IL DECRETO DIGNITA’ DOPO I PRIMI CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO
1998
2018
IL DECRETO DIGNITA’ DOPO I PRIMI CHIARIMENTI DEL MINISTERO DEL LAVORO
Aggiornato alla circolare 17/2018 del Ministero del Lavoro - 31/10/2018
A cura di
E.MASSI
SOMMARIO
CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO 4
Le novità del nuovo articolo 19 del Decreto Legislativo n. 81/2015 4
L’introduzione delle ragioni giustificatrici ed il limite massimo dei ventiquattro mesi 5
I contenuti dell’art. 21 in ordine alle proroghe ed ai rinnovi 15
Termine per l’impugnazione e nuova disciplina transitoria 16
Contratti stipulati entro il 13 luglio 2018 19
Contratti stipulati tra il 14 luglio e l’11 agosto 2018 20
Contratti rinnovati o prorogati tra il 12 agosto ed il 31 ottobre 2018 20
Contratti stipulati a partire dal 1° novembre 2018 21
I contratti a termine nelle Pubbliche Amministrazioni e nella scuola statale 22
ESONERO PER FAVORIRE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE 24
MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO 26
DISPOSIZIONI PER FAVORIRE IL LAVORATORE NELL’AMBITO DELLE PRESTAZIONI OCCASIONALI 30
INDENNITA’ PER IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E PER L’OFFERTA CONCILIATIVA 32
Indennità per il licenziamento ingiustificato 33
L’indennità per l’offerta facoltativa di conciliazione 36
ASSUNZIONI PRESSO I CENTRI PER L’IMPIEGO 37
INTRODUZIONE
Il D.L. 12 luglio 2018, n. 87 , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 161 del 13 luglio 2018, è intervenuto, in maniera significativa, sulla disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla somministrazione a termine e sull’indennità risarcitoria in materia di licenziamenti illegittimi ed il Ministero del Lavoro, con circolare n. 17 del 31 ottobre 2018, ha fornito, unicamente sui contratti a termine e sulla somministrazione, i proprie orientamenti amministrativi i quali hanno raggiunto due risultati: hanno, da un lato, risolto, positivamente alcuni dubbi ma, dall’altro, ne hanno aggiunti diversi con interpretazioni più restrittive della norma legale destinate a creare ulteriori perplessità tra gli operatori.
Ovviamente, i chiarimenti adottati dalla Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali del Ministero, intervenuti con l’avallo dell’Ufficio Legislativo del Dicastero, offrono indirizzi uniformi anche alle articolazioni periferiche dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, cosa che, soprattutto per alcuni aspetti non chiariti a sufficienza, potrebbe comportare forti perplessità in sede di accertamento ispettivo.
Per quel che riguarda l’indennità risarcitoria correlata ai licenziamenti illegittimi, sta per calare la “scure” della Corte Costituzionale che, con un comunicato emanato il 26 settembre 2018, ha preannunciato che, con una sentenza che sarà depositata nel giro di poche settimane, sarà dichiarata la illegittimità dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 (, in quanto l’unico criterio risarcitorio, legato all’anzianità aziendale del lavoratore, risultacontrario “ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale”.
La legge di conversione, 9 agosto 2018, n. 96, in vigore dal 12 agosto, ha introdotto significative modificazioni sia agli articoli 19, 21, 28 e 34 del D.L.vo n. 81/2015 che all’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, che ad una serie di altri istituti: mi riferisco all’offerta conciliativa ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, alle modifiche relative alle prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017 , limitatamente al settore agricolo, a quello del turismo e agli Enti locali, all’ allungamento fino al 2020 dei benefici, già previsti dai commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani “under 35” che non hanno mai avuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ad alcune misure che concernono l’implementazione degli organici presso i centri per l’impiego ed alla eliminazione di qualsiasi limite massimo nella durata dei contratti a tempo determinato della scuola statale, ottenuta attraverso la cancellazione del comma 131 dell’art. 1 della legge n. 107/2015, operata dall’art. 4-bis.
Tra le modifiche introdotte ho fatto cenno anche all’innalzamento della indennità risarcitoria correlata all’offerta conciliativa facoltativa nei licenziamenti ex art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015: appare chiaro (ma ne parlerò a tempo debito) che la stessa, a fronte del nuovo criterio di determinazione dell’indennità risarcitoria ex art. 3, comma 1, perderà, nella sostanza, molto “appeal”, non risultando, assolutamente, conveniente, per il lavoratore. Come ben si può arguire da queste prime parole, il quadro di riferimento sui contratti a termine, sulla somministrazione e sui licenziamenti è profondamente cambiato negli ultimi mesi, per l’effetto combinato tra il
D.L. n. 87/2018 e la sentenza della Corte Costituzionale, al momento, soltanto preannunciata: il datore di lavoro che poteva assumere a tempo indeterminato, senza causale, per trentasei mesi e, poi, magari, trasformare il rapporto in contratto a tempo indeterminato, “sfruttando” anche le agevolazioni previste dalle disposizioni che si sono succedute negli anni recenti potendo, poi, risolvere il rapporto sulla base di un “costo certo” determinato dallo stesso Legislatore, non potrà più operare liberamente. Il contratto a termine e la somministrazione a tempo determinato, senza l’apposizione di alcuna condizione non possono oltrepassare la soglia dei dodici mesi e, in caso di licenziamento sarà il giudice, se adito, a determinare l’importo dell’indennità tra un minimo di sei ed un massimo di trentasei mensilità calcolate sulla base dell’ultima mensilità utile ai fini del calcolo del TFR.
L’esame che segue, tratterà i vari argomenti seguendo, l’articolato della legge di conversione n. 96 ed i chiarimenti amministrativi riportati nella circolare n. 17/2018.
CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO
Tornando ai discorsi relativi ai contratti a termine che rappresentano il punto centrale di questa riflessione, ricordo che, per effetto dell’art. 29 (non “toccato”) dalla riforma sono esclusi dal campo di applicazione di tutto il Capo III (e, quindi, anche dalle disposizioni del presente Decreto) una serie di rapporti che fanno riferimento:
a) Agli operai agricoli a tempo determinato la cui disciplina si trova all’interno del D.L.vo n. 375/1993;
b) Ai richiami in servizio dei volontari del Corpo dei Vigili del Fuoco;
c) Xx contratti a termine del personale con qualifica dirigenziale;
e) Xx contratti a termine del personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze ed al personale sanitario, anche dirigente, del Servizio Sanitario Nazionale;
f) Xx contratti a tempo determinato ex lege n. 240/2010;
g) Al personale artistico e tecnico delle Fondazioni musicali non si applicano i primi tre commi dell’art. 19 e l’art. 21, ma la Corte Europea di Giustizia, con sentenza del 25 ottobre 2018 (causa C/331/17) ha ritenuto non conforme alla Direttiva comunitaria sui contratti a termine la normativa italiana in argomento, in quanto non prevede almeno una delle tre condizioni previste dalla c.d. “clausola 5” (causali, durata massima o numero dei rinnovi) ed ha rinviato alla Corte di Appello di Roma (giudice remittente nel ricorso che vedeva coinvolto il Teatro dell’Opera di Roma a seguito di un ricorso in appello presentato da una tersicorea con più rapporti a termine “dislocati” su diversi anni) la decisione, ricordando che, in ogni caso, pur in assenza di una conversione automatica del rapporto a tempo indeterminato (perché il datore di lavoro è un Ente pubblico), occorre individuare una indennità di natura risarcitoria;
h) Al personale delle Pubbliche Amministrazione continua ad applicarsi l’art. 36 del D.L.vo n. 165/2001 e, per quanto riguarda il personale a termine della scuola statale (insegnanti, dipendenti amministrativi, A.T.A., viene, addirittura, tolto (art. 4-bis del D.L.vo n. 87/2018) il limite massimo dei trentasei mesi per il contratto a termine e per la somministrazione, rimasto invariato per tutto il resto del settore pubblico
Le novità del nuovo articolo 19 del Decreto Legislativo n. 81/2015
La lotta al precariato, obiettivo primario dichiarato dall’Esecutivo, parte con una profonda revisione dei contratti a tempo determinato che si concretizza sotto diversi parametri:
a) Aumento dell’aliquota contributiva in caso di rinnovo dopo il primo contratto pari allo 0,50%, progressivo (secondo l’indicazione fornita con la circolare n. 17/2018) cosa che, però, non riguarda i rapporti a tempo determinato del settore domestico, come chiarito con l’emendamento approvato nel corso della discussione alla Camera e confermato nella legge di conversione n. 96;
b) Diminuzione della durata massima complessiva riferita ai rapporti a termine, intesi anche in sommatoria, tra contratti a tempo determinato e somministrazione a termine per mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento;
c) Introduzioni delle causali, a partire dal tredicesimo mese di utilizzazione del lavoratore, sia che si superi la soglia dell’anno in virtù di un contratto iniziale, di una proroga o di un rinnovo (in quest’ultimo caso anche prima dei dodici mesi);
d) Ampliamento dei termini per la proposizione del ricorso giudiziario.
A tali misure, occorre aggiungerne altre che fanno riferimento al contratto di somministrazione a tempo determinato ove, peraltro, le modifiche introdotte con la legge n. 96 hanno, di molto, attenuato la rigidità dell’art. 2, all’indennità risarcitoria relativa ai licenziamenti illegittimi prevista dall’art. 3, comma 1 del D.L.vo n. 23/2015 che, per gli assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, nel limite massimo, rapportato all’anzianità aziendale, per le imprese dimensionate oltre le quindici unità, può arrivare fino a trentasei mensilità partendo da una base di sei (per quelle piccole, fermo restando il tetto massimo delle sei mensilità, la base di partenza viene innalzata a tre, come si evince dalla correlazione della nuova norma con il dettato dell’art. 9 del predetto decreto), all’aumento degli importi per l’offerta conciliativa ad accettazione del licenziamento, alle agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato per gli “under 35”, ed ai c.d. “PrestO” per il turismo, l’agricoltura e gli Enti locali. Ma, come detto, per l’indennità risarcitoria occorre tener presente i contenuti della sentenza della Consulta, annunciata il 26 settembre 2018 con un comunicato ed il cui deposito è annunciato come imminente. Probabilmente (ma questo è un giudizio del tutto personale), al di là di qualche aggiustamento utile per i contratti a termine (ad esempio, la durata massima), sarebbe stato meglio che la lotta al precariato si fosse indirizzata verso le false partite IVA, le collaborazioni autonome di dubbia “autonomia”, il lavoro nero e le false cooperative, i distacchi senza interesse dell’impresa distaccante, i contratti di rete “fasulli”, piuttosto che intervenire, in modo profondo e pesante, sui contratti a termine e sulla somministrazione ove sussistono forme di garanzia “ben radicate”.
L’introduzione delle ragioni giustificatrici ed il limite massimo dei ventiquattro mesi
Ma, andiamo con ordine.
Il nuovo comma 1 dell’art. 19 stabilisce che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato è consentita, senza l’obbligo della introduzione di alcuna causale, soltanto per un periodo di durata non superiore a dodici mesi.
Un termine di durata maggiore è, ovviamente, rispettando il limite massimo di ventiquattro mesi e con l’apposizione di una delle seguenti causali:
a) Esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori;
b) Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria. Con un chiarimento apparso “in extremis” nella versione finale del Decreto Legge, poi pubblicata in Gazzetta Ufficiale, e confermata nella legge n. 96, è stata risolta, con buon senso, la questione dei rapporti stagionali che rischiava di bloccare le “campagne stagionali” in corso. Afferma, infatti, il comma 01 del nuovo art. 21 del D.L.vo n. 81/2015 che i contratti stagionali possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle ragioni giustificatrici.
Quanto appena detto merita alcune riflessioni.
La prima riguarda la durata: il contratto a termine, fatte salve le diverse determinazioni della contrattazione collettiva (il comma 2, su questo punto, non è stato toccato come non è stata toccata la possibilità di stipulare alla scadenza del termine massimo un ulteriore contratto presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro), può durare fino a ventiquattro mesi ma l’assenza della causale riguarda, unicamente, il primo contratto a tempo determinato (fino a dodici mesi, magari raggiungibili con una proroga): una durata maggiore necessita di condizioni, come necessita di causale il rinnovo di un contratto a termine stipulato nell’arco temporale dei dodici mesi (perché si tratta di un secondo contratto). Quindi, tanto per fissare alcuni concetti: il termine si è ridotto a ventiquattro mesi ma le possibilità di deroga alla durata massima restano, seppur “mediate” da alcune specifiche procedure. La seconda riguarda le causali per le quali la norma, a differenza di altri istituti come la durata massima, non fornisce alcuna delega alla contrattazione collettiva.
L’introduzione di tali condizioni, riappare dopo la cancellazione di quelle (per la verità, abbastanza ampie) tecnico, produttive, organizzative e sostitutive previste dal D.L.vo n. 368/2001 le quali, anche (ma non solo) per la
loro genericità, erano state “portatrici” di un forte contenzioso giudiziale. Il D.L. n. 87/2018 le “rimette in campo”, riprendendo alcune condizioni già presenti nella legge n. 230/1962, con una fraseologia che richiama indirizzi giurisprudenziali espressi sotto la vigenza di quella norma.
La carenza di spazi riservata alla contrattazione collettiva (sottolineata dalla circolare n.17/2018), a differenza della impostazione opposta che si ricava dalla lettura del D.L.vo n. 81/2015, fa sì che l’unica possibilità di intervenire sul dettato normativo, sia riservata alla contrattazione territoriale od aziendale riservata alle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a condizione che l’accordo, efficace nei confronti di tutti i lavoratori sia sottoscritto sulla base di un criterio maggioritario e nel rispetto delle norme legali e degli accordi interconfederali vigenti, secondo la previsione contenuta nell’art. 8 del D.L. n. 138/2011 convertito, con modificazioni, nella legge n. 148. che prevede una serie di ipotesi sulle quali può esercitarsi il potere derogatorio: tra questi (comma 2, lettera c) c’è il contratto a termine.
Ciò sarà possibile a due condizioni che possono così sintetizzarsi:
a) Presenza di un “obiettivo di scopo”: essi sono individuati al comma 1 nella maggiore occupazione, nella emersione del lavoro irregolare, negli incrementi di competitività e di salario, negli investimenti e nell’avvio di nuove attività;
b) Rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali: ciò significa che l’eventuale accordo, derogatorio della legge, dovrà rispettare, “in primis”, la Direttiva Comunitaria 1999/70CE sui contratti a tempo determinato: questo, come ben evidenziato da parte della dottrina, potrebbe portare, ad esempio, all’abolizione delle condizioni o ad identificare una utilizzazione senza causale per un periodo superiore ai 12 mesi, giustificato, magari, nell’ottica “dell’obiettivo di scopo” della maggiore occupazione.
Chiusa questa breve parentesi, torno all’esame della prima causale fa riferimento a situazioni temporanee ed oggettive la cui natura sia estranea all’attività produttiva e ad esigenze “di sostituzione” (così parla un emendamento passato con la legge n. 96, che ha sostituito la parola originaria “sostitutive”) di altri lavoratori come nel caso delle sostituzioni per maternità, malattia, infortunio e ferie. Esse, non consentono di oltrepassare la soglia dei ventiquattro mesi, pena la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, anche in sommatoria con precedenti contratti, pur avvenuti in somministrazione, riferibili a mansioni espletate nel livello della stessa categoria legale di inquadramento. E qui, a mio avviso, resta sempre valido l’accorgimento di inserire nel contratto a termine, oltre alla specifica causale anche il riferimento al fatto che il rapporto cessa al traguardo dei ventiquattro mesi raggiungibili, si ripete, anche in sommatoria.
Si pone, a questo punto, una questione relativa alle sostituzioni per ferie che, senz’altro, rientrano nella casistica: il datore di lavoro che nella propria organizzazione dovrà utilizzare un lavoratore per un certo periodo in sostituzione di più lavoratori in possesso della stessa qualifica (si pensi, ad esempio, alla grande distribuzione nel periodo giugno-settembre) dovrà riportare i nominativi dei sostituti, oppure potrà parlare di “tout court” di esigenze sostitutive di altri lavoratori?
A mio avviso, si potranno anche omettere i nomi dei sostituti ma, nella lettera di assunzione (qualora si tratti di un rinnovo o di una proroga oltre la soglia dei dodici mesi) sarà necessario esplicitare, in modo esaustivo, la causale ed una serie di elementi di riferimento.
La circolare n. 17/2018 si sofferma anche su un contratto “acausale”, perché stipulato nei primi dodici mesi ma che, per la motivazione sottesa (ad esempio, sostituzione di una lavoratrice in maternità nelle aziende con un organico inferiore alle venti unità), possa fruire di benefici legali (riduzione del 50% dei contributi a carico del datore di lavoro per un massimo di dodici mesi): ebbene, il Ministero del Lavoro chiede che la “causale” sia esplicitata (cosa che, peraltro, la stragrande maggioranza dei datori di lavoro fa normalmente), dimenticando che è, tuttora, vigente il messaggio n. 4152 del 17 aprile 2014 dell’ l’INPS con il quale fu chiarito che il beneficio si poteva ottenere, senza l’esplicitazione della condizione, anche valorizzando l’elemento “qualifica 3” dell’UNIEMENS, con il previsto codice A.
Sempre restando all’interno della prima causale il D.L. n. 87/2018 parla di esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria dell’impresa: qui la questione, se si resta al puro dettato letterale, sembra farsi più complicata, in quanto sembrerebbe che, superando la soglia dei dodici mesi, il contratto possa, stipularsi soltanto per situazioni “straordinarie”, come ad esempio, la gestione di un progetto finalizzato o lo sviluppo di una nuova linea produttiva. Ovviamente, sarà sempre possibile ricorrere a tale causale in presenza di eventi meteorologici di una certa gravità ove, ad esempio, sarà necessario spalare la neve o a fatti (allagamenti, incendi, ecc.) che hanno, fortemente, inciso sulle strutture e sui beni aziendali.
