FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Corso di Laurea in Giurisprudenza
IL CONTRATTO A TERMINE NELL’ORDINAMENTO COMUNITARIO
Relatore:
Xxxx. Xxxxx Xxxxxx
Tesi di Laurea di Xxxxxx Xxxxxxxxxx
ANNO ACCADEMICO 2006 / 2007
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO I
Le politiche occupazionali dell’Unione Europea.
§1- La politica sociale nell’ordinamento comunitario… 4
§2- L’Europa sociale: problemi e prospettive… 10
§3- La disoccupazione nei paesi membri della Comunità Europea: il Libro Bianco di Xxxxxxx Xxxxxx… 16
§4- Il Titolo sull’Occupazione del Trattato di Amsterdam 22
§5- La strategia europea per l’occupazione (SEO): il processo di Lussemburgo… 26
§6- Il terzo pilastro delle politiche del lavoro comunitarie: in particolare la direttiva sul contratto a
termine… 30
.
CAPITOLO II
La Direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato.
§1- L’accordo quadro del 18 marzo 1999 concluso da CES, UNICE e CEEP 35
§2- I contenuti dell’accordo: analisi delle clausole. 41
§2.1- Segue. Il principio di non discriminazione (clausola 4)… 45
§2.2- Segue. La prevenzione degli abusi nella direttiva comunitaria (clausola 5). 49
§2.3- Segue. Le disposizioni di attuazione. La clausola di non regresso (clausola 8). 54
§3- La conformazione della normativa italiana ai dettati comunitari 59
CAPITOLO III
Il contratto di lavoro a termine nell’ordinamento giuridico italiano: dalle prime forme alla nuova disciplina.
§1- La disciplina anteriore alla legge n. 230/1962… 66
§2- L’introduzione del principio di eccezionalità:la legge 230 del 1962… 68
§3- L’attenuazione della rigidità del sistema: ulteriori ipotesi di lavoro a termine introdotte
dalla legge… 73
§3.1- Segue. Le ipotesi di lavoro a termine introdotte dalla contrattazione collettiva… 75
§3.2-Segue. Il contratto a termine per favorire la rioccupazione dei lavoratori in mobilità… 81
§4- La legge 24 giugno 1997, n. 196: l’attenuazione dell’apparato sanzionatorio 83
§5- Il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368: una nuova tecnica normativa… 88
CAPITOLO IV
Gli aspetti principali del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368.
§1- I requisiti sostanziali per la lecita apposizione del termine.
La permanente eccezionalità del contratto a tempo determinato. 95
§1.2- Segue. La questione della temporaneità delle esigenze aziendali. 104
§2- I requisiti formali. Atto scritto e obbligo di specificazione… 112
§2.1- Segue. Causali collettive: il caso di Poste Italiane… 118
§3- L’onere della prova… 121
§4- La sanzione per la mancanza delle ragioni giustificative 123
§5- Gli effetti dell’inosservanza dei divieti… 134
§5.1- Segue. Gli effetti dell’inosservanza dei limiti quantitativi… 137
§6- L’estensione del lavoro a termine oltre il primo contratto.
La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine e la proroga… 141
§6.1- Segue. Le riassunzioni ravvicinate e senza soluzione di continuità… 146
§7- Le sanzioni nel lavoro pubblico 151
CONCLUSIONI 161
APPENDICE 168
BIBLIOGRAFIA 195
ABBREVIAZIONI UTILIZZATE PER LE RIVISTE
Arg. dir. lav. Argomenti di diritto del lavoro
DD Democrazia e diritto
Dir. lav. Il Diritto del lavoro
Dir. lav. rel. ind. Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali Dir. merc. lav. Il diritto del mercato del lavoro
Dir. prat. lav. Diritto e pratica del lavoro
Dir. rel. ind. Diritto delle relazioni industriali
Dir. UE il Diritto dell’Unione Europea
DLM Diritti Lavori Mercati
Foro it. Foro italiano
Guida lav. Guida al lavoro
IJCLL The International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations
Lav. dir. Lavoro e diritto
Lav. giur. Il lavoro nella giurisprudenza
Lav. inf. Lavoro Informazione
Lav. prev. oggi Lavoro e previdenza oggi
L80 Lavoro ’80
Mass. giur. lav. Massimario di giurisprudenza del lavoro Nuove leggi civ. com. Le nuove leggi civili commentate
Orient. giur. lav. Orientamenti della giurisprudenza del lavoro
Quad. dir. lav. rel. ind. Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali Riv. crit. dir. lav. D & L – Rivista critica di diritto del lavoro
Riv. giur. lav. Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale
Riv. it. dir. lav. Rivista italiana di diritto del lavoro
Riv. it. dir. pub. com. Rivista italiana di diritto pubblico comunitario
INTRODUZIONE
Il contratto di lavoro a tempo determinato costituisce un tema di studio notevolmente vasto e complesso anche perché, essendo stato oggetto di intervento legislativo da parte dell’Unione Europea, la relativa disciplina nazionale deve necessariamente essere analizzata ed interpretata alla luce della disciplina comunitaria. Scopo di questa ricerca è illustrare i passaggi di un lungo periodo di lavoro a livello comunitario ed interno per poter comprendere l’importanza, ma anche la relativa problematica, che tale argomento ha assunto per il mondo del lavoro nei Paesi dell’Unione Europea.
Nel xxxxx xxxxx xxxx x'xxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxx xxxxxx e la volontà da parte degli Stati europei di formare una normativa (non solo) giuslavoristica sempre più omogenea, hanno portato all'introduzione, nell'ordinamento giuridico italiano, di tipologie contrattuali di lavoro c.d. “non standard“ spesso foriere di problemi attuativi ed interpretativi e che hanno reso sempre più attuale la questione della ricerca del delicato punto di equilibrio tra flessibilità e sicurezza. Tra questi “nuovi contratti” non si può certo includere il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, data la sua presenza nel nostro ordinamento, pur con caratteristiche molto differenti da quelle attuali, già nel Codice Civile del 1942; tuttavia il decreto legislativo 6 settembre 2001,
n. 368, recependo la Direttiva comunitaria 1999/70/CE, non solo ha abrogato la previgente normativa in materia di contratto di lavoro a termine, ma ha introdotto una disciplina che, nell’intento di ampliare ulteriormente le possibilità applicative di tale strumento, risulta in molti aspetti generica, lasciando agli interpreti la soluzione di problematiche di non poco rilievo.
All’analisi giuridica si pongono, così, due ampi profili d’indagine, intimamente collegati1. Il primo riguarda l’interpretazione del d.lgs. n. 368/2001 e quindi la questione di quali siano gli aspetti di divergenza e di convergenza tra il vecchio e il
1 Così X. XXXXXXXXXX, La direttiva sul lavoro a tempo determinato, in X. XXXXXXX - M. NAPOLI (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, X. Xxxxxxxxxxxx Editore, Torino, 2003, pp. 2 e ss.
nuovo sistema normativo per comprendere il livello generale di tutela offerto ai lavoratori dalla nuova disciplina in raffronto alla precedente e poter valutare, così, se il d.lgs. n. 368/2001 abbia rispettato o meno il divieto di “reformatio in peius” contenuto nella Direttiva 1999/70/CE; sotto questo aspetto il nodo più rilevante concerne il problema se anche nel regime vigente il contratto a tempo determinato si ponga come deroga rispetto a quello a tempo indeterminato, oppure se i due contratti siano oggi totalmente alternativi o fungibili l’uno con l’altro2. Il secondo profilo attiene ai rapporti tra il d.lgs. n. 368/2001 e la direttiva comunitaria di cui il decreto costituisce l’atto traspositivo nel diritto interno. E’ noto infatti che il principio della prevalenza della norma comunitaria su quella nazionale impone non solo di dare attuazione adeguata alle direttive comunitarie, ma anche di interpretare le norme nazionali alla luce della lettera e dello scopo della direttiva. Ciò significa che, in presenza di più interpretazioni possibili del medesimo testo, bisogna dare la prevalenza a quella conforme al diritto comunitario e di conseguenza privilegiare il significato del testo normativo nazionale conforme alla direttiva comunitaria; se ciò non fosse possibile si arriverebbe ad un contrasto insanabile tra normativa comunitaria e nazionale3 e si porrebbe, allora, l’ulteriore problema dell’eventuale incostituzionalità del d.lgs. 368/2001 per eccesso di delega e quindi per violazione dell’art. 76 Cost. in quanto il legislatore delegato non avrebbe rispettato i principi che sorreggono la delega di potere legislativo e, invece di dare attuazione alla suddetta direttiva comunitaria, avrebbe colto l’occasione per introdurre una normativa differente rispetto a quella imposta dagli obblighi sorgenti dall’appartenenza all’ordinamento comunitario.
Gli obiettivi, quindi, che questo lavoro si propone di raggiungere consistono nel trattare, nel corso del primo capitolo, le principali iniziative prese dall’Unione Europea in tema di politiche occupazionali; affrontare poi, nel secondo capitolo, l’analisi della Direttiva 1999/70/CE, anche alla luce delle recenti pronunce della Corte di Giustizia europea, e delle vicende che hanno portato alla sua recezione nel nostro ordinamento, attuata con il decreto legislativo n. 368 del 2001; riassumere, nel terzo capitolo, i caratteri fondamentali della precedente normativa, ripercorrendo le tappe più
2 Cfr., le opposte valutazioni di X. XXXXXXXX, La nuova legge sul lavoro a termine, in Dir. lav. rel. ind., 2001, pagg. 361 e ss.; e di A. VALLEBONA-X. XXXXXX, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, Xxxxxx, 0000.
3 Cfr. X. XXXXXXXX, Le prime osservazioni sullo schema di decreto legislativo sul lavoro a termine, 2001, in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx X. XXXXXXXXX, Sullo <<schema>> di decreto legislativo in materia di lavoro a tempo determinato (nel testo conosciuto al 6 luglio 2001), 2001, ivi.
significative che hanno condotto all’attuale disciplina; infine, nel quarto capitolo, presentare gli aspetti principali della nuova normativa, con particolare riferimento alle questioni che l’interpretazione dottrinaria e l’applicazione giurisprudenziale di questi anni hanno evidenziato.
Questi sono, a grandi linee, i punti che formeranno oggetto di trattazione e di approfondimento.
CAPITOLO I
LE POLITICHE OCCUPAZIONALI DELL’UNIONE EUROPEA
§1- La politica sociale nell’ordinamento comunitario.
In passato nonostante la forte influenza che il diritto internazionale ha esercitato nella costruzione dell’ordinamento comunitario – in particolare la ricca normativa OIL in materia di lavoro4 - e nonostante le più recenti acquisizioni del Trattato di Maastricht, deve ammettersi che l’evoluzione dell’ordinamento comunitario ha privilegiato la componente mercantilistica del mercato interno5 rispetto alla componente sociale. L’obiettivo primario del processo di integrazione è stato, per molto tempo, la creazione di un mercato europeo fondato sulla concorrenza e caratterizzato, da un lato, dalla liberalizzazione degli scambi tra gli Stati membri e, dall’altro, dall’istituzione di una tariffa doganale comune verso il resto del mondo, cosicchè i diritti sociali e del lavoro venivano in rilievo solo nella misura in cui la condizione materiale e giuridica dei lavoratori incideva sul raggiungimento dell’obiettivo. In quest’ottica le varie disposizioni del Trattato di Roma (1957) che si occupano direttamente o indirettamente di aspetti sociali, come gli artt. 48-52 sulla libera circolazione dei lavoratori, gli artt. 117-119 sulla parità di trattamento tra lavoratori di sesso diverso, risultano permeate dalla radicata fiducia nelle capacità spontanee del mercato di promuovere anche il miglioramento e l’armonizzazione dei sistemi sociali, come affermato testualmente dagli artt. 2 e 1176. L’attenzione alla dimensione sociale dell’Europa ricevette un
4 Sull’influenza del diritto internazionale del lavoro sulla Politica sociale comunitaria, e sui segnali di ripresa dell’attenzione alle tematiche del lavoro registrati nelle più recenti esperienze di Maastricht, con l’Accordo sulla politica sociale, v. X. XXXXXX – X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Profili di diritto comunitario del lavoro, X. Xxxxxxxxxxxx editore, Torino, 1996, pagg. 3 ss.
5 X. XXXXXX, Il Lavoro, estratto da Il diritto privato dell’unione europea, volume XXVI, Tomo II, X. Xxxxxxxxxxxx Editore, Torino, 1999, pag. 1.
6 Secondo l’art. 2 <<la Comunità ha il compito di promuovere mediante l’instaurazione di un mercato comune e il progressivo ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri (…) un miglioramento sempre più rapido delle condizioni di vita>>, mentre nel testo dell’art. 117 si legge che
<<gli Stati membri convergono sulla necessità di promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la loro parificazione nel progresso>>, ma si aggiunge che tale
significativo impulso nel clima di forte tensione sociale di fine anni ’60: nel 1974 venne approvato dal Consiglio il primo Programma d’azione in materia sociale in cui non solo si enfatizza l’interdipendenza tra azione economica e azione sociale comune, ma si giunge ad affermare che l’espansione economica non è un fine in sé ma deve tradursi in un miglioramento della qualità e del livello di vita7. Nel corso degli anni ’80 lo shock petrolifero, la successiva intensa fase di ristrutturazione e innovazione produttiva e l’indebolimento delle forze sindacali, accentuati dall’offensiva politico-culturale del neoliberismo, contribuirono all’impasse della politica sociale comunitaria cui si tentò di porre rimedio sia con lo stanziamento di fondi volti ad incoraggiare una serie di iniziative sul piano occupazionale e sociale, sia con la redazione nel 1986 dell’Atto Unico Europeo8: esso, nel porre l’obiettivo dell’unità economica e monetaria e pur avendo, quindi, un centro di interesse ancora economico, introdusse il nuovo concetto della coesione economica e sociale tra Stati membri che le autorità comunitarie devono promuovere, impegnandosi a <<ridurre il divario fra le diverse regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite>> (art. 130). L’ Atto Unico segnò un progresso anche nella direzione del miglioramento dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori, che diventava obiettivo primario della Comunità (art. 118 A), per cui alla regola dell’unanimità, ribadita per le direttive <<relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti>> (art. 100 A) fu sostituita, nella sola materia dell’ambiente di lavoro, quella della maggioranza qualificata. Successivamente, la Carta europea dei diritti sociali fondamentali del 1989, nonostante il solenne annuncio contenuto nel II considerando (<< (…) nella costruzione del mercato unico europeo occorre conferire agli aspetti sociali la stessa importanza che agli aspetti economici>>) e nonostante abbia costituito un importante precedente in occasione dell’Accordo sulla politica sociale firmato a Maastricht qualche anno dopo, oltre ad essere priva di valore vincolante, disattese l’approccio carico di ideali sui temi di fondo della politica sociale emerso nella sua versione iniziale, manifestando ancora un netto squilibrio in favore della politica
miglioramento discenderà in primo luogo dal funzionamento del mercato comune, che favorirà l’armonizzazione dei sistemi sociali.
7 V. M. ROCCELLA – X. XXXX, Diritto del lavoro della Comunità Europea, Cedam, Padova, 2002, p. 11, che sottolineano come il Programma, focalizzato su tre obiettivi principali (la realizzazione del pieno e migliore impiego nella Comunità, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la partecipazione crescente delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della Comunità e dei lavoratori alla vita delle imprese) fosse un <<programma ambizioso, da vera e propria Carta sociale comunitaria>>.
8 X. XXXXXXX, Alla ricerca di una strategia europea per l’occupazione, in Dir. lav., 1999, p. 240.
economica9. Le difficoltà del processo di integrazione sociale si manifestarono con evidenza in occasione del vertice di Maastricht (dicembre 1991): se esso segnò, infatti, un forte progresso verso l’Unione europea, indicando le tappe e le condizioni per l’Unione economica e monetaria e sancendo il cambiamento del nome da <<Comunità economica europea>> a <<Comunità europea>>, riguardo agli aspetti sociali l’opposizione della Gran Bretagna indusse ad adottare un Protocollo separato, vincolante soltanto gli altri 11 Stati membri. L’Accordo allegato al Protocollo (APS: Accordo sulla politica sociale) ampliava, innanzitutto, i compiti comunitari nella sfera sociale, assegnando congiuntamente alla Comunità e agli Stati membri gli obiettivi della promozione dell’occupazione, del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, di una protezione sociale adeguata, del dialogo sociale, dello sviluppo delle risorse umane al fine di consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e di combattere le esclusoni, obiettivi da realizzare, tuttavia, tenendo conto delle diversità delle pratiche nazionali e della necessità di mantenere la competitività dell’economia comunitaria (art. 1). L’art. 2 dell’APS estendeva, coerentemente, l’ambito delle materie per cui le decisioni potevano essere assunte a maggioranza qualificata: non solo, dunque, l’ambiente di lavoro, ma anche le condizioni di lavoro, comprendenti il trattamento normativo del rapporto di lavoro, l’informazione e la consultazione dei lavoratori, la parità uomo-donna rispetto anche alle opportunità nel mercato del lavoro; rimanevano, comunque, soggetti alla regola dell’unanimità aspetti del rapporto di lavoro di preminente interesse come la sicurezza sociale e la protezione sociale dei lavoratori e la protezione contro i licenziamenti, mentre totalmente esclusi da ogni azione comunitaria continuavano ad essere altri aspetti fondamentali quali le retribuzioni, il diritto di associazione sindacale, lo sciopero e la serrata. La novità più rilevante dell’Accordo risiedeva, però, nella valorizzazione del metodo negoziale per ottenere la convergenza in materia di lavoro in occasione sia della recezione delle direttive comunitarie in materia sociale sia dell’iniziativa legislativa della Commissione. Oltre a prevedere la possibilità per gli Stati membri di affidare alle parti sociali, su loro richiesta congiunta, il compito di stabilire mediante accordo le necessarie disposizioni di attuazione delle direttive sociali (art. 2, comma 4°), l’APS istituzionalizzava una particolare procedura (artt. 3 e 4) in base alla quale la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, ha l’obbligo di consultare le parti sociali a livello comunitario che
9 R- FOGLIA, op.ult.cit., pp. 6-7.
possono intraprendere la via dell’accordo contrattuale per regolare la materia; la Commissione può sospendere la propria iniziativa e trasferire, poi, d’intesa con le parti, il contenuto dell’accordo raggiunto nella proposta di direttiva. Veniva, così, alterato il tradizionale assetto delle fonti in quanto gli accordi conclusi a livello comunitario, oltre a poter essere attuati secondo le procedure proprie degli Stati membri, se sanzionati dalle decisioni del Consiglio, potevano diventare direttamente operanti negli ordinamenti nazionali10. I problemi strutturali e le difficoltà macroeconomiche degli anni '90 portarono a focalizzare l’attenzione della politica comunitaria sul problema dell’occupazione, nel tentativo di dare una risposta coordinata a livello europeo: il Libro Bianco di X. Xxxxxx su "Crescita, Competitività e Occupazione" del 1993 e la c.d. “strategia di Essen” del 199411, che ad esso si ispirava, costituirono i primi passi di una ricerca di linee di azione comuni in materia12. In tale contesto, il Trattato di Amsterdam (1997), che dedica all’occupazione il nuovo Titolo VIII13, riconosce la promozione di un elevato livello di occupazione come <<questione di interesse comune>> (art. 126, 2° comma) e impegna gli Stati membri e la Comunità ad adoperarsi <<per sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione>> (art. 125) attraverso un metodo di intervento soft incentrato sulla formulazione degli annuali orientamenti ad opera del Consiglio, metodo che verrà meglio precisato in sede di prima applicazione dal Consiglio Europeo straordinario di Lussemburgo (20-21 novembre 1997)14. Il Trattato di Amsterdam, che pone tra gli obiettivi comuni a Stati e Comunità anche <<il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro>> che consenta la <<parificazione nel progresso>>, una <<protezione sociale adeguata>> e la <<lotta all’emarginazione>> (art. 136), incorpora tutte le disposizioni dell’Accordo sulla politica sociale negli artt. 136 ss. e, pur non attribuendo efficacia diretta ai diritti sociali fondamentali, ne fa espresso richiamo sia nel TUE (art. 6) sia nel TCE (art. 136), configurandoli come norme programmatiche e di orientamento dell’attività delle istituzioni comuni. Partendo dalla constatazione del drammatico aumento di coloro che in Europa vivono al di sotto della soglia di povertà, il Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), elabora una
10 M. ROCCELLA – X. XXXX, op.ult.cit., p. 20.
11 Sul Consiglio Europeo di Essen del 9-10 dicembre 1994 si rinvia a X. XXXXXXX, op.ult.cit., pp. 243- 244.
12 X. XXXXXXX, Dopo Amsterdam. I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Brescia, Promodis, 2000, pag 121 (ivi ulteriori ampi riferimenti sulle vicende precedenti alle scelte del trattato di Amsterdam in materia di occupazione).
13 V. infra, §4.
14 V. infra, §5.
nuova strategia, il cui obiettivo, da raggiungere entro il 2010, è <<diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale>> (Conclusioni della Presidenza, punto 5). Per raggiungere questo obiettivo l’azione della Comunità e degli Stati membri deve fondarsi su tre pilastri: 1. predisporre il passaggio a un’economia e una società basate sulla conoscenza, migliorando le politiche in materia di società dell’informazione e di R&S, accelerando il processo di riforma strutturale ai fini della competitività e dell’innovazione e completando il mercato; 2. modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle persone e combattendo l’esclusione sociale; 3. sostenere il contesto economico e le prospettive di crescita applicando un’adeguata combinazione di politiche mecroeconomiche. Una simile strategia non può essere perseguita attraverso il c.d. “metodo comunitario classico” (MCC), basato su direttive vincolanti tendenti all’armonizzazione, difficilmente realizzabile nelle materie sociali, ma attraverso un nuovo strumento iterativo mutuato dal modello elaborato nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione: il Metodo Aperto di Coordinamento (MAC). Le caratteristiche fondamentali del MAC sono sinteticamente descritte nel punto 37 delle Conclusioni del Consiglio di Lisbona. Il MAC, inteso come <<strumento per diffondere le buone prassi e conseguire una maggiore convergenza verso le finalità principali dell’UE>> e <<per assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche>>, implica: la definizione degli orientamenti (guidelines) dell’Unione in combinazione con calendari specifici per il conseguimento degli obiettivi da essi fissati; la determinazione di indicatori quantitativi e qualitativi e di parametri di riferimento (benchmarks), utilizzati come strumenti per confrontare le buone prassi (best practices); la trasposizione degli orientamenti europei nelle politiche nazionali e regionali, fissando obiettivi specifici e adottando misure che tengano conto delle diversità nazionali e regionali; il periodico svolgimento di attività di monitoraggio, verifica e valutazione inter pares (peer-review), organizzate nel quadro di un processo di apprendimento reciproco (mutual learning).
I Consigli Europei successivi a quello “fondativo” di Lisbona15 hanno sviluppato e arricchito l’approccio integrato alle questioni economiche, occupazionali e
15 Si fa riferimento, in particolare, al Vertice di Nizza del 12-13 dicembre 2000 e all’Agenda sociale ivi approvata, ma anche a quelli di Stoccolma (23-24 marzo 2001), di Laeken (14-15 dicembre 2001).
sociali, sottolineando la necessità di un incremento della “qualità”: dello sviluppo economico, che deve essere portatore di nuove occasioni di lavoro; dell’occupazione che, per poter costituire il fattore primario di protezione sociale, deve essere duratura e remunerata in modo da consentire un’esistenza libera e dignitosa dell’individuo; delle politiche sociali che, inserite in un contesto di sviluppo economico-sociale di qualità, meglio possono contribuire ad un elevato livello di coesione sociale e di garanzia dei diritti sociali fondamentali16. Il Consiglio Europeo di Bruxelles del marzo 2005 ha implementato il coordinamento dei cicli di programmazione delle politiche economiche e occupazionali per mezzo di Orientamenti integrati17 che, relativamente all’occupazone, sono stati individuati nel rafforzamento della coesione sociale e territoriale, intesa come <<inclusione sociale, prevenzione dell’esclusione dal mercato del lavoro e sostegno all’integrazione delle persone svantaggiate e riduzione delle disparità regionali in termini di occupazione, disoccupazione e produttività del lavoro>>, nella promozione del pieno impiego e nel lavoro di qualità e di alta produttività.
Se ancora non è in vigore una Costituzione dell’Unione contenente un catalogo di diritti fondamentali, tali da impedire che il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza rappresenti la “stella polare” della politica europea, l’inserimento nel Trattato costituzionale europeo firmato nel giugno 2004 della Carta dei Diritti Fondamentali, approvata a Nizza nel 2000 con una dichiarazione che ne escludeva la diretta efficacia giuridica, ha rappresentato indubbiamento un importante traguardo storico: oltre ad attribuire valore giuridico a diritti prima affermati solo politicamente, determina il definitivo superamento della matrice esclusivamente mercantile dell’unione Europea, valorizzando, nell’ordinamento comunitario, “le ragioni” dei diritti sociali rispetto a quelle della concorrenza18.
16 E. ALES, La modernizzazione del modello di protezione sociale europeo: la lotta all’esclusione sociale attraverso l’Open Method of Co-ordination, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2004, pp. 37 ss.
17 Decisione del Consiglio n. 2005/600/CE, 12/07/2005.
18 X. XXXXXXXXXX, Armonizzazione e concorrenza tra ordinamenti nel diritto del lavoro, 2006, in www.lex.unict/eurolabor/ricerca/wp/int.
§2- L’Europa Sociale: problemi e prospettive.
Se anche da molti viene messa in dubbio l’esistenza di un modello unico in quanto, come ha scritto Xxxxx Xxxxx00, ci sono “diversi modelli sociali europei, con differenti caratteristiche e diverse performance in termini di efficienza ed equità”, si può identificare il modello sociale europeo con quello che associa alla proprietà un concetto di responsabilità, che punta sulla cittadinanza e valorizza l’idea di comunità, che affida a un intervento esteso dello Stato compiti pervasivi di mediazione sociale e di correzione degli esiti del mercato, che è informato all’idea di patto che lega i cittadini alle istituzioni20. In altre parole, l’identità sociale europea presenta come tratto distintivo un “progetto comune di solidarietà” attestato su temi ormai condivisi: social policy come fattore produttivo, conciliazione di giustizia sociale ed efficienza economica, rilevanza del dialogo sociale nella promozione delle riforme di welfare21. La realizzazione della dimensione sociale europea è stata sempre caratterizzata dalla ricerca del giusto equilibrio tra due obiettivi contrapposti ma coordinati: da un lato, impedire, in un mercato aperto, che la concorrenza si basasse sullo sfruttamento della manodopera e, dall’altro, evitare, che, per contrastare il dumping sociale, si procedesse ad una armonizzazione di alcune regole base nel campo lavoristico tarata su standards troppo elevati, che avrebbe avuto, di fatto, una funzione protezionistica dei Paesi economicamente più forti, determinando un dumping sociale al contrario. Le direttrici dell’armonizzazione sono state orientate, quindi, per un verso, ad eliminare le distorsioni della concorrenza e, dunque, a rafforzare il mercato (armonizzazione funzionalista) e, per un altro, a correggere il mercato mediante l’imposizione di regole comuni ai vari ordinamenti nazionali del lavoro (armonizzazione coesiva). Entrambe le direttrici rientrano nella c.d. integrazione positiva la quale, anche nella sua versione debole di tipo funzionalista, presuppone un intervento regolativo che, pur
19 X. XXXXX, Politiche sociali efficaci al passo della globalizzazione, in Il Mulino, 2005, n. 6, pp. 1003- 1018.
20 X. XXXXXX, Solo la crescita può salvare il modello sociale europeo, relazione al Convegno” Welfare scandinavo, welfare italiano: il modello sociale europeo”, Roma 22/23 Aprile 2004. Secondo una definizione della Commissione, citata da X. XXXXXX, Il Capitolo sull’Occupazione del Trattato di Amsterdam e le politiche della terza via: quali prospettive per la soft-law?, in Dir. rel. ind., 1999, n. 4, p. 421, nota 7, il Modello Sociale Europeo è una soluzione che comprende i valori <<della democrazia e dei diritti individuali, della libera contrattazione collettiva, dell’economia di mercato, dell’uguaglianza di opportunità per tutti, dell’assistenza sociale e della solidarietà>>.
21 X. XXXXXXXXX, Protezione sociale e dimensione europea, in PORCARI S. (a cura di), Sistemi di welfare e gestione del rischio economico di disoccupazione, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 2004.
indirettamente, dà rilievo ai valori sociali, distinguendosi, per questa via, dalla c.d. integrazione negativa che comprende le misure dirette esclusivamente ad eliminare ogni ostacolo allo sviluppo del mercato comunitario senza tener conto di valori diversi dalla libertà di concorrenza22. Il livello di armonizzazione raggiunto non è affatto generale: ad aree di politiche e prassi in cui prevale il coordinamento si affiancano aree in cui prevale o si accentua la diversificazione23; inoltre, i settori in cui è stato raggiunto un discreto livello di armonizzazione nel progresso sono soprattutto quelli tradizionali della parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici e della tutela di alcuni diritti minimi dei lavoratori nel caso di alcune vicende che interessano l’impresa (trasferimento d’azienda, licenziamenti collettivi, protezione del lavoratore in caso di insolvenza del datore di lavoro)24. L’integrazione sociale europea ha incontrato, poi, sempre maggiori difficoltà dovute all’aperura dei mercati europei e internazionali che ha reso sempre più evidente il problema della regulatory competition e della connessa race to the bottom. La Comunità ha quindi optato per l’adozione di modelli regolativi meno rigidi di quelli del passato, non solo attraverso il coordinamento per obiettivi (MAC), assunto per l’intero spettro delle materie sociali, ma anche attraverso direttive dal contenuto “leggero” che, cioè, non regolamentano dettagliatamente il loro oggetto ma si limitano ad imporre standards di base. Tale tecnica regolativa presenta luci e ombre: se, infatti, consente di attenuare le differenze tra le varie legislazioni nazionali salvaguardando le peculiarità non incompatibili con i principi sociali sanciti dalla legislazione comunitaria, può, però, alimentare una “corsa al ribasso” delle tutele da parte degli ordinamenti nazionali, come è avvenuto in Italia in occasione della trasposizione della direttiva 99/70/CE.
Il modello europeo e con esso il diritto del lavoro sono sottoposti attualmente a una dura prova dovendo fare i conti con le novità prodotte dall’allargamento dell’Unione a 27 Paesi, con le problematiche derivanti dall’invecchiamento della popolazione e soprattutto con una concorrenza mondiale sempre più forte sia da parte dei competitori tradizionali, Stati Uniti e Giappone, che da parte delle nuove potenze Asiatiche. L’Europa, inoltre, sta attraversando da tempo uno dei momenti di maggiore difficoltà economica degli ultimi decenni25 e, all’interno di una economia poco dinamica e incapace di avere prestazioni soddisfacenti, difendere il modello sociale
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxxxxxxxxxxx…, 0000, op.cit., pp. 10-11.
23 X. XXXX, L’Europa sociale: problemi e prospettive, in Dir. rel. ind., 2001, n. 3, p. 327.
24 X. XXXXXXXXXX, op.ult.cit., p. 11.
25 XXXXXXX XXXX, op.ult.cit., p. 307
europeo diventa assai arduo. Se, infatti, l’economia è stagnante o, semplicemente, rimane manifestamente indietro rispetto alla crescita di altre parti del mondo, è inevitabile che policy makers, opinione professionale e opinione pubblica finiscano per puntare il dito contro il sistema di regolazione e protezione sociale, a cui i suoi critici attribuiscono le colpe degli alti costi di mantenimento (e quindi dell’alta tassazione), di una tendenza al corporativismo, della scarsa produttività della spesa pubblica, dei disincentivi alla produttività di sistema.
Questa diagnosi ha già forza oltreatlantico ed è diffusa anche in Europa; è universalmente radicato il convincimento che la performance degli Stati Uniti sia dovuta unicamente allo small State, alla regolazione e flessibilità dei mercati, alla concorrenza e, in generale, ai fattori di offerta che hanno stimolato produttività e investimenti e che si avvalgono della propensione di quel Paese a produrre tecnologia e capitale umano. Questa immagine del modello Anglo-Americano, in realtà, è frutto di idealizzazione e pregiudizio ideologico26. Anche volendo trascurare i risultati statunitensi, sicuramente peggiori di quelli europei, riguardo a speranza di vita, mortalità infantile, disuguaglianza dei redditi e povertà, bisogna tener presente che la prosperità economica degli Usa è legata in gran parte alla loro politica macroeconomica: maggior deficit fiscale e bassi tassi d’interesse, facilità di accesso al credito sostenuta dal Governo, intervento statale nei settori strategici dell’economia (industria bellica, agricoltura e hi-tech), diffusione mondiale del dollaro nelle transazioni internazionali, sono tutti fattori che hanno contribuito a determinare il successo dell’economia Americana molto più della flessibilità del mercato del lavoro. Inoltre, da più parti27 si sottolinea come il vantaggio degli Stati Uniti vada cercato anche nell’esistenza di una leva di comando centrale per la conduzione macroeconomica a fronte di una Unione Europea la cui debolezza politica mostra di avere i suoi effetti più dirompenti proprio sull’economia28.
