DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
XXXXX XXXXX XXXXX
LIBERA UNIVERSITA’ INTERNAZIONALE DEGLI STUDI SOCIALI
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA A.A. 2013 – 2014
TESI IN: ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO TITOLO: I CONTRATTI A CAUSA DIVISORIA
RELATORE: Xxxxx.xx Xxxx. XXXXXXXX XXXXXX CANDIDATO: XXXXXX XXXXXXXXXX
MATR: 103823
CORRELATORE (I) :Xxxxx.xx Prof. XXXXXXX XXXXXXX
CAPITOLO PRIMO
LO SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE QUALE EFFETTO DELLA VOLONTA’ NEGOZIALE
1. Il contratto tipico di divisione e le sue species 4
2.Segue: Fondamento e natura giuridica 10
2.1 Teoria della natura dichiarativa 11
2.2 Teoria della natura costitutiva 13
3.Divisione contrattuale e divisione giudiziale a confronto 15
4. Impugnazione della divisione contrattuale: il rimedio della rescissione per lesione 19
5.L’intervento del testatore nella divisione ereditaria 26
6.I rapporti tra comunione e divisione: la tesi della non necessarietà della comunione quale presupposto della divisione 34
CAPITOLO SECONDO
I CONTRATTI A CAUSA DIVISORIA
1.Causa in astratto e causa in concreto del contratto ad effetto divisorio……
............................................................................................................................... 37
2. Tipicità ed atipicità del contratto quali strumenti dell’autonomia privata per la realizzazione dell’effetto divisorio 43
3.Lo scioglimento della comunione mediante negozio indiretto……………..
............................................................................................................................... 48
4. Lo scioglimento della comunione mediante negozio a causa mista……….
............................................................................................................................... 50
5. Lo scioglimento della comunione mediante collegamento negoziale……….
............................................................................................................................... 55
6. La qualificazione di una fattispecie divisoria e l’interferenza della normativa fiscale: la divisione di masse plurime 59
7.L’oggetto di un contratto a causa divisoria 65
8. Il problema dei beni non divisibili 74
9. Effetto retroattivo della divisione e dei suoi surrogati 80
CAPITOLO TERZO
CONTRATTI TIPICI ED ATIPICI CON EFFETTO DIVISORIO
0.Xx divisione con conguagli e la divisione civile 85
0.Xx permuta di bene o di quota su beni 90
2.1 Segue: La permuta di quote su beni indivisi 92
0.Xx donazione 94
4. Il patto di famiglia 98
0.Xx transazione 115
CONCLUSIONI 122
BIBLIOGRAFIA 126
CAPITOLO PRIMO
LO SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE QUALE EFFETTO DELLA VOLONTA’ NEGOZIALE
SOMMARIO: 1. Il contratto tipico di divisione e le sue species. – 2. Segue: Fondamento e natura giuridica. – 2.1 Teoria della natura dichiarativa. – 2.2 Teoria della natura costitutiva. – 3. Divisione contrattuale e divisione giudiziale a confronto. – 4. Impugnazione della divisione contrattuale: il rimedio della rescissione per lesione – 5. L’intervento del testatore nella divisione ereditaria. – 6. I rapporti tra comunione e divisione: la tesi della non necessarietà della comunione quale presupposto della divisione.
1. Il contratto tipico di divisione e le sue species
La realtà del fenomeno divisorio suscita per lo più due idee: l’idea dello scioglimento di un preesistente stato di comunione1 e l’idea, strettamente collegata, di un’equa distribuzione fra tutti i compartecipi dei beni sino a quel momento comuni.
1C. XXXXXXXX Divisione ereditaria, in X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, vol. II, Milano, 2010, p. 1 La comunione, come configurata dalla sua disciplina positiva, integra un rapporto giuridico complesso, che si instaura intorno alla medesima cosa, caratterizzato dall’identità qualitativa delle posizioni dei compartecipi e nel quale il diritto imputato alla pluralità di soggetti, pur conservando la sua natura sostanziale, si rifrange e si ricompone in un intreccio di situazioni reali ed obbligatorie, di poteri individuali di godimento e di disposizione pro quota e di poteri collettivi di gestione di disposizione pro indiviso della cosa comune.
Presupposto, non sempre necessario2, della divisione è, appunto, uno stato di comunione.
A fini della nostra indagine, rileva, anzitutto, l’ovvia distinzione, tra due tipologie di comunione: comunione ereditaria e comunione ordinaria.
Uno stato di comunione ereditaria si determina ogni qualvolta l’eredità venga acquistata da più eredi mediante accettazione, espressa o tacita, o per effetto di compossesso di beni ereditari. La comunione ereditaria è sempre unica3 anche se esistono coeredi in base a diverso titolo, ossia eredi legittimi o legittimari accanto ad eredi testamentari.
A differenza della comunione ereditaria, che come visto, ha come oggetto normale e tipico l’universum ius defuncti, la comunione ordinaria ha una struttura atomistica4; in questo caso, quando i beni in comune provengono da titoli diversi, non si realizza un’unica comunione, ma tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza: alla pluralità di titoli corrisponde una pluralità di masse, ciascuna delle quali costituisce un’entità patrimoniale a se stante5.
Al fine di addivenire allo scioglimento della situazione di comunione, ordinaria o ereditaria che sia, il legislatore ha previsto l’istituto della divisione, dedicandogli una duplice normativa6, legate da un rapporto di
2Lo stato di comunione, infatti, non è un presupposto necessario della divisione operata dal testatore. In questo caso, come si dirà in seguito, l’effetto della divisione dovrebbe scaturire come conseguenza del decesso del de cuius, quindi, la situazione di comunione non si verrebbe nemmeno a creare.
3A. TORRONI Divisione ordinaria e divisione ereditaria: rilevanza della distinzione e casistica in Contratto di divisione ed autonomia privata. Fondazione italiana per il notariato, Milano, 2008, p. 43 dove si scrive “ il coerede non subentra solo nella contitolarità dei beni ereditari ma subentra invece nell’universum ius defuncti.
4A. TORRONI Divisione ordinaria e divisione ereditaria: rilevanza della distinzione e casistica, cit., l’oggetto della comunione ordinaria è identificato precisamente nel titolo che costituisce la fonte della comunione: ad esempio, atto di acquisto in comune da parte di più comunisti; legato testamentario a favore di più collegatari.
5Cass. 21 maggio 1979,n. 2937, in Riv. not., 1979, p.1494; Cass. 8 maggio 1981, n. 3014,
in Vita not., 1981, 223.
6La divisione trova duplice disciplina nel vigente codice civile: quella generale che si rinviene nel libro III del codice (nel titolo della comunione agli artt. 1111-1116 c.c.), e una normativa speciale che si trova nel libro II del codice civile ( titolo IV DELLA
interdipendenza che determina una singolare compenetrazione tra le due discipline, dando vita a quattro gruppi di norme.7
Tale normativa ha carattere derogabile, in quanto tutela interessi privati dei condividenti i quali possono rinunziarvi, implicitamente o esplicitamente, in sede di divisione giudiziale o stragiudiziale.
