ANATOMIA DEL “POSTO FISSO”
ANATOMIA DEL “POSTO FISSO”
LA DURATA DEI CONTRATTI A TEMPO INDETERMINATO IN PROVINCIA DI TORINO
Abstract
Tra 2008 e 2012 (I semestre) l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato in provincia di Torino è passata dal 22% circa a poco meno del 18%. Se si valutano i dati relativi al solo lavoro subordinato a tempo indeterminato (la tipologia principale) il calo è stato ancora più marcato: dal 15,1% al 10,9%. Il “posto fisso” è quindi in questo momento un “sorvegliato speciale” nelle attività di analisi del mercato del lavoro.
Questo rapporto, appunto, si concentra per la prima volta in Piemonte sullo specifico tema della durata dei rapporti a tempo indeterminato. Quanto durano mediamente i contratti a tempo indeterminato? Quanti contratti risultano ancora attivi a breve distanza dal loro inizio? Quali differenze emergono analizzando le principali variabili anagrafiche, settoriali, professionali e contrattuali disponibili? Quali sono le principali ragioni che ne causano la cessazione?
Ne risultano una serie di evidenze interessanti e, talvolta, inattese. Ad esempio a due anni di distanza dell’assunzione soltanto il 60% dei rapporti risulta ancora attivo. Si tratta di un dato significativo che svela sinteticamente un livello di mobilità (e anche di incertezza) marcato anche nella porzione più qualificata del mercato del lavoro. I lavoratori giovani e i lavoratori maturi, non è una sorpresa, fanno registrare valori inferiori alla media mentre le donne risultano un po’ più solide tenuto conto della loro maggiore presenza in settori del terziario piuttosto volatili.
Dati confermati anche dall’analisi della durata dei contratti a tempo indeterminato (quelli conclusi nel 2011, per la precisione) che si attesta mediamente a soli 5,8 anni. Sotto questo aspetto si registrano differenze molto ampie guardando al profilo professionale dei lavoratori o al settore delle imprese. Si va, ad esempio, dagli 1,6 anni del lavoro domestico ai 24,6 della pubblica amministrazione, dai 10 anni dell’industria ai 2,6 anni del turismo.
Il quadro che ne emerge è piuttosto diverso dall’immaginario comune ed è caratterizzato da un livello di mobilità molto elevato così come da una segmentazione che rende ormai impossibile racchiudere il mercato del lavoro attuale in categorie semplicistiche.
L’impressione finale è che nel prossimo futuro occorrerà prestare attenzione non solo al singolo rapporto di lavoro ma sempre più a come si compongono nel corso della vita delle persone i percorsi occupazionali.
1. Introduzione
L’occupazione a tempo indeterminato è generalmente considerata la forma standard di relazione tra l’impresa e il lavoratore. La normativa comunitaria ed anche il più ampio framework di riferimento definito dall’International Labour Organisation individuano nel lavoro senza termine
non soltanto la forma di rapporto più auspicabile dal punto di vista dell’offerta (le persone) ma anche la più efficiente dal punto di vista della domanda (le imprese) in quanto è quella che può meglio favorire l’accumulazione di “capitale umano” e, di conseguenza, l’aumento della produttività del lavoro. D’altra parte è anche su questo assunto che si fonda la natura “assicurativa” del lavoro dipendente in generale e a tempo indeterminato in particolare: i lavoratori accettano di ottenere una retribuzione inferiore al valore della loro produzione a fronte della garanzia della continuità del rapporto; l’impresa vede remunerata tale funzione assicurativa dal margine tra il valore del lavoro e l’importo dei salari.
Negli ultimi anni, tuttavia, in Europa, Italia e, non diversamente, in provincia di Torino si è assistito a una rapida contrazione del ricorso dei contratti a tempo indeterminato1. Si tratta di un processo di lunga durata che le recessioni che si sono succedute dal 2008 ad oggi hanno ulteriormente accelerato. Le ragioni di questo fenomeno sono senz’altro da ricondurre all’andamento del ciclo economico generale ma anche al processo sovente incoerente di regolazione della flessibilità in entrata, con l’introduzione di fattispecie a termine meno costose del lavoro a tempo indeterminato.
