L’IMPUGNAZIONE DEI CONTRATTI DI APPALTO CERTIFICATI
L’IMPUGNAZIONE DEI CONTRATTI DI APPALTO CERTIFICATI
DA PARTE DEL LAVORATORE DELLA COOPERATIVA APPALTATRICE: PROFILI PROCEDURALI
1. LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO PER MANCATA PROMOZIONE DEL TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE
Nell’ambito di un caso recentemente analizzato dalla giurisprudenza (cfr. ordinanza del Trib. Milano, Sez. Lav.,
R.G.L. 3365/2012), il socio lavoratore di una cooperativa, assunto a tempo indeterminato dopo un periodo di lavoro a tempo determinato, ha agito in giudizio contro la cooperativa e la società appaltante di quest’ultima, presso cui svolgeva la propria attività, chiedendo l’accertamento della nullità del contratto di appalto, con conseguente costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della società appaltante, ed in via subordinata l’annullamento del licenziamento e del provvedimento di esclusione dal vincolo associativo.
Considerando che il contratto di appalto stipulato tra la cooperativa e la società appaltante era stato certificato, il Giudice, provvedendo sulla eccezione di improcedibilità sollevata da entrambe le parti convenute con riferimento all’art. 80, co. 4, e all’art. 84, co. 1, D. Lgs. 276/2003, ha sospeso il giudizio, assegnando alla parte ricorrente un termine di sessanta giorni per la promozione del tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi alla Commissione di Conciliazione competente.
Il giudice ha, quindi, applicato la disciplina relativa al tentativo obbligatorio di conciliazione prevista dagli artt. 410 ss. c.p.c., ora abrogata con l’entrata in vigore della L. n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), in quanto, come chiarito nella suddetta ordinanza, l’art. 80, co. 4, D. lgs. 276/2003, richiamando l’art. 410 c.p.c. opera un rinvio recettizio, e non dinamico. In realtà, nel caso di rinvio a materie o discipline di tipo prevalentemente procedurale, esso s’intende solitamente di carattere dinamico, in virtù della necessità di disporre di una disciplina sempre aggiornata. In tale circostanza ha trovato però applicazione il previgente art. 412 bis c.p.c., secondo cui il tentativo di conciliazione costituiva condizione di procedibilità della domanda e l’eventuale improcedibilità doveva essere eccepita dal convenuto con la memoria difensiva, nonostante potesse essere rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di discussione della causa. La stessa disciplina prevedeva che, qualora le parti avessero eccepito l’improcedibilità, come nel caso de quo, il giudice avrebbe dovuto sospendere il giudizio e fissare un termine perentorio di sessanta giorni per la proposizione della richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, oltre ad un ulteriore termine di sessanta giorni entro il quale espletarlo. Trascorso inutilmente tale ulteriore termine, o nel caso di esito negativo del tentativo, il processo avrebbe dovuto essere riassunto entro il termine perentorio di centottanta giorni, altrimenti ne sarebbe stata dichiarata l’estinzione.
E’ il caso qui di ricordare che, con la L. n. 183/2010, è stata mantenuta in vita l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione nel caso di contratti certificati, abrogando però la disciplina riguardante la procedibilità della domanda e modificando l’art. 410 c.p.c. cui l’art. 80, co 4, D. Lgs. 276/2003, rinvia. Di conseguenza, il tentativo di conciliazione obbligatorio segue oggi lo schema procedurale dettato per il tentativo di conciliazione facoltativo, e, nel caso di mancato espletamento dello stesso, ci si chiede quale debba essere la conseguenza. Parte della dottrina (cfr. X. Xxxxxxxxxx, Formulario del processo del lavoro, Xxxxxxx, 2011, pag. 9) ha ritenuto fin da subito che, venuta meno la possibilità di sospendere il processo secondo quanto previsto dall’art. 412 bis c.p.c., il mancato espletamento del tentativo di conciliazione - rilevabile anche d’ufficio – avrebbe comportato la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità. L’espletamento preventivo del tentativo di conciliazione per l’impugnazione dei contratti certificati è uno dei requisiti affinché la successiva proposizione della domanda possa dar luogo ad un processo idoneo a pervenire ad una pronuncia sul merito: abrogata la norma che prevedeva l’ipotesi di sospensione del processo nel caso di mancato espletamento dello stesso, l’unica soluzione prospettabile è parsa appunto una sentenza dichiarativa di improponibilità della domanda. Soluzione che, anche a parere di chi scrive, pare essere la più coerente con la modifica del quadro normativo apportata dal c.d. Collegato Xxxxxx, sebbene la giurisprudenza di merito intervenuta nel caso in
esame non abbia seguito tale indirizzo dottrinale, sospendendo, come anticipato, il processo e rinviando alla disciplina previgente.
2. L’OBBLIGATORIETA’ DEL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE PER I CONTRATTI DI APPALTO CERTIFICATI
Il legislatore, all’art. 84 D. lgs. 276/2003, ha previsto la possibilità di certificare i contratti di appalto, sia in sede di stipulazione, sia nelle fasi di attuazione del relativo programma.
