel caso di difetto originario, si verterebbe nella mancanza della causa).
L’obbligo di rinegoziare è spesso preso in considerazione dalle parti nella clausolazione del contratto, ed è prassi abituale nella redazione dei contratti del commercio internazionale. L’adattamento giudiziale del contenuto del contratto alle nuove circostanze è promosso dalla dottrina più recente, ma trova ancora forti resistenze da parte della dottrina tradizionale e da parte della giurisprudenza.
Altra regola che si pone in conflitto con il nostro ordinamento è data dall’ art. 7.103 sull’adempimento anticipato (“early performance”, “exécution anticipée”). I PECL prevedono l’obbligo di accettazione dell’adempimento anteriore al termine previsto, salvo che esso procuri un irragionevole pregiudizio al creditore, ed il rifiuto sia insomma abusivo.
8. La clausola penale
Nei diversi ordinamenti la clausola penale riceve una disciplina particolare.
(i) Cenni di diritto italiano*
Il codice civile italiano si preoccupa soprattutto di definirne gli effetti, che sono essenzialmente due: «limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore» (art. 1382 c.1 cod. civ.) e obbligare l’inadempiente a pagarla, «indipendentemente dalla prova del danno» (art. 1382 c. 2 cod. civ.).
L’inadempimento può essere inadempimento definitivo o dovuto al semplice ritardo: la penale può essere prevista per l’uno o per l’altro, ma le due situazioni vanno distinte.
Verificatosi l’inadempimento definitivo per il quale è stata pattuita la penale, il creditore ha un’alternativa, potendo chiedere l’esatto adempimento oppure la penale: l’art. 1383 cod. civ. sancisce, infatti, il cd. divieto di cumulo per evitare un ingiustificato arricchimento in capo al creditore.
Se, invece, la penale è stata prevista per il semplice ritardo, e questo si verifica, non vale il divieto di cumulo: il creditore può chiedere la prestazione inadempiuta ed insieme la penale per il ritardo.
Inoltre, la penale può essere ridotta equamente dal giudice «se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento» (art. 1384 cod. civ.).
Il problema più complesso riguarda il caso in cui non vi sia prova del danno.
La questione attiene all’identificazione della funzione assolta dalla clausola penale, su cui si è a lungo dibattuto in dottrina, con la formulazione di differenti teorie (per una ricognizione delle varie teorie cfr. De Nova, 1982, 306) che così dipinge la situazione: «Vi è chi ritiene che la clausola abbia esclusivamente funzione penale; chi attribuisce funzione penale alla cosiddetta penale pura (convenuta dalle parti senza alcun riferimento al risarcimento del danno, ma prevedendo l’effetto di sommare la penale all’integrale risarcimento del danno) e funzione insieme penale e risarcitoria alla cosiddetta penale non pura (convenuta dalle parti con riferimento al risarcimento dei danni, con l’effetto di limitare il risarcimento alla misura della penale e, se convenuti, ai danni ulteriori); chi considera essenziale la funzione risarcitoria, e solo eventuale la funzione penale; chi pone sullo stesso piano entrambe le funzioni; chi precisa che le funzioni risarcitoria e penale sono mutuamente esclusive ma non congiuntamente esaustive; chi nega che la clausola penale abbia funzione risarcitoria o funzione penale, e conclude nel senso che la funzione della clausola penale consiste nella determinazione anticipata (rispetto all’inadempimento o al ritardo) e convenzionale di una sanzione a struttura obbligatoria quale conseguenza dell’inadempimento o del ritardo nell’adempimento di un’obbligazione”.
Si è anche osservato, peraltro, che l’autonomia dei privati è in grado di piegare questo strumento a funzioni di volta in volta diverse, sì che «pare lo sforzo di individuarne la funzione tipica».
Tuttavia, la disputa circa la funzione, risarcitoria o sanzionatoria, della clausola penale comporta conseguenze pratiche che possono assumere rilievo nel caso in questione. Infatti, se la clausola penale viene intesa come una sanzione per non aver adempiuto la prestazione dovuta si può considerare del tutto indifferente il fatto che, dall’inadempimento, non sia in concreto derivato alcun danno; se invece la penale viene ridotta ad uno strumento di liquidazione forfetaria e preventiva del danno subito dal creditore, allora si può ravvisare qualche buona ragione per sostenere che l’assenza di qualsiasi danno è incompatibile con la pretesa al pagamento della penale.
Si rende pertanto necessario effettuare qualche considerazione sulle funzioni della clausola penale.
Prendendo le mosse dalla lettera dell’art. 1382 cod. civ., secondo cui la penale ha l’effetto di limitare il risarcimento del danno da inadempimento, salva la previsione della risarcibilità del danno ulteriore, parte della dottrina propende per una funzione essenzialmente risarcitoria della clausola. Essa costituirebbe una forma di liquidazione preventiva e forfetaria del danno derivante dall’inadempimento contrattuale, al fine di rafforzare la posizione del creditore – che viene sollevato dall’onere della prova del danno subito – e di rendere «certo, pronto e agevole» il rimedio del risarcimento.
In base a tale impostazione, la funzione tipica, prevalente e caratterizzante della clausola penale consisterebbe nel consentire al creditore insoddisfatto di fruire più agevolmente dell’ordinario rimedio risarcitorio, svincolandolo dalla necessità di fornire la prova relativa all’an ed al quantum del danno. Per il solo effetto dell’inadempimento o del ritardo, il contraente nel cui interesse la clausola è posta acquisisce il diritto alla penale, che altro non sarebbe se non la misura del risarcimento così come liquidata convenzionalmente in via forfetaria ed anticipata.
Anche la prevalente giurisprudenza ne sottolinea costantemente la funzione risarcitoria, seppure spesso unitamente a quella di rafforzare il vincolo contrattuale: l’effetto diretto della clausola penale sul regolamento del danno e delle sue conseguenze è, dunque, indubbio.
Di conseguenza, sarebbe possibile presupporre la rilevanza del danno: è stato infatti osservato che se l’effetto di limitare il risarcimento riguardasse solo la liquidazione (ovvero la specificazione del quantum dovuto a titolo di risarcimento), dovrebbe logicamente essere dimostrata dal creditore almeno la possibile esistenza di un danno risarcibile e, viceversa, potrebbe esserne provata l’insussistenza dal debitore.
Seguendo tale impostazione, taluno ha addirittura ridotto la valenza della clausola penale a quella di mera inversione dell’onere della prova del danno: in altri termini, il creditore potrebbe esigere la penale senza provare il danno ma la penale non sarebbe dovuta se il debitore provasse che nessun danno si è verificato.
Tuttavia, la dottrina dominante e la giurisprudenza, pur considerando la clausola penale come mezzo di preventiva liquidazione del danno, sembrano escludere ogni indagine relativa al danno, riconoscendo il diritto alla penale a prescindere da qualsiasi relazione con esso. In particolare, secondo l’orientamento costantemente ribadito a livello giurisprudenziale, l’inammissibilità della prova del danno ex art. 1382 c. 2 cod. civ. non solo precluderebbe al debitore ogni possibilità di contenere la penale entro i limiti del pregiudizio effettivo, ma non gli consentirebbe neppure di sottrarsi al pagamento dimostrando che il proprio inadempimento non ha inciso in alcun modo sul patrimonio del creditore.
Alla luce di tali considerazioni si può ritenere che, ai fini della penale, il danno sia del tutto irrilevante (non solo nel suo esatto ammontare, ma anche nella sua esistenza) e la funzione caratterizzante l’istituto non possa essere quindi identificata nella sua liquidazione forfetaria ed anticipata.
Alla tesi “risarcitoria”, infatti, alcuni Autori obiettano che è proprio il tenore letterale dell’art.1382 cod. civ. a disancorare la penale dell’entità del danno subito: la funzione della penale sarebbe dunque esclusivamente, o almeno prevalentemente, sanzionatoria, quale mezzo che l’ordinamento offre alle parti per predisporre una sanzione dell’inadempimento, diversa da quella (normale) del risarcimento. Anche in giurisprudenza si trova occasionalmente qualche pronuncia a favore del carattere sanzionatorio della clausola penale.
Conseguentemente, il danno, ridotto a mero elemento accidentale, «non sarebbe idoneo a costituire la causa dell’obbligazione penale, la quale andrebbe invece rapportata direttamente all’inadempimento considerato dalla previsione contrattuale accessoria». L’accento andrebbe pertanto spostato sull’aspetto sanzionatorio della clausola penale che parrebbe costituire un dato ineliminabile.
Il principale argomento addotto contro tale conclusione è quello fondato sul contrasto tra potestà punitive stabilite dall’autonomia privata, invece che dalla legge, e principio costituzionale di uguaglianza, in quanto il potere privato di punire darebbe luogo ad una disuguaglianza. È tuttavia possibile obiettare che proprio l’espressa previsione legislativa rende costituzionalmente legittima la sanzione prevista dall’autonomia privata, il cui fine è assicurare la tutela di interessi disponibili nell’ambito di un rapporto bilaterale.
Si tratterebbe, in definitiva, di uno dei tanti strumenti di autotutela del creditore, ossia di induzione all’adempimento attraverso mezzi extragiudiziali.
In quest’ottica, è stato affermato che il carattere sanzionatorio della clausola penale «si rivela non tanto nella sua afflittività (caratteristica più propria delle pene pubbliche), cioè nel male che viene a soffrire il debitore inadempiente, quanto piuttosto nel vantaggio che ne trae il creditore, nella sua funzione ciecamente e fatalmente satisfattiva»: egli infatti avrà diritto alla prestazione oggetto della penale anche quando l’inadempimento dell’altro non gli abbia cagionato alcun danno.
In questi termini, le due tesi, sanzionatoria e risarcitoria, sulla funzione della clausola penale, lungi dall’essere incompatibili, sembrano perfettamente conciliabili. L’opinione dominante in dottrina e condivisa dalla giurisprudenza è infatti quella che pone sullo stesso piano le due funzioni: «Con la clausola penale i contraenti disciplinano gli effetti dell’inadempimento in modo diverso da quello stabilito dalla legge, concordando una preventiva e convenzionale liquidazione del danno. Tale conclusione non muta per il fatto che in tale clausola può essere ravvisata anche una funzione punitiva, perché nella sua stipulazione si commina una sanzione per l’inadempimento consistente in una prestazione che il contraente inadempiente dovrà effettuare all’altro indipendentemente dal danno sofferto da quest’ultimo» (Cass. 2532/00).
Pertanto, la clausola penale presenta carattere sanzionatorio e nello stesso tempo risarcitorio: essa svolge soprattutto la funzione di liquidare preventivamente i danni ma, contemporaneamente, rappresenta anche una specie di pena per l’inadempimento. Invero, la penale è dovuta pur se in realtà chi la riceve non ha subito danni: ogni indagine relativa al danno è esclusa.
Per queste ragioni, connotato essenziale della clausola penale è la sua connessione con l’inadempimento o il ritardo imputabili al debitore. Inoltre, di recente la Suprema Corte ha ulteriormente precisato che l’inadempimento o il ritardo sono presupposto sufficiente a far sorgere il diritto alla penale, indipendentemente dalla loro importanza: «In materia di clausola penale, non è consentito al giudice di dare rilievo alla scarsa importanza dell’inadempimento o del ritardo nell’adempimento per escludere il diritto alla prestazione della penale, essendo l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento, quale che sia la sua importanza condizione sufficiente a far sorgere tale diritto» (Cass. 2532/00).
(ii) Cenni di diritto comparato.
Una recente analisi condotta sul diritto inglese e sul diritto francese esalta le differenze che, almeno originariamente, connotavano la disciplina della clausola penale nelle due esperienze (Miller, 2004, 79 ss.) ma documenta anche come nelle due esperienze stiano maturando linee convergenti.
Nel diritto inglese sono considerate valide solo le clausole destinate a liquidare preventivamente il danno da inadempimento, mentre sono nulle le clausole volte a sollecitare il debitore all’adempimento. Ciò perché la funzione primaria di quelle che noi denominiamo clausole penali consiste nel risarcire il creditore, piuttosto che non nel garantirgli l’adempimento: è noto che in common law il debitore , a sua scelta, può adempiere oppure non adempiere ed accollarsi il danno conseguente. Ma anche nel caso in cui si sia convenuta una clausola per la determinazione del danno, se di danno non vi sia traccia, la clausola rimane priva di effetto; la clausola invece è considerata efficace se il danno effettivo risulta inferiore a quello convenuto.
Nel diritto francese la clausola penale ha sia effetti sanzionatori, sia effetti risarcitori, ed in ogni caso assolve alla funzione di precostituire l’ammontare del danno da risarcire. Il testo originario era assai simile a quello italiano, ma nel 1975 si è introdotta una modificazione dell’art. 1152, con cui si è prevista la riduzione dell’ammontare previsto dalle parti - se iniquo - ad opera del giudice. Si è anche modificato l’art. 1231, che consente al giudice di ridurre la penale se il contratto ha avuto parziale esecuzione. Ancora nel 1985 si è modificato ulteriormente il testo dell’art. 1152, per conferire al giudice il potere di ridurre equitativamente d’ ufficio l’ammontare della penale.
Nel diritto tedesco (Ulmer et alii, 2001, 161 ss.) il problema è sorto soprattutto a proposito dei contratti predisposti da una parte, indifferente essendo lo status delle parti. La giurisprudenza ha ritenuto nulle le clausole in cui l’ammontare complessivo della penale sia superiore al 5% del valore della prestazione dell’appaltatore, a meno che la clausola non sia stata negoziata in “profondità”. La negoziazione implica da un lato che la parte predisponente abbia manifestato la disponibilità a ridurre la percentuale oggetto di negoziazione, e non sono rilevanti eventuali altri vantaggi convenuti , anche a seguito della negoziazione, per compensare la parte che ha subito l’imposizione del testo predisposto.
Qualora non vi sia danno effettivo, la giurisprudenza ritiene di dover applicare il principio di “buona fede”, e quindi di poter invalidare la clausola.
Anche da questi semplici cenni risulta all’evidenza che la scelta della legge applicabile è straordinariamente importante per l’avvocato che deve negoziare la clausola penale, dal momento che, in caso di contrasto tra le parti in ordine alla sua applicazione, a seconda dell’ordinamento la clausola è valida oppure invalida, è riducibile equitativamente, è efficace o meno se il danno non sussiste.
(iii) I PICC
I PICC si occupano di questo problema in due ipotesi.
La prima – che non è contemplata nei PECL – riguarda il caso in cui sia il giudice o l’arbitro ad ordinare alla parte inadempiente di eseguire la prestazione e sia sempre il giudice/arbitro a stabilire che, in case di inadempimento, la parte che si sottrae all’obbligo versi all’altra una “penale” (“pay a penalty”: art. 7.2.4 (1)). La penale è dovuta a meno che la legge applicabile lo precluda (art. 7.2.4. (2)) in base a regole imperative; in ogni caso, il versamento della penale non sostituisce, ma si aggiunge alle domande eventuali di risarcimento del danno. Si può notare, a questo riguardo, che la scelta di imporre una penale all’inadempiente attiene alla discrezionalità del giudice/arbitro, e quindi può intervenire d’ufficio. E ancora che, in questo caso, la penale ha chiaramente una funzione “sanzionatoria”.
La seconda riguarda invece la penale intesa come clausola con cui si liquida il danno da inadempimento in via convenzionale (art. 7.4.13). I PICC stabiliscono che la somma specifica convenuta dalle parti è dovuta anche se la parte che ha subito l’inadempimento non lamenta un danno attuale (art.7.4.13 (1)). In questo caso, dunque, come accade per l’esperienza italiana, la clausola ha una duplice valenza, satisfattoria e sanzionatoria, oltre che di determinazione anticipata della somma da pagare, e la penale è dovuta anche se non esiste un danno. Il fatto che ci precisi che il danno può mancare al momento della applicazione della penale implica tuttavia che – almeno all’origine – si potesse prefigurare che gli eventi a cui è subordinata la penale potessero comportare un danno per la parte che ha subito l’inadempimento.
Tuttavia, il giudice/arbitro, d’ufficio – e anche in contrasto con la previsione delle parti – può ridurre la somma ad un ammontare “ragionevole” quando essa sia esageratamente eccessiva in considerazione del danno che è derivato dall’inadempimento e di altre circostanze. Il giudice/arbitro può quindi intervenire sul contenuto del contratto, operando di propria iniziativa, e nonostante il testo contrattuale escluda la riduzione equitativa. La riduzione equitativa – si noti che in questo caso non si parla né di fairness né di buona fede, ma di “ragionevolezza” - è volta a conservare la clausola penale, e a ridurla. I limiti alla discrezionalità, che pure è ampia, sono dettati da tre indici: l’eccessività della somma, che deve essere grave; l’esistenza di un danno; altre circostanze rilevanti ai fini della scelta della riduzione.
(iv) I PECL
La formula utilizzata dai PECL è analoga a quella dei PICC; l’unica differenza è data dal termine “danno” che nei primi è denominato loss e nei secondi harm.
Occorre dunque esaminare con attenzione i PICC e i PECL perché, pur avendo molte similitudini, i testi non sono perfettamente coincidenti , come risulta dalla tavola sinottica predisposta da Bonell e Peleggi (2004, 325 ss.) e dai molti commenti via via emersi in letteratura, tra i quali si segnala in particolare quello di Lando (2003, 123 ss.)
E per questo l’avvocato che deve o può scegliere la legge applicabile al contratto è tenuto ad agire con particolare cura, essendo avvertito delle differenze macroscopiche tra gli ordinamenti e delle differenze più sottili tra le due compilazioni dei Principles.
9. La seconda versione dei “Principles of European Contract Law”.
(i) Premessa.
Il 16 dicembre 1999 all’Università di Utrecht è stata presentata la seconda versione dei «Principles of European Contract Law», elaborata dalla Commissione per la redazione di un progetto di codice civile europeo.
Inizialmente la Commissione avrebbe dovuto occuparsi solo della armonizzazione e alla unificazione delle regole in materia di obbligazioni e contratti, ma strada facendo, i suoi componenti hanno optato per un disegno onnicomprensivo del diritto privato patrimoniale. Sicché accanto al gruppo di lavoro dedicato alla disciplina del contratto, si sono costituiti altri gruppi: uno dedicato alle altre fonti delle obbligazioni, ed altri che studiano temi di rilevante interesse collegati con il contratto nei settori del mercato bancario, assicurativo e dell’intermediazione finanziaria. E in corso la costituzione di altri gruppi ancora. Il coordinamento dei gruppi è affidato allo Steering Committee, presieduto da C. Von Bar, con la presenza di alcuni giuristi dei Paesi dell’Unione europea.
Il metodo attuale di lavoro è articolato in una struttura piramidale: nei centri di ricerca — per il momento collocati presso le Università di Osnabrück, Utrecht, Tilburg, Amburgo — si raccolgono le analisi dei Paesi dell’Unione e degli altri Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa, ciascuno sotto la direzione di un coordinatore; tutti i coordinatori fanno parte di un comitato: i risultati sono trasmessi ad advisors, che, insieme con i coordinatori, si riuniscono periodicamente, ed esaminano i progetti dei testi normativi, i quali sono sottoposti per un primo esame allo Steering Committee; da questo sono rinviati con le osservazioni ai gruppi di ricerca; i testi sono ulteriormente esaminati da un «drafting committee» e poi licenziati dallo Steering committee.
La sezione dei Principles sul contratto, coordinata dal giurista danese O. Lando, oggetto di una prima redazione negli anni 1980-1992, ha suscitato grande interesse. I Principles, nella loro versione originaria, sono stati commentati da 24 studiosi, con il coordinamento di A.S. Hartkamp, M.W.Hesselink, E.H. Hondius, C.E. Du Perron, J.B.M.Vranken (1994; per una rassegna delle problematiche affrontate v. Alpa, 1999b, 1999c, ove i riferimenti bibliografici essenziali della dottrina italiana e straniera sull’argomento).
La nuova redazione dei «principi» del diritto contrattuale, che comprende ulteriori sezioni di questa materia, e una revisione della prima versione, è stata preparata negli anni 1992-1996, e poi aggiornata nel triennio 1996-1999. Il testo non è ancora completo, anche se le regole attualmente presentate debbono considerarsi nel testo definitivo per le materie trattate. La seconda commissione è composta di ventuno membri, espressione di tutti i Paesi dell’Europa occidentale; i membri italiani della commissione attualmente sono M.J. Bonell e C. Castronovo. Il testo della nuova versione è stato predisposto da H. Beale, U.D.E. Hondius, O. Lando, D. Tallon ed è stato rivisto da M. Bridge, C. Castronovo, H. Mac Queen, Georges, con il coordinamento di G. Rouhette. La commissione continua il suo lavoro, perché il testo, come si diceva, non è completo: debbono essere inserite le regole concernenti l’illegalità e l’immoralità del contratto, la disciplina degli interessi, le regole sulla condizione e sulla prescrizione, e temi propri dell’area intermedia tra il contratto e l’illecito, quali la cessione del credito, la responsabilità solidale, il recesso.
E apprezzabile l’opzione di rendere nota al pubblico le diverse fasi di elaborazione, sia della materia contrattuale, sia delle altre materie in corso di esame, sicché il testo dei Principles, e gli altri testi che via via saranno preparati sono offerti al commento e alla critica della comunità scientifica e degli ambienti professionali e ministeriali.
Il nuovo testo è stato predisposto in due lingue, l’inglese e il francese; è in corso di redazione la versione tedesca- E disponibile anche un commento analitico, curato da O. Lando E H. Beale, e corredato da un’ampia bibliografia, generale e nazionale, dalla tavola dei casi citati, delle disposizioni legislative e da un indice analitico [1998, 459 con indici (460-561)].
La redazione della altre sezioni del progetto di codice civile europeo è in corso di elaborazione sotto la direzione del giurista tedesco C. Von Bar, dell’Università di Osnabruck. I settori in esame riguardano per il momento: le regole su responsabilità civile, arricchimento ingiusto, pagamento dell’indebito e negotiorum gestio (la cui redazione è oggetto del coordinamento dello stesso C. Von Bar); la compravendita (E. Hondius); i servizi (M. Barendrecht e M. Hesselink); le garanzie personali non reali (Drobnig); i contratti di assicurazione (J. Basedow); sono in corso i contatti per la costituzione di gruppi di lavoro sui servizi finanziari, sulle garanzie reali e sul trasferimento della proprietà.
Origini, scopi, modalità di redazione, problemi da risolvere, effetti del codice civile europeo sono stati discussi in varie occasioni, sia sulle riviste giuridiche — anche italiane (specie su Europa e diritto privato e su Contratto e impr./Europa) — sia in seminari, l’ultimo dei quali a Roma il 10 luglio scorso per iniziativa del Consiglio nazionale forense. In quella occasione O. Lando ha ribadito le ragioni della «europeizzazione» del diritto contrattuale, della sua praticabilità, e della sua auspicabilità. E C. Von Bar, ha chiarito la nozione di «codice civile» cui allude il progetto di redazione, che impegna sia la commissione coordinata da O. Lando, sia la commissione coordinata dallo stesso Von Bar, così come i relativi gruppi di ricerca i comitati di redazione e di revisione.
Oggi una approfondita analisi dei temi che afferiscono un ideale codice civile europeo è offerta dalla seconda edizione di Towards a European Civil Code (Second Revised and Expanded Edition), a cura di A. Hartkamp, M. Hesselink, E. Hondius, C. Joustra, E. Du Perron, Nijmegen-The Hague-London-Boston, 1998. Si tratta di una raccolta di saggi scritti da 37 autori, concernenti temi generali, inclusi i Principles of Contract Law, le regole processuali, il diritto dei consumatori, la famiglia e le successioni, il contratto in tutti i suoi più rilevanti aspetti, i contratti speciali, le restituzioni, la responsabilità civile, la proprietà di beni mobili e immobili, le relative garanzie, i prodotti-finanziari, il trust, il diritto societario.