Le imprese strutturate si sono adattate a questo contesto prevedendo organizzazioni con un corpo di lavoratori stabili che garantiscono il funzionamento degli organi vitali della produzione e al margine dei lavoratori a termine con funzione di adattamento all’evoluzione della domanda. Il lavoro a tempo interminato, per quanto ridimensionato, non è dunque destinato a scomparire. Per le imprese continua a essere indispensabile mentre le persone ambiscono ad ottenere un “posto fisso” in maniera crescente, proprio in quanto opportunità meno frequente.
Ma è davvero così? Quel “posto” è destinato ad essere “fisso” per lungo tempo o a risolversi rapidamente per diverse ragioni da ricondurre al lavoratore o al datore?
Con questo rapporto, il primo di una serie dedicata alla forma di impiego standard, l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Torino intende esplorare proprio l’aspetto della durata dei contratti a tempo indeterminato (di seguito anche “contratti a TI”). Quanti contratti risultano ancora attivi a breve distanza dal loro inizio? Quali differenze emergono analizzando le principali variabili anagrafiche, settoriali, professionali e contrattuali disponibili? Quanto durano mediamente i contratti a tempo indeterminato? Quali sono le principali ragioni che ne causano la cessazione?
Per rispondere a queste domande sono stati realizzati tre approfondimenti analizzando le informazioni contenute nella banca dati delle comunicazioni obbligatorie sui rapporti di lavoro (di seguito anche “CO”): il primo ha verificato la “sopravvivenza” dei rapporti a TI nei ventiquattro mesi successivi all’assunzione, il secondo ha misurato le durate medie di un insieme significativo di contratti recentemente conclusi e il terzo ha analizzato invece le causali di cessazione dei rapporti.
1 Per una valutazione sintetica dell’andamento dell’occupazione a tempo indeterminato è possibile consultare la sezione “10 indicatori sul mercato del lavoro” nel sito istituzionale dell’OPML.
2. La “sopravvivenza”dei contratti a tempo indeterminato
Per “sopravvivenza” si intende in questo caso la probabilità che un contratto a tempo indeterminato sia ancora attivo in un delimitato periodo di tempo successivo alla sua sottoscrizione. Per misurare questo fenomeno sono stati analizzati tutti i contratti a TI attivati2 in provincia di Torino tra il primo gennaio 2008 e il 31 dicembre 2009 per un totale di 195.468 rapporti. Successivamente ciascuno di questi rapporti è stato “seguito” nei 24 mesi successivi alla sottoscrizione per verificarne l’eventuale cessazione3.
I risultati, sintetizzati dal primo grafico, sono particolarmente interessanti. A due anni di distanza dell’assunzione soltanto il 60% dei rapporti risulta ancora attivo.
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0
a 2 mesi
a 6 mesi
F
a 12 mesi
Totale
a 18 mesi
a 24 mesi
M
Grafico 1 – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato nei 24 mesi successivi all’attivazione
% Contratti a TI attivi
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
La dimensione di genere non fa registrare nel trend scostamenti consistenti tra uomini e donne anche se a 24 mesi di distanza dall’assunzione la differenza nei tassi di sopravvivenza raggiunge i 4 punti percentuali in favore di queste ultime (62% per le donne e 58% per gli uomini). Si tratta di un dato comunque significativo tenuto conto che le donne lavorano prevalentemente nel terziario, un settore caratterizzato, come si vedrà in seguito, da un decadimento superiore a quello dell’industria.
Anche analizzando i dati per classe di età (Grafico 2) non si segnalano variazioni rilevanti. Sono i lavoratori tra i 35 e i 54 anni a far registrare le percentuali più alte (61% di contratti attivi a 24 mesi dalla sottoscrizione) e, prevedibilmente, i lavoratori maturi quelle più basse (54% a 24 mesi). Scendendo più nel dettaglio (Tabella A in appendice) si constata un tasso di sopravvivenza
2 Si intendono tutti i nuovi contratti sottoscritti e i contratti a tempo determinato trasformati in contratti a tempo indeterminato.
3 Tecnicamente le comunicazioni di avviamento al lavoro sono state “incrociate” con le comunicazioni di cessazione degli stessi rapporti.
inferiore alla media per i giovani lavoratori: 54% a 24 mesi per gli under 20 e 57% per i 20-24enni. Si tratta di un dato non positivo ma non di una sorpresa.