26 XXXX XXXX, The Anglo-American model: fact or fantasy?, relazione al Convegno “Europa sociale. Problemi e prospettive”, Roma, 18/11/2003.
27 XXXXXXX XXXXXX A., L’Europa e la sindrome di Lisbona, in Il Mulino, 2006, n. 2, pp. 337-345; CAZZOLA G., I piccoli passi dell’Europa sociale, in Il Mulino, 2005, n. 1, pp. 123-130; BIASCO S., op.ult. cit.
28 Proprio per rafforzare l’identità politica dell’UE e fornirle strumenti di azione adeguati, alcuni auspicano l’istituzione di un’Agenzia di spesa che presieda al bilancio comunitaro, sottraendolo alle controversie tra Stati e che, all’occorrenza, sia in grado di spendere in conto capitale emettendo titoli di debito pubblico, nonché l’introduzione di una tassa a beneficio della Comunità, in sostituzione (e non in aumento) di qualche imposta nazionale, allo scopo di conferire all’UE una sovranità fiscale accanto a quella monetaria che già possiede.
Dunque, la sostenibilità del modello sociale europeo passa attraverso la dimostrazione che esso è capace di generare crescita produttiva costante. E per restituire competitività innovativa all’UE, la strategia di Lisbona, con i suoi successivi aggiustamenti, può rappresentare ancora il giusto approccio29. Il Consiglio europeo straordinario del Marzo 2000 lanciò la sfida di rendere l’Europa entro il 2010 “l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’impiego e da una maggiore coesione sociale, nel rispetto della sostenibilità ambientale”30. Il punto di riferimento per rilanciare l’economia dell’Europa e il suo modello sociale dovrebbero essere le decisioni prese a Lisbona e riconfermate dalla Commissione nel Consiglio di Primavera tenutosi a Bruxelles nel Marzo 2005, che costituiscono, poi, la naturale evoluzione e lo sviluppo coerente delle intuizioni contenute nel Libro Bianco di X. Xxxxxx: innanzitutto rendere l’Europa un luogo più attraente per investire e lavorare, al qual fine si propone di completare il mercato interno, migliorare le infrastrutture, le regole e la concorrenza, ridurre i costi connessi alle formalità burocratiche. Occorre poi intervenire nell’area della conoscenza e dell’innovazione per la crescita, al qual fine si propone di aumentare gli investimenti in R&S, diffondere le tecnologie dell’informazione e della comunicazione affinché siano alla portata di tutti senza discriminazioni, migliorare l’uso delle risorse e la base industriale. Occorre infine creare posti di lavoro più numerosi e migliori investendo in capitale umano con più istruzione e qualificazione, migliorando l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese, riformando i sistemi di protezione al fine di realizzare un miglior equilibrio tra sicurezza e flessibilità e una più equa allocazione delle risorse tra le generazioni attuali e quelle che verranno.
Anche le imprese sono chiamate ad assumere una effettiva responsabilità sociale31 per migliorare la qualità del lavoro, impegnandosi a costruire una cultura in grado di superare la c.d. via bassa alla competizione32. Con tale via, infatti, l’obiettivo
29 X. XXXXXXXXX, Il modello europeo: i diritti sociali nell’economia della conoscenza, relazione al Convegno “Europa sociale. Problemi e prospettive”, Roma, 18/11/2003; XXXXXXX XXXXXX A., op.cit. 30 Il tasso di occupazione sarebbe dovuto salire mediamente entro il 2010 dal 61% al 70% con particolare attenzione al lavoro delle donne (dal 51% al 60%) e degli anziani (dal 38% al 50%) e si sarebbe dovuto raggiungere l’obiettivo del 5% del PIL di spesa in ricerca e sviluppo (R&S) e il 2,5% del saggio di crescita medio annuo del PIL.
31 X.XXXXXX, La partecipazione dei lavoratori nell’impresa europea, in RGL, 1990, I, pp. 43 ss.
32 X. XXXXX, La crisi del modello sociale europeo, relazione al Convegno organizzato dalla Fondazione dell’Istituto per il Lavoro, Bologna, 18-21 Giugno 2003.
del mero contenimento o riduzione dei costi produce una soluzione di breve periodo, scaricando sul fattore lavoro le ripercussioni negative di una eventuale contrazione economica e trascinando nel tempo, e quindi esasperando, problematiche di natura strutturale. Invece, con la valorizzazione del lavoro, attraverso capillari e permanenti investimenti in risorse umane, che determinano spinta motivazionale e dunque incremento della produttività, le aziende si collocherebbero all’interno di un circuito virtuoso in cui organizzazione del lavoro, innovazione e occupazione, interconnettendosi dinamicamente, fornirebbero un approccio europeo alla competitività. A questo approccio non deve essere estranea neanche la nozione di limite affinché la crescita e lo sviluppo siano rispettosi dell’ambiente, affinché, cioè, la violazione di elementari norme di rispetto dell’ambiente non diventi parte della competizione tra i sistemi economici e tra le singole imprese.
In diversa direzione sembra invece orientato il Libro Verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” con cui la Commissione, che lo ha presentato nel novembre 200633, si propone di <<lanciare un dibattito pubblico nell’UE al fine di riflettere sul modo di far evolvere il diritto del lavoro in modo tale da sostenere gli obiettivi della strategia di Lisbona: ottenere una crescita sostenibile con più posti di lavoro di migliore qualità>>, nella prospettiva di giungere entro il 2007 ad una comunicazione sulla flexicurity, intesa come combinazione integrata di politiche mirate alla flessibilità del lavoro e alla sicurezza dell’occupazione e del reddito. Il Libro Verde sembra discostarsi, in particolare, dal più volte affermato orientamento diretto ad attribuire alla politica sociale il ruolo di fattore produttivo e ad assegnare, quindi, alla coesione sociale e alla creazione di uno “Stato sociale attivo” la stessa importanza data al miglioramento della competitività e alla promozione di una crescita economica sostenibile, per accogliere, invece, una interpretazione prevalentemente unidimensionale della flexicurity, <<tutta appiattita sotto il profilo della flessibilità imposta dall’alto del mercato del lavoro e delle forme astratte e imperscrutabili di un capitale sempre più evanescente, ma non per questo meno pervasivo>>34, sembrando ignorare quanto già le discipline esistenti abbiano dimostrato di sapersi adattare alle
33 Per un approfondimento anche del dibattito che ha preceduto l’emanazione del Libro Verde si rinvia a
X. XXXXXXXXXX (a cura di), Dossier Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo, 2006, in xxxx://xxx.xxx.xxxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxx/xxxxxxx/xxxxxxx0.xxx.
34 G. ALLEGRI, Quale flexicurity per le politiche sociali europee?, in Il libro Verde della Commissione Europea sul futuro del diritto del lavoro. Parte I. Un déjà-vu che non convince, in xxx.xxx.xxxxxxx.xx/ on-line/Home/NewsletterBollettinoAdapt/DossierdiAdapt.html, p. 14.
sempre crescenti esigenze di flessibilità35. L’assunto di base sembra essere quello per cui, data la proliferazione dei contratti “atipici” che ha determinato una sensibile divaricazione tra i diritti dei diversi tipi di lavoratori, sarebbe opportuno intervenire sulla disciplina del lavoro standard in modo da riequilibrare le tutele. Gli Stati vengono, infatti, invitati a <<valutare ed eventualmente rivedere il grado di flessibilità previsto nei contratti standard per quanto riguarda i termini di preavviso, i costi e le procedure di licenziamento individuale e collettivo o la definizione di licenziamento abusivo>> e a
<<prendere in considerazione una combinazione della normativa di tutela dell’occupazione più flessibile e di una ben congegnata assistenza per i disoccupati, sotto forma di compensazioni per la perdita di reddito (politiche passive del lavoro) ma anche di politiche attive del mercato del lavoro>>. Il documento sembra adottare la tesi della proporzionalità inversa tra tutela dell’occupazione e andamento della stessa, “colpevolizzando” eccessivamente il diritto del lavoro a fronte delle carenze dimostrate dalle politiche macroeconomiche36 e propone una strategia in cui la deregolamentazione del rapporto di lavoro è compensata da un efficiente sistema di welfare, fondata, quindi, sulla deresponsabilizzazione dal lato della domanda di lavoro (imprenditori) e sulla iper-responsabilizzazione della collettività, chiamata a sostenere i costi economici e sociali di un lavoro di scarsa qualità37. Sebbene il Libro Verde offra uno spunto per un dibattito collettivo sul ruolo del diritto del lavoro, appaiono evidenti i rischi per il modello sociale europeo insiti in una concezione del diritto del lavoro che ne valuta la “modernità” ed efficacia in funzione della sua pretesa capacità di creare occupazione e non della sua attitudine a tutelare i diritti della persona e a contribuire al “miglioramento nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro”.
35 X. XXXXXXX, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea. Un tassello nella “modernizzazione” del diritto del lavoro, 2007, in www.lex.unict/eurolabor/ricerca/wp/int,
p. 8.
36 X. XXXXXX – X. XXXXX XXX, Presentacion al libro verde, Xxxxxxxxx xx xx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx xx Xxxxxxxx, x. 0/0000, xx X. XXXXXXXXXX (a cura di), Dossier…, 2006, op.cit.
37 E. ALES, Dalla politica sociale europea alla politica europea di coesione economica e sociale. Considerazioni critiche sugli sviluppi del modello sociale europeo nella stagione del metodo aperto di coordinamento, 2007, in www.lex.unict/eurolabor/ricerca/wp/int, p. 30.
§3- La disoccupazione nei paesi membri della Comunità Europea: il Libro Bianco di Xxxxxxx Xxxxxx.
Il “Libro Bianco” di Xxxxxxx Xxxxxx00 su “crescita, competitività, occupazione”, presentato dalla Commissione europea nel dicembre del 1993, risulta ancora estremamente attuale per le sue proposte programmatiche, la sua “filosofia di fondo”, l’idea di un modello di sviluppo che possa rendere compatibili sviluppo, crescita e giustizia sociale39.
Partendo dall’analisi del preoccupante dato relativo alla disoccupazione (all’epoca, 18 milioni di persone senza lavoro con un tasso di circa l’11%), il Libro Bianco afferma che l’economia dei 25 anni precedenti è stata caratterizzata dal basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro che, non riuscendo a compensare l'incremento della forza lavoro, ha determinato la crescita pressoché costante del numero dei disoccupati. La scarsa creazione di posti di lavoro e il basso livello degli investimenti nella Comunità, riscontrabili dopo il primo shock petrolifero del 1973, secondo Xxxxxx, sono dovuti principalmente alle politiche macroeconomiche adottate dagli Stati membri. Nei primi anni ’90 si è avuta una recessione dovuta alla combinazione di un basso tasso di crescita potenziale e da errori di politica economica che hanno spinto il tasso di crescita effettivo oltre quello potenziale. Dalla fine del 1987, dopo il crack delle Borse, si è temuta una fase recessiva e, quindi, vi è stata una politica monetaria su scala mondiale espansiva.
Tuttavia, l'economia europea era già in una fase espansiva che, però, non si rifletteva ancora nelle rilevazioni statistiche, ciò nel 1988 ha portato ad un tasso di crescita effettivo del 4,1% che superava ampiamente il tasso di crescita potenziale. Questa situazione si è protratta fino al 1990, determinando tensioni inflazionistiche e conseguenti aumenti salariali; ed è proprio in questo contesto macroeconomico che il "Libro Bianco" pone come obiettivo la creazione, entro l'anno 2000, di 15 milioni di nuovi posti di lavoro prevedendo un aumento dell'offerta di lavoro all'incirca pari allo 0,5%, dovuto in larga parte all'andamento demografico e per il resto all'aumento del tasso di partecipazione.
38 COMMISSIONE EUROPEA, Crescita, Competitività, Occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per antrare nel XXI secolo, Bruxelles, Lussemburgo, 1994.
39 X. XXXXXXXXX, Prefazione al libro “Per un’Europa migliore”, ed. “L’Unità”, 2003.
Il "Rapporto Xxxxxx" indica che le scelte di politica economica da adottare per ridurre la disoccupazione dipendono dal tipo di crescita a medio termine ritenuta più idonea a determinare l'aumento desiderato dell'occupazione, apportando conseguenze diverse sia sul piano economico sia sul piano sociale, e quindi è necessario valutare le implicazioni delle principali alternative: crescita modesta ed elevatissima intensità occupazionale e crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale.
La prima opzione si basa sul convincimento che non sia possibile ottenere una crescita molto elevata, anche per le conseguenze sull'ambiente della stessa, e che dunque bisognerebbe incrementare notevolmente il contenuto occupazionale della crescita. Quindi, si reputa auspicabile una crescita effettiva del prodotto in linea con quella potenziale (poco più del 2% all'anno) ed un notevole incremento dell'intensità occupazionale rispetto ai valori attuali. Seguire questa strada vuol dire rifarsi alla situazione degli Stati Uniti, che negli ultimi venti anni hanno vissuto una crescita modesta caratterizzata, però, da un'alta intensità occupazionale.
La seconda opzione prevede una crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale. Si ritiene che, se all'interno dell'Unione si riuscisse a coniugare una crescita dell'economia del 3% con un aumento dell'intensità occupazionale della stessa compreso fra lo 0,5 e l'1%, si conseguirebbe l'obiettivo di creare quindici milioni di posti di lavoro entro il 2000. In questo caso circa 2/3 dei nuovi posti sarebbero frutto del consolidamento della crescita, mentre 1/3 sarebbero da addebitare alla maggiore intensità occupazionale della stessa40.
Allo scopo di intraprendere questo percorso di crescita sostenuta e di maggiore intensità occupazionale è necessario che la politica economica comunitaria si fondi su tre elementi principali connessi l'uno all'altro:
1. un quadro macroeconomico in grado di sostenere le forze di mercato e non di ostacolarle come è avvenuto in passato;
2. interventi di carattere strutturale volti ad accrescere la competitività verso l'esterno del sistema europeo e a permettere di sfruttare tutte le potenzialità del mercato interno;
3. una riforma strutturale del mercato del lavoro per rendere più semplice e meno oneroso il ricorso alla manodopera, aumentando così l'intensità occupazionale della crescita.
40 Un tasso di crescita dell'economia europea di quest'ordine viene considerato compatibile con le esigenze di tutela dell'ambiente. Questa opzione è ritenuta non facile da conseguire, ma comunque più sostenibile in termini sociali rispetto a quella "modellata" sull'esempio americano.
Una crescita sostenuta è uno degli obiettivi imprescindibili per aumentare l'occupazione: questo dipende dall'andamento dell'economia mondiale, ma anche dalle politiche attuate all'interno dell'Unione; la politica economica deve quindi favorire un processo di crescita fondato sugli investimenti piuttosto che sul consumo.
Il rapporto Xxxxxx sostiene che i salari reali dovrebbero continuare ad aumentare, come durante la maggior parte degli anni Ottanta, di un punto percentuale in meno rispetto alla produttività; solo in questo modo si realizzerebbe il necessario incremento della redditività degli investimenti e della competitività del sistema. In questo senso, secondo il rapporto, il criterio fissato dal Trattato di Maastricht (disavanzi di bilancio inferiori al 3%) è sicuramente un punto di riferimento importante.
L'Unione Europea risulta svantaggiata rispetto ai suoi concorrenti per una serie di motivi:
1. i risultati commerciali dell'Unione, a partire dagli anni Ottanta, sono peggiorati costantemente e l'industria europea ha perso quote di mercato sia rispetto ai paesi di nuova industrializzazione, sia rispetto ai suoi concorrenti classici (Stati Uniti e Giappone);
2. l'industria comunitaria ha migliorato la sua posizione commerciale solo su mercati a crescita debole (cotone, macchine tessili e da cucire, vari prodotti tessili, conceria, materiale ferroviario, macellazione e preparazione delle carni, lavorazione dei cereali, distillazione di alcool etilico), mentre sui mercati ad alto valore aggiunto come l'informatica, l'elettronica, la robotica, gli strumenti ottici ed il materiale medico- chirurgico vi è un ritardo preoccupante. Per competere in queste arene è necessaria una forte ripresa degli investimenti, l'introduzione di tecnologie più efficienti, la riqualificazione della manodopera ed una riorganizzazione della produzione;
3. un livello insufficiente di investimenti nella ricerca e nello sviluppo tecnologico.
D'altro canto l'industria europea dispone di alcuni punti di forza rispetto ai suoi competitori: le imprese europee risultano meno indebitate rispetto a quelle americane e giapponesi e lavorano con margini in linea con quelli di questi due paesi; inoltre, la realizzazione del mercato interno ha dato un notevole impulso alla ristrutturazione delle imprese, la manodopera è altamente qualificata ed il livello delle infrastrutture, sebbene da migliorare, risulta adeguato. Per implementare il mercato interno si suggerisce di semplificare il contesto normativo e fiscale, facilitare l'attività delle imprese con iniziative volte a garantire il massimo grado di concorrenza e l'accesso al credito
privato, aiutare lo sviluppo delle piccole e medie imprese, spina dorsale del sistema economico europeo, tramite la cooperazione e la costruzione di reti, lanciare il piano di realizzazione delle reti transeuropee, promuovere una crescita dell'economia sostenibile sia sul piano della stabilità monetaria sia su quello ambientale.
Nel programma di Xxxxxx si sottolinea come la semplice crescita dell'economia non può bastare se non si mette mano ad una profonda riforma del mercato del lavoro, che è una delle cause principali di una disoccupazione che ha assunto un carattere strutturale, come evidenziato dal numero dei disoccupati, dal fatto che oltre la metà di loro sono disoccupati di lungo periodo e dall'elevata disoccupazione giovanile; il mercato del lavoro è considerato troppo rigido, in termini di organizzazione dell'orario di lavoro, di retribuzioni, di mobilità e di adeguamento dell'offerta di lavoro alle esigenze della domanda; queste caratteristiche del mercato del lavoro sono la causa di un costo del lavoro relativamente elevato, che è cresciuto in Europa in misura maggiore rispetto agli Stati Uniti ed al Giappone. La riorganizzazione degli orari di lavoro viene considerata un aspetto importante sia per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro sia per i riflessi in termini di nuova occupazione, pertanto, andrebbero rimossi gli ostacoli di carattere normativo alle trasformazioni già in atto in materia di organizzazione e durata dell’orario di lavoro, senza però tentare di imporre la riduzione per via legislativa. Si suggerisce, quindi, di negoziare un equilibrio migliore in tema di tutela sociale fra lavoratori permanenti e lavoratori a tempo determinato, in modo che sia le imprese sia i lavoratori possano scegliere il modello di lavoro preferito; ridurre al minimo gli incentivi finanziari che stimolano i percettori di redditi al di sopra della media a lavorare un numero di ore superiore alla media; incoraggiare la riduzione della settimana lavorativa, utilizzando maggiormente gli impianti, se necessario, e tutelando la competitività; elaborare misure atte a favorire le persone iscritte alle liste di collocamento laddove si presentino nuove opportunità di impiego; ridurre le ore di lavoro su base annua e incentivare i periodi di interruzione del lavoro e i congedi di formazione.
Una strategia per ridurre la disoccupazione dovrebbe basarsi su di una significativa riduzione del costo del lavoro da realizzare attraverso una diminuzione degli oneri sociali (all’epoca, circa il 40% del Prodotto Interno Lordo). I prelievi direttamente gravanti sul lavoro (imposte dirette e contributi sociali) rappresentano oltre la metà dei prelievi obbligatori (il 23,5%) e sono aumentati in
termini reali del 40% dal 1970, ossia ad un ritmo doppio rispetto a quelli americani. Il livello elevato di questi costi non salariali è uno degli ostacoli maggiori per un aumento dell'occupazione, in quanto le imprese sono ovviamente dissuase dall'assumere nuova manodopera e ciò vale in misura maggiore per le piccole e medie imprese, che sono le prime ad essere scoraggiate dall'elevato livello degli oneri sociali, amministrativi e fiscali che gravano su di esse. In questo contesto, al fine di aumentare l'occupazione senza incidere sui livelli delle retribuzioni si propone di ridurre i costi non salariali del lavoro soprattutto per i lavoratori meno qualificati. Infatti la disoccupazione grava in modo più pesante su questa categoria di lavoratori e per di più nella maggior parte dei paesi europei i costi non salariali del lavoro pesano in misura relativamente maggiore sui lavoratori a più basso salario. Nel rapporto Xxxxxx, naturalmente, si sottolinea che per poter ridurre il costo del lavoro senza aggravare il bilancio degli Stati membri si devono attuare misure fiscali compensative, basate principalmente su tributi volti alla protezione dell'ambiente.
Il terzo "tipo" di disoccupazione che caratterizza il sistema europeo, oltre a quella congiunturale, legata all’aumento di manodopera, e a quella strutturale, connessa all’alto costo relativo del lavoro poco qualificato, alla rigidità e arretratezza delle strutture occupazionali (politiche occupazionali, legislazione del lavoro, opportunità fornite dall’apparato educativo, protezione sociale), è quella tecnologica, dovuta alla sfasatura tra la velocità del progresso tecnico e la facoltà di prevedere le nuove esigenze. Benché esistano nuovi bisogni legati al cambiamento degli stili di vita, alla trasformazione delle strutture e delle relazioni familiari, alla crescita dell'occupazione femminile ed al progressivo invecchiamento della popolazione, alla tutela ambientale e al recupero delle aree urbane, il mercato non vi fa fronte, in quanto lo sviluppo della domanda e dell'offerta incontra ostacoli notevoli. Dal lato della domanda si pone il problema dell'elevato costo relativo del lavoro scarsamente qualificato, che si riflette sul prezzo dei servizi, mentre dal lato dell'offerta vi è la tendenza a considerare questo tipo di lavori degradanti, poiché ritenuti scarsamente qualificati. Questi servizi, pertanto, vengono solitamente lasciati al mercato nero o all'iniziativa statale mentre, secondo le stime, sarebbero in grado di creare 3 milioni di nuovi posti di lavoro all'interno dell'Unione. Il "Libro Bianco" indica alcuni "nuovi bacini d'impiego": i servizi zonali di assistenza (agli anziani e disabili, custodia di bambini, ma anche piccoli negozi mantenuti in zone rurali o periferiche); l'audiovisivo; le attività ricreative e culturali; il
miglioramento della qualità della vita (rinnovamento di vecchi quartieri, sviluppo dei trasporti pubblici locali); la protezione dell'ambiente (riciclaggio locale dei rifiuti, trattamento delle acque e zone inquinate, dispositivi per risparmio energetico).
Una delle cause fondamentali della disoccupazione tecnologica nei suoi connotati di fenomeno strutturale, è l'inadeguato livello dell'istruzione e della formazione professionale di fronte ai rapidi mutamenti della tecnologia e alla sfida portata al sistema europeo dalla globalizzazione dell'economia. La formazione e l'istruzione sono considerati strumenti di politica attiva del mercato del lavoro, in quanto servono ad adeguare la preparazione professionale dei lavoratori e dei giovani alle mutevoli esigenze del mercato; inoltre essi rappresentano uno strumento basilare di lotta al tipo di disoccupazione che più affligge il nostro sistema, quella giovanile e quella di lunga durata. Il principio fondamentale alla base di ogni azione riguardante la formazione deve essere, secondo il Rapporto Xxxxxx, la valorizzazione del capitale umano lungo tutto il periodo della vita attiva. L'obiettivo è quello "di imparare a imparare per tutto il corso della vita". Per agevolare il passaggio dei giovani, dalla scuola alla vita professionale, vanno ampliate le forme di tirocinio ed apprendistato presso le imprese e, ad integrazione di ciò, vi è bisogno di corsi di formazione professionale brevi ed a carattere eminentemente pratico organizzati in centri specializzati; per realizzare questa opera di riorganizzazione del sistema educativo e formativo vi sarebbe bisogno di destinare una quota degli stanziamenti attualmente destinati ai sussidi di disoccupazione per programmi inerenti la formazione, in particolare per i giovani senza qualifiche e per i disoccupati di lunga durata. È necessario, quindi, un maggiore coinvolgimento delle imprese nei processi di formazione, ad esempio attraverso una riduzione degli oneri sociali per quelle aziende che intraprendono azioni di formazione.
L’importanza del Libro bianco è stata, dunque, non quella di definire una precisa strategia ma di porre, per la prima volta, al centro dell’attenzione politica il problema della disoccupazione per il quale, pur non esistendo “cure miracolose”, si suggeriva agli stati membri l’adozione, in ragione delle proprie peculiarità economiche e sociali, di una serie di misure in campi diversi, dalle infrastrutture al sistema fiscale, alla formazione e legislazione del lavoro.
§4- Il Titolo sull’Occupazione del Trattato di Amsterdam.
Durante la Conferenza intergovernativa (CIG)41 sull’Unione economica e monetaria (1992) si era svolto un dibattito sull’opportunità di includere l’occupazione tra i criteri di convergenza che gli Stati membri dovevano rispettare per essere ammessi all’Unione monetaria. L’idea era stata respinta dalla maggior parte dei governi, i quali desideravano conservare le proprie competenze in materia di politica dell’occupazione. Ma a livello nazionale, nel dibattito che precedette la ratifica del Trattato di Maastricht sull’Unione europea (TUE), l’assenza di qualsiasi riferimento all’occupazione nel nuovo testo costituzionale fu oggetto di pesanti critiche: l’UE appariva poco attenta ai problemi della disoccupazione e occupazione in un momento in cui l’instaurazione della futura Unione economica e monetaria imponeva scelte sociali spesso difficili agli Stati, costretti a ridurre i propri disavanzi pubblici. In questo contesto e anche sulla scia dell’iniziativa presa dal Consiglio europeo di Essen (9 e 10 Dicembre 1994) per lottare contro la disoccupazione, gli Stati membri sono stati indotti ad inserire questi temi fra i punti prioritari della Conferenza intergovernativa iniziata nel Marzo 1996 per la revisione del Trattato di Maastricht, così da rispondere a una delle principali preoccupazioni dei loro cittadini.
A causa della diversa situazione e delle diverse politiche nazionali per l’occupazione, l’iter negoziale si è rivelato difficile ma è comunque sfociato in un consenso: priorità alle politiche nazionali e rinuncia a grandi programmi dai costi troppo elevati. L’inserimento nel Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) di un nuovo capitolo dedicato all’occupazione è, appunto, il frutto di questi negoziati.
Il Titolo VIII sull’occupazione, a cui, data l’urgenza del problema è stata data attuazione anticipata rispetto alla ratifica del Trattato, avvenuta solo nel Maggio 1999, realizza per la prima volta una “costituzionalizzazione delle politiche occupazionali”42, legittimando formalmente la Comunità a dispiegare la propria influenza con riguardo ad un’area sino ad allora di competenza esclusiva dei singoli stati membri43. Il Titolo VIII risulta caratterizzato dall’affermazione della responsabilità condivisa tra la Comunità e
41 La CIG è il meccanismo formale per la revisione dei testi costituzionali dell’Unione europea, comportante negoziati fra i governi degli Stati membri.
42 Si veda, fra i tanti, X. XXXXXX, The Amsterdam Treaty. Some general comments on the new social dimension, in IJCLL, 1997, pagg 188 ss.
43 M. ROCCELLA – X. XXXX, Diritto del lavoro…, 2002, op.cit., p. 129.
gli Stati membri e da una filosofia di decentramento decisionale, secondo la prospettiva del principio di sussidiarietà per il quale la Comunità è soggetto propulsivo e gli Stati membri sono direttamente responsabili dell’applicazione concreta delle azioni in materia sociale. Emblematico di questa concezione è l’articolo 126, comma 2°, secondo cui <<gli Stati membri, tenuto conto delle prassi nazionali in materia di responsabilità delle parti sociali, considerano la promozione dell’occupazione una questione di interesse comune e coordinano in sede di Consiglio le loro azioni al riguardo>>; eventuali azioni unilaterali degli Stati sono considerate assolutamente incoerenti ed erronee44. Il ruolo della Comunità è precisato dall’art. 127, comma 1°, che le assegna il compito di contribuire <<ad un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione>>. A queste disposizioni rispettose delle prerogative nazionali può collegarsi il secondo inciso dell’art. 129 che proclama, in chiusura, che le misure coordinate sull’occupazione <<non comportano l’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri>>.
La Comunità si obbliga, dunque, a contribuire al raggiungimento di un elevato livello di occupazione (obiettivo posto anche dall’art. 2 TCE) mediante un’azione complementare all’intervento nazionale: la gestione della strategia occupazionale è attribuita congiuntamente alla Comunità e agli Stati in una prospettiva orientata alle nuove politiche comunitarie: <<gli Stati membri e la Comunità si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione e, in particolare, a favore della creazione di una forza lavoro e di un mercato del lavoro competenti, dotati di un’alta formazione e in grado di adattarsi ai cambiamenti economici>> (art. 125). Questo obiettivo di lungo periodo è sottolineato anche nel nuovo articolo 127, 2° comma, il quale prevede che l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione deve essere sempre considerato nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività comunitarie.
Ai partner sociali è assegnato un ruolo chiave, considerato che l’articolo 130 del Trattato nel prevedere l’istituzione di un Comitato per l’Occupazione, avente essenzialmente funzioni consultive45, stabilisce che nell’esercizio delle sue funzioni tale
44 Così X. XXXXXX, Il Capitolo sull’occupazione del Trattato di Amsterdam, in Dir. rel. ind., 1999, n. 4, p. 425.
45 Il Comitato per l’occupazione promuove il coordinamento delle politiche nazionali in materia di occupazione e di mercato del lavoro; segue l’evoluzione di queste politiche negli Stati membri e nella
Comitato consulti sempre le parti sociali. Sebbene non esistano formali attribuzioni di potere ai soggetti collettivi per l’adozione di accordi quadro a livello comunitario, la Risoluzione stipulata in margine alle trattative di Amsterdam relativa a Crescita e Occupazione fa qualche passo in questo senso e invita gli Stati ad utilizzare le possibilità offerte agli attori collettivi dal Capitolo Sociale per rafforzare l’impegno del Consiglio nella lotta contro la disoccupazione46.
Il Capitolo sull’Occupazione è teso inoltre a risolvere apparenti contraddizioni tra le diverse aree di intervento comunitario, soprattutto relative a quale sia la priorità tra le questioni economiche e gli obiettivi sociali; a questo fine, l’art. 126, 1° comma, stabilisce che le politiche occupazionali debbano essere coerenti con le guidelines economiche adottate dalla Comunità di anno in anno47. Le norme principali in merito sono quelle dell’art. 128 dove si afferma che le linee guida economiche saranno in futuro affiancate da linee guida sull’occupazione la cui applicazione pratica è comunque affidata agli Stati membri.
Il Consiglio Europeo dovrà valutare ogni anno la situazione occupazionale della Comunità sulla base di un Documento Comune preparato dalla Commissione e dal Consiglio e adottare le conclusioni del caso (art. 128, 1°). E’ in questa fase che si manifesta e si chiarisce la distribuzione dei ruoli tra i diversi organi comunitari e tra la Comunità e gli Stati membri: sebbene infatti le guidelines debbano essere, come ogni atto legislativo, formulate dalla Commissione e trasmesse al Consiglio, che le adotta poi a maggioranza qualificata, in questo caso, tuttavia, la proposta dell’organo esecutivo sarà obbligatoriamente articolata sulle conclusioni raggiunte dal Consiglio Europeo (art. 128, 2°). Il ruolo del Parlamento Europeo è limitato alla mera consultazione.
Degli orientamenti comuni di cui all’art. 128, 2°, gli Stati membri devono tenere conto nelle rispettive politiche in materia di occupazione e devono redigere annualmente una relazione in cui illustrano le principali misure intraprese per implementare le azioni occupazionali suggerite dalla Comunità (art. 128, 3°); l’esame dei piani e di tutta la documentazione allegata dai Governi nazionali è rimessa al Consiglio che opera in collaborazione con il Comitato per l’Occupazione. Dopo aver esaminato le relazioni annuali degli Stati membri, il Consiglio, se lo ritiene necessario,
Comunità europea, formula pareri su richiesta del Consiglio o della Commissione o di propria iniziativa e contribuisce alla preparazione delle delibere del Consiglio.
46 Risoluzione del Consiglio Europeo su Crescita e Occupazione del 16 giugno 1997, paragrafo 12.
47 M. ROCCELLA – X. XXXX, Diritto del lavoro…, 2002, op.cit., pp. 24 ss.
può indirizzare – su proposta della Commissione – una raccomandazione ad uno stato membro (art. 128, 4°). Questo meccanismo è simile a quello previsto per la politica economica, con la differenza che, in materia di politica dell’occupazione, per gli Stati membri che non rispettano le raccomandazioni del Consiglio, non è prevista alcuna sanzione. Inoltre, il Trattato non prevede che queste raccomandazioni siano rese pubbliche.