La disciplina delle successioni mortis causa è influenzata, da una lato, dalla sua natura peculiare di universitas iuris e, dall’altro, da esigenze di tutela della famiglia come istituto di importanza sociale, che si traducono, ad esempio, negli istituti della collazione dei beni donati e nella riduzione delle disposizione lesive dei diritto riconosciuti ai legittimari.
Inoltre, la disciplina della divisione ereditaria è finalizzata a definire in maniera definitiva i rapporti di debito-credito tra i coeredi e ad evitare che venga procrastinato il regolamento dei conti tra i condividenti8.
Queste esigenze, appunto, proprie della divisione ereditaria, la distinguono dalla divisione ordinaria.
La divisione, istituto, come ricordiamo, previsto dal legislatore allo scopo di sciogliere un preesistente stato di comunione, può essere attuato in diverse
DIVISIONE, artt. 713 c.c. e ss.), che riguarda la divisione ereditaria e che si applica anche alla divisione ordinaria nei limiti della compatibilità.
7Anzitutto abbiamo un primo gruppo di norme che sono comuni tanto alla divisione ordinaria che alla divisione ereditaria: si pensi al diritto alla divisione ( art 713 x.x. x 0000 x.x.) x xx xxxxxxxxxxx xxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx (xxx. 717 c.c. e 1111 1° comma seconda parte c.c.). Poi abbiamo norme sulla divisione in generale che si applicano anche alla divisione ereditaria, ciò in quanto la disciplina del genere si applica anche alla specie, se non è diversamente stabilito; queste norme riguardano l’intervento nella divisione dei creditori e degli aventi causa (art. 1113 c.c. ) l’estinzione delle obbligazioni solidali dei partecipanti (art 1115 c.c.) e il patto di indivisibilità fra i condividenti (art. 1111 comma 2° e 3° c.c.). C’è da dire che non esistono norme sulla divisione in generale non applicabili alla divisione ereditaria, perché il legislatore con la disciplina speciale ha integrato e non derogato alla disciplina generale. Un terzo gruppo di norme riguardano la divisione ereditaria e sono applicabili anche alla divisione in generale, in osservanza di quanto disposto dall’art. 1116 c.c.
L’ultimo gruppo ricomprende quelle norme che riguardano la divisione ereditaria ma che non sono applicabili alla divisione generale: queste norme riguardano delle eccezioni che si giustificano per la loro necessaria afferenza alla comunione ereditaria, ad esempio l’istituto della collazione dell’imputazione dei debiti artt. 724, 725, 737-751 c.c.,; il pagamento dei debiti ereditari artt. 752-756 c.c.
8Cfr. artt. 719, 724, 725 c.c.
forme, celebre è la distinzione fra divisione contrattuale e divisione giudiziale.
Anche se la divisione giudiziale, a tutta prima farebbe propendere per un necessario contrasto fra i condividenti, ciò non è assolutamente esatto, in quanto ciascun partecipante potrà richiedere la divisione giudiziale, anche solo perché ritiene maggiori le garanzie offerte dal giudice.
Il codice civile, invece, non dà una definizione di contratto di divisione, essendo stato il compito lasciato dal legislatore alla dottrina.
Ordinario mezzo di deroga alla disciplina legale, il contratto di divisione è stato definito da autorevole dottrina9 come “il contratto con il quale si perviene allo scioglimento di una comunione attraverso l’assegnazione a ciascuno dei compartecipi di una porzione di valore corrispondente alla quota”, in sostanza si ha quell’effetto che si sostanzia nel passaggio dalla proprietà sulla pars quota alla pars quanta10.
I requisiti del contratto di divisione sono quelli previsti dal codice11 per ogni altro contratto: l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma.
L’accordo delle parti deve essere soggettivamente universale, a pena della sua validità12; la prestazione del consenso può avvenire simultaneamente ovvero mediante adesione successiva di ciascun condividente alla proposta fatta da uno o più condividenti. Finché tutti i condividenti non abbiano il consenso il contratto non è perfezionato, le adesioni possono essere ritirate così come le proposte13.
9G. XXXXXXXXX voce Divisione (diritto civile), in Noviss. Dig. It., Torino, 1960, vol. VI, p. 33.
10F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1962, p. 567.
11Cfr. art.1325 c.c.
12Conseguenza ulteriormente rafforzata dalla disciplina della divisione giudiziale che impone il litisconsorzio necessario ex art. 784 cod. proc. civ. (nel caso, invece, di cessione di quota da parte di un coerede, la qualità di litisconsorte necessario spetta al cessionario e non al coerede cedente come stabilito da Xxxx. Sez. 2, n. 12242 del 6/06/2011, in GADIT).
13G. XXXXXXX, voce Divisione della cosa comune (Diritto privato), in Enc. dir.,XIII, Milano, 1964, p. 425; X. XXXXXXXX Divisione ereditaria cit., p. 124.
Ancora, il contratto può essere a formazione istantanea, quando l’accordo investe tutte le fasi procedimentali essenziali poste in essere, o a formazione progressiva, quando si raggiungono progressivi accordi sulle varie operazioni divisorie; questi ultimi non hanno la qualifica di contratti, ma sono fasi di un più complesso contratto a formazione progressiva del quale sono atti essenzialmente preparatori.
Quanto alla causa la dottrina afferma che essa consiste nello scioglimento della comunione attuato a mezzo dell’apporzionamento, cioè a mezzo dell’assegnazione a ciascun partecipe di un valore proporzionale al valore della sua quota14.
La forma, elemento che il codice stesso richiede quando è prescritta dalla legge a pena di nullità15, deve essere scritta se riguarda beni immobili o mobili registrati; invece in caso di beni mobili il contratto si perfeziona con il consenso manifestato verbalmente dalle parti. La forma scritta è prodromica alla trascrizione.16
Da ultimo, in relazione all’oggetto, l’ampia nozione di divisione porta a comprendere anche beni non comuni17.
Il contratto di divisione è un contratto ad effetti reali contestuali18.
Il contratto, però, potrebbe non avere effetti immediati nel caso in cui le parti decidessero di sottoporlo ad un evento futuro ed incerto, ossia ad una
14G. CAPOZZI Successioni e Donazioni, Milano, 2002, t. II, p. 696; L. V. XXXXXXXXX, Gli atti equiparati alla divisione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1963, p. 533.
15Cfr. art. 1325 1° comma n. 4 c.c.
16La forma deve essere una di quelle previste dall’art. 2657 c.c., ovvero atto pubblico, scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente.
17G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 696, secondo il quale si ricomprendono i conguagli (ossia le somme di danaro date per compensare il minor valore dei beni ricevuti rispetto al valore della quota a determinati condividenti) e ogni altro bene che venga dato allo scopo di effettuare la dovuta assegnazione di valori corrispondenti alle quote.