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93
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72 75
71
65
67
62
59
61
54
a 2 mesi
a 6 mesi a 12 mesi
35-54 anni
a 18 mesi
55 anni e oltre
a 24 mesi
fino a 34 anni
Grafico 2 – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per classe di età
% Contratti a TI attivi
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Differenze non irrilevanti derivano dall’analisi per settore economico (Grafico 3) da cui emerge un tasso di sopravvivenza nell’industria superiore mediamente di quattro punti rispetto a quello del terziario (63% contro il 59% a 24 mesi).
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0
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93 87 85
82
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74
68
69
64
63 59
a 2 mesi a 6 mesi a 12 mesi
Agricoltura Industria
a 18 mesi
Servizi
a 24 mesi
Grafico 3 – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per macrosettore
% Contratti a TI attivi
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Analizzando gli stessi dati a un livello di dettaglio maggiore emergono invece differenze piuttosto marcate (Grafico 4). I settori delle costruzioni (F), della logistica (H), degli alberghi e ristoranti (I),
dei servizi alle imprese, noleggi, agenzie di viaggio (N) e il settore T (in cui confluisce l’assistenza familiare) sono caratterizzati da tassi di sopravvivenza dei contratti inferiori a quelli medi. Alcuni di questi risultati erano facilmente prevedibili.
Un caso tipico è quello dell’assistenza familiare in cui i contratti sono abitualmente a tempo indeterminato ma si estinguono in un arco di tempo abbastanza ristretto. Altro settore caratterizzato da contratti relativamente brevi è quello delle costruzioni dove non è insolita la costituzione di imprese che hanno una vita legata a uno specifico cantiere.
Grafico 4 – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato a 24 mesi dell’assunzione per settore
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Dall’altro lato i settori dove registriamo tassi sopra la media sono quelli ove confluisce una significativa porzione dell’impiego pubblico (O, P, Q). La PA ha un tasso di rapporti ancora attivi a 2 anni di distanza dall’avviamento pari al 94%; questa percentuale è leggermente più bassa nell’istruzione, dove confluisce anche una parte di impiego privato, e scende al 73% nel settore della sanità dove la componente non pubblica è più rilevante.
Nell’ambito dei servizi fanno registrare buone performance di sopravvivenza i settori caratterizzati da figure professionali ad alta specializzazione quali i servizi di informazione e comunicazione (J), le attività finanziarie e assicurative (K) e le attività professionali, scientifiche e tecniche (M). Per il dettaglio di tutti i dati si veda la Tabella B in appendice.
L’analisi dei dati per profilo professionale conferma quest’ultima considerazione. Il Grafico 5 evidenzia una chiara correlazione tra livello di qualificazione e il tasso di sopravvivenza con i profili ad alta qualificazione che fanno registrare il 77% a 24 mesi dall’assunzione contro il 59% delle medie qualifiche e il 50% dei bassi profili.
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56
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a 2 mesi
a 6 mesi
a 12 mesi a 18 mesi a 24 mesi
Alta Media Bassa
Grafico 5 – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per qualifica professionale
% Contratti a TI attivi
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
In particolare mostrano un elevato livello di stabilità le professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione (83% a 24 mesi), le professioni tecniche (75%) e quelle impiegatizie (71%). I dirigenti sono invece più mobili con un tasso pari al 68% (Tabella C in appendice).
Infine i dati elaborati per tipologia contrattuale (i diversi tipi di rapporto con forma a tempo indeterminato) mostrano piuttosto prevedibilmente un tasso di sopravvivenza più elevato per il lavoro a tempo indeterminato subordinato (61% a 24 mesi dall’attivazione) e minore per il lavoro intermittente a tempo indeterminato (52%) e il lavoro domestico (49%). Un caso a parte è quello delle altre forme di rapporto a tempo indeterminato in cui si concentrano prevalentemente tipologie utilizzate dalla PA che fanno ovviamente registrare un valore molto elevato (78%).