Il ciclo è completato da un ulteriore report annuale del Consiglio e della Commissione al Consiglio Europeo in cui si riassume lo stato complessivo dell’attuazione delle linee guida e della situazione occupazionale comunitaria (art. 128, 5°).
L’art. 129 prevede, infine, che il Consiglio, a maggioranza qualificata, possa decidere azioni di incentivazione, destinate “a promuovere la cooperazione tra Stati membri e a sostenere i loro interventi nel settore dell’occupazione, mediante iniziative volte a sviluppare gli scambi di informazioni e delle migliori prassi, a fornire analisi comparative e indicazioni, nonché a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze realizzate, in particolare mediante il ricorso a progetti pilota”. Questa norma evidenzia la logica di cooperazione e coordinamento che permea tutto il Titolo VIII, improntato a favorire scambi di esperienze, lavoro in comune per trarre spunti ed indicazioni dalle misure adottate in altri contesti nazionali, confronto continuo alla ricerca degli interventi più efficaci.48
Sebbene estremamente flessibili, i cardini della disciplina sono quelli indicati nell’obiettivo generale di cui all’art. 2 relativo al raggiungimento di un alto livello di occupazione, e nell’art. 125, dove gli Stati membri si assumono l’obiettivo di creare mercati del lavoro capaci di rispondere alle esigenze del mercato e una forza lavoro competente e flessibile.
Il carattere più significativo in questo contesto giuridico e politico è comunque quello inerente la suddivisione di responsabilità tra la Comunità e gli Stati; è indubbio infatti che ci si trova dinanzi ad una perentoria presa di posizione: in quest’area la Comunità sta tentando sempre con maggiore insistenza di scongiurare, per quanto possibile, fenomeni di concorrenza sleale tra le economie interne attuati mediante sussidi distribuiti in modo irregolare e altre forme di social dumping.
48 X. XXXXX, L’applicazione del Trattato di Amsterdam in materia di occupazione: coordinamento o convergenza?, in Dir. rel. ind.,1998, n. 4, p. 327.
Il Capitolo sull’occupazione, inoltre, è finalizzato a conciliare tra loro i diversi volti della politica comunitaria: bassa disoccupazione e un alto grado di protezione sociale sono inscindibilmente legati alla creazione di un ambiente idoneo a sviluppare la competitività, sicurezza e flessibilità e diventano aree di intervento complementari l’una con l’altra.
E’ in questa atmosfera politica che è stato concepito il processo di Lussemburgo.
§5- La strategia europea per l’occupazione (SEO): il processo di Lussemburgo.
Con il vertice straordinario di Lussemburgo (20 e 21 Novembre 1997), per la prima volta interamente dedicato all’occupazione, sulla base del Titolo VIII TCE introdotto dal Trattato di Amsterdam, è stato dato avvio alla c.d. strategia europea per l’occupazione (SEO) conosciuta, appunto, anche come “processo di Lussemburgo” e sono state adottate le prime linee guida per il 1998.
La SEO introduce un nuovo metodo di lavoro, "il metodo aperto di coordinamento” (MAC). Questo metodo crea un equilibrio fra la responsabilità della comunità e quella degli Stati membri (il principio di "sussidiarietà"), la definizione di obiettivi comuni quantificati da perseguire a livello comunitario e istituisce la sorveglianza a livello europeo sostenuta dallo scambio di esperienze. Il MAC facilita il dibattito politico a vari livelli e segue un approccio integrato: le iniziative intraprese nel settore dell'occupazione devono essere coerenti con i settori afferenti a quelli dell'occupazione quali le politiche sociali, l'istruzione, il regime fiscale, la politica delle imprese e lo sviluppo regionale.
Lo strumento di attuazione del MAC è il Piano di Azione Nazionale (PAN), nel senso che , una volta individuati gli obiettivi o indicatori comuni, ciascun Paese emette un programma che descrive il modo in cui gli orientamenti comunitari sono messi in pratica nel miglior modo possibile per quel Paese. Tale programma, messo a confronto con quello degli altri Paesi durante una peer review (ecco come si realizza la c.d. sorveglianza multilaterale) concorre alla redazione di un joint report di sintesi a cura della Commissione e del Consiglio in cui vengono indicati i progressi dell’Unione nel suo insieme e di ciascun Paese per sé in direzione degli obiettivi, degli indicatori e dei target indicati al momento dell’avvio della procedura di monitoraggio. La Commissione presenta anche una raccomandazione destinata a rivedere gli orientamenti
sull’occupazione per l’anno successivo, orientamenti che vengono poi approvati dal Consiglio, in base alle conclusioni dei Capi di Stato e di Governo. Il Consiglio può emettere raccomandazioni specifiche per i singoli Paesi, su proposta della Commisione.
In questo modo la SEO procede sotto forma di programma ricorrente di pianificazione, monitoraggio, esame e riadeguamento annuali per meglio integrare e coordinare le politiche nazionali ed esortare gli Stati membri ad attuare le “best practices”.
Gli orientamenti in materia di occupazione adottati dal Consiglio europeo di Lussemburgo49 erano suddivisi in quattro capitoli (i c.d. quattro “pilastri”), articolati in una serie di linee-guida: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità e pari opportunità. Il primo pilastro era l’unico a contenere obiettivi quantificati: l’orientamento 1 impegnava gli Stati membri ad <<offrire a ogni giovane, prima che siano trascorsi sei mesi di disoccupazione, la possibiltà di ricominciare con un’attività di formazione o di riqualificazione professionale, con la pratica lavorativa, con un lavoro o altra misura che ne favorisca l’inserimento professionale>> e l’orientamento 2 prevedeva la stessa possibilità per i disoccupati adulti entro un periodo di dodici mesi, per prevenire la disoccupazione di lunga durata. Inoltre l’orientamento 3, per favorire la transizione dalle misure passive a quelle attive in materia occupazionale, prevedeva che ogni Stato membro avrebbe dovuto adoperarsi per aumentare il numero delle persone che beneficiano di misure attive atte a facilitare l’inserimento professionale (attività di formazione o provvedimenti analoghi), in modo da raggiungere almeno il 20% dei disoccupati. Nel pilastro dell’imprenditorialità il profilo più innovativo è riconoscibile nella sottolineatura del contributo che anche la diffusione del lavoro autonomo può dare alla crescita di opportunità occupazionali. Si propongono, quindi, l'applicazione di regole chiare, stabili e affidabili volte alla creazione e alla gestione di imprese e la semplificazione degli obblighi amministrativi per le piccole e medie imprese (PMI); una significativa riduzione del costo derivante dall'assunzione di personale aggiuntivo, la
49 La relazione tra politiche per l’occupazione e politiche economiche è divenuta sempre più evidente nel corso degli anni e ciò ha influito sui criteri di redazione degli orientamenti la cui struttura è stata oggetto, a partire dal 2003, di alcuni importanti cambiamenti: da un lato si è proceduto ad una maggiore semplificazione con l’abbandono dei c.d. quattro pilastri, dall’altro è stato reso più evidente il nesso tra gli orientamenti di cui all’art. 128 TCE e le linee-guida economiche di cui all’art. 99, comma 2°, TCE. Si è, così, scelto di razionalizzare i cicli annuali di coordinamento delle politiche economiche e per l’occupazione, sincronizzando il momento della revisione degli indirizzi di massima e degli orientamenti e prevedendo che questo avvenga solo una volta ogni tre anni. Cfr. F: RAVELLI, Il coordinamento delle politiche comunitarie per l’occupazione e i suoi strumenti, in www.lex.unict/eurolabor/ricerca/wp/int.
semplificazione del passaggio al lavoro indipendente e della creazione di micro- imprese, lo sviluppo di mercati del capitale di rischio per facilitare il finanziamento delle PMI e la riduzione degli oneri fiscali gravanti sul lavoro entro il 2000. Il pilastro dell'adattabilità comprendeva la modernizzazione dell'organizzazione, la flessibilità del lavoro, la predisposizione di contratti adattabili ai diversi tipi di lavoro, il sostegno alla formazione in seno alle imprese eliminando ostacoli fiscali e mobilitando aiuti statali per migliorare le competenze della popolazione attiva, la creazione di posti di lavoro duraturi e il funzionamento efficiente del mercato del lavoro. Esso risultava il più controverso50 poiché le sue indicazioni si prestavano ad essre intese sia in senso deregolativo, valorizzando l’esigenza di <<rendere produttive e competitive le imprese>>, sia in senso garantista, sottolineando l’obiettivo di <<raggiungere l’equilibrio necessario tra flessibilità e sicurezza e di migliorare la qualità del lavoro>>. Gli orientamenti in materia di pari opportunità, tematica ben radicata nel diritto comunitario ma sempre attuale per il carattere persistente e multiforme della discriminazione nei mercati del lavoro, miravano a contrastare le disparità uomo- donna e a raggiungere un maggiore tasso di occupazione femminile anche attraverso l'adozione di misure in grado di favorire un più equilibrato rapporto tra lavoro e vita familiare (interruzione della carriera, congedo parentale, lavoro part-time, servizi di qualità di custodia dei figli).
La SEO ha rappresentato una svolta dal punto di vista delle politiche attive perché ha posto come principio politico l'obiettivo della prevenzione e dell'attivazione precoce nelle politiche occupazionali51. Ciò ha determinato un nuovo modo di concepire l'approccio ai problemi della disoccupazione, nella convinzione che le sole politiche passive incentrate sui meccanismi di protezione contro la perdita del reddito, non permettano di risolvere la disoccupazione in modo definitivo. Il nuovo orientamento delle politiche attive, si basa, invece, sull'importanza di aiutare le persone prima che siano disoccupate o al momento in cui lo diventano, piuttosto che occuparsi delle loro esigenze solo quando sono prive di lavoro per un certo periodo di tempo.
In ottemperanza alle indicazioni comunitarie anche in Italia si è cercato di avviare un modo diverso di fare politica per l'impiego, mettendo in campo strumenti, strategie, programmi e soluzioni innovative per attuare una politica preventiva. Sono da
50 Così X. XXXXXXXX – X. XXXX, op.ult.cit., 2002, p. 132.
51 X. XXXXXXX, A che punto è l’integrazione delle politiche dell’occupazione dell’Unione Europea?, in Dir. rel. ind., 2000, n. 2, pp. 161 ss.
richiamare, a questo proposito, la riforma dei Servizi per l'impiego52 (decreto legislativo 469/97), il primo Piano d'Azione Nazionale per l'occupazione (NAP) del 1998 predisposto secondo i principi del procedimento lussemburghese, l'avvio della programmazione FSE 2000-2006.
Questo complesso di strumenti ha determinato e ha realizzato in questi anni un nuovo modo di concepire le azioni per lo sviluppo occupazionale e sociale, sempre più incentrato sulla dimensione locale e sul concetto di integrazione tra diverse policies e diversi soggetti impegnati a realizzarle. Nel nostro Paese, le Regioni e le Province, in risposta al principio di decentramento e sussidiarietà, si sono trovate in prima linea nell'intento di realizzare tutta una serie di interventi di politica attiva mirati sempre più su specifici target di popolazione, in special modo quelli indicati come più "deboli" e con maggiori difficoltà di inserimento lavorativo: i giovani, le donne, gli anziani. La riforma del sistema del collocamento, del sistema della formazione e dell'istruzione, l'introduzione di nuove forme di lavoro flessibili, gli incentivi all'imprenditorialità, sono state misure appositamente pensate per aumentare l'occupabilità, renderla più appetibile per il mondo del lavoro e più adatta ad un mercato in rapida evoluzione. Contemporaneamente sono state realizzate norme e interventi finalizzati a fornire pari opportunità a ciascun lavoratore di accedere al mercato del lavoro, di prolungarne la permanenza, anche attraverso politiche che permettessero di conciliare meglio vita professionale e vita familiare. Allo stesso tempo, si è cercato di favorire una serie di meccanismi finalizzati a rendere più immediato, conveniente e trasparente l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, nella necessità di prevenire il fenomeno del lavoro sommerso, ancora così incisivo nel nostro Paese, soprattutto nei riguardi delle donne e degli immigrati.
Una grande attenzione è stata posta nei riguardi della domanda di lavoro, dal versante delle imprese , intervenendo con riforme ed incentivi al fine di sviluppare una cultura imprenditoriale, di aumentare la possibilità di offrire posti di lavoro, soprattutto nel settore dei sevizi e dell'economia sociale.
Parlare di politiche attive significa anche sottolineare l'importanza dei fondi strutturali e soprattutto del Fondo Sociale Europeo, impegnato a sostenere la Strategia Europea per l'occupazione. In Italia, le Regioni e le Province hanno utilizzato questa
52 Il D. Lgs. 469/97 conferisce alle Regioni e agli enti locali funzioni e compiti di organizzazione e gestione di nuovi servizi relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro, nel quadro di indirizzi nazionali.
opportunità per programmare attraverso i loro POR53, misure apposite per affrontare il rinnovamento delle politiche del lavoro, della formazione e dell'inclusione sociale. Lo scenario che si prospetta è quindi del tutto nuovo e dinamico, poiché puntare sulle politiche attive rappresenta una sfida, significa prestare maggiore attenzione al mercato del lavoro, coglierne gli aspetti più problematici soprattutto a livello territoriale, per offrire strategie mirate e specialistiche e non più soluzioni uniformi rivolte a platee indifferenziate di disoccupati sull'intero territorio nazionale.
§6- Il Terzo Pilastro delle politiche del lavoro comunitarie: in particolare la direttiva sul contratto a termine.
Rispetto alle indicazioni contenute nel capitolo dell’adattabilità il principio di sussidiarietà e l’autonomia decisionale dei singoli Stati membri sono destinati a rivestire un ruolo rilevante: la stessa eterogeneità delle tematiche proposte, che spazia dall’introduzione delle nuove tecnologie alla riduzione dell’orario di lavoro, sembra riflettere l’esigenza di tener conto della diversità di approccio al problema “adattabilità” riscontrabile nei singoli Stati membri. Il pilastro dell’adattabilità, inoltre, appare trovare, sia nel Rapporto Congiunto della Commissione sia nei singoli Piani d’Azione Nazionali, uno spazio ridotto se confrontato con lo spazio dedicato agli altri pilastri. Questa osservazione è certamente singolare poiché gli eventi economico-sociali sottesi a questo orientamento sono fenomeni di primaria importanza per l’effettivo dispiegarsi delle politiche del lavoro e potrebbe dimostrare che, mentre dal punto di vista teorico il concetto di adattabilità individua azioni ed interventi di importanza rilevante, dal punto di vista delle pratiche e delle politiche esso risulta di più difficile identificazione, anche perché necessita della stretta collaborazione delle parti sociali, le quali non sempre sono state coinvolte in maniera adatta nella preparazione dei NAPs ovvero hanno dimostrato una scarsa sensibilità alle implicazioni derivanti dall’attuazione del processo di Lussemburgo54.
Il III pilastro della SEO comprende le politiche del lavoro e le pratiche volte ad incoraggiare l’adattabilità delle imprese e dei lavoratori, creando le condizioni per ottenere skills e competenze tali da metterli entrambi in grado di reagire ai rapidi
53 Il Programma Operativo Regionale è il documento che stabilisce le linee strategiche per l'impiego dei fondi strutturali dell'Unione Europea.
54 X. XXXXXXX, Il terzo pilastro: l’adattabilità, in Dir. rel. ind., 2000, n. 2, p. 153.
cambiamenti economici senza che da questo derivino tensioni occupazionali o sociali. Il pilastro è articolato in tre linee-guida.
La prima invita le parti sociali a negoziare ai livelli tradizionali di ognuno dei sistemi di relazioni industriali dei Paesi membri, ma soprattutto ai livelli di settore e di impresa, accordi volti a modernizzare l’organizzazione del lavoro, al fine di rendere più produttive e competitive le imprese; tali accordi possono comprendere la formazione e la riconversione, l’introduzione di nuove tecnologie, le nuove forme di lavoro e le questioni collegate all’orario di lavoro (annualizzazione dell’orario, riduzione del tempo di lavoro, riduzione degli straordinari, sviluppo del part-time) ma in ogni caso, devono contemperare la maggiore flessibilità con adeguati livelli di sicurezza dei lavoratori.
La seconda guideline sottolinea agli Stati membri l’opportunità di introdurre nel proprio ordinamento legislativo tipologie contrattuali più flessibili e adattabili alle nuove forme di lavoro. Anche in questo caso si richiede un adeguato bilanciamento tra maggiore flessibilità e idonea protezione sociale, prevedendo in particolare, ove possibile, livelli adeguati di sicurezza ed un migliore inquadramento professionale.
La terza, infine, è rivolta alla formazione in azienda e invita gli Stati membri ad esaminare gli ostacoli, soprattutto fiscali, che possono impedire l’investimento in capitale umano, rivedendo, se del caso, la normativa esistente per introdurre incentivi, fiscali o di altro tipo, atti a promuovere la formazione nell’impresa. La formazione dei lavoratori rappresenta, secondo la Commissione, uno strumento essenziale per la modernizzazione dell’organizzazione produttiva, poiché è principalmente attraverso la formazione del capitale umano che si può raggiungere l’obiettivo di adattare i lavoratori alle esigenze delle imprese, senza tuttavia che si sperimentino lunghi periodi di disoccupazione.
Inoltre, il III pilastro contiene indicazioni riguardo alle good practices, cioè quelle esperienze che, quando anche abbiano un carattere sperimentale ovvero coinvolgano un numero limitato di beneficiari, in virtù dei risultati conseguiti sono tuttavia “trasferibili” in un contesto più ampio e in un altro Stato membro. Queste esperienze devono essere coerenti con le indicazioni di policy derivanti dal processo di Lussemburgo, anche quando non ne rappresentano la semplice trasposizione55.
55 Si noti che la Commissione ha identificato quali good practices nel 1998 l’introduzione delle flessibilità nel mercato del lavoro in Spagna, attuata con il Patto Sociale, e nel 1999, nelle Asturie, la Fondazione per il miglioramento delle capacità dei lavoratori nel settore delle costruzioni. Nel primo caso, si tratta di un’azione di sistema ad ampio spettro che ha prodotto risultati visibili e ad efficacia
Il III pilastro ha costituito il fondamento delle c.d. politiche “offertiste” dell’occupazione, quelle, cioè, che agiscono sulla mobilizzazione dell’offerta di lavoro, incoraggiando i disoccupati ad accettare qualsiasi tipo di occasione lavorativa; ed effettivamente, le evidenze empiriche mostrano che dove si sono maggiormente diffuse forme di lavoro flessibile, che favoriscono rapporti di lavoro “non standard” (quelli che in Italia vengono definiti lavori atipici), i tassi di occupazione sono risultati più elevati, salvo verificare, poi, che tipo di occupazione sia stata creata e come tale maggiore occupazione si rapporti con la produttività e la crescita56.
L’Unione Europea si è indirizzata, dunque, verso una flessibilità regolata57: il concetto di adattabilità e la diffusione di tipologie contrattuali innovative e “non standard” non significa che l’obiettivo del terzo pilastro sia quello di originare una sfrenata liberalizzazione del mercato oppure di limitare l’esercizio dell’azione sindacale; piuttosto, l’adattabilità deve stimolare la costruzione di istituti normativi o contrattuali che consentano lo sviluppo dell’occupazione in una realtà economica e sociale in mutamento continuo e sottoposta ad una crescente accelerazione dei processi. E’ altrettanto importante sottolineare come una maggiore flessibilizzazione dei rapporti di lavoro sia necessaria per evitare fenomeni di concentrazione della disoccupazione su determinate fasce della popolazione e, di conseguenza, per ridurre la possibilità di conflitti generazionali.
Punto caratterizzante, comunque, di tutti gli interventi di questo pilastro è quello di valorizzare le virtù della concertazione e del dialogo sociale, facendo in modo che vi sia un’ampia condivisione di obiettivi da parte di tutti i soggetti interessati ad un coinvolgimento a tutti i livelli ed in tutte le fasi, per contribuire all’attuazione degli orientamenti ed alla promozione di un elevato livello di occupazione.
In termini di politiche industriali adottate o proposte, gli Stati membri e la stessa Commissione Europea riflettono quanto è avvenuto a livello di struttura economica e sociale a seguito dei rapidi mutamenti di scenario nonché delle azioni già sperimentate a livello di azienda o di settore; infatti, le spinte economiche provenienti dai processi di
immediata; nel secondo caso, si tratta di una tipica <<azione di nicchia>>, di tipo formativo, che ha come target un particolare gruppo di lavoratori ma che può essere trasferita ad una platea di beneficiari più ampia.
56 Si veda ZENEZINI M., “L’inconsistenza (e le conseguenze negative) della politica europea dell’occupazione, in xxx.xxxxxxxxxxx.xx/xxx/xxxxxxxxxx.
57 Commissione Europea (2000), Italy’s Slow Growth in the 1990s. Facts, explanations and prospects, mimeo, Bruxelles.
globalizzazione così come quelle di carattere tecnologico hanno costretto le parti sociali ad intervenire in tempi rapidi sull’organizzazione dei processi produttivi affinché non vi fosse perdita di competitività (e quindi effetti occupazionali negativi). Le parti sociali hanno spesso agito in maniera più rapida di quanto permettesse lo stesso quadro normativo, a volte anche promuovendo innovazioni sostanziali nei luoghi di lavoro. Non sempre i risultati di queste iniziative sono stati positivi né sono state evitate forti tensioni sociali; anzi in molte situazioni si è solo reagito alle difficoltà derivanti dai cambiamenti esterni, difficoltà dovute anche alla lentezza con cui il quadro normativo si è adeguato all’evoluzione in corso e che hanno originato processi di disarticolazione del sistema sociale e produttivo. Tuttavia, laddove i processi sono stati governati, laddove ciclo economico, legislazione e pratiche contrattuali si sono accompagnati mutuamente, queste tensioni sono state contenute e, anzi, sono stati introdotti elementi di flessibilità e adattabilità.
In tale approccio trova ragionevole collocazione la direttiva sul contratto a termine emanata in seguito all’accordo raggiunto dalle parti sociali, la terza dopo quella sui congedi parentali e sul part-time, sulla base dell’attuale art. 138 del Trattato. In questo caso la Commissione ha svolto un ruolo maieutico rispetto all’accordo, lasciando ampio spazio alle parti sociali e mantenendosi in una posizione molto defilata.
Si conferma, così, la nuova collocazione degli attori collettivi nella filosofia sociale del Trattato: non meramente funzionale, di attuazione di politiche elaborate altrove, ma di formulatori, essi stessi, di policies comunitarie non solo nei confronti degli insiders ma anche dei c.d. outsiders.
Il giudizio sul risultato finale del negoziato (l’accordo sul contratto a temine) negli ambienti della Commissione appare positivo, ed in modo convinto; ed in effetti, si tratta della direttiva, probabilmente, più importante sui lavori atipici sinora emanata, in cui il tentativo di mediare l’esigenza di flessibilità per le imprese e una maggiore sicurezza per i lavoratori (ciò che si è definita la “flessibilità mite”58), è condotto al livello più avanzato concesso dagli attuali equilibri politico/sindacali, sia in ambito nazionale, che nelle sedi comunitarie.
Nella direttiva sul contratto a termine, e nella mediazione raggiunta dalle parti sociali, si è affermata la consapevolezza che il contratto a temine, nella sua dimensione
58 X. XXXXXX, Alla ricerca della<< flessibilità mite>>: il terzo pilastro delle politiche del lavoro comunitarie, in Dir. rel. ind., 2000, n. 2, pp. 141 ss.
di strumento di politica attiva del lavoro, è sicuramente un utile incentivo alla flessibilità in entrata ed, in quanto tale, non va eccessivamente soffocato da rigidità burocratiche ed ingiustificate restrizioni.
Ma, allo stesso tempo, nell’accordo è presente la consapevolezza che non si tratta di una tipologia di rapporto di lavoro atipico sul quale scommettere per il futuro e, quindi, da “promuovere”, come invece si legge nel preambolo alla direttiva sul part- time, perché non genera sicurezza e finisce per ostacolare, per esempio, gli investimenti formativi di lunga durata sulla risorsa lavoro: il suo abuso ridonda a carico delle stesse esigenze di efficienza gestionale delle imprese59.
E’ tuttavia evidente che la direttiva, in quanto tale, fornisce una cornice, ed un’ispirazione di fondo, per principi, che consentirà ai diversi attori ed ai legislatori nazionali di aderire alla filosofia ad essa sottesa. Non è detto, tuttavia, che questo avvenga. Le opposte chiavi di lettura della stessa direttiva che le parti sociali stanno facendo in Italia dimostra che, in una situazione di sclerosi e stallo della concertazione sociale, anche le migliori intenzioni degli attori comunitari possono essere frustrate60.
59 X. XXXXXXXXX, Le inedite nozze mobilità – stabilità, il Sole 24 Ore dell’8 settembre 1999.
60 X. XXXXXX, op.ult.cit., p. 146 ss.
CAPITOLO II
LA DIRETTIVA 1999/70/CE SUL LAVORO A TEMPO DETERMINATO
§1- L’accordo quadro del 18 marzo 1999 concluso da CES, UNICE E CEEP.
Il Protocollo sulla politica sociale annesso al Trattato di Maastricht, ora integralmente inserito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam, ha previsto un sistema di produzione normativa parallelo a quello ordinario e ad esso alternativo, attribuendo alla capacità negoziale dei soggetti collettivi la facoltà di redigere norme nel campo della tutela del lavoro61.
In forza delle disposizioni contenute nell’art. 139 TCE si stabilisce infatti, che, qualora il dialogo fra le organizzazioni intercategoriali a livello europeo sfoci nella conclusione di un accordo, il Consiglio, su richiesta congiunta dei soggetti firmatari e dietro proposta della Commissione, possa decidere di far propria l'intesa raggiunta, trasponendone i contenuti in un atto normativo62. L’accordo fra le organizzazioni intercategoriali, seppure frutto dell’autonomia collettiva, non è, però, un atto del tutto spontaneo dal momento che esso vale ad evitare un diretto intervento delle istituzioni comunitarie, cui spetta di avviare il procedimento normativo. Infatti, in conformità a quanto stabilito dall’art. 138 TCE (e già dall’art. 3 APS), è previsto che la Commissione consulti le parti sociali quando intenda presentare proposte in materia sociale e che, su richiesta congiunta di queste, l’azione istituzionale si interrompa per permettere alle
61 X. XXXXXXXX, Nuovi sviluppi per il dialogo sociale Europeo:la direttiva sul contratto a termine, Rielaborazione di un saggio pubblicato su “Europa e diritto privato”, 2000, p. 215, in xxxx://xxx.xxxxx.xx/XXXXXX/XXXXXXXX0.xxx
62 La norma riproduce l’art. 4 dell’Accordo allegato al Protocollo sociale (APS). Cfr. retro, Cap. I, §1. X. XXXXXXXXXX, Il ruolo delle parti sociali nella produzione e nella attuazione del diritto comunitario, in “Europa e diritto privato”, 1999, pp. 223 ss., dà conto delle interessanti questioni sorte a riguardo, sia in merito alla natura dell’atto di trasposizione (che ha preso fino ad ora la forma della direttiva), sia circa la effettiva rappresentatività dei sindacati stipulanti (riconosciuta con la sentenza 17.6.1998 del Tribunale di primo grado, nella misura in cui i firmatari avessero rappresentatività cumulativa sufficiente: a riguardo
X. XXXXX, Il ruolo delle parti sociali in Europa: dal dialogo a partnership, Dir. rel. ind., 1999, n. 1, p.
28) sia circa la sussistenza di un potere di adattamento riservato alle istituzioni comunitarie.
parti di sviluppare il dialogo sociale. E’accaduto così che le direttive finora emanate siano nate in seguito alla notizia dell’inizio di una attività della Commissione. L’accordo collettivo costituisce, quindi, secondo questo modulo, una fonte alternativa a quella unilaterale alla quale viene assegnata, quasi, la funzione di sanzionare il mancato raggiungimento di una intesa. Del resto, la legislazione europea in campo sociale ha mostrato di avanzare con difficoltà, date le marcate differenze tra i vari Paesi per cui, paradossalmente, si è proceduto sulla via dell’unificazione nelle materie che già avevano una regolazione omogenea nel diritto interno mentre, dove il divario era più ampio, è risultato spesso impossibile raggiungere un accordo fra i diversi Stati. La promozione del metodo del confronto tra le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori a livello sovranazionale sembra aver dato risposta a questa difficoltà. Di ciò si trova riscontro nel Preambolo dell’accordo sul contratto a termine, dove si afferma che l’accordo stesso <<illustra il ruolo che le parti sociali possono svolgere nell’ambito della strategia europea per l’occupazione>> intendendo sottolineare che <<le parti sociali sono le più adatte a trovare soluzioni rispondenti alle esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori>> e che, quindi, <<deve essere assegnato loro un ruolo di spicco nell’attuazione e applicazione del presente accordo>> (ultimo considerando).
Dunque, dopo quasi un ventennio di tentativi andati a vuoto63, in base al procedimento indicato negli artt. 138 e 139 TCE si è giunti all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 da UNICE (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità Europea), CEEP (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e CES (Confederazione europea dei sindacati) e recepito senza modifiche dalla Direttiva 1999/70/CE che si limita a rinviare al testo dell'accordo, al quale occorrerà dunque far riferimento per individuare le linee portanti dell'intervento comunitario in materia64.
63 Ad un primo progetto di direttiva in materia di lavoro temporaneo, nella duplice accezione comprendente il lavoro interinale e i contratti di lavoro a termine, avanzato dalla Commissione nel 1982 e rimasto senza effetti, ha fatto seguito una dichiarazione contenuta nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, che impegnava gli Stati, sul piano politico più che su quello giuridico, al miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori a tempo determinato. Ugualmente, i successivi progetti di direttiva avanzati all’inizio degli anni novanta sono rimasti senza seguito, se si esclude la direttiva sulla tutela della salute dei lavoratori interinali del 1991.
64 Il sistema ha trovato concreta applicazione anche nella direttiva del Consiglio 96/34/CE del 3 giugno in tema di congedi parentali, che raccoglie i contenuti dell’accordo collettivo sottoscritto in data 14 dicembre 1995 fra la CES e l’UNICE e il CEEP, nonché nella direttiva del Consiglio 97/81/CE del 27 dicembre, in tema di lavoro part-time, conseguente all’accordo collettivo sottoscritto dalle stesse parti il 6 giugno 1997.
Delle due forme di lavoro temporaneo, a termine e interinale, già conosciute dal diritto comunitario a fini di tutela della salute dei lavoratori coinvolti65, l’accordo quadro si limita a prendere in considerazione la versione più tradizionale, dettando regole applicabili soltanto ai contratti di lavoro a tempo determinato. Il lavoro interinale è esplicitamente escluso dalla sfera applicativa dell’accordo, come risulta sia dal preambolo, ove vi è solo un cenno all’intenzione delle parti di <<considerare la necessità di un analogo accordo relativo al lavoro interinale>>; sia dalla nozione di
<<lavoratore a tempo determinato>>, che la clausola 3 riferisce ad <<una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro ed il lavoratore>>.
Con l'accordo del 18 marzo 1999 le associazioni intercategoriali a livello comunitario hanno elaborato una norma-cornice, ovvero hanno individuato <<i principi generali ed i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato>> (preambolo, III capoverso), riservando la definizione e l'applicazione dettagliata della normativa agli Stati membri e/o alle parti sociali nazionali in sede attuativa (considerazione generale n. 10).
L’accordo quadro si compone di tre parti: il preambolo, dodici considerazioni generali e otto clausole che costituiscono la parte precettiva o dispositiva vera e propria. Una logica esigenza di approccio sistematico sembra imporre che l’interpretazione dell’accordo sia effettuata tenendo in considerazione tutti gli elementi che lo compongono66. Pertanto si ritiene67 che le parti sociali europee – impegnate in un negoziato intervallato da momenti di scontro e dialogo – abbiano utilizzato una particolare tecnica di formulazione dell’accordo sul contratto a tempo determinato (e analoga impostazione si coglie nei precedenti accordi sui congedi parentali e sul part- time), in cui il preambolo e le considerazioni generali costituiscono componenti ineliminabili della parte restante e insieme ad essa vanno interpretate, per ricostruire il significato complessivo del testo normativo68.
65 Direttiva 91/383/CEE che completa le misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute durante il lavoro dei lavoratori aventi un rapporto di lavoro a durata determinata o un rapporto di lavoro interinale.