L’altra causale fa riferimento a “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”. I tre requisiti, non presentando il testo alcuna congiunzione disgiuntiva, sembrano dover sussistere congiuntamente.
Se così fosse, la frase potrebbe essere foriera di contenziosi che attengono non soltanto alla temporaneità del contratto ma al fatto che l’incremento dell’attività debba essere “significativo”: ovviamente, in caso di lite, il parametro del giudice potrebbe essere diverso da quello del datore di lavoro (che fino a prova contraria, organizza il lavoro all’interno della propria struttura: quale è la percentuale della significatività? E, poi, come andrà valutato il riferimento agli “incrementi temporanei dell’attività ordinaria non programmabili”? Come verrà valutata, ad esempio, l’acquisizione di una commessa per la quale si è trattato per lungo tempo o come verrà valutato l’incremento, sempre, di una commessa ove, in corso d’opera, il cliente chiede un maggior ordinativo? O come sarà valutata nel settore commerciale l’assunzione di una addetta alle vendite che ha già alle spalle, più di dodici mesi di rapporto a termine con lo stesso datore, o che, si trova con un secondo contratto a tempo determinato “rinnovato”, per far fronte alle maggiori vendite dei “saldi” (il periodo rientra nella ordinaria attività d’impresa in quanto le date si conoscono dall’inizio dell’anno)?
Una delle ipotesi nella quale potrebbe essere richiamata quest’ultima condizione è quella di un’impresa che, per ristrutturazione, deve “svuotare” il magazzino di merce e ciò potrebbe portare ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, “a priori” dell’attività ordinaria (perché la necessità della ristrutturazione si è appalesata senza un congruo anticipo).
Alcuni esempi di utilizzazione dei contratti a termine con causale o meno possono essere fatte cercando di trovare una soluzione all’interno del rigido apparato normativo.
Ma, la circolare del Ministero del Lavoro n. 17/2018 ha fornito qualche indicazione circa il contenuto delle causali? La risposta è assolutamente negativa in quanto la Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali si è limitata, pedissequamente, a ripetere il dettato normativo, senza aggiungere alcunché (ma, allora, a che servono i chiarimenti amministrativi?).
Una prima domanda che potrebbe porsi riguarda il caso di un contratto a termine ove il datore, pur non essendovi tenuto, appone una condizione (ad esempio, esigenze sostitutive di un lavoratore in malattia): al rientro dello stesso, sempre restando all’interno dei dodici mesi, può prorogare lo stesso contratto senza l’apposizione della causale? A mio avviso la risposta è positiva, in quanto afferma la disposizione che nelle proroghe, l’apposizione della condizione è obbligatorio soltanto se si supera la soglia dei dodici mesi. Ovviamente, se si supera tale limite, il contratto può essere prorogato (complessivamente fino a quattro volte nell’arco temporale di ventiquattro mesi), ma sarà indispensabile apporre una condizione che potrà anche essere diversa da quella, eventualmente, messa in precedenza.
Detto questo, passo ora ad esaminare le conseguenze che possono verificarsi nel caso in cui la condizione manchi, pur in presenza di un obbligo legale di apposizione.
Se la causale verrà meno perché, ad esempio, il giudice non la riterrà sussistente anche per carenza di correlazioni specifiche, il risultato sarà uno soltanto: la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato che rappresenta, non dimentichiamolo, la forma comune del rapporto di lavoro subordinato.
A tal proposito, il comma 1-bis dell’art. 1, del D.L. n. 87/2018, inserito in sede di conversione afferma che nel caso in cui venga stipulato un contratto di durata superiore ai dodici mesi senza l’inserimento di alcuna causale, lo stesso si trasforma a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi: nella sostanza, si tratta di una conversione automatica che non necessita di particolari “passaggi”. Ovviamente, in presenza di
una tale situazione che dovesse essere conosciuta “in corso di contratto”, non sussistendo la possibilità di una utilizzazione a tempo indeterminato del rapporto, sembrerebbe conveniente per un datore, risolvere il rapporto prima dei dodici mesi (pagando, in caso di richiesta del lavoratore, la “penale” degli importi delle mensilità mancanti fino alla scadenza), piuttosto che la trasformazione automatica con tutte le conseguenze correlate.
Il superamento della soglia dei dodici mesi “senza causale” potrebbe, in qualche caso, avere la necessità di coordinarsi con il dettato dell’art. 22 (che non è cambiato): “fermi restando i limiti di durata massima dell’art. 19, se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato (ad esempio, dodici mesi), il datore di lavoro è tenuto a corrispondere una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione pari al 20% fino al decimo giorno successivo e al 40% per ciascun giorno ulteriore. Qualora il rapporto continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”. A mio avviso, questa disposizione è “speciale” rispetto alla norma generale del comma 1-.bis dell’art. 19, in quanto lo “sforamento” del termine (nell’esempio si è parlato di dodici mesi) non abbisogna della apposizione di alcuna causale ed è lo stesso Legislatore a stabilire la trasformazione a tempo indeterminato a partire dal superamento, a seconda dei casi, dei trenta o dei cinquanta giorni. Sul punto la circolare ministeriale n. 17/2018 tace, non ponendosi minimamente la questione.
Da quanto appena detto si possono, sommariamente, trarre alcune indicazioni relative agli errori da evitare ed al comportamento da tenere in caso di contenzioso:
a) La condizione da apporre al contratto a termine non deve, assolutamente, ripetere quanto già previsto dalla norma ma deve essere una esplicitazione della stessa, atteso che la mancanza di quest’ultima fa si che la stessa sia considerata generica e, quindi, inesistente. La causale, come affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 1522 del 27 gennaio 2016, deve indicare le circostanze precise si da rendere evidente il legame tra la durata e le esigenze temporanee che giustificano l’impiego del lavoratore;
b) La causale, una volta apposta, non può essere modificata (Cass., 23 novembre 2016, n. 23864);
c) La causale, seppur legittima (ed il discorso vale anche per la somministrazione a termine), va raccordata con le mansioni effettivamente svolte dall’interessato, come ricorda la Cassazione con la sentenza n. 5372 del 7 marzo 2018;
d) Il rispetto formale della causale, non esonera, il datore di lavoro, in caso di contenzioso giudiziale, dal dover dimostrare la sussistenza delle ragioni che hanno determinato l’assunzione temporanea del lavoratore (Cass., n. 208 del 15 gennaio 2015);
e) L’introduzione della causale postula, come detto, una specifica e puntuale indicazione della esigenza oggettiva prospettata: tutto questo anche in un’ottica di correlazione con le mansioni per il quale il lavoratore è stato effettivamente assunto in modo da verificare che lo stesso sia effettivamente adibito ai compiti che si deducono dalle esigenze aziendali. Tale principio si evince dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 22188 del 12 settembre 2018 emanata con riferimento alle condizioni previste dal D.L.vo n. 368/2001 ma che acquista una propria rilevanza anche alla luce delle causali reintrodotte con il D.L. n. 87/2018;
Tutto questo nel breve-lungo periodo potrebbe, non tanto favorire l’occupazione a tempo indeterminato, ma la “rotazione” di contratti a termine di durata non superiore a dodici mesi e, soprattutto, l’esternalizzazione attraverso appalti, anche ai limiti della legalità, il ricorso ad improbabili forme di collaborazione, peraltro sanzionate, in caso di controllo, dall’art. 2 del D.L.vo n. 81/2015 (ma qui saranno gli ispettori del lavoro che dovranno cercare di limitare e controllare il fenomeno). Al contempo, potrebbe essere accentuato il ricorso a terzisti ubicati all’estero la cui proprietà non è dell’impresa che importa in Italia e, che, quindi, non ha delocalizzato e che, di conseguenza, non ricadono nelle misure di recupero previste nell’art. 5 del D.L. n. 87/2018.
Le considerazioni sopra esposte necessitano, a mio avviso, di ulteriori riflessioni che comportano un breve esame su alcune criticità evidenti, atteso che la contrattazione collettiva non può introdurre eventuali condizioni
ulteriori rispetto a quelle legali.
Mi riferisco, ad esempio, alla difficile applicazione, in sede di rinnovo o di proroga oltre la soglia dei dodici mesi, delle causali (ad eccezione di quelle sostitutive) al settore edile, già di per se stesso, “martirizzato” da un numero abnorme di partite IVA ai limiti della regolarità. Come è noto, l’attività di costruzione si svolge per fasi progressive che necessitano di operai, anche specializzati, di competenze del tutto diverse: ed allora mi chiedo, come possono rientrare nelle ipotesi previste dalle lettere a) e b) del nuovo comma 1 dell’art. 19, atteso che le esigenze temporanee ed oggettive non sono estranee all’attività ordinaria o che le stesse, pur portando ad incrementi significativi e temporanei sono pur sempre programmabili? Ovviamente, in caso di primo contratto non c’è bisogno di apporre alcuna condizione, ma in presenza di un secondo contratto, magari a distanza di poco tempo (perché, ad esempio, l’azienda ha un altro cantiere “in progress”), occorre inserire una causale. Le soluzioni potrebbero essere diverse ma comunque non ottimali: assunzioni a tempo indeterminato con licenziamenti per fine lavoro (con possibili conseguenze di altra natura) o ricorso a “lavoratori autonomi con partita IVA”, con rischi per l’impresa, laddove, come avviene spesso, la prestazione assume tutte le caratteristiche della subordinazione.
Lo stesso discorso può essere fatto per altri settori: ad esempio, appare di difficile collocazione tra le causali previste, in caso di superamento della soglia dei dodici mesi ma, soprattutto, di rinnovo, l’assunzione di personale a termine nel trasporto aereo ove, probabilmente, una soluzione, potrebbe rinvenirsi nel fatto che determinate attività vengano considerate come “stagionali” a seguito di accordo collettivo e, come tali, esenti dalla apposizione di alcuna condizione per i rapporti a termine. Ovviamente, il discorso della stagionalità potrà essere fatto anche in altri settori, caratterizzati da situazioni particolari (si pensi ai patronati alle prese, in certi periodi dell’anno, con le dichiarazioni dei redditi, al commercio ed alla grande distribuzione che, pur in presenza di attività programmabili, presentano picchi di attività, o alle città che come previsto dall’art. 66 del CCNL del commercio, con accordi territoriali, potrebbero essere definite “turistiche”).
Ci sono, poi, delle “situazioni speciali” ove, in presenza della estrema difficoltà di applicare i termini massimi e le condizioni, ci si può appellare al concetto di “specialità”: mi riferisco, ad esempio, ai contratti a termine del personale addetto ai gruppi consiliari delle Provincie autonome ove un provvedimento “ad hoc” ne prevede una durata massima pari a quella del Consiglio o, anche, ai rapporti a termine del personale disabile, a seguito di convenzione ex art. 11 della legge n. 68/1999, per un massimo di dodici mesi, prorogabili per un uguale periodo e finalizzati al proficuo inserimento lavorativo: personalmente, ritengo che l’eventuale proroga possa essere esonerata dall’apposizione delle specifiche causali (che non sarebbero ricorrenti richiamate dall’art. 19), in quanto la ragione del contratto consiste, da un lato, nell’assolvimento di un obbligo di legge (copertura dell’aliquota carente) e, dall’altro, nella facilitazione dell’inserimento lavorativo.
Un altro caso “particolare”, rispetto al quale si auspica una riflessione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, riguarda il contratto a termine di durata di almeno tre mesi che il datore di lavoro, trovato con personale al lavoro “in nero”, deve assicurare se vuol pagare la c.d. “maxi sanzione”, nella misura minima a seguito di diffida: ebbene, qualora si tratti di primo contratto a tempo determinato con lo stesso datore, non c’è problema, in quanto la causale non è necessaria, ma nel caso in cui si fosse in presenza di un rinnovo di un rapporto a termine, siamo sicuri che potrebbe inserire una delle causali previste dal Legislatore?. Ovviamente, ci sarà modo e maniera per parlare di questa ipotesi che, forse, è residuale: se il datore non è in grado di apporre una causale valida, non potrà accedere al “trattamento sanzionatorio di favore” oppure, nel caso in cui dovesse apporla senza alcun supporto, rischierebbe una successiva contestazione da parte del lavoratore con riconduzione del contratto a tempo indeterminato (l’ispettore, in caso di contratto “formalmente” in regola, potrebbe comunque far accedere il trasgressore alla “sanzione agevolata”).
Per completezza di informazione ricordo che in materia di contratti a termine continua a sussistere la sanzione amministrativa (del tutto particolare per come fu pensata) prevista dall’art. 23, comma 4, applicata dagli ispettori del lavoro in caso di superamento della percentuale legale o contrattuale, secondo le modalità declinate dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18 del 30 luglio 2014. Tale sanzione, essendo, ex lege, esclusa qualsiasi trasformazione in contratto a tempo indeterminato e per la quale, quindi, non è invocabile, l’art. 28, comma
2, è l’unica che si applica in caso di “sforamento” della percentuale. Paradossalmente, in caso di “sforamento” della percentuale del 30% (in sommatoria tra contratti a termine e somministrazione) il prestatore inviato in missione a tempo determinato può chiedere la costituzione di un rapporto presso l’utilizzatore (art. 38 del D.L.vo
n. 81/2015), mentre tale possibilità è preclusa per il lavoratore a termine con il quale l’impresa ha “sforato” la percentuale del 20% o quella prevista dalla contrattazione collettiva, in quanto la specifica sanzione, pari al 20% o al 50% del costo complessivo del contratto a tempo determinato, va a finire all’Erario.
Il limite massimo dei ventiquattro mesi non riguarda i contratti di lavoro stagionali per i quali è rimasta invariata (comma 2 dell’art. 21) la previsione già contenuta, a suo tempo, nell’art. 5, comma 4 –ter del D.L.vo n. 368/2001: essi percorrono una strada parallela, destinata a non incontrarsi mai, con quella degli altri contratti a termine. Infatti, oltre alla non computabilità all’interno dei ventiquattro mesi intesi quale limite massimo, va ricordato che lo “stop and go” tra un rapporto e l’altro non trova applicazione e che l’esercizio del diritto di precedenza per un nuovo contratto, rafforzato attraverso l’informazione scritta contenuta nella lettera di assunzione, riguarda soltanto le ulteriori “campagne stagionali”: ricordo, nuovamente, che l’apposizione della causale non è richiesta. Ma, detto questo, torno ad esaminare l’art. 19 ed esattamente il comma 2, ove l’unica novità introdotta riguarda la sostituzione della parola “trentasei” con “ventiquattro”.
Tale limite massimo, tuttavia, può essere derogato sia dalla contrattazione collettiva (la vecchia norma che fa salve le intese sindacali non ha subito cambiamenti), anche aziendale, secondo la specifica offerta dall’art. 51 (v. tra l’altro, l’accordo del settore metalmeccanico ove la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione può arrivare al limite dei 44 mesi o anche quello dei chimici, tanto per restare in ambiti particolarmente importanti del nostro sistema industriale), che con l’ulteriore contratto stipulato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro per un massimo di dodici mesi. Il limite, autonomo, fissato dalla contrattazione collettiva resta, atteso che la nuova norma nulla di nuovo ha detto in ordine a tale autonomia che resta pienamente in vigore non essendo neanche stata limitata con l’inserimento di un “tetto massimo”. Tale chiarimento è stato fatto proprio anche dal Ministero del Lavoro che, con la circolare n. 17/2018, ha affermato che i contratti collettivi potranno continuare a prevedere una durata diversa, anche superiore, rispetto al nuovo limite massimo e che quelli stipulati prima del 14 luglio 2018 mantengono “la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo”. Per quel che concerne l’ulteriore contratto stipulato in sede di Ispettorato territoriale del Lavoro, senza entrare nel merito di quest’ultima possibilità, cosa che mi porterebbe lontano dall’argomento ricordo che:
a) Il Ministero del Lavoro ha fornito i propri chiarimenti con la circolare n. 13/2008 e che la circolare n. 17/2018 ha, nella sostanza, richiamato integralmente;
b) L’ulteriore contratto deve contenere una delle causali indicate nel nuovo art. 19;
c) L’ulteriore contratto può essere stipulato dalle parti soltanto al raggiungimento del limite massimo del precedente rapporto e la richiesta di incontro presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro può essere inoltrata in prossimità della scadenza;
d) L’ulteriore contratto “è uno solo”: ciò significa che se, ad esempio, la durata è di sei mesi, tale limite non può essere superato né con una proroga, né con un rinnovo;
e) L’ulteriore contratto non riguarda il personale con qualifica dirigenziale, la cui disciplina esula dal Capo III del D.L.vo n. 81/2015;
f) L’ulteriore contratto non è applicabile ai contratti stagionali che, come detto, hanno una disciplina “parallela” rispetto agli ordinari contratti a termine;
g) L’assistenza del lavoratore da parte di una organizzazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, non è più obbligatoria (ciò era previsto nel D.L.vo n. 368/2001);
h) La firma apposta dal funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro non ha alcuna funzione certificatoria del contratto, in quanto per ottenere tale risultato occorre seguire la specifica procedura avanti agli organi a ciò deputati, secondo la previsione contenuta negli articoli 75 e seguenti del D.L.vo n. 276/2003. Il funzionario ha il compito di verificare la correttezza formale del contenuto contrattuale e la “genuinità” del consenso espresso dal lavoratore al momento della sottoscrizione.