3. La durata media dei contratti a tempo indeterminato
Il secondo approfondimento sulle caratteristiche dell’occupazione a tempo indeterminato ha ricostruito le durate medie dei rapporti recentemente conclusi. A tal fine sono state estratte 75.685 comunicazioni di cessazione registrate nel 2011 in provincia di Torino e per ciascuna è stata rilevata la data di inizio del rapporto di lavoro. Successivamente sono state elaborate le durate medie tenendo conto del genere e dell’età e, soprattutto, del livello di qualificazione dei lavoratori e del settore economico di provenienza.
Ne emerge un quadro molto lontano dall’immaginario del “posto fisso” e, soprattutto, particolarmente differenziato (Tabella 1). La durata media generale dei rapporti a TI cessati nel 2011 è stata pari a 5,8 anni. Analizzando gli stessi dati secondo il genere dei lavoratori emerge una significativa differenza tra gli uomini, che fanno registrare una media di 6,4 anni, e le donne che hanno invece sottoscritto contratti durati mediamente 5,2 anni. Si tratta di un risultato non
sorprendente da ricondurre principalmente alla specializzazione settoriale dell’occupazione femminile, come si potrà evincere più avanti.
Interessanti, e più complessi da interpretare, i dati analizzati per classe di età al momento dell’assunzione. Sono i lavoratori assunti da giovani (fino a 34 anni) a far registrare le durate medie più lunghe – 7,9 anni – a fronte dei 3,7 anni dei lavoratori assunti tra i 35 e i 54 anni e i 2,1 anni dei lavoratori assunti a 55 anni e oltre. Se per questi ultimi è facile attribuire la breve durata alla prossimità del pensionamento, per i “giovani” e gli “adulti” occorre tenere conto sia dei percorsi di carriera, più o meno dinamici a seconda dell’età, sia delle diverse fasi storiche in cui le assunzioni sono avvenute, caratterizzate da cicli economici, modelli organizzativi, quadri normativi e socializzazioni al lavoro molto diverse. Per approfondire questi aspetti varrà la pena, in futuro, realizzare un approfondimento correlando le variabili disponibili con le causali di cessazione.
Tabella 1 – Durata media dei contratti a tempo indeterminato
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Tenendo in considerazione il livello di qualificazione al momento della cessazione4 risulta prevedibilmente più elevata la durata media dei profili “alti”, pari a 9,5 anni. Non è possibile constatare, analizzando questi risultati, una correlazione tra la qualifica e la durata media dei contratti visto che i profili “bassi” fanno registrare una durata media pari a 5,9 anni e quelli “medi” a soli 4,7 anni. Anche in questo caso entrano in gioco alcuni dei fattori già richiamati analizzando le classi di età e anche in questo caso occorreranno ulteriori, specifici approfondimenti.
Analizzando infine le durate medie dei contratti a tempo indeterminato per macrosettore economico5 del datore di lavoro emerge prevedibilmente una maggiore durata dei contratti nell’industria (9,5 anni), seguita dall’agricoltura (5,5 anni) e dai servizi (4,5 anni). Scendendo
4 Non sono state riportate le cessazioni per cui mancavano i dati sul settore economico o sul profilo professionale.
tuttavia ad un livello di dettaglio maggiore si apprezza una differenziazione molto marcata tra le diverse aree di attività (Grafico 6).
Grafico 6 –Durata media dei contratti a tempo indeterminato per settore economico
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Sono naturalmente le assunzioni a tempo indeterminato nel settore pubblico a far registrare le durate più lunghe che arrivano addirittura a 24,6 anni nella PA in senso stretto. Molto lunghi i contratti nelle public utilities energetiche (14,4 anni), oggi privatizzate ma di derivazione pubblica. Nell’istruzione invece, che contempla la scuola ma anche l’istruzione e la formazione professionale private, il dato registrato è pari a 12,7 anni.
Nel settore privato le durate più lunghe si rilevano nel settore bancario, delle assicurazioni e della finanza (10,8 anni) e poi nel manifatturiero (9,9 anni). La sanità e l’assistenza sociale, un settore solo in parte pubblico, fa registrare una durata pari a 7,7 anni mentre i 5,9 anni del commercio sono allineati alla media di tutto il mercato. Sotto la media invece la logistica (4,5 anni), le costruzioni (3,8 anni) e il turismo (2,6 anni).
Occorre naturalmente guardare questi dati con senso critico. Se le durate più lunghe si registrano nei settori maggiormente tutelati, si deve evitare di associare meccanicamente dinamiche negative alle durate medie più brevi. Il caso del turismo, un settore caratterizzato da turnover e stagionalità molto marcati, è sotto questo aspetto emblematico.