(ii) La presentazione dei Principles
Nella manifestazione con cui si sono offerti al pubblico i Principles, O. Lando ha commentato le conclusioni finali assunte a Tampere il 15 e 16 ottobre 1999 dal Consiglio dell’Unione europea, tra le quali, sotto il capo E dedicato all’«area europea della giustizia», si sono segnalati gli obiettivi fondamentali consistenti nella promozione dell’accesso alla giustizia, nel riconoscimento reciproco delle decisioni, nella maggior convergenza delle regole di diritto civile. Il Consiglio europeo infatti ha invitato la Commissione e il Consiglio dei Ministri a predisporre nuove regole di procedura civile per i procedimenti transfrontalieri e, per quanto riguarda il diritto sostanziale, ha evidenziato l’esigenza di approfondire gli studi per avvicinare le legislazioni degli Stati membri al fine di limare gli ostacoli che si frappongono all’ottimale funzionamento dei procedimenti civili. Pur trattandosi di una dichiarazione d’intenti molto soft Lando ne ha tratto le implicazioni più rilevanti, nel senso di un incoraggiamento per le commissioni impegnate nel lavoro di redazione del progetto in esame. D’altra parte, i primi riconoscimenti della rilevanza di questa impresa (provenienti anche dal Governo italiano, sub specie del Ministero della Giustizia, che nell’ambito della revisione del V libro del codice civile, sotto la direzione del Presidente L. Rovelli, ha istituito un sotto-gruppo di cui fanno parte Di Majo, V. Roppo e chi scrive) sono incoraggianti per l’assicurazione che i risultati acquisiti non saranno confinati ad una iniziativa di natura scientifica privata ma potranno essere utihz ad in futuro per più ambiziose mete.
Per parte sua K.P. Berger, dell’università di Muenster, ha sottolineato come queste regole «provengano dal basso», cioè non siano imposte ai Paesi Membri dalle autorità comunitarie bensì siano espressione della cultura giuridica accademica e forense, siano frutto di un continuo processo di avvicinamento delle regole oggi vigenti nei diversi sistemi giuridici, siano il precipitato di un cultura giuridica ormai europea. Anziché affermarsi sulla base di una prassi, o sulla base di regole applicate di cui si potrebbe redigere un semplice «restatement», la loro novità consiste nella articolazione di regole proprie di un vero codice.
E. Mc Kendrick, del University College di Londra, ha richiamato l’attenzione sulle elausole generali utilizzate nei Principles, in particolare la buona fede e la ragionevolezza, ha sottolineato i poteri flessibili affidati al giudice, ha posto in luce alcune delle più vistose differenze in materia contrattuale tra i sistemi di common law e i sistemi di civil law, a cui i Printiples hanno cercato di porre rimedio.
La relazione di D. Staudenmayer — funzionario della Comunità — si è soffermata sulle recenti direttive in materia di contratti ed ha posto in evidenza l’opportunità che i Principles offrono nel raggiungere l’obiettivo comunitario di integrazione europea. Delle tre possibili opzioni — il patchwork con la scelta di regole nazionali effettuata di volta in volta, la redazione di taluni principi di base, la redazione di un testo codificato — la linea scelta dalle commissioni coordinate da O. Lando e C. Von Bar hanno scelto la terza, e questa appare la più ambiziosa ma anche la più congrua, poiché si potrebbero eliminare tutte le difficoltà interpretative e applicative a cui darebbero luogo le altre opzioni. il ruolo del Consiglio europeo in questa iniziativa appare dunque essenziale, e le conclusioni di Tampere sembrano orientate in questa direzione.
(iii) Il contenuto dei Principles
Nelle pagine iiitroduttive (XXIX-XLVIII) il commento cit. riassume i contenuti essenziali dei Principles.
La loro applicazione è destinata ai Paesi Membri della Comunità, ma essi possono essere adottati dalle parti quale legge applicabile al contratto; possono anche essere utilizzati dagli arbitri nell’applicazione della lex inercatoria e dei principi comuni ai Paesi occidentali.
Nella maggior parte dei casi i Principles non contengono norme imperative, inderogabili: alcune di queste però sono riconosciute come tali, in quanto esprimono l’essenza degli scopi per cui i Principles sono stati redatti: si pensi al dovere di buona fede e di corretto comportamento (art. 1:201), alle clausole che prevedono la irrilevanza di altre clausole negoziate precedentemente alla formazione del testo scritto (art. 2:105), alla determinazione unilaterale dei contenuti del contratto che cede alla determinazione del prezzo ragionevole (art. 6:105); ad alcuni rimedi contrattuali (artt. 4:118,8:109); ai poteri giudiziali di riduzione della penale per inadempimento, ove manifestamente eccessiva (art. 9:509).
Le regole che emergono sono nella gran parte dei casi simili a quelle previste dal nostro codice civile. Non è questa la sede per offrire un commento analitico del testo, che è affidato alla discussione nelle sedi accademiche e forensi, oltre in quelle ministeriali. Si può notare lo sforzo dei redattori di pervenire ad un linguaggio uniforme, pur provenendo da differenti esperienze linguistiche, do sforzo concettuale di combinare terminologia e nozioni tecniche. Non si tratta, come è stato più volte sottolineato, di una «veste di arlecchino» ottenuta confezionando un testo ricucito con i ritagli presi alle singole esperienze giuridiche, ma di un omogeneo corpus che ha assunto come modelli sia il testo dei Principi dei contratti del commercio internazionale, sia la Convenzione di Vienna sulla compravendita, sia il Restatement statunitense sul contratto ed introducendo altresì regole aggiornate, tenendo conto dei contenuti delle direttive comunitarie e delle esigenze della prassi.
Il principio di autonomia contrattuale
indice: 1. Dalla volontà delle parti ai valori sociali – 2. La libertà contrattuale è un valore “costituzionale”?
1. Dalla volontà delle parti ai valori sociali.
Il principio di autonomia contrattuale è considerato uno dei valori fondamentali degli ordinamenti giuridici.
Nell’ambito di un congresso tenutosi nel 1991 a Oporto, sulla attualità e l’evoluzione del diritto dei contratti, Canaris si è chiesto perché ci si continui ad interrogare sui rapporti tra libertà e giustizia contrattuale. E ancora, se le divergenze al riguardo tuttora esistenti tra i diversi ordinamenti europei possono essere appianate dalla direttiva or ora elaborata in sede comunitaria sulle clausole abusive contenute nei contratti dei consumatori (5 aprile 1993).
Canaris sottolinea come nella “società di diritto privato” esista un principio fondamentale, l’autodeterminazione, a cui corrisponde l’autoresponsabilità. Tale società è vincolata indissolubilmente all’economia di mercato, in cui lo Stato si assume il compito di assicurare la libertà di concorrenza. La società di diritto privato non è sconvolta nelle sue basi da interventi di tipo sociale (assistenza agli indigeni, finanziamenti alle imprese, ecc.), perché nonostante l’intervento dello Stato, residuano vaste aree in cui i cittadini possono scegliere liberamente i loro obiettivi e le modalità di azione per conseguirli. Ma, fatte queste promesse, vi sono negli ordinamenti risorse sufficienti per far coincidere o per far concordare libertà e giustizia contrattuale? Nella dottrina tedesca Canaris individua (oltre alla propria) tre diverse concezioni.
La prima - e la più tradizionale - è quella di Flume, secondo il quale, in attuazione del principio sta pro ratione voluntas, ciò che rileva è la volontà delle parti e non il contenuto ragionevole del contratto. E’ la posizione più vicina dell’economia di mercato, difesa anche da von Hayek.
L’economia di mercato (in questo senso sono magistrali le analisi dei giuristi nordamericani) comporta l’assunzione di rischi che non possono essere distribuiti in modo diverso tra i soggetti, rispetto agli accordi che essi hanno assunto; l’economia di mercato comporta la saldezza dei rapporti, e quindi la certezza delle operazioni e degli investimenti; l’economia di mercato comporta il libero gioco delle corrispettività, sì che nel punto d’incontro delle volontà delle parti si colloca la funzione ottimale dello scambio, che non può essere alternata dall’interno del giudice.
Contrapposta a questa (che è pure radicata quasi in tutte le culture gius-privatistiche) è la tesi di Zwigert e Kotz, esposta nella “Introduzione del diritto comparato”. Essi vedono nella libertà contrattuale un’utopia, un modello immaginario in quanto essa ha per base l’eguaglianza economico - sociale delle parti; il che avviene solo nei rapporti tra grandi imprese aventi oggetto atipico; mentre rinvengono in tutti gli ordinamenti un principio diverso, di “giustizia contrattuale”. Secondo Canaris il disequilibrio di posizioni di partenza tra i contraenti è appianato dalle regole delle concorrenza.
Una ulteriore risposta è fornita dal Schmidt-Rimpler, secondo il quale è lo stesso meccanismo interno al contratto che assicura la giustizia dello scambio. Ciò perché ad una richiesta manifestamente abusiva di una parte corrisponde la resistenza dell’altra. Ma Canaris si avvede che questa concezione potrebbe essere adatta per il contratto a base individuale, ma non per i contratti di massa.
Canaris ritiene perciò che la libertà contrattuale sia il regime alternativo a quello dell’operare coinvolgente dello Stato: la libertà contrattuale è pertanto strumento di svolgimento della personalità individuale. Questo principio è strettamente commesso con la democrazia degli ordinamenti e con la democrazia degli ordinamenti e con la libera competizione sul mercato.
Quanto al rapporto tra libertà e giustizia contrattuale, Canaris rovescia la formulazione: ci si deve accontentare che la libertà - che è un valore in sé - non porti a ingiustizia (non deve quindi tendere alla giustizia, ma deve evitare le gravi ingiustizie). Si deve d’altra parte rispettare la dignità della persona e mantenere il pluralismo nell’ambito della società.
Egli riscontra (o crede di riscontrare) la bontà della sua tesi raffrontandola con quattro esigenze della società di diritto privato. La prima è la saldezza degli acquisti. Solo la libertà contrattuale può mantenere certezza alle operazioni economiche in cui si trasferiscono i diritti. La seconda è il premio della professionalità, da cui è gratificato chi è corretto e chi sa fronteggiare il rischio. La terza è la soddisfazione dei bisogni, che i consumatori possono ottenere ricorrendo ai vincoli contrattuali. La quarta è la giustizia insita nei punti di partenza - eguali per tutti - e quindi distanti dai privilegi feudali.
Per Canaris, in sostanza, la libertà contrattuale è protetta perché è sintomo di libertà, non perché è sintomo di giustizia.
Siccome stiamo parlando di libertà giuridica, siamo consapevoli del fatto che fatto che essa diverge dalla libertà effettiva; ne costituisce una condizione minimale; ma richiede correttivi: occorre controbilanciare il potere delle imprese: lo si ottiene nella contrattazione collettiva affidata ai sindacati per i rapporti di lavoro; allo stesso modo, lo si ottiene con l’imposizione di obblighi di informazione; è il caso del credito di consumo per il quale una direttiva comunitaria impone, tra l’altro, la comunicazione al consumatore del tasso effettivo praticato per le operazioni di finanziamento.
Ulteriore correttivo Canaris suggerisce di introdurre nella disciplina dei contratti di massa. Qui l’impossibilità di negoziazione e quindi di modificazione del contenuto predisposto, la scarsa incidenza della concorrenza, che non è apprezzata dai consumatori perché non sono in grado di fare comparazioni, la presenza di obblighi e prestazioni accessori comportano l’intervento giudiziale. Canaris però, mentre si dichiara soddisfatto della disciplina tedesca (AGB Gesetz, 9 dicembre 1976), critica la disciplina comunitaria, poiché la lista delle clausole abusive è troppo rigida, perché è comprensiva anche di regole rivolte ai contratti individuali e, facendo riferimento allo squilibrio delle prestazioni, ingenera un meccanismo di controllo ex post dei prezzi che alterebbe la formazione dei prezzi sul mercato. E ancora più grave gli sembra la previsione che consente al consumatore di sottrarsi ai pagamenti indebiti in quanto abusivamente richieste. Ciò sarebbe in contrasto con il sistema stesso degli ordinamenti delle società di diritto privato.
Contrapposta alla tesi di Canaris è la tesi che insiste sulla solidarietà sociale quale limite della autonomia privata (Ghestin, 1995).
Il dibattito attuale sulla libertà contrattuale non è sottratto ad un ripensamento della disciplina del contratto come struttura immaginifica creata con espressioni idealizzate del linguaggio per legittimare l’ordine sociale e quindi i rapporti di forza nelle relazioni economiche. Contro la linea che ritiene prevalente l’interesse sociale sull’interesse dei privati, sta riemergendo in molti ordinamenti, (specie in common law) con forza l’interpretazione propria dell’ideologia neo-liberista informata alla più ampia autonomia delle parti e alla insofferenza per qualsiasi intervento esterno sull’affare privato (Weeb, op. cit.).
Il valore attuale della libertà contrattuale viene apprezzato soprattutto nella prospettiva storica. In chiusura del discorso si riprenderà l’argomento, ma già fin d’ora è utile tener conto dei risultati cui è pervenuta la dottrina più attenta ai nuovi fenomeni, cioè la dottrina di commow law.
Le trasformazioni di questo secolo (secondo Atiyah) sono dovute a tre fattori: la standardizzazione dei contratti, la contrattazione collettiva e l’istituzionalizzazione del contratto come un aspetto di politica economico-sociale.
Secondo Atiyah, l’ordinamento non si è evoluto il sistema economico-sociale. Nei contratti con i consumatori negli anni ’60 e 70’ si sono introdotte misure che taluno ritiene “paternalistiche” al fine di riequilibrare il potere all’interno del contratto. Ma ciò che appare di grande rilievo è il riconoscimento della iniziale diseguaglianza tra le parti, riconoscimento operato mediante leggi speciali che tendono a riequilibrare il rapporto e quindi sono destinate ad aprire brecce nella tradizione di commow law mediante nuove tecniche di controllo del contratto come quella della economic fairness (Treitel, 1987).
Si sono registrate anche critiche alla legislazione “protezionistica “ dei consumatori da parte di coloro che ritengono inutile l’intervento legislativo, in quanto il mercato possederebbe in sé gli strumenti “per scacciare i cattivi prodotti e mantenere in commercio quelli di buona qualità”. Ma si osservi: come può un consumatore distratto e insipiente distinguere tra più prodotti normalmente confezionati in involucri sigillati e privi di indicazioni o di informazioni intelligibili? Il dibattito è in corso degli eventi non giustifica una tutela del contraente più debole; attesi gli scopi del legislatore perseguiti sia nel settore delle locazioni sia nel settore dei consumi, l’orientamento - espresso in modo icastico da Lord Scarnam nel caso National Westminster Bank v. Morgan (AC 686, 1985 1 All. E.R. 821; v. Cheshire e Fifoot, 1986, 302) - e che le Corti «non dovrebbero assumersi il compito oneroso di introdurre ulteriori restrizioni alla libertà contrattuale, quasi che nel settore del contratto si avvertisse l’esigenza di erigere un principio generale di repressione del potere contrattuale dei privati».
A questa interpretazione del nuovo volto della libertà contrattuale in un analisi della «ideologia del contratto» (Brownsword, 2000), si è obiettato come non sia possibile rintracciare nelle pronunce espressioni dell’una e dell’altra tendenza, dando la prevalenza alle formule (formalismo) o guardando dietro di esse (realismo).
Ma si obietta: le regole tradizionali del contratto tendono a dare sicurezza allo scambio e certezza (o chiarezza) agli operatori. E tendono anche ad assecondare la prassi commerciale. Perché dunque intervenire per modificare l’assetto di interessi stabilito - liberamente - dalle parti?
Nel versante del “consumerismo” la prassi giudiziaria inglese ha attaccato alcuni princìpi: la coerenza di comportamento nel caso di contratti unilaterali; la proporzionalità del risarcimento rispetto al danno subìto; la exceptio doli; l’impossibilità di ottenere profitti dal proprio comportamento; l’assegnazione della perdita del miglior “risk bearer”; l’ingiusto sfruttamento del maggior potere contrattuale la correttezza nei con i contratti con i consumatori; la protezione della parte meno informata; l’impossibilità di esonero della responsabilità per la parte che è in colpa.
Come si vede un importante piano d’azione assai più aggressivo di quello fino ad oggi posto in essere dalla prassi giudiziaria italiana, effettuato senza fare ricorso alla Costituzione.
Quale è allora il ruolo attuale della disciplina del contratto? P.S. Atiyah ha proposto alcune risposte a questo interrogativo: (i) la creazione di nuovi obblighi: si tratta per il civil lawyer di una risposta ovvia (basta richiamare il dettato dell’art. 1176 c.c. e il dibattito sul dovere di comportarsi secondo buona fede ovvero sui cosiddetti obblighi di informazione) ma per il commow lawyer si tratta invece di una risposta innovativa, in quanto per tradizione la disciplina contrattuale si fonda sulla promessa che è intangibile dall’esterno; (ii) la disciplina della cooperazione.
Le prospettive che si aprono con questa nuova interpretazione sono molteplici (Atiyah, 1986).
Esse si possono cogliere tenendo in considerazione sia gli aspetti teorici sia gli aspetti pratici della disciplina contrattuale.
Esse si possono cogliere tenendo in considerazione sia gli aspetti teorici sia gli aspetti pratici della disciplina contrattuale.
Tra i temi più nuovi si segnala soprattutto l’emergenza del criterio di apprezzamento della correttezza (“fairness”) come parametro di valutazione degli interessi e quindi del comportamento dei contraenti: una introduzione innovativa che assimila l’evoluzione del commow law e quella dell’ordinamento italiano. Quanto lontana è quindi la nozione tradizionale di libertà contrattuale da quella accettabile! Un tempo sottolinea Atiyah, chi aveva concluso un contratto dichiarava apertis verbis che il «contratto gli piaceva ed era contento di aver concluso l’affare». Non c’era spazio per controllare la equità dello scambio. Anche la consideration, almeno nel commow law inglese, era considerata insufficiente da fondare la giuridicità della promessa soltanto nei casi più eclatanti. E i casi eclatanti di unfairness venivano trattati in termini di mancanza di consenso o di mancanza di volontà.
Più di recente si è abbandonata la prospettiva volontaristica e soggettiva e soggettiva e si è parlato di “debolezza conoscitiva”, cioè di mancanza di adeguate informazioni da parte del contraente più debole. Ci si riferisce al comportamento delle parti più che alla sostanza dello scambio, ma si tratta di una finzione.
Oggi - secondo Atiyah - si deve guardare alla fairness sostanziale. Attraverso una nutrita serie di esempi dell’autore dimostra che l’ordinamento non si occupa solo del processo negoziale ma anche dei suoi risultati.
Ma si può portare la giustizia dello scambio nel contratto?
Secondo i fautori della teoria liberista, così come i fautori dell’efficienza economica la risposta è negativa (Treitel, 1987). Secondo altri, si tratta di operare un controllo più sostanziale sul contenuto del contratto.
E’ questo un altro profilo della medesima questione: la questione dell’ampiezza dei poteri del giudice in ordine al “riassetto” del contratto. Di ciò si parlerà più oltre. Ma occorre fin d’ora sottolineare che la questione è vitale in quegli ordinamenti in cui, facendo difetto norme scritte, l’interpretazione del precedente può portare ad una applicazione tradizionale dei principi e quindi alla esaltazione della libertà contrattuale in termini ottocenteschi.
I giudici inglesi che fanno appello all’intenzione delle parti si collocano nell’ambito della teoria classica del contratto. Ma vi sono giudici che “con grande candore” ammettono di avere imposto la propria soluzione a quella prestabilita dalle parti (Wilberforce, 1981, A.C. 675, 696.).
Ciò che rileva, invece, è che il gran numero di problemi che insorgono nei modelli contrattuali, se si lasciano ai margini quelli relativi alla capacità, alla illiceità e alla consideration, sono risolti facendo ricorso alla tecnica della construction, e cioè attraverso l’interpretazione che potremmo considerare “integrativa”: un tema che incide direttamente sulla libertà negoziale e che investe la nostra esperienza.
Nei manuali inglesi più noti quale quello di Treitel e quello di Cheshire e Fifoot, non si menziona la tecnica moderna della construction, relegata piuttosto alla interpretazione di documenti. Eppure il suo successo è reale e concreto. Ciò dipende (secondo Atiyah) da molti fattori, ma principalmente dalla sua elasticità: l’apprezzamento delle circostanze consente al giudice di usarne lo schermo, un vero e proprio espediente, per raggiungere il risultato desiderato facendolo apparire come il «portato necessario delle circostanze». In più, questa tecnica consente di evitare il condizionamento determinato dalla regola del precedente. Che ne è della certezza del diritto, cioè della “prevedibilità” della decisione? Essa si salva con la precisazione delle regole che governano la tecnica di construction. Questa breve incursione nel diritto inglese - una delle roccaforti del principio di libertà contrattuale - dimostra come il dibattito in corso ritagli una nuova immagine del principio tradizionale e quindi renda necessario il suo adeguamento alle esigenze della società moderna.
Quanto al principio di libertà contrattuale, ad esso sono correlati: il principio consensualistico, il principio della causa, per il quale ogni spostamento patrimoniale necessita di una ragione giustificativa lecita, e meritevole di protezione; il principio dell’equilibrio contrattuale, dandosi rilevanza alla corrispettività delle prestazioni, all’inadempimento, alla sopravvenienza di circostanze imprevedibili, ovvero prevedibili ma tali da sconvolgere l’economia dell’affare. Questo principio, formulato con diversa terminologia e attuato con diverse tecniche in Germania (c.d. Geschäftsgrundlage), in Francia (imprévision), in Inghilterra (frustration of contract), in Italia (teoria della presupposizione), mira a conservare l’equilibrio originario del contratto, e a contemperare le sopravvenienze con il programma economico delle parti.
2. La libertà contrattuale è un valore “costituzionale”?
Nell’esperienza italiana si deve a Pietro Rescigno (1967a, 3) la riflessione più rilevante su questo tema.
Nell’ambito della nozione di autonomia negoziale, l’autonomia contrattuale si presenta come capace di svolgersi secondo modalità e vie assai più larghe di quelle consentite al privato che si avvale di altri strumenti. Essa significa (ai sensi dell’art.1329 libertà di determinare il contenuto del contratto e di concludere contratti che non rientrino nei tipi previsti, significa libertà di forma e inclusione del contratto. Queste specificazioni però sembrano ipotesi di scuola. Qual è l’essenza della autonomia contrattuale? Non sembra che la nostra Costituzione (a differenza della Costituzione di Bonn) contempli una garanzia neppure indiretta della libertà contrattuale. E’ improprio il richiamo all’art. 2 Cost. perché non è vero che ogni contratto crei una comunità (concezione propria della dottrina tedesca intrisa di principi nazisti). Sono garantite solo talune manifestazioni dell’autonomia contrattuale, quali la libertà di associazione (art.8), la libertà matrimoniale (art.29). In questi casi si tocca il problema del “se” del contratto.
La mancanza di una garanzia costituzionale della libertà di contratto non vale a risolvere un altro problema, cioè a istituire una graduatoria di valori che imporrebbe alla libertà negoziale il rispetto di tutti i diritti fondamentali iscritti nel catalogo in cui essa non trova posto. E’ il tema della applicabilità diretta (Drittwirkung) dei diritti fondamentali, della efficacia immediata dei Grundrechte rispetto alle private disposizioni e convenzioni. Si tratta, nei casi più frequenti, di discriminazioni operate dal privato nell’esercizio dell’autonomia negoziale: discriminazioni che, se operate dalla legge, sarebbero costituzionalmente illegittime (v. art. 3 comma 1 Cost.).
In verità i risultati della Drittwirkung possono raggiungersi coi tradizionali strumenti di giudizio sul contratto privato, l’ordine pubblico e il buon costume. Inoltre certi principi (ad es. uguaglianza) hanno una validità sul piano degli istituti del diritto privato. Al di fuori delle norme sopra richiamate, si può risalire alla libertà contrattuale dalla garanzia di altri istituti (artt. 41, 42).
La connessione tra proprietà privata e iniziativa economica privata è innanzitutto di ordine storico; solo la vicenda storica dello sviluppo del capitalismo porta a considerare in ceti ambienti come limitazione alla proprietà privata fatti che altrove sono visti come incidenti sulla libertà di iniziativa.
Si è proposta una lettura degli artt. 41 - 47 Cost. nel senso di portare l’utilità sociale a fondamento dell’iniziativa privata e solamente entro il limite di realizzazione dell’utilità sociale ritenere tutelati gli strumenti dell’iniziativa, che sono i beni e l’attività, la proprietà e il contratto.