66 Questa è l’impostazione adottata da X. XXXXXXXXX, I contratti a termine nel mercato differenziato, Xxxxxxx, Milano, 2001, pag. 240; X. XXXXXXX, L’attuazione nell’ordinamento italiano della direttiva europea sul contratto a termine: spunti problematici, in Dir. rel. ind. , 2002, pagg. 440 ss.
67 X. XXXXXXXXXX, La Direttiva sul lavoro a tempo determinato, in X. XXXXXXX - M. NAPOLI, (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, 2003, op.cit., p. 5.
68 Adotta un’impostazione analoga X. XXXXXX, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, II, Xxxxxxx, Milano, 2001, pag. 290, secondo cui, ai fini dell’interpretazione dell’accordo, <<anche le note a verbale, le premesse e tutto ciò che è usualmente formulato con espressioni ambigue nei contratti allegati alle
In questa prospettiva, le due sezioni preliminari dell’accordo possono essere considerate come disposizioni volte a stabilire i principi generali entro cui si inserisce la successiva fissazione di regole più dettagliate contenuta nella terza parte dello stesso; con la conseguenza che i suddetti principi generali rappresentano le coordinate fondamentali per orientare l’interpretazione dell’intero testo e quindi anche delle regole presenti nella terza parte dell’accordo.
Nel preambolo e nelle considerazioni generali sono presenti affermazioni di marca opposta69, riflesso dell’equilibrio fra i divergenti interessi che le parti sociali hanno cercato di realizzare nella difficile costruzione di un sistema fondato sulla “flessibilità mite”70. Da un lato, infatti, le parti sottolineano che l’accordo rappresenta un <<contributo in direzione di un migliore equilibrio tra la flessibilità dell’orario di lavoro e la sicurezza dei lavoratori>> (preambolo, I capoverso) ed evidenziano la necessità di <<modernizzare l’organizzazione del lavoro, comprese formule flessibili di lavoro, onde rendere produttive e competitive le imprese e raggiungere il necessario equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza>> (considerazione generale n. 5) nonché l’esigenza <<di migliorare le disposizioni relative alla politica sociale, di aumentare la competitività dell’economia comunitaria e di evitare di imporre vincoli amministrativi, finanziari e legali suscettibili di inibire la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese>> (considerazione generale n. 11). Dall’altro lato, appare però incontestabile il favor nei confronti della stabilità dell’impiego71, come si evince dall’affermazione contenuta nel preambolo, II capoverso, secondo cui le parti <<riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori>> e ribadita nella considerazione generale n. 6 dove si afferma che <<i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento>>. Nello stesso senso si riconosce che <<i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia
direttive, debbono concorrere ad una ricostruzione globale della suddetta intenzione>> delle parti contraenti.
69 X. XXXXXX, La direttiva comunitaria n. 99/70/CE in X. XXXXXX (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel decreto legislativo 6 Settembre 2001, n. 368, X. Xxxxxxxxxxxx Editore, Torino, 2002, pagg. 13 ss.
70 X. XXXXXX, Alla ricerca della flessibilità mite…, 2000, op.cit, p. 141 ss.
71 X. XXXXXXXX, op.ult.cit., afferma che <<l’accordo (…) sembra rifuggire dalla consueta logica di deregolazione neo-liberista che, in forma talora nascosta, permea la più recente produzione comunitaria a vantaggio di una riconfermata centralità dell’impiego stabile>>.
alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori>>, prescrivendone, dunque, un uso <<accettabile>> per entrambe le parti (ancora nel preambolo, II e III capoverso). Lo spazio assegnato al contratto a termine sembra essere contenuto, quindi, tra le esigenze di tutela dell’attività stabilmente prestata e la possibilità di incentivare forme di precariato momentaneo, in vista di uno sviluppo dell’occupazione. La specialità del rapporto di lavoro a termine rispetto alla forma ordinaria del rapporto a tempo indeterminato risulta confermata, poi, dalla clausola 5.1 che impone agli Stati membri di emanare norme dirette a limitare il numero dei rinnovi e soprattutto dalla clausola 5.2.b che pone, tra le misure dirette a reprimere gli abusi, la conversione del contratto a
termine in un rapporto a tempo indeterminato.
Ed è proprio perché ribadisce la centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato che la disciplina comunitaria ha suscitato le critiche di quella parte di dottrina che ha ravvisato in essa il tentativo di regolare fenomeni nuovi e in continua evoluzione utilizzando una strumentazione giuridica per molti versi antiquata72. Tale dottrina, pur riconoscendo l’importanza simbolica dell’accordo quadro e il profondo significato etico e giuridico del principio della stabilità dell’impiego, quale espressione dell’effettività dei diritti dei lavoratori e garanzia di condizioni di lavoro in linea con le conquiste sociali del XX secolo, ritiene che la semplice contrapposizione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a termine risulti anacronistica in un mercato del lavoro in cui non solo va diminuendo la forza attrattiva ed egemonica del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma va attenuandosi anche la stessa summa divisio tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, che fino ad oggi ha regolato i processi di produzione capitalistici. Secondo questa teoria, l’affermazione del carattere meramente eccezionale del lavoro a termine, sostenibile sul piano del dover essere giuridico ma non sul piano della realtà socio-economica, porterebbe di fatto a legittimare una deregolazione strisciante dei rapporti di lavoro e, con essa, la continua emersione di prassi contrattuali praeter se non contra legem; favorirebbe, cioè, il fenomeno della “fuga” dal diritto del lavoro73, come dimostrerebbe l’esperienza italiana in cui i vincoli alle assunzioni a tempo determinato sono stati aggirati dalle imprese ricorrendo ad un uso massiccio dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, senza vincolo di subordinazione, con il risultato di sottrarre i lavoratori interessati non
72 X. XXXXXXXXXX, Alcune note critiche sull’accordo collettivo europeo in materia di lavoro a tempo determinato,in Dir. rel. ind., 1999, p. 461 ss.
73 X. XXXXXX, La fuga dal lavoro subordinato, in DD, 1990, pagg. 69 ss.
solo alla disciplina della successione dei contratti a termine, ma anche a tutta la normativa di tutela del lavoro dipendente.
Sotto altro profilo, l’accordo quadro sul contratto a termine, mentre alcuni ne hanno valorizzato la capacità di imporre agli Stati membri l’obbligo di fissare soglie minime, seppur elastiche, di tutela74, è stato criticato dalle stesse istituzioni comunitarie per la debolezza della garanzia di un pacchetto di tutele minime a favore dei lavoratori: il Parlamento Europeo nel Report sulla proposta di direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’Unice, dal Ceep e dalla Ces (30 Aprile 1999)75, pur condividendo il favore verso la tipologia del lavoro a tempo indeterminato manifestato dall’accordo, ha denunciato in maniera puntuale varie lacune del testo adottato dalle parti sociali. In particolare, il Parlamento Europeo ha criticato che l’accordo ammetta la possibilità di derogare al principio di non discriminazione (clausola 4, 1° comma) in presenza di ragioni oggettive senza che, però, queste ultime vengano definite (punto 6 del Report); che l’accordo non disciplini contestualmente altre tipologie contrattuali riconducibili alla nozione di lavoro atipico/temporaneo (punto 7); che l’accordo riguardi soltanto le condizioni di lavoro ed escluda invece i problemi di sicurezza sociale (punto 8); che disciplini solo la successione di contratti a termine senza porre limiti o condizioni per la stipulazione del primo contratto (punto 14); che le norme volte a impedire l’abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti non abbiano carattere vincolante (punto 16) e che con l’accordo non venga fissato un requisito minimo europeo uniforme per la successione di contratti di lavoro a tempo determinato (punto 17). In effetti, l’esigenza di contemperare la disciplina presente in quindici ordinamenti nazionali ha condotto ad una normativa compromissoria che risulta per molti aspetti fragile rispetto alle legislazioni dei Paesi europei-continentali, di cui ha recepito l’ispirazione garantista e antifraudolenta senza tuttavia adottare disposizioni pienamente coerenti con tale obiettivo (ad esempio, vincoli sostanziali alla stipulazione del contratto, conversione del contratto a termine irregolare in un contratto a tempo indeterminato con effetto ex tunc), ma nello stesso tempo risulta particolarmente rigida per le legislazioni di Paesi quali il Regno Unito e
74 X. XXXXXXXXX-X. XXXXX, The agreement on fixed-term work, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXXX, Fixed-term work in the EU, National Institute for Working Life and the Swedish Trade Unions in Co-operation, Stockholm, 1999, pagg. 00 xx.
00 Xx XXXXXXX, 0000, pagg. 197 ss.
l’Irlanda, tradizionalmente caratterizzate dall’assenza di qualsiasi regolamentazione di matrice legale delle modalità di utilizzazione della forza-lavoro temporanea.
§2- I contenuti dell’accordo: analisi delle clausole
Gli obiettivi perseguiti dall'accordo quadro sono indicati dalla clausola 1 nel: a) il migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Quanto al primo degli scopi, ripreso dalla Carta comunitaria dei diritti fondamentali, come esplicitato nel terzo considerando della direttiva 1999/70/CE76, ad esso è dedicata la clausola 4, rubricata, appunto, “principio di non discriminazione”77. La norma, espressione della filosofia dell’accordo, è diretta ad evitare che la risposta alle esigenze di flessibilizzazione provenienti dai mutamenti congiunturali della domanda e dell’offerta di lavoro e dalla necessità di accrescere le possibilità occupazionali, si traduca nell’esclusione di alcune fasce più deboli di lavoratori da una serie di tutele e benefici normalmente accordati ai dipendenti con un impiego stabile e a tempo pieno. Quanto al secondo degli scopi perseguiti dall’accordo, la clausola 5, “misure di prevenzione degli abusi”, delinea il quadro normativo preannunciato dalla clausola 1 al fine di assicurare un utilizzo non fraudolento dell’istituto del rinnovo dei contratti a tempo determinato. La norma impone agli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o alle parti sociali stesse, di introdurre, in assenza di norme equivalenti, “una o più misure relative a”: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. In secondo luogo, si chiede agli Stati membri di determinare, se opportuno, a quali
76 <<Il punto 7 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilisce, tra l’altro, che la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori della Comunità europea. Tale processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni che costituisca un progresso, soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro interinale e il lavoro stagionale>>.
77 In dottrina si veda XXXXXXX M., Il principio di non discriminzione nelle direttive europee sul part- time e sul contratto a termine, in Mass. giur. lav., 2000, n. 1-2, p. 36.
condizioni i contratti a termine debbano ritenersi successivi e/o a tempo indeterminato.78
La clausola 2 stabilisce il campo d'applicazione dell'accordo, affermando che esso <<si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro>>.
Il 2° comma della clausola 2 attribuisce, poi, agli Stati membri la possibilità di escludere, previa consultazione delle parti sociali79, l’applicabilità dell'accordo a particolari tipologie contrattuali: sono richiamati i rapporti di formazione professionale, i rapporti di apprendistato e comunque quei rapporti di lavoro che facciano riferimento ad uno specifico programma di formazione, inserimento o riqualificazione professionale o un programma che usufruisca di contributi pubblici.
Direttamente escluse sono invece le fattispecie cosiddette di lavoro senza contratto (clausola 2.1) e, come risulta dal preambolo, i contratti di lavoro interinale,
<<data la specificità del lavoro temporaneo rispetto a quello genericamente a termine>>80.
Secondo una diffusa consuetudine dei documenti comunitari, la clausola 3 dell'accordo dà una serie di definizioni dei termini: il lavoratore a tempo determinato viene indicato come una <<persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro ed il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una determinata data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico>>.
Per permettere un confronto tra lavoratore a termine e lavoratore a tempo indeterminato, utile in sede di accertamento di comportamenti discriminanti, è stata inserita la definizione di lavoratore a tempo indeterminato comparabile, inteso come un
<<lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata
78 Sul principio di non discriminazione e sulla prevenzione degli abusi, che costituiscono il fulcro della normativa comunitaria sul contratto a termine, si veda più approfonditamente infra, §2.1 e §2.2.
79 Xxxxx significativa consultazione delle parti sociali per la non applicazione dell'accordo a determinati contratti si veda X. XXXXXXX, L'accordo europeo sul lavoro a tempo determinato, in Lav. giur., 1999, p. 1014; X. XXXXXX, Il diritto del lavoro dell'Unione Europea, 2001, op.cit., p. 291.
80 XXXXX X., L'accordo quadro del 18 marzo 1999 e la direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato: profili regolativi ed obblighi di conformazione per l'Italia, 46, in MENGHINI L. (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, IPSOA, Milano, 2002, p. 46.
appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze>>.
Sono previste, poi, alcune tutele “minori” sul piano individuale e collettivo (clausole 6 e 7), tutte in vario modo esplicazione del principio di non discriminazione.
La clausola 6 relativa al diritto di precedenza, stabilisce l'obbligo per i datori di lavoro di informare i lavoratori a termine dei <<posti vacanti che si rendano disponibili all'interno della stessa impresa o stabilimento, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori>>. La comunicazione riguardo ai posti vacanti deve essere data in maniera adeguata, anche tramite annuncio pubblico in un luogo dell'impresa o dello stabilimento a cui abbiano libero accesso tutti i lavoratori. La ratio di tale norma è evitare che i posti che si rendano vacanti o comunque le opportunità di lavoro stabili all'interno dell'azienda siano esclusi a priori al lavoratore a termine81.
La clausola 6 contiene anche una “raccomandazione”, fatta dal legislatore europeo ai datori di lavoro, i quali nella misura del possibile dovrebbero agevolare l'accesso dei lavoratori a termine a opportunità di formazione, al fine di valorizzarne le qualifiche, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale.
Nonostante la locuzione <<per quanto possibile>> susciti perplessità in ordine alla effettività del diritto di formazione, l’espresso riconoscimento di tale diritto insieme a quello di informazione implica la constatazione che la precarietà dell’impiego non può essere causa dell’isolamento del lavoratore e, conseguentemente, di un suo trattamento deteriore rispetto ai lavoratori stabili. In particolare, le parti sociali mostrano la raggiunta consapevolezza, a livello comunitario e non solo dei singoli Stati, del ruolo chiave della formazione nelle politiche di flessibilità e di promozione dell’occupazione, nonché nel miglioramento della capacità competitiva delle imprese82.
La clausola 7 sancisce la computabilità dei lavoratori a termine ai fini della determinazione della soglia numerica oltre la quale possono costituirsi, nell’ambito dell’impresa, gli organi di rappresentanza sindacale previsti dalla legislazione nazionale ed europea ed in conformità con la normativa nazionale. L’accordo demanda, anche in questo caso, agli Stati membri previa consultazione delle parti sociali, e/o alle parti sociali stesse, la definizione delle modalità applicative della norma, secondo
81 X. XXXXXX, Il diritto del lavoro…, 2001, op.cit., p. 296.
82 X. XXXXXXX, op.cit., p. 1018 ss.
legislazione, contrattazione e prassi nazionali, nel rispetto del principio generale di non discriminazione di cui alla clausola 4.
Un passo indietro rispetto alla proposta del Giugno 1990 è compiuto dal 3° comma della clausola 7 riguardo alle informazioni da rendersi agli organi di rappresentanza dei lavoratori, in merito al lavoro a tempo determinato nell’azienda83. Infatti, secondo una discutibile tecnica legislativa, le parti sociali si limitano ad auspicare che, nella misura del possibile, i datori di lavoro prendano in considerazione la fornitura di adeguate informazioni. Nessun riferimento si rinviene, invece, ad eventuali obblighi di consultazione, nonostante la promettente rubrica della clausola 7 ( “informazione e consultazione”).
La clausola 8, infine, detta disposizioni di attuazione di vario contenuto. Innanzitutto, viene ribadito il ruolo di minimo comune denominatore assunto dall’accordo quadro, legittimandosi gli Stati membri e/o le parti sociali a mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori (cl. 8.1). Ad integrazione di tale regola, si vieta, nella fase traspositiva, di ridurre il <<livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso>> (cl. 8.3, c.d. clausola di non regresso, su cui si veda infra § 2.3). L’accordo non pregiudica, comunque, azioni che la Comunità vorrà intraprendere, in particolare, in tema di parità di trattamento o delle pari opportunità tra uomini e donne (cl. 8.2), né negoziati a livello nazionale o comunitario diretti all’adeguamento e/o all’integrazione delle disposizioni dell’accordo stesso (cl. 8.4).
La clausola in esame riconosce la competenza degli Stati membri nella prevenzione e nella composizione di controversie concernenti l’applicazione dell’accordo sulla base delle leggi, dei contratti collettivi o delle prassi nazionali (cl. 8.5).
L’ultimo comma della clausola 8 prevede la possibilità, qualora vi sia la richiesta di almeno una delle parti firmatarie, di verificare l’applicazione dell’accordo cinque anni dopo la decisione del Consiglio.
83 Cfr. art. 2, comma 3° della proposta del Giugno 1990: “Il datore di lavoro, quando prevede di avvalersi dei lavoratori di cui alla presente direttiva, è tenuto ad informarne in tempo utile gli organi rappresentativi dei lavoratori esistenti nell’impresa. Nelle imprese con più di mille dipendenti è predisposto un quadro periodico di questo tipo di posti di lavoro rispetto all’evoluzione del complesso degli effettivi”.
§2.1- Segue. Il principio di non discriminazione (clausola 4).
La clausola 4.1, con formula analoga a quella utilizzata nell’accordo europeo sul lavoro a tempo parziale, stabilisce che <<per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive>>. Per discriminazione deve intendersi <<una ingiustificata differenza di trattamento dovuta ad un fattore tipizzato dalla legge>>; di conseguenza <<ogni altra differenza per ragioni atipiche (...) non può essere definita discriminazione in senso
tecnico e resta estranea alla relativa disciplina>>84.
Un'innovazione, comunque non sostanziale, è l'introduzione del concetto di “lavoratore comparabile”, da intendersi come il lavoratore inquadrato nello stesso livello dalle indicazioni della contrattazione collettiva.
Secondo la clausola 3.2, infatti, il <<termine lavoratore a tempo indeterminato comparabile indica un lavoratore con un contratto o rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze>>; e si aggiunge che <<in assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali>>.
Il tenore letterale della clausola 4.1, nonostante l’utilizzo del termine “discriminazione”, e la formula adottata nel terzo periodo del preambolo85, configurano più propriamente il principio in esame come principio di parità di trattamento 86: ogni differenza di trattamento del lavoratore a termine rispetto al lavoratore a tempo
84 X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto del lavoro, Vol. II, Il rapporto di lavoro, X. Xxxxxxxxxxxx editore, Torino, 2000, p. 186.
85 <<Il presente accordo…indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni.. >>.
86 Cfr. M. ROCCELLA - X. XXXX, Diritto del lavoro della Comunità europea, 2002, op.cit., p. 187, e cfr. le considerazioni svolte rispetto all’analogo principio affermato dalla direttiva in materia di lavoro a tempo parziale, p. 174; sul punto cfr. anche X. XXXXXXXX, Luci e ombre dell’accordo europeo in materia di lavoro a tempo parziale, Riv. giur. lav. 1999, II, p. 408 ss.,
indeterminato comparabile dovrà presumersi illegittima, salvo non ricorrano ragioni oggettive che giustifichino deroghe in peius87.
La vastità della causale giustificativa delle eccezioni genera perplessità circa l’effettività del principio, peraltro già limitato alle condizioni di impiego con esclusione dei regimi di sicurezza sociale, che rientrano nella competenza degli Stati membri (preambolo, quinto capoverso). Questa carenza, che trova un precedente nell’accordo sul lavoro a tempo parziale, costituisce un effetto scontato della natura convenzionale del testo in esame, il quale difficilmente avrebbe ottenuto il consenso degli organi decisionali comunitari se avesse previsto impegni in materia previdenziale, dato che tale materia implica l’impiego di risorse economiche da parte degli Stati membri e che è spesso governata da regole molto diverse da paese a paese88. Gli Stati membri avevano manifestato da tempo un’evidente ostilità di fronte alla prospettiva di modifiche nei propri sistemi previdenziali imposte da regole comunitarie e se l’accordo avesse toccato le questioni inerenti ai regimi previdenziali pubblici, la direttiva di attuazione avrebbe dovuto essere varata dal Consiglio con una delibera all’unanimità, alla stregua dell’art. 137, paragrafo 3 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, e ciò avrebbe compromesso la possibilità di adottare la decisione89. Le parti sociali si limitano quindi ad aggiungere, nel quinto capoverso del preambolo, che esse <<prendono nota della Dichiarazione sull’occupazione del Consiglio europeo di Dublino (1996), che sottolinea tra l’altro la necessità di elaborare sistemi di sicurezza sociale più favorevoli all’occupazione, sviluppando <”sistemi di protezione sociale che si adattino ai nuovi tipi di lavoro e forniscano l’adeguata protezione sociale alle persone impegnate in tali lavori”: le parti ribadiscono il parere espresso nell’accordo del 1997 sul lavoro a tempo parziale, secondo il quale gli Stati membri dovrebbero attuare immediatamente la Dichiarazione>>.
La generale eccezione al divieto di discriminazioni in presenza di “ragioni oggettive” non inficia in maniera determinante la portata dello stesso se si consideri il 3° comma della clausola 4 che rimette agli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o alle parti sociali stesse il compito di applicare il principio di parità di trattamento <<viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e le prassi
87 X. XXXXXX, 2002, op.cit.,p.23.
88 X. XXXXXXXXXX, , La direttiva sul lavoro a tempo determinato, 2003, op.cit., pag. 20.
89 X. XXXXXXX, The negotiations on fixed-term work, citato da BELLAVISTA A., op.ult.cit., p. 21, nota 49.
nazionali>>. Questo richiamo, riferito alle ragioni che giustificano il permanere delle differenze, permette di sottrarre alla valutazione delle parti individuali del rapporto la disponibilità di tale aspetto 90. La direttiva, in altre parole, fa salve quelle disposizioni di legge o di contratto che, senza costituire illegittima discriminazione, prevedono nei singoli ordinamenti trattamenti differenziati tra lavoratori a termine e lavoratori assunti stabilmente, purchè tali differenze non siano giustificate dal <<solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato>> (cl. 4.1). Del resto, una applicazione meccanica ed astratta del principio può, non solo generare irragionevoli parità, ma risultare, in certi casi, persino controproducente se attuata a lavoratori che svolgono la loro prestazione lavorativa in condizioni del tutto peculiari, rispetto a quelle dei lavoratori stabili91. Indicativo, sotto questo profilo, è l’aspetto della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori temporanei: essendo generalizzata la tendenza ad assegnare ai lavoratori temporanei compiti o lavori ripetitivi o pericolosi, o da svolgersi in ambienti insalubri (c.d. esternalizzazione del rischio), che il personale stabile dell’impresa normalmente rifiuterebbe di svolgere, e dato che il senso di alienazione, frustrazione e disaffezione al lavoro che spesso caratterizza i lavoratori temporanei aumenta enormemente il rischio di incidenti per disattenzione, stress, negligenza, la garanzia della salute e sicurezza sul posto di lavoro non può essere assicurata dalla pura e semplice applicazione delle disposizioni in materia di prevenzione stabilite con riferimento ai lavoratori stabili dell’impresa, ma richiede piuttosto la predisposizione di una normativa specifica.
Corollario applicativo del principio di parità di trattamento è costituito dal principio del pro rata temporis92, contenuto nella clausola 4. 2, diretto, appunto, ad evitare che il ricorso al contratto a termine si traduca nell’esclusione di alcune fasce deboli di lavoratori dall’accesso a benefici normalmente accordati ai lavoratori a tempo indeterminato. Esso si applica <<se del caso>> (cl. 2.2), non quindi sempre, quando sussistano ragioni oggettive. Il richiamo al principio pro rata temporis, indica la
90 X. XXXXXXXX, Nuovi sviluppi, 2000, op.cit.; X. XXXXXX, 2002, op.cit., p. 24.
91 X. XXXXXXXXXX, 1999, op.cit, p. 467, il quale sottolinea anche come la valutazione della parità di trattamento sia operata in astratto, mediante una semplice comparazione di ordine formale tra le condizioni di lavoro del prestatore di lavoro temporaneo e quelle di un lavoratore permanente dell’impresa assimilabile per mansioni e qualifica, senza tuttavia tenere in alcuna considerazione le condizioni psicologiche e materiali di un lavoratore sottoposto al rischio di perdere il posto di lavoro e di non ottenere il rinnovo del contratto.
92 X. XXXXXX,0000, op.cit., p. 24; X. XXXXXXXX, 1999, op.cit., p. 410; S: XXXXXXX, 1999, op.cit., p.
1017.
ragionevole possibilità di proporzionare solo quei trattamenti strettamente legati alla ridotta durata della prestazione lavorativa escludendo ogni differenza di trattamento riguardo agli istituti del rapporto di lavoro che non presentano tale caratteristica.
Tale principio è contenuto nella clausola 4.4 secondo cui <<i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando i criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive>>; dal che si desume che <<quando i diritti dei lavoratori sono condizionati o comunque variamente modulati in relazione al possesso di una data anzianità di servizio, questa condizione o articolazione delle tutele riferite all’anzianità debba essere applicata senza distinzione alcuna sia a lavoratori stabili che a quelli a a termine>>93. Ciò dovrebbe comportare l’obbligo di collegare, ai fini del computo dell’anzianità di servizio utile per l’accesso a certi benefici, anche più rapporti a termine non successivi svoltisi in periodi differenti entro un ragionevole arco temporale94.
In tema di non discriminazione l'ordinamento italiano era ritenuto da più parti95, anche prima dell'emanazione del decreto di riforma, conforme ai dettati della Direttiva 1999/70/CE: infatti, il legislatore ha trasfuso l'art. 5, L. n. 230/1962, che già riconosceva al lavoratore a termine ferie, tredicesima mensilità ed ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo indeterminato, nell'art. 6 del decreto vigente, senza sostanziali modifiche.
A testimonianza dell'importanza e della necessità di tutela del principio di non discriminazione, il legislatore delegato ha previsto, per l'inosservanza degli obblighi derivanti dall'art. 6 del d. lgs. n. 368/2001, un sistema sanzionatorio autonomo, regolato dall'art. 12 del decreto stesso, che prevede sanzioni amministrative crescenti in proporzione al numero dei lavoratori oggetto di disparità di trattamento.
93 X. XXXXXXXX, Lavoro a termine, referendum,Direttiva 1999/70/CE, Patto di Milano, in Riv. giur. lav., 2000, III, p. 597 ss.
94 X.XXXXXX, Normalising Temporary Work, in Industrial Law Journal, 1999, p. 275.
95 PIZZONIA, Il principio di non discriminazione: accordo europeo e la normativa interna, in MENGHINI L. (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, IPSOA, Milano, 2002; XXXXXXXX, L., Xxxxxx a termine, referendum..., 2000, op.cit., p. 575.
§2.2- Segue. La prevenzione degli abusi nella normativa comunitaria.
La clausola 1, lett. b) dell’accordo prevede, fra gli obiettivi perseguiti, quello di
<<creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato>>96, mostrando di considerare soltanto l’istituto del rinnovo come fonte di possibili distorsioni e non manifestando la necessità di apprestare anche specifiche tutele per la stipulazione del primo contratto. L’assenza di una esplicita disciplina del primo contratto a termine nella parte dispositiva della direttiva comunitaria, censurata anche dal Parlamento Europeo97, assume particolare importanza nell’ordinamento italiano, in cui la liberalizzazione delle causali di legittima apposizione del termine, effettuata dall’art. 1, comma 1°, d.lgs. n. 368/2001, ha determinato l’esigenza di individuare una interpretazione della normativa interna conforme alle indicazioni comunitarie98. Il vuoto normativo riguardo alla giustificazione del primo termine, originato dalla rinuncia delle parti stipulanti ad armonizzare sistemi nazionali estremamente eterogenei99, non autorizza tuttavia una ricostruzione della disciplina comunitaria nel senso di una totale fungibilità tra contratto a tempo indeterminato e contratto a termine. Infatti, oltre al reiterato riconoscimento del contratto a tempo indeterminato come <<forma comune dei rapporti di lavoro>>, da cui si desume a contrario la confermata specialità del rapporto di lavoro a termine100, è lo stesso accordo quadro, nella considerazione generale n. 7, a sostenere che un modo di prevenire gli abusi - si potrebbe intendere, anzi, il primo modo di prevenire gli abusi - è proprio quello di consentire l’utilizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato a fronte di “ragioni oggettive”101. Inoltre, una delle parti sociali, la CES, in una nota di valutazione diffusa ancor prima del recepimento dell’accordo europeo nella Direttiva n. 99/70/CE, ha precisato che il riferimento alle “ragioni oggettive”, concepite quale strumento di lotta agli abusi, va ritenuto applicabile anche alla stipulazione del primo
96 Analogamente il <<considerando>> n. 14 della direttiva comunitaria stabilisce che <<le parti hanno espresso l’intenzione (…) di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato>>.
97 Cfr. Punto 14 del Report on the Commission proposal for a Council Directive concerning the framework agreement on fixed-term work concluded by UNICE, CEEP and the ETUC, in IJCLLIR, 1999, pp. 205 ss. Cfr. Retro, §1.
98 Per un’analisi più dettagliata della questione, si veda infra, Cap. IV, §1.
99 X. XXXXXX, Regulating Fixed-term Work in United Kingdom: A Positive Step towards Workers’ Protection?, in IJCLL, 1999, vol. 15, n. 2, p. 125; X. XXXXXXXX, xx. xxx.
000 Xxx. retro §1.
101 X. XXXXXXXX, Prime osservazioni…, 2001, op.cit.
contratto. Del resto, è da escludere che la direttiva si proponga di incentivare la diffusione del contratto a tempo determinato: un obiettivo del genere non è riconoscibile né nel preambolo, né nelle considerazioni generali, né in alcuna delle sue clausole, diversamente da quanto previsto nell’accordo sul part-time, recepito con la Direttiva n. 97/81/CE, la cui clausola 1 pone espressamente tra gli scopi della normativa quello di
<<facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria>>.
La clausola 5 definisce il quadro normativo preannunciato dalla clausola 1 per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro a termine. Coerentemente con la riconosciuta specialità del contratto a tempo determinato, la norma indica una serie di misure aventi finalità antifrodatoria, dirette a sanzionare l’utilizzazione incontrollata di contratti a termine successivi tra le stesse parti ovvero la continua proroga dello stesso contratto. Tali meccanismi, infatti, determinano il forte sospetto che si intenda eludere la più rigorosa e garantista disciplina in materia di contratto a tempo indeterminato, mantenendo il lavoratore in una situazione di precarietà e di insicurezza, nonostante che il rapporto finisca per essere sostanzialmente stabile sul piano dei fatti, non anche su quello delle garanzie giuridiche102. Pertanto va condivisa l’opinione secondo cui <<ratio della disposizione appare evitare non tanto la precarizzazione del singolo posto di lavoro presso il datore, quanto la precarizzazione del singolo lavoratore>>103.
La clausola 5.1 impone agli Stati membri previa consultazione delle parti sociali e/o alle parti sociali stesse, di introdurre, in assenza di norme equivalenti, <<una o più misure relative a>>: a) le ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. Nonostante l’ambiguità della versione italiana dell’accordo (l’interpretazione letterale dell’espressione “una o più misure relative a” indurrebbe a riferire la scelta discrezionale alle misure adottate per ciascuno dei parametri indicati), si è affermata, in sintonia con le altre versioni comunitarie104, la lettura della norma che esclude l’obbligatorietà del cumulo dei tre meccanismi di tutela.
102 X. XXXXXXXXX – X. XXXXX, The agreement…, 1999, op.cit., pag. 116.
103 X. XXXXXXXX, Lavoro a termine, referendum…, 2000, op.cit. pag. 598; Id, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in MENGHINI L. (a cura di), La nuova disciplina…, 2002, op.cit., p. 22.
104 Le versioni del testo dell’accordo europeo offerte dagli altri Stati membri ricorrono costantemente all’espressione “una o più tra le seguenti misure”.
La clausola 5.2 precisa che “gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato.