4. Le causali di cessazione dei contratti a tempo indeterminato
Il terzo e ultimo approfondimento ha riguardato le causali di cessazione dei contratti a tempo indeterminato conclusi nel 2011 che sono state analizzate in relazione alle principali variabili disponibili e, più specificamente, nei primi 24 mesi del rapporto di lavoro. Al fine di semplificare la lettura dei risultati, le causali previste dallo standard delle CO sono state aggregate in cinque tipologie principali (le aggregazioni sono riportate in appendice).
In premessa occorre sottolineare il valore puramente indicativo di queste informazioni. La questione delle causali di cessazione è complessa ed è condizionata sia dalla razionalità dell’imputazione del dato sia dai non rari utilizzi impropri delle stesse.
I dati medi delle cessazioni analizzate mostrano che nel 52% dei casi esse sono avvenute per dimissioni del lavoratore mentre le cessazioni per licenziamento individuale incidono per il 20% e quelle per licenziamento collettivo per il 5%. Il mancato superamento del periodo di prova causa il 3% delle cessazioni così come il pensionamento o la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (ossia assistita da un’organizzazione sindacale).
L’analisi dei dati secondo il genere mostra una maggiore probabilità degli uomini di subire un licenziamento individuale o collettivo. Non è tuttavia possibile fare altre considerazioni a causa della marcata differenza (16 punti) nel ricorso a causali generiche o non precisate.
L’elaborazione dei dati anagrafici mostra una crescente probabilità di essere coinvolti in un licenziamento collettivo all’aumentare dell’età. I giovani fino a 34 anni, invece, ricorrono molto più frequentemente alle dimissioni (58% dei casi) di quanto fanno gli adulti (47%).
Tabella 2 – Distribuzione delle causali di cessazione dei contratti a tempo indeterminato
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Guardando ai settori delle imprese in cui sono avvenute le cessazioni emerge chiaramente nell’industria un ricorso al licenziamento individuale e al licenziamento collettivo superiore alla
media (rispettivamente il 27% contro il 20% e l’8% contro il 5%). I servizi, invece, sono allineati ai dati generali.
Interessanti alcune evidenze sulle qualifiche dei cessati. I lavoratori con profili “alti” ricorrono molto frequentemente alle dimissioni, segno di una maggiore mobilità nel mercato, e hanno una minore probabilità di essere licenziati con procedura individuale. Al contrario hanno più probabilità di essere licenziati durante il periodo di prova e nell’ambito di procedure collettive.
La tabella 3 mostra invece la distribuzione delle causali di cessazione di tutti i rapporti conclusi entro 24 mesi dall’assunzione. I dati sono stati suddivisi sulla base dei cinque periodi di osservazione già utilizzati nella prima parte di questo rapporto.
Tabella 3 – Distribuzione delle causali di cessazione nei 24 mesi successivi all’assunzione
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
E’ possibile constatare dei comportamenti organizzativi da parte dei datori sostanzialmente razionali. La probabilità di ricorrere al licenziamento sia individuale che collettivo aumenta (non progressivamente) quanto più il rapporto si prolunga. Al contrario il mancato superamento del periodo di prova si concentra nei primi sei mesi di rapporto: il 19% nei primi due mesi (in questo caso è probabile che si tratti di impiegati ed operai) e il 3% tra il terzo e il sesto mese (in questi caso è più probabile che si tratti di quadri e dirigenti che sono abitualmente sottoposti a periodi di prova più lunghi). Le dimissioni invece avvengono più frequentemente tra il terzo e il dodicesimo mese.
Si tratta di dati di natura strettamente descrittiva che confermano tuttavia la possibilità di utilizzare le informazioni sulle cessazioni contenute nelle CO e l’opportunità dunque di dedicare ulteriori approfondimenti anche a questo specifico tema.
Torino, 29 novembre 2012
APPENDICE
Tabella A – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per classe di età
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Tabella B – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per settore
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.
Tabella C – Sopravvivenza dei contratti a tempo indeterminato per qualifica
Elaborazione a cura dell’OPML su dati SILP – Sistema Informativo Lavoro del Piemonte.