Se ci si ferma al tenore dell’art. 41.2 il contrasto con l’utilità sociale come il danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, sembra funzioni da limite esterno al carattere negativo della libertà d’iniziativa. Ma nella prospettiva ricordata l’utilità sociale si trasforma nella ragione stessa dell’esercizio dell’iniziativa economica privata. Di qui si giunge al discorso della funzionalizzazione dell’impresa (e di proprietà e di contratto). Il 3° comma dell’art 41 ripropone il problema dei rapporti tra autonomia e programmazione. Né si può affermare che la programmazione limiti l’autonomia contrattuale perché già nella fase più avanzata dell’economia capitalista il policentrismo negoziale ha subito numerosi cedimenti (l’esempio più eclatante è il contratto per adesione). Inoltre la produzione di massa porta ad una sostanziale mancanza di libertà contrattuale (libera determinazione del contenuto) anche al di fuori di questi contratti: il consumatore viene raggiunto dai prodotti nell’ultima fase di distribuzione; si ha l’obbligo legale a contrarre; vi sono clausole imposte.
Vi è inoltre un altro discorso: la posizione del giudice che sindaca nel merito l’operazione contrattuale e corregge la sperequazione di potere tra le parti.
Nell’ambiente di common law è questo il ruolo della consideration.
L’intervento del giudice attraverso mezzi correttivi tende nel common law ad eliminare o ad attenuare la disparità del potere contrattuale delle parti. E anche la valutazione del giudice (frustration) finisce per contemplare i soggetti secondo l’appartenenza ad una classe economico-sociale. Guardando le cose dal punto di vista esterno gli interessi statali e il controllo giudiziale avrebbero un risultato non diverso da quello raggiunto dall’economia capitalista, cioè la standardizzazione del contenuto del contratto.
Allo stesso risultato conduce l’autonomia sindacale. Sono due processi paralleli causati dalla concentrazione industriale. Dalla mobilità del contratto, qual fu concepito in astratto dai codici liberali, si ritorna alla rigidità degli status. Non perché la condizione sociale della persona ne domini tutta la vita e il destino, ma il ritorno allo status viene inteso nel senso che per ogni settore di attività i contratti siano destinati a modellarsi secondo tipi e discipline che rispecchiano la posizione sociale delle parti fino al punto di vedere nel contratto un mezzo onde si esprime la politica economica dello Stato. Dove più acuta si avverte la necessità di stabilire equi rapporti sociali il legislatore interviene, v. ad es. la legge del 1964 sui contratti agrari, sopprimendo figure tipiche e vietando schemi atipici antichi, limitando l’autonomia privata attraverso la nullità sopravvenuta e proponendo interventi quale la sostituzione legale del tipo contrattuale. L’autonomia contrattuale si definisce nel sistema non solo attraverso la libera determinabilità del contenuto e il possibile ricorso a schemi atipici ma altresì attraverso la norma che circoscrive alle parti l’efficacia del contratto, escludendo che possano esserne colpiti i terzi. Nel sistema economico del più maturo capitalismo il contratto nel senso di pienezza della libertà delle scelte e degli strumenti funziona in un’area assai ristretta, al vertice, dove si incontrano persone e gruppi depositari del potere economico. I contratti sono liberi solo nel senso di mancanza di cause perturbatrici del valore.
E’ evidente allora che la logica del sistema capitalistico, là dove assicura la libertà contrattuale, consente di spiegare effetti che vanno al di là della sfera dei contraenti e che investono addirittura il pubblico in generale e cioè tutti coloro che chiederanno o consumeranno determinati beni o usufruiranno di particolari servizi.
Non a caso i primi studi sulle intese restrittive della concorrenza cercano di individuare, per discuterne la libertà, la categoria dei contratti a danno dei terzi.
Proprietà, contratto, responsabilità civile sono istituti esaminati di solito sotto l’angolo visuale della crisi; altri vedono nel contratto uno strumento fungibile per le più diverse funzioni. E il rifiuto del significato tradizionale è proprio consacrato dall’art.1322; il richiamo all’ordinamento giuridico nella sua interezza vuol essere per il giurista un richiamo costante alla storicità della sua funzione perché la suggestione dei nomi che non mutano non lo induca a credere a un legame indissolubile delle forme giuridiche con la cultura che ebbe ad elaborarle e ad affinarle.
(i) Segue. Il ruolo della Corte costituzionale
Nel dibattito recente significato e ampiezza della libertà di iniziativa economica si sono riesaminati sotto diversi profili.
Si è riaperta la questione della connessione tra libertà economica e tutela della persona; in particolare si è sostenuto che l’autonomia negoziale trova le sue radici nell’art 2 Cost. (Guarino, 1986), mentre chi ritiene che l’art.2 non sia norma aperta (Pace, 1993, 327.) lo esclude, sostenendo che la tutela costituzionale della libertà negoziale sia solo indiretta.
Si è sostenuto che il mercato era concetto del tutto ignorato dai Costituenti e quindi dalla Costituzione (Amato, 1977, 209 ss.) e quindi che si può parlare di libertà del mercato nei limiti stabiliti dall’art. 41.2 Cost. (Pace¸1993), tale disposizione è rivolta non solo al legislatore, ma a tutti, compresi gli operatori (Oppo, 1988, I, 311).
Si è revocato in dubbio che lo stato e gli enti pubblici possano intervenire direttamente in concorrenza con i privati; essi dovrebbero intervenire solo in via sussidiaria qualora manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata. Questa deduzione però non è suffragata dal testo costituzionale.
In conclusione, la libertà economica non si deve confondere né con le libertà individualo né con la garanzia della proprietà. È un quid pluris dato dalla utilizzazione congiunta di una somma di diritti e di libertà per l’esercizio di una attività organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (Galgano, 1992, 161.).
Questa conclusione è avallata anche dalla Corte costituzionale la quale, con diverse sentenze, ha precisato che l’autonomia contrattuale non riceve tutela diretta dalla Costituzione, ma è strumentale all’esercizio della libertà economica (sent.7/1962); che la ricerca del profitto è legittima, e quindi, pur essendo ammissibile la regolamentazione dei prezzi, non si deve deprimere l’iniziativa economica con leggi (sent. 144/1972); che le limitazioni all’iniziativa debbono essere imposte con legge (sent. 4/1962); che la riserva di legge è solo relativa; che è legittimo l’intervento dello Stato rivolto a reprimere i monopoli privati (sent. 59/1960); che l’intervento rivolto a reprimere gli ostacoli alla libera concorrenza può estrinsecarsi nella imposizione di un monopolio pubblico (sent. 255/1974); che i fini di utilità sociale possono essere esplicati in dichiarazioni pragmatiche, ma i programmi non possono essere né troppo rigidi né arbitrari (sent. 46/1963), che le intese per limitare la concorrenza possono essere represse per tutelare l’interesse collettivo (sent. 223/1982).
In conclusione l’affermazione di limiti alla libertà economica è legittima e utile. Non si vede perché la discussione attuale si affanni a sostenere la libertà di mercato, quasi che mercato e iniziative economiche non dovessero essere per loro natura suscettibili di limiti, controlli, ecc. Ogni diritto, e quindi anche i diritti di libertà, è limitato in quanto nasce limitato: in primo luogo, nasce limitato dai diritti individuali altrui, come osservava Kant; la libertà dell’individuo, per poter sussistere, implica necessariamente che sia rispettata la libertà degli altri individui; la libertà dell’uno spinge fin là dove non si possa conculcare la libertà dell’altro; in secondo luogo, nasce limitata dall’interesse pubblico; l’esercizio libero di una attività economica può essere dannoso per i consumatori, per i passanti (c.d. bystanders), per l’economia nazionale, ecc.
Non ci si deve stupire se oggi si deve parlare di limiti alla libertà economica in cui non si deve lasciar prendere la mano da facili entusiasmi per il liberismo puro (Ferrarese, 1992). Basta considerare che ogni libertà presenta, o sopporta, comunque limiti: la libertà personale può essere limitata o soppressa in caso di sanzioni penali; la libertà di residenza può essere limitata in caso di confino e di soggiorno obbligato; la libertà di associazione è limitata quanto agli scopi perseguiti e alla pubblicità dell’associazione medesima; la libertà di stampa trova limiti nella non veridicità della notizia, nella tutela della privacy, dell’onore, della reputazione delle persone implicate nella cronaca giornalistica e così via.
Si consideri infine che la libertà economica non è considerata dalla Costituzione tra i diritti fondamentali, bensì tra i rapporti economico-sociali. Essa quindi è assai meno garantita delle libertà personali. nel conflitto tra interesse privato e interesse pubblico, tale libertà è assoggettata al limite della utilità sociale, nonché della libertà, della dignità e della salute della persona.
(ii) Segue. L’approccio tedesco e olandese
Nell’esperienza tedesca il principio di libertà contrattuale non è stato codificato in modo espresso nel BGB, in quanto la convinzione della sua esistenza e tutelabilità era accolta in modo indefettibile e universale posto che tale principio è proprio di ogni economia di mercato; fu però inserito nella Costituzione di Weimar del 1919, al par.152; tale previsione, attesa la concezione del tempo, aveva un valore debole, perché le norme di tal fatta erano considerate non prescrittive ma meramente programmatiche (Flessner, 1994, 1 datt. ). La legge fondamentale di Bonn del 1949 non menziona espressamente la libertà contrattuale, anche se nella letteratura privatistica ad essa (e alla autonomia privata) si dà grande rilievo; vi si trovano però regole che si dicono collegate alla libertà contrattuale, quali la garanzia della proprietà (par.14), la libertà di occupazione lavorativa (par. 12), la libertà di associazione (par.9) e la clausola generale di protezione della persona (par.2).
La dottrina tedesca ritiene che, attesi questi appigli normativi, ancorché indiretti, la libertà contrattuale abbia copertura contrattuale. Ciò perché - osserva Flessner - (i) la garanzia della proprietà implica il riconoscimento e la tutela dell’esercizio della facoltà di disposizione, che avviene attraverso strumenti negoziali quali ad es. le vendite, le locazioni, il trasporto, le garanzie del credito (ma si potrebbe obiettare che una cosa è la garanzia della titolarità del bene, altra cosa la garanzia costituzionale dello strumento negoziale utilizzato per disporne); (ii) la garanzia dell’occupazione implica tutela del lavoro e quindi del contratto di lavoro, così come dei rapporti contrattuali che si istituiscono tra imprese, e tra impresa e consumatori (ma si potrebbe obiettare che la tutela dell’occupazione riguarda il diritto-dovere del lavoro o di intrapresa piuttosto che non gli strumenti negoziali con cui esso si esplica); (iii) la libertà di associazione implica la libertà negativa di non associarsi (ma si potrebbe obiettare che la garanzia copre l’associazione, non lo strumento negoziale, quale è il contratto associativo); (iv) la libertà generale posta a garanzia della persona (qui il discorso è più complesso perché anche presso di noi vi sono autori e decisioni che ricollegano la libertà contrattuale al principio generale di autodeterminazione e quindi alla esplicazione della libertà personale; in Svizzera, ad esempio, la connessione è servita per ritenere illegittimo il divieto di ingresso in un cinema opposto dal gestore ad un giornalista [Trib.fed. 80,11,26] ).
In ogni caso, la dottrina prevalente ritiene che in Germania la libertà contrattuale goda di copertura costituzionale.
Si pone quindi il problema dei limiti all’azione legislativa diretta a comprimerla o a circoscriverla. Si segue, anche in questo, come in altri casi simili, il principio di proporzionalità (Flessner, 1994,. 5), secondo il quale il potere legislativo può limitare i diritti fondamentali solo per perseguire fini legittimi e con mezzi legittimi. Questo principio è applicato in modo alternato: talvolta la Corte costituzionale controlla gli scopi di natura pubblica che hanno animato l’intervento legislativo, altra volta guarda nei dettagli il testo supposto in contrasto con il dettato costituzionale. Esempio del primo orientamento è la decisione del 20 luglio 1954 riguardante la disciplina dei finanziamenti coatti che gli imprenditori di ogni settore dovevano versare a sostegno dell’industria del carbone e dell’acciaio, avendo in cambio azioni e obbligazioni delle società estrattive e metallurgiche.
La Corte ritenne legittimo il provvedimento, attesi gli scopi apprezzabili perseguiti dal legislatore. La discrezionalità del legislatore ha fatto da paravento a interventi della Corte in materia di controllo dei prezzi (17 novembre 1958), di fissazione dei prezzi dei medicinali (31 ottobre 1984), di adesione coattiva a sistemi previdenziali per la vecchiaia (da ultimo sent. 31 maggio 1988) e così via, ivi compresa la legislazione in materia di locazioni abitative e di tutela dei consumatori (8 gennaio 1985; 4 giugno 1985; 12 febbraio 1989; 14 febbraio 1989).
L’altro orientamento, più analitico, è espresso da una decisione (peraltro di costituzionalità della legge impugnata) del 13 giugno 1961, riguardante le limitazioni dell’orario di apertura degli esercizi commerciali, il cui scopo era di garantire una ordinata vita ai dipendenti e agevolare le concorrenza. La Corte finì per ritenere che le limitazioni di orario non dovevano riguardare anche i distributori automatici di prodotti e servizi (21 febbraio 1962).
La Corte ha garantito anche la libertà di chiudere l’esercizio commerciale, se la chiusura riguardi una intera categoria (il caso, deciso il 9 febbraio 1982, concerneva la chiusura dei negozi di parrucchiere nelle mattine di lunedì). Il caso più recente (Flessner, 1994, 9) riguarda i distributori di carburante, che possono restare sempre aperti, ma nelle ore notturne possono erogare solo carburante.
La Corte ha ritenuto conforme al dettato costituzionale la previsione di codice che dichiara non tutelabili i diritti derivanti dalle mediazioni matrimoniali, cioè per tutelare la famiglia; il mediatore può chiedere che il pagamento della sua provvigione avvenga in anticipo, ed esso non è ripetibile dagli interessati.
L’opinione comune è che la Corte costituzionale possa ingerirsi di questioni contrattuali, anche se le obbligazioni sono state assunte volontariamente dai contraenti. Ne sono esempio alcuni casi. La Corte ha ritenuto immorale e quindi invalida la fideiussione personale richiesta da un istituto di credito alla figlia di un imprenditore, a garanzia dei debiti del padre, in quanto quando le fu richiesta la sottoscrizione dell’atto ella non era esperta di simili operazioni ed era stata tranquillizzata dai funzionari della banca finanziatrice; nella specie la figlia si era poi sposata, si era separata dal marito, aveva tre figli, a cui doveva accudire da sola, e versava in difficoltà economiche (19 ottobre 1993).
Il par. 2 della legge fondamentale è stato applicato in una fattispecie curiosa; si trattava di un contratto di disposizione del proprio corpo (per attività sessuale) concluso da una coppia non unita in matrimonio; il contratto prevedeva che la donna avrebbe usato contraccettivi; dai rapporti sessuali però nacque un bambino e il padre fu obbligato a versare gli alimenti alla madre; la Corte ha ritenuto che il contratto fosse invalido in quanto immorale (17 aprile 1986).
Il caso della giovane madre che aveva rilasciato fideiussioni a favore del padre ha suscitato interesse, ed è oggetto delle riflessioni anche di giuristi no tedeschi. Hondius l’ha preso a riferimento per svolgere la sua analisi della problematica alla luce del diritto olandese (Hondius, 1994a, p.1 datt.). Ciò è tanto più interessante in quanto in Olanda vi è una Costituzione scritta, non vi è una garanzia costituzionale esplicita della libertà contrattuale, non vi è neppure una Corte costituzionale, né la dottrina o la giurisprudenza hanno costruito meccanismi di applicabilità diretta della normativa costituzionale ai rapporti tra privati.
L’assenza di un controllo giudiziale di costituzionalità delle leggi non ha però impedito alle Corti olandesi di applicare direttamente le norme della Costituzione (sottoposta a revisione nel 1983) ai rapporti tra i privati (c.d. effetti orizzontali). Così è stato per il caso del minore che, in quanto figlio di padre ebreo e di madre non ebrea, non era stato ammesso a frequentare un istituto ebreo (il liceo Maimonide di Amsterdam). Ragionando in termini di libertà di educazione, la Corte di cassazione (Hoge Raad, 31 ottobre 1969) ha cassato la sentenza della Corte di appello che aveva imposto l’ammissione all’istituto riottoso.
La libertà contrattuale, che con la vincolatività del contratto e il principio consensualistico costituisce la triade delle fondamentali regole del settore, è collegata, secondo la dottrina, anche con il diritto di proprietà e con la libertà personale.
Ma la libertà contrattuale trova il suo bilanciamento (e i suoi limiti) con la tutela degli interessi dei consumatori.
Hondius si riferisce alle molteplici disposizioni del nuovo codice civile (entrato in vigore con alcuni libri nel 1982) che offrono ampia protezione agli interessi deboli. Dal suo punto di vista la copertura costituzionale non sarebbe necessaria, in quanto un testo ampio, dettagliato e moderno come il nuovo codice sarebbe sufficiente di per sé a perseguire gli scopi a cui tende la protezione costituzionale.
(iii) Segue. L’approccio francese
Osserva Rouhette (1994, p.1 datt.) che per il giurista francese la questione della tutela costituzionale della libertà contrattuale è insolita, in quanto in Francia fino a vent’anni fa non vi era un controllo di costituzionalità delle leggi e le norme costituzionali non erano considerate di grado superiore rispetto alle leggi ordinarie. Ciò nondimeno il principio di libertà contrattuale, raramente proclamato dalle Corti, già da Domat era considerato regola di rango superiore, perché afferiva alle libertà naturali, le cui limitazioni dovevano interpretarsi e applicarsi restrittivamente.
Oggi il controllo di costituzionalità è assai circoscritto: intanto, è solo preventivo, e riguarda le leggi non ancora promulgate; il controllo è riservato al Conseil constitutionnel, e non piò essere effettuato dalla Corte di cassazione o dal Consiglio di Stato; in ogni caso, il principio di libertà contrattuale non assurge al rango di regola costituzionale secondo la Corte di cassazione (Cass.civ. 15 febbraio 1972, 1° ottobre 1982, 7 aprile 1987, quest’ultima concernente la libertà di selezione degli aderenti da parte di una associazione.). D’altra parte, secondo la tradizione, il diritto contrattuale francese appare esprimere uno statalismo interventista (Rouhette, 1994 4.). Il Conseil constitutionnel non ha mai impiegato il termine di “libertà contrattuale”, ma ha parlato di libertà di intrapresa economica e di libertà delle persone; e quindi si può anche costruire una protezione costituzionale alla libertà contrattuale, ma non senza limiti.
Questo referente si può rintracciare nel diritto comunitario, ove sono tutelati i diritti fondamentali, anche se, a parere di Rouhette, sono ammesse molte limitazioni alla libertà contrattuale, quali il controllo dei prezzi, il controllo delle intese turbative della concorrenza, ecc.; il Conseil constitutionnel si è espresso favorevolmente (il 15 gennaio 1992) sulla legittimità dei provvedimenti normativi destinati a restringere la libertà contrattuale, al fine di tutelare i consumatori. In conclusione, secondo Rouhette il settore dei contratti non può essere considerato come governato da un principio unitario, quale sarebbe la libertà contrattuale.
Le clausole abusive
indice: 1. Il modello italiano - 2. Il modello inglese - 3. La riforma in Inghilterra
1. Il modello italiano
1.1. Il processo di redazione del testo di recepimento della direttiva
In Italia, il recepimento della direttiva sulle clausole abusive è avvenuto mediante l'art.25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52. Questo articolo contiene tutte le disposizioni con cui si è modificato il codice civile. Si tratta di un complesso di disposizioni incluse nella legge comunitaria per il 1994 e di là trasfuse nel codice. Nel nostro Paese, le direttive comunitarie normalmente sono recepite con leggi speciali, di iniziativa parlamentare, o con decreti-legge predisposti dal Governo, o con leggi di delega al Governo per la redazione di leggi delegate (c.d. decreti legislativi) oppure con disposizioni contenute nelle c.d. leggi comunitarie, approvate dal Parlamento secondo una tecnica che ha lo scopo di accelerare e semplificare l'adeguamento del diritto interno al diritto comunitario. La scelte tra le diverse tecniche è di competenza del Governo o del Parlamento e non obbedisce a criteri particolari, essendo influenti sia esigenze di tempo, sia esigenze di natura politica, sia esigenze di redazione accurata e complessa. Le leggi comunitarie a loro volta possono esprimere diverse opzioni: o introdurre tour court disposizioni nell'ordinamento interno, oppure indicare i principi a cui si deve attenere il Governo nella predisposizione di una legge (delegata). Poiché le leggi comunitarie sono vasti e articolati «contenitori», ciascun Ministero fa pervenire al Ministero per le politiche comunitarie la proposta di regolamentazione delle materie che si intendono disciplinare con riguardo alle direttive che di anno in anno si sceglie di recepire. A sua volta, per la redazione delle proposte, ogni Ministero si avvale dei propri funzionari e, per le materie più complesse, di esperti, quali professori universitari, magistrati, avvocati, etc.; un ruolo rilevante gioca, in ogni caso, il Ministero di grazia e giustizia, che opera la revisione, modificazione, integrazione dei progetti provenienti dagli altri Ministeri e che riguardano i rapporti civili mediante l'apposito ufficio legislativo.).
Rispetto alle tecniche di recepimento delle direttive che interessano i consumatori fino ad oggi attuate, l'iter del recepimento della direttiva 93/13 ha seguito la medesima via delle direttive sul credito al consumo, al cui recepimento si è provveduto con la legge comunitaria per il 1991, le cui disposizioni di recepimento sono state inserite nel t.u. bancario (d.lgs. 1 settembre 1993, n.385, artt. 121 ss.). Per le altre direttive, invece, si è fatto ricorso a decreti legislativi (ad es., in materia di pubblicità ingannevole si è provveduto con il d.lgs.25 gennaio 1992, n.74; in materia di vendite fuori dei locali commerciali con il d.lgs. 15 gennaio 1992, n.50; in materia di viaggi organizzati con il d.lgs. 17 marzo 1995, n.111; in materia di multiproprietà con il d.lgs. 9 novembre 1998, n.427); questi testi sono stati predisposti sulla base di progetti preparati da Commissioni di esperti. Nessuna direttiva, ad eccezione di quella sulle clausole abusive, ha comportato la modificazione del codice civile (aa.vv., 1999g).
1.2. La situazione italiana
Al suo apparire, la direttiva 93/13/Cee ha rinnovato l'enorme interesse che la dottrina aveva manifestato per i temi ad essi collegati, quali la disciplina dei contratti per adesione, la disciplina delle clausole di esonero o di limitazione della responsabilità, la tutela del consumatore. La tormentata fase di gestazione della direttiva era stata seguita passo passo (Alpa, 1977d,V, 73; id., 1978e; Ghidini, 1978), ma ben prima della progettazione comunitaria si era discusso nel nostro Paese sulla necessità di modificare il testo del codice civile ovvero di estendere l'interpretazione delle disposizioni in esso contenute (artt.1341, 1342, 1370, ed ancora, art. 1229 ed altri) al fine di proteggere la «parte debole» del contratto di adesione, utilizzando le clausole generali di buona fede, di ordine pubblico, o la stessa causa del contratto (Roppo, 1975). Ma la rispondenza dei giudici a queste aperture non è stata immediata e neppure corale. Ulteriori proposte si sono orientate a considerare il testo del codice civile come (direbbe Umberto Eco) un’«opera aperta», tale da consentire un «uso alternativo del diritto», ma si sono esaurite in una breve stagione.
Sicché - anche per seguire, e, in un certo senso per anticipare l'intervento della Comunità - si pensò di procedere con una riforma più efficiente, che non si limitasse cioè a proporre modelli esegetici più avanzati, ma incidesse direttamente il tessuto delle disposizioni, affiancando agli artt.1341 e 1342 ulteriori disposizioni espressamente dedicate alla protezione del consumatore contraente. Di qui la redazione di progetti di legge da parte di alcuni studiosi della materia, che non ebbero però miglior fortuna (V. la proposta di M. Bianca e la sua discussione, a cui si aggiunsero le ricerche di diritto italiano e di diritto comparato, nei contributi raccolti da Bianca, 1979).