Anche a proposito di questa clausola il Parlamento Europeo ha manifestato perplessità, sotto il profilo della garanzia di effettiva tutela dei lavoratori: in particolare al punto 16 del Report, <<deplora che le norme volte ad impedire l’abuso derivante dall’utilizzo di una successione di lavori a termine non comportino requisiti qualitativi e quantitativi, cosicché l’accordo stesso non si traduce automaticamente in un miglioramento effettivo della situazione dei lavoratori a tempo determinato, che deve allora avvenire tramite il recepimento dell’accordo nelle normative nazionali>>; e, al punto 17, <<rileva che con l’accordo non viene fissato un requisito minimo europeo uniforme per le successioni di contratti di lavoro a tempo determinato, dato che gli Stati membri possono scegliere tra tre opzioni e per di più vengono ammesse diverse definizioni settoriali di cosa siano i contratti di lavoro a termine a catena>>.105
Recentemente la Corte di Giustizia europea con la sentenza del 4 luglio 2006, proc. C-212/04 (Xxxxxxxx)106, ha risposto a tre questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Salonicco concernenti l’interpretazione proprio della clausola 5107. La prima questione riguarda l’interpretazione della nozione di “ragioni obiettive” che giustificano il rinnovo di contratti a tempo determinato successivi. Dopo aver riconosciuto che la direttiva non individua il contenuto di tale nozione, la Corte precisa che il suo senso e la sua portata devono essere determinati considerando lo scopo perseguito dall’accordo quadro (punto 60) e sottolinea che esso parte dalla premessa secondo la quale i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma
105 X. XXXXXXXXXX, La direttiva sul lavoro a tempo determinato, 2003, op.cit., p. 23.
106 Sentenza della Corte (Grande Sezione) 4 luglio 2006 <<Direttiva 1999/70/CE – Clausole 1, lett. b), e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico – Nozioni di “contratti successivi” e di “ragioni obiettive” che giustificano il rinnovo di tali contratti – Misure di prevenzione degli abusi – Sanzioni – Portata dell’obbligo di interpretazione conforme >>. La domanda di causa è stata proposta nell’ambito di una controversia tra il sig. Xxxxxxxx e altri 17 dipendenti e il loro datore di lavoro, l’Ellenikos Organismos Galaktos ( Ente ellenico del latte) avente ad oggetto il mancato rinnovo dei contratti di lavoro a tempo determinato che li vincolavano a quest’ultimo. La domanda verte sull’interpretazione delle clausole 1 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e sull’estensione dell’obbligo di interpretazione conforme imposto ai giudici degli Stati membri. La sentenza si può leggere in Mass. giur. lav., 2006, n. 10, pp. 736 ss..
107 Le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte dal Monomeles Protodikeio Thessalonikis sono quattro, ma la prima concerne l’esatta individuazione del momento a partire dal quale sorge per i giudici nazionali l’obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme ad una direttiva tardivamente recepita.
comune dei rapporti di lavoro (punto 61), che il beneficio della stabilità dell’impiego costituisce un elemento portante della tutela dei lavoratori (punto 62) e che, pertanto, l’accordo intende circoscrivere il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, considerato come potenziale fonte di abuso a danno dei lavoratori, prevedendo una serie di disposizioni di tutela minima volte ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti (punto 63). Le “ragioni obiettive” indicate dalla clausola 5, n. 1, lett. a), devono quindi consistere in <<circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività…che possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro>> (punti 69 e 79). Non soddisferebbe tali requisiti e non sarebbe, dunque, conforme alla finalità di tutela perseguita dall’accordo quadro, <<una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi>> (punto 71)108.
La seconda questione esaminata dalla Corte concerne la nozione di contratti a termine “successivi”. Sebbene la clausola 5, n. 2, lasci agli Stati membri la cura di determinare la definizione del carattere “successivo” dei contratti, così come delle condizioni alle quali i contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere ritenuti come conclusi a tempo indeterminato, secondo la Corte tale potere discrezionale non è illimitato, in quanto esso non può in alcun caso pregiudicare lo scopo o l’effettività dell’accordo quadro (punto 82). Pertanto <<una disposizione nazionale che consideri successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore o pari a 20 giorni lavorativi deve essere considerata tale da compromettere l’obiettivo, la finalità nonché l’effettività dell’accordo quadro>> (punto 84). Infatti, una definizione così rigida e restrittiva non solo non proteggerebbe i
108 I giudici di Lussemburgo non si esprimono chiaramente sulla dibattuta questione della temporaneità delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine (seppure, nella prospettiva comunitaria, con riguardo ad un contratto collocato in una successione di rapporti). Dalle argomentazioni della Corte si evince, piuttosto, la necessità che la disciplina nazionale individui, se non direttamente i settori e le attività interessate, almeno dei <<criteri oggettivi e trasparenti>> che giustifichino il ricorso a contratti a termine successivi (punti 70-75). Lo stesso richiamo al <<perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro>> (punto 70) è condivisibile, nel ragionamento della Corte, solo se riferito a determinate categorie di persone, quali ad esempio i lavoratori in mobilità; contrasterebbe, invece, con le finalità dell’accordo europeo una liberalizzazione dei rinnovi giustificata da una generale finalità di promozione dell’occupazione. Cfr. Cap. IV, §1.2.
lavoratori dall’instabilità dell’impiego, ma permetterebbe l’utilizzazione abusiva dei rapporti a termine da parte dei datori di lavoro poiché, nella pratica, sarebbe sufficiente lasciar trascorrere un periodo di soli 21 giorni per poter stipulare validamente e senza incorrere in alcuna sanzione un altro contratto della stessa natura, indipendentemente sia dal numero di anni durante i quali il lavoratore è stato occupato presso lo stesso datore di lavoro, sia dalla circostanza che tali contratti soddisfino fabbisogni non limitati nel tempo, ma permanenti e durevoli (punti 85-88).
La Corte, infine, si è pronunciata sul profilo delle sanzioni che i legislatori nazionali devono introdurre affinchè le prescrizioni europee, qualora violate, non risultino minus quam perfectae. Essa rileva che l’accordo <<non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato>> (punto 91), dato che il ricorso all’effetto legale sostitutivo è rimesso alla discrezionalità dei legislatori nazionali109, né prevede altre sanzioni specifiche, limitandosi ad imporre l’adozione di una delle misure elencate nella clausola 5.1, dirette a prevenire l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi. Tuttavia, nell’ambito della libertà lasciata agli Stati membri nella scelta delle forme e dei mezzi più idonei a garantire l’efficacia pratica delle direttive (art. 249 TCE), essi sono tenuti ad introdurre misure sanzionatorie non solo proporzionate ma anche sufficientemente effettive e dissuasive per garantire l’effettività delle prescrizioni antifraudolente imposte dalla disciplina europea (punto 94). Pertanto l’accordo quadro <<osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi>>, qualora l’ordinamento giuridico interno non preveda, nel settore considerato, altra misura effettiva per evitare e, nel caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi (punto 105)110.
109 <<Gli Stati membri dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contartti e i rapporti di lavoro a tempo determinato devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato>> (clausola 5, n.2, lett. b).
110 Sul punto la sententenza 4 luglio 2006, proc. C-212/04, Xxxxxxxx, è stata riconfermata dalle sentenze 7 settembre 2006, proc. C-53/04, Xxxxxxx e Xxxxxxx, e proc. C-180/04, Vassallo (si possono leggere, rispettivamente, in Mass. giur. lav., 2006, n.11, pp 829 ss; xxx.xxx.xxxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxxxxxx/ sentenze/06/causa180-04.htm). Per un esame più approfondito della questione relativa alla successione di
§2.3- Segue. Le disposizioni di attuazione. La clausola di non regresso (clausola 8).
La clausola 8 contiene le disposizioni di attuazione dell’accordo, che, con alcune varianti, seguono gli schemi adottati nell’analoga parte finale dell’accordo sul lavoro a tempo parziale e dell’accordo sui congedi parentali. Oltre a stabilire che gli Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nell’accordo (cl. 8.1), a chiarire che l’accordo <<non pregiudica ulteriori disposizioni comunitarie più specifiche, in particolare per quanto riguarda la parità di trattamento e di opportunità uomo-donna>> (cl. 8.2) né <<il diritto delle parti sociali di concludere al livello appropriato, ivi compreso quello europeo, accordi che adattino e/o completino le disposizioni del presente accordo in modo da tenere conto delle esigenze specifiche delle parti sociali interessate>> (cl. 8.4), la clausola 8 enuncia il fondamentale principio di non regresso, secondo cui
<<l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso>> (cl. 8.3). Il principio è formulato qui in maniera tassativa, diversamente dal precedente accordo sul lavoro part-time, in cui il divieto di arretramenti non pregiudica <<il diritto degli Stati membri e/o delle parti sociali di sviluppare, tenuto conto dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, normative o contrattuali differenti>>.
Molto si è discusso in dottrina111 sul valore da attribuire alle c. d. clausole di “non regresso”, inserite talvolta nel preambolo delle direttive, più spesso nel corpo delle stesse, con una sistematicità tale da assurgere a vero e proprio principio generale del
contratti a termine nel settore pubblico e alle sanzioni previste dall’ordinamento italiano, si veda infra,
Cap. iV, § 7.
111 In materia si è formata una consistente letteratura: X. XXXXXXX, Il principio di non regresso nelle direttive in materia di politica sociale, in Dir. lav. rel. ind., 2002, pp. 487 ss.; X. XXXXXXXX, Le clausole di “non regresso”nelle direttive comunitarie in materia di politica sociale, in Riv. giur. lav., 2004, I, pp.39 ss.; X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, L’interpretazione delle clausole di non regresso, in Dir. lav. rel. ind., 2004, pp. 535 ss. Anche il Libro bianco del Governo del 2001 è intervenuto sulle “clausole di non regressione” affermando che esse lasciano <<impregiudicato il diritto degli Stati membri e/o delle parti sociali di stabilire, alla luce dell’evolversi della situazione, disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali diverse rispetto a quelle vigenti al momento dell’adozione della direttiva, purchè le prescrizioni minime previste da quest’ultima siano rispettate>>. E osserva che <<il significato di questa clausola di non regressione è da intendersi nel senso che non deve verificarsi regressione del livello generale di protezione dei lavoratori in seguito all’adozione della direttiva comunitaria, pur lasciando agli Stati membri la possibilità di adottare misure diverse dettate dalla loro politica socio- economica, e questo nel rispetto dei requisiti minimi previsti dal legislatore comunitario. La pretesa che l’ordinamento giuridico debba restare in sostanza immodificabile contrasterebbe con la natura stessa del processo traspositivo che rappresenta esso stesso un momento di aggiornamento del quadro regolatorio rispetto all’insieme di disposizioni entrate in vigore a livello comunitario, nonché in relazione all’evolversi della sottostante realtà economica e sociale>>.
diritto sociale comunitario112. Si è discusso in particolare se tali clausole possano essere intese come una mera indicazione politica, oppure se se ne possa far discendere un vincolo giuridico per i legislatori nazionali in sede di attuazione del diritto comunitario e, in tal caso, su quale sia la portata di tale vincolo; se, inoltre, esso operi soltanto nel momento della prima trasposizione o si proietti, invece, anche sui successivi interventi di modifica della normativa nazionale e se si riferisca all’intera disciplina dell’istituto di volta in volta preso in considerazione dalle direttive comunitarie113 o solo a quei profili specificamente regolati dalle direttive stesse114; se, infine, l’espressione <<livello generale di tutela>> comporti la necessità di una comparazione puntuale di clausole e istituti della regolazione interna o imponga una valutazione di tipo complessivo tra il livello di tutela successivo e quello preesistente all’adozione della direttiva, secondo il principio del conglobamento115. In particolare, con riguardo alla portata dell’obbligo di
<<non regresso>> si è affermato116 che la funzione di simili clausole è quella di evitare, in diretto ed immediato collegamento con la trasposizione delle direttive sociali, delle “corse verso il basso delle regolazioni interne e di favorire, viceversa, un reale progresso delle disposizioni protettive”, come richiesto dal Trattato istitutivo della Comunità Europea. Ciò non significa che la clausola di non regresso ponga agli Stati un
112 X. XXXXXXXX, Le fonti e l’interpretazione nel diritto del lavoro: l’incidenza del diritto comunitario,
in XXX, 0000, n. 1, p. 114.
113 Così X. XXXXXXX, op.ult.cit., pp. 489 ss.; X. XXXXXXXX, La riforma del contratto a tempo determinato, in Dir. rel. ind., 2003, n. 2, p. 252; X. XXXXXXXXX, Intervento, Seminario CESRI sulla nuova legge in materia di contratto di lavoro a termine, Roma 22 ottobre 2001, in xxxx://xxx.xxxxx.xx/xxxxxx/XXXXXXXXX_000.xxx.
114 In questo senso X. XXXXXXXXXX, La recente evoluzione della disciplina in materia di lavoro a termine: osservazioni sul caso italiano in una prospettiva europea e comparata, in X. XXXXX (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Xxxxxxx, Milano, 2002, p. 69, che, fondandosi sulle espressioni letterali delle direttive, in particolare della dirrettiva 99/70/CE, ove si fa riferimento ad un <<lavoratore>> con un contratto o rapporto di lavoro disciplinato dagli ordinamenti interni, interpreta restrittivamente l’<<ambito coperto dall’accordo>>, dal quale sarebbe esclusa <<la platea indistinta dei soggetti potenzialmente interessati a una assunzione a termine>>. Cfr. X. XXXXXX, La direttiva comunitaria…, 2002, op.cit., pp. 17 ss.
115Sembrano proporre una soluzione di equilibrio X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, Libertà di concorrenza e protezione sociale a confronto. Le clausole di favor e di non regresso nelle direttive sociali, 2005, pp. 69-70, in xxx.xxx.xxxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxx/xx/xxx, per i quali, nell’impossibilità di confrontare regolazioni attinenti ad istituti radicalmente differenti della stessa materia, e dovendosi parimenti escludere una comparazione analitica dei singoli aspetti di quegli istituti che farebbe perdere di vista il carattere generale del livello di protezione, il raffronto andrebbe fatto istituto per istituto, con riguardo non ad ogni singolo aspetto della relativa disciplina ma a quelle parti di essa aventi valore essenziale e caratterizzante. Per un quadro dei diversi possibili approcci alla questione cfr. X. XXXXXXXX, La nuova disciplina…, 2002, op.cit., pp. 31 ss.; X. XXXXXXXX, Prime osservazioni…, 2001, op.cit.; X. XXXXX, Appunti sulla nuova disciplina del rapporto di lavoro a termine, in Lav. giur., 2002, n. 1, pp. 27 ss. ; X. XXXXX, L’accordo quadro del 18 marzo 1999 e la direttiva n. 99/70/CE sul lavoro a tempo determinato, 2002, op.cit., pp. 55 ss.
116 X. XXXXXXX, L’orario di lavoro, Xxxxxxx, Bari, 2001, pp.199 ss.; X. XXXXXXXXX, Intervento, 2001,
op.cit.
generale obbligo di stand still117. La possibilità di intervenire sulla disciplina interna in termini anche peggiorativi rispetto al regime preesistente in considerazione dell’evoluzione della situazione, ma pur sempre nel rispetto delle esigenze minime fissate dalla normativa comunitaria, è spesso contemplata direttamente dalle direttive, come nel caso della n. 93/104/CE in materia di orario di lavoro e della n. 97/81/CE sul part-time, e anche dove non si rinvenga una espressa indicazione in tal senso, dovrebbe ritenersi comunque ammessa in virtù del principio della sovranità degli Stati membri118. La modifica peggiorativa della preesistente disciplina, pur nel rispetto dei minimi comunitari, sarebbe sempre possibile, anche con il provvedimento con cui si dà formale ed esplicita attuazione ad una direttiva munita di clausola di non regresso, ma in via di eccezione e purchè le ragioni economiche e sociali che inducono alla trasposizione modificativa in peius siano esplicitate con chiarezza, così da evidenziare che si tratta di una precisa scelta politica del legislatore nazionale, di cui, pertanto, esso si assume piena e formale responsabilità di fronte ai cittadini e alla Comunità119. Secondo una diversa interpretazione la possibilità di diminuire il livello di protezione dei lavoratori sarebbe ammessa solo se giustificata da motivazioni diverse dall’attuazione della direttiva, esterne agli obiettivi in essa contenuti, e solo nell’ipotesi in cui si intenda perseguire altri obiettivi comunitari, in particolare le finalità in materia di politica sociale indicate nell’art. 136 TCE, in special modo la promozione dell’occupazione120.
Una limpida fisionomia delle clausole di non regresso non emerge neanche dalla prima pronuncia al riguardo della Corte di Giustizia121. Nel caso Xxxxxxx la Corte,
117 Xxxxxxx, invece, che le clausole di non regresso, come quella inserita nella direttiva 99/70/CE, che non autorizzano espressamente gli Stati membri a introdurre disposizioni differenti, abbiano un valore più vincolante delle altre e impongano di conservare la legislazione di miglior favore, X. XXXXXXXX, Xx xxxxxxx…, 0000, op.cit., p. 254. Cfr. X. XXXXXXXX, op.ult.cit., p. 52.
118 X. XXXXXXXXX, op.ult. cit.
119 X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, op.ult.cit, p. 63..
120 X. XXXXXXX, op.ult.cit., pp. 501 ss. Contra X. XXXXXXXX, op.ult.cit., p. 255, che sottolinea come l’ambiguità delle fonti su cui tale tesi è fondata è rilevata dal suo stesso sostenitore quando mette in luce (v. p. 499) che l’art. 136 TCE potrebbe, al contrario, giustificare <<una spinta al rialzo delle tutele garantite dalle fonti comunitarie>> imponendo la conservazione delle norme nazionali più favorevoli antecedenti alla direttiva; X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX. op.ult.cit., p. 64, per i quali, a parte
<<l’astratta riconducibilità al Trattato della ormai quasi totalità delle politiche economico-sociali degli Stati membri della Cominità, specialmente quelle in materia di occupazione, (…) sembra (…) che la scelta di nobilitare l’operazione di regresso attraverso il suo ancoraggio a ragioni comunitarie non trovi riscontro nel dato normativo e possa spingere, in fin dei conti, a colorare con una verniciatura di europeismo decisioni (…) affidate alle scelte di ciascun singolo Stato, nella ricerca costante dei propri equilibri interni, sulla base delle proprie politiche economiche e sociali>>.
121 X. Xxxxx. 22 novembre 2005, causa C-144/04, Xxxxxxx x. Xxxx; si può leggere in Mass. giur. lav., 2006, n. 4, pp. 222 ss. Il caso esaminato dalla Corte riguardava la conformità all’ordinamento comunitario, in particolare, per ciò che qui interessa, alla clausola 8.3 della direttiva 99/70/CE, della
dopo aver precisato che per <<applicazione>> della direttiva non si intende soltanto la sola iniziale trasposizione ma <<ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completano o modificano le norme nazionali già adottate>> (punto 51), si limita ad affermare che <<una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato, non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo>> (punto 52) e a statuire che nel caso di specie, come rilevato dall’Avvocato generale Xxxxxxx nelle sue conclusioni122, la riduzione delle tutele e cioè l’abbassamento dell’età oltre la quale è consentita la stipula di contratti a tempo determinato senza restrizioni, è giustificata <<non già dalla necessità di applicare l’accordo quadro, ma da quella di incentivare l’occupazione delle persone anziane in Germania>> (punto 53), con la conseguenza che non sussiste violazione della clausola di non regresso (punto 54). La Corte si limita, così, a confermare il risultato finale delle conclusioni dell’Avvocato generale senza riprodurne, però, il percorso argomentativo. Nelle conclusioni, infatti, l’Avvocato generale innanzitutto riconosce alle clausole di non regresso <<natura giuridica vincolante>>, almeno quando siano inserite nel corpo stesso delle direttive, e <<ciò per ragioni di carattere letterale e sistematico>>, da cui si può dedurre che il legislatore comunitario, attraverso tali clausole, ha voluto
<<imporre…agli Stati membri un vero e proprio obbligo di contenuto negativo, consistente nel non utilizzare la trasposizione come motivo per ridurre le tutele già garantite ai lavoratori nell’ordinamento nazionale>>123. Tuttavia il riconoscimento di un tale obbligo non comporta un divieto assoluto di modifiche peggiorative ma opera, piuttosto, come <<clausola di trasparenza (…) che, allo scopo di evitare abusi, vieta agli Stati membri di approfittare dell’occasione dell’attuazione della direttiva per operare, in un settore delicato come quello della politica sociale, una riduzione delle tutele già garantite nel proprio ordinamento addebitandola (…) ad inesistenti obblighi comunitari piuttosto che ad una autonoma scelta nazionale>>124. Un arretramento delle tutele dei lavoratori, secondo l’Avvocato generale, è quindi <<ben possibile, ma solo
legislazione tedesca che ha abbassato con la legge di trasposizione della direttiva e poi, ulteriormente, con una legge successiva, l’età (da 60 anni a 58 e poi a 52) oltre la quale possono essere conclusi contratti a termine senza il limite della sussistenza di una ragione oggettiva.
122 Consultabili in xxxx://xxx.xxxxx.xx.xxx.
123 Punti 56, 57, 58 delle conclusioni.
124 Punto 62 delle conclusioni.
per motivi diversi dalla necessità di attuare la direttiva stessa e la cui sussistenza spetta allo Stato membro dimostrare>>125. Nel caso di specie, l’Avvocato generale ha ritenuto dimostrato che l’abbassamento dell’età previsto dalla legge tedesca è stato determinato non dall’esigenza di applicare la direttiva 99/70/CE ma dalla necessità di promuovere l’occupabilità delle persone anziane e ciò sia perché altri provvedimenti normativi antecedenti avevano progressivamente ridotto la soglia di età in questione, sia perché l’ultima modifica legislativa era stata adottata a seguito di precise valutazioni sull’occupazione connesse ai risultati dei lavori di una commissione governativa126.
La sentenza Xxxxxxx non appare, dunque, risolutiva : oltre a non fornire alcun elemento utile per identificare <<l’ambito coperto>> dal divieto di regresso127 né per comprendere le modalità della comparazione, non è chiaro soprattutto quando una reformatio in peius possa considerarsi non collegata in alcun modo con l’applicazione di una direttiva128; non è chiaro, in particolare, se il perseguimento di finalità occupazionali possa, al momento della trasposizione, costituire sempre e comunque un
<<motivo diverso>>129 dall’attuazione della direttiva idoneo a giustificare un abbassamento del livello di tutela dei lavoratori, rendendo sostanzialmente vana la presenza di clausole di non regresso indipendentemente dalla loro formulazione e dalla loro collocazione nel contesto della direttiva130, o se, invece, gli obiettivi occupazionali siano stati il baricentro della decisione della Corte nello specifico caso Mangold131. Resta il dubbio, in altre parole, se per ridurre il livello di tutela in occasione della trasposizione di una direttiva in materia sociale sia sufficiente addurre, anche a posteriori, una generica finalità di incremento occupazionale o se occorra, come sarebbe coerente con la funzione di tali clausole, almeno l’esplicitazione del complessivo disegno riformatore che il singolo Stato intende adottare nel dare attuazione alla
125 Punto 63 delle conclusioni.
126 Punti 75-77 delle conclusioni, in cui si sottolinea che la commissione governativa ha accertato <<che la probabilità per un disoccupato ultracinquantacinquenne di trovare un nuovo lavoro si attesta intorno al 25%>>.
127 Il riferimento al <<settore dei contratti a tempo determinato>> contenuto nel punto 52 della sentenza farebbe propendere per l’interpretazione estensiva.
128 X. XXXXXX, Corte di Giustizia Europea, “clausole di non regresso” e normativa italiana sul termine, in Lav. giur., 2006, n. 5, p. 468.
129 Cfr. punto 63 delle conclusioni dell’Avvocato generale.
130 X. XXXXXX’, Clausole di non regresso e divieti di discriminazione per età: il caso Xxxxxxx ed i limiti alla discrezionalità del legislatore nazionale in materia di lavoro, in Riv. giur. lav., 2006, II, pp. 222 ss., secondo la quale dalla sentenza Xxxxxxx l’attitudine delle clausole di non regresso ad arginare la discrezionalità del legislatore nazionale in materia di lavoro appare ambigua se non addirittura nulla.
131 Così X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2006, IV, p. 724.
direttiva. La soluzione di tale incertezza avrebbe avuto importanti riflessi sull’ordinamento italiano in cui, in considerazione della modalità di recepimento della direttiva 99/70/CE e dell’assenza di qualsiasi espressa giustificazione delle ragioni che hanno giustificato il peggioramento degli standards protettivi, la possibilità che il d.lgs.
n. 368/2001 abbia violato la clausola di non regresso è stata prospettata da molti132.
§3- La conformazione della normativa italiana ai dettati comunitari.
Formalmente la Direttiva 1999/70/CE è stata recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, emanato dal Governo in base alla delega conferitagli dal Parlamento con la legge 29 dicembre 2000, n. 422 (legge comunitaria 2001), al fine di rispettare l’impegno di attuare, entro un anno e tramite decreti legislativi, le direttive contenute negli elenchi di cui agli allegati A e B. Al 14° punto dell’allegato B, tra le direttive da attuare tramite decreti legislativi con obbligo di sottoporre gli schemi del provvedimento alla valutazione delle commissioni parlamentari competenti per materia, era indicata quella relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. L’art. 2 della direttiva fissava al 10 luglio 2001 il termine ultimo per il suo recepimento da parte degli Stati membri, fatta salva la possibilità di fruire di un periodo supplementare non superiore ad un anno, qualora si fosse reso necessario in considerazione di difficoltà particolari o dell’attuazione mediante contratto collettivo e, comunque, previa consultazione delle parti sociali.
Nel marzo 2000 il Ministro del lavoro Xxxxxx Xxxxx, esponente della maggioranza parlamentare di centro-sinistra, aveva invitato le parti sociali a fornire un “avviso comune” sulle modalità di recepimento della direttiva nell’ordinamento italiano. Così, nell’ambito del “Comitato consultivo permanente sulla legislazione del lavoro”133 è iniziata il 24 luglio 2000 una trattativa finalizzata, però, non a dare ordine e
132 X. XXXXXXXX, Prime osservazioni… 2001,op.cit.; Id., Le fonti e l’interpretazione…, 2006, op.cit., p. 116; X. XXXXXXXXXX, Peculiarità genetiche e profili modificativi del nuovo decreto legislativo sul lavoro a tempo determinato, in Lav. giur., 2001, n. 10, pp. 918 ss.; X. XXXXXXXX, Xxxxxx a tempo determinato e Corte di Giustizia: il redde rationem, in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx; M.P. AIMO, Il contratto a termine alla prova, in Lav. dir., 2006, n. 2-3, pp. 489-490; X. XXXXXXXXX, Direttive europee, clausola di non regresso e modelli di recepimento, in Riv. giur. lav., 2006, II, pp. 329 ss.; X. XXXXXXX, Le clausole di non regresso e il divieto di discriminazione per motivi di età secondo la Corte di Giustizia, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 270. Cfr. amplius, §3.
133 L’istituzione del “Comitato consultivo permanente sulla legislazione del lavoro” era stata prevista dall’Accordo Interconfederale 22 dicembre 1998 “Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione” che, nel perseguire obiettivi di sviluppo economico e crescita occupazionale, si proponeva, tra l’altro, il
razionalità al coacervo di leggi succedutesi nel tempo in tema di contratto a termine, né a modificare quei profili, peraltro secondari, della normativa vigente riguardo ai quali potevano sussistere dubbi di conformità alla direttiva (informazione sulle possibilità di impiego, formazione, computo dei lavoratori a termine ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali), ma a riformare profondamente la materia, rivedendo l’intero impianto della L. n. 230/1962.
Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2001, quindi prima delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, il negoziato è sfociato in un accordo separato, sottoscritto da alcune importanti organizzazioni imprenditoriali (Confindustria, Confartigianato, Casartigiani, Agci, Confcooperative, Unci, Ania, Abi, Confetra, Confagricoltura, Coldiretti, Cia e, successivamente, anche da Confesercenti e Cida), ma non da altre (quali Confcommercio, Cispel, Cna e Lega cooperative) e da alcune organizzazioni sindacali di lavoratori (CISL, UIL, CISAL, UGL) ma non dalla più significativa, la CGIL, fermamente contraria al forte ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del contratto a termine risultante dalle previsioni dell’intesa134. Il testo dell’accordo, di per sé non vincolante135, che il Governo di centro-sinistra si era rifiutato di recepire in quanto non sottoscritto da tutte le confederazioni maggiormente
rafforzamento della concertazione a tutti i livelli. In particolare, il Patto prevedeva che << le intese tra le parti sociali costituiscono lo strumento prioritario affinché Governo e Parlamento adempiano agli obblighi comunitari, soprattutto in riferimento a direttive che siano state emanate a seguito del dialogo sociale>> ( punto 6, parte 2, “Il metodo della concertazione”).
134 Inizialmente la CGIL aveva elaborato una proposta per la trasposizione della direttiva 1999/70/CE in cui, pur accogliendo il modello della clausola riassuntiva al posto della tipizzazione casistica, ribadiva il carattere straordinario e occasionale ovvero ciclico e stagionale delle ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che giustificavano l’apposizione del termine e premetteva chiaramente che
<<il contratto di lavoro si reputa normalmente a tempo indeterminato>>. Conteneva, inoltre, una più rigida disciplina della proroga, ammessa non più di una volta, per un tempo non superiore alla durata iniziale del contratto e quando fosse richiesta da esigenze contingenti e imprevedibili.
Il testo della proposta è reperibile in xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx-xxxxxx/XxxxxxxxxXxxxxxx/ LavoroATermine/ Accordi/Index. htm. Xxxxx stesso sito si vedano anche le lettere della CGIL al Ministro del lavoro in data 08/03/2001 e 29/05/2001, in cui sono esplicitate le ragioni del proprio dissenso all’accordo raggiunto dagli altri sindacati. Esse riguardano, oltrechè la disciplina della proroga e del diritto di precedenza, soprattutto l’esclusione di ogni riferimento alla contrattazione in materia di causali giustificative (in forma di specificazione o implementazione di quanto disposto in sede legislativa) e la disciplina dei limiti quantitativi di utilizzazione del lavoro a termine che, pur rimanendo nell’ambito della contrattazione, si sostanzia in un elenco di esclusioni tale da tenere fuori dai contingenti più del 95% dei contratti a termine effettivamente attivati.
135 Cfr. XXXXXXXX X., La riforma del contratto di lavoro a tempo determinato. Temporaneità delle esigenze aziendali e ruolo del sindacato, in Riv. giur. lav., 2003, I, p. 110, il quale, nell’esaminare l’utilizzo del “dialogo sociale” nell’ordinamento giuridico interno, afferma che <<il testo di un accordo sindacale è destinato formalmente a trasformarsi, senza adeguati “filtri”, in un atto normativo, da interpretare e da applicare come ogni altro testo di legge>> in quanto <<ogni intervento di modifica da parte dell’esecutivo potrebbe essere…considerata come un’inaccettabile censura o, peggio ancora, come uno stravolgimento dei termini dell’intesa che le parti hanno siglato>>.
rappresentative136, è stato invece ritenuto idoneo ad assolvere la delega nel frattempo conferita al potere esecutivo in base alla l. 422/2000, dal Governo espressione delle forze di centro-destra, che avevano ottenuto un’ampia maggioranza di seggi nelle elezioni politiche del 13 maggio 2001 (pur corrispondendo alla metà dei votanti e ad un terzo degli aventi diritto al voto). Si è arrivati così all’emanazione del d.lgs. n. 368/2001, integralmente riproduttivo dell’accordo sindacale perfezionato il 4 maggio 2001, che apre una nuova fase nella regolamentazione delle forme di lavoro flessibili caratterizzata dal superamento del criterio della flessibilità contrattata e dalla valorizzazione dell’autonomia individuale137. La “norma aperta” contenuta nell’art. 1 del D. Lgs. 368/2001, che sostituisce il regime della tipizzazione legale e restrittiva delle situazioni legittimanti l’apposizione del termine, unitamente alla mancata riaffermazione del principio secondo cui il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, ha indotto alcuni fra i primi commentatori a parlare di un vero e proprio capovolgimento di prospettiva nel senso di una indiscriminata liberalizzazione delle condizioni sostanziali di stipulazione del contratto a termine138, ormai in rapporto di piena fungibilità con il contratto a tempo indeterminato139. E la libera alternatività tra le due forme di assunzione era, verosimilmente, il risultato che il Governo si proponeva di raggiungere, in coerenza, del resto, con la convinzione, sempre espressa dalle forze politiche che lo hanno costituito, che il progresso economico e sociale, e in particolare l’incremento occupazionale, fosse ostacolato da una normativa rigida, come quella della
L. 230/1962140. Tale risultato non costituiva però il proprium dell’intervento
136 Si vedano le dichiarazioni del Ministro Xxxxx in Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2001, p.1.
137 Cfr. X. XXXXXXX’, Tra diritto ed economia: obiettivi e tecniche della regolazione sociale dei contratti di lavoro a termine in Riv. giur. del lav., 2006, I, pp. 207 ss.; X. XXXXXXX, La nuova disciplina sul lavoro a termine alla luce della normativa comunitaria in Riv. crit. dir. lav., 2004, n. 4, pp. 731 ss.