La contrattazione collettiva (penso, ad esempio, al contratto della gomma plastica) può ben prevedere, avendo fissato, sotto il precedente regime normativo, un tetto, in sommatoria, più ampio pari a quarantotto mesi, anche in sommatoria, tra contratto a termine e somministrazione) l’esclusione dell’ulteriore contratto presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro, in quanto si ritiene che tale termine ulteriore venga “inglobato” in quello maggiore fissato dalla pattuizione tra le parti sociali.
C’è, tuttavia, a mio avviso, una riflessione non secondaria da effettuare: continua ad avere senso un periodo più lungo dei ventiquattro mesi, se tale traguardo, con la normativa attuale che prevede causali di difficile utilizzazione (ad eccezione delle condizioni sostitutive), appare, sostanzialmente, difficilmente raggiungibile?
Ma, la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione (riferibili a rapporti con mansioni che sono individuate nello stesso livello della categoria legale di inquadramento, ai fini del raggiungimento dei ventiquattro mesi, come va effettuata?
La circolare del Ministero del Lavoro n. 18/2012, prendendo lo spunto dal fatto che l’obbligo fu introdotto con la legge n. 92/2012, chiarì che i rapporti di somministrazione dovessero essere calcolati a partire dal 18 luglio del 2012, data di entrata in vigore della norma: con la circolare n. 17/2018 il Ministero del Lavoro cambia “regime interpretativo” ed afferma, al punto 2.1., ultimo periodo, che nel computo dei ventiquattro mesi si calcolano tutti “i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, ivi compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma (14 luglio 2018). Sul punto appare opportuno ricordare anche che, alla luce del termine massimo dei ventiquattro mesi ricordato dalla circolare n. 17/2018, non appare più possibile seguire un’altra xxxxxx xxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx x. 00/0000 xxx, tra molti dubbi, prevedeva la possibilità, una volta raggiunto il tetto massimo dei trentasei mesi, di continuare ad utilizzare il lavoratore attraverso missioni in somministrazione a tempo determinato.
Nel computo non rientrano i periodi trascorsi, anche a termine, con il lavoro intermittente, le prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, i “vecchi voucher” ex art. 70 del D.L.vo n. 276/2003 ed ex art. 48 del D.L.vo n. 81/2015, i periodi, eventuali, legati ad un rapporto a tempo indeterminato o ad un rapporto di apprendistato, il contratto di inserimento, ora abrogato ed i contratti a termine per i lavoratori in mobilità (art. 29, comma 1, lettera a, del D.L.vo n. 81/2015), per i quali, la specifica normativa sui contratti a tempo determinato trova (e si potrebbe dire anche “trovava”, attesa la quasi totale estinzione degli stessi) applicazione unicamente per il principio di non discriminazione (art. 25) e per il computo dei rapporti a termine (art. 27): ritengo tale interpretazione corretta pur se la nota ministeriale n. 17/2018 nulla afferma sull’argomento.
La dizione operata dal Legislatore ed il fatto che le note amministrative del Dicastero del Lavoro intervenute in passato (circolari n. 13/2008, n. 18/2012, n. 18/2014, nonché la n. 17/2018) nulla dicano sull’argomento, induce a ritenere che non sono assolutamente sommabili tra di loro periodi con contratti a termine lavorati alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte dello stesso gruppo. Il discorso può presentarsi alquanto complesso e delicato in quanto in alcune ipotesi la pluralità di aziende collegate (con un unico centro organizzativo e direzionale) non coincide con la nozione giuridica di “gruppo di imprese”, come dimostrato (sia pure ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970) dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14553 del 17 agosto 2012.
Ovviamente, si può porre il problema di un’impresa che, per effetto di fusioni ed incorporazioni abbia, giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di aziende prima “viventi”: non è possibile trovare una risposta di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere che, in quest’ultimo caso, possa operare la sommatoria dei contratti, cosa che, sicuramente si verifica laddove interviene l’art. 2112 c.c. con la cessione di azienda o ramo di essa.
Tornando all’esame del provvedimento governativo occorre rimarcare come il comma 4 dell’art. 19 sia stato riscritto con alcuni specifici cambiamenti.
Il contratto, con la sola eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a dodici giorni, deve risultare da atto scritto: in caso contrario, l’apposizione del termine non ha effetto. Rispetto al vecchio testo, è stata espunta la possibilità di provare l’esistenza del termine documentandolo con qualunque altro riferimento diretto od
indiretto: la relazione tecnica, allegata al Decreto, ha giustificato tale modifica con la necessità di rendere “più agevole l’interpretazione estensiva della norma”. A mio avviso, poco cambia rispetto al passato nel senso che, senza il termine, il contratto viene inficiato alla radice, ed il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio, a meno che non si tratti di situazioni ove, oggettivamente, è impossibile stabilire la data esatta del rientro, come nel caso delle sostituzioni per maternità o per malattia, cosa ammessa dalla stessa circolare n. 17/2018.
La forma scritta del contratto riguarda anche i rapporti legati alle attività stagionali, per le quali lo stesso Legislatore ha stabilito ipotesi diverse sia per quel che concerne la non necessità dello “stacco” tra un contratto e l’altro, che per l’esclusione dal computo massimo dei ventiquattro mesi che, infine, per i termini temporali per l’esercizio del diritto di precedenza per un successivo rapporto stagionale.
L’applicazione della disciplina relativa al contratti a termine per attività stagionali non può prescindere da un esame, sia pur breve, delle disposizioni, anche di natura pattizia che hanno trattato, nel tempo la materia, sottolineando, peraltro, che l’art. 19, comma 2, parlando delle proroghe e dei rinnovi, afferma che la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine ove non sia stato rispettato lo stacco non trova applicazione ai contratti stagionali ove le attività stagionali saranno individuate da un D.M. del Ministro del Lavoro e dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Con la stessa disposizione, si afferma la “validità a tempo” del DPR n. 1525/1963 (che contiene attività alquanto desuete) che resta in vigore fino all’entrata in vigore del Decreto Ministeriale (sono trascorsi oltre tre anni dall’entrata in vigore del D.L.vo n. 81/2015 e non è successo nulla).
Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 42 del 1° agosto 2002, affermò che non esiste alcuna predeterminazione alla durata dei contratti (il riferimento era alla voce n. 48 del DPR n. 1525/1963 – attività esercitate da aziende turistiche, con un periodo di inattività non inferiore a settanta giorni continuativi o a centoventi giorni non continuativi -), essendo la stessa una variabile strettamente correlata alle esigenze produttive del datore di lavoro, attesa anche la nota dell’INPS espressa con la circolare n. 36/2003 con la quale si ribadiva l’ammissibilità, in via generale, del contratto a termine, strettamente riferito alle esigenze aziendali, supportate dalle motivazioni datoriali. Va, inoltre, ricordato come la contrattazione collettiva nazionale (ora, il Legislatore delegato, amplia tale potere anche a quella aziendale) sia andata oltre il concetto di mera stagionalità (si pensi al settore turistico che, il 30 aprile 2015 ha sottoscritto un ulteriore avviso comune sulla stagionalità, firmato da Federalberghi, Faita, CGIL, CISL e UIL di categoria), tale da ricomprendere quelle imprese che non operano soltanto in un determinato periodo, ma anche durante tutto l’anno e che si trovano ad affrontare problemi legati ad incrementi dell’attività, secondo un indirizzo, un po’ datato del Ministero del Lavoro, espresso nel lontano 1997.
Il “normale” contratto a termine e quello per attività stagionali sono, in linea di massima, destinati a non incontrarsi mai come una sorta di “binari paralleli”: può succedere, tuttavia, che un lavoratore già assunto per una “campagna stagionale” venga, poi, preso in forza, successivamente, per un contratto a tempo determinato di “primo tipo”. In questo caso, a mio avviso, occorre tener presenti alcune questioni:
a) Le due contabilità vanno tenute separate nel senso che i mesi trascorsi alle dipendenze come lavoratore stagionale non rientrano nel calcolo dei ventiquattro mesi previsto dall’art. 19;
b) Tra il contratto a termine stagionale e quello ex art. 19 occorre prevedere il periodo di stacco, atteso che si tratta pur sempre di due contratti a termine;
c) Il contratto ex art. 19 segue le normali regole per cui, trattandosi di un rinnovo (sia pure di natura soggettiva e non di mansioni) occorrerà mettere una condizione che faccia riferimento alle specifiche causali previste dal Legislatore.
L’art. 19 comma 4, nel testo rinnovato dal D.L. n. 87/2018 ribadisce l’obbligo, in carico al datore di lavoro, di consegnare al dipendente copia dell’atto scritto entro i cinque giorni lavorativi, successivi all’assunzione. La mancata consegna, di per se stessa, non appare gravata di sanzione ma, a mio avviso, rientra negli obblighi previsti dall’art. 4-bis, primo periodo, comma 2, del D.L.vo n. 181/2000, ove si afferma che all’atto della instaurazione
del rapporto, prima dell’inizio dell’attività, i datori di lavoro privati sono tenuti a consegnare ai lavoratori copia della comunicazione di instaurazione del rapporto. Tale obbligo si ritiene assolto se il datore consegna, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia del contratto individuale che contenga tutte le informazioni richieste dal D.L.vo n. 152/1997: la violazione viene punita con una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1.500 euro. L’onere citato nel D.L. n. 87/2018 appare, nella sostanza, una duplicazione burocratica che, forse, si poteva evitare.
Questo è solo uno degli impegni amministrativi che gravano sul datore di lavoro e strettamente correlati alla stipula del contratto a termine e forse, questa è, l’occasione per ricapitolarli tutti:
a) Comunicazione di assunzione: va effettuata, telematicamente, al centro per l’impiego almeno nel giorno antecedente l’effettivo inizio del rapporto. Per i datori di lavoro pubblici (art. 1, comma 2 del D.L.vo n. 165/2001 c’è più tempo, nel senso che l’onere della comunicazione può essere assolto, come, del resto per le agenzie di somministrazione che assumono lavoratori a termine da indirizzare alle aziende utilizzatrici, entro il giorno venti del mese successivo a quello in cui si è verificata l’instaurazione del rapporto (per tali soggetti, il termine riguarda anche le cessazioni e le proroghe). La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro sanabile, nella misura minima, attraverso l’istituto della c.d. “diffida obbligatoria”;
b) Trasformazione del rapporto: la comunicazione telematica va inviata entro i cinque giorni successivi al verificarsi dell’evento: la violazione segue le regole sanzionatorie appena riportate;
c) Comunicazione di cessazione: se la data è stata già indicata nella comunicazione di assunzione, l’onere si intende assolto (in caso contrario tutto va fatto entro i cinque giorni successivi e l’apparato sanzionatorio è identico ai precedenti casi);
d) Scritturazioni sul Libro Unico del Lavoro: vanno effettuate entro la fine del mese successivo cui le stesse si riferiscono.
Il nuovo comma 4 prosegue, ricordando che in caso di rinnovo (quindi di un nuovo contratto a tempo determinato) l’atto scritto deve contenere la specificazione di una delle causali previste al comma 1 (cosa che non vale per i “contratti stagionali”): qualora, invece, ci si trovi di fronte ad una proroga (come vedremo, nei ventiquattro mesi possono essere soltanto quattro e non cinque) l’individuazione della condizione alla base del contratto è necessaria soltanto se il termine complessivo supera i dodici mesi.
Da quanto appena detto si evince, chiaramente, che un primo contratto a termine di sei mesi, può essere restare senza causale se, con la proroga, non supera la soglia sopra indicata, mentre se il primo cessa e, poi, se ne stipula un altro, è necessaria la causale pur se si dovesse restare, in sommatoria con il precedente contratto, entro il tetto dei dodici mesi.
In ordine a tale questione la circolare n. 17/2018 afferma che la proroga “presuppone che restino invariate le ragioni che avevano determinato inizialmente l’assunzione a termine….e che non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto”. Tale concetto è espresso dopo l’affermazione di principio secondo la quale le proroghe sono libere all’interno dell’arco temporale di dodici mesi: ora tornando alla “frase virgolettata” si può dire che tale obbligo di “coerenza” espresso dal Ministero del Lavoro non può valere nel caso in cui la proroga intervenga (sempre all’interno di tale arco temporale) su un contratto nato come “acausale”).
Sempre il comma 4 dell’art. 19 riconferma che per i rapporti di breve durata non superiori a dodici giorni non è necessaria la forma scritta.
La prova di queste situazioni, infatti, non è soggetta a prescrizioni formali e, in caso di giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio (Cass., 8 luglio 1995, n. 7507).
Il periodo va inteso, a mio avviso, come dodici giorni lavorativi, in quanto appare plausibile che il parametro di
riferimento sia rappresentato dalle “due settimane”, comprensive dei due giorni di riposo ex art. 9 del D.L.vo n. 66/2003: sul punto, la circolare n. 17/2015 non ha sentito la necessità di chiarire la questione controversa.
Alcune considerazioni si possono trarre dal disposto normativo:
a) La mancanza della forma scritta è un fatto puramente formale, atteso che sul datore di lavoro grava sempre l’obbligo della comunicazione di assunzione anticipata telematica al centro per l’impiego;
b) Il contratto rientra nella percentuale legale del 20% ed in quella prevista dalla contrattazione collettiva (a meno che non vi sia stata una esplicita esclusione);
c) Il venir meno della occasionalità, un tempo prevista dal D.L.vo n. 368/2001, consente ai datori di lavoro di usufruire, più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei dodici giorni, ma, il nuovo dettato normativo (trattandosi di rinnovo pur se la “forma” resta orale) chiede che il rapporto sia supportato da una causale (almeno questa appare la lettura coordinata con le nuove disposizioni);
d) Non è consentita l’ utilizzazione di istituti che consentano il superamento di tale limite (sforamento del termine, proroga, ecc.).
Xxx contratti non a tempo indeterminato (art. 2, commi 28 e 29 della legge n. 92/2012), compresi quelli stipulati dalle c.d. “star-up innovative” e quelli “orali” fino a dodici giorni, si applica un contributo addizionale, a carico dei datori di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, il cui scopo principale è, oggi, quello di contribuire al finanziamento della NASPI. Ora, con la previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 3 del D.L. n. 87/2018, il contributo dell’1,40% viene aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato: tale regola vale anche per la somministrazione. Per effetto di un emendamento approvato ed inserito all’interno del predetto comma 2, il contributo addizionale non si applica ai contratti di lavoro domestico. La circolare n. 17/2018 (punto 1.4) ha chiarito che lo 0,50% ha natura progressiva cosa che, a mio avviso, renderà particolarmente penalizzante i contratti stagionali frutto della contrattazione collettiva e dove il rapporto non si trasforma, mai, in un contratto a tempo indeterminato e dove lo stesso diritto di precedenza ex art. 24 del D.L.vo n. 81/2015 offre la possibilità soltanto di un ulteriore contratto stagionale.
Il contributo addizionale non si applica:
a) Ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
b) Ai lavoratori assunti a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali previste dal D.P.R. n. 1525/1963;
c) Xxxx apprendisti che, però, stipulano, sin dall’inizio, un contratto a tempo indeterminato, fatta eccezione per quelli stagionali disciplinati contrattualmente, come, ad esempio, nel settore del turismo;
d) Ai lavoratori dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni, individuate ex art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001.
Nell’intento di favorire la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, il Legislatore (art. 2, comma 30, come interpretato dall’art. 1, comma 135, della legge n. 147/2013) ha previsto la possibilità di una restituzione della contribuzione aggiuntiva (cosa che dovrebbe riguardare non soltanto l’1,40% ma anche lo 0,50% progressivo, legato ai rinnovi). Dal 1° gennaio 2014 essa è totale avviene nel caso in cui, alla scadenza di un contratto a termine, il rapporto viene trasformato a tempo indeterminato. C’è, poi, un’altra ipotesi che non è “legata” alla immediata trasformazione: è quella secondo la quale la riassunzione con contratto a tempo indeterminato del lavoratore avvenga entro il termine massimo di sei mesi dalla cessazione del precedente rapporto. In questo caso, però, la restituzione degli ultimi sei mesi non è “piena” ma vanno “defalcate” le mensilità trascorse dalla cessazione del precedente rapporto a termine, come chiaramente affermato dall’INPS nella circolare n. 15/2014. La trasformazione (v. messaggio INPS n. 4152 del 17 aprile 2014) può avvenire, qualora ne ricorrano le condizioni, anche con un rapporto di apprendistato: a tal proposito, l’INPS richiama il contenuto dell’interpello del Ministero
del Lavoro n. 8/2007 il quale ritiene attivabile la tipologia pur in presenza di precedenti rapporti a termine o di somministrazione la cui durata non abbia superato la metà del periodo formativo dell’apprendistato (in sostanza, diciotto mesi per quello professionalizzante, con esclusione delle qualifiche riferite al settore artigiano).
Per completezza di informazione, ricordo che la trasformazione a tempo indeterminato di un contratto a termine va vista anche nella logica incentivante dei commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 ove il giovane, almeno per il 2018, non deve aver varcato la soglia dei trentacinque anni. Tale limite ultimo, in vigore per il solo 2018, è stato esteso, per effetto dell’art. 1-bis, inserito in sede di conversione, agli anni 2019 e 2020: le modalità operative sono rimandate ad un Decreto “concertato” tra i Ministri del Lavoro e dell’Economia, per cui non resta che attendere.
I contenuti dell’art. 21 in ordine alle proroghe ed ai rinnovi
L’istituto delle proroghe e dei rinnovi è stato, profondamente, ritoccato.
L’esame che si intende effettuare riguarda non soltanto l’istituto ma anche le possibili correlazioni con altri “passaggi normativi” non toccati dalla legge di riforma.
Ma, andiamo con ordine.
Prima del comma 1, è stato inserito il comma 01 ove si stabilisce che il contratto a termine può essere rinnovato soltanto in presenza di una delle causali individuate al comma 1 dell’art. 19 e che, qualora ci si trovi di fronte al primo rapporto, questo può essere prorogato liberamente all’interno del periodo massimo (dodici mesi) mentre, se si supera tale soglia, soltanto in presenza di una esigenza specifica contemplata dalla causale: tale regola, non si applica ai contratti stagionali.