La prima iniziativa di natura pubblica diretta a predisporre un progetto di disciplina di recepimento è stata assunta pochi mesi dopo l'approvazione della direttiva (L'allora Ministro per gli affari sociali, Fernanda Contri, aveva costituito una commissione, da me coordinata. Il progetto fu presentato al Presidente del consiglio all'epoca Carlo Azeglio Ciampi, ma non ebbe seguito, perché, per l'avvicendamento dei governi, di lì a poco il governo Ciampi esaurì il suo mandato). Per esigenze di tempo, un nuovo testo fu presentato in Parlamento nell'ambito della discussione della legge comunitaria per il 1994, e subì molte modificazioni nel corso della procedura di approvazione dei due rami del Parlamento, insieme con le altre disposizioni concernenti molte altre materie (le nuove proposte e l'iter parlamentare sono descritti e commentati nel volume curato da Bianca e Alpa, aa.vv., 1996h. Alla formazione del testo hanno contribuito molti parlamentari, ed in particolare il senatore Pietro Perlingieri, che lo ha seguito esprimendo anche molte critiche sul risultato finale; vi hanno contribuito le associazioni dei consumatori, le associazioni dei professionisti, e le Camere di commercio).
Le scelte del Parlamento sono state molteplici.
Innanzitutto la collocazione della normativa.
A differenza di quanto è capitato per le scelte effettuate negli altri Paesi dell'Unione, in cui si è proceduto con leggi speciali o con fonti di grado inferiore, come le «regulations», in Italia si è scelta la fonte più prestigiosa (dopo la Costituzione) cioè il codice civile, con un apposito capo (XIV-bis) intitolato «Dei Contratti del consumatore», con cui si conclude la disciplina del contratto in generale. Al di là del riconoscimento sul piano delle fonti, dal nostro punto di vista, si è trattato di un segnale «forte», ad indicare che le regole introdotte dall'Unione in questa materia hanno una duplice valenza. Da un lato, si è dato ingresso alla categoria dei «consumatori», ignorata dal codice; dall'altro, queste regole si sono qualificate automaticamente come regole aventi carattere generale, incidenti quindi sulla disciplina del contratto, anche se riservate ai contratti conclusi dai consumatori.
E' stata una scelta ambiziosa, non scevra di difficoltà. Il lessico del codice (elegante perché rivisto dai puristi della lingua italiana) ha ormai una cadenza sontuosa, mentre già la direttiva e poi il testo di recepimento denunciano sia il lessico funzionale, ma meno curato, che è proprio degli uffici di Bruxelles, sia il procedere a-sistematico della esposizione. Inoltre, l'innesto nel tessuto del codice avrebbe dovuto comportare la previsione di qualche disposizione di coordinamento con la disciplina preesistente, attesa la cura sistematica con cui il codice è stato redatto. In più, la versione in lingua italiana della direttiva presenta qualche imprecisione tecnica, a cui avrebbe dovuto provvedere il legislatore con la disciplina di recepimento, senza tradirne lo spirito ma adeguandolo alla terminologia e all'apparato concettuale proprio della nostra cultura giuridica. Purtroppo, come si dirà, tutte queste cautele non sono state assunte, e l'innesto non è avvenuto nel modo migliore.
Fin dal suo apparire, la nuova disciplina ha costituito oggetto di una impressionante letteratura; per contro si è registrata una modesta giurisprudenza, e si è constatato un marginale (se non insignificante) adeguamento spontaneo dei moduli in uso da parte dei professionisti. Inoltre, in più punti la Commissione ha ritenuto la nuova disciplina non perfettamente conforme alla direttiva (La letteratura in materia è «oceanica», al punto che le banche di dati bibliografici presentano più di cinquanta pagine di riferimenti, che non è possibile, in questa sede, riportare compiutamente. Quanto alle monografie, si segnalano in particolare: Barenghi, 1996; id., 1996a; Ruffolo, 1997; aa.vv. 1997i, 752 ss.; Romagnoli, 1997; Alpa, 1997f; id., 1999g. Il commento più diffuso è stato redatto da un gruppo di ricercatori coordinato a Alpa e Patti, aa.vv., t.I e II, 1997l. Tra le voci enciclopediche v. Roppo e Napolitano, 1997. L'analisi delle esperienze straniere, sia anteriori alla direttiva, sia posteriori, è stata altrettanto diffusa: v. ad es., i contributi raccolti in Bianca e Alpa, 1996 e in Alpa e Patti, 1997 t. II; Klesta Dosi, , II, 426 ss.; Somma, in corso di stampa; Scarpello, 1998, I,1609).
1.3. Raffronto sintetico del testo della direttiva e del testo di recepimento (artt. 1469 bis - sexies c.c.).
Le corrispondenze e le modificazioni o integrazioni si possono sinteticamente ricostruire.
L'art.1 c.1 della direttiva specifica il suo ambito di applicazione. Esso è riprodotto dall'art. 1469 bis comma1.
Tuttavia, mentre il testo della direttiva non indica le prestazioni oggetto del contratto, semplicemente riferendosi alla categoria dei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore, categoria che corrisponde alla intitolazione del capo del codice civile novellato, l'art. 1469 bis comma 1 esplicita l'oggetto del contratto, facendo riferimento alla «cessione di beni» e alla «prestazione di servizi». Questa precisazione, secondo i commentatori, non ha la funzione di restringere l'ambito di applicazione della disciplina. Salvi casi di eccezione, tutti coloro che si sono impegnati a comprendere, esplicitare, criticare il testo dànno per scontato che l'applicazione della nuova disciplina riguarda nella loro universalità i contratti in cui il consumatore sia parte, ed abbia come controparte il professionista.
L'art.1 c.2 dir., concernente le clausole riproduttive di disposizioni, è ripreso, quasi letteralmente, dall'art. 1469 ter comma 3.
L'art.2 lett. a) dir. riguarda la terminologia delle clausole. Uniformando la dizione alla interpretazione data agli artt. 1341 e 1342 c.c. sulle condizioni generali di contratto, l'art. 1469 bis ha sostituito l'aggettivo «abusive» con l'aggettivo «vessatorie», perché nel nostro ordinamento non è stato codificato l'abuso del diritto, anche se varie disposizioni esprimono questo principio generale.
L'art.2 lett. b) dir. definisce il consumatore come «persona fisica».
Il legislatore italiano ha ripetuto la medesima formula, restringendo perciò l'ambito di applicazione della disciplina di recepimento ai soli contratti in cui la controparte del professionista è il consumatore individuale che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale. Questa restrizione, pur conforme alla direttiva, è stata oggetto di ampia discussione, sia perché già nei progetti di recepimento si era proposto di estendere la tutela ai soggetti collettivi che non svolgono attività di lucro, sia perché anche il professionista che agisce per scopi estranei alla sua professione deve essere considerato consumatore, sia perché il piccolo imprenditore (compreso l'artigiano) è meritevole di tutela, sia perché lo stesso consumatore può acquistare un bene o un servizio per scopi «misti». Per la verità, anche le altre direttive sono state recepite tenendo conto solo del consumatore quale persona fisica, e alla persona fisica si riferisce la legge generale sui diritti dei consumatori, di cui si dirà. Gli interpreti guardano con interesse alle altre esperienze, nelle quali, senza ampliare la definizione a livello normativo, si sono già registrate pronunce che estendono la nozione di consumatore al di là della persona fisica, alle aggregazioni di persone che non hanno finalità di lucro, o ai professionisti (non persone fisiche) che agiscano con altri professionisti al di fuori dell'attività economica professionalmente esercitata. Le esperienze degli altri paesi membri sono quindi oggetto di attenta osservazione (per l'esperienza francese, nella letteratura definita «oceanica», v. in particolare Civ. 1re, 6.1.1993, in Bull.civ.,I,n.4, e in D.1993, Somm.,237 obs. Paisant; in Rev.trim.dr.com.1993,706 obs. Bouloc; Code de la consommation, comm. par Pizzio, Parigi, 1995, p.57 ss. Per l'esperienza belga Bourgoignie, 1995, 21 ss. e i contributi del Centre de droit de la consommation di Louvaine-la-Neuve. Per entrambe le esperienze si segnalano i «papers» predisposti dal gruppo di ricerca sul "droit des obligations" coordinati da Jaques Ghestin e Marcel Fontaine. Per l'esperienza inglese v. i casi riportati da Oughton e Lowry, 1997, 2 ss. e i centri di ricerca di Graint Howells (Sheffield) e di Steven Weatherill (Oxford). Per l'esperienza tedesca v. Weil e Puis, 1994, 127 ss. e i contributi dei centri di ricerca di Norbert Reich (Brema) e di Hans Micklitz (Bamberg). In generale v. Micklitz e Weatherill, 1997, 343 ss. ).
Il problema potrà essere risolto dalla giurisprudenza. E' significativo il fatto, però, che la questione della restrizione alla sola persona fisica sia stata oggetto di una ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Il giudice a quo (Giudice di pace de L'Aquila, 4 novembre 1997 (ined.)) - tra gli altri profili - ha ravvisato anche la violazione del principio di eguaglianza previsto dalla Costituzione (art.3 comma 1) oltre ai principi che tutelano il lavoro (artt. 35 e 41 cost.).
Il caso (Lido s.n.c. contro Enel) riguardava l'opposizione al decreto ingiuntivo con cui l'ente erogatore dell'energia elettrica aveva richiesto il pagamento di una somma dovuta per fatture insolute per forniture di energia elettrica erogate ad una piccola società personale. Il procedimento era stato radicato dinanzi al giudice di pace de L'Aquila, sede dell'attore, in conformità alla clausola sul foro competente contenuta nel contratto di erogazione del servizio predisposto dall'Enel.
A sostegno dell'opposizione la società aveva sollevato l'eccezione di incompetenza, sostenendo di essere qualificabile come «consumatore» ed invocando l'applicazione dell'art. 1469 bis, che prevede la presunta vessatorietà delle clausole di deroga della competenza dell'autorità giudiziaria. Il giudice di pace adito ha rilevato una ingiustificata differenziazione nel trattamento del consumatore(persona fisica) rispetto alla persona giuridica o alla persona fisica che agisca per scopi imprenditoriali o professionali, in quanto «la tutela dalle clausole vessatorie riguarda in eguale misura anche il mercato dei beni destinati alla produzione» e quindi protegge il lavoro in tutte le sue forme, ed ha quindi rimesso la questione alla Corte costituzionale.
La Corte costituzionale non si è ancora espressa in proposito, ma appare difficile che la questione sia accolta. Nel breve testo dell'ordinanza - si noti - non si solleva la questione della definizione di consumatore in senso proprio, ma sostiene la necessaria tutela delle persone giuridiche e dei professionisti che, operando (non al di fuori, ma ) nel corso della loro attività professionale sottoscrivano contratti predisposti da chi offre beni e servizi. L'attenzione del giudice si è incentrata sulla disparità di potere contrattuale, e non sulla posizione di chi acquista beni e servizi al di fuori della sua attività professionale, al di fuori dunque di ogni scopo di lucro, e senza inserire il bene o il servizio nel proprio ciclo produttivo.
Inoltre, la restrizione è frutto di una scelta legislativa conforme al testo della direttiva, e del tutto ragionevole. Lo spirito della direttiva, e delle politiche comunitarie che la sorreggono, è tutto rivolto a tutelare chi si trovi in una situazione di inferiorità non tanto perché costretto ad accettare clausole predisposte, ma perché (agendo come consumatore) non ha la competenza tecnica e specifica per poter comprendere e negoziare le condizioni dell'operazione economica che vuol concludere.
La declaratoria di contrarietà alla Costituzione aprirebbe poi un delicato problema di rapporti tra il diritto comunitario e il diritto interno, perché la Corte costituzionale sarebbe costretta ad evidenziare che il diritto comunitario, nei settori in cui la sovranità legislativa è stata rinunciata a favore della Comunità, entrerebbe in collisione con le norme fondamentali del nostro ordinamento.
L'art.3 commi 1 e 2 dir. riguardano le clausole oggetto di negoziato individuale. Pur articolato, il testo della direttiva non è preciso. Il testo di recepimento (art.1469 ter, comma 3 ult. parte) è piuttosto laconico, in quanto si riduce ad enunciare che «non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetti di trattativa individuale». Per quanto riguarda i contratti per adesione, la formula della direttiva corrisponde grosso modo al comma 4 dell'art.1469 ter. L'incertezza del testo della direttiva è dato dalla specificazione della presunzione di non negoziazione («in particolare....») e dalla qualificazione della negoziazione («individuale»). Ci si può chiedere se il controllo della vessatorietà possa riguardare contratti predisposti dal professionista (o utilizzati dal professionista ma predisposti da terzi) che non siano sottoposti ad una generalità di consumatori, ma siano stati conclusi per una sola operazione. Ed ancora, ci si può chiedere se clausole contenute in moduli o formulari e siano state negoziate dalle associazioni dei consumatori con un singolo professionista, o associazioni di professionisti, in quanto negoziate su base non individuale, si sottraggano al controllo di vessatorietà. Anche l'espressione «trattativa» non è univoca: che dire di clausole che sono poste in alternativa tra loro, siano sottoposte al consumatore, e questi abbia scelto la clausola che preferisce?
L'onere della prova della negoziazione individuale di cui all'art. 3 comma 2 ultima parte dir. corrisponde all'art.1469 ter comma 4.
Quanto ai criteri di individuazione del carattere di vessatorietà di una clausola, il testo della direttiva è ambiguo. L'art.3 comma 1 pone molteplici problemi interpretativi (al di là della sua imperfetta traduzione in lingua italiana) :
(i) se la buona fede debba essere intesa in senso soggettivo o piuttosto in senso oggettivo (come ritengo);
(ii) se la contrarietà alla buona fede sia criterio additivo, rispetto allo squilibrio, oppure sia rafforzativo, oppure ancora sia enfatico, essendo implicito allo squilibrio l'essere la clausola contraria a correttezza;
(iii) se lo squilibrio «significativo» (espressione ripresa letteralmente dal testo italiano della direttiva) debba considerarsi come sinonimo di «grave» o di «eccessivo» o di «rilevante» o di «non irrilevante».
E' chiaro che si è in presenza di una doppia clausola generale (buona fede + significativo squilibrio) che consente al giudice di formarsi una valutazione tenendo conto anche di altri fattori, relativi all'oggetto, alle circostanze, alle altre previsioni contrattuali: in questo senso l'art.4 comma 1 dir. corrisponde all'art.1469 ter comma 1.
A questi criteri si aggiunge quello relativo alla chiarezza e comprensibilità della clausola, di cui si dirà oltre.
L'art.3 comma 3 dir. rinvia all'elenco «indicativo e non esauriente» di clausole che possono essere dichiarate abusive, posto in allegato alla direttiva. Anche sotto questo profilo il testo della direttiva è ambiguo, perché non specifica se le clausole incluse nell'allegato a titolo «indicativo e non esauriente» debbano considerarsi solo come «propositivamente» vessatorie - libero poi il legislatore nazionale di decidere con libertà - oppure se l'indicazione significhi che «comunque» le clausole menzionate sono da presumersi vessatorie e l'elenco possa essere ampliato. Il testo non specifica se l'elenco possa essere ridotto.
Il modello italiano appare originale, da questo punto di vista, e più garantista degli interessi dei consumatori di quanto non lo sia la direttiva. La disciplina prevede infatti la scomposizione delle clausole in diversi elenchi, e diversi effetti giuridici derivanti dalla inclusione di una clausola in questi elenchi:
(i) vi sono clausole che sono considerate non presuntivamente, ma tout court vessatorie. La loro qualifica non viene meno anche se siano state oggetto di trattativa . Si tratta (dispone l'art.1469 quinquies) delle clausole che escludono o limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista (all.c.1 lett. a) dir.); delle clausole che escludono o limitano l'azione del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di inadempimento inesatto da parte del professionista (all. c.1 lett. b) dir.); delle clausole che prevedono l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto (al.c.1 lett. i) dir.).;
(ii) vi sono clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria. I quattordici gruppi di clausole residue (rispetto alle precedenti) menzionate nell'allegato della dir. sono articolate e integrate nel codice in un elenco di venti gruppi (art.1469 bis comma 3). Tuttavia si deve notare nel testo italiano una ripetizione, cioè una curiosa corrispondenza delle clausole di cui sopra sub (i) (art. 1469 quinquies) alle clausole sub nn. 1, 2, 10 dell'art.1469 bis comma 3. Si tratta di un difetto testuale che deve essere corretto in sede interpretativa, ma potrebbe essere corretto dallo stesso legislatore, se, a seguito delle richieste della Commissione, questo testo dovesse comunque essere modificato;
(iii) vi sono poi le clausole che riguardano particolari tipi contrattuali, per cui la direttiva pone eccezioni e regimi speciali, in ciò seguita pedissequamente dal legislatore italiano (art. 1469 bis, commi 4,5,6,7).
Non è il caso, in questa sede, di esaminare analiticamente le singole clausole che si qualificano vessatorie di per sé o che possono essere qualificate come tali. Val la pena, però, di richiamare l'attenzione sulla lett. q) dell'allegato, espresso con una formula poco comprensibile in italiano (ma credo che sia tale anche nelle altre lingue in cui è stata tradotta la direttiva).
La lett. q) recita: «sopprimere o limitare l'esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente a una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni giuridiche ...». Il testo di recepimento sdoppia questa enunciazione in due gruppi di clausole: le clausole che hanno per oggetto o per effetto di «sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria...» (art. 1469 bis n.18) e «stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore».
Gli scopi della Comunità, condivisi dal legislatore italiano, sono orientati ad evitare che al consumatore sia inibito di rivolgersi al giudice ordinario e gli sia imposto di convenire il professionista nella sua sede, che può essere diversa e lontana da quella dell'attore (Sull'argomento v. Alpa, 1999h, 420 ss.).
Il secondo obiettivo è però facilmente eludibile dal professionista, se, anziché prevedere in contratto una clausola di deroga alla competenza territoriale, non prevede nulla, perchè, ai fini della instaurazione del giudizio, si possano seguire le regole generali dettate dal codice di procedure civile per le azioni relative ai rapporti obbligatori.
Il primo obiettivo non può contrastare l'obiettivo opposto che la Comunità persegue, cioè promuovere il ricorso alla «alternative dispute resolutions» (ADR), come enunciato nel libro verde in materia, e, da ultimo, nella Risoluzione del 30 marzo 1998.
Per poter dare un senso plausibile alla lett. q) e al n.18 del testo italiano occorre dunque appuntare l'attenzione sul termine «esclusivamente» della lett. q): in altri termini, il consumatore deve avere la scelta tra adire il giudice ordinario oppure rivolgersi alla istituzione (pubblica o privata) che cura la conciliazione, la mediazione, l'arbitrato.
Il testo italiano però è drastico, perché, inteso letteralmente, escluderebbe la ammissibilità di clausole di deroga alla giurisdizione e quindi impedirebbe il ricorso alle ADR, quasi che solo il giudice ordinario potesse garantire al consumatore imparzialità, indipendenza, professionalità etc. Di qui il dilemma degli interpreti: assegnare una interpretazione restrittiva al n.18, in modo da agevolare le ADR, oppure lasciare le cose come appaiono, e quindi porsi in contrasto con le iniziative dell'Unione, oppure ancora promuovere la validità di clausole che rimettono le controversie a istituzioni che trattano ADR solo se al consumatore si assicura la facoltà di scelta?
Dell'art.4 comma 1 dir. si è detto. Il c.2 è riprodotto dall'art.1469 ter comma 2, che estende la tutela del consumatore, in quanto la direttiva si riferisce all'oggetto «principale» del contratto, mentre il codice civile si riferisce all'oggetto tout court.
L'ultima parte dell'art.4 comma 2 e la prima parte dell'art.5 impongono al professionista di usare clausole «chiare e comprensibili», pena la declaratoria di vessatorietà. Anche queste connotazioni, relative alla chiarezza e comprensibilità, possono considerarsi formule generali, perché implicano un margine di discrezionalità piuttosto ampio da parte dell'interprete. Né la direttiva né il testo di recepimento fanno allusione al modello di riferimento sulla base del quale valutare se una clausola risponda ai requisiti richiesti, sicché gli interpreti si sono interrogati a lungo sul significato di queste espressioni, che sono estranee al testo del codice civile anteriore alla novellazione.
Ecco qualche interrogativo suscitato dalla direttiva e dal testo di recepimento: nel valutare la chiarezza e la comprensibilità, si deve assumere come modello il consumatore medio (nel caso del diritto italiano, il buon padre di famiglia) oppure il consumatore «ragionevole»? Si deve tener conto della diligenza media con cui il consumatore deve leggere e capire le clausole? Si deve tener conto del consumatore in concreto, e cioè delle particolari circostanze in cui il contratto è stato concluso? Come valutare le clausole che sono scritte in conformità alla prassi negoziale, ad esempio nei contratti di assicurazione e nei contratti bancari, in cui si rincorrono termini tecnici, precisi nel loro significato ma ostici per l'ignaro consumatore? La chiarezza e la comprensibilità possono essere integrate sulla base delle informazioni offerte verbalmente o per iscritto dal professionista? e, ancora, i requisiti di chiarezza e comprensibilità sono cumulativi o disgiuntivi, cioè le clausole devono essere chiare e, oppure o, comprensibili?
Le ambiguità della formulazione della direttiva - che purtroppo si riflettono sulla incertezza del testo di recepimento, letteralmente simile alla direttiva in questi punti - non finiscono qui.
La direttiva non precisa poi con esattezza quali siano le conseguenze della qualificazione della clausola come «oscura» o come «incomprensibile». L'art.5 dir. lascerebbe intendere che le clausole oscure o incomprensibili sono da interpretarsi nel dubbio a favore del consumatore; sembrerebbe cioè lasciar intendere che il problema possa essere risolto nel dare un senso alla clausola che sia più favorevole al consumatore. In tal modo, una clausola oscura o incomprensibile produrrebbe comunque effetti, anche se solo quelli più favorevoli al consumatore; non si potrebbe quindi pervenire alla declaratoria di vessatorietà e quindi di inefficacia per il solo fatto della sua oscurità e incomprensibilità. Per contro, l'art.4 comma 2 ultima parte lascia intendere il contrario, e cioè che le clausole riguardanti l'oggetto, il prezzo, la remunerazione, la controprestazione ricevuta dal consumatore, possono essere assoggettate, dichiarate vessatorie quando siano oscure o incomprensibili, e quindi non produrre effetti. Per ragioni sistematiche si dovrebbe ritenere che la direttiva abbia introdotto un duplice regime di controllo della chiarezza e della comprensibilità, a seconda che le clausole interessate riguardino l'oggetto, il prezzo, etc., oppure altri aspetti del contratto.
I medesimi problemi interpretativi sono posti dalle disposizioni del testo italiano di recepimento, che non ha sciolto i dubbi emergenti dalla direttiva (rispettivamente, art. 1469 ter comma 2 e art. 1469 quater).
L'art.5 dir. nella sua ultima parte prevede inoltre che la regola dell’interpretatio contra proferentem non sia applicabile nell'ambito delle procedure previste dall'art.7, paragrafo 2 (con riguardo alle procedure inibitorie). Sia in sede di interpretazione, sia in sede di inibitoria, il testo italiano ha omesso questa precisazione. I commentatori e alcune ordinanze hanno superato la lacuna, considerandola una svista del legislatore, e quindi hanno applicato la disposizione in bonam partem (ovviamente, a favore del consumatore).
Di qui i rilievi della Commissione, di cui si dirà.
L'art.6 dir. riguarda le conseguenze della declaratoria di vessatorietà di una clausola. Il legislatore italiano poteva effettuare diverse scelte: o considerare la clausola vessatoria come invalida (nulla o annullabile) oppure come inefficace. Tutte le alternative erano state considerate nei progetti; il codice civile novellato, all'art.1469 quinquies, ha optato per l'inefficacia parziale e relativa. Parziale, perché il contratto rimane efficace «per il resto» (come recita la direttiva), relativa perché solo il consumatore può farla valere.
La soluzione è più favorevole al consumatore, in quanto la nullità della clausola potrebbe portare ad una lacuna del contratto e alla sua integrazione ex art.1374 cod. civ.