18P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Della Divisione, in X. XXXXXXXX e X. XXXXXX
(a cura di), Commentario del codice civile. Bologna, 2000, p. 13, poiché dal momento della conclusione del contratto si producono gli effetti reali della divisione ed i condividenti passano dalla situazione di con titolarità alla situazione di proprietà esclusiva; vedi anche X. XXXXXXXX, Divisione contrattuale e garanzia per l’evizione, Napoli, 1981, p.158.
condizione19. Le parti possono dedurre anche una condizione risolutiva20, ma in questo caso è necessario che si accordino per regolare le conseguenze dell’eventuale avverarsi della condizione dedotta, in modo da non alterare la proporzionalità tra quote e porzioni.
Anche se ancora in materia non vi è accordo unanime, molti autori annoverano il contratto di divisione fra i contratti sinallagmatici ed onerosi21, anche se convincente sembra l’assunto di coloro che lo definiscono come contratto neutro22.
19L’ipotesi più frequente di condizione dedotta in questa categoria di contratti è la condizione sospensiva nella divisione con conguagli; anche se è vero che in questo caso il condividente è garantito da ipoteca legale per il pagamento del conguaglio ex art. 2817 comma 2° c.c., qualora i beni da dividere siano esclusivamente beni mobili, e come tali insuscettibili di essere gravati da iscrizione ipotecaria, le parti possono decidere di risolvere tale inconveniente sottoponendo il contratto a divisione.
20A. MORA, Il contratto di divisione, Milano 1995, p. 138.
21P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 18, X. XXXXXXX,
Successioni e Donazioni, cit., p. 692, X. XXXX, Il contratto di divisione, cit., p. 237-238 e 139. In particolare l’autore citato qualifica il contratto di divisione come un contratto oneroso, poiché ogni condividente porrebbe in essere una prestazione che consisterebbe nella rinuncia al diritto sulla pars quota che di conseguenza comporta l’acquisto del diritto di ogni condividente-rinunciante sulla pars quanta. Sempre secondo l’autore citato tale contratto non avrebbe anche la natura di contratto sinallagmatico, in quanto il vantaggio consistente nell’acquisto della proprietà esclusiva sui beni attribuiti conseguentemente all’apporzionamento divisorio sarebbe conseguenza esclusiva della propria prestazione.
22In particolare, X .XXXXXXXX Divisione ereditaria, cit., p. 134-135, se oneroso significa che dal contratto derivi un sacrificio di carattere patrimoniale, subito da ciascuna parte al fine di conseguire un vantaggio in un rapporto di equivalenza delle rispettive prestazioni, allora la divisione non può essere definita onerosa, perché il condividente ricevendo beni di valore proporzionale alle sua quota, non fa alcun sacrificio; la divisione, quindi, è preferibilmente definibile come atto neutro, non oneroso ma neanche gratuito, visto che nessuno dei condividenti compie liberalità a favore degli altri; X. XXXX, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, p. 294; V. R. XXXXXXX, voce Divisione ereditaria (dir. civ.) nel Xxxxxx. Xxxxxxx xx., XX, Xxxxxx, 0000, x. 00; in senso conforme M. R. XXXXXXX, La comunione e la divisione ereditaria, in Giur. sist. di dir. civ. e comm., Torino 1986, p. 171; in giurisprudenza Trib. Roma, 22 marzo 1994, in Gius. Fasc. 14, p. 147; App. Milano, 3 Febbraio 1999, in Foro it., 2000, I, 2980, per il quale la natura di atto neutro della divisione implica che, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, non è richiesta la prova della scientia damni del terzo.
2. Segue: Fondamento e natura giuridica
E’ opinione diffusa che la comunione sia causa di frequenti dissidi fra i contitolari del diritto e che l’attenuazione dell’interesse ad una gestione dinamica della cosa comporti il rischio dell’astensione da utili iniziative, con conseguente pregiudizio per la produttività dei beni comuni e per la loro libera circolazione.23
L’effetto della divisione, cioè quello di attribuire mediante apporzionamento, beni in proprietà esclusiva di valore proporzionale a quello della quota sui beni comuni, dovrebbe evitare tali problemi.
Problematica è la questione relativa alla natura giuridica dell’istituto in esame, in particolare due teorie si contendono il campo. La prima, affermatasi in passato, sosteneva la natura dichiarativa della divisione, l’altra, più recente, che, invece, ritiene la divisione abbia natura costitutiva. La questione deve essere posta nei seguenti termini: dalla divisione discende un autentico effetto costitutivo, nel senso che il condividente acquisterebbe sul bene un nuovo diritto; o si ha un mero effetto dichiarativo, cioè mediante la divisione verrebbe solamente inquadrato l’oggetto del diritto del compartecipe, verrebbe quindi specificata la quota, pur restando immutato il diritto del compartecipe?
23E’ opinione altrettanto corrente che la disciplina positiva della comunione e della divisione sia incentrata sulla opzione politica del favor divisionis; il legislatore, infatti, mosso dallo sfavore nei confronti dello stato di comunione ha emanato una normativa che è volta ad incentivare le operazioni divisorie, e a prevedere come eccezionale le ipotesi di sospensione della divisione stessa, regolate dagli artt. 713 comma 2° e 3° c.c. (sospensione per volontà del testatore) 715 c.c.(sospensione legale) 717 e 1111 comma 1° seconda parte c.c. (sospensione per provvedimento dell’autorità giudiziaria).
2.1 Teoria della natura dichiarativa24
Nel tentativo di classificare l’effetto tipico della divisione, due questioni sorgono per l’interprete25: l’una rappresentata dall’antica tesi, secondo cui la divisione produrrebbe un effetto meramente “dichiarativo”, l’altra rappresentata dal diritto vigente26, che sembra aver dato base positiva alla predetta tesi.
In sostanza, chi aderisce alla teoria della natura dichiarativa della divisione, ritiene che la stessa non verrebbe “a fare altro che a tradurre in realtà l’astrazione; a rendere effettiva la ripartizione ideale preesistente27”.
Tale assunto è stato ulteriormente rafforzato in sede di normativa, con una disposizione (art.757 c.c.) che sembrava avesse consacrato positivamente gli approdi di questa ricostruzione.
Tuttavia, col tempo questa teoria non è andata esente da critiche, in particolare criticato era l’assunto che il passaggio dalla comunione alla proprietà individuale non creasse un nuovo diritto per il condividente.
Proprio al fine di aggirare tali critiche, alcuni autori hanno cercato, con sforzi interpretativi, di dare nuovo vigore a questa datata teoria.
24G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 693 La teoria dichiarativa ha la sua genesi più che in motivi giuridici, in esigenze pratiche che, si andavano manifestando nel diritto intermedio. In particolare, essendo dovuto un tributo molto sostanzioso al sovrano per ogni trasferimento di diritti feudali, al fine di evitare che in sede di successione ereditaria questo tributo fosse pagato due volte, dottrina e giurisprudenza riuscirono ad elaborare ed imporre l’ingegnosa tesi per cui la divisione avrebbe avuto carattere meramente ricognitivo, con il quale ci si sarebbe limitati a dichiarare il diritto parziario di ciascun coerede già acquisito a seguito della successione.