La violazione di tali precetti comporta (è questo un chiarimento esplicito inserito nella legge n. 96) la trasformazione del contratto a tempo indeterminato.
Ora, il numero massimo delle proroghe viene stabilito in quattro nell’ambito dei ventiquattro mesi e a prescindere dal numero dei rinnovi contrattuali che, comunque, è bene ripeterlo, a partire dal secondo, debbono essere supportati da una causale, pur se si è all’interno dei primi dodici mesi.
Ma, cosa succede se il numero delle proroghe, nell’arco temporale prefissato, risulta superiore a quattro? Il D.L.vo n. 81/2015, come riformato dal D.L. n. 87/2018, afferma che il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della quinta proroga (e non, quindi, dall’inizio).
Il consenso del lavoratore è sempre richiesto: qui nulla è cambiato rispetto al passato e la stessa Giurisprudenza ha convenuto, fin dalla vigenza della legge n. 230/1962, che lo stesso potesse essere manifestato in forma orale (Cass., n. 6305/1988; Cass., n. 4360/1986; Cass., n. 3517/1981), o ravvisabile per “fatti concludenti” dalla prosecuzione dell’attività lavorativa (Cass. n. 4939/1990) e potendo essere fornito dal prestatore, anche in via preventiva, al momento della stipula iniziale (Cass., n. 6305/1988).
Si pone, poi, un’altra questione relativa alla proroga, cosa che, con il vecchio testo, era di secondaria importanza: ora, tranne il caso dei primi dodici mesi, anche la proroga va motivata con una causale. Quindi, potrebbero tornare in auge le conclusioni alle quali, in presenza delle condizioni previste al comma 1 dell’art. 19, giunse la Giurisprudenza (Cass., n. 10140/2005; Cass., n. 9993/2008) che l’aveva riferita alla “dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale”. Ciò stava a significare che attraverso la proroga il dipendente non poteva essere adibito ad altre attività non correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato: ovviamente, la proroga, ferme restando le mansioni relative al livello della categoria legale di inquadramento, potrebbe riferirsi ad una causale (ad esempio, ragioni “di sostituzione”) diversa da quella originaria (ad esempio, incrementi temporanei e significativi) ma secondo il Dicastero del Lavoro (circolare n. 17/2018) se si modifica la motivazione (forse si voleva dire la “causale”) si è in presenza di un rinnovo “pur se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto”. A me sembra che tale interpretazione sia oltremodo restrittiva.
Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a cinque anni. La giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il limite massimo) era possibile anche
senza necessità di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 1274; Cass., 17 agosto 1998, n. 8069).
L’istituto della proroga non trova applicazione (art. 29, comma 4), per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale.
L’art. 21, comma 3 afferma, poi, che i limiti relativi alle proroghe ed ai rinnovi non si applicano alle imprese c.d. “start up innovative” previste dall’art. 25 della legge n. 221/2012 per il periodo di quattro anni dalla costituzione o per il più limitato arco temporale previsto dal comma 3 dell’art. 25 per le società già costituite.
C’è, poi, il problema delle proroghe nei contratti stagionali: la norma inserita nell’art. 21 ha una valenza generale che, però, poco si attaglia ai rapporti la cui causale è la stagionalità. Probabilmente, la questione è meno pressante che in altri settori potendosi, per legge, “legare” un contratto all’altro senza soluzione di continuità, ma questo significa, da un punto di vista prettamente operativo, una maggiore difficoltà burocratica (occorre stipulare un nuovo contratto, sono necessari altri adempimenti, ecc.). Nel settore alimentare, forzando un po’ la disposizione legale, il 7 novembre 2014 le associazioni datoriali aderenti a Confindustria e quelle nazionali di categoria di CGIL, CISL e UIL hanno stabilito che nei rapporti stagionali del settore ogni singolo contratto, la cui durata massima è di otto mesi, può essere prorogato fino a quattro volte.
La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo, ma le festività che “cadono” nei cinque giorni si calcolano) al centro per l’impiego, competente per territorio o presso il quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la sezione 4 del modello “Unilav”. L’inottemperanza al precetto (mancata comunicazione o ritardo) è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro, onorabile con il minimo per effetto della c.d. “diffida obbligatoria”.
Termine per l’impugnazione e nuova disciplina transitoria
Il D.L. n. 87/2018 (art. 1, comma 1, lettera c) ha introdotto, altresì, un ulteriore modifica di natura processualistica che va ad inserirsi nel comma 1 dell’art. 28: l’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza, entro centottanta giorni (prima erano centoventi) dalla sua comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale: essa può avvenire, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale: ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Ovviamente, l’allungamento dei termini per proporre il ricorso giudiziale dovrebbe consentire, in un’ottica di prevedibile aumento delle liti legate, soprattutto, all’accertamento della veridicità delle causali, situazioni conciliative pregiudiziali tra lavoratore (magari assistito da un legale) e l’azienda, con un sicuro aumento dei costi indiretti legati alla soluzione risarcitoria finalizzata ad evitare l’intervento della Magistratura.
A tal proposito ricordo anche il contenuto del comma 2 dell’art. 28: In caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato il giudice condanna il datore al risarcimento del danno, stabilendo una indennità onnicomprensiva in una misura compresa tra un minimo, rappresentato da 2,5 mensilità ad un massimo di 12, calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. L’importo viene determinato alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (anzianità aziendale, contesto economico, numero dei dipendenti, comportamento avuto dalle parti, ecc.). L’indennità “copre” per intero il pregiudizio subito, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive concernenti il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia giudiziale con la quale è stata ordinata la ricostituzione del rapporto di lavoro. Tale indennità viene ridotta alla metà se ci si trova in presenza (comma 3) di contratti collettivi che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.
Per completezza di informazione, parlando della nullità del contratto a termine che porta alla conversione del rapporto, mi sembra coerente richiamare anche divieti previsti dall’art. 20 del D.L.vo n. 81/2015 che, se violati, comportano la costituzione del rapporto a tempo indeterminato sin dall’inizio. Essi sono:
a) La sostituzione di lavoratori in sciopero. La ragione appare evidente: si tratta di evitare, attraverso l’uso di tale tipologia contrattuale, una forma di contrasto all’esercizio del diritto costituzionale, attraverso forme di crumiraggio esterno. E’ appena il caso di ricordare come tale divieto sussista anche per altri contratti come quello intermittente o quello di somministrazione;
b) Il divieto di assunzione in sostituzione di lavoratori licenziati al termine delle procedure collettive di riduzione di personale, previste dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991. Fatta salva l’eventualità di un termine diverso previsto da accordi sindacali, esso ha una durata limitata nel tempo e nelle mansioni, nel senso che l’arco temporale di riferimento è di sei mesi dall’ultimo licenziamento ed, inoltre, il nuovo contratto a tempo determinato non deve riguardare soggetti che svolgevano la medesima mansione di quelli oggetto di recesso. Fuori da questa ipotesi rimangono i contratti a contenuto sostitutivo, quelli concernenti i lavoratori in mobilità, stipulati ex art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991, e quelli che hanno una durata iniziale non superiore a tre mesi. La disposizione merita alcune riflessioni. Qui, per le imprese interessate, c’è una perfetta assimilazione con quanto, affermava l’art. 8, comma 1, della legge
n. 223/1991(ora abrogato) e, prima ancora l’art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949, dopo le modifiche apportate dal D.L.vo n. 297/2002: il diritto di precedenza alla riassunzione, valevole anche con la tipologia del contratto a termine, dura sei mesi ed il rispetto dello stesso viene richiesta dall’INPS (ovviamente, insieme ad altri requisiti) qualora si intendano richiedere agevolazioni per altre assunzioni (art. 31 del D.L.vo n. 150/2015). L’esercizio di tale diritto, differenza di quello previsto per i lavoratori con contratto a termine di durata superiore a sei mesi (comprensivi delle proroghe e dei rinnovi) o dei contratti stagionali, non necessita di un comportamento attivo del lavoratore finalizzato alla esternazione della propria volontà finalizzata a “godere” del beneficio, ma è legata, esclusivamente, al decorso temporale. C’è, poi, il discorso che riguarda le unità produttive delle imprese ove è applicabile la procedura di mobilità. L’art. 24 della legge n. 223/1991 stabilisce che le disposizioni in materia di riduzione di personale previste dagli articoli 4 e 5 si applicano alle imprese con più di quindici dipendenti le quali, in conseguenza di una riduzione od una trasformazione dell’attività intendano effettuare, nell’arco di centoventi giorni, almeno cinque licenziamenti comunque riconducibili alla medesima trasformazione o riduzione. Il riferimento ai cinque recessi riguarda, ovviamente, il momento di apertura della procedura, potendo la stessa concludersi con un numero inferiore di risoluzione dei rapporti (il Ministero del Lavoro, ha ritenuto, da un punto di vista teorico, come collettivo anche un singolo licenziamento, purchè avvenuto al termine di una procedura che ne prevedeva almeno cinque nella fase iniziale). È del tutto ovvio che, pur in mancanza di richiamo specifico, la disposizione si applichi anche alle imprese sottodimensionate alle sedici unità, atteso che, il diritto di precedenza (di sei mesi) previsto, in via generale, dal nuovo art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949, trova applicazione anche nei confronti di tali datori di lavoro che debbono, necessariamente, ricorrere a licenziamenti plurimi per giustificato motivo oggettivo. Il termine di sei mesi non vale se l’impresa ricorre a lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (che, ormai, peraltro, è quasi esaurita): in questo caso, potrebbe essere soddisfatto il diritto di precedenza anche di un lavoratore licenziato dalla stessa impresa. L’ultima eccezione contemplata fa riferimento al fatto che il contratto a termine abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi: ovviamente, ricorrendone le condizioni, lo stesso potrebbe arrivare fino a due anni, utilizzando anche l’istituto delle quattro proroghe nell’arco dei ventiquattro mesi;
c) Il divieto di assunzione presso unità produttive interessate da cassa integrazione guadagni o da contratti di solidarietà difensiva che riguardi lavoratori adibiti a mansioni cui si riferisce il contratto a temine. La norma non fa alcuna distinzione tra intervento ordinario o straordinario e, senz’altro, fa salve le eventuali assunzioni a tempo determinato che riguardino lavoratori con mansioni del tutto diverse. E’
opportuno sottolineare come tale previsione non preveda alcuna forma di attenuazione o di disciplina diversa come avviene allorquando il Legislatore apre la possibilità a soluzioni diverse, offrendo tale possibilità alla pattuizione collettiva, anche aziendale, fatta salva l’ipotesi nella quale sia operante il contratto di solidarietà difensiva ex art. 21 del D.L.vo n. 148/2015;
d) Le imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.L.vo n. 81/2008, e successive modificazioni ed integrazioni. La disposizione, è contenuta anche nella previsione di altre tipologie come il “job on call” e la somministrazione: essa risponde alla necessità, particolarmente più necessaria in tutte quelle forme che prevedono lavoro flessibile, del rispetto delle norme di sicurezza, cosa che comporta per il datore di lavoro che assume a tempo determinato una adeguata formazione ed informazione alfine di prevenire i rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro. C’è da ricordare, tuttavia, che per effetto delle novità introdotte in tema di DVR dall’art. 13 della legge n. 161/2014, che ha modificato l’art. 28 del D.L.vo n. 81/2008, ci potrebbe essere qualche difficoltà maggiore per le imprese di nuova costituzione che intendessero assumere con contratto a tempo determinato (le nuove attività sono espressamente favorite sia nella previsione dell’art. 23, comma 2, lettera a del D.L.vo n. 81/2015, che in molte determinazioni individuate dai CCNL). Infatti mentre prima la valutazione dei rischi andava effettuata prima dell’inizio dell’attività ma la documentazione poteva essere redatta nei 90 giorni successivi, ora, tutto (valutazione e documentazione) va fatto prima.
Il divieto di stipulare contratti a termine in presenza di situazioni come quelle evidenziate nell’art. 20, fa sì che, in caso di controllo, sia lo stesso ispettore del lavoro a stabilire che il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato sin dall’inizio, pur in presenza di una condizione apposta al contratto che, in via teorica, possa farlo ritenere legittimo. Ovviamente, l’intervento dell’organo di vigilanza, finalizzato alla riconduzione a tempo indeterminato del contratto (che, non dimentichiamolo, è la forma comune del rapporto) può avvenire anche in altri casi come nel contratto a termine stipulato oralmente e non in forma scritta (ad eccezione di quello fino a dodici giorni lavorativi) o anche allorquando viene superata, senza causale, la soglia dei dodici mesi ove il rapporto, ex lege, si considera a tempo indeterminato a partire dalla data dello sforamento della durata massima ove è possibile non mettere la condizione.
Parimenti, ritengo, invece, che l’ispettore non possa discettare sulla genuinità della causale, con la conseguente conversione del rapporto: tale compito, come recita l’art. 28, comma 2, è riservato al giudice che, in caso di nullità, converte il contratto dal giorno della pronuncia della sentenza, condannando il datore anche al pagamento di una indennità risarcitoria per il periodo intercorrente tra la cessazione del contratto a termine e la pronuncia della sentenza.
Periodo transitorio
Appare, a commento, dell’art. 1 del D.L. n. 87/2018, utile sottolineare le disposizioni contenute nel comma 2 che, rispetto al testo originario che non prevedeva alcun periodo transitorio, è cambiata con l’emendamento introdotto alla Camera. Ora si afferma che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data del 14 luglio, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.
Il testo si riferisce ai contratti a termine ma i maggiori commentatori, correlando l’art. 2 del provvedimento con l’art. 1, comma 1, ritengono che tale periodo transitorio trovi applicazione anche ai contratti di somministrazione a tempo determinato, cosa che con la circolare n. 17/2018, emanata nell’ultimo giorno di vigenza del periodo “transitorio”, ha ammesso anche il Ministero del Lavoro.
Cosa significa tutto questo?
Dal momento della entrata in vigore della legge n. 96 (12 agosto 2018) si “era aperta” una finestra che consentiva di effettuare, fino al 31 ottobre 2018, per i contratti stipulati in data antecedente, proroghe (fino a cinque) e rinnovi, senza causali, secondo le disposizioni in vigore fino al 13 luglio u.s. .
La scrittura della norma appare, francamente, poco felice e lo stesso Dicastero del Lavoro, con la circolare
n. 17/2018 emanata, a poche ore dal termine del periodo transitorio, nulla dice sulle criticità, ripetendo, pedissequamente, il dettato normativo e affermando che una lettura sistematica della norma consente di estendere il periodo transitorio anche ai rapporti di somministrazione a termine e non solo ai contratti a tempo determinato: se ciò fosse stato detto un po’ di tempo prima e non a poche ore dalla scadenza del periodo, penso che tutti gli operatori sarebbero stati grati.
Quattro sono i regimi da applicare ai contratti a termine:
a) Quello ex D.L.vo n. 81/2015 per i contratti stipulati entro il 13 luglio 2018;
b) Quello vigente dal 14 luglio fino al 12 agosto data di entrata in vigore della legge di conversione n. 96;
c) Quello in essere dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione fino al 31 ottobre 2018;
x) Xxxxxx in essere dal 1° novembre 2018;
Contratti stipulati entro il 13 luglio 2018
La riforma non incide in alcun modo sui contratti a tempo determinato in essere alla data del 13 luglio in quanto, come già affermato chiaramente nell’art. 1, comma 2, del D.L. n. 87/2018: essi continuano ad essere disciplinati dalla vecchia normativa. Ciò significa che la scadenza finale massima resta fissata ai 36 mesi o al periodo diverso previsto dalla contrattazione collettiva, che le proroghe restano sempre cinque, ma se inserite entro il 31 ottobre 2018, e che possono essere apposte senza l’introduzione di alcuna condizione (anche qui vale la precedente data). Gli stessi contratti, se scadono entro il 31 ottobre (data in cui termina il periodo transitorio fissato dalla legge n. 96 entrata in vigore il 12 agosto) restano soggetti alla disciplina previgente sia nel caso in cui si debba procedere a rinnovi che in caso di proroghe (quindi, assenza di causali). Nella sostanza, il principio generale del “tempus regit actum” viene confermato ma ridimensionato, nel senso che il Legislatore rende applicabili le nuove disposizioni anche alle proroghe ed ai rinnovi dei contratti in essere al 13 luglio, in quanto lascia uno spazio breve di sopravvivenza alle originarie disposizioni contenute nel D.L.vo n. 81/2015. Ovviamente, il contratto stipulato nella vigenza della vecchia norma continuerà ad operare fino al suo termine.
Il D.L. n. 87 conteneva una disposizione che non è stata confermata nella legge di conversione: ossia quella secondo la quale anche per i vecchi contratti, qualora si fosse proceduto a rinnovi o a proroghe che avrebbero portato il contratto originario oltre la soglia dei dodici mesi, era necessario porre una condizione che facesse riferimento ad una delle causali indicate alle lettere a) e b) del comma 1 del nuovo articolo 19 del D.L.vo n. 81/2015, e precisamente:
a) Esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività ordinaria, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) Esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Per completezza di informazione, ricordo che il Legislatore non ha previsto che la contrattazione collettiva possa individuare causali ulteriori, cosa che sarebbe stata opportuna in quanto più aderente alle specifiche realtà aziendali.
Ovviamente, datore di lavoro e lavoratore se prima del 31 ottobre 2018 dovessero aver raggiunto la soglia massima prevista, avrebbero potuto stipulare, sempre entro quella data, un ulteriore contratto “in deroga assistita” avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro per un massimo di 12 mesi, senza l’immissione di alcuna condizione, proprio perché fino a quella data, si applicava la vecchia normativa nei modi ivi disciplinati.