E’ però importante ricordare che, con il contratto di appalto, una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro, ma che l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore può risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, anche semplicemente dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. In tali ipotesi è certamente più difficile distinguere i casi di appalto genuino da quelli che tendono invece a mascherare una interposizione illecita. Per questo, talune realtà ritengono opportuno ricorrere alla procedura di certificazione, la quale, attraverso la relativa istruttoria formale e sostanziale, dovrebbe riuscire a garantire la verifica della esistenza concreta di tutti gli elementi essenziali dell’appalto.
Qualora il lavoratore utilizzato nell’appalto decida allora di agire in giudizio e di chiedere la nullità o illegittimità del contratto di appalto medesimo, nel caso in cui quel contratto sia stato certificato da una Commissione di Certificazione che lo ha dichiarato conforme alla disciplina prevista dagli articoli 1655 e ss., c.c. e 29, D. lgs. 276/2003, troverà applicazione l’art. 80, co. 4, D. lgs. 276/2003. Ciò in quanto gli effetti della certificazione del contratto permangono, anche verso terzi, fino al momento in cui non sia accolto uno dei ricorsi esperibili ai sensi dell’art. 80, D. lgs. 276/2003.
Se si ritiene che il contratto di appalto certificato sia illegittimo o nullo, prima di presentare ricorso giurisdizionale si dovrà preventivamente e obbligatoriamente presentare richiesta per l’espletamento del tentativo di conciliazione alla Commissione di certificazione che ha rilasciato il provvedimento di certificazione. I motivi d’impugnazione sono indicati dal legislatore e devono essere posti in calce allo stesso provvedimento di certificazione del contratto, ed in particolare: erronea qualificazione del contratto; difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione e vizi del consenso.
Inoltre, l'art. 80, co. 5, D. Lgs. 276/2003, prevede la possibilità di ricorrere contro l'atto di certificazione al Tribunale Amministrativo Regionale, entro 60 giorni, in caso di violazione del procedimento di certificazione e per eccesso di potere, posti in essere dalla Commissione di Certificazione.
Nell’ordinanza sopra richiamata, il giudice ha ritenuto, indipendentemente dalle ragioni in fatto e in diritto poste a fondamento della domanda, che la stessa, nella parte in cui muoveva dall’accertamento della nullità dell’appalto, costituisse una contestazione della conformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Pertanto, la parte ricorrente avrebbe dovuto obbligatoriamente e preventivamente rivolgersi alla Commissione di Certificazione che aveva adottato l’atto di certificazione per esperire il tentativo di conciliazione.
La sospensione del giudizio, a seguito della pronuncia di improcedibilità a causa della mancata promozione del tentativo di conciliazione, ha però comportato una dilatazione dei tempi processuali, con ovvie ripercussioni sulla certezza dei rapporti giuridici coinvolti, in netto contrasto con la finalità che sarebbe propria della certificazione dei contratti.
3. IL SOCIO LAVORATORE DELLA COOPERATIVA E LE TUTELE APPLICABILI: PERCHÉ “CONVIENE” CONVENIRE IN GIUDIZIO L’APPALTANTE DELLA COOPERATIVA
La vicenda sopra sintetizzata aveva coinvolto un socio lavoratore di cooperativa, figura che rientra nella tipologia dei rapporti di lavoro di tipo associativo, e la cui prestazione è caratterizzata dallo scopo mutualistico,
trovando fondamento proprio nel vincolo associativo, prima che in un rapporto negoziale di scambio. La L. n. 30/2003, infatti, modificando, con l’art. 9, la L. n. 142/2001, ha statuito che il rapporto di lavoro del socio lavoratore non debba più essere “ulteriore e distinto” rispetto a quello associativo, ma soltanto “ulteriore”. Il rapporto di lavoro, dunque, non può ritenersi distinto ed autonomo rispetto al rapporto associativo, bensì strettamente collegato ad esso, con la conseguenza che il venir meno del vincolo associativo determina anche l’estinzione del rapporto di lavoro.
Nella vigenza della formulazione originaria della legge del 2001, la giurisprudenza aveva statuito che, per far cessare legittimamente il rapporto di lavoro del socio, non era sufficiente un provvedimento di estromissione, ma sarebbe stato necessario un distinto atto di licenziamento, adottato in forma scritta e motivato (cfr., ex multis, Trib. Milano, 1 marzo 2003).
La nuova formulazione dell’art. 5, comma 2, L. n. 142/2001, laddove dispone che il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio, deliberati nel rispetto delle previsioni statuarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 c.c., statuisce una sorta di preminenza del rapporto associativo sul rapporto di lavoro. Resta, tuttavia, un substrato minimo di tutele applicabili al socio lavoratore subordinato, in particolare lo Statuto dei lavoratori, con esclusione dell'art. 18, ogni volta che venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo; le norme in materia di salute e sicurezza dei prestatori di lavoro nei luoghi di lavoro; l’art. 2751 bis c.c. riguardante la natura privilegiata dei crediti relativi al trattamento economico in favore del socio lavoratore; la disciplina del processo civile per le controversie che investono i rapporti tra il socio e la cooperativa; la disciplina del processo del lavoro per le controversie riguardanti il rapporto di lavoro.