25P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 49
26L’art 757 c.c. rubricato “Diritto dell’erede sulla propria quota” recita espressamente: ”Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari”.
27F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, cit., p. 568; X. XXXXXXXXXX, Meditazioni sul processo divisorio, Riv. dir. proc. civ., 1940, I, 20 e ss.;
X. XXXX, Adempimento e liberalità, cit., p. 294; X. XXXXXXXXXXXX, Delle successioni. Divisione. Donazione, in Comm. cod. civ.,Torino, 1980, p.7; X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, p. 527.
In questo modo, nell’ambito di coloro che sostengono la natura dichiarativa, vi sono differenti punti di vista.
Innanzitutto, la dottrina ha cominciato col porsi la domanda se il contratto di divisione potesse essere qualificato come contratto di accertamento28: contratti con i quali si rimuove l’incertezza di una situazione giuridica preesistente fissandone il contenuto.
Per i fautori della tesi, la qualificazione del negozio divisorio come negozio di accertamento, consentirebbe, appunto, di soddisfare l’interesse di accertare una situazione giuridica incerta29, quella della comunione.
Questa tesi è, però, incompatibile sia con la divisione con conguagli non provenienti dalla divisione30, dove l’accertamento, già da un lato logico, sarebbe impossibile, ma anche con riguardo alla garanzia per l’evizione31, dove se uno dei contitolari subisse l’evizione l’accertamento sarebbe da considerarsi inesatto.
Autorevole dottrina32 ha introdotto la tesi della surrogazione reale.
Questa sostiene che con la divisione la modificazione che si crea consiste nel passaggio dalla proprietà sulla quota alla proprietà esclusiva sui singoli beni che ad ogni condividente vengono attribuiti; il mutamento non toccherebbe il diritto del singolo, che rimarrebbe sempre lo stesso- diritto di proprietà- ma riguarderebbe l’oggetto del diritto stesso. Questo, appunto,
28E. XXXXXXXXX, Il problema dell’individuazione del <<negozio di accertamento>>, in Rass. Dir. civ., 1986, p. 584; X. XXXXXXXXXX, Documento e negozio giuridico, in Riv. dir. proc. civ. 1926, I, p. 206 ss.; X. XXXXXX, Natura giuridica del negozio di accertamento, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, p. 132 ss.
29La situazione di incertezza circa la comunione è diversamente ravvisata a seconda che si faccia riferimento ad una situazione di incertezza soggettiva, cioè incertezza in relazione a chi i beni spettino, ovvero incertezza di natura oggettiva, in relazione ai singoli diritti di proprietà.
30La considerazione è di X. XXXX, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione ed acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. Dir. civ. e comm., diretto da X. XXXX e X. XXXXXXXX, 2a ed., Milano, 1961, p. 371, nota 11.
31C. XXXXXXXX, Divisione contrattuale e garanzia per l’evizione, cit., p. 104.
32A. CICU, Le successioni a causa di morte, Milano, 1958, p. 394 ss, alla quale hanno aderito V.R. XXXXXXX, voce <<Divisione ereditaria (diritto civile)>>, in Noviss. Dig. It., vol VI, Torino, 1960, p. 53 e X. XXXXXXX, voce Divisione della cosa comune (Diritto privato), cit., p. 423.
perché la divisione determinerebbe una surrogazione reale. Da ciò deriva che la divisione non può essere definita come atto traslativo ma come atto dichiarativo, essendo sempre stato il contitolare proprietario dei beni che gli vengono assegnati33.
Anche la ricostruzione della surrogazione reale non è rimasta indenne da critiche, in particolare viene contestato il presupposto su cui fonda, cioè il diritto di proprietà sulla quota34.
Da ultimo, merita menzione la tesi di chi vede nella divisione un mezzo per eliminare la situazione di incertezza che naturaliter si accompagna alla divisione, appunto, definita teoria della proprietà xxxxxxx00.
2.2 Teoria della natura costitutiva
Di recente ha preso campo una diversa interpretazione della norma legislativa36 che sembrava dare fondamento alla teoria della natura
33L’assunto si basa sull’art. 2865 c.c. che tratta il caso di ipoteca su beni oggetto della comunione. Nella fattispecie, se un contitolare ipoteca un bene della comunione, e in sede di divisione riceve un bene diverso da quello ipotecato, l’ipoteca passa sui beni che gli vengono attribuiti, sempre che si tratti di beni immobili o di beni mobili registrati.
34P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Della divisione, cit., p. 54 La quota, infatti rappresenta solo un aspetto ideale, uno strumento di misurazione di diritti che appartengono in comune a più soggetti; risolvere la divisione nel passaggio dalla quota altro non significherebbe dire che nella divisione vi sia il passaggio del diritto del compartecipe, senza definirne in alcun modo il contenuto.
35A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 97 Partendo dal presupposto che la comunione rappresenterebbe una situazione di proprietà incerta, dove il diritto di proprietà non spetterebbe al singolo ma alla “collettività dei comunisti”, con la divisione si determinerebbero le singole porzioni, non ancora individuate in pendenza di comunione, e si eliminerebbe così l’incertezza congenita della comunione. Tale ragionamento trova sostegno normativo negli artt. 2825 comma 1° e 2646 c.c., che disciplinano la trascrizione della divisione con effetti che divergono rispetto a quella regolata dall’art. 2644 c.c. tipica degli atti traslativi, e si sostiene non essendo la divisione trattata in questo caso alla stregua degli atti traslativi, ciò consentirebbe di escluderla dal novero di tali atti.
Tuttavia bisogna discostarsi da questa interpretazione che è viziata già nel presupposto, ossia nell’affermare essere la comunione una situazione di proprietà incerta; con la comunione, infatti, si realizza la contitolarità dei diritti in capo ai partecipanti, relativamente a tutto il bene nella sua interezza, e la misura della partecipazione del singolo è data dalla sua quota, intesa non come bene, né come diritto, ma come misura del diritto sull’intero bene.
dichiarativa, ma all’opposto fine di sostenere la tesi avversa, ovvero, la tesi della natura costitutiva37 dell’istituto divisorio.
Infatti, non può sostenersi la preesistenza della situazione giuridica determinata dalla divisione, cioè quella che corrisponde alla situazione di proprietà individuale dei beni in capo ai singoli condividenti: la situazione di comunione è comunque esistita per un certo lasso di tempo.
Di certo non si può negare che la legge faccia retroagire l’efficacia della divisione al momento iniziale della comunione, al fine di garantire l’immediata successione dei condividenti nella posizione del de cuis, ma ciò altro non è se non retroattività, fenomeno compatibile con l’efficacia propria di un negozio costitutivo e non solo di accertamento.