Contratti stipulati tra il 14 luglio e l’11 agosto 2018
La stipula di rapporti a termine in tale periodo ha comportato la piena applicazione delle disposizioni contenute nel D.L. n. 87/2018, fatta eccezione di quelle che sono intervenute, a partire dal 12 agosto, con la legge n. 96/2018.
Da ciò discende che:
a) Se è si trattato di un primo contratto di durata non superiore a 12 mesi non è stato necessario apporre alcuna causale;
b) Se si è proceduto ad un rinnovo contrattuale (quindi, ad un nuovo contratto) per mansioni riferibili al livello della stessa categoria legale di inquadramento di un precedente rapporto a termine, è stato necessario inserire una condizione anche se i due contratti, in sommatoria, non superano la soglia dei 12 mesi;
c) Se il contratto è stato in tale periodo e, per una qualsiasi ragione, sia stato prorogato entro tale termine temporale oltre la soglia dei 12 mesi, è stato necessaria l’apposizione di una condizione.
Alcuni commentatori, relativamente ai contratti stipulati per la prima volta in tale periodo (14 luglio – 11 agosto), in considerazione del fatto che la norma inserita nel D.L. n. 87/2018, è stata cambiata, hanno ritenuto che si potesse sostenere la tesi secondo la quale, sino al 31 ottobre, sarebbe possibile applicare le vecchie regole sia per i rinnovi che per le proroghe. Si tratta, a mio avviso, di una lettura un po’ azzardata, pur essendo sostenibile, per cui appare più prudente ed opportuno procedere, per tali contratti, all’applicazione totale della riforma, anche tenuto conto che il numero, in relazione al periodo ed alla brevità di vigenza della norma (il D.L. n. 87 è stato convertito abbastanza velocemente), appare, verosimilmente, modesto.
Contratti rinnovati o prorogati tra il 12 agosto ed il 31 ottobre 2018
La norma transitoria, introdotta dalla legge n. 96, con un emendamento all’art. 1, comma 2, del D.L. n. 87/2018, ha consentito di applicare la vecchia normativa ai rinnovi ed alle proroghe di rapporti a termine relativi ai contratti in essere alla data del 14 luglio.
Tutto questo sta a significare, come brevemente accennato in precedenza, che:
a) Il contratto rinnovato (quindi, si è in presenza di almeno un secondo contratto con le stesse mansioni riferibili alla categoria legale di inquadramento, ma anche di un contratto rinnovato per mansioni o qualifiche diverse) non abbisogna della specificazione di alcuna condizione: è, quindi, libero da causali e può giungere fino al termine fissato dalla vecchia normativa a 36 mesi o a quello, anche maggiore, determinato dalla contrattazione collettiva che può anche essere aziendale, con i soggetti sindacali individuati dall’art. 51 del D.L.vo n. 81/2015;
b) Le proroghe utilizzabili nell’arco temporale di 36 mesi erano 5 e non 4, come prevede il nuovo comma 1 dell’art. 21. Si è molto discusso sulla possibilità che la proroga, approfittando del periodo transitorio, potesse essere apposta, con il consenso del lavoratore, ben prima della scadenza finale del contratto. Di per se stesso, con il consenso anche tacito del lavoratore, la proroga può ben essere apposta prima del termine ma, con la normativa nuova incombente, in caso di impugnazione, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a rispondere avanti al giudice alla domanda relativa alle ragioni giustificatrici della stessa avvenuta molto tempo prima della scadenza del rapporto (ad esempio, sei mesi prima). Se le ragioni non dovessero essere ritenute plausibili, potrebbero essere richiamati gli artt. 1343 e 1344 c.c. laddove, attraverso un controllo di liceità, si potrebbe arrivare alla nullità della proroga in quanto la condotta datoriale, pur seguendo uno schema lecito sotto l’aspetto legale, ha perseguito, in concreto, un comportamento illecito (volontà di aggirare le norme in vigore dal 1° novembre), secondo un indirizzo
perseguito dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 10490/2006: sulla stessa lunghezza d’onda si pongono le Sezioni Unite della Cassazione che nel 2016 hanno affermato che la causa di un contratto deve essere reputata illecita, secondo la previsione dell’art. 1344 c.c., laddove viene posto in essere un comportamento elusivo tale da “aggirare” le norme imperative che fissano limiti massimi di durata del rapporto tra un datore di lavoro ed un lavoratore. Ovviamente, in caso di proroga apposta “a ridosso” (ad esempio, uno/due mesi) del termine finale del contratto, il datore può più facilmente spiegare le proprie motivazioni e convincere il giudice della bontà della propria decisione;
c) Le causali previste dal nuovo comma 1 dell’art. 19, fino al 31 ottobre 2018, si potevano, benissimo, non apporre.
La circolare n. 17/2018 emanata il 31 ottobre 2018o (ossia “in articulo mortis”, rappresentato dall’ultimo giorno di vigenza del periodo transitorio) non ha fornito particolari disposizioni amministrative, non andando oltre la mera riproposizione del testo normativo.
Contratti stipulati a partire dal 1° novembre 2018
Il periodo transitorio terminato il 31 ottobre 2018 e, quindi, dal giorno successivo, nuova normativa esplica, pienamente, i propri effetti.
Ciò significa che:
a) Il primo contratto a termine stipulato fino a 12 mesi è “libero”, ossia può non prevedere alcuna causale;
b) Se un contratto a tempo determinato viene stipulato per un periodo inferiore ai 12 mesi e viene prorogato entro tale soglia temporale, non c’è bisogno di apporre alcuna condizione, ma se la proroga varca tale limite, occorre inserire una causale che fa riferimento, unicamente, alle ipotesi delineate dal Legislatore alle lettere a) e b) del nuovo comma 1 dell’art. 19;
c) In caso di rinnovo di un contratto (sempre riferibile a mansioni del livello della categoria legale di inquadramento) occorre, sempre, inserire, una causale pur se tale contratto, anche sommato con il precedente, non arriva a 12 mesi. La causale serve anche nell’ipotesi in cui il rinnovo del contratto tra lavoratore e datore di lavoro riguardi mansioni o qualifiche diverse;
d) Un contratto a termine senza causale che supera il limite dei 12 mesi, si trasforma a tempo indeterminato a partire da tale data;
e) Le proroghe, alle quali occorre apporre una causale se il rapporto supera la soglia dei 12 mesi, sono 4 nell’arco temporale complessivo di 24 mesi (calcolati, anche in sommatoria, tra contratti, proroghe, rinnovi e somministrazione a tempo determinato) e possono portare alla trasformazione del rapporto se tale limite si supera: in questo caso, il contratto diviene a tempo indeterminato a partire dalla quinta proroga;
f) La contrattazione collettiva, anche aziendale, può prevedere un limite più ampio rispetto ai 24 mesi: tale potere non è stato, assolutamente, “toccato” dalla riforma. Nel computo complessivo vanno sommati tutti i contratti a tempo determinato (anche lontani nel tempo) relativi a mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento (ma, ad esempio, i contratti a termine con i lavoratori in mobilità, fino ad un massimo di 12 mesi, non vanno computati per effetto dell’art. 29, comma 1, lettera a, del D.L.vo
n. 81/2015) ed i rapporti di somministrazione a termine a partire dal 18 luglio 2012, nel rispetto della circolare del Ministero del Lavoro n. 18/2012;
g) I contratti a termine per attività stagionali (che sono quelle individuate dal DPR n. 1525/1963 e dalla contrattazione collettiva) possono essere stipulati senza causali: si tratta, come ben si comprende leggendo la norma, di qualcosa di molto diverso dai “normali” contratti a termine in quanto non c’è il limite massimo dei 24 mesi, non c’è lo “stop and go” ed il diritto di precedenza, attivabile per iscritto entro tre mesi dalla cessazione del rapporto, offre soltanto un diritto ad un nuovo contratto stagionale
per la successiva “campagna”;
h) Il lavoratore ha più tempo per presentare il ricorso avverso la eventuale nullità del contratto a termine: infatti il nuovo art. 28, comma 1, prevede che lo stesso debba essere depositato entro 180 dal licenziamento. In caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato il giudice (art. 28, comma
2) condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo una indennità onnicomprensiva compresa tra 2,5 e 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, sulla base dei criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604/1966. L’indennità “copre” per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e previdenziali, relativo al periodo intercorrente tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale è stata ordinata la ricostituzione del rapporto;
i) In caso di superamento del limite legale (20%) o contrattuale di contratti a termine stipulabili, viene esclusa (art. 23, comma 4) la trasformazione a tempo indeterminato e trova applicazione, unicamente, la sanzione, applicata dall’Ispettorato territoriale del Lavoro, pari al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni, se il numero dei lavoratori assunti in violazione è pari ad una unità: tale percentuale sale al 50% se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore ad uno.
A conclusione di questa breve riflessione occorre ricordare un’altra norma importante entrata in vigore il 12 agosto con la legge di conversione: mi riferisco al limite quantitativo del 30% di lavoratori utilizzabili dallo stesso datore in sommatoria tra contratti a termine e contratti di somministrazione (nuovo comma 2 dell’art. 31): la contrattazione collettiva può sempre determinare un limite diverso (maggiore o minore).
Ciò ha un effetto immediato in quanto proroghe o rinnovi di contratti avranno una loro importanza (come, del resto, la somministrazione) ai fini del raggiungimento di tale percentuale che viene calcolata sul personale in forza a tempo indeterminato al 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni (con arrotondamento all’unità superiore in caso di percentuale superiore allo 0,5): in caso di inizio di attività in corso d’anno il numero percentuale si calcola sui lavoratori in forza a tempo indeterminato al momento della stipula del contratto.
Tale disposizione ha effetto sui contratti a termine e in somministrazione in corso alla data del 12 agosto se la percentuale complessiva fosse superiore, in assenza di diversa previsione della contrattazione collettiva?
La risposta è negativa, nel senso che il datore può continuare il rapporto con i lavoratori eccedentari (sia con contratto a tempo determinato che in somministrazione), ma gli viene preclusa la possibilità di assumerne o utilizzarne altri fintanto che non rientra sotto la soglia massima.
Ovviamente, il limite percentuale del 30% riguarda la sommatoria tra contratti a tempo determinato e somministrazione a termine (nella normativa previgente non sussisteva alcun limite legale specifico per quest’ultima, se non dettato, autonomamente, dalla pattuizione collettiva): esso appare, assolutamente, distinto da quello dell’art. 23 ove, per i soli contratti a tempo determinato, la contrattazione collettiva, anche aziendale, può prevedere una percentuale diversa rispetto al limite legale del 20%. Tale convinzione circa la distinzione trae origine dal fatto che il Legislatore ha utilizzato nel nuovo art. 31 la frase “fermo restando il limite disposto dall’art. 23”.
I contratti a termine nelle Pubbliche Amministrazioni e nella scuola statale
Una breve riflessione anche sui contratti a termine delle Pubbliche Amministrazioni che, in gran parte, sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001: rientrano nella nuova disciplina o no?
La risposta fornita dal comma 3 dell’art. 1 del D.L. n. 87/2018 è negativa e viene detto, espressamente che nei contratti a tempo determinato (ma anche nella somministrazione) continua ad applicarsi la disciplina “ad hoc” vigente, in quanto ne viene riconosciuta la “specialità”: la stessa cosa viene affermata dal Legislatore per quel che concerne sia la somministrazione a termine che l’indennità risarcitoria per i licenziamenti ingiusti e l’offerta facoltativa di conciliazione.
Vale la pena di ricordare che le prestazioni a tempo determinato vengono regolamentate dall’art. 36 del D.L.vo
n. 165/2001 il quale, peraltro, ne subordina l’attivazione a “comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35. C’è, tuttavia da sottolineare che il richiamo effettuato all’interno dell’art. 36, all’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, comporti, per il settore privato, che la durata massima non sia più di trentasei mesi ma di ventiquattro.
Nel settore pubblico non è così in quanto, laddove si legge per il privato (art. 19) ventiquattro mesi, si continua a leggere trentasei mesi.
Per la verità, non è la prima volta che una determinata norma assume contenuti differenti a seconda che il settore sia pubblico o privato: in passato ciò si verificò per le disposizioni sul contratto a tempo parziale e per l’art. 18 della legge n. 300/1970 riformato dalla legge n. 92/2012.
In ogni caso, pur senza la precisazione contenuta nel D.L. n. 87/2018, nel settore pubblico la materia continua ad essere disciplinata dall’art. 36 sopra richiamato come previsto dal comma 4 dell’art. 29, non “toccato” dalla riforma.
Va, inoltre, sottolineato che, per effetto dell’art. 4-bis della legge n. 96, è stato tolto qualsiasi limite ai contratti a termine che ha abrogato il comma 131 dell’art. 1 della legge n. 107/2015 (la c.d., “buona scuola”) per il quale non era possibile superare la soglia massima dei trentasei mesi, anche non continuativi, con contratti a tempo determinato relativi a personale docente, educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario operante nelle istituzioni scolastiche ed educative statali.
La “ratio” che, allora, aveva ispirato tale disposizione traeva origine, principalmente, dalla volontà di “stoppare” i ricorsi del personale della scuola che aveva, continuamente, lavorato a termine, senza alcun limite massimo di durata complessiva dei rapporti e, al contempo, il Legislatore aveva previsto concorsi per inserimento, in pianta stabile, a tempo indeterminato dei docenti: elemento decisivo nella questione fu rappresentato dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia del 26 novembre 2014 (cause riunite (C-22/13, da C- 61/13 a C- 63/13 e C- 418/13) la quale stabilì che, laddove si configurava un abuso nella successione, anche non continuativa, di contratti a tempo determinato, occorreva garantire ai lavoratori una adeguata ed effettiva forma di tutela: spettava allo Stato individuare la forma (stabilizzazione o tutela risarcitoria).
Seguendo tale linea di indirizzo la Magistratura ha successivamente, affermato che nei rinnovi contrattuali, con superamento del limite massimo dei trentasei mesi, si configurava un abuso che dava luogo ad un risarcimento del danno, non potendo configurarsi una stabilizzazione automatica del rapporto a tempo indeterminato, considerati i limiti imposti dall’ordinamento costituzionale che, all’art. 97 Cost., prevede la procedura concorsuale pubblica per l’inserimento effettivo negli organici, e dall’art. 36, comma 5, del D.L.vo n. 165/2001. Quest’ultimo comma impone anche alle Amministrazioni di recuperare le somme pagate a titolo di risarcimento del danno al lavoratore per il quale sono stati stipulati contratti oltre la soglia massima consentita: i dirigenti responsabili sono tenuti a “rifondere” il danno (responsabilità erariale, oltre ad altri eventuali comportamenti sanzionatori) qualora la violazione sia avvenuta con dolo o colpa grave.
La successiva sentenza della Corte Costituzionale, la n. 187 del 20 luglio del 2016, prendendo atto della legge
n. 107/2015, aveva operato una distinzione tra il personale insegnante al quale era precluso il risarcimento per l’illecito pregresso in quanto le elevate probabilità di assunzione stabile, attraverso i concorsi programmati, configuravano un rimedio sufficiente, ed il personale A.T.A. al quale si riteneva applicabile la tutela risarcitoria in base ai criteri quantificatori previsti dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016. Il principio di diritto affermato in questa decisione stabilisce che “nel regime pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una Pubblica Amministrazione, il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, del D.L.vo
n. 165/2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dell’onere probatorio nelle misure e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010 e, quindi, nella misura pari ad una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge n. 604/1966”. Questi ultimi fanno riferimento al
numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’organico datoriale, all’anzianità di servizio del lavoratore, al comportamento ed alle condizioni delle parti.
La cancellazione del limite massimo dei trentasei mesi, operata con l’art. 4-bis della legge n. 96/2018, riaprirà, prevedibilmente, il contenzioso giudiziario con la condanna delle Istituzioni pubbliche scolastiche tutte le volte che sarà superato il limite dei trentasei mesi (che è quello, “speciale”, previsto nel settore pubblico dall’art. 36 del D.L.vo n. 165/2001) e che è stato riconfermato anche dopo l’attuale riforma (art. 1, comma 3, del D.L. n. 87/2018). Tale cancellazione appare incoerente non soltanto rispetto a quanto sancito dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia (la quale non fa altro che richiamare i principi della Direttiva Comunitaria che impongono, senza alcuna eccezione, l’obbligo della fissazione di un termine massimo), ma anche al quadro regolatorio “generale” previsto dalla riforma definita dalla legge n. 96/2018 che individua, comunque, dei limiti massimi di reiterazione fissati dalla disposizione legale o dalla contrattazione collettiva.
ESONERO PER FAVORIRE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE
Le agevolazioni finalizzate a favorire l’occupazione a tempo indeterminato sono, da sempre, nei programmi e nei piani dei Governi che si sono succeduti: il risultato, purtroppo, nella maggior parte dei casi e nonostante le lodevoli intenzioni ha, quasi sempre, prodotto risultati modesti, confermando un assunto ben conosciuto: l’occupazione non si crea per decreto ma con la fiducia e con investimenti generalizzati e ben mirati.
Il quadro normativo generale dei benefici correlati alle assunzioni si presenta abbastanza scoordinato e, sovente, i provvedimenti che si sono accavallati nel tempo non tengono conto che per gli stessi soggetti o per le stesse tipologie contrattuali già esistono incentivi ed, allora, si pensa di procedere a dei cambiamenti ripetendo quanto il Legislatore aveva già stabilito e differenziando le disposizioni in minima parte, senza curarsi dei problemi applicativi.
A ciò non sfugge neanche un provvedimento finalizzato a favorire l’occupazione a tempo indeterminato, inserito nella legge di conversione del D.L. n. 87/2018, n. 96.