000 X. XXXXXXXXX, Xxxxx schema di decreto legislativo in materia di lavoro a tempo determinato, in xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx
139 In questo senso si sono pronunciati con motivazioni e toni diversi: X. XXXXXXX X’XXXX-X. XXXXXX, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, in Mass. giur. lav., 2002, n. 3, pp. 118 ss.; X. XXXXXXXXX, Intervento, op.cit.; X. XXXXXXXXX, Ancora nuove regole per il lavoro a termine in Arg. dir. lav., 2002, n. 1, pp. 46 ss.; X. XXXXXXXX, Prime osservazioni..op. cit.; X. XXXXXXXXXX, Apposizione del termine in X. XXXXX ( a cura di ), Il nuovo lavoro a termine., 2002, op.cit., pp. 87 ss.; X. XXXXXXXXX, La nuova disciplina del lavoro a termine in Dir. lav. , 2002, I, pp. 3 ss.
140 Nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo pubblicata nel luglio 2001, che si può leggere in BIAGI (a cura di), 2002, op.cit.,p. 235, si affermava, infatti, che la nuova normativa
<<trasforma in una regola quella che é stata finora una eccezione>> e che <<i due tipi di contratto di lavoro… avranno d’ora in poi parità di “ status giuridico” >>. Il testo della relazione fu poi riformulato, il mese successivo, come richiesto dalle commissioni parlamentari a cui lo schema era stato sottoposto per il prescritto parere, ed edulcorato nei contenuti, sia attraverso l’eleminazione delle affermazioni sopra riportate e di altre analoghe, sia attraverso il richiamo ai principi ispiratori della direttiva CE/99/70, in
comunitario in materia, posto che la direttiva 99/70/CE, manifestando espressamente il proprio favor per il lavoro stabile, mirava a prevenire possibili abusi e discriminazioni nell’utilizzo del contratto a termine e non a incentivarne la diffusione141.
Del resto l’ordinamento italiano era stato reputato dalla stessa Corte Costituzionale “anticipatamente conformato” agli obblighi derivanti dalla direttiva 1999/70/CE, consideratane “la lettera e lo spirito”. Infatti, con la sentenza 7 febbraio 2000 n. 41142, la Corte, sul presupposto che << nella categoria delle leggi per cui l’art. 75 della Costituzione esclude il ricorso al referendum abrogativo sono ricomprese - oltre alle leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali - anche le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività di queste leggi che la preclusione debba ritenersi sottintesa>> (punto 4)143, aveva dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione, tra l’altro, della l. 230/1962 e successive modificazioni, argomentando che l’eventuale esito positivo avrebbe espunto dall’ordinamento una normativa <<avente contenuto tale da costituire per lo Stato italiano il soddisfacimento di un preciso obbligo derivante dall’appartenenza all’Unione europea>> (punto 8.3). Secondo la Corte, infatti, la l. 230/1962 aveva da tempo adottato <<una serie di misure puntualmente dirette ad evitare l’utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato per finalità elusive degli obblighi nascenti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in particolare circondando di garanzie l’ipotesi della proroga e del rinnovo del contratto e precisando i casi in cui il contratto prorogato o rinnovato si debba considerare a tempo indeterminato>> (punto 8.4). Dunque, dato che la direttiva 1999/70/CE, come ha rilevato la stessa Corte Costituzionale, poneva l’obbligo per gli Stati membri di introdurre nei propri ordinamenti misure idonee a prevenire abusi in tema di contratti di lavoro a termine <<solo in assenza di norme equivalenti>> (punto 8.3),
particolare quello secondo cui << i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori>> ( anche la relazione illustrativa nella versione “corretta” si può leggere in BIAGI (a cura di), 2002, op. cit., p. 240.
141 V. retro § 1 e 2.2.
142 La pronuncia della Consulta – che ha suscitato un intenso dibattito sia tra giuslavoristi che tra costituzionalisti – può leggersi in Riv. it. dir. pub. com., 2000, pp. 175 ss., con nota di X. XXXXXXXX, Referendum e obblighi comunitari: verso l’inammissibilità dei referendum su <<leggi comunitariamente necessarie>>?; Mass. giur. lav.. 2000, n. 7, pp. 746 ss.. con nota di X. XXXXXXX, Direttive comunitarie in attesa di recepimento e ammissibilità del referendum abrogativo. Si veda anche X. XXXXXX, Referendum e contratti di lavoro a termine (osservazioni a Corte Cost. 7 febbraio 2000 n. 41), in Dir. UE, 2000, n. 1, pp. 75 ss.
143 Principio affermato dalla Corte fin dalla sentenza n. 30 del 1981 e confermato dalle sentenze n. 31 del 1981, n. 25 del 1987, n. 63 del 1990 e n. 27 del 1997.
nell’ordinamento italiano, poiché tali norme erano già esistenti e si era, quindi, determinata una situazione di anticipata conformzione all’ordinamento comunitario, non era necessario alcun provvedimento attuativo. Le forze politiche che costituivano nel dicembre 2000 la maggioranza parlamentare avrebbero, più acutamente, potuto scegliere di evitare l’inserimento della direttiva 1999/70/CE fra quelle bisognose di decreti di attuazione144, in quanto già intrinsecamente attuata, e procedere, come suggerito da xxxxxx000, alla redazione di un testo unico che riordinasse la materia e apportasse, come previsto anche dall’art. 5 L. 422/2000, solo <<le integrazioni e modifiche necessarie a garantire la semplificazione e la coerenza logica, sistematica e lessicale della normativa>>.
Comunque, ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi, nell’esercizio del potere conferitogli, ai principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega che all’art. 2, lett. f ), disponeva : <<i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie delle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime>>. Il Governo risultava, pertanto, vincolato al rispetto integrale della direttiva - la cui ratio, desumibile dal 14° considerando in combinato disposto con la clausola 1, era quella di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione e di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine – e quindi anche della clausola di non regresso in essa contenuta. Per una revisione totale della normativa sul contratto a termine sarebbe stata necessaria una delega specifica con cui il Parlamento avesse indicato al Governo i criteri da seguire per modificare le garanzie esistenti. In mancanza, sembra verosimile prospettare un contrasto del d.lgs. 368/2001 con l’art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega. A fronte delle numerose affermazioni della dottrina in tal senso146, non ci sono state, tuttavia, ordinanze di rimessione alla Corte
144 Cfr. X. XXXXXXXXXX Peculiarità genetiche…, 2001, op.cit.; X. XXXXXXX Attuazione…, 2002, op.cit., la quale ricorda come proprio l’anticipata conformazione dell’ordinamento italiano a quello comunitario avesse indotto l’allora Ministro per le Politiche Comunitarie, nella seduta del 2 marzo 2000 della XIV Commisione (Politiche Unione Europea), cui il disegno di legge comunitaria era stato assegnato in sede referente, ad escludere alcune direttive dagli allegati.
145 Cfr. X. XXXX La strana storia dell’attuazione della Direttiva CE sui contratti a termine in Lav. Xxxx., 2001, n. 4, p. 306; X. XXXXXXX La nuova disciplina…, 2004, op.cit.
000 X. XXXXXXXXX Xxxxx schema…, 2001, op.cit.; X. XXXXXXXXX Intervento.., 2001, op.cit.; X. XXXXXXXXXX Peculiarità genetiche.., 2001, op.cit.; X. XXXXXXX L’attuazione.., 2002, op.cit.; M. ROCCELLA Prime osservazioni..., 2001, op.cit.; X. XXXXXXX’ Riforma del contratto a termine e obblighi comunitari: come si attua una direttiva travisandola, in Dir. merc. lav., 2001, n. 3, p. 633;
Costituzionale con l’unica eccezione del Tribunale di Xxxxxxx Xxxxxxx che ha rinviato alla Corte la questione di costituzionalità degli artt. 10 (commi 9 e 10) e 11 (commi 1 e 2) del d.lgs. 368/2001 per violazione dell’art. 76 Cost. ( eccesso di delega ), nella parte in cui non riconoscono più un diritto di precedenza ex lege nelle riassunzioni ai lavoratori stagionali ed a quelli assunti per c.d. “punte stagionali” di attività, come era previsto, invece, dalla “vecchia” norma dell’art. 23, comma 2°, L. 56/1987 ( modificato dall’art. 9 bis, comma 1°, del D. L. n. 148/1993 converito nella L. n. 236/1993 )147. La nuova disciplina del diritto di precedenza, subordinandone il riconoscimento a due condizioni prima inesistenti ( la previsione da parte di un CCNL, nella specie mancante, e il mancato decorso di un anno dalla cessazione del rapporto), è indubbiamente peggiorativa rispetto alla precedente e ciò ha fatto sorgere il dubbio che il legislatore delegato, violando la clausola di non regresso, non avesse rispettato i principi e i criteri direttivi posti dal legislatore delegante. La Corte Costituzionale, anziché affrontare la delicata questione relativa alle implicazioni della clausola di non regresso rapportate al d.lgs. 368/2001, con ordinanza 252/06 ha restituito gli atti al Tribunale di Rossano per
<<consentirgli la soluzione del problema interpretativo alla luce della sopravvenuta sentenza della Xxxxx xx Xxxxxxxxx 00 novembre 2005, causa C-144/04 ( Xxxxxxx ). Ma la sentenza Xxxxxxx000 afferma che <<una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a tempo determinato, non è, in quanto tale, vietata dall’accordo-quadro quando non è in alcun modo collegata con l’applicazione di questo>> (punto 52) e ciò non può dirsi del d.lgs. 368, adottato esclusivamente in xxx xx xxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx 0000/00/XX. Né può ritenersi determinante in senso contrario la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo in cui si afferma che <<il presente provvedimento…non rappresenta semplicemente un atto formale connesso all’adempimento di obblighi drivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Accolta integralmente la filosofia che permea la direttiva, con il presente provvedimento il Governo intende avviare un disegno riformatore nella prospettiva della modernizzazione della organizzazione del lavoro contribuendo, nel contempo, a
recentemente, X. XXXXXXXXXX, La riforma del lavoro a termine: una prima analisi giurisprudenziale, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, p. 330.
147 X. Xxxxxxxxx xx Xxxxxxx 00 maggio 2004, ord., in Lav. Giur., 2005, n. 5, pp. 472 ss., con nota di X. XXXXXX Diritto di precedenza e costituzionalità della nuova normativa sul termine.
148 Cfr. retro, §2.3.
incrementare le opportunità di occupazione regolare e di buona qualità >>; un tale disegno riformatore non rientrava, infatti, nell’oggetto della delega149.
In attesa del riesame della questione da parte del Tribunale di Rossano150, da cui potrebbero scaturire conseguenze importanti per la corretta applicazione della normativa comunitaria nell’ordinamento italiano, sembra opportuno prospettare un’interpretazione adeguatrice del D. lgs. 368 che, tra i diversi significati possibili delle medesime disposizioni, prediliga quelli che risultino conformi sia al contenuto della direttiva sia al livello di tutela previsto dalla normativa previgente, interpretazione, peraltro, accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti.
149 X. XXXXXX Corte di Giustizia Europea, “clausole di non regresso” e normativa italiana sul termine , 2006, op.cit., n. 5, p. 469. Cfr. anche XXXXXXX O., Le clausole di non regresso…, 2006, op.cit.
150 A. ALLAMPRESE, X. XXXXXXXX, X. XXXXXX Contratti a termine. Sentenza Corte di Giustizia 4 luglio 2006 e Ordinanza Core Costituzionale 252/06, in xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx, prospettano due alternative:
- interpretare il d.lgs. 368/2001 alla luce della sentenza Xxxxxxx e, come tale, considerarlo in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, rinviandolo alla Corte Costituzionale per far dichiarare l’illegittimità delle norme impugnate per violazione dell’art. 76 Cost. ( eccesso di delega in relazione al mancato rispetto della clausola di non regresso)
- formulare una domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia per far dichiarare la non conformità delle norme del d.lgs. 368, con specifico riguardo al diritto di riassunzione, rispetto alla direttiva 1999/70/CE.
X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro…, 2006, op.cit., pp. 727-728, nell’ipotesi di rinvio alla Corte di Giustizia, suggerisce , per evitare che la modifica del diritto di precedenza possa essere considerata marginale nel quadro del <<livello generale di tutela>>, di evidenziare che in Italia il numero dei lavoratori stagionali è molto ampio e che il lavoro stagionale è di grande rilievo dal punto di vista economico e sociale, per cui il problema della precedenza rappresenta una questione di carattere generale all’interno della disciplina del lavoro a tempo determinato. In più, come sottolineato da X. XXXXXXXX, La nuova disciplina sul lavoro a tempo determinato davanti alla Corte Costituzionale (a proposito della clausola di non regresso), in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx, <<il lavoro a termine stagionale reiterabile, in quanto assistito dal diritto di riassunzione, è il modo socialmente tipico in Italia per realizzare nel settore forme di utilizzo perpetuo del lavoratore, secondo quanto generalmente ipotizzato dalla direttiva comunitaria>>: in un ampio settore del lavoro italiano, in altre parole, è il diritto di precedenza ad attenuare i caratteri di precarietà del lavoro a termine.
CAPITOLO III
IL CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO: DALLE PRIME FORME ALLA NUOVA DISCIPLINA
§1- La disciplina anteriore alla legge n. 230/1962.
Nel contratto di lavoro a tempo determinato l’esigenza dell’utilizzazione flessibile del lavoro viene soddisfatta mediante l’apposizione, contestualmente alla costituzione del rapporto, di un termine finale alla durata del contratto: tale durata è prefissata nel tempo dalla volontà comune dei contraenti ed il rapporto cessa alla scadenza del termine senza necessità di alcuna dichiarazione di recesso unilaterale.
Il Codice Civile del 1865 all’art. 1628 disponeva che <<nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa>>. Lo scopo di questa norma era di evitare rapporti a vita pericolosamente simili al lavoro servile di cui l’Italia, specie nel Sud, non si era ancora del tutto liberata; tuttavia era diffusa la prassi del lavoro a tempo indeterminato, che veniva legittimata anche dalla giurisprudenza probivirale in virtù della facoltà di disdetta riconosciuta alle parti, e in particolar modo al lavoratore, idonea ad escludere un vincolo perpetuo.
Consolidatasi questa regola di recedibilità nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed attenuatosi nell’evoluzione sociale il timore di rapporti servili, l’ordinamento capovolgeva la precedente impostazione. Si passava, così, ad un aperto sfavore per il lavoro a termine, visto come negozio potenzialmente fraudolento e, quindi, socialmente pericoloso, in quanto ostacolava l’interesse alla continuità dell’occupazione e privava il dipendente delle tutele riservate al rapporto a tempo indeterminato.
Già con il R.D.L. n. 1825 del 1924, convertito in L. n. 562/1926 (Legge sull’impiego privato), seppure limitatamente alla categoria degli impiegati, fu stabilito che il contratto poteva essere fatto <<con prefissione di un termine>> ma che sarebbero
state comunque applicabili le norme sul contratto di lavoro a tempo indeterminato
<<quando l’aggiunzione del termine non (fosse risultata) giustificata dalla specialità del rapporto e (fosse apparsa) invece fatta per eludere le disposizioni del decreto>> (art.1).
Il Codice civile del 1942 segnò un allentamento della normativa, in quanto l’art. 2097, pur generalizzandone l’applicazione per tutte le categorie di lavoratori, introdusse un duplice alternativo titolo di legittimità, sostanziale (derivante dal fatto che il termine risultasse “dalla specialità del rapporto”) o meramente formale (derivante dal fatto che il termine risultasse “da atto scritto”), in mancanza dei quali il rapporto si considerava a tempo indeterminato, secondo un principio di tutela poi confermato in tutta la legislazione successiva.
Veniva comunque sancita espressamente l’inefficacia del termine risultante da atto scritto se concordato al fine di eludere le disposizioni relative al contratto a tempo indeterminato (art. 2097, comma 2°, Cod. Civ.), con onere della prova a carico del lavoratore151 secondo la regola del contratto in frode alla legge (art. 1344 Cod. Civ.). Ovviamente la difficoltà di prova rendeva questa tutela assai meno efficace di quella che impone al datore di lavoro di comprovare la situazione giustificante il termine, poi introdotta con la l. n. 230 del 1962.
La prosecuzione del lavoro dopo la scadenza del termine faceva sì che il contratto fosse considerato a tempo indeterminato, salvo contraria volontà delle parti (art. 2097, comma 3° Cod. Civ.). Ma proprio questa derogabilità indeboliva un principio di tutela che in seguito sarebbe stato definitivamente fissato come inderogabile152.
Dalla norma codicistica il lavoratore riceveva indubbiamente una tutela più formale che sostanziale dato che, una volta rispettato il requisito della forma scritta, nessun altro limite era stabilito per l’apposizione del termine; e anche la disciplina imperativa dettata dall’art. 2097, comma 2°, raramente poteva trovare applicazione, data l’evidente difficoltà per il lavoratore di dimostrare l’intenzione fraudolenta del datore di lavoro.
I blandi limiti imposti dalla disposizione codicistica permisero, dunque, un massiccio abuso del contratto a termine, che consentiva ai datori di lavoro non solo di non pagare l'indennità di anzianità (non prevista per i lavoratori a termine prima del
151 Cass. 12 giugno 1981 n. 3836, FI, 1981, I, 2666.
152 A. VALLEBONA – X. XXXXXX, Il nuovo lavoro a termine, 2001, op.cit., pp. 2 ss.
1962)153, ma soprattutto di non dover sottostare ai vincoli introdotti dagli accordi interconfederali in tema di licenziamento ed alla normativa in tema di sospensione del rapporto di lavoro in caso di malattia, infortunio e gravidanza con diritto alla conservazione del posto. Con il contratto a termine il datore di lavoro aveva la possibilità di testare più a lungo le capacità dei dipendenti ed ottenere una maggiore disciplina e un più alto rendimento, trovandosi i lavoratori a termine in una situazione di soggezione154 che li rendeva interessati più al rinnovo del contratto che non ad un miglioramento delle loro condizioni professionali: essi difficilmente familiarizzavano con i colleghi a tempo indeterminato, non partecipavano ad alcuna iniziativa sindacale, consapevoli del fatto che tale comportamento li avrebbe esposti al rischio di non vedersi rinnovato il contratto di lavoro.
L'abuso del contratto a tempo determinato va anche collegato al “boom economico” degli inizi degli anni '60: il forte aumento della richiesta di manodopera determinò l'uso di qualsiasi tipo di contratto lavorativo, in particolare del contratto a termine, che per la sua scarna legislazione si adattava perfettamente ad un utilizzo improprio e fraudolento.
E proprio alla luce di questi fatti il legislatore è intervenuto con una normativa inderogabile ed analitica di repressione dei comportamenti illeciti dei datori di lavoro, regolata nella l. n. 230/1962.
§2- L’introduzione del principio di eccezionalità: la legge n. 230 del 1962.
Con la legge 18 aprile 1962, n. 230, che abrogava e sostituiva l’art. 2097 c.c.155 e che ha costituito la base legislativa per l'applicazione del contratto a termine per quasi quarant'anni, lo sfavore del legislatore nei confronti dell’istituto in questione ha trovato la sua massima espressione156.
L’art. 1, comma 1°, infatti, dopo aver riaffermato il principio, già contenuto nella norma codicistica, che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”, configurava i casi di apposizione del termine come eccezioni a tale regola, ammesse soltanto nelle
153 Così XXXX, 0000, op.cit., p. 305.
154 Su cui si veda, più approfonditamente, MENGHINI Il lavoro a termine, Milano, 1980, pp. 40 ss.
155 Art. 9 l. 230 del 1962.
156 Cfr. X. XXXXXXXXXXXX, L’evoluzione della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in X. XXXXXX (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel D. lgs. 368/2001, 2002, op.cit.
ipotesi tassativamente elencate nel comma 2°, inderogabili anche dall’autonomia collettiva157 e legate a situazioni occasionali e straordinarie dell’attività delle imprese.
Ribadendo la necessità della forma scritta ad substantiam, la legge del 1962 richiedeva, per la legittima apposizione del termine, la sussistenza contemporanea, e non più alternativa, di condizioni sia formali che sostanziali; e non riferiva più le condizioni sostanziali di legittimità ad una clausola generale (come faceva l’art. 2097 c.c. richiamando la “specialità del rapporto”), ma le determinava attraverso la riconducibilità delle fattispecie concrete alle ipotesi specificatamente indicate nelle lettere dalla a) alla e) dell’art. 1, comma 2°.
La prima ipotesi (lett. a) ammetteva l’apposizione del termine in relazione alla
<<speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima>>. Tali attività stagionali erano state individuate, come previsto dalla stessa legge, in un apposito elenco approvato con D.P.R. n. 1525/1963. Rispetto al sistema delineato dall’art. 2097 c.c., il giudice non doveva più accertare caso per caso la stagionalità dell’attività, ma operare semplicemente un raffronto tra la singola fattispecie concreta e l’elencazione contenuta nel D.P.R. n. 1525/1963. Problemi interpretativi si erano posti relativamente ai corsi di insegnamento di breve durata di cui al n. 51 del D.P.R. 1525158, ricompresi nelle attività stagionali solo a determinate condizioni, all’attività teatrale (n. 50 del D.P.R.) con riferimento alle maschere, ritenute alla fine ricomprese nella nozione di attività stagionale159, e anche all’ipotesi di cui al n. 36 del D.P.R., relativo alla fabbricazione e al confezionamento di specialità dolciarie nei periodi precedenti il Natale e la Pasqua, riguardo al quale la giurisprudenza aveva escluso che vi rientrassero anche le punte di produzione di beni venduti tutto l’anno160.
La lett. b) dell’art. 1, comma 2°, della l. 230/1962 ammetteva l’assunzione a termine quando avesse <<luogo per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto …(fosse) indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione>>. Si trattava dei casi di assenza per malattia, infortunio, maternità, servizio militare (artt. 2110 e 2111 c.c.), mentre si
157 Cass. 22 febbraio 1983, n. 1321, in Giust. Civ., 1984, I, p. 268; Cass. 25 gennaio 1993, n. 824, in Dir.
Prat. Lav., 1993, p. 807.
158 Cass. S.U. 30 ottobre 1971, n. 3087; Cass. 8 agosto 1978, n. 3872, in Mass. Foro It., 1978; Cass. 17 marzo 1982, n. 1747, in Mass. Foro It., voce Lavoro (rapporto), n. 727; Cass. 17 novembre 1984, n. 5878, in Rep. Foro It., 1984; Cass. 6 dicembre 1995, n. 12546, in Mass. Giur. Lav., 1996, suppl., 14.
159 Cass. 20 ottobre 1983, n. 10401, in Giust. civ., 1984, I, p.981.
160 Cass. 28 maggio 1981, n. 3517, in Foro It.,1981, I, c. 2668; Cass. 5 marzo 1982, n. 1354, in Giust. civ.,
1982, I, p. 1176
escludeva che vi potesse rientrare la sostituzione del lavoratore in ferie, in quanto evento normale e non eccezionale, oltrechè periodico, e pertanto da valutare per la determinazione del normale organico effettuata dall’imprenditore161. La giurisprudenza consentiva anche la stipulazione di un termine certus an sed incertus quando, in quanto genericamente riferita al momento del rientro del lavoratore sostituito162, compreso il caso di successione di diverse cause di assenza con diritto alla conservazione del posto163. Era ammessa anche la sostituzione con scorrimento nelle mansioni, con adibizione del lavoratore assunto a termine alle mansioni fino ad allora svolte da altro dipendente già in servizio, chiamato a sua volta a svolgere le mansioni dell’assente164.
La lett. c) dell’art. 2, comma 2°, L. 230/1962 che consentiva l’assunzione a termine per l’esecuzione di un’opera o di un servizio, definiti e prederminati nel tempo, aventi carattere straordinario od occasionale, era stata oggetto di un vivacissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale con riguardo alle c.d. punte stagionali. Se, da un lato, si era giunti a riconoscere i caratteri della straordinarietà e dell’occasionalità non solo nei casi di attività qualitativamente diversa da quella normalmente svolta dall’impresa, ma anche nei casi di incremento solo quantitativo dell’attività imprenditoriale165, dall’altro la giurisprudenza dava spesso di tale ipotesi un’interpretazione molto restrittiva che richiedeva l’imprevedibilità dell’aumento della domanda, con conseguente esclusione dell’assunzione a termine ai sensi della lett. c) in caso di fluttuazioni ricorrenti e prevedibili166.
161 Cass. 3 giugno 1976, n. 2010, in Mass. giur. lav., 1976, p. 362; Cass. 25 luglio 1978, n. 3735, in Arch.
civ., 1978, p. 1099; Cass. 22 febbraio 1979, n. 1167, in Mass, giur. lav., 1979, p. 301; Cass. 13 maggio
1983, n. 3293, in Rep. Foro it., 1983.
162 Cass. 26 maggio 1983, n. 3653, in Giust. civ., 1983, I, p. 2633; Cass. 15 luglio 1987, n. 6199, in Giust.
civ., 1988, I, p. 152; Cass. 10 giugno 1992, n. 7102, in Giust. civ.,1992, II, p. 3023; Cass. 23 gennaio
1998, n. 625, in Mass giur. lav., 1998, suppl., 30.
163 Cass. 19 maggio 1984, n. 3087, in Giust. civ., 1984, I, p. 3048; Cass. 23 gennaio 1998, n. 625, in Mass. Giur. lav.,1998, suppl., 30.
164 Cass. 16 aprile 1976, n. 1365; Cass. 26 maggio 1983, n. 3653, in Giust. civ., 1983, I, p. 2633; Cass. 23
febbraio 1987, n. 1919, in Orient. giur. lav., 1987, p. 393; Cass. 10 aprile 1990, n. 3033, in Mass. giur.
lav., 1990, suppl., 80; Cass. 10 giugno 1992, n. 7102, in Giust. civ., 1992, II, p. 3023; Cass. 20 febbraio
1995, n. 1827, in Foro it., 1995, I, c. 1152.
165 Cass. 26 marzo 1980, n. 2022, in Foro it., 1980, I, c. 1924; Cass. 4 settembre 1980, n. 5098, in Mass.
giur. lav., 1980, p. 736; Cass. 10 marzo 1982, nn. 1556 e 1564, in Orient. giur. lav., 1982, p.1137; contra
Cass. 18 agosto 1978, n. 3898, in Mass.Foro it., 1978; Cass. 21 giugno 1980, n. 3916, in Foro it., 1980, I,
c. 1842; Cass. 2 luglio 1981, n. 4319, in Foro it., 1981, I, 2665.
166 Cass. S.U., 29 settembre 1983, nn. 5739-5741, in Mass. giur. lav., 1983, p. 221; Cass. 26 marzo 1980,
n. 2022, in Foro it., 1980, I, c. 1924; Cass. 2 luglio 1981, n. 4319; Cass. 24 gennaio 1985, n. 336, in
Giust. civ., 1985, I, p.986; Cass. 19 aprile 1990, n. 3214, in Giust. civ., 1990, I, p. 2585. Contra Cass. 4
settembre 1980, n. 5098, in Mass. giur. lav., 1980, p. 736; Cass. 10 marzo 1982, n. 1564, in Mass. giur.
lav., 1982, p. 187.
La lett. d) ammetteva l’apposizione del termine <<per le lavorazioni a fasi successive che richiedono maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari ed integrative per le quali non vi sia continuità d’impiego nell’ambito dell’azienda>>.
Infine, la lett. e) nell’originario impianto della legge n. 230/1962 consentiva l’assunzione a termine del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli, con la conseguente esclusione del personale amministrativo e della manodopera generica.
La legge del 1962 si era, inoltre, preoccupata, all’art. 2, di restringere al massimo la possibilità di prorogare il contratto a tempo determinato e di mettere un drastico freno alla frequente prassi di utilizzare lo stesso lavoratore con una serie ripetuta di contratti a termine. La proroga era ammessa in via eccezionale una sola volta, per esigenze contingenti e imprevedibili, con il consenso del lavoratore, che poteva anche essere desunto dalla prosecuzione di fatto dell’attività167; doveva avere una durata non superiore a quella del contratto iniziale e riferirsi alla stessa attività lavorativa che aveva motivato l’assunzione a tempo determinato. L’onere della prova della sussistenza di tali condizioni, come di quelle legittimanti l’apposizione del termine, gravava sul datore di lavoro (art. 3).
La prosecuzione di fatto dell’attività lavorativa dopo la scadenza del termine originariamente fissato o successivamente prorogato, determinava l’automatica conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, fin dalla data di assunzione del lavoratore (art. 2, comma 2°). Allo stesso modo, il contratto veniva considerato a tempo indeterminato fin dall’origine, in forza di una presunzione assoluta di frode alla legge, nel caso di riassunzione a termine entro 15 ovvero 30 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi. L’art 2, comma 2°, prevedeva, infine, la sanzione della conversione in contratto a tempo indeterminato nell’ipotesi di “assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della presente legge”, con onere probatorio, in questo caso, a carico del lavoratore.
L’art. 5 aveva introdotto, poi, il principio della parità di trattamento tra i lavoratori in pianta stabile e i lavoratori a termine, sancendo il diritto di questi ultimi a
167 Cass. 28 maggio 1990, n. 4939, in Mass. giur. lav., 1990, suppl., 91.
percepire, oltre all’indennità di anzianità, ogni trattamento in atto nell’impresa a favore dei dipendenti stabili, in proporzione, naturalmente, al periodo da loro lavorato.
In verità l'impatto della nuova legge fu modesto, data la scarsa disponibilità dei lavoratori ad instaurare controversie per far accertare eventuali illegittime apposizioni del termine quando poi il datore di lavoro poteva licenziare ad nutum o con le sopportabili conseguenze economiche previste dagli accordi interconfederali o dalla l. n. 604/66.
Le cose cambiarono radicalmente invece nel xxxxx xxxxx xxxx '00, xx seguito all'introduzione dello Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) e all'affermarsi del nuovo processo del lavoro: da un lato i datori di lavoro avevano interesse ad assumere lavoratori a termine, anche a costo di forzare le condizioni di legge pur di non sottostare ai nuovi limiti fissati per il licenziamento, dall'altro i lavoratori avevano un nuovo e consistente interesse nel far valere un'eventuale illegittima apposizione del termine, vista la più intensa tutela contro i licenziamenti illegittimi (c.d. stabilità reale ex art. 18 Stat. Lav.).
Questi due elementi hanno dato vita ad un gigantesco contenzioso, a volte risolto dalla giurisprudenza a favore dei datori di lavoro, ricavandosi dalla legge il principio generale per il quale il termine è ammesso in presenza di occasioni solo precarie e non stabili di lavoro, con conseguente legittimazione del ricorso al lavoro a tempo determinato in presenza di un’occasione non stabile di lavoro, anche se l’ipotesi fattuale rientrava a fatica in quelle legalmente prefissate, ma più spesso risolto a favore dei lavoratori sulla scorta del carattere di eccezionalità del lavoro a termine e della conseguente interpretazione restrittiva delle ipotesi consentite168.
In questo contesto, nella seconda metà degli anni ’70, la crisi economica ed occupazionale, insieme alle esigenze di una maggiore flessibilità dell’organizzazione aziendale, indussero a ritenere eccessivamente rigida la disciplina del contratto a termine.
Il sistema di tassatività delle ipotesi ammesse, invero, cristallizzava nel tempo la possibilità di lavoro a termine senza tener conto delle nuove realtà ed esigenze. Succedeva così che di fronte ad occasioni di lavoro solo temporanee, ma non ricomprese nell’elenco di cui alla legge del 1962, gli imprenditori si trovavano nell’imbarazzo di dover scegliere tra il rischio di assunzione a tempo determinato (col
168 X. XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, 2002, op.cit., pag. 6.
pericolo di subire una stabilizzazione del rapporto difficilmente superabile con il licenziamento) o di una assunzione direttamente a tempo indeterminato, a cui era problematicamente possibile mettere fine col licenziamento una volta terminata l’occasione temporanea di lavoro, ed il rischio di perdere quote di mercato in conseguenza della mancata risposta positiva alla possibilità di un incremento dell’attività produttiva, rischio che si accompagnava alla mancata attuazione dell’obiettivo sociale della crescita dell’occupazione.
§3- L'attenuazione della rigidità del sistema: ulteriori ipotesi di lavoro a termine introdotte dalla legge.
Verso la fine degli anni '70, a fronte della crisi economica che aveva colpito l’Italia ed acuito le esigenze di una maggiore flessibilità dell’organizzazione aziendale e di lotta alla disoccupazione, il legislatore intervenne, in un primo tempo, con strumenti congiunturali, e perciò circoscritti, diretti ad attenuare i vincoli della normativa sul contratto a tempo determinato.
Con la legge 23 maggio 1977, n. 266, innanzitutto, fu modificata la lett. e) dell’art. 1, comma 2°, l. n. 230/1962, che limitava le assunzioni a termine nello spettacolo al solo personale artistico e tecnico, estendendone la portata a tutto il personale necessario per specifici spettacoli o per specifici programmi radiofonici o televisivi169.