Inoltre, alla tesi del negozio di mero accertamento, o comunque dichiarativo, deve essere mossa necessariamente la critica, che lo scioglimento della comunione non elimina solo lo stato di incertezza circa l’appartenenza dei singoli beni, ma modifica in maniera sostanziale la situazione precedente, nel senso di instaurare tante proprietà individuali in luogo di una comproprietà.
36Art. 757 c.c. alla luce della diversa interpretazione, per i fautori della natura costitutiva, non può essere trascurato il tenore letterale della norma. Questi, infatti, reputano lo stesso perfettamente compatibile con la tesi costitutiva della divisione. La legge non dice infatti che il condividente “è” o “diviene” immediato od esclusivo proprietario dei beni a lui successivamente assegnati nella divisione sin dal momento dell’apertura della successione; dice invece che il condividente “è reputato”, “si considera” unico proprietario fin da quel momento. Ciò conforta la tesi di chi vede in questa norma una mera finzione legale, che non può, perciò, costituire valido fondamento per una visione dichiarativa dell’istituto di divisione.
37F. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, La transazione, Napoli, 1975, p. 32;X. XXXXXXXXXX e
X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 58 , X. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 694.
3. Divisione contrattuale e divisione giudiziale a confronto
Sebbene sia possibile addivenire all’effetto divisorio attraverso una moltitudine di procedimenti, la divisione va sempre considerata, concettualmente, in prospettiva unitaria.
E, benché la distinzione fra divisione contrattuale e divisione giudiziale rimanga fondamentale, l’unitarietà del fenomeno non può essere messa in discussione indipendentemente da quale sia il procedimento che la pone in essere, accordo tra gli aventi diritto o ricorso al giudice.
Ciò, a maggior ragione considerando il forte rilievo che nella dottrina italiana assume la tesi della identità di disciplina sostanziale, per il caso delle due tipologie di divisione poc’anzi citate38.
Per quanto riguarda la divisione contrattuale, della quale già si è diffusamente xxxxxxx00, essa trova fondamento sull’accordo di tutti gli aventi diritto e si formalizza nel contratto di divisione.
Nel caso, invece, di ricorso al giudice, essa può essere provocata dalla domanda del singolo compartecipe40, indipendentemente dal consenso degli altri.
Essa, non necessariamente implica un contrasto tra i partecipanti, essendo necessario solamente che uno di essi eserciti il diritto di chiedere la divisione, dando inizio al relativo giudizio che prosegue anche nel caso in cui non dovessero sorgere contestazioni; la scelta dell’iter giudiziale può essere giustificata anche solo dal convincimento della sua opportunità nel
38Gli artt. 718 ss. c.c. trovano applicazione in sede di divisione giudiziale, ma fissano anche i criteri divisionali cui ci si deve attenere in sede di divisione amichevole, sempre salvo il diritto di ciascun partecipe di instaurare una contestazione giudiziaria al fine di ottenere l’applicazione, così X. XXXXXX, La comunione, nel Trattato Grosso e Xxxxxxx- Xxxxxxxxxx, p. 369; X. XXXXXXX, Comunione ereditaria e legittimario pretermesso, in Giur. mer., 1970, I, 4.
39Vedi supra n.1.
40Tale domanda produce l’effetto di accettazione tacita dell’eredità; Xxxx. 23 febbraio 1985, n.1628, in Mass. Giust. civ., 1985, fasc.2; Trib. Roma 20 aprile 2000, in Giur. merito, 2000, 733.
caso concreto, e può essere anche promossa di comune accordo da tutti i condividenti.
La disciplina sostanziale della divisione giudiziale non differisce rispetto a quella amichevole, quindi anche per essa troveranno applicazione le norme che regolano le fasi divisorie.
Interessante è il dibattito che si è instaurato sulla natura del giudizio di divisione41, essendosi la dottrina processualistica a lungo interrogata a proposito, giungendo ad una prima fase a soluzioni contrastanti, l’una riconoscendo al giudizio divisorio natura contenziosa, ordinaria, sommaria o esecutiva42, l’altra attribuendo natura di procedimento di volontaria giurisdizione avente natura negoziale43.
La soluzione del problema, però, in chiave di essenziale alternativa fra queste due posizioni, ha comportato numerose critiche per entrambe le teorie.
Alla prima, quella della giurisdizione contenziosa, si obietta in particolare che allora così argomentando essa implica necessariamente l’assimilazione alla sentenza dell’ordinanza pronunciata dal giudice istruttore, in mancanza
41Il problema della natura del contratto di divisione è già stato trattato nel paragrafo n. 2 al quale si rimanda per approfondimenti.
42Per la natura contenziosa e sommaria del giudizio divisorio X. XXXXXXX, Giudizio divisorio e sentenza con pluralità di parziale con pluralità di parti, in Giur. It., 1946, I, 79 ss. Sul fatto che il procedimento divisorio sia modellato sulle esigenze del giudizio contenzioso vedi X. XXXXXX, voce Procedimento divisorio, in Digesto delle discipline priv., Torino, 1996, p. 643. Per la natura esecutiva del giudizio, v. I. XXXXXXXX, Note sull’oggetto del giudizio divisorio, in Riv. dir. civ., 1960, II, p. 588 ss.; Cass. 4 aprile 1987, n. 3262, in Foro It.;Recentemente è stata proposta una soluzione contenziosa originale, fondata sul mancato accordo dei compartecipi X. XXXXXXXXX, Corso di diritto processuale civile, III, Torino, 1995, p. 280.
43F. CARNELUTTI, Meditazioni sul processo divisorio, cit., p. 22 ss. in una successiva opera ( Istituzioni del nuovo processo civile italiano, III, Roma, 1951, p. 192 ss.) l’autore assimila la divisione ad ogni altro processo volontario di stato, in quanto ogni disaccordo che insorge tra i compartecipi sul fondamento o sulle modalità della divisione non è da considerare come una lite, ma come un mero dissenso sul modo di raggiungere il comune interesse. Sulla natura non contenziosa della divisione giudiziale X. XXXXX, Sulla natura giuridica del processo di divisione, in Foro It., 1947, I, p. 356 ss. Per la natura volontaria
X. XXXXXXXXX, voce Giurisdizione volontaria , in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 368 ss.
di contestazioni44; che non vi è il presupposto di una norma di condotta che si predenda violata45.
Alla teoria che cataloga il processo di divisione fra quelli di volontaria giurisdizione, si fa notare che essa conduce ad un inevitabile parallelismo con i processi di stato46 ed ad un eccessivo restringimento della giurisdizione contenziosa anche nel caso in cui alla divisione si pervenga nel disaccordo dei partecipanti47.
Viste le difficoltà che si sono incontrate, si è andato affermando un orientamento, apprezzato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, che desistendo dall’ambizione di dare una qualificazione unitaria a questo procedimento, lo qualifica con una duplice chiave di lettura, come processo contenzioso di cognizione, ovvero come procedimento di volontaria giurisdizione, a seconda che la divisione sia decisa, nel caso di disaccordo delle parti, con un provvedimento autoritativo del giudice, o, per contro, mediante un provvedimento di omologazione della concorde volontà dei comunisti, formatasi con la partecipazione cooperativa di un giudice48.