Con l’articolo 1-bis, sono state introdotte disposizioni che prolungano, nella sostanza (con alcune modifiche) al 2019 ed al 2020 le agevolazioni contributive previste dai commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017, in maniera strutturale per i giovani fino ai trenta anni e per il solo 2018 per coloro che non hanno superato i 35 anni (34 anni e 364 giorni).
La norma, mentre rinvia per la piena operatività dell’esonero, ad un Decreto “concertato” tra i Ministeri del Lavoro e dell’Economia da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (12 ottobre 2018, cosa ancora non avvenuta), afferma che:
a) L’assunzione deve essere a tempo indeterminato a “tutele crescenti” (c’è un richiamo al D.L.vo n. 23/2015) e riguarda il personale con qualifica di operaio, impiegato o quadro, essendo esclusi dall’ambito di applicazione del predetto Decreto, i dirigenti. A mio avviso, le “tutele crescenti” vanno intese in senso “atecnico”, come ebbe a dire la circolare n. 40/2018 dell’INPS, non avendo alcuna influenza negativa per quelle imprese che, magari a seguito di accordi sindacali aziendali, hanno sottoscritto impegni finalizzati al riconoscimento delle tutele ex art. 18 della legge n. 300/1970. L’assunzione può essere anche a tempo parziale (le agevolazioni, ovviamente, saranno “pro – quota”): il Legislatore non ne parla ma, secondo i principi fissati dalla normativa precedente e dai chiarimenti amministrativi espressi dall’INPS, e ferme restando le determinazioni del “Decreto concertato”, dovrebbero essere esclusi i rapporti di apprendistato (che godono di una “speciale” normativa incentivante), il lavoro intermittente, pur se a tempo indeterminato, ove la prestazione ha natura episodica e dipende dalla chiamata del datore di lavoro, il contratto di lavoro domestico (per la specialità del rapporto) e le prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, per le quali di “stabile” e di “tempo indeterminato” non c’è nulla. Per la verità l’esclusione dai benefici del rapporto di lavoro domestico risultava al comma 114, dell’art. 1
(cosa che nell’attuale testo non viene ripetuta e si hanno dubbi che ciò possa essere inserito in un Decreto Ministeriale finalizzato a stabilire le modalità) oltre all’apprendistato (ma qui il discorso appare più semplice alla luce del fatto che tale tipologia già fruisce di una normativa agevolatrice “specifica”);
b) Il beneficio, previsto per un massimo di trentasei mesi, consiste nell’esonero dal versamento del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi INAIL, nel limite massimo di 3.000 euro su base annua, riparametrato ed applicato su base mensile. Ciò significa che, fatte salve indicazioni diverse provenienti dal “Decreto concertato”, essendo le parole del tutto uguali a quelle contenute nella legge n. 205/2017, varranno le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 40/2018 sia per le modalità di fruizione che per gli altri “contributi minori” dovuti in aggiunta ai versamenti INAIL (ad esempio, quelli per gli interventi integrativi salariali o quelli di solidarietà dei lavoratori dello spettacolo e degli sportivi professionisti, o quelli destinati al finanziamento dei fondi interprofessionali per la formazione continua). Nella sostanza, il comma 100 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 viene ripetuto “pedissequamente”, ad eccezione dell’ultimo periodo con il quale si specificava l’assenza di qualunque conseguenza sul futuro trattamento pensionistico, in quanto l’aliquota di computo delle prestazioni restava uguale, nonostante la riduzione della quota contributiva a carico del datore di lavoro: ora tale frase non c’è più;
c) Il beneficio, applicando i criteri fissati dalla circolare INPS n. 40/2018 (se saranno confermati nel “Decreto concertato”), sarà cumulabile con quello previsto, per i disabili, dall’art. 13 della legge n. 68/1999 (subordinato al rispetto dell’incremento occupazionale) e con l’agevolazione prevista per l’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori in NASPI (20% dell’indennità che sarebbe spettata al lavoratore fino al termine del trattamento (subordinata al rispetto del “de minimis” disciplinato dalle disposizioni comunitarie);
d) L’agevolazione spetta ai datori di lavoro privati (anche non imprenditori) che assumono lavoratori “under 35” i quali non siano mai stati occupati con rapporto a tempo indeterminato con lo stesso o altro datore di lavoro, fatti salvi eventuali periodi di apprendistato (che è un contratto a tempo indeterminato) svolti presso un altro datore e non “consolidati” durante o al termine del periodo formativo. La circolare n. 40/2018 dell’INPS ha fornito, sotto questo aspetto, indirizzi abbastanza restrittivi come, ad esempio, “il mancato superamento del periodo di prova” in un contratto a tempo indeterminato che preclude la fruizione dell’agevolazione: vedremo cosa si dirà alla luce del “Decreto concertato”. L’agevolazione dovrebbe spettare anche in caso di trasformazione del rapporto da contratto a termine a contratto a tempo indeterminato (ovviamente, in presenza delle condizioni oggettive – non aver avuto precedenti rapporti a tempo indeterminato, neanche di poche ore settimanali – e soggettive – requisito anagrafico). Ho adoperato il termine condizionale in quanto nel testo approvato non c’è alcun riferimento a tale possibilità, cosa che, invece, sussiste (ed è strutturale) per gli “under 30” nella legge n. 205/2017. Nella ampia dizione di “datori di lavoro privati” la circolare INPS n. 40/2018 aveva ricompreso tutti gli Enti pubblici economici ed una serie di altri Enti come i consorzi di bonifica, i consorzi industriali, gli I.A.C.P. trasformati, in base alle diverse leggi regionali, in Enti pubblici economici con la ovvia, specifica esclusione, delle Amministrazioni Pubbliche ex art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001, delle c.d. “Authority”, dell’ARAN e di altri Enti specificatamente individuati. Si ha motivo di ritenere che il “Decreto concertato” non si discosti da tale indirizzo;
e) Il sistema informativo dell’INPS, già consente di verificare se il lavoratore ha avuto precedenti rapporti a tempo indeterminato ma l’Istituto, al momento, non attribuisce alla verifica alcun valore certificatorio.
Di più non afferma la disposizione ma ritengo che la fruizione del beneficio non possa che discendere dal rispetto dei commi 1175 e 1176 dell’art. 1 della legge n. 296/2006 (regolarità contributiva, assenza di condanne o sanzioni definitive per violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro che comportano, come pena accessoria, la sospensione temporanea del DURC, rispetto del trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale od aziendale, dalle organizzazioni sindacali
di settore comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e dall’osservanza degli obblighi scaturenti dall’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015, avendo presente che la circolare INPS n. 40/2018 ne ha dato, per gli stessi casi individuati dalla legge n. 205/2017 (art. 1, commi 100 e seguenti) una lettura “aperta”.
Resta impregiudicata (ma per l’entrata in vigore della norma alla data del 1° gennaio 2019 la questione sarà, sperabilmente, chiarita) la questione relativa agli “aiuti di Stato” di origine comunitaria, peraltro esclusi dalla circolare n. 40, in relazione al beneficio previsto dal comma 100, in quanto indirizzati alla totalità dei datori di lavoro.
C’è, poi, un’altra riflessione da fare: la norma sembra ricalcare quelle contenute nei commi da 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 ma se ne discosta per alcune parti importanti. Alcune le ho già richiamate nei precedenti punti a), b) e c), altre le enumero qui di seguito:
a) Non è stata prevista la possibilità della fruizione parziale per il periodo residuo del beneficio in favore di quei datori di lavoro che assumono nuovamente un lavoratore a tempo indeterminato che, in virtù del proprio “status” ha fatto “godere” un altro datore delle agevolazioni previste: ovviamente, in questo caso, si fa riferimento a risoluzioni del rapporto con il giovane, comunque motivate;
b) Non c’è un riferimento specifico al non riconoscimento dei benefici in favore di quei datori di lavoro che nei sei mesi antecedenti l’assunzione, abbiano proceduto a licenziamento per giustificato motivo oggettivo o a licenziamenti collettivi per riduzione di personale ex lege n. 223/1991, nella medesima unità produttiva. A tale mancato esplicito riferimento si può, comunque, ovviare ricordando, anche in via amministrativa, che l’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015 esclude dal novero dei benefici i datori di lavoro che non rispettano i diritti di precedenza previsti dalla legge (e, nei casi di specie, il diritto di precedenza semestrale viene garantito dall’art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949);
c) Manca la tutela di salvaguardia prevista al comma 105, secondo la quale l’agevolazione viene revocata se nel semestre successivo all’assunzione a tempo indeterminato il lavoratore o altro dipendente inquadrato con la medesima qualifica nella stessa unità produttiva, venga licenziato;
Ma ci sono, poi, altre questioni che andranno chiarite: la nuova disposizione comporta una modifica implicita delle disposizioni dello scorso anno, come riportato nella nota di lettura del Servizio di Bilancio del portale web del Senato, o no?
Se la risposta è nel primo senso, cosa ne è dell’incentivo strutturale degli “under 30”?
Termina il 31 dicembre prossimo nella forma e con le modalità che abbiamo conosciute quest’anno e continua nei prossimi fino al 2020, con la disciplina appena varata, comprendendovi anche i lavoratori di età compresa tra i 30 ed i 35 anni?
E, dal 2021, riprenderà vigore “in toto” la previsione contenuta nei commi da 100 a 108?
Sono tutte cose che dovranno essere dipanate e, forse, a questo dovrebbe servire il “Decreto concertato”, previsto al comma 3 dell’art. 1-bis, creando un raccordo con le disposizioni tuttora vigenti della legge n. 205/2017.
Se una critica all’operato dell’attuale Legislatore può essere fatta (è comunque una critica dalla quale, per certi versi, non è esente neanche chi, negli anni precedenti, ha scritto norme in “materia di lavoro”) è che ci si trova di fronte ad un percorso legislativo non privo di difficoltà per l’interprete. Probabilmente, si sarebbe arrivati allo stesso risultato, qualora se si fosse sostenuto che il beneficio per gli “under 30” continua ad avere natura strutturale, scrivendo una disposizione secondo la quale “le parole “31 dicembre 2018” inserite nel comma 102 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 sono sostituite dalle parole “31 dicembre 2020”.
MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO
Quanto affermato dall’art. 2 del D.L. n. 87/2018 è stato profondamente “ritoccato” dalla legge di conversione. Ma, andiamo con ordine, cominciando dal comma 01, introdotto in sede di conversione.
Il comma 2 dell’art. 31 viene riscritto ed introduce una percentuali di utilizzazione dei somministrati. La nuova norma fa salvi i contratti collettivi applicati dall’utilizzatore (anche aziendali) ed afferma che, fermo restando il limite legale del 20% relativo ai contratti a tempo determinato (ma che la pattuizione collettiva può definire diversamente), il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine o in somministrazione a tempo determinato non può superare complessivamente il 30% del numero dei lavoratori in forza a tempo indeterminato presso l’utilizzatore alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le stipule, con arrotondamento all’unità superiore se il decimale è pari o superiore allo 0,5. Se l’attività è iniziata in corso d’anno il limite viene calcolato al momento della stipula del contratto di somministrazione. Sono esenti dai limiti quantitativi i lavoratori in mobilità (genere, pressoché estinto, attesa la cancellazione delle liste dal 1° gennaio 2017), i soggetti disoccupati che fruiscono del trattamento di NASPI o di interventi integrativi salariali da almeno sei mesi, i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, come tali definiti dall’art. 2 (n. 4 e 99) del Regolamento CE n. 651/2014 ed individuati con
D.M. del Ministro del Lavoro emanato nel corso del 2017 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel marzo 2018. Per il calcolo dei dipendenti in forza a tempo indeterminato ritengo sia opportuno continuare a riferirsi ai criteri individuati dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18/2014 la quale, richiamando anche i dettati normativi, ricorda che i lavoratori a tempo parziale ed indeterminato vanno computati “pro-quota” (art. 9 del D.L.vo n. 81/2015), che i lavoratori intermittenti a tempo indeterminato vanno calcolati in relazione alle giornate lavorate nell’ultimo semestre (art. 18 del D.L.vo n. 81/2015) e che gli apprendisti (in questo caso, la nota ministeriale fa una “forzatura” legittima sul dettato normativo con lo scopo di allargare la platea), vanno considerati, a pieno titolo, atteso che sono rapporti a tempo indeterminato (art. 41 del D.L.vo n. 81/2015).
La nuova norma introdotta pone, a mio avviso, alcune questioni che vanno dipanate.
La prima riguarda la questione del superamento della percentuale integrata del 30% tra contratto a termine e somministrazione. Si potrebbe pensare ad una conversione del rapporto?
La risposta è positiva in quanto l’art. 38 afferma che laddove la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni fissate dall’art. 31, commi 1 e 2 (è il nostro caso), 32 e 33, lettere a), b), c), e
d) il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione. Qui non è stata ripetuta l’esplicita esclusione contenuta nell’art. 23, comma 4, laddove la norma afferma che in caso di superamento del tetto del 20% (o di quello, diverso, stabilito dalla contrattazione collettiva, relativo ai soli contratti a tempo determinato) l’esclusione della trasformazione del contratto interessato a tempo indeterminato, prevedendo la sola irrogazione della sanzione amministrativa da parte dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.
La seconda concerne le esclusioni dai limiti quantitativi complessivi. Il Legislatore afferma che una serie di soggetti svantaggiati, o molto svantaggiati, individuati con D.M. del Ministro del Lavoro, “sono esenti da limiti quantitativi se utilizzati con la somministrazione a tempo determinato. Tale elencazione coincide, parzialmente, con quella contenuta per i contratti a termine dal comma 2 dell’art. 23 che, ad esempio, non comprende, specificatamente, i soggetti disoccupati che fruiscono, da almeno sei mesi, della NASPI: tale esclusione porta ad una singolare situazione: questi lavoratori, se assunti con contratto a termine rientrano nel computo (a meno che ciò non avvenga per una ulteriore ipotesi di esclusione, come l’inizio di nuove attività o le ragioni sostitutive) mentre ne sono esclusi, in ogni caso, se ad essere instaurato è un rapporto di somministrazione a tempo determinato. La terza questione riguarda, invece, l’utilizzabilità del contratti di somministrazione nelle attività stagionali (a mio avviso, senza l’apposizione di alcuna causale, in perfetto “pendant” con i contratti a termine stagionali: esso è, senz’altro, possibile ma, a differenza di questi ultimi, si computano nella percentuale complessiva in quanto non si rinviene l’esclusione dalla percentuale che c’è per questi ultimi per effetto dell’art. 23, comma 2, lettera c) del D.L.vo n. 81/2015.
La quarta questione da risolvere riguarda quelle imprese che, alla data del 12 agosto 2018, per effetto della nuova disposizione contenuta nella legge di conversione, avevano in forza un numero di somministrati superiore alla quota complessiva del 30%: quei contratti in essere continuano fino alla scadenza, secondo un principio che, in via amministrativa, fu adottato nel 2014 allorquando fu introdotta la percentuale legale relativa al numero dei contratti a tempo determinato stipulabili.
Un chiarimento importante contenuto nella circolare n. 17/2018 concerne il fatto che, secondo il Ministero del Lavoro, non sussiste alcun obbligo di causale e non sussiste alcun limite massimo di durata alla utilizzazione in missione con contratto di somministrazione a termine o a tempo indeterminato, di prestatori assunti a tempo indeterminato da un’impresa somministratrice: l’unico limite è rappresentato dal rispetto dei limiti percentuali stabiliti dall’art. 31 (30% o percentuale diversa prevista dalla contrattazione collettiva).
Il Legislatore è, poi, intervenuto, modificandolo, sul primo periodo del comma 2, dell’art. 34 del D.L.vo n. 81/2015. Ora, al rapporto di lavoro tra somministratore (Agenzia) e lavoratore si applica la disciplina del Capo III che regola il contratto a tempo determinato con la sola eccezione degli articoli 21, comma 2, 23 e 24: per completezza di informazione in questo esame va tenuta in debita considerazione la frase contenuta nel comma 1-ter dell’art, 2 ove, con una formulazione poco chiara, si afferma che le causali previste dal nuovo art. 19, comma 1, in caso di ricorso al contratto di somministrazione, si applicano esclusivamente all’utilizzatore, con tutte le prevedibili questioni operative che nasceranno allorquando la somministrazione supererà la soglia dei dodici mesi. Ciò esonera le Agenzie del Lavoro dal rispetto delle condizioni da apporre al contratto con il lavoratore somministrato che, quindi, può essere assunto più volte per le successive missioni senza particolari problemi.
Da quanto appena detto scaturisce una considerazione: le cose, rispetto alla primaria versione del D.L. n. 87/2018, sono radicalmente cambiate.
E’ vero che al contratto tra Agenzia e lavoratore si applica la disciplina del contratto a termine ma gli articoli che sono esclusi rendono tale affermazione molto “spuntata” in quanto non si applicano le causali (è un obbligo per l’utilizzatore), il limite complessivo dei ventiquattro mesi sussiste ma può essere derogato dalla contrattazione collettiva (prima riga del comma 2 dell’art. 19), non si applicano lo “stop and go” tra un contratto e l’altro, ed il limite percentuale alla stipula dei contratti, né le conseguenti sanzioni degli organi di vigilanza ispettiva (art. 23), né, infine, il diritto di precedenza (art. 24). Della normativa relativa al contratto a termine restano le causali, il divieto di qualunque atto discriminatorio – art. 25 – ed i criteri di computo necessari, ad esempio, per le “garanzie sindacali” –art. 27 – oltre, ovviamente, alle quattro proroghe – art. 21, comma 1 – che vanno correlate al principio, sempre presente nell’art. 34 del D.L.vo n. 81/2015, secondo le quali è il contratto collettivo a stabilire il numero delle proroghe che, attualmente sono sei, ed al termine per depositare il ricorso in giudizio che è, ora, fissato in centottanta giorni - art. 28, comma 1.