Il d.l. 6 luglio 1978, n. 351, convertito con modifiche nella legge 4 agosto 1978, n. 479 (art. 24, comma 1°), integrando e sostituendo alcune norme della l. 285/1977 che conteneva provvedimenti per l’occupazione giovanile e introduceva il contratto di formazione, poi, introdusse per la prima volta la figura del contratto a termine soggettivamente giustificato. Tale ipotesi riguardava le assunzioni di durata non superiore ai sei mesi, rinnovabili una sola volta, per le quali era richiesta l’autorizzazione delle commissioni provinciali di collocamento, di giovani iscritti nelle liste speciali, impegnati in attività formative170.
169 Secondo la giurisprudenza la nozione di specificità del programma doveva essere interpretata non come straordinarietà od occasionalità, ma come individuabilità dello stesso come programma autonomo (Cass. 18 agosto 1983, n. 5386, in Foro it., 1985, I, c. 252), per tale intendendosi anche la puntata monografica all’interno di un più ampio programma contenitore (Xxxx. 20 febbraio 1995, n. 1827, in Foro it., 1995, I, c. 1152).
170 Sul punto si veda X. XXXXXXXXX, La riforma del contratto a termine (un caso di bricolage
normativo), in Arg. dir. lav., 1997, pp. 27 ss.
Ma fu soprattutto per risolvere la questione relativa alle punte stagionali che il legislatore intervenne a più riprese. Inizialmente, con il d.l. 3 dicembre 1977, n. 876, convertito nella legge 3 febbraio 1978, n. 18, fu consentita, per un solo anno e limitatamente ai settori del commercio e del turismo, l’assunzione a termine in occasione delle intensificazioni, in determinati e limitati periodi dell'anno, dell'attività lavorativa, cui non fosse possibile sopperire con il normale organico. Tale ipotesi aggiuntiva di ricorso al contratto a termine - che non fu inserita nell’elenco di cui all’art. 1, comma 2°, l. 230/1962 – era soggetta ad una disciplina parzialmente diversa da quella prevista dalla legge 230, dato che l’intensificazione dell’attività produttiva in certi periodi dell’anno doveva essere preventivamente accertata dall’allora Ispettorato del lavoro, sentiti i sindacati provinciali di categoria maggiormente rappresentativi. Il meccanismo della preventiva autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro permetteva di evitare le incertezze derivanti dal controllo ex post effettuato dal giudice sulla effettiva esistenza della punta stagionale171. Il successo di questa disciplina, che aveva notevolmente ridotto il contenzioso in materia, indusse il legislatore, dapprima, a prorogarla per due volte (LL. n. 737/1978 e n. 598/1979) e poi, vista l’interpretazione restrittiva che la giurisprudenza dava del concetto di settore commerciale e turistico e sulla scia delle indicazioni contenute nel protocollo d’intesa tra Governo e parti sociali del 22 gennaio 1983, ad estenderne la portata a tutti i settori economici (art. 8 bis, comma 2°, d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79), legittimando, così, in xxx xxxxxxxx xx xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxxx x xxxxxxx xx xxxxxxxx di punte ricorrenti o stagionali di attività. Ai lavoratori assunti a termine per tali esigenze e a quelli assunti ai sensi dell’art. 1, comma 2°, lett. a) della l. 230, venne riconosciuto un diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dallo stesso datore di lavoro in relazione alla medesima qualifica, a condizione che gli interessati manifestassero la loro volontà in tal senso entro tre mesi dalla cessazione del rapporto (art. 23, comma 2°, l. n. 56/1987, art. 9 bis, comma 1°, l. n. 236/1993).
171 La Suprema Corte riteneva, infatti, che il controllo del giudice ordinario dovesse limitarsi all’accertamento dei presupposti formali dell’atto amministrativo, quali la motivazione, la presenza del parere delle organizzazioni sindacali, l’effettuazione degli accertamenti richiesti, escludendo, al contrario, la possibilità di un riesame nel merito. Si veda Cass. 24 gennaio 1985, n. 336, in Giust. civ., 1985. I, p. 987; Cass. 23 febbraio 1989, n. 1010, in Riv. it. dir. lav.,1989, II, p. 845; RIGANÒ, La natura giuridica e gli effetti del provvedimento del capo dell'Isp. Provv. Lav. nell'autorizzazione del contratto di lavoro a termine ex L. n. 18/78, nota a Xxxx. Sez. Lav. n. 4294 del 1994 e Cass. S.U. n. 3354 del 1994, in Giur. it., 1995, I, 1, pag. 1073; Cass. 23 aprile 1999, n. 4065, in Riv. it. dir. lav.,2000, II, p. 120; Trib. Frosinone 5 luglio 2000, in Dir. Lav., 2001, II, p. 31.
Successivamente, a seguito di contrasti giudiziari sorti nell’applicazione della normativa sulle punte stagionali nel settore del trasporto aereo172 e in considerazione della variabilità dei flussi di traffico, la legge n. 84/1986 aggiunse all’elenco di cui all’art. 1, comma 2°, L. 230/1962, la lettera f) che consentiva alle aziende di trasporto aereo e alle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa comunicazione ai sindacati provinciali di categoria, l’assunzione di lavoratori a termine per lo svolgimento di servizi operativi di terra e di volo e di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Le assunzioni a termine potevano essere effettuate per un periodo complessivo massimo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, oppure di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti. La norma, a fronte di una presunzione di incremento dell’attività in certi periodi dell’anno, ammetteva assunzioni a termine solo nel limite massimo del 15% dell’organico aziendale, limite che in dottrina si riteneva idoneo a tutelare l’equilibrio esistente tra le esigenze di flessibilità dell’impresa e quelle di stabilità dei lavoratori173.
§3.1- Segue. Le ipotesi di lavoro a termine introdotte dalla contrattazione collettiva.
Con l’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 fu compiuta una svolta epocale nella disciplina dei contratti a tempo determinato, ammettendosi, per la prima volta dal 1962, il superamento del principio di tassatività delle ipotesi di legittima apposizione del termine174. Esso, infatti, consentiva l'apposizione del termine, oltre che nei casi già previsti dalla legislazione vigente, anche <<nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o xxxxxx000 aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale>>; tali contratti dovevano stabilire anche il numero percentuale dei lavoratori assumibili a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato.
172 Un pretore, dopo aver considerato sufficiente l’organico normale della società Aeroporti di Roma per affrontare anche le punte di attività, ritenne illegittime centinaia di assunzioni a termine autorizzate dall’Ispettorato del lavoro, con conseguente accollo alla società di numerosi rapporti a tempo indeterminato dallo stesso giudice ritenuti del tutto superflui (Pret. Roma 21 dicembre 1984, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, p. 128).
173 In questo senso X. XXXXXXXX, La nuova disciplina…,2002, op cit.
174 Cfr. X. XXXXXXX, La nuova disciplina sul lavoro a termine alla luce della normativa comunitaria, 2004, op.cit., p. 515.
175 In dottrina si è discusso sulla legittimazione delle rappresentanze sindacali aziendali a stipulare tali accordi. In senso negativo v. X. XXXXXXXX, Sperimentazione o svolta nella disciplina del lavoro a termine, in Riv. it. dir. lav., 1987, I, p. 581; in senso positivo v. X. XXXXX, I contratti a termine “autorizzati” dalla contrattazione collettiva, in Dir. lav., 1990, I, p. 64.
Con questa riforma si intendeva cambiare rotta rispetto al passato: di fronte all’emergere di situazioni ed esigenze nuove, invece che ricorrere a letture estensive della normativa legale vigente, sempre poco sicure, o a continui interventi del legislatore, sempre tardivi, sarebbero state le parti sociali a riconoscerle ai fini dell’ammissibilità di ulteriori ipotesi di lavoro a termine176; si realizzava, così, un sistema di “flessibilità negoziata”, in cui l’attenuazione della rigidità della disciplina protettivo-imperativa di legge era ottenuta attraverso un processo di “riregolazione riflessiva”177, nel quale veniva pienamente riconosciuta e salvaguardata la funzione determinante dei soggetti sindacali maggiormente rappresentativi178.
Due diversi orientamenti si sono contrapposti sia in dottrina sia in giurisprudenza in relazione ai limiti posti all’autonomia collettiva nell’individuazione di ulteriori causali di legittima apposizione del termine. Secondo un indirizzo minoritario179, costituendo il contratto a termine un’eccezione rispetto alla regola del contratto a tempo indeterminato, la contrattazione collettiva avrebbe dovuto porsi in una linea di continuità con la normativa “quadro” di cui alla legge n. 230/1962 e, quindi, indicare le nuove fattispecie di lecita apposizione del termine in modo compiuto ed esatto, dovendo esse risultare delineate e con un contenuto predeterminato ed obiettivo180. Invece, secondo l’orientamento prevalente181, accolto anche dalle Sezioni
176 Cfr. X. XXXXXXXX, La nuova disciplina…, 2002, op. cit.
177 M. D’ANTONA, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in Dir. lav. rel ind., 1991, pp. 455 ss.
178 Per le problematiche riguardanti la rappresentatività dei soggetti legittimati alla stipulazione e quelle relative all’efficacia soggettiva dei contratti stipulati ai sensi dell’art. 23, L, 56/1987, v. X. XXXXXXXX, Il contratto di lavoro a termine: dalla legge alla contrattazione collettiva, in Lav. dir., 1997, n. 1, pp. 105 ss.
179 Sostenuto da X. XXXXXXXXXX, Xxxx e ombre sui contratti di formazione e lavoro, in L80, 1989, pp. 613 xx. x xx X. XXXX, Xxxxxxx xxx xxxxxx, Xxxxx, Xxxxxx, 0000.
180 Cass. 1 dicembre 2003, n. 18354, in Riv. crit. dir. lav., 2004, p. 67: <<L’art. 23 della legge n. 56/1987 ha attribuito alla contrattazione collettiva l’identificazione delle ipotesi nelle quali è ammissibile l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, inserendosi tuttavia nel sistema delineato dalla legge n. 230/1962. Tale principio comporta non solo la piena applicabilità delle disposizioni dettate dall’art. 2 della legge del 1962 ai contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987, ma ancor prima di quelle stabilite dall’art. 1…>>; Cass. 7 agosto 2004, n. 15331, in Mass. giur. it., 2004: << L’art. 23 della legge del 1987 ha indubbiamente attribuito all’autonomia collettiva la facoltà di individuare nuove e diverse situazioni, ma solo alla condizione che tali fattispecie siano esattamente e chiaramente determinate, risolvendosi altrimenti la norma in una inammissibile delega alla creazione di un nuovo tipo contrattuale. In questo senso depone lo stesso chiaro tenore letterale della norma, che trova ulteriore conferma nello spirito della stessa>>.
181 Cfr., ex multis, X. XXXXX, I contratti a termine “autorizzati” dalla contrattazione collettiva, 1989, op.cit., pp. 63 ss.; X. XXXXXXXX, Dagli ultimi accordi collettivi novità per il lavoro a termine, in Dir. prat. lav., 1990, I, pp. 73 ss.
Unite della Corte di Cassazione che con la recente sentenza n. 4588 del 2 marzo 2006182 hanno composto un contrasto di giurisprudenza presente ormai da anni all’interno della Sezione lavoro, l’art. 23 della legge n. 56/1987 avrebbe conferito alla contrattazione collettiva una vera e propria “delega in bianco” avente ad oggetto, appunto, l’individuazione di nuove ipotesi di contratto a termine non omogenee rispetto a quelle legali. In numerose pronunce la Cassazione ha sottolineato il carattere innovativo di tale norma, costituito dal fatto che, pur operando sullo stesso piano della disciplina generale della materia e inserendosi nel sistema da questa delineato, tanto che le ipotesi di lavoro a termine da esso previste non si sottraevano ai principi della conversione del contratto in caso di illegittimità del termine o di uso fraudolento dell’istituto e dell’onere della prova a carico del datore di xxxxxx000, non poneva alcun limite alla contrattazione collettiva, se non quello di fissare i limiti percentuali; essa, pertanto, poteva liberamente introdurre nuove causali senza la necessità di individuare in modo preciso e specifico le fattispecie né di fare riferimento ad esigenze oggettive o soggettive di lavoro184 . Secondo la Suprema Corte, nel modello normativo configurato dall’art. 23, l.
n. 56/1987, l’esame congiunto delle parti sociali sulle esigenze del mercato del lavoro e l’individuazione contrattuale dei limiti percentuali costituivano una idonea garanzia per i lavoratori precari ed una efficace salvaguardia per i loro diritti185; in altre parole, alle
182 Cass. S.U. 2 marzo 2006, n. 4588, con commento di X. XXXXXX, Fonte collettiva dei contratti a termine e causali soggettive, in Lav. giur., 2006, n. 8, pp.781 ss.
183 Cfr. Cass. S.U. 19 ottobre 1993, n. 10343, in Mass. giur. lav., suppl., 74; Cass. 1 dicembre 2003, n. 18354, cit.( v. nota 149); Xxxx. 3 maggio 2005, n. 9118, in Lav. giur., 2006, n. 2, pp. 152 ss.
184 Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674, in Mass. giur. lav., 2003, p. 139, con nota di C. Timellini), per cui
<< l’art. 23 della legge 28 febbraio 1987 n. 56 consente che vengano individuate…nei contratti collettivi di lavoro specifiche fattispecie in relazione alle quali sia consentita l’apposizione al contratto di lavoro di un termine. Xxxxxx, la lettera della norma, che non contiene alcun riferimento a particolari esigenze o condizioni oggettive di lavoro o soggettive di lavoratori, e la espressa previsione che la contrattazione collettiva debba solo indicare la percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, inducono a ritenere che il legislatore abbia voluto consentire alla suddetta contrattazione anche di determinare… speciali categorie di lavoratori in relazione ai quali legittimare l’uso del contratto a termine>>; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2866, in Arch. civ., 2004, p. 1467, dove si legge: <<L’autonomia sindacale è del tutto svincolata dalle ipotesi già configurate dalla legge, e può introdurne altre completamente diverse, senza essere astretta a quel limite temporale…che non trova alcun riferimento né testuale né di ratio nella disposizione normativa. Si tratta quindi di una delega in bianco per quanto riguarda la individuazione di nuove ipotesi di contratto a termine rispetto a quelle legali>>; Cass. 26 luglio 2004, n.14011, in Mass. giust. civ., 2004, fasc. 7-8, secondo la quale <<la norma di rinvio alla contrattazione collettiva non prevede espressamente, né consente, comunque, di ricavare che le ipotesi da individuare – nelle quali è consentita, appunto, l’apposizione di un termine alla durata del contratto individuale di lavoro – debbano essere ipotesi oggettive, al pari di quelle affatto diverse allora prevista dalla legge, e non possano, quindi, risolversi in requisiti o connotati meramente soggettivi dei lavoratori assunti a termine>>; Cass. 7 marzo 2005, n.4862, in Mass. giur. it. , 2005.
185 Cfr. Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674, cit. ; Cass. 7 marzo 2005, n. 4862 ; Cass. 6 dicembre 2005, n.
26679 ; Cass. 7 dicembre 0000, x. 00000.
parti sociali era stata assegnata la delicata funzione di determinare i livelli qualitativi e quantitativi del lavoro precario socialmente tollerabile, con un potere penetrante ed incisivo in materia di flessibilità di rapporti lavorativi, finalizzato ad assicurare un reticolato di garanzie a tutela dei lavoratori nella gestione dei loro rapporti. Tale conclusione risulta con particolare evidenza dal raffronto con la vigente normativa sul contratto a termine di cui al d.lgs. 368/2001, che, nell’intento di innovare la materia superando le forme di assunzioni a termine contrattualizzate186, <<ha ritenuto di dover ammortizzare il ridimensionamento delle tutele con il richiedere la specificazione in forma scritta delle ragioni giustificatrici del contratto a termine (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), al chiaro fine di agevolare il controllo giudiziario (chiamato a sostituire quello sindacale che si concretizzava nella tipicizzazione delle diverse forme di assunzione al lavoro) sull’operato del datore di lavoro>>187. Le tutele garantite un tempo ai lavoratori dal dialogo sociale sono sostituite oggi, in un sistema che vede fortemente ridimensionato il potere sindacale di gestione del livello di flessibilità nelle aziende, dalla richiesta di specificare per iscritto le ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine188, ragioni che, almeno secondo quanto affermato dalla Cassazione nella citata sentenza n. 4588 (punto 4)189, possono avere soltanto carattere oggettivo e non anche soggettivo, come era invece ammesso in vigenza della legge 56/1987190.
186 L’art. 11, comma 1°, del d.lgs. 368/2001 ha espressamente abrogato l’art. 23 della legge 56/1987 mentre il successivo comma 2° stabilisce che <<le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate ai sensi dell’art. 23 della citata legge n. 56 del 1987 e vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, manterranno in via transitoria e salvo diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro>>.
187 Cass. S.U. 2 marzo 2006, n. 4588, cit., (punto 6.3).
188 <<L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1>>, art. 1, comma 2°, d.lgs. 368/2001. X. xxxxx, Xxx. XX, § 0 e 2.1.
189 Cfr. anche Cass. 6 settembre 2003, n. 13044, in XX, 0000, n. 44, p.64.
190 Rimandando al Cap. IV §1.2, 2 e 2.1 l’analisi più dettagliata dell’interpretazione dell’art. 1 del D. lgs. 368/2001, sembra opportuno sottolineare qui come, paradossalmente, la disciplina vigente in materia di contratti a termine, al vaglio della giurisprudenza, sia risultata, per certi aspetti, più restrittiva rispetto alla disciplina abrogata. Ciò risulta con particolare evidenza dal vasto contenzioso che ha visto come resistente le Poste Italiane s.p.a.: mentre sotto la vigenza della legge n. 230 del 1962 i contratti stipulati in relazione all’ipotesi individuata in termini generali e ampi dall’Accordo sindacale 25 settembre 1997, a integrazione dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 (concernente <<esigenze eccezionali, conseguenti alle fasi di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo completo equilibrio sul territorio delle risorse umane>>) sono stati ritenuti perfettamente legittimi dalla giurisprudenza della Cassazione, i contratti individuali conclusi ai sensi del d.lgs. 368/2001 per analoghe generiche causali sono stati considerati illegittimi dalla maggioranza dei giudici di merito, perché contrari alla disposizione che esige che nel contratto sia specificata per iscritto la ragione per cui si assume a
Dell’ampia delega conferitale la contrattazione collettiva ha fatto un uso massiccio, rendendo il contratto a termine uno strumento duttile e adeguato alla domanda di flessibilità del mercato del xxxxxx000 ma suscitando a volte perplessità sotto il profilo della reale tutela dalla precarizzazione del lavoro. Molto discussi, infatti, sono stati l’Accordo interconfederale del 18 dicembre 1988 e il “Patto di Milano” del 2 febbraio 2000. Il primo, concluso tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL, e ripetuto per l’Intersind nel 1990, autorizzava la stipula di contratti a termine, di durata non inferiore ai 4 mesi e non superiore ai 12, con lavoratori di età superiore a 29 anni iscritti nelle liste di collocamento o con lavoratori di età inferiore ai 29 anni e da assumersi per mansioni per le quali l’accordo stesso escludeva il contratto di formazione e lavoro ovvero con tutti i lavoratori iscritti nelle liste del Mezzogiorno o in circoscrizioni in cui esisteva una particolare disoccupazione. Tale Accordo, ritenuto pienamente legittimo dalla maggioranza della dottrina192, ma criticato da alcuni193 per l’assenza di una occasione di lavoro provvisoria che potesse giustificare la perdita dei beni costituzionali collegati alla stabilità, è sempre stato considerato legittimo dalla giurisprudenza194, anche perché prevedeva un limite percentuale di assunzioni a termine piuttosto basso, pari al 10%, idoneo a impedire abusi a danno dei lavoratori195.
Il “Patto di Milano”, concluso dal Comune di Milano, l’Assolombarda, CISL e Uil (non sottoscritto dalla CGIL), quale strumento di promozione dell’occupazione a favore delle categorie “svantaggiate” e a rischio di esclusione sociale, prevedeva una deroga alla normativa allora vigente ancora più ampia rispetto all’Accordo interconfederale del 18
termine. Sul c.d. “caso Poste” si veda X. XXXXXXXX, Contratto a termine e Poste Italiane tra vecchia e nuova disciplina, in Riv. giur. lav., 2006, III, pp. 509 ss; XXXXXXX X., Il <<caso Poste>> e le conseguenze della nullità del termine, in Riv. giur. lav., 2005, II, p. 714.
191 X. XXXXXXXXX, L’evoluzione del contratto a termine. Dalla subalternità all’alternatività: un modello per il lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 23, p. 10.
192 M. D’XXXXXX, Il diritto del lavoro negli anni ’80, Napoli, Esi 1988; XXXXX R., La nuova disciplina del trasferimento d’impresa: l’ambito di applicazione, in For. It., 1989, pag. 509; CARINCI – DE XXXX XXXXXX – TOSI – TREU, Manuale di diritto del lavoro, vol. I, UTET, 1992, pag. 70.
193 X. XXXXXXXX, Gli orientamenti della giurisprudenza in materia di lavoro a termine, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, p.167; XXXXXXXXXX, Luci ed ombre dell'accordo sui contratti di formazione e lavoro, 1989, op.cit..
194 Ved. Trib. Milano 24 novembre 1994, in Dir. prat. Lav., 1996, pag. 905; Pret. Milano 12 febbraio 1997, in Mass. Giur. Lav., 1995, pag. 564; Pret. Lucca, sez. dist. Pietrasanta, 4 maggio 1995, in Or. Giur. Lav., 1995, pag. 620; Pret. Roma, 13 settembre 1996, Giur. Lav. Lazio, 1996, pag. 592.
195 La Pretura di Lucca, sez. dist. Xxxxxxxxxxx, 0000, cit. in nota precedente, nel dichiarare la conformità dell’Accordo alle previsioni dell’art. 23, L. 56/1987, proprio per l’esiguità del limite percentuale, aveva affermato che ove tale limite fosse stato così alto da far divenire il lavoro a termine la regola rispetto all’eccezione costituita dal lavoro a tempo indeterminato, la conseguente liberalizzazione selvaggia del potere di assumere a termine sarebbe divenuta illegittima.
dicembre 1988. L’art 8, comma 1°, infatti, ammetteva senza xxxxxx000 l’assunzione con contratto a tempo determinato di cittadini extracomunitari inoccupati o disoccupati, di persone in situazioni di disagio psicofisico o sociale, di lavoratrici e lavoratori con più di quaranta anni espulsi dal mercato del lavoro per processi di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro e iscritti nelle liste di mobilità e di collocamento, mentre il successivo comma 2°, in aggiunta alle ipotesi soggettive, consentiva l’apposiziome del termine anche per le assunzioni del primo dipendente, di assunzioni da parte di datori di lavoro che avessero fino a cinque dipendenti e di assunzioni di soggetti con cui fossero stati precedentemente stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Dubbi di legittimità erano sorti, oltrechè per l’ampiezza della deroga, anche per il fatto che in base al Patto i contratti a termine venivano gestiti dalla “Commissione di concertazione”, organismo paritetico formato dalle parti sociali e presieduto dal Comune di Milano, mentre le deroghe previste dalla legge 56/1987 prevedevano la necessità di un contratto collettivo e non la semplice approvazione della Commissione197.
Oltre che nelle ipotesi di natura soggettiva, la contrattazione collettiva aveva autorizzato assunzioni a termine in una serie di casi talmente vasta da aver soddisfatto praticamente tutte le esigenze dell’impresa. Le causali oggettive di fonte contrattuale erano spesso concorrenti con quelle legali, o per allentarne i vincoli, come nel caso dell’esecuzione di opere e servizi definiti e predeterminati ma privi del carattere straordinario e occasionale, o per risolvere questioni applicative come quella della riconducibilità alla fattispecie prevista dalla lett. b) dell’art. 1, comma 2°, l. 230/1962 delle assunzioni a termine per la sostituzione dei lavoratori in ferie o, comunque, per renderne più agevole e sicuro l’utilizzo, come quando si ammetteva il ricorso al lavoro a termine in occasione delle c.d. “punte stagionali” di attività, ricorso che in difetto dell’intervento delle parti sociali richiedeva l’autorizzazione amministrativa198.
196 Non erano fissati limiti espressi né per la durata del primo contratto, né per la reiterabilità dello stesso, né circa il rapporto tra il numero delle assunzioni possibili ex art. 8, comma 1°, e l’intero organico in pianta stabile.
197 X. XXXXXXXX, Il Patto di Milano e i nuovi lavori, in Il Sole 24 ore, 3 febbraio 2000. Per l’adeguatezza del controllo operato dalla Commissione di concertazione, cfr. X. XXXXXXXX, Lavoro a termine, referendum, direttiva…, 2000, op.cit., x. 000 xx.
000 Xxx xxxx xx veda X. XXXXXXXX, Il contratto di lavoro a termine: dalla legge alla contrattazione collettiva, 1997, op.cit., pp. 105 ss; X. XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, 2002, op. cit., p.11.
L’indicazione della percentuale massima di lavoratori a termine rispetto al numero di lavoratori a tempo indeterminato era considerata dalla dottrina maggioritaria199 un vero e proprio onere per le parti sociali, per cui la sua mancanza faceva venir meno il potere di derogare alle disposizioni di legge in materia. Più problematica risultava la determinazione delle conseguenze in caso di superamento dei limiti percentuali da parte del datore di lavoro, anche se l’assenza di contenzioso sul punto lascia presumere che il controllo sindacale sul rispetto dei contingenti sia stato sufficiente per far evitare il loro superamento. Secondo alcuni200 tale conseguenza non avrebbe potuto essere la stabilizzazione del rapporto, data l’impossibilità di individuare il titolare del diritto alla conversione del contratto nel caso di assunzioni contestuali plurime. Altri201 ritenevano, invece, che, costituendo le clausole di contingentamento uno strumento fondamentale per evitare gli abusi, il loro mancato rispetto avrebbe determinato la nullità del termine, con conseguente trasformazione del contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato; in caso di assunzioni contestuali plurime si sarebbe potuto fare riferimento a criteri quali l’ordine dei nominativi degli assunti o ai carichi di famiglia.
§3.2- Segue. Il contratto a termine per favorire la rioccupazione dei lavoratori in mobilità.
Visto il successo delle nuove fattispecie di lavoro a termine giustificate anche da ragioni non oggettive202, il legislatore proseguiva la sua opera di progressiva liberalizzazione dell’istituto per finalità di promozione dell’occupazione, considerandolo come un incentivo da concedere agli imprenditori per indurli ad assumere categorie deboli di lavoratori. Così, l’art. 8, comma 2°, della legge 23 luglio 1991, n. 223, introduceva espressamente una causale di tipo soggettivo stabilendo che
<<i lavoratori in mobilità possono essere assunti con contratto di lavoro a termine di
199 X. XXXXXXX, Lavori a termine e autonomia collettiva, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 23, p. 151;
X. X’XXXXXX, Il termine nel contratto di lavoro, in M. D’ANTONA, Opere, a cura di XXXXXX B. e XXXXXXX S., Vol. III, Scritti sul diritto del lavoro, Milano 2000, p. 1244; X. XXXXXXXX, la nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, 2002, op.cit., p.11. In giurisprudenza v. Trib. Milano 30 marzo 2000, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, p. 326.
200 X. XXXXXXXX, I rapporti di lavoro a termine, in P.A. VARESI - X. XXXXXXXX, Le assunzioni. Prova e termine nei rapporti di lavoro. Artt. 2096-2097, Xxxxxxx, Milano, 1990, p. 148.
201 X. XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, 2002, op. cit., p. 10.
202 Il Patto di Milano, ad esempio, (v. retro, § 3.1) autorizzava l’apposizione del termine oltrechè per causali di tipo soggettivo, anche per l’assunzione del primo dipendente o per assunzioni da parte di datori di lavoro aventi fino a cinque dipendenti, fattispecie, queste, non qualificabili propriamente né come soggettive né come oggettive. Cfr. X. XXXXXXXX, Lavoro a termine, Referendum..., 2000, op.cit.
durata non superiore a dodici mesi. La quota di contribuzione a carico del datore di lavoro è pari a quella prevista per gli apprendisti (…). Nel caso in cui, nel corso del suo svolgimento, il predetto contratto venga trasformato a tempo indeterminato, il beneficio contributivo spetta per ulteriori dodici mesi in aggiunta a quello previsto dal quarto comma>>.
In proposito si è parlato di “lucroso affare” per gli imprenditori, data la possibilità di assumere a termine i lavoratori in mobilità senza alcuna giustificazione oggettiva, col grosso vantaggio di beneficiare, per due anni, della ridotta contribuzione previdenziale203. D’altra parte, questo vantaggio sembra giustificato dall’incremento dei livelli di occupazione di soggetti particolarmente deboli e la scelta legislativa, quindi, non pare inopportuna204.
La giurisprudenza risultava divisa sul principale problema applicativo posto dall’art. 8, l. n. 223/91 e cioè sul punto se alle assunzioni a termine previste da questa norma si dovesse riconoscere piena autonomia o se invece potessero essere effettuate soltanto nei casi previsti dalla l. n. 230/1962 o dalla contrattazione collettiva. Il problema, a dire il vero, non avrebbe nemmeno dovuto porsi, perché l’inquadramento della fattispecie delineata dall’art. 8, comma 2°, nel sistema della l. n. 230/1962 avrebbe avuto l’effetto non di accrescere, ma di ridurre le possibilità di lavoro a termine, dato che la norma prevede limiti di durata del contratto, e questo avrebbe contraddetto la ratio legis, consistente nel favorire l’occupazione, anche precaria, dei lavoratori in mobilità.
Mentre la dottrina era concorde nell’affermare la piena autonomia dell’ipotesi disciplinata dall’art. 8, comma 2°, l. n. 223/1991205, in giurisprudenza alle sentenze che hanno ritenuto illegittimi i contratti a termine conclusi fuori delle fattispecie previste dalla legge n. 230 del 1962206, se ne sono contrapposte altre, che li hanno, invece,
203 PERA, La strana storia, 2001, op.cit., p. 305.
204 Cfr. X XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, op.cit., 2002.
205 LISO F., La nuova legge sul mercato del lavoro: un primo commento, in Lav. inf., 1991, n. 19, p. 13; XXXXXXXX, Lavoratori in mobilità ed assunzioni a termine, in Dir. prat. lav., 1992, p. 1725; XXXXX R., Xxxxxx a termine e mobilità, in Dir. lav., I, 1992, pag. 369; BALLETTI B., Collocamento dei lavoratori in mobilità, in AA.VV., Integrazioni salariali, eccedenze di personale e mercato del lavoro, Napoli, 1992.
206 Pret. Milano 21 luglio 1995, in Riv. crit. dir. lav., 1995, pag. 905; Pret. Milano 26 aprile 1996, in Riv.
it. dir. lav., 1997, II, pag. 170; Pret. Monza 9 agosto 1996, in Mass. Giur. Lav., 1996, pag. 553.
considerati pienamente legittimi, in presenza delle sole condizioni indicate dall’art. 8, comma 2°, l. n. 223/91207.
La norma è stata mantenuta in vigore anche nel nuovo sistema introdotto dal d. lgs. n. 368/2001 (art. 10, comma 6°) e in tale contesto la tesi difesa da tutta la dottrina dovrebbe risultare ancora più facilmente sostenibile: l’esigenza di favorire l’occupazione dei lavoratori in mobilità consente la loro assunzione a termine anche a prescindere dall’esistenza di quelle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, in via generale richieste per la legittimità dell’apposizione del termine dall’art. 1, comma 1°, d.lgs. n. 368/2001 e quanto ai requisiti formali basterà che nell’atto scritto si menzioni che l’assunzione avviene sulla scorta dell’art. 8, comma 2, l. n. 223/1991.
Successivamente, l’art. 75, comma 2°, lett. b), l. n. 388/2000 (legge finanziaria 2001) ha introdotto un’ulteriore ipotesi di contratto a termine per ragioni soggettive, anch’esso tuttora vigente in forza dell’art. 10, comma 6°, d.lgs. n. 368/2001: al fine di favorirne l’occupazione, ai lavoratori anziani è consentito, qualora abbiano maturato i requisiti per accedere alla pensione di anzianità, di proseguire il rapporto di lavoro con un contratto a tempo determinato di due anni.
§4- La legge 24 giugno 1997, n. 196: l’attenuazione dell’apparato sanzionatorio.
Dopo le riforme avvenute con le leggi n. 56/87 e n. 223/91, si è assistito ad un periodo di assestamento, dal punto di vista giuridico, della disciplina del lavoro a termine, dovuto presumibilmente al fatto che, grazie alla delega conferita alla contrattazione collettiva, la normativa era ormai in grado di corrispondere quasi sempre ai bisogni delle imprese di avvalersi di rapporti di lavoro limitati nel tempo; sempre più rare erano, infatti, le applicazioni dell’istituto portate all’attenzione dei giudici e dichiarate palesemente illegittime. Nonostante ciò, nel corso degli anni ’90, anche in connessione con le problematiche derivanti dalla globalizzazione dei mercati e dalla concorrenza internazionale che si riflettevano sul mercato del lavoro, si intensificarono le pressioni imprenditoriali volte ad ottenere un’ulteriore liberalizzazione nell’utilizzo del contratto a termine che indussero il Governo a decidere di alleggerire l’apparato
207 Pret. Milano 6 luglio 1995, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 902; Pret. Milano 17 aprile 1996, in Mass.