La domanda di divisione si propone con atto di citazione al Tribunale del luogo di apertura della successione, e deve essere notificata a tutti i coeredi e agli eventuali creditori opponenti.
Dà una diversa soluzione chi ritiene che la divisione giudiziale abbiano natura di processo di volontaria giurisdizione, in questo caso si ritiene che
44Cfr. art. 789 c. p. c.; X. XXXXXXX, Giudizio divisorio e sentenza con pluralità di parziale con pluralità di parti, cit., x. 00 xx.
00X. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1979, p. 271; X. XXXXX, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir. Treccani, XI, 1989, p. 2.
46F. CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, cit., p. 192 ss.
47Per tale critica X. XXXXXXXXX, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, p. 201 ss. 48U. XXXXX, Trattato di diritto processuale civile, VI, UTET, Torino, 1967, p. 360; X. XXXXXXX, Diritto processuale civile, Milano, 1954, III, p. 416, secondo il quale la natura contenziosa del giudizio investirebbe l’an dividendum, mentre quella volontaria le difficoltà circa il quomodo. Aderiscono alla soluzione mista anche X. XXXXXXXXXX e
G. VERDE, Cod. proc. civ. commentato, sub. artt. 784 ss., Torino, 1997, p. 681; La concezione bivalente della divisione giudiziale è stata recepita e sviluppata dalla dottrina civilistica, seppure con sfumature diverse: X. XXXXXXXXXX e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 3; X. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p.692; X. XXXXXXXX, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, p. 467.
la domanda si proponga con ricorso al giudice che deve porre in essere le operazioni divisionali, con la possibilità di far gravare sul cancelliere l’onere di comunicare alle parti la data d’inizio delle operazioni stesse49.
Per quanto riguardo l’oggetto del giudizio di divisione, questo è rappresentato bensì dall’accertamento del diritto di ciascun coerede ad una quota ideale dell’asse, ed anche dalla sua trasformazione in diritto di proprietà esclusiva su di una corrispondente porzione50.
Il principio del doppio grado di giurisdizione vige anche per quanto riguarda il giudizio di appello divisionale, sicché l’originaria domanda giudiziale di divisione che non comprendeva un determinato bene non può essere integrata in appello dovendosi dichiarare inammissibile51.
In sostanza, va qualificata come una nuova domanda e quindi come mutatio libelli, piuttosto che emendatio libelli; come emendatio è da qualificarsi anche, e quindi dichiarare inammissibile, la richiesta di estendere lo scioglimento anche a beni per i quali, in primo grado, era stato chiesto ed ottenuto che rimanessero in stato di comunione, giacché essa non sarebbe una diversa modalità di realizzazione della divisione, ma introduce una nuova richiesta52.
Per quanto riguarda la conclusione del processo divisionale, questo non può ritenersi compiuto fino all’approvazione del verbale di assegnazione delle quote ereditarie attribuite a ciascun coerede53, non potendo ritenere sufficiente in tal senso la sola approvazione del progetto divisionale54.
49G. XXXXX, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir. Treccani, cit., p. 4.
50Cass. 10 Novembre 1998, n.11293 in Mass. Giust. civ. 1998, 2309.
51Cass 29 novembre 1994, n. 10220, in Mass. Giust. civ., 1994, fasc.11; Cass. 31 maggio.
1988, n. 3706, ivi, 1988, fasc. 5.
52Cass. 28 aprile 2011, n. 9472, in Mass. Giust. civ., 2011, 4, 671.
53Cfr. art. 195 disp. att. c.p.c.
54Cass 17 gennaio 2007, n.1049, in D&G, 2007.
4. Impugnazione della divisione contrattuale: il rimedio della rescissione per lesione
Per la divisione attuata mediante contratto, il legislatore, ha previsto, accanto alle impugnazioni inerenti all’invalidità di ogni negozio giuridico, due particolari azioni: annullamento per violenza e dolo55; rescissione per lesione.
L’annullamento della divisione per violenza e dolo56, vedrebbe il suo ambito di applicazione non limitato alla divisione negoziale, ma suscettibile di applicazione anche alla divisione giudiziale, in particolare quando questa è definita con decreto di assegnazione nel caso di accettazione unanime del progetto divisorio predisposto dal giudice o dal notaio.57
Venendo a parlare della rescissione per lesione, la sua particolarità, che la distingue dall’azione di rescissone generale58 prevista dal legislatore per i contratti, deriva dal fatto che in essa è riconosciuto, e trova tutela, uno degli
55L’art. 761 c.c. dispone che la divisione contrattuale può essere annullata quando è l’effetto di violenza o dolo. L’azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o il dolo è stato scoperto.
56E’ implicitamente escluso l’annullamento per errore; tale soluzione è stata giustificata dal fatto che il legislatore in compenso abbia inserito il rimedio della divisione supplementare nel caso di errore sulla quantità dei beni da dividere (art. 762 c.c.) e la rescissione per lesione nel caso di errore sulla valutazione dei beni (art. 763 c.c.). Tuttavia, alcuni autori tra cui X. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 707, evidenziano che l’errore acquisti rilevanza non come vizio della volontà, ma come vizio della causa, cioè quando esso riguardi i presupposti indispensabili della divisione, quali la partecipazione di tutti i coeredi, la determinazione della quota spettante a ciascuno di essi o l’esistenza di un valido titolo divisionale ( testamento ignorato al tempo della divisione). L’errore sui presupposti, però, come si osserva in dottrina, non sarebbe causa di annullabilità, ma addirittura di nullità, per mancanza totale o parziale di causa.
57G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 707.
58A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 375, dove l’Autore sottolinea le differenze. Una prima differenza già consiste nella misura della lesione, che per la divisone è di un quarto, mentre per l’azione generale è della metà, inoltre nella rescissione della divisione per lesione ultra quartum non sono richiesti i requisiti dello stato di bisogno e dell’ approfittamento, che invece sono presupposti necessari per la rescissione generale; differente, ancora, è il termine di prescrizione che, nella divisione è di due anni, mentre di un solo anno nel caso di rescissione in generale. X. XXXXXXXXXX e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 731, ritengono che il maggior termine possa spiegarsi con il minore dinamismo del fenomeno divisorio.
aspetti fondamentali che caratterizzano la divisione: la proporzionalità tra il valore delle porzioni assegnate ai condividenti e il valore delle quote59.
La rescissione per lesione della divisione è ammessa quando la lesione dei diritti di uno dei condividenti è pari al quarto del valore della sua quota.
Anche se si ritiene non rilevino nella rescissione per lesione elementi di carattere soggettivo, si ritiene che vi possa essere un’incidenza di fattori affettivi nella formazione delle porzioni, quali, ad esempio, l’aspirazione del condividente di vedere assegnato alla propria porzione un determinato bene. Il condividente, potrebbe, per tali ragioni, assoggettarsi all’assegnazione di una porzione inferiore a quella di sua spettanza, con lesione superiore ad un quarto. Però, l’aspetto soggettivo è tutelato solo nella possibilità di incidere, sotto il profilo qualitativo, nella formazione delle porzioni. Il limite della possibilità di disporre, nell’ambito quantitativo della formazione delle porzioni è rappresentato dal limite di tolleranza del quarto, all’interno del quale non è concessa l’azione di rescissione per xxxxxxx00.