In sede di conversione, attraverso l’art. 38-bis del D.L.vo n. 81/2015, inserito attraverso il comma 1-bis, è stata reintrodotta la somministrazione fraudolenta (ma la circolare n. 17/2018 non affronta, minimamente, l’argomento), abrogata dal D.L.vo n. 81/2015: essa si verifica allorquando la tipologia contrattuale viene posta in essere con la specifica volontà di eludere norme inderogabili di legge (si pensi, ad esempio, ad una somministrazione con il medesimo lavoratore, titolare di due contratti a termine, separati tra di loro dallo “stop and go” che consente allo stesso di lavorare durante “lo stacco”, ponendo, quindi, in essere un “negotium in fraudem legis”, come tale nullo ex artt. 1344 e 1418 c.c. combinati tra loro).
La violazione ipotizzata ha natura plurisoggettiva, nel senso che postula un concorso tra le parti (somministratore ed utilizzatore) finalizzata ad eludere un obbligo inderogabile posto dalla legge o dalla pattuizione collettiva: come ben si comprende, ci si trova di fronte ad un reato a “consumazione progressiva”.
La sanzione irrogabile sia all’Agenzia che all’utilizzatore riveste natura penale: infatti, si tratta di una ammenda di venti euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione: essa si va ad aggiungere a quelle previste dall’art. 18 del D.L.vo n. 276/2003. Trattandosi di una contravvenzione essa può essere oggetto di oblazione secondo quanto stabilito dall’art. 162 c.p. .
Sotto l’aspetto pienamente operativo gli organi di vigilanza dell’Ispettorato territoriale del Lavoro , sulla scorta di quanto, a suo tempo, affermato dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 5/2011 (l’art. 38-bis è del tutto identico al vecchio art. 28 del D.L.vo n. 276/2003, abrogato a partire dal 24 giugno 2015), adotteranno il provvedimento della prescrizione obbligatoria intimando all’utilizzatore la regolarizzazione alla proprie dipendenze di tutti i lavoratori impiegati illecitamente per tutta la durata nell’appalto fraudolento.
La regolarizzazione comporta che i lavoratori non potranno avere un trattamento economico inferiore a quello dei lavoratori di pari livello impiegati dall’utilizzatore, secondo le determinazioni economiche stabilite dalla
contrattazione collettiva.
Al contempo, nei confronti del somministratore la prescrizione si focalizzerà sulla cessazione della fornitura di manodopera e sulla tenuta di una condotta idonea a favorire l’assunzione dei lavoratori presso l’utilizzatore.
Il ripristino della fattispecie penale comporta, a mio avviso, l’obbligo per gli ispettori di riferire all’Autorità Giudiziaria ex art. 347 c.p.p., pur se ci si dovesse trovare di fronte ad una tipologia contrattuale “certificata”.
Le sanzioni amministrative (art. 18 del D.L.vo n. 276/2003) e quelle penali ora reintrodotte c0nvivono mantenendo le proprie caratteristiche: non diffidabile la prima, soggetta a prescrizione la seconda. Ovviamente, l’ammenda andrà applicata in relazione alle giornate di somministrazione fraudolenta calcolate a partire dal 12 agosto 2018, data di entrata in vigore della legge di conversione n. 96.
Un breve cenno va fatto anche alla questione “ingarbugliata” delle proroghe: ora, all’interno dell’art. 34 esistono due riferimenti:
a) Richiamando l’applicazione della normativa sul contratto a termine il Legislatore del D.L. n. 87/2018 prevede nella somministrazione un numero di proroghe non superiore a quattro;
b) Il D.L.vo n. 81/2015, nello stesso comma 2 dell’art. 34, due righe prima prevede che “il termine inizialmente prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”. Tale frase sta a significare che la contrattazione collettiva (anche aziendale, secondo la lettura dell’art. 51) può legittimamente disciplinare sia la casistica che la durata delle “proroghe”, in ciò vanificando il riferimento alle quattro proroghe alle quali ho fatto riferimento sub a).
Resta, poi, pienamente in vigore la norma secondo la quale, in presenza di una somministrazione a termine di un portatore di handicap con una durata di almeno dodici mesi, lo stesso viene computato nella quota d’obbligo dell’utilizzatore ex art. 3 della legge n. 68/1999. L’utilizzatore potrà essere esentato dal mettere una causale se il rapporto tocca soltanto la soglia dei dodici mesi: se superiore, avrà difficoltà a farla rientrare (copertura dell’aliquota d’obbligo) tra quelle previste nel nuovo art. 19. Di conseguenza, trascorso tale periodo e persistendo la scopertura, dovrà adempiere all’obbligo occupazionale attraverso una assunzione, a meno che, con un chiarimento amministrativo del Ministero del Lavoro (cosa, al momento non avvenuta, atteso che la circolare n. 17/2018 non ha affrontato la questione) non si opti per una eccezione rispetto alla regola generale: tale interpretazione potrebbe essere correlata alla finalità di facilitare un inserimento proficuo del disabile nella organizzazione dell’impresa.
Un chiarimento va fornito anche in relazione alla norma, inserita durante l’iter di conversione, secondo la quale le condizioni richiamate dall’art. 19, si applicano esclusivamente all’utilizzatore (art. 2, comma 1- ter, del D.L. n. 87/2018) . La circolare n. 17/2018 afferma che:
a) Nel caso in cui la somministrazione a tempo determinato superi la soglia dei dodici mesi presso lo stesso utilizzatore o vi sia un rinnovo della missione presso la stessa impresa, il contratto di lavoro stipulato dal somministratore con il prestatore dovrà indicare una condizione (la circolare parla, impropriamente, di “motivazione”) riferita allo stesso utilizzatore;
b) I periodi svolti presso diversi utilizzatori non sono cumulabili, fermo restando il limite massimo di durata di ventiquattro mesi del rapporto (o la soglia diversa indicata dalla contrattazione collettiva).
La circolare n. 17/2018 al punto 2.2 evidenzia alcune ipotesi nelle quali si riassume l’obbligo di specificare le motivazioni cosa che, secondo il Ministero del Lavoro (l’interpretazione appare alquanto restrittiva in alcuni passaggi) sono così’ riassunti:
a) In caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore ai dodici mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile al rinnovo;
b) In caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata pari a dodici mesi, è possibile svolgere per il restante periodo e tra i medesimi soggetti una missione in somministrazione a termine, specificando una delle condizioni indicate dall’art. 19, comma 1, del D.L.vo n., 81/2015;
c) In caso di un periodo di somministrazione a termine fino a dodici mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di dodici mesi indicando la relativa motivazione (ossia la causale).
La ragione per cui ritengo, sommessamente, di dissentire da tale interpretazione (che va, comunque, seguita dagli organi di vigilanza) risiede nel fatto che il Ministero del Lavoro parla di “assimilazione” tra contratto a termine e somministrazione a tempo determinati, dimenticando che le stesse sono “figli” di due Direttive comunitarie autonome e ben distinte, che il decreto legislativo n. 81/2015 (il c.d. “codice dei contratti”) ha tenuto ben separate tipologie contrattuali tra loro simili, eppur diverse (si pensi anche al lavoro intermittente a tempo determinato) e che quando si parla di “rinnovo” non si può parlare di “assimilazione” tra due contratti diversi, “mischiando” gli istituti. E, poi, che senso ha (quandanche si vogliano combattere situazioni illecite) ritenere che sussista un rapporto di continuità tra una somministrazione a tempo determinato avvenuta molto tempo prima (magari, anni dal momento che vanno calcolate da prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 87/2018) ed un contratto a tempo determinato per mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento?
L’interpretazione secondo la quale dopo un contratto di somministrazione a termine di dodici mesi il successivo contratto a tempo determinato debba essere supportato da una causale appare poco coerente con lo stesso dettato normativo in quanto, oltre che per le ragioni appena dette, la sommatoria tra somministrazione e contratto a tempo determinato è stata prevista dal Legislatore soltanto ai fini del limite massimo di durata, ma non per l’obbligo della causale in quei casi, appunto, ove il contratto a termine viene stipulato per la prima volta. Tale indirizzo appare fortemente punitivo nei confronti di quelle imprese che attraverso contratti a tempo determinato o somministrazione “investono in formazione di lungo periodo” prima della piena stabilizzazione nell’organico aziendale.
Da ultimo, va ricordato come, secondo unainterpretazionefornita, da subito, daunabuonapartedei commentatori, il periodo transitorio, previsto, secondo il dettato letterale, per i soli contratti a termine, trovi applicazione anche alla somministrazione a tempo determinato, in virtù della stretta correlazione tra l’art. 2 e l’art. 1, comma 1, del
D.L. n. 87/2018, convertito, come detto più volte, con modificazioni, nella legge n. 96. Tale indirizzo è stato fatto proprio dalla circolare n. 17/2018 che ha ritenuto, sulla base di una interpretazione sistematica, che il periodo transitorio si applichi anche alla somministrazione a termine, sostenendo, ragionevolmente, che “i più stringenti limiti introdotti rispetto alla disciplina previgente operino gradualmente” per entrambe le tipologie contrattuali.
DISPOSIZIONI PER FAVORIRE IL LAVORATORE NELL’AMBITO DELLE PRESTAZIONI OCCASIONALI
Con tale titolo della rubrica il nuovo art. 2-bis della legge n. 96/2018, introduce significative modifiche alla disciplina sulle prestazioni occasionali previste dall’art. 54-bis della legge n. 96/2017, rendendone più agevole il ricorso in agricoltura, nel settore turistico e negli Enti locali. Per completezza di informazione, ricordo che la normativa aveva già subito alcune integrazioni, per effetto della legge n. 205/2017, in favore delle società sportive identificate dalla legge n. 91/1981. Sotto l’aspetto amministrativo la materia continua ad esser disciplinata dalla circolare n. 107/2017 dell’INPS, dal messaggio n. 2887/2017 dello stesso Istituto e, per quel che concerne gli aspetti sanzionatori, dalla circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 5/2017: tali atti amministrativi debbono, ora, esser “rimodulati” alla luce delle novità introdotte.
Dalla lettura del nuovo testo normativo e della circolare n. 103 dell’INPS, emanata il 17 ottobre 2018 si può, argomentare che i soggetti che nelle aziende alberghiere e nelle delle attività ricettive del turismo, individuate dai codici Ateco 2007 (con un campo di applicazione ben più restrittivo di quella fornito dal CCNL del turismo) possono essere utilizzati nelle aziende che hanno fino ad otto dipendenti a tempo indeterminato debbono
essere disoccupati, pensionati o studenti fino a 25 anni. Nella sostanza, il Legislatore ha, sì ampliato la sfera di applicazione di “PrestO” ma l’ha delimitata soltanto a particolari categorie di lavoratori, con esclusione specifica di altre.
La legge di conversione interviene su una serie di commi che sono di seguito riportati:
a) Comma 8: i prestatori occasionali, all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica predisposta dall’INPS, debbono, obbligatoriamente, autocertificare la propria condizione (ad esempio, studente, disoccupato, pensionato, ecc.);
b) Comma 8-bis: tale comma, inserito con un emendamento, impone al prestatore agricolo di autocertificare di non essere stato iscritto, nell’anno precedente, negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli;
c) Comma 14: si tratta della disposizione che identifica i limiti massimi dimensionali. Alla lettera a) si afferma che le prestazioni occasionali (PrestO) sono vietate agli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori a tempo indeterminato: ora si aggiungono le seguenti parole “ad eccezione delle aziende alberghiere e delle strutture ricettive che operano nel settore del turismo….. e che hanno alle proprie dipendenze fino a otto lavoratori”.
d) Comma 15: in questa disposizione viene citato l’impegno dell’utilizzatore a versare all’INPS le somme necessarie per pagare le prestazioni. Ora, viene previsto che, ferma restando la responsabilità dell’utilizzatore, le somme possano essere versate anche per il tramite dei professionisti (consulenti del lavoro) individuati dalla legge n. 12/1979;
e) Comma 17: si tratta di una disposizione “cardine” relativa agli obblighi di comunicazione di inizio della prestazione alla piattaforma informatica INPS che restano del tutto invariati (almeno sessanta minuti prima, dati anagrafici, luogo ed oggetto della prestazione, compenso). Ciò che cambia sono gli oneri previsti dalla lettera d) che viene, completamente sostituita: va comunicata “la data e l’ora di inizio e di termine della prestazione ovvero, se imprenditore agricolo, azienda alberghiera o struttura ricettiva che opera nel settore del turismo o Ente locale, la data di inizio ed il monte orario complessivo presunto con riferimento ad un arco temporale non superiore a dieci giorni”. Le quattro ore di prestazione continuativa di cui parla la lettera e) per il solo settore agricolo “sono riferite all’arco temporale di cui alla lettera d) del presente comma”: ossia dieci giorni. Così come è scritta la disposizione, imporrà, a mio avviso, una riflessione circa le forme di controllo sulla legittimità di “PrestO” nei settori sopra evidenziati, cosa che dovrà essere effettuata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro;
f) Comma 19: con questa disposizione l’art. 54-bis disciplina in maniera puntuale le modalità di pagamento che sono effettuate dall’INPS il giorno 15 del mese successivo al quale si riferiscono le prestazioni. Ora viene aggiunta la seguente frase: “ A richiesta del prestatore espressa all’atto della registrazione nella piattaforma informatica INPS, invece che con le modalità indicate al primo periodo, il pagamento del compenso al prestatore può essere effettuato, decorsi quindici giorni dal momento in cui la prestazione lavorativa inserita nella procedura informatica è consolidata, tramite qualsiasi sportello postale a fronte della generazione e presentazione di univoco mandato ovvero di autorizzazione di pagamento emesso dalla piattaforma informatica INPS e stampato dall’utilizzatore, che identifica le parti, il luogo, la durata della prestazione e l’importo del corrispettivo. Gli oneri del pagamento del compenso riferiti a tale modalità sono a carico del prestatore”. La circolare n. 103/2018 ha fornito tutta una serie di indicazioni finalizzate al rispetto della nuova disposizione;
g) Comma 20: l’impianto sanzionatorio viene confermato con una sola eccezione che riguarda gli imprenditori agricoli che potrebbero essere stati tratti in inganno dalla autocertificazione del prestatore che ha dichiarato, ad esempio, di non esser iscritto negli elenchi anagrafici dell’anno precedente. Ebbene, viene fatto salvo l’imprenditore laddove si dimostri che la violazione “derivi dalle informazioni incomplete e non veritiere contenute nelle autocertificazioni rese nella piattaforma informatica INPS dai prestatori”.
INDENNITA’ PER IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E PER L’OFFERTA CONCILIATIVA
Il comunicato del 26 settembre 2018 con il quale la Consulta ha preannunciato il deposito di una sentenza che dichiara incostituzionale l’art. 3, comma 1, del D.L. n. 23/2015 in quanto l’unico criterio risarcitorio viene indicato nell’anzianità aziendale del lavoratore, cambierà, tra qualche settimana, il quadro regolatorio sotto descritto. La disposizione è stata ritenuta irragionevole e contraria ai principi di uguaglianza ed in contrasto anche con gli articoli 4 e 35 della Costituzione. Sarà necessario, allorquando la decisione sarà depositata, leggere attentamente le motivazioni, anche perché, a fronte della cancellazione dell’art. 3, comma 1, il Legislatore dovrà decidere quale disposizione scrivere, in ottemperanza alle decisioni della Corte. Senza voler anticipare scelte che competono unicamente a quest’ultimo, si può argomentare che se si resta nell’ambito dell’indennità risarcitoria e non della reintegra, la soluzione più semplice, a valori economici invariati, potrebbe essere quella secondo la quale il giudice decide l’ammontare dell’indennità compresa tra sei e trentasei mensilità, basandosi sui criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966. Se così’ sarà (ma è, assolutamente, prematuro parlarne) si potrebbe avere, in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, nelle imprese con più di quindici dipendenti, una indennità maggiore per un assunto “con le tutele crescenti” (fino a trentasei mesi) che pur un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 (fino a ventiquattro mesi).
Come dicevo, occorrerà leggere bene le motivazioni che, stando al comunicato della Consulta, non dovrebbero toccare sia l’indennità risarcitoria relativa ai datori di lavoro con un organico inferiore alle sedici unità che le “associazioni di tendenza” ove i nuovi valori, strettamente legati all’anzianità aziendale, sono ora, dopo le modifiche intervenute, pari ad una mensilità all’anno calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, partendo da una base di tre, fino a sei mensilità.
Ovviamente, la dichiarazione di incostituzionalità, avrà effetto anche sui licenziamenti collettivi ex art. 10 concernenti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. Per costoro, l’applicazione, pedissequa, dei valori risarcitori, determinati con il criterio dell’anzianità, salta e, di conseguenza, sarà il Legislatore che dovrà, anche in questo caso, intervenire.
Il discorso potrebbe avere effetti indiretti anche sull’art. 7 del D.L.vo n. 23/2015 ove il criterio della liquidazione dell’indennità spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo è legata all’anzianità acquisita nell’appalto (e non presso l’ultimo datore): tale criterio, essendo l’unico, potrebbe essere integrato, nella valutazione del giudice dagli altri sopra citati.