Con riferimento a quest’ultimo punto, alla luce della nuova formulazione dell’art. 5, comma 2, L. n. 142/2001, la ripartizione di competenza non risulta però così agevole. La modifica normativa ha fatto venir meno la netta ripartizione tra la competenza del giudice del lavoro e la competenza del giudice ordinario. La nuova disposizione lascia infatti spazio a due differenti interpretazioni: una parte della dottrina (cfr. Mugnaini F., Il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: dal nuovo concetto di esclusione alla deminutio della tutela processuale, in XX, 0000, p. 1311; Xxxxxxxxxxx L., Le modifiche alla disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in GL, 2003, n. 10, p. 74) ritiene che il rapporto di lavoro intercorrente tra socio e cooperativa rientri nel concetto di prestazione mutualistica e, partendo da tale premessa, esclude la competenza del giudice del lavoro nelle controversie tra lavoratore e cooperativa, statuendo una competenza generale del giudice civile ordinario. Un’altra parte della dottrina (cfr. Xxxxxxxxx S., Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, Xxxxx, Padova, 2006, p. 234), seguendo invece la definizione di “prestazione mutualistica” della Corte di Cassazione (Cass. Sez. lav. n. 805/2005), secondo la quale la norma in esame – il testo novellato di cui all’art. 5, l. n. 142/2002 - non può che riguardare quelle prestazioni mutualistiche che si traducono in prestazioni che la società assicura ai suoi soci in termini più vantaggiosi rispetto ai terzi e che caratterizzano a vario titolo le suddette società, con una distinzione tra cooperative a “mutualità esclusiva” e cooperative “diverse”, esclude la connessione tra la “prestazione di attività lavorativa da parte del socio” e la “prestazione mutualistica”. Quindi, la competenza in materia di controversie sulla gestione del rapporto di lavoro (diritti sostanziali e previdenziali dei soci lavoratori) rimarrebbe al giudice del lavoro e rientrerebbero nella competenza del giudice civile ordinario le controversie attinenti, ad esempio, al concorso alla gestione della società e alla partecipazione alla formazione degli organi sociali, o alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa. In conclusione, seguendo l’indirizzo della Suprema Corte, l’attribuzione al tribunale civile ordinario delle controversie in materia di prestazioni mutualistiche sarebbe da intendersi in senso rigido e restrittivo.
Il dilemma relativo alla competenza del giudice civile ordinario o del giudice del lavoro, nel caso di controversie tra socio lavoratore e cooperativa, è però tuttora aperto. In considerazione di ciò, tornando alla vicenda in esame, il ricorrente si è rivolto al giudice del lavoro per accertare la nullità del contratto di appalto tra la cooperativa e la società appaltante e la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della società appaltante.
Tale controversia toccava invece solo in via subordinata il rapporto tra socio lavoratore e cooperativa: in merito a tale profilo, quello che risulta di più difficile soluzione è il tema della applicabilità della tutela prevista dall’art. 18, L. n. 300/1970. Il socio lavoratore, in caso di esclusione dalla società cooperativa, ha diritto di proporre opposizione al tribunale contro la delibera di esclusione, quindi in mancanza di un separato atto di licenziamento, autonomamente impugnabile, la tutela del socio lavoratore sarà assorbita da quella societaria. L’annullamento dell’atto di esclusione comporterebbe il ripristino della situazione quo ante ed il risarcimento del danno, effetti in un certo senso assimilabili alla tutela prevista ex. art. 18 Stat. Lav. Qualora invece si verifichi un licenziamento al di fuori di un provvedimento di esclusione del socio, troveranno applicazione tutte le disposizioni riguardanti il rapporto di lavoro subordinato, compreso l’art. 18, L. n. 300/70. Conseguentemente, nel caso in cui all’origine della esclusione del socio dalla cooperativa vi siano motivi attinenti alla prestazione lavorativa, il lavoratore dovrebbe procedere alla impugnazione dell’atto di esclusione dinnanzi al giudice civile e del contestuale atto di licenziamento innanzi al giudice del lavoro per l’eventuale riconoscimento della tutela reale.
Nel caso esaminato, allora, il socio lavoratore di cooperativa ha impugnato il contratto di appalto certificato, così che, ove venisse riconosciuta l’illegittimità dell’appalto, in virtù di quanto disposto dall’art. 29, comma 3bis,
l. 276/2003, potrà vedersi riconosciuta la costituzione ab origine del rapporto di lavoro alle dipendenze della società appaltante (presumibilmente maggiormente “solida” e patrimonializzata della cooperativa), con la contestuale applicazione delle tutele previste per il prestatore di lavoro subordinato, di cui anche l’art. 18, L. n. 300/1970, al di là di ogni disquisizione in merito alla competenza del giudice adito, in considerazione della materia oggetto di contenzioso.
Xxxxxxxx Xxxxxxxx Scuola internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Adapt – CQIA