59Proprio in ciò, X. Xxxx, fonda la distinzione più rilevante fra le due azioni, e cioè sul piano funzionale. Mentre la rescissione per lesione è fondata sul presupposto oggettivo dell’attribuzione proporzionale alle quote, e conseguentemente la lesione andrebbe ad incidere sulla causa del contratto di divisione, che oltre allo scioglimento della comunione ha come ulteriore elemento qualificativo l’apporzionamento proporzionale al valore della quota, nell’azione generale, che afferisce ai contratti di scambio, ciò che rileva, non è solo l’entità della lesione ma anche che essa sia conseguenza di uno stato di bisogno di una parte di cui l’altra parte ne aveva conoscenza e si sia approfittata; lo squilibrio fra le prestazioni delle parti diviene rilevante dal momento in cui non sia stato liberamente voluto dalle stesse.
60Suscita interesse analizzare come la dimensione della lesione protetta sia variata nel tempo. Man mano che la rescissione per lesione nella divisione assume carattere di autonomia e si discosta sempre di più rispetto a quella di carattere generale, il limite di tolleranza della sproporzione decresce. In sostanza, finché la divisione era considerata come un emptio-venditio la misura della lesione era la stessa della vendita, ossia la metà. L’autonomia della divisione porterà nel XVII secolo il presidente del Senato di Savoia, all’esplicita distinzione fra vendita e divisione anche sotto il profilo della misura della lesione, che non sarà più della metà bensì di un terzo. Ma si deve a Xxxxxxx, il merito di aver definitivamente fissato la distinzione fra la vendita e la divisione ed il principio di eguaglianza nella divisione. Questi sancirà, definitivamente, a misura della lesione oltre il quarto.
Il margine di tolleranza, entro il quale non v’è difetto funzionale, risponde alla finalità di assicurare la conservazione degli atti compiuti e la tutela dei terzi61. La previsione del predetto margine di tolleranza afferisce alla peculiare funzione di attribuzione della divisione, e vi rientrano tutte le ipotesi di errore che influiscono sul risultato economico dell’apporzionamento, come ad esempio effettivi errori sulla stima dei beni o sulle operazioni divisorie; nel limite del quarto privi di rilievo rimangono i fattori soggettivi di debolezza del contraente ed interessi affettivi per particolari beni62.
L’azione di rescissione per lesione oltre il quarto, secondo un orientamento63, in quanto mira ad evitare che si turbi oltre certi limiti l’equilibrio economico delle prestazioni e l’eguaglianza delle quote, riguarda l’interesse pubblico e, pertanto, non potrebbe essere oggetto di rinunzia preventiva da parte dei condividenti.
Secondo, invece, un altro orientamento64 il condividente leso potrebbe rinunziare all’azione in esame, in quanto il breve termine di prescrizione per esercitarla, la previsione della sanzione dell’inefficacia piuttosto di quella della nullità che solitamente accompagna l’atto di autonomia privata che si pone in contrasto con interessi pubblici, unitamente al silenzio normativo in ordine all’ammissibilità della convalida del contratto di divisione rescindibile, denotano in modo in equivoco che il rimedio in
61G. XXXXXXX, voce Divisione, cit., p. 426; X. XXXX, Il contratto di divisione, cit., p. 375; X. XXXXXXX, La divisione ereditaria, nel Trattato di dir. civ. it. Diretto da X. XXXXXXXX, Torino, 1980, p. 233.
62C. XXXXXXXX La divisione contrattuale, cit., p. 80-81.
63E. XXXXXXXXX, La divisione contrattuale ed atti equiparati, 1990, p. 45; V. R. XXXXXXX, voce <<Divisione ereditaria (diritto civile)>>,cit., p. 55;
64P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 740; X. XXXX, Il contratto di divisione, cit., p. 384, questo autore ritiene che <<qualora i condividenti decidano di rinunziare ad un’eventuale azione di rescissione per lesione, e, qualora la lesione sussista, pongono in essere un contratto che, prescindendo dalla causa divisoria, attribuisce porzioni secondo un criterio che deroga alla previsione di tipo legale del contratto di divisione>>.
esame sia posto a salvaguardia di interessi privatistici, che come tali non sono sottratti all’autonomia del titolare che ne può validamente disporre.
La domanda di rescissione deve essere promossa nei confronti di tutti i condividenti od i loro aventi causa a titolo universale.
Presupposto dell’azione di rescissione è la valutazione in concreto se sussista la lesione. A tal fine, bisogna procedere ad una valutazione comparativa fra il valore della porzione attribuita al condividente che si ritiene leso e quello della porzione che gli sarebbe spettata se con la divisione si fosse tenuto conto del criterio di proporzionalità fra porzioni e quote65.
La sentenza di rescissione della divisione produce effetti che portano all’annullamento della divisione con effetto retroattivo, facendo ritornare in vita il preesistente stato di comunione66.
Affinché il giudice possa pronunciare la rescissione per lesione è necessario che la lesione perduri fino al tempo in cui la domanda è proposta.
La rescissione non pregiudica i diritti dei terzi acquistati sui beni ereditari con atto trascritto prima la domanda di rescissione.
Al condividente convenuto in un giudizio di rescissione per lesione, il legislatore riconoscere un rimedio al fine di porre fine al procedimento di rescissione: questi può corrispondere un supplemento all’attore e ad i condividenti intervenuti67.
La scelta tra il supplemento e la rescissione, compete al solo convenuto e non all’attore, il quale non può chiedere in via preventiva il supplemento ma solo la rescissione del contratto; il supplemento non potrà, inoltre, essere disposto d’ufficio dal giudice.
65Proprio per questo motivo l’art. 766 c.c. dispone che per verificare se sussiste la prospettata lesione, si deve procedere ad una stima dei beni secondo il loro valore e stato al momento della divisione.
66A. MORA, il contratto di divisione, cit., p. 386; V. R. XXXXXXX, voce <<Divisione ereditaria (diritto civile)>>,cit., p. 55.
67In questo caso la facoltà è concessa dall’art. 767 c.c.
Se proposta in pendenza di giudizio, l’offerta di supplemento non paralizza l’azione di rescissione in quanto il giudice, dovrà valutare, se vi sia stata la lesione e la portata della sua entità, e solo successivamente potrà vagliare la congruità del supplemento68.
La rescissione, oltre che contro la divisione può essere esperita anche contro ogni atto che abbia l’effetto di far cessare la comunione69.