Il testo di recepimento aggiunge una previsione a favore del consumatore, in quanto dispone che l'inefficacia possa essere rilevata dal giudice ex officio (art.1469 quinquies, comma 3).
Anche a proposito della efficacia del «resto», però, i problemi non mancano. La direttiva precisa che il contratto rimane vincolante per il resto «sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». Analoga previsione non è stata riprodotta nel testo italiano. Forse, la precisazione è superflua, in quanto va da sé che un contratto in cui siano inefficaci la gran parte delle clausole non può produrre effetti e quindi anche il "resto" diviene inutile. Ma che dire delle clausole inefficaci (in quanto oscure o incomprensibili) aventi ad oggetto il prezzo o la controprestazione? Può provvedervi il giudice? E se il giudice non può riferirsi a indici oggettivi come i prezzi, le prassi, etc. che fare?
Finalmente, l'art.7 dir. concernente l'azione inibitoria è stato trasposto dall'art.1469 sexies. La disposizione è chiara nel testo della direttiva, ma sembra incompleta. La direttiva, infatti, non dice se sia possibile prevenire l'elusione degli effetti della inibitoria. In altri termini, la declaratoria di inefficacia colpisce la singola clausola (riprodotta sugli esemplari diffusi dal professionista), ma il professionista può sostituirla con una altra clausola di identico tenore, anche se formulata letteralmente in modo un po' diverso da quella colpita, e proseguire così con la conclusione di contratti svantaggiosi per il consumatore. Inoltre, non si comprende se l'azione inibitoria sia consentita solo alle associazioni o anche ai singoli consumatori. E' vero che il comma 2 estende la legittimazione attiva a «persone» che abbiano un interesse legittimo a tutelare gli interessi dei consumatori e quindi, per interpretazione sistematica e logica, se la legittimazione è consentita a persone terze dovrebbe essere consentita anche al singolo consumatore.
Il testo dell'art.1469 sexies si presta ad altre osservazioni.
Per un verso è apprezzabile (nell'ottica della protezione del consumatore) perché estende la legittimazione ad agire alle Camere di commercio, le quali nel nostro ordinamento già avevano la funzione di controllare le condizioni generali di contratto al fine di tutelare i consumatori (art.2 l. n. 580 del 1993). Per altro verso lascia incerta la possibilità di agire da parte del singolo consumatore, perché nulla dice al riguardo, ed in più ricollega la procedura inibitoria agli artt.669 bis ss. c.p.c., che fissa requisiti precisi in ordine alla ammissibilità dell'inibitoria. Sul punto è stato fatto un altro rilievo dalla Commissione, che ha ritenuto la disciplina di recepimento non conforme alla direttiva. Se ne tratterà in seguito.
Ulteriore aspetto positivo è dato dall'ultimo comma dell'art.1469 sexies, che consente al giudice di ordinare che il provvedimento di accoglimento sia pubblicato in uno o più giornali, di cui uno almeno a diffusione nazionale. La previsione ha una molteplice valenza: serve ad informare il pubblico dei consumatori che la clausola utilizzata è stata (provvisoriamente) dichiarata vessatoria; segnala la clausola ad altri giudici, che stiano esaminando o possano essere richiesti di esaminare in futuro analoga questione; segnala ai professionisti che utilizzino clausole simili il pericolo che esse siano dichiarate inefficaci; soprattutto, ha effetti di pubblicità negativa sul professionista che ha utilizzato clausole vessatorie.
Si deve aggiungere che l'azione inibitoria è trattata anche nella recente legge generale sui diritti dei consumatori e sul ruolo delle loro associazioni (art.3 l. 30 luglio 1998, n. 281) e che la direttiva comunitaria sull'azione inibitoria in generale non è ancora stata recepita.
1.4. Le reazioni al testo di recepimento.
Il testo di recepimento non ha soddisfatto pienamente la comunità dei giuristi e le associazioni dei consumatori, ed ha sollevato critiche da parte della stessa Commissione Cee.
La discussione in Parlamento si è rivelata un vero e proprio boomerang. All'apprezzabile intento di far partecipi i rappresentanti dell'intera Nazione alla predisposizione di un testo che avrebbe modificato il codice civile e avrebbe interessato tutti i cittadini ha fatto da contrappeso un risultato che sarebbe certamente stato migliore dal punto di vista della formulazione tecnica e della coerenza se fosse stato predisposto da una commissione di esperti e vagliato dal Governo. L'avvicendarsi di emendamenti e di correzioni ha prodotto un testo talvolta ambiguo, e non completamente soddisfacente dal punto di vista delle scelte opzionali a favore del consumatore. In più - lo si metterà in evidenza nella conclusione dell'analisi - si è perduta l'occasione di coordinare questo testo con le regole già presenti nel codice civile (in particolare, gli artt.1341, 1342, 1370), con le disposizioni relative alle discipline di recepimento delle altre direttive, con la disciplina dei contratti bancari e assicurativi, etc.
Il controllo giudiziale delle clausole - la tecnica più diffusa negli ordinamenti dei Paesi dell'Unione - ha onerato le associazioni di rilevanti, gravosi compiti. Allo stato - si riprenderà il discorso nella chiusa - sembra questo il solo metodo praticabile concretamente per emendare i contratti dalle clausole vessatorie. I tentativi promossi per negoziare le clausole predisposte con le associazioni dei professionisti o con singole grandi imprese non sono andati a buon fine, e quindi l'unica via di uscita è rimasta l'azione giudiziaria per l'inibitoria. I professionisti, anziché adeguare i moduli in uso alle disposizioni della legge di recepimento, hanno preferito continuare ad usare clausole palesemente abusive, e non hanno utilizzato l'opportunità di emendare i moduli per aggiungere uno strumento di concorrenza nei confronti degli altri operatori del loro settore (sul punto v. Bartolini, 1999, nonché id., 1998). Le proposte di istituire anche una commissione nazionale deputata al controllo (preventivo o successivo) delle clausole vessatorie sono state bocciate.
Per parte sua la Commissione ha rilevato varie violazioni della direttiva.
1.5. Il procedimento di infrazione aperto dalla Commissione Cee nei confronti dell’Italia per inesatto recepimento della direttiva.
Già il 13 dicembre 1996, a pochi mesi dalla approvazione del testo di recepimento, la Commissione aveva segnalato al Governo italiano diversi rilievi:
(i) il rilievo relativo all'ambito di applicazione della direttiva, considerato troppo circoscritto per la definizione dei contenuti dei contratti dei consumatori a cui si applica la disciplina di codice (art. 1469 bis). Poiché, per contro, la direttiva si applica "all'insieme dei contratti di consumo", tutti i contratti che non abbiano ad oggetto la fornitura di beni o di servizi sarebbero sottratti alla disciplina;
(ii) si era poi contestato che, non ripetendosi nella disciplina dell'inibitoria la esclusione della applicazione della regola «interpretatio contra proferentem», la disciplina italiana riduceva gli spazi di tutela nelle procedure d'urgenza, in quanto il giudice, con una operazione ermeneutica, avrebbe potuto correggere il significato della clausola oscura o incomprensibile, senza quindi accogliere l'istanza, e consentendo al professionista di continuare ad impiegare la clausola medio tempore;
(iii) altro rilievo riguardava l'applicazione dell'art.6 comma 2 dir. concernente l'applicazione della disciplina più favorevole al consumatore nel caso di contratto assoggettato alla disciplina di un paese terzo, ma collegato con il territorio di uno Stato membro. Poiché l'art.1469 quinquies comma 5 riproduce la disposizione di favore, ma la circoscrive al «presente articolo» (che riguarda le clausole comunque ritenute vessatorie e gli effetti della vessatorietà) e non la estende a tutte le disposizioni del capo, se ne evinceva una trasposizione restrittiva della direttiva;
(iv) si era ancora sottolineato che l'azione inibitoria ex art. 1469 sexies non prevede la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori contro le associazioni di professionisti che abbiano diramato raccomandazioni inerenti i moduli contrattuali utilizzati dai loro associati.
Il Governo italiano aveva risposto ai rilievi con lettera del 14 marzo 1997, osservando:
- quanto il primo rilievo, che la definizione degli oggetti dei contratti dei consumatori non escludeva che la disciplina introdotta fosse applicabile a tutti i contratti appartenenti alla categoria;
- quanto al secondo, che nel codice civile già esiste una disposizione (l'art.1370) che impone una regola di carattere generale in ordine alla interpretazione del contratto, a cui non era giustificato derogare;
- il terzo rilievo fu accolto;
- il quarto rilievo fu considerato inconferente, in quanto le raccomandazioni delle associazioni di categoria non hanno giuridica rilevanza.
Non soddisfatta delle risposte, e in ogni caso, dall'inerzia del Governo italiano, il 6 aprile 1998 la Commissione ha aperto la procedura di infrazione n. 98/2026 ex art. 169 del Trattato di Roma. Ha contestato le repliche italiane, ribadendo le proprie osservazioni e, a proposito dell'azione inibitoria, ha precisato che la nuova disciplina ha solo riguardo all'effetto successivo alla conclusione del contratto, mentre vanifica l'intervento preventivo, che dovrebbe esser proponibile ancor prima che il contratto sia concluso, ma i moduli siano in uso da parte del professionista o delle associazioni di professionisti (v. il testo in Alpa, 1999h, 403 e in 1998i, 844).
In risposta alle contestazioni della Commissione il Governo italiano ha predisposto e comunicato a Bruxelles ulteriori osservazioni (v. il testo in, 1999, 403 ss. 1998, 980).
Sul primo rilievo, si è osservato che la specificazione dell'oggetto dei contratti del consumatore non è una restrizione dell'ambito della applicazione, ma solo una esplicitazione dell'oggetto, che risulta, tra l'altro, anche dai «considerando» della direttiva (nn.2, 7, 9, 18) e si è aggiunto che la dottrina ha già proposto una interpretazione estensiva dell'art.1469 bis, in cui si ricomprende ogni operazione economica conclusa dal consumatore con il professionista, e quindi, ad es., anche i regolamenti condominiali e di comunione collegati alla multiproprietà, la concessione di ipoteche, la fideiussione, l'opzione, i contratti unilaterali, le promesse, la vendita di beni usati (o d'occasione).
Sul secondo rilievo, applicandosi già l'art. 1370 c.c. sull’interpretatio contra proferentem, si precisa che l'interpretazione più favorevole per il consumatore non è quella che salva la clausola (assegnandole un significato più favorevole al consumatore) ma quella che consente di renderla inefficace.
Sul terzo rilievo si ritiene che l'applicazione dell'art.1469 quinquies comma 5 sia frutto di una svista del legislatore, che la dottrina ha già provveduto a superare proponendo una lettura estensiva, diretta a salvare gli interessi dei consumatori; si auspica, però, un intervento legislativo diretto a rimuovere l'errore.
Sul quarto rilievo si è ribadito che nel nostro ordinamento le semplici raccomandazioni delle associazioni di professionisti non sono giuridicamente vincolanti.
Sul quinto rilievo, il Governo si è soffermato soprattutto sulla interpretazione dell'art. 1469 sexies che ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali, di cui tra poco si dirà, alcuni restrittivi, altri estensivi, in ordine all'accertamento dei requisiti della domanda inibitoria; ha richiamato l'orientamento della dottrina, più favorevole alla interpretazione estensiva che tutela il consumatore. In ogni caso, ha sottolineato che una interpretazione restrittiva delle regole processuali che impedirebbero di effettuare un controllo preventivo delle clausole vessatorie sarebbe in contrasto con l'art.7 dir. e quindi inammissibile nel nostro ordinamento.
Il contenzioso con la Commissione non è finito qui. Il 18 dicembre 1998 la Commissione ha emesso un parere (parere motivato del 18 dicembre 1998 C (1998) 4050 def. (inedito).) nel quale si è sostenuto che l'Italia non ha recepito fedelmente la direttiva, e quindi ha invitato il nostro Paese ad adottare le misure necessarie per uniformarsi alle seguenti indicazioni:
- «applicare le disposizioni della detta direttiva all'insieme dei contratti conclusi tra un consumatore e un professionista»;
- «recepire l'art.5, terza frase, di detta direttiva»;
- «recepire integralmente l'art.6, par.2 di detta direttiva»;
- «recepire integralmente l'art.7 par.3 di detta direttiva».
1.6.Le prime applicazioni giurisprudenziali degli artt.1469 bis - sexies c.c.
Come si è accennato, nel primo triennio di applicazione della nuova disciplina la casistica è così modesta da apparire deludente e inspiegabilmente poco estesa quanto ai settori di intervento (Nel corso di un ciclo di seminari promossi dal commissario Emma Bonino e dall'esperta incaricata della organizzazione scientifica, Anna Bartolini, in collaborazione con l'ufficio italiano dell'Unione, ci siamo interrogati sulle ragioni di questo fenomeno (aa.vv., 1999m, a cura di a. Bartolini e della rappresentanza in Italia della Commissione europea, 1998-1999). Ai lavori hanno partecipato giuristi italiani, portoghesi e spagnoli.).
Innanzitutto ci si presenta uno iato immenso tra il numero delle pronunce che si sono via via raccolte negli ultimi decenni sugli artt.1341, 1342, 1370 del codice civile riguardanti le condizioni generali di contratto applicate tra tutti i soggetti contraenti (quindi, anche tra professionisti) e i pochi giudizi cautelari intentati dalle associazioni.
Poi, nella grande varietà di modelli contrattuali utilizzati (si è calcolato che nel nostro Paese circolino più di quarantamila testi), solo pochi sono i settori investiti dalla problematica, quali i contratti di assicurazione, i contratti bancari, i contratti di viaggio, i contratti di acquisto di autoveicoli, mentre sono rimasti indenni i contratti delle agenzie immobiliari per la compravendita di immobili, i contratti per l'erogazione dei servizi pubblici essenziali, etc.
I tempi stretti non hanno ancora consentito agli eventuali giudizi intentati di giungere al compimento del primo grado; si ignora, dunque, se vi siano giudizi pendenti. Qualche pronuncia tuttavia già si può segnalare.
Per quanto riguarda i procedimenti inibitori, si è delineato un contrasto tra le prime ordinanze, con cui si è ritenuto non sussistente il presupposto dell'urgenza (periculum in mora) e quelle successive, con cui altri tribunali hanno invece accolto le azioni inibitorie. Il contrasto sembra ora in fase di superamento con una interpretazione estensiva (e quindi più favorevole al consumatore) delle disposizioni di natura processuale. Ecco, comunque, i casi più salienti.
I casi Rover, Citroen, Fiat (acquisto di veicoli).
Tre ordinanze del Tribunale di Torino (Trib. Torino, (ord.) 4 ottobre 1996; Trib. Torino, ord. 16 agosto 1996; Trib. Torino, (ord.) 14 agosto 1996) hanno escluso la sussistenza dei presupposti dell'azione inibitoria ex art.1469 sexies c.c. Tutti i casi sono stati creati dal Comitato difesa dei consumatori, e sono stati promossi contro le società costruttrici di veicoli a cui risalgono le clausole contenute nei contratti di vendita utilizzati dai rispettivi concessionari. Le clausole sottoposte all'esame dei giudici erano ben tredici, ma i giudici non sono scesi all'esame ripartito del loro contenuto, in quanto si sono arrestati all'analisi dei presupposti processuali dell'azione inibitoria. In tutti i casi si è ritenuto che facesse difetto il pregiudizio concreto, verificabile con riferimento ad uno o più consumatori determinati. Questo riferimento è stato ritenuto necessario perché possa sussistere un pregiudizio effettivo ed immediato. L'argomentazione, peraltro criticata dalla dottrina, è stata utilizzata dalla Commissione Cee per inferirne la violazione da parte dell'Italia dell'obbligo di adempiere fedelmente le direttive comunitarie. Tuttavia, salvo il caso Siad, qui di seguito commentato, gli altri casi esprimono un orientamento opposto assunto da parte di altri giudici, e quindi si può affermare con sufficiente ragionevolezza che il testo del codice civile, pur laconico, non riduce la tutela assicurata dalla direttiva e quindi dalla disciplina di recepimento a favore dei consumatori.
Il caso Siremar (trasporto marittimo).
La questione, sollevata dalla associazione dei consumatori Adiconsum, riguardava la vessatorietà di una clausola contenuta nel modulo predisposto dalla Siremar, società p.a. in mano pubblica esercitante il trasporto marittimo. La clausola era così concepita: «se la società è costretta a sopprimere la partenza della nave ed il passeggero non intende avvalersi della facoltà di effettuare, ove ciò sia possibile, il viaggio con altra nave della società stessa, la quale parta successivamente, il contratto è risolto e la società è tenuta a restituire il prezzo versatole». L'associazione aveva richiesto in via di urgenza l'inibizione dell'uso della clausola in quanto vessatoria. Il Tribunale di Palermo (Trib. Palermo, (ord.) 3 marzo 1999) ha accolto il ricorso, ed ha ritenuto, tra l'altro, che l'espressione «costretta a sopprimere la partenza» non coincide con quella di causa imputabile o con un giustificato motivo; in più, ove il passeggero fosse stato costretto a partire successivamente, il contratto non prevedeva alcun risarcimento del danno da questo subìto. Se ne poteva ricavare una limitazione dei diritti del consumatore in caso di inadempimento, vietata dall'art.1469 bis n.2) c.c. Sono state superate, tra le altre, l'eccezione della società convenuta, che riteneva di non dover rispondere ai sensi della disciplina delle clausole vessatorie, in quanto società in mano pubblica esercitante un servizio di interesse generale, e l'eccezione che la limitazione di responsabilità aveva un effetto economico rilevante in quanto destinata a ridurre i costi e quindi a produrre vantaggi in capo al consumatore.
Il caso Daewoo. (acquisto di televisore).
L'attore era un consumatore che aveva acquistato dalla Daewoo Electronics Italia s.p.a. un televisore, rivelatosi poi non funzionante. Il Giudice di pace di Palermo (Giud. pace Palermo, 16 ottobre 1998, ined.; le sentenze e le ordinanze palermitane sono commentate da Palmigiano, in aa.vv.,1999n, 418 ss.) ha deciso in via definitiva che la clausola di limitazione della responsabilità e della garanzia fosse in contrasto con la nuova disciplina. La clausola escludeva «ogni diritto alla risoluzione del contratto di compravendita, alla riduzione del prezzo e al risarcimento dei danni» essendo altresì «espressamente esclusa (...) la responsabilità della ditta (...) per ogni altro danno comunque dipendente o connesso con la vendita del prodotto eventualmente difettoso».
Il caso Siad. (assicurazione contro furto e incendio).
L'attore aveva acquistato mediante leasing finanziario un autocarro che aveva assicurato con la Siad Assicurazioni s.p.a. contro il rischio di incendio e furto. Subìto il furto di lì a qualche mese, aveva ottenuto un indennizzo ridotto, rispetto al prezzo del veicolo, corrispondente, secondo la convenuta, al valore medio commerciale del momento. Il Tribunale di Savona ha ritenuto che la clausola di corresponsione dell'indennizzo al valore di acquisto, non essendo stata «sbarrata», non potesse avere effetto, in quanto non si poteva considerare clausola aggiuntiva, e quindi ha rigettato la domanda dell'attore (Trib. Savona, 2 marzo 1998, ined ).
Il caso Finemiro (credito al consumo).
Nella specie, si trattava di un finanziamento concesso all'attore da una società finanziaria, Finemiro s.p.a. finalizzato all'acquisto di apparecchiature di telesoccorso. Il rapporto è stato qualificato come di credito al consumo, ma il pretore adito (Pret. Bologna, 4 gennaio 1999) ha ritenuto che, in collegamento con la disciplina del t.u. bancario, si potessero anche applicare le disposizioni sulle clausole vessatorie. Ha rilevato quindi dal testo del contratto sottoscritto tra le parti che la merce oggetto di acquisto mediante finanziamento era indicata in maniera assolutamente generica e quindi ha dichiarato ex officio la nullità del contratto per indeterminatezza dell'oggetto.
Il caso A.B.I., Banca Popolare di Milano, Banca Fideuram (deposito bancario).
L'azione inibitoria era stata proposta dal Movimento federativo democratico ed aveva ad oggetto i contratti bancari di deposito, contenenti svariate clausole ritenute vessatorie dell'attore. Il Tribunale di Roma (Trib. Roma (ord.) 18 giugno 1998, ined.) ha ritenuto che non sussistesse il fumus boni iuris in quanto le clausole erano già passate al vaglio delle associazioni dei consumatori, che non implicavano gravi squilibri negoziali e che le clausole di deposito, riguardando una operazione semplice e facilmente comprensibile, avrebbero potuto consentire una diversa scelta del consumatore.
I casi del totocalcio e totogol. (concorso a premi).
L'Adiconsum aveva chiesto l'inibitoria di alcune clausole contenute nei regolamenti dei concorsi totocalcio e totogol perché dirette da un lato ad escludere la responsabilità del Coni (l'ente organizzatore dei concorsi) in caso di negligenza o di inadempimento, e dall'altro imponevano alla controparte la competenza esclusiva del foro di Roma per ogni controversia relativa alla partecipazione al concorso. Il Tribunale di Roma (Trib. Roma, (ord.) 2 agosto 1997) ha ammesso la legittimazione passiva del Coni, anche se i regolamenti erano stati predisposti dal Ministero delle finanze, ed ha qualificato il Coni come professionista, anche se il comitato ha natura pubblicistica, e il giocatore come consumatore, non essendovi limitazioni nella disciplina a questo proposito. Ha poi ritenuto che l'azione inibitoria potesse essere proposta in via di controllo preventivo medio tempore. Ha inoltre ritenuto prima facie abusive le clausole del regolamento che appongono decadenze in termini brevissimi per eventuali reclami e per la mancata tempestiva riscossione del premio, le clausole che escludono la responsabilità per la custodia delle matrici dei biglietti vincenti.
Un'ordinanza di pochi giorni successiva (Trib. Roma, ord. 22 agosto1997) ha invece escluso i motivi d'urgenza e quindi rigettato altra istanza di inibitoria per analoghe questioni in quanto tutte le clausole denunciate non ponevano "in pericolo beni della vita ovvero diritti di natura primaria dei consumatori che partecipano ai concorsi".
I casi Aeroviaggi.
Due ordinanze del Tribunale di Palermo (Rispettivamente Trib. Palermo, ord. 24 gennaio 1997, e Trib. Palermo, ord. 5 marzo 1997) hanno ammesso l'inibitoria dell'uso di clausole relative a contratti di viaggio turistico «tutto compreso», richiesta dalla associazione Adiconsum. L'una riguardava un contratto già concluso e parzialmente eseguito, l'altra condizioni in uso ma non ancora sottoscritte. Si trattava delle clausole relative alla perdita della somma data in acconto dal viaggiatore, in caso di recesso, senza previsione di misura reciproca e delle clausole relative alla deroga alla competenza territoriale.
Il contrasto giurisprudenziale ha dato luogo ad un ampio dibattito in cui si sono cimentati studiosi del diritto dei consumatori e del diritto processuale civile (Oltre alle monografie e alle voci enciclopediche cit. alla n. 6, su questo particolare aspetto v. Bin, 1996, 454; Cesaro, 1997, 41 ss.; Tarzia, 1997, 644; Montesano, 1997, ss.; Armone, 1997, I, 290; Consolo, 1997, 212; Libertini, 1997, 25 id., e 1996a, 222; Plaia, 1998, 575 ss; de Negri, 1998, 173 ss; Sacchettini, 1998, 63. Sulla proposta di direttiva generale sull'inibitoria v. Alpa, 1996l,IV, 153; Capponi, 1996, 571)..
Ove si ritenesse di risolvere la questione legittimamente, al di là di un intervento collettivo, si potrebbe cogliere l'occasione di redigere una integrale disciplina nel caso del recepimento della direttiva generale sulla inibitoria.