L’attesa del deposito della sentenza, presumibilmente, porterà alla sospensione dei procedimenti giudiziari pendenti non soltanto in primo grado ma anche in appello, pur se il Tribunale di Bari (primo in Italia) ha ritenuto il 12 ottobre 2018, di decidere, fornendo una lettura “costituzionalmente orientata” della norma e liquidando una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità in luogo delle sei previste dall’art. 3, comma 1, novellato dal
D.L. n. 87/2018. Tale sospensione, del resto già preannunciata da molti presidenti delle sezioni Lavoro, potrebbe comportare, alla ripresa, alcune questioni non secondarie, come una indicazione, da parte del lavoratore ricorrente, di una serie di elementi ulteriori finalizzati alla quantificazione dell’indennità. Se questi sono stati già evidenziati nel ricorso non c’è problema ma se ciò non è avvenuto (perché non necessari ai fini della vecchia normativa) potranno essere dedotti dal momento che viene esclusa la possibilità di indicare, nel processo, nuove circostanze o prove?
E chi ha chiesto la condanna del datore di lavoro al pagamento della indennità già predeterminata ex art. 3, comma 1, potrà modificare la domanda alla luce della sentenza della Corte Costituzionale?
La riflessione che segue è stata, ovviamente, fatta sulla base delle determinazioni normative antecedenti il comunicato della Corte Costituzionale e ritengo opportuno tenerle valide fino a quando la decisione non sarà depositata (nel giro di qualche settimana).
L’attenzione dei media e degli operatori è stata richiamata da una novità, contenuta nel D.L. n. 87/2018, attraverso la quale l’Esecutivo ha rivalutato l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 che
ha rappresentato uno dei provvedimenti di maggiore novità del Jobs act. Tale operazione si è realizzata con l’art. 3 il quale ha rivisto, al rialzo, intervenendo su due dei tre elementi, gli importi per il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa riferibile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, data “spartiacque” anche riguardo alla applicazione delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970.
Indennità per il licenziamento ingiustificato
Prima di entrare nel merito occorre, a mio avviso, ben identificare a favore di chi può trovare applicazione la nuova disposizione. Ho già accennato ai soggetti assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015: la norma si riferisce ai dipendenti (operai, impiegati o quadri, con l’esclusione implicita, in quanto non nominato, del personale con qualifica dirigenziale), comunque assunti con una tipologia contrattuale a tempo indeterminato, tra cui rientra anche l’apprendistato, ed a prescindere dalla dislocazione oraria della prestazione come nel rapporto a tempo parziale.
Questi lavoratori, però, non sono i soli dipendenti “potenzialmente” destinatari.
Nella tutela (art. 2, comma 2) rientrano anche coloro che, titolari di un rapporto a tempo determinato o di apprendistato iniziato prima del 7 marzo 2015, hanno visto convertito o “consolidato” il proprio contratto dopo tale data e chi (art. 2, comma 3) pur dipendente, da prima del 7 marzo 2015, con un contratto a tempo indeterminato, da un piccolo datore di lavoro dimensionato sotto le quindici unità e che, comunque non integrava i requisiti occupazionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, abbia visto, nel tempo, crescere gli organici, per effetto di assunzioni successive, in maniera tale da superare le soglie sopra richiamate.
La prima domanda che è opportuno porsi riguarda l’assetto normativo: con questa modifica il Governo si è limitato ad apportare soltanto una modifica ai parametri risarcitori o è intervenuto nel merito dei criteri alla base dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015?
La risposta è chiara: l’intervento normativo “non tocca” minimamente i due criteri di cui la predetta disposizione è portatrice (ma, come detto, la Consulta richiama la centralità del giudice che non dovrà più essere legato, una volta dichiarato illegittimo il licenziamento, al mero calcolo della sola indennità, legata all’anzianità aziendale del lavoratore interessato).
La regola dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo (con l’eccezione del “disciplinare”, per fatto materiale rivelatosi insussistente e dei casi gravi di nullità per violazione di legge, discriminatori, ritorsivi, insussistenza delle motivazioni nel recesso che colpisce i portatori di handicap, “normati” nell’art. 2) e la misura “di base” dell’indennità che è sottratta alla discrezionalità del giudice, pur se supportata da elementi oggettivi, non hanno subito modifiche: quest’ultima continua ad essere correlata all’anzianità aziendale, istituto che il Legislatore delegato definì nei minimi particolari prevedendo, all’art. 8, anche il computo per le frazioni di mese e di anno (ma come detto, la Corte Costituzionale ne ha preannunciato la incostituzionalità con il comunicato del 26 settembre 2018).
Affermava la vecchia norma che nelle ipotesi in cui si riscontri che non ricorrono gli estremi del licenziamento
(cosa che comporta una valutazione da parte del giudice di merito) per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, mancata soppressione del posto di lavoro, mancato repechage e la questione è da valutare anche alla luce del nuovo art. 2103 c.c., come sostituito dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015 ecc.) , o per mancato motivo soggettivo anche di natura disciplinare (notevole inadempimento nella prestazione lavorativa) o giusta causa (quella che non consente la continuazione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro), il giudice dichiara cessato il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata ad alcuna contribuzione, pari a due mensilità della ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Ora, secondo la nuova previsione, l’indennità che, ha natura anche risarcitoria (oltre che sanzionatoria
e satisfattiva), pur partendo da una base di due, non può essere inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR. Occorrerà riflettere se i nuovi importi possano rispondere ai requisiti sopra evidenziati, atteso che, in passato (in diversi casi, giustamente) ci si era lamentati della efficacia non dissuasiva dell’apparato sanzionatorio che, peraltro, esclude qualsiasi onere contributivo.
Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, concetto puntualmente più tecnico di ultima retribuzione globale di fatto adoperato per l’art. 18 della legge n. 300/1970? Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese. Il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 43 del 3 ottobre 2008, precisò che se il CCNL prevede espressamente quali elementi della retribuzione vanno calcolati e quali no, il datore è tenuto a rispettarlo, a prescindere da qualsiasi ulteriore considerazione.
Quindi, retribuzione mensile oltre ai ratei delle mensilità aggiuntive ed ai c.d. “elementi non occasionali”.
Una breve riflessione va, a mio avviso, riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo gli stessi definitivi. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, riporto alcune voci relative alla computabilità:
a) Lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;
b) Indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;
c) Alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);
d) Premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);
e) Indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);
f) Indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria (Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);
g) Indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);
h) Indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);
i) Indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);
l) indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).
Riprendendo la domanda sul significato di ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la risposta parte dalla retribuzione annuale accantonata per il calcolo del TFR, divisa per i mesi dell’anno, senza alcun reale riferimento alla retribuzione dell’ultimo mese sulla quale, in alcune realtà aziendali, che hanno punte stagionali o attività caratterizzate da saltuarietà, potrebbero interferire elementi transitori.
Dopo questa breve parentesi e tornando all’argomento di questa riflessione non si può non ricordare come nelle
descrizioni dei “media” e nelle dichiarazioni rilasciate da commentatori ed esponenti politici in questi giorni, si affermi che l’indennità è aumentata del 50%: ciò è vero se si pensa al limite minimo dell’indennità che non può essere inferiore a sei mensilità (prima erano quattro) ed a quello massimo trentasei mensilità (prima erano ventiquattro). Tuttavia, poiché non è mutata la misura di base del computo (due mensilità all’anno calcolate in relazione all’anzianità aziendale) gli effetti della riforma, ai fini dell’applicazione massima del risarcimento (che riguarda soltanto i dipendenti delle imprese con un organico superiore alle quindici unità) sono fortemente dilazionati nel tempo.
Come dicevo, la disposizione si applica ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015 (7 marzo 2015): un rapido calcolo, essendo la misura correlata all’anzianità aziendale, mi porta ad affermare che il tetto massimo dei trentasei mesi per i lavoratori assunti, ad esempio nel luglio del 2015 e licenziati illegittimamente, si raggiungerà nel luglio del 2.033 e, negli anni successivi per coloro che sono stati assunti a partire dal 2016: tutto questo perché, pur essendo assicurato “un minimum” di sei mensilità, il moltiplicatore è rimasto uguale (due mensilità). Tanto per fare un altro esempio si può prendere quale parametro di riferimento il caso di un lavoratore, assunto a luglio del 2015 da un datore di lavoro dimensionato oltre le quindici unità, che ha “goduto” dell’esonero contributivo triennale previsto dalla legge n. 190/2014, e licenziato, dopo trentasei mesi con una motivazione ritenuta illegittima dal giudice. Con il vecchio criterio l’indennità risarcitoria era pari a sei mensilità (frutto del risultato della base di calcolo non inferiore a quattro a cui vanno ad aggiungersi le due mensilità correlate all’anzianità per il terzo anno), con il nuovo criterio il lavoratore percepisce ugualmente sei mensilità che rappresentano il limite minimo risarcitorio, non essendo attivabile quello legato all’anzianità, atteso che le due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale portano per tre anni di rapporto ad un ammontare complessivo di sei mensilità.
Un vantaggio per il lavoratore licenziato ingiustamente si registra, invece, se il recesso interviene nei primi due anni: è il caso del lavoratore assunto a luglio 2016 da un datore di lavoro che ha anche fruito dell’esonero contributivo biennale previsto dalla legge n. 208/2015 e licenziato a luglio 2018: ebbene, con la nuova normativa l’indennità per licenziamento illegittimo è, oggi, pari a sei mensilità, mentre, prima, essendo l’anzianità aziendale pari a ventiquattro mesi, con un “minimum” di quattro mensilità, sarebbe stata, appunto, di quattro mensilità. L’incremento che sto esaminando va, necessariamente, correlato anche con l’art. 9 del D.L.vo n. 23/2015 ove si afferma che per i datori di lavoro che non raggiungano i limiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (sono quelli piccoli) e quelli non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione o di culto, gli importi previsti dall’art. 3, comma 1 (che ora sono due mensilità all’anno partendo da una base di sei) sono dimezzati (quindi, una mensilità all’anno partendo da una base di tre) ma, il tetto massimo, evidenziato esplicitamente all’art. 9, che non è stato ritoccato, continua ad essere pari a sei mensilità. Da ciò ne consegue che il lavoratore licenziato illegittimamente da un piccolo datore non potrà mai avere un risarcimento indennitario superiore a tale soglia e, meno che mai, le trentasei mensilità.
Paradossalmente, in una piccola impresa, ove il datore di lavoro è rimasto sotto i limiti dimensionali viene ad essere maggiormente tutelato un lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 che, per effetto dell’art. 8 della legge n. 604/1966, fruisce, in luogo del rifiuto della riassunzione da parte del datore, di indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio ed alle condizioni delle parti (sulla base di un potere discrezionale che il Legislatore ha riconosciuto al giudice). La misura massima può essere maggiorata fino a dieci mensilità se il dipendente ha una anzianità aziendale superiore ai dieci anni: essa può salire fino a quattordici se il lavoratore ha una anzianità superiore ai venti anni, che occupino più di quindici unità. La sussistenza di tale ultimo requisito, secondo una interpretazione fornita dalla Cassazione con la sentenza n. 6531/2001, scatta in presenza del requisito dell’anzianità ma soltanto per quel datore di lavoro che “occupa complessivamente più di quindici e fino a sessanta dipendenti, distribuiti in unità produttive e ambiti comunali aventi ciascuno meno di quindici dipendenti”.
L’incremento della indennità per licenziamenti illegittimi riverbera i propri effetti anche sui licenziamenti collettivi
per riduzione di personale attivati secondo la procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 e che riguardano i lavoratori assunti, a tempo indeterminato, a partire dal 7 marzo 2015.
Afferma, infatti, l’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015 che se il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione l’art. 3, comma 1, ora riformato (estinzione del rapporto alla data del recesso e corresponsione di una indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a due mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, con una base di partenza di sei e, comunque, entro un tetto massimo fissato a trentasei mensilità). Ma, come già detto in precedenza, la decisione della Corte Costituzionale, una volta depositata la sentenza, riverbererà i propri effetti anche sull’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015.
L’indennità per l’offerta facoltativa di conciliazione
Gli effetti della decisione della Corte Costituzionale, preannunciata dal comunicato del 26 ottobre, si riverbereranno anche sull’offerta conciliativa facoltativa ex art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 in quanto gli importi, seppur non soggetti a tassazione, per quanto aumentati con la legge di conversione n. 96, perdono il loro “appeal” in quanto il lavoratore, assunto con le “tutele crescenti” da un impresa con più di quindici dipendenti, in caso di ricorso al giudice del lavoro non sarà più legato, nel caso in cui resti l’indennità risarcitoria, al mero criterio dell’anzianità aziendale (il valore, in caso di conciliazione, risulta “strutturato” sulla metà degli importi previsti ex art. 3, comma 1, dichiarato incostituzionale, pur se esente da IRPEF), in quanto, prevedibilmente, potrebbe ottenere un importo di molto superiore a quello ora previsto dalla norma.
La sentenza non dovrebbe toccare, “il gradimento” per gli importi, di molto minori, previsti per la conciliazione facoltativa presso i piccolo datori di lavoro e le associazioni di tendenza.
Ma, cosa afferma, il nuovo testo?
Con un emendamento in sede di conversione è stato, giustamente, rivisto anche l’importo della offerta conciliativa facoltativa ad accettazione del licenziamento, prevista dall’art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, ove i valori delle somme, esenti da IRPEF, correlati all’anzianità aziendale (data di assunzione e data di licenziamento risultanti dalle comunicazioni obbligatorie), sono stati aggiornati: prima si parlava di una mensilità all’anno, calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, partendo da una base di due, fino ad un massimo di diciotto e tali valori erano ridotti alla metà (mezza mensilità all’anno partendo dalla base di una) per i datori di lavoro individuati all’art. 9 ai quali si è fatto cenno pocanzi, con un tetto massimo fissato a sei mensilità. Ora, ferma restando la base di partenza ad una mensilità, l’importo minimo non può essere inferiore alle tre mensilità, con un tetto massimo, sempre correlato all’anzianità aziendale, che non può superare le ventisette mensilità.
Per le piccole imprese e le associazioni di tendenza ove i valori sono ridotti della metà la base di partenza sempre mezza mensilità, ma l’importo minimo è, ora, non più fissato ad una mensilità, ma ad una mensilità e mezza.
Senza entrare nel merito della offerta conciliativa, cosa che mi porterebbe lontano da questa riflessione ricordo che:
a) La somma relativa all’accettazione del licenziamento, va offerta tramite assegno circolare “in sede protetta”;
b) Il periodo sul quale calcolare l’indennità non può comprendere periodi di “lavoro nero”, ma deve essere quello risultante dalle comunicazioni obbligatorie: la “ratio” di tale principio appare evidente alla luce del fatto che la “fiscalità generale” per consentire il buon esito della conciliazione, acconsente che le somme siano esenti da IRPEF;
c) Il lavoratore non ha alcun obbligo di aderire alla stessa che va formulata dal datore di lavoro entro i sessanta giorni successivi al recesso;
d) Il datore può condizionare l’offerta conciliativa all’accettazione di altra conciliazione afferente rivendicazioni riferite a voci concernenti la gestione del rapporto di lavoro (differenze retributive,
xxxxxxxxxxxx, scatti di anzianità, ecc.), ma per queste voci si seguono le regole ordinarie relative alla tassazione ed alla contribuzione;
e) Il lavoratore che accetta il licenziamento ha diritto, ricorrendo le condizioni previste dal D.L.vo n. 22/2015 alla NASPI, come chiarito dal Ministero del Lavoro con l’interpello n. 13/2015;
f) Una mancata adesione alla offerta di conciliazione o un mancato accordo intervenuto al termine dell’incontro non costituiscono “valore negativo” in un eventuale successivo giudizio, atteso che la procedura di conciliazione ha carattere facoltativo;
g) L’accordo raggiunto in sede di conciliazione ha effetti estintivi anche su una eventuale vertenza di impugnativa di licenziamento già “radicata” con il deposito del ricorso.
Due riflessioni si rendono necessarie
La prima riguarda la nuova indennità risarcitoria che nei limiti massimi (sia pure rapportati all’anzianità aziendale) appare superiore (trentasei mesi) rispetto alla tutela economica prevista dall’art. 18 che, ad esempio, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è compresa tra dodici a ventiquattro mensilità, ma che, ai fini dell’applicazione giudiziale tiene conto di una serie di parametri. Ovviamente, il valore superiore, come detto in precedenza, non è assolutamente immediato in quanto il limite massimo di trentasei si raggiungerà dopo diciotto anni di anzianità presso lo stesso datore (con la sola eccezione dei lavoratori impiegati negli appalti ove – art. 7 – vige il principio dell’anzianità nell’appalto e di quelli transitati presso altro datore ex art. 2112 c.c.). La seconda concerne l’offerta conciliativa facoltativa i cui nuovi valori sono in vigore dal 12 agosto 2018, essendo stati introdotti con la legge di conversione n. 96: essi, ovviamente, si riferiscono al momento in cui l’offerta, ad accettazione del licenziamento, viene proposta, per cui si applicano, senz’altro, i nuovi valori, e non quelli vecchi, pur se il provvedimento di recesso è stato attivato in data antecedente al 12 agosto.
ASSUNZIONI PRESSO I CENTRI PER L’IMPIEGO
Con l’art. 3-bis, introdotto in sede di conversione, è stata prevista una disposizione programmatica: per il triennio 2019 – 2021 una quota (tutta da quantificare) delle facoltà assunzionali delle Regioni, definite in sede di Conferenza permanente Stato, Regioni e Provincie Autonome di Trento e Bolzano, deve essere destinata al rafforzamento degli organici dei centri per l’impiego, con lo scopo di garantirne la piena operatività, secondo le modalità definite dalla stessa Conferenza entro il 31 marzo di ciascun anno. Il tutto, dovrebbe inquadrarsi, anche nel disegno, perseguito dal Governo, di un rafforzamento delle strutture operative periferiche destinate ai servizi di politica attiva del lavoro, per le quali il disegno di legge di Bilancio per il 2019 prevede risorse economiche destinate al miglioramento dei servizi in un’ottica di utilizzazione del personale anche per il c.d. “reddito di cittadinanza”.