Giur. lav., 1996, pag. 533; Trib. Alessandria 2 ottobre 1997, in Mass. Giur. lav., 1998, pag. 224.
sanzionatorio predisposto dalla l. n. 230/1962208. Così, l’art. 12 della legge 14 giugno 1997, n. 196 (c.d. “pacchetto Treu”), rubricato “Disciplina sanzionatoria del contratto a termine”, ha riscritto l’art. 2, comma 2°, della legge n. 230/1962, delineando un sistema che, malgrado l’abrogazione di tutta la previgente normativa, è stato sostanzialmente confermato dall’art. 5, D.lgs. n. 368/2001.
L’intervento legislativo del 1997 è stato considerato, per alcuni versi, poco significativo e per altri versi molto pericoloso209. Confermando l’eccezionalità del contratto a tempo determinato e mantenendo inalterata sia la disciplina della proroga che quella relativa alle conseguenze della mancanza di forma scritta e della stipulazione del contratto al di fuori delle ipotesi consentite, la principale novità apportata dalla “legge Treu” risultava essere la distinzione tra i casi di violazione riconducibili ad una situazione di mero fatto, cioè ad un comportamento materiale dell’imprenditore consistente nella prosecuzione del rapporto oltre i limiti pattuiti, e i casi di violazione connessi, invece, ad una manifestazione di volontà, anche tacita, dell’imprenditore, indicativa dell’intenzione di fare del contratto a termine un uso fraudolento210. Solo per il primo gruppo di violazioni l’originaria conseguenza della conversione era sostituita da una sanzione di carattere economico, confermandosi, quindi, anche nel nuovo e più elastico modello, la centralità della sanzione reale, quella, cioè, attinente al rapporto. Infatti, in caso di prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine iniziale era prevista soltanto una maggiorazione retributiva – una sorta di indennità riconosciuta al lavoratore per la supplementare flessibilizzazione del rapporto di lavoro211 - nella misura del 20% fino al decimo giorno successivo e del 40% per ogni giorno ulteriore.
208 L’intento riformatore del Governo, come enucleato nella Premessa al Patto per il lavoro del 24 settembre 1996 - non, quindi, nel testo concordato con le parti sociali - e poi nel disegno di legge n. 1918, contemplava una revisione ben più radicale di quella poi realizzata con l’art. 12 della legge n. 196/1997. L’ipotesi iniziale riservava la tradizionale e rilevante sanzione della conversione del rapporto a termine illegittimo in rapporto a tempo indeterminato ai soli casi di violazioni ritenute più gravi (come la mancanza di forma scritta o la prosecuzione del rapporto per un tempo significativo dopo la scadenza del termine), negandola, in particolare, per i contratti a termine conclusi al di fuori dei casi consentiti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, per i quali veniva prefigurato il ricorso a sanzioni economiche di incerta effettività. Sul punto, v. X. XXXXXXXX, Contratti a termine: la nuova disciplina sanzionatoria, in Dir. prat. lav., 1997, n. 33, p. 2352; X. XX XXXXXXX, Contratto a termine e sanzioni tra diritti speciali e diritto comune, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 23, p. 45.
209 X. XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, op. cit., 2002.
210 Cfr. X. XXXXXX - X. XXXXXXX, Il contratto a termine nella legge Treu, in Riv. crit. dir. lav., 1998, n. 41, pp. 337 ss.
211 Cfr. X. XX XXXXXXX, Contratto a termine e sanzioni tra diritti speciali e diritto comune, op. cit., 2000; contra X. XXXXXX - X. XXXXXXX, Il contratto a termine nella legge Treu, op. cit., 1998, che ne sottolineano la natura di vera e propria sanzione. Sul punto, con riferimento alla disciplina vigente, si veda infra, Cap. IV, §6.
Solo in caso di continuazione del rapporto oltre il ventesimo giorno, per i contratti di durata inferiore ai sei mesi, ovvero oltre il trentesimo, per gli altri contratti, tornava ad operare la più grave sanzione della trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, non più, però, dall’origine, ma dalla scadenza dei predetti termini. Si intendeva, in questo modo, evitare la stabilizzazione del rapporto quando, non sussistendo gli estremi per il ricorso alla proroga, la breve prosecuzione ultra tempus della prestazione fosse dipesa da meri disguidi organizzativi o da un modesto errore di valutazione della durata delle esigenze sottese all’apposizione del termine o dal breve protrarsi di quest’ultime. D’altra parte, poiché la giurisprudenza212 aveva già chiarito che per aversi l’effetto legale sostitutivo la prosecuzione del rapporto doveva essere voluta da entrambe le parti, rendendo quindi irrilevanti le prestazioni svolte contro la volontà del datore di lavoro, e poiché nella pratica il fenomeno non era frequente, gli effetti dell’innovazione risultavano modesti.
Con riguardo alla reiterazione dell’assunzione a termine, l’art. 12, L. n. 196 del 1997 abbreviava il periodo dilatorio minimo al di sotto del quale vigeva la presunzione assoluta di frode: per poter lecitamente riassumere lo stesso lavoratore, diventava sufficiente una pausa di 10 o 20 giorni (anziché 15 o 30) dalla scadenza del contratto precedente, a seconda che si trattasse di rapporti di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi. Inoltre, in caso di riassunzione prima dello spirare dei termini predetti, solo il secondo contratto si considerava a tempo indeterminato213.
La maggior flessibilizzazione dell’uso del lavoro a termine così introdotta, è stata ulteriormente accentuata da un pronuncia della Cassazione214, secondo la quale la disciplina relativa all'illegittimità della riassunzione entro i termini di 10 o 20 giorni presuppone non solo l'identità delle parti, ma anche di oggetto e di causa: di conseguenza, in caso di ripetute assunzioni della stessa persona per la sostituzione di più lavoratori con diritto alla conservazione del posto, non vi sarebbe identità di
212 Cfr. Cass 17 giugno 1988, n. 4139, in RFI, 1988, voce Lavoro (rapporto), p. 566.
213 L’efficacia ex nunc della conversione rendeva pacifico l’effetto del venir meno del diritto alla retribuzione nell’intervallo non lavorato, cui peraltro la giurisprudenza era pervenuta in via interpretativa. Cfr. Cass. 4 ottobre 1996, n. 8695, in Dir. prat. lav., 1997, p. 493, per la non retribuibilità degli intervalli non lavorati qualora non vi sia messa in mora da parte del dipendente.
214 Cass. 4 febbraio 1999, n. 990, in Mass. giur. lav., 1999, p. 493, con nota di X. XXXXXXX, Pluralità di assunzioni a termine “elusive”della legge 230/1962, in Orient. giur. lav., 1999, I, p. 386, con nota di X. XXXXXXX, Successione di contratti a termine. Il caso affrontato dalla Cassazione riguardava una lavoratrice che aveva richiesto il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto assunta con sette distinti contratti a tempo determinato, ogni volta per la sostituzione di diverse lavoratrici assenti per maternità.
contratto, purchè in ogni singolo contratto siano indicati il nome del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione, assumendo i singoli contratti autonoma e separata entità; sarebbero, quindi, inapplicabili i limiti e le nullità previsti dalla disciplina in esame215. Nulla, però, nella legge fa supporre che le conseguenze stabilite per le riassunzioni non rispettose dei termini previsti presuppongano anche un’identità oggettiva e causale, mentre è evidente che esse sono finalizzate ad evitare la reiterata assunzione a termine dello stesso soggetto. Una simile interpretazione, non condivisibile nel vigore della l. n. 230/1962, costituirebbe un ancor più pericoloso veicolo di abusi nel mutato contesto normativo delineato dal d.lgs. n. 368/2001, in cui il complesso delle ragioni giustificatrici risulta non solo più ampio ma anche più evanescente.216
La l. n. 196/1997 conteneva un’ultima modifica dell’art. 2, comma 2°, della legge n. 230/1962, che ha dato vita ad una querelle interpretativa: la norma di chiusura secondo cui in ogni caso il contratto si considerava a tempo indeterminato quando si trattasse di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della stessa legge, veniva sostituita dall’affermazione per la quale “quando si tratti di due assunzioni successive a termine, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.
L'eliminazione dal testo originario del riferimento al ripetuto e fraudolento ricorso al contratto a termine è stato considerato grave217, dato che proprio in base a tale previsione si era riusciti in passato a ridurre i casi di abuso del lavoro a tempo determinato costituito dall’utilizzo dello stesso lavoratore con una serie lunghissima di successive assunzioni formalmente rispettose degli intervalli minimi. La giurisprudenza, alleggerendo l’onere probatorio gravante sul lavoratore, si era attestata su una concezione oggettiva della frode in forza della quale la dimostrazione dell’intento fraudolento poteva essere raggiunta fondandosi su una serie di indici, come <<la durata dei vari contratti (considerati sia isolatamente che nella loro complessiva sequenza), la durata degli intervalli intercorrenti tra l’uno e l’altro contratto, la natura della prestazione lavorativa in relazione all’attività dell’impresa, l’eventuale effettuazione di
215 Cfr. MATTAROLO M.G., Disciplina della proroga del contratto a tempo determinato, in MENGHINI (a cura di), La nuova disciplina.., 2002, op.cit., p. 112.
216 Cfr. infra, Cap. IV, §1 e §6.1.
217 Così, X. XXXXXXXX, La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, op. cit., 2002, p. 17.
prestazioni lavorative negli intervalli medesimi>>, da cui si potesse inferire l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione aziendale218.
L’eliminazione dell’originaria formulazione e l’innegabile ambiguità del dato letterale, avevano suscitato un vivace dibattito sull’interpretazione dell’ultimo periodo del novellato art. 2, comma 2°, l. n. 230/1962.
Secondo una prima opinione, che invocava i lavori preparatori e lo spirito della norma, la frase andava letta come se fosse stato scritto “due assunzioni a termine di carattere fraudolento”219 e cioè come mantenimento dell’originaria ipotesi antielusiva. Una seconda proposta interpretativa riteneva che la fattispecie sanzionatoria si sarebbe realizzata quando il datore di lavoro avesse riassunto a termine lo stesso lavoratore per due volte successive alla prima, senza rispettare gli intervalli temporali220, venendosi così a configurare una fattispecie del tutto nuova, rispetto alla previgente disciplina delle assunzioni in frode alla legge, che sarebbe stata del tutto cancellata. La terza opzione ricostruttiva, fatta propria anche dal Ministero del Lavoro221 e confermata poi dalla soluzione accolta nell’art. 5, comma 4°, del d.lgs. n. 368/2001222, riteneva, infine, che la trasformazione ex tunc del rapporto si sarebbe verificata quando il secondo contratto fosse stato stipulato senza soluzione di continuità temporale223, poiché la mancanza assoluta di intervallo meriterebbe una sanzione maggiore rispetto alla semplice inosservanza degli intervalli minimi. Così interpretata la norma era – ed è tuttora – destinata a coprire ipotesi del tutto marginali, essendo rarissima la stipulazione di un nuovo contratto immediatamente successiva alla scadenza del primo.
La mancata previsione della fattispecie elusiva e della relativa sanzione ha indotto la dottrina prevalente224 a recuperare dal ius commune una tutela analoga a
218 Cass. 8 maggio 1989, n. 2130, in Foro it., 1989, I, p. 2160; cfr. anche Cass. 10 agosto 1983, n. 5345, in
Lav. prev. oggi, 1983, p. 2117.
219 ROCCELLA, Contratti a termine: la nuova disciplina sanzionatoria, 1997, op.cit., pag. 2352; XXXXXXXX, La nuova disciplina sanzionatoria del contratto a termine, art. 12, in XXXXXXXXX X. (a cura di), Il lavoro temporaneo e i nuovi strumenti di promozione dell’occupazione, Xxxxxxx, Milano, 1997, pp. 313 ss; XXXX, Diritto del lavoro, Padova, 2000, pag. 339.
220 X. XXXXXXXX, Nuove sanzioni per il contratto a termine, in Dir. prat. lav., 1997, n. 30, pp. 2099 ss.
221 Circolare del Ministero del Lavoro del 28 novembre 1997, n. 153.
222 <<Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità, il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto>>
223 PAPALEONI, Spigolature su alcuni recenti provvedimenti normativi in materia di lavoro, l. 24 giugno 1997, n. 196; d. lgs. 26 maggio 1997, n. 152, in Mass. Giur. lav., 1997, pp. 756 ss.; BIAGI M., Istituzioni di diritto del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2001.
224 X. XXXXXXXX, Nuove sanzioni per il lavoro a termine, 1997, op.cit., p. 2101; XXXXXXXX, La nuova disciplina sanzionatoria del contratto a termine (art. 12), 1997, op.cit., p. 317; X. XX XXXXXXX,
quella soppressa, contro l’abuso del lavoro a termine realizzato attraverso reiterate assunzioni frodatorie. A fronte di innumerevoli contratti non ravvicinati, nel senso tipizzato dalla legge, volti a coprire esigenze strutturali dell’azienda, veniva riconosciuta la possibilità di ricorrere all’istituto generale del negozio in frode alla legge (art. 1344 c.c.)225, data la contrarietà alla norma imperativa contenuta nell’art. 1, l. n. 230/1962, secondo cui <<il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato>>. Dall’ applicazione dei principi generali sulla nullità parziale e sull’inserzione automatica di clausole (artt. 1419, comma 2° e 1339 c.c.) discendeva la conversione della pluralità di contratti elusivi in un rapporto a tempo indeterminato, dovendosi in ogni caso escludere che la fraudolenta elusione di una normativa di garanzia potesse invalidare il contratto a danno della parte garantita226.
§ 5- Il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368: una nuova tecnica normativa.
La principale innovazione introdotta dalla nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è stata indubbiamente l’adozione della clausola generale227
Contratto a termine e sanzioni tra diritti speciali e diritto comun, 2000, op.cit., p. 44 ; X. XXXXXX- A.GUARISO, Il contratto a termine nella legge Treu, op.cit., 1998.
225 Anche l’unica sentenza nota sul punto, Pret. Milano 30 aprile 1999, in Lav. giur., 1999, p. 775, applicava alla fattispecie della reiterata assunzione con contratto a termine l’istituto del negozio in frode alla legge, con conseguente trasformazione dei singoli rapporti a tempo determinato in un unico rapporto sine die.
226 Con sentenza 11 maggio 1992, n. 210, in Foro it., 1992, I, pp. 3232 ss., la Corte Costituzionale ha sottolineato che nel rapporto di lavoro l’art. 1419, comma 1°, c.c., (che dà rilievo, nell’invalidità parziale, alla volontà dei contraenti) non si applica quando <<la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore>> quale contraente debole, anche perché <<sarebbe palesemente irrazionale che dalla violazione di una norma imperativa (…) posta proprio al fine di tutelare il lavoratore contro la pattuizione di clausole vessatorie, potesse derivare la liberazione del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale>>. Sulla sentenza della Corte Cost. n. 210/1992, cfr. Cap. IV, §4.
227 La qualificazione giuridica dell’art. 1, comma 1°, d.lgs. 368/2001, peraltro, è particolarmente controversa in dottrina. Preferiscono parlare di “norma generale” X. XXXXXXXXXX, Xxxxx giustificatrici del contratto a termine ed eventuale nullità del contratto in assenza delle medesime, in Dir. lav., 2002, I, p. 33, X. XXXXXX, La certezza del diritto nelle tecniche della flessibilità, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, p. 69, e X. XXXXX, Brevi note nelle ragioni che consentono l’apposizione del termine al contratto di lavoro, in Arg. dir. lav., 2002, I, p. 188, i quali, citando X. XXXXXXX, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, pp. 9 ss., sottolineano che l’art. 1, d.lgs. 368, costituisce una norma completa, la cui fattispecie <<non descrive però un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di casi genericamente definiti mediante una categoria riassuntiva>> mentre le sole clausole generali propriamente dette, come quella sulla buona fede, sarebbero <<norme incomplete, frammenti di norma (…) che non hanno una propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni>>. In senso conforme anche P. ALBI, Le ragioni oggettive che consentono l’apposizione del termine el contratto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 126, parla di <<norma generale quale norma completa, costituita da una fattispecie e da un comando (…) che non delega affatto alla discrezionalità “normativa” del giudice l’individuazione delle ipotesi di legittima apposizione del termine>>. Si veda anche M.T. CARINCI, Il
contenuta nell’articolo di apertura del d.lgs. 368/2001228, che, almeno dal punto di vista della voluntas legis e della tecnica di regolazione adottata, ha segnato un momento di rottura con il passato, avendo comportato l’abbandono del modello imperniato sull’elencazione tassativa ex lege delle ipotesi legittimanti l’assunzione a termine e sulla “delega in bianco” alla contrattazione collettiva della facoltà di individuare ipotesi aggiuntive rispetto a quelle legali. La scelta di condizionare l’apposizione del termine all’esistenza di indefinite «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» risultava coerente con l’intento del Governo e delle forze politiche che lo appoggiavano di garantire ai datori di lavoro un margine di flessibilità ancora più ampio di quello realizzato con l’art. 23, l. n. 56/1987 e, soprattutto, non mediato dall’intervento sindacale nell’impiego del contratto a tempo determinato, nell’ottica di restituire all’autonomia privata quel potere di individuazione delle causali di ricorso del tutto espropriato dal modello regolativo della l. n. 230/1962. La tecnica della norma aperta valorizza, in effetti, il potere dell’autonomia individuale di adattare la norma generale ed astratta alla specifica realtà aziendale229 giacchè necessita, strutturalmente, di una concretizzazione che, nel caso di specie, non può che essere affidata, in un primo momento, alla discrezionalità delle parti individuali del rapporto e quindi, in sostanza, alla decisione del datore di lavoro e in un secondo momento, e solo eventualmente, all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria. Dall’abbandono della tipizzazione legale delle causali, tuttavia, non appare ragionevole dedurre conseguenze significative in ordine ad un generale offuscamento dell’interesse alla stabilità del rapporto o addirittura alla raggiunta piena fungibilità tra il contratto a tempo determinato e quello a tempo indeterminato230, come se in base alla nuova legge l’apposizione del termine fosse acausale231. Il contratto a tempo determinato, infatti, è costruito come fattispecie
giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato. Ragioni tecniche, organizzative, produttive (e sostitutive) quale limite a poteri e libertà del datore di lavoro, CEDAM, Padova, 2005, pp. 72 ss.
228 <<E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.>>
229 A proposito delle clausole generali X. XXXXXXX, Intervento, in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pesaro – Urbino 24-25 maggio 2002, Xxxxxxx, Milano, 2003, p. 220, parla, riprendendo una definizione di V. POLACCO, di << “organi respiratori” dell’ordinamento (…) destinati a consentire lo scambio di informazioni tra sistema sociale e sistema giuridico, al fine di assicurare al secondo una adeguata e permanente adattabilità alle mutevoli espressioni del primo>>.
230A. XXXXXXX, op.ult.cit.; X. XXXXXXXX, La riforma del contratto di lavoro a tempo determinato. Temporaneità delle esigenze aziendali e ruolo del sindacato, op.cit., 2003.
231Cfr. X. XXXXXX, Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del lavoro a termine, in GARILLI A. – NAPOLI M., 2003, op.cit., p. 89, il quale ricorda come, in passato, l’impiego della stessa
mediante l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro, con una norma permissiva (<<è consentita>>) che presuppone, per ciò stesso, un inviolabile precetto negativo e denota l’esistenza di un limite esterno alla libertà contrattuale dato che il suo esercizio è ammesso soltanto se giustificato da una ragione pratica riconducibile alla ragione astratta genericamente definita dal legislatore. Questa circostanza, in una logica meramente formale, priva di connotati valutativi e anche senza voler richiamare i principi contenuti nella direttiva comunitaria, induce a ritenere confermato anche nel nuovo assetto il carattere derogatorio, se non proprio eccezionale, del contratto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato232. Tale conclusione risulta avvalorata dalla regola posta dal comma 2° dello stesso art. 1, d.lgs. 368/2001, secondo cui
<<l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1>>: la necessità di una specifica formalizzazione delle ragioni, che serve non tanto a rendere trasparenti le scelte d’impresa quanto a facilitare il controllo da parte del giudice, conferma il carattere permissivo della norma e manifesta il perdurante disvalore giuridico della clausola recante l’apposizione del termine. L’impianto complessivo della nuova disciplina si colloca, dunque, nel solco della regolazione antifraudolenta tracciato dalla legge n. 230/1962, mantenendo l’attributo della inderogabilità come elemento caratterizzante. Si è parlato, infatti, di ritorno al garantismo individuale233 tipico degli anni ’60 o ‘70, imperniato sulla funzione protettiva della norma inderogabile, in cui non vi è alcun ruolo affidato alla mediazione sindacale e tutto è lasciato all’iniziativa del singolo, che utilizza la norma con i suoi tipici strumenti costituiti da requisiti formali, sanzioni e divieti, e all’intervento del giudice, cui, in ultima analisi, sono attribuiti il controllo e la decisione sulla legittimità dell’apposizione del termine. Tale modello regolativo era stato temperato nel corso degli anni da forme rilevanti di flessibilità contrattata ed è proprio con riferimento al ruolo attribuito alla contrattazione collettiva che si manifesta il più rilevante aspetto di discontinuità rispetto al passato. I numerosi
tecnica della norma aperta nell’art. 2103 cc. per giustificare il trasferimento del lavoratore da una unità produttiva all’altra, e nell’art.3 della l. n. 604/1966 per definire il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, non sia mai stato considerato un indice di acausalità, cioè di mancanza di presupposti oggettivi. Nello stesso senso cfr. X. XXXXXXXX, La nuova legge sul lavoro a termine, 2001, op.cit., p. 385.
232 Per l’analisi del dibattito dottrinale sulla questione della natura causale o acausale dell’apposizione del termine e degli orientamenti della giurisprudenza sul punto, v. infra, Cap. IV, § 1.
233 X. XXXXXXXX, Contratto a termine e contrattazione collettiva. Note critiche sul decreto legislativo n. 368 del 2001, in Riv. giur. lav., 2002, I, p. 505; X. XXXXXXXX, op.ult.cit.; X. XXXXXXX’, Tra diritto ed economia: obiettivi e tecniche della regolazione sociale dei contratti di lavoro a termine, op.cit., 2006.
richiami alle parti sociali contenuti nel d.lgs. 368/2001, sembrano avere una valenza più formale che sostanziale dato che riguardano riconoscimenti non solo secondari ma anche discutibili per effettività e reale consistenza234. La contrattazione collettiva è del tutto esclusa dalla sfera di determinazione delle causali mentre l’individuazione dei limiti quantitativi, tuttora affidata alle parti sociali dall’art. 10, comma 7°, non solo non è chiaro se costituisca un’indefettibile condizione di legittimità dell’assunzione a termine, come dovrebbe essere per restituire alle parti sociali una funzione di qualche rilevanza nella gestione e nel controllo delle dinamiche di flessibilità del nostro mercato del lavoro, ma è limitata da una serie ingente di esclusioni che ne riducono fortemente la capacità di incidenza235.
La compressione dell’autonomia collettiva nel d.lgs. 368/2001, peraltro, sembra rispondere più a un’opzione ideologica (indebolire il ruolo delle organizzazioni sindacali) che non alla volontà di introdurre una normativa più flessibile del contratto a termine, visto che già con l’art. 23, l. n. 56/1987 l’originario modello era stato adattato alle molteplici esigenze dell’organizzazione del lavoro ed era stata ampliata la fascia, tendenzialmente aperta, delle motivazioni meritevoli di tutela. Inoltre, a fronte della marginalizzazione del ruolo del sindacato, non sembra che si possa parlare propriamente neanche di riaffermazione dell’autonomia individuale, intesa come potere delle parti di definire e disciplinare i propri interessi, in quanto una piena e reale libertà contrattuale non si accontenta di una mera uguaglianza formale me necessità di pari condizioni di potere sociale, in grado di assicurare e garantire la consapevole autenticità delle scelte individuali; ciò che il d.lgs. 368 ha valorizzato è, semmai, il potere unilaterale dell’imprenditore – insito nella facoltà di concretizzazione della norma aperta di cui all’art. 1 – in misura corrispondente alla riduzione degli spazi di influenza
234 In questo senso X. XXXXXXX, Disciplina del contratto a termine e ruolo della contrattazione collettiva, in XXX, 0000, n. 2, p. 346, la quale sottolinea come l’art. 7, d.lgs. 368/2001, ad esempio, affida alla contrattazione collettiva la “possibilità” di prevedere gli strumenti volti a favorire l’accesso dei lavoratori a termine ad occasioni formative, rimettendo un aspetto così rilevante, quale la formazione del lavoratore, alle risultanze di quel contemperamento di interessi proprio della contrattazione stessa. Analogamente, con riferimento all’art. 9, d.lgs. 368/2001, il fatto che sia interamente ed unicamente affidata alla contrattazione collettiva la definizione dei contenuti e delle modalità sia delle informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato circa i posti vacanti sia di quelle destinate alle rappresentanze dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nelle aziende, suscita non pochi dubbi sull’effettività delle informazioni stesse.
235 V. infra, Cap. IV, § 5.1.
collettiva, riaffermando, quindi, non << la logica paritaria del contratto >> ma << la logica autoritaria del potere >>236.
D’altra parte, la tecnica della clausola generale, proprio per la sua indeterminatezza, ha come conseguenza strutturale e necessaria anche una maggiore discrezionalità del giudice nel verificare la riconducibilità della vicenda individuale all’ambito prescrittivo definito dalla norma: l’ampio controllo giudiziale costituisce il “contrappeso naturale”237 della più ampia libertà di utilizzo dei contratti a termine concessa ai datori di lavoro.
E’ comprensibile, quindi, come in un contesto normativo dai contorni indefiniti la contrattazione collettiva, pur in assenza di un sostegno legislativo, e dunque al di fuori dello schema della delega normativa, ma nell’esercizio della libertà sindacale garantita dall’art. 39, comma 1°, Cost., si sia in parte riappropriata del << compito di razionalizzazione economico-giuridica della materia >>238, esercitato negli anni passati. Nonostante la “moneta di scambio” costituita fino al 2001 dal “se” della flessibilità aggiuntiva sia venuta meno per lasciare il posto ad una flessibilità già concessa ex lege, le parti sociali hanno continuato ad intervenire sulla disciplina del contratto a tempo determinato, esprimendosi direttamente sulle causali oppure offrendo indicazioni generali ma di carattere restrittivo sull’uso delllo strumento in esame239. Numerosi, ad esempio, sono i contratti collettivi conclusi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 368 che, richiamando la Direttiva 99/70/CE, ribadiscono il principio secondo cui << i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno a essere la forma comune dei rapporti di
236 Ancora X. XXXXXXX, op.cit. Analogamente, P. ALBI, Le ragioni oggettive che consentono l’apposizione del termine al contratto di lavoro, op.cit., p. 127, afferma che <<la “riscoperta” dell’autonomia individuale è più apparente che reale>> dato che <<non pare che al lavoratore vengano riconosciute libertà negoziali di cui prima questi non poteva beneficiare, mentre si legge la tensione fra gli spazi di azione “conquistati” dal datore di lavoro e la dimensione negoziale del rapporto>>.
237 M. NAPOLI, il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del lavoro a termine, 2003,
op.cit., pp. 85 ss.
238 X. XXXXXXX’, Tra diritto ed economia: obiettivi e tecniche della regolazione sociale dei contratti di lavoro a termine, op. cit., 2006.
239 Per un esame dettagliato della produzione negoziale intervenuta tra ottobre 2001 e novembre 2005 si rinvia a X.XXXXXXX, Disciplina del contratto a termine e ruolo della contrattazione collettiva, op. cit., 2006. Si occupano dei rinnovi contrattuali successivi al d.lgs. 368/2001 anche M.P. AIMO, Il contratto a termine alla prova, op.cit., 2006, e X.XXXXXXX’, Tra diritto ed economia: obiettivi e tecniche della regolazione sociale dei contrattiod di lavoro a termine, op.cit., 2006. Cenni sui contratti collettivi più recenti si trovano anche in X. XXXXXXXXX, Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in Dir. rel. ind., 2006, n. 1, p. 117, in cui si afferma che <<il decreto legislativo n. 368 è stato praticamente riscritto e la fonte collettiva si è accreditata come strumento regolatore a tutto campo>>.
lavoro>>240 o che comunque riaffermano la centralità del contratto a tempo indeterminato241, fugando ogni dubbio circa il rischio di equiparazione concettuale tra le due tipologie contrattuali. Alcuni accordi, poi, riconoscono esplicitamente la temporaneità come elemento strutturale delle causali242 mentre altri richiamano indirettamente tale requisito affermando che <<l’istituto del contratto a tempo determinato non deve sopperire a carenze stabili dell’organico>>243. Si riscontrano anche accordi che sembrano operare un’elencazione tassativa delle causali , come il Ccnl Agricoltura cooperative del 16 luglio 2002 in cui si stabilisce che << il contratto con prefissione di termini deve essere giustificato dalla specialità del rapporto e potrà aver luogo nei soli casi>> indicati244. Alcuni contratti, invece, contengono un’elencazione di causali o espressamente qualificata come esemplificativa245 o accompagnata dalla precisazione che resta << ferma (…) la possibilità di stipulare contratti a termine in tutti i casi rientranti nella previsione di cui all’art. 1, comma 1, del d.lgs. 368/2001>>246
L’esame sommario della produzione negoziale successiva alla riforma del 2001 mostra, quindi, come, pur nella diversità delle soluzioni accolte, non si sia registrata sul versante datoriale una fuga dalla contrattazione collettiva: sebbene abilitati dalla legge a “fare da soli”247, i datori di lavoro, per il tramite delle loro associazioni, hanno in molti
240 Così l’art. 19 del Ccnl Attività ferroviaria del 16 aprile 2003 che aggiunge: <<i contratti a tempo determineto rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori, occupazioni e attività, atta a soddisfare le esigenze sia delle aziende che dei lavoratori>>. Similmente anche Ccnl Poste italiane dell’11 luglio 2003, Ccnl Aziende grafiche ed affini e delle aziende editoriali anche multimediali del 24 febbraio 2004, Ccnl Tessili industria del 24 aprile 2004, Ccnl Calzature industria del 18 maggio 2004.
241 Ccnl per il personale dipendente delle Misericordie e delle organizzazioni operanti nell’ambito socio- sanitario, assistenziale, educativo dell’agosto 2004, Ccnl lavanderie e tintorie AUIL del 24 dicembre 2003, Ccnl settore assistenziale, sociale, socio-sanitario, educativo UNEBA del 27 maggio 2004, Ccnl per il personale direttivo, docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario occupato negli istituti aderenti all’AGIDAE del 17 ottobre 2002, i quali riportano anche un’elencazione esemplificativa di legittime ipotesi di apposizione del termine.
242 Ccnl Agenzie di viaggio e turismo (Confcommercio) del 19 luglio 2003, Ccnl Catene alberghiere del 16 ottobre 2003, Ccnl Turismo (Federturismo) del 2 febbraio 2004, ccnl Commercio cooperative di consumo del 2 luglio 2004, Ccnl Consorzi agrari del 5 aprile 2004.
243 Ccnl Anpas del 15 marzo 2004, Ccnl Anffas del 9 giugno 2004, Ccnl strutture sanitarie associate AIOP, ARIS e FDG del 7 dicembre 2004, Ccnl aziende, società, enti pubblici economici Federcasa- Aniacap del 14 marzo 2002
244 Previsioni analoghe si trovano anche nel Ccnl Agricoltura contoterzisti del 9 marzo 2004, Ccnl Agricoltura impiegati del 27 maggio 2004, Ccnl Forestali ed agrari del 1° agosto 2004, Ccnl settore Legno industria del luglio 2004, Ccnl esercizi cinematografici del 27 ottobre 2003, Ccnl Enti culturali, turistici, sportivi (Federculture) del 21 marzo 2005.
245 Ccnl Anas del 18 febbraio 2002, Ccnl Igiene ambientale az. Municipalizzate del 22 maggio 2003, Ccnl Anpas del 15 marzo 2004, Ccnl Anffas del 9 giugno 2004. V. anche nota n. 241.
246 Così il Ccnl Alimentari pmi del 6 maggio 2004.
247 M. NAPOLI, Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del lavoro a termine, op.cit., 2003, p. 92.
casi dimostrato di ritenere utile contrattare per precostituire un ventaglio di ipotesi che integrino la causale generale di cui all’art. 1 del d.lgs. 368, con il verosimile obiettivo di ridurre le incertezze interpretative che necessariamente accompagnano l’applicazione giudiziaria di una clausola generale e benchè ciò significhi autolimitare il proprio potere di contrattazione individuale.