1.7. La legge generale sui diritti dei consumatori.
Occorre anche precisare che, con l'entrata in vigore della legge sui diritti dei consumatori (30 luglio 1998, n. 281) si sono introdotte alcune disposizioni che agevolano l'accesso alla giustizia dei consumatori (Alpa, 1999m, 60 ss.; de Nova, 1998a, 545; Briganti, (datt.)). L'art.3 comma 1 lett. a) conferisce la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori, le quali possono richiedere al giudice competente di «inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti». Inoltre, ai sensi del comma 2, le associazioni possono attivare, prima di adire il giudice, le procedure di conciliazione previste tra le nuove funzioni delle Camere di commercio. Il comma 6 dispone che "nei casi in cui ricorrano giusti motivi di urgenza, l'azione inibitoria si svolge a norma degli artt.669 bis e seguenti del codice di procedura civile, e si precisa che le azioni inibitorie non precludono il diritto ad azioni individuali dei consumatori che siano danneggiati dalle medesime violazioni (comma 7). La legge è stata seguita da un decreto ministeriale che ha predisposto il regolamento relativo alla registrazione delle associazioni a cui è conferita la legittimazione ad agire.
Il coordinamento della disciplina generale con la disciplina specifica prevista dal codice civile a proposito delle clausole abusive ha portato a qualche incertezza interpretativa, perché ci si chiede se la nuova disciplina generale abbia modificato quella speciale, che è ad essa anteriore, oppure se essa l'abbia lasciata in vigore. Il problema riguarda sopratutto il requisito della registrazione, mentre il codice civile non pone requisiti alle associazioni legittimate a promuovere l'inibitoria.
1.8. L’applicazione degli artt.1469 bis - sexies c.c. da parte dei professionisti e delle loro associazioni.
Come si è anticipato, i professionisti hanno accolto la nuova disciplina con fastidio, quasi si trattasse di una ulteriore limitazione autoritativa imposta alla loro libertà contrattuale, e non hanno considerato l'opportunità di offrire al pubblico dei consumatori prodotti emendati di qualità superiore e quindi concorrenziale. Alcune associazioni di categoria, come l'Abi, per i contratti bancari, e l'Ania, per i contratti assicurativi, hanno segnalato solo alcune delle clausole che più vistosamente appaiono lesive degli interessi dei consumatori. Ma l'elenco delle clausole vessatorie impiegate è molto lungo. Da questo punto di vista è encomiabile il parere del Comitato economico e sociale della Comunità che ha segnalato per tutti i Paesi dell'Unione più di quaranta clausole abusive inserite nei contratti di assicurazione e tuttora produttive di effetti lesivi degli interessi dei consumatori (E' il parere sul tema: «I consumatori nel mercato delle assicurazioni - Osservatorio del mercato interno», Bruxelles, 28-29 gennaio 1998, CES 116/98, in G.U.C.E., 30 marzo 1998, e in Alpa, 1999n, 537 ss.).
Resta quindi molto da fare per adeguare i contratti in uso alla direttiva.
1.9. Le autorità amministrative indipendenti e l’applicazione della direttiva.
Nel nostro ordinamento le autorità di vigilanza, come la Banca d'Italia per le imprese bancarie, la Consob per le imprese di investimento mobiliare, l'Isvap per i contratti di assicurazione, le nuove autorità sui servizi pubblici essenziali e sulle telecomunicazioni, l'autorità di vigilanza sulla concorrenza e sulla integrità dei mercati hanno conservato poteri - tra loro diversificati quanto alle tecniche di controllo e di incidenza - sui professionisti dei singoli settori in ordine alla redazione e alla utilizzazione di contratti conclusi con i consumatori. Nel corso di alcuni seminari (Le relazioni sono raccolte in aa.vv., 1996o) si è cercato di sensibilizzare le autorità, al fine di stimolare il loro intervento che, affiancandosi a quello della magistratura, potrebbe raggiungere quel risultato preventivo auspicato dalla dottrina, dalle associazioni e da quanti hanno a cuore gli interessi dei consumatori. I risultati sono, al momento, del tutto deludenti. Ci si chiede se la Commissione, mediante le formule di contatto con i singoli Governi, possa richiamare l'attenzione sulla opportunità di promuovere il controllo, in sede amministrativa (o paragiudiziale) anche attraverso questi canali.
1.10. Il ruolo delle camere di commercio.
La l. 29 dicembre 1993, n.580 ha disposto il «Riordino delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura». Nel dettare la nuova disciplina delle Camere di commercio, attribuendo loro nuove funzioni e competenze, il legislatore, per quanto riguarda il problema della tutela del consumatore nei riguardi delle clausole "abusive", si è indubbiamente mosso nell'ambito della direttiva Cee 93/13
Sono significative le norme dell'art. 2.4. e, specificamente, in materia di controllo sulle clausole inique, la lett. c) dello stesso comma.
Fra le competenze o funzioni attribuite (la norma è intitolata «Attribuzioni») quelle del comma 4, lett. a) b) c) riguardano proprio la materia oggetto della direttiva Cee, sia in genere sulla tutela dei "consumatori e degli utenti", sia in specie sulle clausole inique o abusive.
Le Camere di Commercio possono:
- «promuovere la costituzione di commissioni arbitrali o conciliative per le controversie, sia fra imprese, sia fra imprese e consumatori ed utenti» (lett. a);
- «predisporre e promuovere contratti - tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti» (lett. b);
- «promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti» (lett. c);
- «costituirsi parte civile nei giudizi relativi ai delitti contro l'economia pubblica, l'industria ed il commercio e promuovere azioni per la repressione della concorrenza sleale» (comma 5).
Particolarmente significativa è la funzione generale di controllo. L'attuazione di tali competenze, compresa la facoltà di promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie, non solo tra imprese ma, proprio per la materia in esame, fra imprese e «consumatori ed utenti» (lett. a del comma 4), consente alle Camere di Commercio di promuovere la tutela del «consumatore».
Le attribuzioni dimostrano, comunque, che il legislatore con la legge n. 580/93, di riordino delle Camere di commercio, non soltanto ha avuto presente la direttiva comunitaria, ma ha emanato norme di concreta ed effettiva attuazione, con facoltà persino più ampie rispetto alla direttiva stessa. Infatti è stato concepito un controllo più ampio rispetto alla direttiva stessa. Sia pure su un piano di natura amministrativa (rivolto alla sensibilizzazione più che alla repressione) non appare parimenti dubbio che l'indicata disciplina costituisca un'ampia e concreta attuazione anche della disposizione della direttiva (art.7) diretta alla prevenzione.
La legge sulle Camere di commercio si preoccupa, con le previste attribuzioni (art.2) di predisporre e promuovere contratti tipo (funzioni di controllo preventivo), e di evitare l'insorgere di liti.
Bisogna considerare, tuttavia, che il delineato sistema di «controlli» (sia preventivo, sia successivo) secondo la legge n. 580/93, costituisce una facoltà attribuita alle Camere di commercio, le quali «possono tra l'altro» (art. 2.4), «promuovere» ma, proprio per l'espressione usata dal legislatore, non hanno un obbligo cogente.
Avvalendosi delle nuove competenze, le Camere di commercio, già prima del recepimento della direttiva, hanno avviato un'attività di controllo delle clausole vessatorie; i risultati più apprezzabili si devono alla Camera di commercio di Milano, per tempismo, efficienza e lungimiranza, e all'Unioncamere, per la regia di coordinamento e di sprono per gli enti periferici che non hanno ancora manifestato la dovuta attenzione a questo settore di attività (l'attività della Camera di commercio di Milano è documentata bimestralmente dalla rivista Impresa e Stato; quella dell'Unioncamere dai bollettini istituzionali). L'Unioncamere ha anche predisposto un regolamento-tipo di conciliazione e arbitrato a cui le singole Camere possono uniformarsi per l'esercizio dell'attività.
1.11. Suggerimenti per il futuro.
Nel breve commento alla direttiva e alla disciplina italiana di recepimento, si sono evidenziati i problemi interpretativi a cui può dare luogo questa complessa disciplina. Salva la risoluzione del contenzioso con la Commissione da parte del Governo italiano, è auspicabile che il testo della direttiva sia perfezionato, là dove ancora appare equivoco. E' pur vero che dal confronto con le altre esperienze dei Paesi membri si possono trarre indicazioni utili anche ai fini interpretativi delle discipline di recepimento, ma è anche vero che, per i Paesi a forte vocazione scientifica ma a più modesta vocazione pratica, come il nostro, l'intervento della Comunità appare il mezzo più rapido, fattivo e indiscutibile a cui ci si può affidare.
Da questo punto di vista, si può segnalare al Parlamento e alla Commissione l'esigenza di proseguire nell'indirizzo legislativo - da poco innovato - con cui le direttive sono coordinate le une con le altre. In un ordinamento come quello comunitario che procede con interventi di settore, appare difficile risolvere i problemi di conflitti interpretativi tra direttive mediante i procedimenti ermeneutici invalsi nelle singole esperienze. La successione nel tempo delle direttive non è di per sé esaustivo della problematica, e neppure il rapporto tra direttive di carattere generale e direttive di carattere speciale. Certo, il coordinamento potrebbe essere effettuato nell'ambito dell'ordinamento interno, al momento del recepimento. Ma molti legislatori (tra i quali si può a buon diritto annoverare il legislatore italiano) non se ne curano.
Potrebbe essere risolutiva l'iniziativa già proposta da alcuni colleghi stranieri di procedere in sede comunitaria alla redazione di un testo coordinato di tutte le direttive che si preoccupano di tutelare il consumatore (v. le relazioni raccolte da Osman, aa.vv., 1998p). In questo senso, il processo di redazione di un testo unificato porterebbe a risultati assai più incisivi di quanto possa produrre un semplice coordinamento, non solo perché si eliminerebbero le anomalie normative, ma soprattutto perché si realizzerebbe un corpus di disposizioni tutte orientate verso il medesimo scopo. Per l'esperienza italiana si giungerebbe così ad includere nel testo unico alcune normative, oggi collocate in testi rivolti a disciplinare altri rapporti e a tutelare altri interessi, e a farle convivere con le altre discipline di tutela del consumatore, recuperando per loro il terreno per così dire «naturale» di radicamento. E' il caso, per quanto ci riguarda, della disciplina del credito al consumo, inserita nel testo unico bancario.
Infine - ma molti altri potrebbero essere i suggerimenti - occorre richiamare l'attenzione della Comunità sull'esigenza di completare in tempi rapidi la disciplina dei settori quali le garanzie nelle vendite, la responsabilità per i servizi, le vendite telematiche, che ancora attendono il suo intervento.
In ogni caso, val la pena di sottolineare che il settore dei servizi e soprattutto quello del risparmio (o come si dice dei "servizi finanziari") appaiono ancora i più sguarniti di tutela.
2. Il modello inglese.
2.1. Punti di contatto e di differenziazione.
I due modelli posti a confronto presentano alcuni punti di contatto ed altri tra loro divergenti. Un primo punto di contatto tra i due modelli è dato dal fatto che in entrambi gli ordinamenti esisteva già, prima del recepimento, una disciplina delle clausole abusive. Si pensi, per il Regno Unito, all’ Unfair Contract Terms Act del 1977 (UCTA) , e, per l’ Italia, alle disposizioni contenute nel codice civile del 1942, tuttora vigenti (artt. 1229, 1341, 1342, 1370).
In entrambi i Paesi la direttiva non ha introdotto ex abrupto materie ignorate nei due ordinamenti. Se così fosse stato, il compito dei giuristi sarebbe risultato assai più agevole. Sarebbe bastato ricopiare il testo della direttiva con qualche adattamento al diritto interno. Nell’esperienza italiana è’ stato più facile provvedere alla attuazione di molte direttive sulla protezione del consumatore, come le direttive sulle vendite “door to door”, sul “distant selling”, sul”commercial advertising”, e così via, che hanno riguardato materie del tutto ignorate dall’ordinamento italiano.
La direttiva sulle “unfair clauses” , invece, ha introdotto regole che si sono aggiunte alle regole già esistenti, e per certi aspetti si sono sovrapposte ad esse. : Le regole della direttiva , infatti, in parte estendono l’area di controllo delle clausole già prevista nei due sistemi, in parte la restringono.
Sinteticamente, si può dire che sia in Italia sia nel Regno Unito le regole preesistenti non sono dedicate esclusivamente ai contratti dei consumatori., ma riguardano tutti i contratti , essendo indifferente lo status delle parti.
L’ UCTA colpisce in particolare le clausole di esclusione o di limitazione della responsabilità.
Il codice civile italiano colpisce solo le clausole contenute in contratti predisposti da una parte e accettate dall’altra. Particolarmente innovativo, se si considera il periodo in cui le regole furono introdotte (cioè il 1942), il codice civile considera prive di effetto , se non sono state sottoscritte dalla parte aderente una per una , le clausole di esonero o di limitazione della responsabilità, le clausole riguardanti il recesso dal contratto, decadenze, limitazioni di proporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale con i terzi, e clausole relative alla giurisdizione. Le clausole aventi altro contenuto hanno effetto se la parte aderente le aveva conosciuto o avrebbe potuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. Le clausole oscure sono interpretate a favore della parte aderente, in base al principio interpretatio contra proferentem.
Il controllo effettuato dell’ UCTA quindi – anche se limitato in un’area più circoscritta – è certamente più efficace, perché non si ferma alle formalità della sottoscrizione, e tanto meno accolla alla parte aderente l’onere di conoscere le clausole predisposte.
Per attuare la direttiva nel Regno Unito si è proceduto con uno “statutory instrument”, del 1994, poi modificato nel 1999. In Italia si è proceduto mediante una legge approvata dal Parlamento nel 1996; questa legge non è uno statute di natura speciale, ma è una legge con cui si è modificato il codice civile introducendovi nuovi articoli (1469 bis-sexies).
In entrambi i casi non si sono previste regole di coordinamento con la disciplina già esistente. Questa scelta ha creato problemi, perché l’interprete di volta in volta deve capire quali regole si applichino, che rapporti vi siano tra la vecchia e la nuova disciplina, e se la nuova disciplina possa avere qualche effetto sulla applicazione o sulla interpretazione di quella già esistente.
Nel Regno Unito il problema è in corso di risoluzione. E’ uno dei compiti che si è sobbarcata la Law Commission unitamente alla Scottish Law Commission. Il lavoro svolto,accessibile anche nel website della Law Commission, è impressionante, estremamente accurato e interessante non solo dal punto di vista tecnico, ma anche dal punto di vista comparatistico. Ai nostri occhi sembra prodigioso anche perché i giuristi che vi si sono applicati, coordinati dal prof. Hugh Beale, erano in un numero assai ristretto. Le due Commissions non si sono preoccupate solo di esaminare gli effetti della direttiva, ma anche di verificare ciò che è accaduto in altre esperienze straniere, sulla base di alcune ricerche già svolte (in particolare da Simon Whittaker) e sulla base di ricerche svolte da professori stranieri.
I giuristi italiani sono molto sensibili alla comparazione, che non è un metodo riservato solo agli accademici, essendo spesso anche i pratici coinvolti in ricerche e interessati a quanto succede fuori dei confini nazionali. L’acquisizione delle esperienze straniere non è inusuale da parte del Parlamento italiano, che vi ricorre prima di varare grandi riforme. Ma così non è stato per la disciplina delle clausole vessatorie. In questa occasione a comparazione si è limitata alle palestre accademiche e non ha purtroppo coinvolto gli organi legislativi.
Il lavoro delle due Commissions appare interessante anche da un altro punto di vista. Esse si sono preoccupate di capire quali vantaggi e quali svantaggi avrebbe procurato la unificazione delle due discipline, dell’UCTA e delle Regulations, se applicate a tutti i contratti, compresi quindi i contratti conclusi tra professionisti.
Questo è un tema che non ha ancora riscosso particolare attenzione nel diritto italiano, ed è forse questa la ragione per cui le aree di comparazione esaminate dalla Commissione non si sono estese anche al sistema italiano. L’unico argomento che ha aperto qualche discussione è stata l’approvazione di una legge sulla subfornitura in cui si prevede un controllo delle clausole sull’abuso di potere contrattuale della parte committente.
Per tornare alla sovrapposizione delle regole nuove alle regole preesistenti, la questione è rimasta aperta. Nel 1994, ad un anno dalla approvazione della direttiva, il Governo Ciampi aveva istituito un gruppo di lavoro,di cui facevo parte, per proporre al Parlamento un testo di attuazione della direttiva. Tra gli altri aspetti considerati il gruppo di lavoro si era fatto carico anche di questo problema. Ma il Governo cadde prima che il progetto fosse sottoposto al Parlamento. Così il Parlamento ha proceduto autonomamente, la legge è stata discussa in aula, con molti emendamenti. E quando la legge fu discussa e poi approvata, i problemi erano già fin troppo numerosi da consentire di aggiungervi anche questo.
Sicché oggi la sua soluzione è affidata al singolo giudice che sia investito della questione. Spetta quindi al giudice di volta in volta trovare la soluzione più adeguata, sempre nell’osservanza della legge.Non vi sono, allo stato, progetti di riforma in cantiere.
2.2. Il tipo di controllo.
Un altro punto di contatto tra le due esperienze è dato dalle tecniche di controllo delle clausole abusive.
Il tipo di controllo introdotto dalla direttiva e seguito nei due Paesi è, fondamentalmente, di natura giudiziale. Le nuove regole sono applicate dal giudice, nel momento successivo alla utilizzazione delle clausole. Tuttavia nei due Paesi si prevede la possibilità di inibire l’uso delle clausole ed è in vigore anche un controllo di tipo stragiudiziale.
Molto più articolato ed efficace è il sistema inglese, che affida al Director General dell’ Office of Fair Trading (OFT) il controllo delle clausole utilizzate. Il Director General (insieme ad altre Authorities e alla Associazione dei consumatori) non ha solo il potere di rivolgersi al giudice per far dichiarare priva di effetti una clausola ritenuta abusiva (il caso First National Bank è assai istruttivo da questo punto di vista). Ha anche il compito di esaminare le clausole utilizzate e svolgere un’opera di moral suasion per invitare i professionisti ad espungerle dai loro contratti, se sono ritenute vessatorie.
Il lavoro svolto dall’ OFT è impressionante: esso è accessibile sul website, da cui emergono le “guide” per i professionisti, i casi esaminati, ogni altro suggerimento fornito a chi utilizzi o intenda utilizzare le clausole. E’ quindi un controllo che previene molte controversie che altrimenti graverebbero sui tribunali, con dispendio di tempo e di danaro.
In Italia nessuna delle Autorità indipendenti ha poteri di iniziativa giudiziaria per inibire l’suo di clausole vessatorie da parte degli operatori. Questo potere (ex art. 1469 sexies) è riservato alle associazioni di consumatori e di professionisti e alle Camere di commercio.
Alcune Autorità hanno però assunto iniziative utili al riguardo.
Ad esempio, la Banca d’Italia,per i contratti bancari e l’ Istituto di vigilanza sulle assicurazioni (ISVAP) per i contratti di assicurazione hanno affrontato il problema delle clausole abusive, in modi assai complicati che non è il caso di descrivere in questo momento, ma gli effetti sono stati assai modesti Più significativi sono stati i risultati ottenuti da queste Autorità attraverso l’introduzione di regole . sulla trasparenza dei contratti con i clienti (sia professionisti che consumatori).
Qualche risultato più consistente è stato raggiunto dagli accordi (c.d. protocolli d’intesa) siglati da alcune associazioni di professionisti con le associazioni dei consumatori. Ne sono esempio un protocollo siglato nel settore assicurativo e l’avvio della trattativa per siglare analogo protocollo nel settore bancario.
Ma il giurista italiano non può che apprezzare il modo di affrontare il problema del controllo da parte dell’ OFT. Per questo nelle prossime occasioni presenterò alcune proposte in questo senso perché anche in Italia si possa affidare all’ Autorità simile all’ OFT (l’Autorità antitrust) competenze analoghe.
2.3. L’elaborazione teorica.
Uno dei punti di maggior distanza tra le due esperienze riguarda invece la vastità delle ricerche e delle pubblicazioni che si sono effettuate in Italia, rispetto al numero – certo non trascurabile, ma molto più ridotto – dei contributi che si sono registrati fino ad oggi nell’esperienza inglese. E’ impressionante la massa di contributi che i giuristi italiani hanno prodotto in questo decennio: trattati, commentari, monografie, saggi, note a sentenza, relazioni a convegni, si sono susseguiti fino ad oggi, e potrebbero riempire pagine e pagine di una rassegna bibliografica. Se posso fare un riferimento personale, insieme con altri Colleghi abbiamo pubblicato un libro nel 1996 sui problemi di attuazione della direttiva, di circa 700 pagine; due volumi nel 1997 sulla disciplina di attuazione, di circa 1400 pagine; un commentario alla disciplina di attuazione nel 2003, di circa 1200 pagine. Ciascuno di questi volumi contiene ricerche comparatistiche, in cui si è dato ampio risalto al sistema inglese. Contrariamente alle apparenze, questa immensa produzione non è l’effetto di grafomania, ma piuttosto del fatto che la direttiva sulle clausole abusive (al pari della direttiva n. 99/44/CE sulle garanzie nella vendita) investe temi di straordinaria importanza per la disciplina del contratto, che è un istituto vitale nel diritto civile italiano. In più coinvolge profili di natura economica assai rilevanti, se si tiene conto che, secondo le stime delle Camere di commercio, i formulari contrattuali oggi circolanti nel nostro Paese per la vendita di beni e servizi sono più di 40.000.
2.4. La terminologia.
Ma veniamo ai problemi che interessano maggiormente i giuristi, che riguardano la terminologia e i concetti.
E cominciamo dalla qualificazione delle clausole.
La versione in lingua inglese della direttiva ha conservato la stessa espressione che già usava l’ UCTA, ha cioè qualificato le clausole che si vogliono colpire con il termine “ unfair”.
In Italia le regole di attuazione usano la medesima espressione che i giudici usano per le clausole assoggettate al controllo delle regole preesistenti; si parla cioè di clasuole “vessatorie”. La versione in lingua italiana della direttiva usa un’altra qualificazione, e definisce queste clausole come “abusive”.Si tratta della traduzione letterale dell’espressione francese di “clauses abusives”. Perché questo cambiamento? Il Parlamento ha preferito uniformare la terminologia della disciplina di attuazione a quella già invalsa nella interpretazione del codice civile. Non si tratta solo di un’operazione di semplificazione, ma anche di una operazione concettuale, perché nel nostro ordinamento – a differenza di quanto accade, ad esempio per l’esperienza francese – è stato bandita la figura dell’ “abuso del diritto”.
Il problema però si è risolto praticamente, sicché nonostante le nuove regole del codice facciano impiego del termine di clausole “vessatorie”, gli accademici e i pratici usano i due termini indifferentemente.
Di ben altra portata è stata l’utilizzazione della nozione di “buona fede”.
I problemi che si sono aperti in Italia non hanno riguardato – come è accaduto per l’esperienza inglese – l’espressione “buona fede” in sé e per sé considerata. Come dirò tra poco la tradizione giuridica italiana vanta una familiarità molto risalente nel tempo con la “buona fede”, ora considerata come una “clausole generale”, ora considerata come un “principio generale del diritto”.Nella nostra esperienza si è piuttosto trattato di un problema di formulazione della disposizione in cui è prevista l’ espressione “buona fede” .
2.5.Il problema della “buona fede” .
Per un comico errore imputabile ai traduttori degli uffici di Bruxelles il testo italiano della direttiva suona in modo opposto al testo inglese (così come al testo francese e al testo tedesco). Anziché dire che la clausola è vessatoria quando è contraria alla buona fede – “contrary to the requirement of good faith”, suona l’art.3 della direttiva, ripreso letteralmente dall’art. 5 delle Regulations - la versione italiana dice “malgrado il requisito della buona fede”, cioè nonostante la buona fede. Il risultato è l’esatto contrario della formulazione della direttiva. Questo errore non è stato corretto dal legislatore italiano in sede di attuazione ed è penetrato nel codice civile.
Poco male, perché tutti i commentatori si sono accorti dell’errore, anche se qualcuno – compreso qualche giudice - ha ritenuto che invece il testo fosse corretto.
Si è trattato di un errore che la Commissione europea non ha ritenuto particolarmente rilevante, e non vi sono state obiezioni sulla corretta attuazione della direttiva su questo punto. Le obiezioni sollevate – che hanno portato ad un doppio intervento del legislatore per modificare il testo inesatto e poi ad una sentenza di condanna della Corte di Giustizia (sez.V, 24.1.2002, n. C-372/99) – sono state altre. Hanno riguardato l’ambito di applicazione della direttiva , il collegamento tra interpretazione contra proferentem e inibizione della clausola vessatoria, la semplice “raccomandazione” dell’uso di clausole che era stata ignorata dal legislatore italiano.
Più seri sono gli altri problemi interpretativi posti dalla buona fede, in connessione con il secondo criterio di controllo, il “significativo squilibrio” .
Ci si è chiesti perciò:
(i) se la buona fede debba essere intesa in senso soggettivo o piuttosto in senso oggettivo (come ritengo);
(ii) se la contrarietà alla buona fede sia criterio additivo, rispetto allo squilibrio, oppure sia rafforzativo, oppure ancora sia enfatico, essendo implicito allo squilibrio l'essere la clausola contraria a correttezza;
(iii) se lo squilibrio «significativo» (espressione ripresa letteralmente dal testo italiano della direttiva) debba considerarsi come sinonimo di «grave» o di «eccessivo» o di «rilevante» o di «non irrilevante».
E' chiaro che si è in presenza di una doppia clausola generale (buona fede + significativo squilibrio) che consente al giudice di formarsi una valutazione tenendo conto anche di altri fattori, relativi all'oggetto, alle circostanze, alle altre previsioni contrattuali: l'art.4 comma 1 della direttiva corrisponde all'art.1469 ter comma 1.del codice civile.
Ora, come accennavo, alcune sentenze, anche di particolare rilevanza, perché riferite alle clausole vessatorie contenute nei contratti bancari, hanno ritenuto che la “buona fede” debba intendersi in senso soggettivo, cioè debba essere riferita al professionista, al suo stato d’animo, alle sue intenzioni, al suo modo di comportarsi, anziché riferirla alla correttezza che le parti debbono osservare nell’adempimento delle obbligazioni. Questa diversa interpretazione della buona fede non ha però ristretto l’applicazione della disciplina.
2.6.“Buona fede”, “good faith”, “fairness”.
Il significato della “buona fede” in senso oggettivo non ha invece destato problemi particolari. Ciò perché oggi nella cultura italiana la “buona fede” è sinonimo di lealtà, correttezza, e quindi ha un significato molto vicino alla nozione inglese di fairness.
Ecco perché è parsa curiosa al giurista italiano la reazione vivace e criticamente molto negativa che i giuristi inglesi hanno manifestato nei confronti del testo della direttiva e delle Regulations che hanno introdotto questa nozione nell’ordinamento inglese.
In modo un po’ semplicistico ci si potrebbe chiedere perché nelle Regulations si è voluto conservare questa nozione, potendo essere soppressa, come si è fatto, ad esempio in Francia, senza alterare il significato della disposizione e senza ridurre i poteri del giudice, che ha pur sempre a disposizione l’altro criterio, dello “squilibrio significativo” per colpire la clausola vessatoria.
Poi, ci si potrebbe chiedere se sia proprio vero che i giuristi inglesi non usano la buona fede (visto che ormai sono molti i saggi o addirittura le monografie dedicate a questa nozione).
E non si è capito perché l’introduzione della buona fede – al di là delle critiche relative ad una nozione asseritamene sconosciuta, al di là del timore di uno strumento di incerto contenuto – sia stata intesa come una concessione alla cultura continentale.
Non vi è stata la medesima reazione in Italia quando, sempre per effetto della attuazione delle direttive comunitarie, si è cominciato ad introdurre nel codice civile o negli statutes il criterio della “reasonableness”, tipico della cultura inglese, del tutto ignorato nei testi normativi. In fin dei conti, questo si può considerare un risultato della circolazione delle nozioni dovuta alla armonizzazione del diritto comunitario e agli effetti che il diritto comunitario produce, direttamente o indirettamente, sul diritto interno.
Ed è sembrato anacronistico attribuire alla tradizione del diritto romano questo concetto, come ha fatto qualche Autore. All’epoca dei Romani (a quanto si può capire dai testi) esso aveva un significato del tutto diverso, perché riferito al iudicium bonae fidei oppure al possesso.
Molti giuristi italiani – ed io con loro - ritengono che non vi sia una perfetta continuità nella tradizione giuridica dal diritto romano al diritto medievale al diritto moderno. Certo, molti termini e molte nozioni sono rimaste inalterate, alcune sono penetrate addirittura nel linguaggio normativo attraverso i codici, altre si sono sovrapposte ai codici ed hanno mantenuto la loro vitalità. Ma la maggior parte degli studiosi di diritto civile ritiene che le codificazioni abbiano rappresentato una frattura con il passato. E questo credo si possa dire anche della nozione di buona fede.
E’ vero che “buona fede” è la traduzione letterale del latino bona fides. Ma i giuristi sanno che dietro medesime espressioni lessicali si nascondono trasformazioni dei loro significati. Come è accaduto, ad esempio, per il termine “libro” (lat.liber) che all’epoca dei Romani era un rotolo di papiro o una tavoletta spalmata di cera, ed oggi ha un supporto cartaceo o addirittura è formato da algoritmi trasmessi mediante impulsi sul computer.
Ora, ricostruendo in modo molto rapido la storia della buona fede come appare nei codici civili, si può notare che essa viene inserita (come bonne foi ) nel Code Napoléon all’art. 1134. Successivamente essa è trapiantata nei codici continentali, compresi i codici italiani anteriori all’Unità politica del nostro Paese, poi nel codice italiano unitario del 1865 e poi ancora nel codice italiano vigente.dal 1942.
Tutte queste disposizioni riguardavano fino al 1942 l’ esecuzione del contratto (il Code Napoléon parla di esecuzione delle conventions).Nel codice italiano del 1942 si è dato un grande risalto alla buona fede, che ora riguarda in generale l’adempimento delle obbligazioni (art.1175, dove la buona fede è però denominata “correttezza”, nozione che si avvicina alla fairness inglese), il comportamento delle parti nel corso della negoziazione del contratto (art.1337), l’interpretazione del contratto (art.1366),e l’esecuzione del contratto (art.1375). Il contratto inoltre può essere integrato – al di là di ciò che le parti avevano voluto – secondo la legge, gli usi e l’ equità (art.1374).
Ogni codice ha la sua storia, e la clausola di “buona fede” segue la storia di ogni codice. Non si può quindi fare un discorso generico sulla buona fede nell’ Europa continentale senza tener conto degli accidenti della storia (giuridica).
In ogni caso, la buona fede è rimasta un concetto vago.
I redattori del Code Napoléon non si sono dilungati sul suo significato. Ma andando un po’ indietro negli anni, possiamo notare che Pothier, a cui si ispirarono i redattori del Code Napoléon, la trascura. E’ più presente in Domat, il giurista amico di Pascal, che visse nella seconda metà del Seicento . Nelle sue Loix civiles Domat usa la buona fede come sinonimo di “equità” (equité ). Il termine è interpretato in modi diversi. Vi è chi ritiene che Domat, ben consapevole del diritto romano, lo usasse secondo il significato romano, contrapposto allo strictum ius. Vi è chi ritiene che, volendo Domat uniformare le leggi civili alle leggi di natura, il termine alludesse semplicemente alla osservanza della legge, nel senso che le convenzioni (i “contratti”, diremmo oggi) debbono essere rispettate e adempiute dai contraenti perché esse “hanno forza di legge tra le parti”, sono come leggi di natura privata la cui forza vincolante non può essere dubbia. Vi è chi ritiene – ed io sono tra questi - che Domat volesse sottolineare anche che le parti si debbono comportare correttamente nell’adempimento dei contratti (pacta sunt serranda) . In altri termini, chi ha dato la sua parola la deve osservare scrupolosamente, perché questa è una regola di convivenza civile.
E’ da notare però che in questo la buona fede non investe il problema del contratto “giusto”, “equo”, che tanto ha preoccupato i giuristi medievali, che hanno subito l’influenza dei valori cristiani e del diritto canonico.
Questo breve e semplicistico excursus mi sembra utile per sottolineare che l’indagine storica aiuta il giurista a capire come sia sorta e come si sia evoluta la nozione di buona fede.
Ebbene, in Italia dall’ Ottocento ad oggi, la buona fede nei contratti ha avuto una incidenza diversa a seconda dei periodi. Vi sono stati periodi n cui aveva una maggior presa sul giudice, altri in cui è stata messa da parte. Possiamo registrare un revival della buona fede agli inizi degli anni Settanta del Novecento. Da questa data la clausola generale di buona fede – o il principio di buona fede – è servita per mitigare le pretese del creditore, per imporre obblighi collaterali alle parti, per misurare lo sforzo che si può pretendere dal debitore nell’esecuzione della prestazione.
“Buona fede” e “correttezza” sono ormai usate indifferentemente.
Anche storicamente mi pare quindi che si possa giustificare –almeno dal punto di vista del diritto italiano - l’ opinione che la buona fede usata dal testo della direttiva - e riprodotta in alcuni testi di attuazione della direttiva alluda alla “correttezza”, cioè alla fairness.
Mi pare dunque che si debba accogliere con favore la soluzione adottata dalla House of Lords – nelle parole di Lord Bingham – a proposito della buona fede da applicarsi nel caso First Int.l Bank. Sul punto si tornerà tra poco.
i) Il problema dell’ambito di applicabilità della direttiva: si debbono considerare solo i contratti conclusi dal consumatore o si può estendere l’ambito di applicazione anche ai contratti conclusi tra professionisti?
Un altro punto di contatto tra le due esperienze è dato dall’ambito di operatività della direttiva.
L'art.2 lett. b) della direttiva definisce il consumatore come «persona fisica». Allo stesso modo l’art. 3 delle Regulations definiscono il consumatore come “natural person”.
Il legislatore italiano ha ripetuto la medesima formula all’art. 1469 bis del codice civile, restringendo perciò l'ambito di applicazione della disciplina di recepimento ai soli contratti in cui la controparte del professionista è il consumatore individuale che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale.
In Italia, questa restrizione è stata oggetto di ampia dibattito. Già discutendo il testo della direttiva, prima del suo recepimento, alcuni Autori avevano proposto di estendere la tutela ai soggetti collettivi che non svolgono attività di lucro, ai piccoli imprenditori, ai contratti di uso misto.
Le esperienze degli altri Paesi Membri sono state oggetto di attenta osservazione.
La scelta del legislatore italiano di circoscrivere la portata della disciplina solo al consumatore /persona fisica è stata criticata.
Nella case law si è registrata qualche oscillazione.
Nel timore di sbagliare, in due occasioni i giudici hanno sottoposto la questione alla Corte costituzionale, ritenendo che l’interpretazione restrittiva potesse essere in contrasto con il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione italiana (art. 3 c.1). In entrambi i casi si trattava di contratti conclusi tra professionisti.
Nel primo caso la Corte ha ritenuto per ragioni processuali inammissibile il ricorso.
Nel secondo caso è scesa a considerare il merito ed ha ritenuto la questione non fondata (Corte cost. 469/02). Ciò per diverse ragioni. Innanzitutto perché la nozione di “persona fisica” è ripetuta in tutte le direttive che tutelano il consumatore, e quindi la scelta del legislatore è parsa coerente al sistema di protezione del consumatore perseguito dal diritto comunitario. Poi perché questa restrizione è parsa “ragionevole”, essendo più agevole ritenere che il consumatore/persona fisica sia la parte “debole” del rapporto. Infine – ma questo lo si può supporre, dal momento che il testo della sentenza non lo dice espressamente – se la Corte si fosse espressa a favore della interpretazione più estesa, si sarebbe posta in contrasto con l’orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea che in alcune occasioni ha precisato che l’interpretazione corretta è quella restrittiva.
E’ interessante però notare che quasi nessun Autore, certamente nessun giudice e neppure la Corte costituzionale ha collegato la disciplina delle clausole abusive ad uno degli scopi perseguiti dal diritto comunitario in questo settore, cioè alla tutela della concorrenza.
Diverso è stato invece l’orientamento dei giudici inglesi. Ancora il caso First National Bank e le parole di Lord Bingham sono istruttivi al riguardo.Questo è un altro punto di divergenza tra i due sistemi a confronto. E sarebbe opportuno un maggior approfondimento della materia da parte dei giuristi italiani.
2.7. L’elenco delle clausole.
Uno degli aspetti di maggior divergenza tra il modello italiano e quello inglese riguarda l’ elenco (indicativo) delle clausole vessatorie.
Il modello inglese riprende il testo della direttiva, che pone l’elenco in appendice.
Il modello italiano invece ha inserito l’elenco nel testo del codice civile. Ha distinto tre tipi di clausole:
(i) le clausole che comunque si presumono vessatorie, senza onere della prova da parte del consumatore ( si tratta delle clausole di esonero dalla responsabilità per i danni alla persona) ;
(ii) le clausole che si presumono vessatorie ma il professionista può dare prova contraria (si tratta di tutte le altre clausole inserite nell’allegato della direttiva);
(iii) ogni altra clausola che possa essere qualificata come vessatoria se il consumatore dimostri che essa è contraria a buona fede e implica uno squilibrio significativo.
3. La riforma in Inghilterra
Ben prima che l’allora Comunità Economica Europea approvasse la direttiva n. 13/93 sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori il Regno Unito si era dotato di una disciplina articolata delle clausole di limitazione o di esclusione della responsabilità (UCTA,Unfair Contract Terms Act, 1977). Lo statute – attualmente ancora vigente – è rivolto alla protezione del contraente che, per l’acquisizione di beni o servizi, sia richiesto dalla controparte di sottoscrivere moduli o formulari da questa predisposti. L’ambito di applicazione dello statute è indifferente rispetto allo status delle parti, e si applica pertanto sia ai contratti tra professionisti e consumatori, sia ai contratti tra professionisti, sia ai contratti tra consumatori (per una sintetica analisi della disciplina v. Alpa e Delfino, 1997, 86 ss.).
La direttiva comunitaria è stata attuata non mediante uno statute ma mediante regulations, cioè fonti normative di grado inferiore, in ogni caso in conformità alle regole comunitarie concernenti l’attuazione delle direttive negli ordinamenti degli Stati Membri. Il testo (UTCCR, Unfair Terms in Consumer Contract Regulations, 1994) riprende quasi letteralmente la disciplina comunitaria, e presenta dunque una duplice differenza rispetto all’ UCTA: il suo ambito di applicazione è più vasto, dal punto di vista dei contenuti, perché si estende a tutte le clausole qualificate come unfair, e quindi non è circoscritto alle clausole concernenti la responsabilità, mentre appare più ristretto, dal punto di vista dello status dei contraenti, perché riguarda esclusivamente i contratti conclusi dai professionisti con i consumatori.
Si è pertanto creata una situazione di overlapping, cioè di sovrapposizione tra i detesti normativi, che il legislatore non ha eliminato, neppure in occasione delle modifiche alle Regulations intervenute nel 1999 e nel 2001. Del problema è stata quindi investita la Law Commission, l’organo consultivo del Parlamento, per il diritto dell’ Inghilterra e del Galles, ma se ne è occupata anche la Scottish Law Commission, per il diritto scozzese. Le due Commissioni hanno lavorato separatamente, elaborando osservazioni e proposte assai approfondite e corredate da commenti alle principali esperienze straniere, tra le quali tuttavia non è stata inclusa quella italiana (sul punto v. ora Nicolini, 2004, 231 ss.; e già Alpa, 2003o, 165 ss.).
Il tema è di notevole interesse anche per i giuristi italiani, dal momento che anche presso di noi il coordinamento tra la disciplina degli artt. 1341-1342 e 1370 cod.civ. con gli artt. 1469 bis-sexies cod.civ. non è agevole.
La Law Commission inglese e la Law Commission scozzese hanno ora predisposto un documento congiunto per accertare e solvere i problemi posti dalle differenze di disciplina recata dall’ UCTA e dalle Regulations con l’intento di dettare regole uniformi per tutti i contratti dei consumatori.
Le scelte di base consistevano o nel mantenere in vita le regole circoscritte alla limitazione o esclusione della responsabilità ai soli contratti B2B, oppure estendere la disciplina di protezione delle Regulations a tutti i contratti. Poiché, per opinione condivisa dei componenti delle due Commissioni, la distinzione delle clausole secondo il loro contenuto avrebbe potuto comportare problemi interpretativi, la scelta è consistita nel non porre preclusioni al tipo di clausole investite dal controllo.
Allo stesso modo si è proposto di eliminare la distinzione tra clausole negoziate e non negoziate nei contratti dei consumatori (Beale, 2004, 289 ss.) e la distinzione tra contratti domestici e contratti transfrontalieri, che valeva per l’ UCTA.
Quanto alla valutazione della vessatorietà delle clausole, l’UCTA e le Regulations hanno approcci differenti. Le Regulations, traducendo letteralmente il testo della direttiva n. 13/93, hanno adottato una formula piuttosto ampia ed elastica, in quanto fanno riferimento alla natura dei beni o dei servizi oggetto del contratto, alle modalità temporali e di comportamento della conclusione del contratto,nonché alle altre clausole del contratto o ai contratti con questo collegati.
Le due Commissioni hanno invece suggerito di adottare un metodi diverso di valutazione, nella convinzione che una direttiva comunitaria sia attuata puntualmente se la si “traduce” nel diritto interno in modo sostanziale anche senza doverne ricopiare letteralmente il testo.
Riportandosi alla vecchia disciplina, le due Commissioni hanno proposto di far ricorso ai criteri di valutazione della fairness della clausola che distingue tra fattori concernenti l’oggetto e l’effetto della clausola, fattori che riguardano le circostanze della sua creazione, il livello di comprensione, e indici espressivi della disparità di potere contrattuale tra le parti. Questo suggerimento tuttavia non è parso apprezzabile all’ Office of Fair Trading (OFT), che ha espresso invece maggior favore per la formula adottata dalla direttiva comunitaria e tradotta nelle Regulations.
Un’altra scelta difficile riguardava la individuazione delle clausole che identificano l’ “oggetto “ del contratto – che nella terminologia usata dai giuristi di common law assume ora il significato di core of contract – e le clausole che riguardano il prezzo. La direttiva sottrae queste categorie di clausole al controllo di vessatorietà. In un caso che ha visto protagonisti l’OFT e la First National Bank (2001 UKHL 52; 2002 1 AC 481) sia i giudici della Court of Appeal sia i giudici della House of Lords hanno stabilito che rientrano nella categoria delle clausole identificative dell’ oggetto del contratto solo quelle clausole che definiscono i diritti e gli obblighi delle parti nella esecuzione del contratto.
Tenendo conto di questo insegnamento, le due Commissioni hanno proposto di verificare, sempre ai fini della inclusione (o esclusione) del controllo di vessatorietà, il modo in cui la clausola è presentata al consumatore.
Quanto alla inclusione o meno della lista di clausole presuntivamente vessatorie, le due Commissioni– pur consapevoli della non vincolatività della direttiva in questo senso (come ha stabilito la Corte di Giustizia nella controversia relativa alla attuazione della direttiva in Svezia, C-478/99, 2002, in ECR I-4147) – suggeriscono di inserire nella lista tutte le clausole che l’OFT ha già qualificato come vessatorie.
Le Commissioni suggeriscono pure di abbandonare la clausola generale di buona fede, che è stata comunque intesa dalla House of Lords nel caso First National Bank nel suo significato processuale, e di sostituirla con la clausola più usuale e congeniale alla cultura inglese di “fair and reasonable”. Questa scelta non deve stupire più di tanto il giurista italiano, a sua volta ben più abituato ad utilizzare i paradigmi di correttezza e buona fede che non, all’opposto, quello di ragionevolezza. D’altra parte, la polemica sulla inclusione della clausole generale di buona fede, quale “corpo estraneo” (legal irritant, lo si era definito), nel testo della disciplina di attuazione aveva suscitato molte riserve. In più, qualche legislatore nazionale – come il legislatore francese – ha considerato superflua la clausola, se considerata dal punto di vista sostanziale, come metro della vessatorietà del contenuto (e non come metro di valutazione del comportamento del professionista che includa clausole vessatorie nel contratto).
Anche per la clausola sulla interpretatio contra proferentem le due Commissioni preferiscono non includere la regola nella disciplina di attuazione dal momento che essa è già consolidata nella case law.
Rimane il problema dei contratti tra professionisti.
Come si è detto, l’UCTA si applica anche ai contratti tra professionisti, ma nel limitato settore delle clausole di esonero o di limitazione della responsabilità. Sì che, ad es., se il professionista si riserva il diritto di modificare unilateralmente la propria prestazione, la clausola è considerata vessatoria; se invece si riserva il diritto di modificare il prezzo, la clausola non ricade nell’ambito di applicazione della normativa. E’ chiaro che molte clausole contenute nei contratti B2B sarebbero dichiarate nulle se fossero incluse in contratti B2C.
Di fronte alle proteste di piccoli imprenditori, vessati da controparti più forti, le due Commissioni avrebbero potuto suggerire di estendere la disciplina dei contratti B2C a questi casi. Le Commissioni hanno però adottato una soluzione più articolata.
Innanzitutto, hanno considerato nei contratti B2B “unfair” e “unreasonable” le clausole non usuali ; in secondo luogo, hanno suggerito di valutare caso per caso l’abuso di potere contrattuale. Comunque hanno deciso di non affidare alla libertà contrattuale ogni clausola contenuta nei contratti B2B, e di applicare invece anche a questi contratti la disciplina riservata ai contratti dei consumatori, quando si sia in presenza di “condizioni generali”, tranne che le clausole siano state “individualmente negoziate”.
Se dovessero essere approvate queste proposte, si approfondirebbe il solco tra i modelli nazionali attuativi della direttiva, in ciò snaturando gli scopi dell’armonizzazione, ma innescando anche un sistema di “competizione” tra ordinamenti che porterebbe ad una variegata protezione di interessi e di parti contraenti.
4. Aspetti del dibattito in corso nel Regno Unito
Premessa
Anche il common law in materia contrattuale è soggetto alle spinte e ai fattori evolutivi dettati dalle nuove esigenze dell’economia e delle tecnologie più evolute, sicché la sua descrizione può considerarsi come un “work in progress”. Tra i numerosi nodi che si incontrano nella letteratura e nella giurisprudenza delle corti valla pena di porne in evidenza almeno tre: (i) l’impatto della disciplina comunitaria sul diritto interno
(ii) il ruolo della buona fede
(iii) i postulati di una giustizia più equa, che incida sulla disciplina “sociale” del contratto
L’impatto della disciplina comunitaria sul common law
Il problema dell’impatto della disciplina comunitaria sul common law dei contratti è stato affrontato in molte sedi. Per semplicità, si può considerare come emblematica la riflessione di un affermato docente dell’ Università di Oxford, Ewan McKendrick (2000, 769 ss.) In un saggio assai lineare questo A. prende atto delle iniziative che in sede internazionale (come è avvenuto per la disciplina della vendita con la Convenzione di Vienna del 1980 e per i Principi dell’ Unidroit) e in sede europea (come è avvenuto per i Principi Lando-Beale) si sono promosse per armonizzare le regole in materia di contratto e ne discute i propositi, che consistono essenzialmente nella eliminazione delle discrasie e delle differenze tra i sistemi nazionali al fine di sopprimere le barriere al libero commercio . Ma si chiede se l’ uniformità sia il metodo migliore per raggiungere questo risultato. Da un lato, le regole a livello sopranazionale potrebbero essere redatte in modo lacunoso o scadente, dall’altro esse rischiano di sopprimere i valori nazionali, che invece val la pena di conservare. Inoltre, la possibilità offerta alle parti di scegliere la legge applicabile al contratto costituisce una espressione della libertà contrattuale che non si avrebbe ragione di limitare. Ma vi sono anche vantaggi in queste iniziative, perché con la redazione di regole uniformi si potrebbero superare le imprecisioni, le lacune, le difficoltà interpretative che spesso si riscontrano nei sistemi nazionali.
In questa prospettiva, McKendrick si sofferma su alcuni aspetti del common law che non trovano rispondenza nei sistemi di civil law.Si tratta (i) della consideration, (ii) della privity of contract, delle regole giurisprudenziali di interpretazione del contratto.
(i)Quanto alla consideration, che consente al giudice di valutare la “reciprocità” delle prestazioni, l’A. ritiene che essa non possa essere soppressa . La sua preoccupazione è dettata dal fatto che né i Principi Unidroit né i Principi Lando-Beale vi fanno cenno. Questa problematica è sotto esame da parte dei giudici e da parte della dottrina, in Inghilterra, perché si è ritenuto che la consideration si possa presumere quando le parti hanno manifestato una seria intenzione di accordarsi in un ambito commerciale (Così Lord Steyn 1997, 437) e ormai questo requisito del contratto abbia perso la sua originaria importanza (V. il caso Williams v Roffey Brothers & Nicholls (Contractors) Ltd., [1991] 1 QB 1).
(ii)Quanto alla privity of contract si è provveduto, per dare ingresso agli effetti del contratto nei confronti dei terzi, con un provvedimento legislativo. In tal modo, il common law inglese si è adeguato agli orientamenti espressi dai sistemi continentali.
(iii) Quanto alla interpretazione, i giudici inglesi hanno cominciato a discostarsi dalle tecniche di esegesi letterale del testo, introducendo l’interpretazione dettata dallo scopo che le parti volevano raggiungere mediante la loro pattuizione; in latri termini, la construction del contratto ha cominciato ad emergere con maggior vigore.
Gli ostacoli che McKendrick tuttora ravvisa nell’armonizzazione riguardano allora altri aspetti del diritto contrattuale inglese: l’impiego della good faith, i poteri di adattamento del contratto alle nuove circostanzele tecniche di scioglimento del vincolo contrattuale. Su questi nodi l’A. ritiene che si debba ancora attendere, non essendo compiuto il percorso di armonizzazione, e non chiariti completamente gli aspetti giuridici che deporrebbero per una modificazione del common law ai fini di adeguamento alle regole emergenti nei sistemi continentali.
La buona fede
Come si è più volte rilevato, l’introduzione di questa clausola generale ha riscontrato l’avversità e le maggiori preoccupazioni di dottrina e giurisprudenza. Un altro illustre docente, Roger Brownsword (2000, 115 ss.), ha tentato, in una analisi critica del common law contrattuale, di sviluppare argomenti favorevoli alla sua adozione. E in una brillante ricognizione dei modi nei quali può essere intesa ed applicata la clausola di good faith ha distinto tre ipotesi:
(i) il requisito della buona fede come strumento di controllo del comportamento corretto (fair dealing); a questo proposito egli sostiene che un comportamento siffatto corrisponde alle aspettative dei contraenti;
(ii) il requisito della buona fede come strumento di cooperazione delle parti all’adempimento;
(iii) il requisito della buona fede per rendere più “equo” il contratto (requisito che un altro illustre Autore, Michael Bridge, ha denominato “ visceral justice”( 1999, 140).
In fin dei conti, se si assimilano la good faith e la reasonableness si possono ottenere risultati similari; in ogni caso, Brownsword ritiene che la good faith avrà maggior successo nel common law se intesa nel significato sub (i).
4.4. La giustizia contrattuale
Un altro aspetto che oggi investe direttamente la disciplina del contratto riguarda la sua “equità” intesa come corretto bilanciamento degli interessi delle parti contraenti e possibilità da parte del giudice di interferire nell’assetto degli interessi per riportare l’accordo ad equità. A questo tema si è dedicato con particolare perizia un illustre docente di LSE, Hugh Collins (2003, 659 ss.). L’ampiezza e la complessità del tema ci esimono da ogni approfondimento, attesa la destinazione manualistica di questo libro. Tuttavia, è opportuno richiamare il filo conduttore del suo discorso, che muove dalla idea che la “correzione” del contratto nasce dalla nozione di Stato Interventista, e dalla diffusa concezione del contratto come strumento di “giustizia distributiva”. Le direttive comunitarie che si preoccupano di tutelare la parte più debole sono informate a queste idee. La sua conclusione è nel senso che l’odierna concezione del contratto non può prescindere da un assetto distributivo delle risorse, e che tale obiettivo possa essere perseguito anche mediante gli strumenti del diritto privato. Il metodo più efficace utilizzato in Europa consiste nella imposizione di clausole obbligatorie da inserire nella contrattazione standardizzata . Altri metodi consistono nel ricorso al diritto pubblico, cioè ai programmi sociali varati in sede comunitaria. Ma non possiamo essere sicuri che questi programmi saranno adottati, e in che modo sia possibile conciliare le esigenze del mercato con le esigenze sociali mediante processi democraticamente responsabili.
Bibliografia
Il problema del superamento del diritto contrattuale classico – annunciato in modo enfatico come la sua “morte” da Gilmore (La morte del contratto, trad. it. a cura di A. Fusaro, Milano, 1977) è oggetto di una folta serie di saggi :in particolare v. C. Fried, Contract ad Promise. A Theory of Contractual Obligation, Cambridge (Mass.) e Londra, 1981; P.S. Atiyah, Promises, Morals, and the Law, Oxford, 1981; W.D. Slawson, Binding Promises. The Late 20th Century Reformation of Contract Law, Princeton, 1996; J. Wightman, Contract. A Critical Commentary, Londra e Chicago, 1996, ed i cenni di G. Alpa e R. Delfino, Il contratto nel common law inglese, Padova, 1997. Nella letteratura francese v. i contributi raccolti in Droits, 12. Le contrat, 1990. Sono da ricordare, in questo contesto, i saggi di L. Moccia, Promessa e contratto (spunti storico-comparativi), in Riv. dir. civ., 1994,I, p.819 ss.; G. Marini, Promessa e affidamento nel diritto dei contratti, Napoli, 1995; per l'originalità dei risultati e l'accuratezza della ricerca storica si segnalano le pagine di And. D'Angelo, Promessa e ragioni del vincolo, Torino, 1992 e Le promesse unilaterali, ne Il codice civile . Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 1996;E. Hondius, Towards a European Contract Law, relazione introduttiva al convegno di Scheveningen, 1997, p.2 ss; P. Stein e P. Shand, I valori comuni dell'Occidente, trad. it., Milano, 1980; e v. G. Alpa, I principi generali, Milano, 1993
Particolarmente significativa è la giurisprudenza costituzionale tedesca: ad es., v.Bundesverfassungsgericht, 19.10.1993, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 202 con nota di A. Barenghi
Sull’autonomia privata v. , significativamente, L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, 1; N. Irti, Persona e mercato, in Riv. dir. civ., 1995, I, 289; N. Lipari, "Spirito di liberalità" e "spirito di solidarietà", in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 1; P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1994
Il diritto contrattuale europeo sta maturando secondo una naturale convergenza degli ordinamenti secondo B. Markesinis, The Gradual Convergence, Oxford, 1996; in senso critico v. inveceP. Legrand, Sens et non-sens d'un Code civil européen, in Rev. intr. dr. comp., 1996, p.779 ss
Ma non si deve neppure assumere un atteggiamento superficiale o semplicistico: sono preziosi al riguardo gli avvertimenti segnalati da alcuni studiosi francesi, come C. Spinosi e B. Oppetit, v. gli atti del seminario organizzato all'Università di Firenze da A. De Vita, nel corso dell'anno acc. 1996-1997).
Per un quadro d’insieme v. A. Gambaro e R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Torino, 1996; per l'analisi di alcuni settori specifici (fonti, persone, contratti, responsabilità civile, accesso alla giustizia) v. anche le ricerche coordinate da G. Alpa, Corso di sistemi giuridici comparati, Torino, 1996; per la materia dei contratti sono rimarchevoli i lavori di B. Markesinis, The Law of Contracts and Restitution. A Comparative Introduction, Oxford, 1997; e, naturalmente, K. Zweigert e H. Koetz, Introduzione al diritto comparato, trad. a cura di A. Di Majo e A. Gambaro, Milano, 1992; qualche utile indicazione in M. Vranken, Fundamentals of European Civil Law, Londra, 1997; per la materia contrattuale è particolarmente congeniale al giurista continentale l'apporto di H.B. Schaefer e C. Ott, Lehrbuch der oekonomischen Analyse des Zivilrechts, Berlino, 1995, p.321 ss
Sull’evoluzione in sede comunitaria del diritto contratuale europeo v. Il Codice civile europeo, Milano, 2001; La riforma dei codici in Europa e il progetto di codice civile europeo, Milano, 2002; Diritto contrattuale europeo e diritto dei consumatori.L’integrazioen europea e il processo civile, Milano, 2003; Diritto privato europeo. Fonti ed effetti, Milano, 2004;
Maniaci, Il Convegno milanesesu “Il contratto nell’Unione europea; ne I Contratti, 8-9/2002,p. 833 ss.; Barca, Il Convegno genovese su “Il contratto nell’ Unione europea”, ivi, 8-9/2003, p. 845 ss
Ulteriori riferimenti nel. Còdigo europeo de contratos. Comentarios en homenaje al Prof.D.José Luis de los Mozos y de los Mozos, a cura di Vattier, de la Cuesta, Caballero, voll. I e II, Madrid, 2003;Principi di diritto europeo dei contratti.Parte I e II, ed.it. a cura di C.Castronovo, Milano, 2001
Sulla concorrenza tra ordinamenti v. La concorrenza tra ordinamenti giuridici, a cura di A.Zoppini, Roma-Bari, 2004; e, in generale, Alpa, Bonell, Corapi, Moccia, Zeno-Zencovich, Diritto privato comparato, Roma-Bari, nuova ed., 2004).
Sull’influenza dei Principi Unidroit v. il dibattito apertosi su Uniform Law Review, 2003-1/2 . Vorrei segnalare in modo particolare le relazioni di Kronke (op.cit.,p. 10 ss.); Basedow, (op.cit.,pp. 31 ss).; Hartkamp (op.cit. p. 81 ss.); Bonell (op.cit.,p. 91 ss.); Farnsworth, (op.cit.,p. 97 ss).; Lando ( op.cit.,p. 123 ss).; Béraudo ( op.cit,pp. 135 ss.); Wilhelmsson (op.cit.,p. 141 ss.). Da ultimo v.Unidroit Principles 2004 – The New Edition of the Principles of International Commercial Contracts adopted by the International Institute for the Unification of Private Law, ivi, 2004-1, p. 5 ss).
Il tema è all’attenzione degli studiosi del contratto: cfr. in particolare Sacco, Legal Formants: A Dynamic Approach to Comparative Law, in 39 Am.J.Comp.L., 343 (1991);Bonell, An International Restatement of Contract Law, Irvington, N. Y., 1994, p. 57; ancora Bonell, in Nuove leggi civ. e comm., 1989, 26);Fontaine, Le projet d’Acte uniforme OHADA sur les contrats et les Principes d’ Unidroit relatifs aux contrats du commerce international, in Uniform Law Rev., 2004-2, p. 265).
Il tema della clausola penale è significativo al proposito:per una ricognizione delle varie teorie cfr. G. De Nova, Le clausole penali e la caparra confirmatoria, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Torino, 1982, p. 306;Miller, Penalty Clauses in England and France: A Comparative Study, in Int.’l and Comp.L.Q., 2004, p. 79 ss.; Ulmer et alii, AGB-Gesetz, 9.Aufl., Colonia, 2001, p. 161 ss; Bonell e Peleggi su Uniform Law Rev., 2004-2, p. 325 ss. e dai molti commenti via via emersi in letteratura, tra i quali si segnala in particolare quello di Lando, Principles of European Contract Law and Unidroit Principles: Moving from Harmonisation to Unification?, ivi, 2003-1/2, p. 123 ss.
Sulle opzioni della Commissione Lando e Beale v.Towards a European Civil Code, Nijmegen-Dordrecht-BostonLondon, 1994; per una rassegna delle problematiche affrontate v. Alpa, Nuove frontiere del diritto contrattuale, in Contr. e impr., 1999, e Il codice civile europeo: «ex pluribus unum», in Contr. e impr./Europa, 1999, ove i riferimenti bibliografici essenziali della dottrina italiana e straniera sull’argomento); nonché Principles of European Contract Law. Parts I and IL Combined and Revised, Prepared by The Commission of European Contract Law. Chairman: Professor Ole Lando Edited by Ole Lando and Hugh Beale, Kluwer Law International, The Hague-London-Boston, 459 con indici (460-561).Significativa al proposito è la seconda edizione di Towards a European Civil Code (Second Revised and Expanded Edition), a cura di A. Hartkamp, M. Hesselink, E. Hondius, C. Joustra, E. Du Perron, Nijmegen-The Hague-London-Boston, 1998
Per la letteratura francese v.J.Ghestin, Traitè de droit civil, introduction gènèrale. Parigi, 1995).
Nel common law inglese cfr.G.H. Treitel, The Law of Contract, Londra, 1987; G.C. Cheshire, C.H.S. Fifoot. Law of Contract, Londra, 1986, p.302, v. nuova ed., 2001; Adams, Brownsword, op.cit.; P.S. Atiyah, Rise and falloff freedom of contract, Oxford, 1986).G.H. Treitel, The Law of Contract, cit.Kennedy, op.cit.).
Il dictum richiamato nel testo si dive a Lord Wilberforce, National Carriers Ltd v. Panalpina, 1981, A.C. 675, 696
Più in gnerale v. Mengoni,L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967, p.3
La “copertura costituzionale della libertà contrattuale è discussa dag. Guarino, Quale costituzione?, Milano, 1986), mentre chi ritiene che l’art.2 non sia norma aperta (a. Pace, Libertà del mercato, in Pol.dir., 1993, p.327.);g. Amato, La costituzione economica, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, vol. I, Padova, 1977, p. 209 ss.) e quindi che si può parlare di libertà del mercato nei limiti stabiliti dall’art. 41.2 Cost. (a. Pace¸ op.cit.), tale disposizione è rivolta non solo al legislatore, ma a tutti, compresi gli operatori (g. Oppo, L’iniziativa economica, in Riv.dir.comm., 1988, I, p. 311).;F. Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1992, p. 161.).
Su autonomia contrattuale e mercato v. in particolare m. Ferrarese, Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti, Torino, 1992.;Flessner, German Report, presentato al convegno di Gerusalemme, 1994, organizzato dal prof. Mordechai Rabello, p. 1 datt.;Hondius Relazione al Convegno cit., p.1 del datt;Roulette (Rapport français, Convegno cit., p.1 datt.
Su autonomia contrattuale e diritto dei consumatori v. il Codice del consumo e del risparmio, a cura di Alpa, Milano, 1999; Alpa, Programmi e progetti del Consiglio d'Europa e della Comunità economica europea sulla disciplina dei contratti standard, in Foro it., 1977,V, 73 (e Tutela del consumatore e controlli sull'impresa, Bologna, 1978); Ghidini, I diritti dei consumatori, Bologna, 1978; e per tutti Roppo, Contratti standard, Milano, 1975, nonché i contributi raccolti da Bianca, Le condizioni generali di contratto, t.I e II, Milano, 1979) e i contributi raccolti nel volume curato da Bianca e Alpa, Le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. L'attuazione della direttiva comunitaria del 5 aprile 1993, Padova, 1996.
Sulla disciplina comunitaria delle clausole abusive e la sua attuazione nell’ordinamento italiano la letteratura in materia è «oceanica», al punto che le banche di dati bibliografici presentano pagine e pagine di riferimenti, che non è possibile, in questa sede, riportare compiutamente. Quanto alle monografie, si segnalano in particolare: Barenghi, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice civile, Napoli, 1996; Clausole vessatorie e contratto del consumatore, a cura di Cesaro, vol.I, Padova, 1996; Ruffolo, Clausole «vessatorie» e «abusive», Milano, 1997; aa.vv. Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore, ne Le nuove leggi civili comm., 1997, p, 752 ss.; Romagnoli, Clausole vessatorie e contratti d'impresa, Padova, 1997; Alpa, I contratti dei consumatori, Roma, 1997 e Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 1999. Il commento più diffuso è stato redatto da un gruppo di ricercatori coordinato a Alpa e Patti, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori. Commentario agli articoli 1469 bis-1469 sexies del Codice civile, t.I e II, Milano, 1997. Tra le voci enciclopediche v. Roppo e Napolitano, Clausole abusive, in Enc. giur., VI, Roma, 1997.
L'analisi delle esperienze straniere, sia anteriori alla direttiva, sia posteriori, è stata altrettanto diffusa: v. ad es., i contributi raccolti in Bianca e Alpa, Le clausole abusive, cit. e in Alpa e Patti, Le clausole vessatorie, cit., t. II; Klesta Dosi, Il controllo delle clausole abusive: la direttiva 93/13 alla luce della giurisprudenza tedesca, francese, inglese, ne La nuova giur. civ. comm., 1994, II, 426 ss.; Somma, Tecniche di tutela del contraente debole nella disciplina della contrattazione standard: riflessioni sull'esperienza tedesca, in corso di stampa; Scarpello, Contratti dei consumatori ed interpretazione del diritto privato comunitario: il caso della tutela inibitoria di clausole vessatorie riproduttive di regolamenti negoziali, in Giur.it., 1998, I,1609).
Per l'esperienza francese,v. in particolare Civ. 1re, 6.1.1993, in Bull.civ.,I,n.4, e in D.1993, Somm.,237 obs. Paisant; in Rev.trim.dr.com.1993,706 obs. Bouloc; Code de la consommation, comm. par Pizzio, Parigi, 1995, p.57 ss. Per l'esperienza belga Bourgoignie, Rapport de la Commission d'étude pour la reforme du droit de la consommation ,Bruxelles, 1995, p.21 ss. e i contributi del Centre de droit de la consommation di Louvaine-la-Neuve. Per entrambe le esperienze si segnalano i «papers» predisposti dal gruppo di ricerca sul "droit des obligations" coordinati da Jaques Ghestin e Marcel Fontaine. Per l'esperienza inglese v. i casi riportati da Oughton e Lowry, Consumer Law, Londra, 1997, p.2 ss. e i centri di ricerca di Graint Howells (Sheffield) e di Steven Weatherill (Oxford). Per l'esperienza tedesca v. Weil e Puis, Le droit allémand des conditions générales d'affaires revu et corrigé par la directive communautaire relative aux clauses abusives, in Rev.int.dr.comp., 1994, p. 127 ss. e i contributi dei centri di ricerca di Norbert Reich (Brema) e di Hans Micklitz (Bamberg). In generale v. Micklitz e Weatherill, European Economic Law, Dartmouth, 1997p.343 ss. ).
Oltre alle monografie e alle voci enciclopediche cit. alla n. 6, su questo particolare aspetto v. m. Bin, Clausole vessatorie: una svolta storica (ma si attuano così le direttive comunitarie?), in Contr. impr. Europa, 1996, 454; Cesaro, Clausole vessatorie e azione inibitoria: prime pronunzie della giurisprudenza, in Contr .impr. Europa, 1997, p.41 ss.; Tarzia, La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie, in Riv .dir. proc., 1997, 644; Montesano, Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione, in Riv. dir. proc., 1997, p.1 ss.; Armone, Inibitoria collettiva e clausole vessatorie: prime disavventure applicative dell'art. 1469 sexies c.c., in Foro it., 1997,I,290; Consolo, Tutela urgente, clausole abusive e pregiudizi rilevanti seppure non irreparabili, in Corr. giur., 1997, 212; Libertini, La tutela d'urgenza contro l'uso di clausole vessatorie, in Contr. impr. Europa, 1997, 25 e L'azione inibitoria collettiva in materia di clausole vessatorie (art.1469 bis-sexies c.c.) in Dir. priv., 1996, 222; Plaia, Clausole abusive e tutela inibitoria: «i giusti motivi d'urgenza», in Europa e dir. priv., 1998, p.575 ss; de Negri, La tutela di matrice comunitaria nei confronti delle clausole abusive nei contratti con i consumatori, in Dir. comm. int., 1998, p.173 ss; Sacchettini, in Guida al dir., 1998,63. Sulla proposta di direttiva generale sull'inibitoria v. Alpa, La proposta di direttiva comunitaria sull'azione inibitoria promossa dalle associazioni dei consumatori, in Giur. it., 1996,IV, 153; b. Capponi, La proposta di direttiva sulle azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, in Docum. Giustizia, 1996,571
Sui problemi aperti dalla direttiva n. 93/13 nel common law inglese v. ora Nicolini, La disciplina delle clausole abusive in Inghilterra alla luce del Consultation Paper N.166 della Law Commission, in Contr.impresa/Europa, 2004, p. 231 ss.; e già Alpa, La trasparenza dei contratti bancari, Bari, 2003, p. 165 ss.).Beale, Unfair Terms in Contracts: Proposals for Reform in the UK, in J.of Cons.Policy, 27 (2004),p. 289 ss.)
Giurisprudenza citata
Corte di Giustizia CE, 27 giugno 2000, C-240-244
Corte di Giustizia, sez.V, 24 gennaio 2002,n. C-372/99
Corte di Giustizia nella controversia relativa alla attuazione della direttiva in Svezia, C-478/99, 2002, in ECR I-4147
Corte di cassazione olandese, Hoge Raad, 31 ottobre 1969
Conseil constitutionnel l 15 gennaio 1992
Cassazione francese 15 febbraio 1972
Cassazione francese 1° ottobre 1982
Cassazione francese 7 aprile 1987
Corte cost. sent. 20 luglio 1954
Corte cost. 17 novembre 1958
Corte cost. sent. 13 luglio 1960 n.59
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Corte cost. sent. 27 febbraio 1962 n.7
Corte cost. sent. 9 aprile 1963 n. 46
Corte cost. sent. 24 luglio 1972 n. 144
Corte cost. sent. 12 novembre 1974 n.255
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Corte cost. 31 ottobre 1984
Corte cost. 8 gennaio 1985
Corte cost. 4 giugno 1985
Corte cost. 17 aprile 1986
Corte cost. sent. 31 maggio 1988
Corte cost. 12 febbraio 1989
Corte cost. 14 febbraio 1989
Corte cost. 19 ottobre 1993
Corte cost. 22.11.2002,n. 469
Cass.civ. 15 febbraio 1972
Cass. 1° ottobre 1982
Cass. 7 aprile 1987
Cass. 18 maggio 1995 n. 5460
Cass. 22 agosto 1997 n. 7857
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Cass. 14 maggio 1998 n. 4853
Cass. 24 novembre 1998 n. 11894
Cass. 22 gennaio 1999 n. 589
Cass. 24 marzo 1999 n. 2788
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Cass. 24 novembre 1999 n. 13104
Cass. 20 luglio 2000, n. 2532
Cass. 14 luglio 2000 n. 9321
Cass. 24 luglio 2000 n. 9662
Cass. 26 settembre 2000 n. 12724
Cass. 16 novembre 2000 n. 14860
Cass. 22 novembre 2000 n. 15066
Cass. 22 marzo 2001 n.4124
Cass. 18 maggio 2001, n. 6819
Cass. 7 settembre 2001 n. 11495
Cass. sez. un., 30 ottobre 2001 n. 13533
App. Milano, 26 gennaio 1999
Trib. Torino, (ord.) 14 agosto 1996, in Foro it., 1997, I, c. 288 con commento di Armone
Trib. Torino, ord. 16 agosto 1996, in Foro it., 1997, I c. 288
Trib. Torino, (ord.) 4 ottobre 1996, in Foro it., 1997, I, c. 288
Trib. Palermo, ord. 24 gennaio 1997, in Corr.giur., 1998, 103
Trib. Palermo, ord. 5 marzo.1997, in Corr.giur., 1998, 105, annotate da Togliatto
Trib. Roma, (ord.) 2 agosto 1997, in Guida al diritto, 1997, n. 54
Trib. Roma, ord. 22 agosto1997, ivi, 57
Trib. Savona, 2 marzo 1998, ined
Trib. Torino, 10 aprile 1998
Trib. Roma (ord.) 18 giugno 1998, ined.
Trib. Milano, 2 luglio 1998
Trib. Palermo, (ord.) 3 marzo 1999, in Corr.giur., 1999, 588 con nota di Conti
Trib. Roma, 21 gennaio 2000
Trib. Milano, 27 marzo 2000
Trib. Venezia, 24 settembre 2000
Trib.Roma, 28 ottobre 2000
Pret. Bologna, 4 gennaio 1999, in Corr.giur., 1999, 600, con nota di Gioia
Giudice di pace de L'Aquila, 4 novembre 1997 (ined.))
Giud. pace Palermo, 16 ottobre 1998
Caso Williams v Roffey Brothers & Nicholls (Contractors) Ltd., [1991] 1 QB 1).
* Sottoparagrafo a cura di Valeria Vignolo
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