Non è prevista la rescissione, nel caso di vendita del diritto ereditario fatta senza frode ad uno dei coeredi, a suo rischio e pericolo70, da parte degli altri coeredi o di uno di essi. Ovviamente, anche questa vendita rientra tra gli atti diversi, perché ha lo scopo di far cessare la comunione, ma viene qualificato come contratto aleatorio, perché essa ha per oggetto non beni determinati, ma una quota di eredità, è, quindi, possibile solo in maniera approssimativa calcolarne il valore. Xxxxx, al momento del negozio, il rapporto di proporzionalità tra quanto ciascuno dei contitolari ha ricevuto, e quanto avrebbe dovuto prendere, manca il presupposto stesso della rescissione. L’azione, invece, è ammessa, solo se la vendita è fatta con frode; questo elemento altera l’equilibrio del negozio e contraddice il suo carattere aleatorio, ammettendo il rimedio rescissorio.
L’azione non può trovare applicazione quando la divisione è fatta dal testatore senza predeterminazione di quote71, cioè quella in cui la misura
68Interessante sembra la questione relativa alla qualità dei beni che formano il supplemento. Alla convinzione che questi debbano essere solamente beni di provenienza ereditaria, avendo l’offerta di beni non ereditari carattere transattivo, X. XXXX, contratto di divisione, cit., p. 388 ribatte ritenendo che tale interpretazione sia eccessivamente restrittiva e non rispondente alle finalità del supplemento che consiste nel porre rimedio ad una o più attribuzioni lesive. Secondo l’Autore, sarebbe indifferente se la lesione sia colmata con beni facenti parte della comunione o con beni di proprietà del singolo condividente; infatti, se il supplemento soddisfa il favor divisionis, sarebbe solo d’ostacolo, rispetto a tale principio, ritenere che il condividente non possa offrire il supplemento qualora non abbia più la disponibilità di beni a lui assegnati in divisione.
69Cfr. art 764 1° comma c.c.
70Cfr. art. 765 c.c.
71P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 735; X. XXXXXX, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, in Riv. dir. civ., 1986, I, p. 261ss.; Cass., 11 marzo 008, n. 6449, in Mass. Giust. civ., 2008, 3, 396.
della quota viene individuata a successivamente, dalla valutazione comparativa delle singole porzioni formate dal testatore.
In questa ipotesi, infatti, se il testatore ha formato porzioni di disegual valore, questo significa soltanto che egli si è avvalso della sua discrezionalità testamentaria, ha inteso distribuire il proprio patrimonio secondo quote diseguali; non potrà quindi parlarsi di lesione e di, conseguente, rimedio rescissorio. Se il testatore avesse commesso un errore circa il valore di alcuno dei beni assegnati, tale errore non sarebbe rimediabile fino a quando non sia accertato che il testatore stesso abbia inteso ripartire i beni ereditari secondo determinate quote prestabilite, diverse dalle porzioni da lui realmente formate.
Il rimedio rescissorio può essere applicato solo nel caso in cui il contrasto esista nella stessa volontà del testatore, contrasto che insorge tra determinazione della quota e formazione delle porzioni.
Il rimedio, in questo caso, non corregge la volontà del legislatore, ma risolve solamente il contrasto tra volontà stessa alla quale viene adeguata la distribuzione finale.
Ancora, l’azione di rescissione non è ammessa contro la transazione72 con la quale si è posto fine alle questioni insorte a causa della divisione o dell’atto fatto in luogo della medesima, ancorché non fosse al riguardo incominciata alcuna lite.
Si tratta della transazione divisoria, contratto che ordinariamente avviene dopo che la divisione nella quale era sorta la lite sia stata perfezionata, anche se non è escluso che possa aversi nel corso della divisione; da non confondere con la divisione transattiva, vero e proprio negozio divisorio con il quale le parti, non compongono una lite, ma superano amichevolmente i problemi inerenti le operazioni di divisione e contro la quale la dottrina73 ammette l’esperimento dell’azione in esame74.
72Cfr. art. 764 comma 2° c.c.
73A. CICU, La divisione ereditaria, Milano, 1946, p. 497 ss.
Da ultimo, giova ricordare, che la rescissione non è ammessa nel caso di divisione giudiziale, qualora il provvedimento con cui si conclude il giudizio sia di giurisdizione contenziosa, restando in questo caso la sentenza assoggettata agli ordinari gravami prima del suo passaggio in giudicato75.
74Sul punto si tornerà successivamente, vedi (infra Cap. 3 par. 5).
75G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 709.
5. L’intervento del testatore nella divisione ereditaria
L’istituto della divisione fatta dal testatore non è una novità del codice del 1942, anzi, esso ha un’origine al quanto risalente coincidendo con la divisio parentis inter liberos del diritto romano. In sostanza, si trattava della divisione della massa ereditaria, attuata in età classica dal padre, e a partire dall’epoca dell’imperatore Xxxxxxxxxx anche dalla madre, tra figli, eredi legittimi o testamentari, pro quota; disposta mortis causa o inter vivos ed eseguita dall’albiter del giudizio divisorio o dagli stessi coeredi, mediante atti xxxxxxx00.
Disciplinato anche dal Code Napolèon, che aveva accolto entrambe le modalità di attuazione, è stato introdotto nel codice civile italiano del 1865 e poi profondamente modificato dal codice in vigore77.
Passando all’analisi dell’istituto, come questo è attualmente regolato78, esso consente una duplice modalità di attuazione: i) l’ipotesi base è quella nella quale vi è una predeterminazione delle quote astratte seguita da attribuzioni di porzioni concrete corrispondenti (divisione fra coeredi ex partibus scriptos), ii) la seconda modalità attuativa consiste nel ripartire concretamente i beni attraverso attribuzioni specifiche, rappresentative di altrettante quote del patrimonio ereditario (divisione fra coeredi sine partibus scriptos).
76G. XXXXXX, La divisione del testatore, in X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, Milano, 2010, p. 205; P. VOCI, Diritto ereditario romano, II, Milano, 1967, p. 476 xx.
00Xxxxxxxxxxxx xxxxx xxxx. 0000 xx. xxx xxxxxxx codice, attuabile sia dal padre che dalla madre e dagli altri ascendenti in favore dei figli e degli altri discendenti , come già nel diritto romano era previsto, poteva essere disposto mortis causa o inter vivos, la figura anomala di questo istituto dava luogo a difficoltà di sistemazione dogmatica, fu radicalmente modificato con l’entrata in vigore del codice del 1942. Due le innovazioni più importanti che l’attuale codice civile ha introdotto nel 1942: l’abrogazione della divisione d’ascendente per atto inter vivos ; la concessione della possibilità a qualsiasi testatore della facoltà di procedere alla divisine fra i vocati, anche se estranei.
78Cfr. art. 734 c.c.
In quest’ultima ipotesi è ovviamente possibile, a posteriori, quantificare la quota astratta considerando l’entità dei lasciti stessi.
Da quanto sopra detto, emerge un chiaro collegamento tra l’istituto in esame e la norma contenuta nell’art. 588 comma 2° c.c. che disciplina l’institutio ex re certa79. Questa norma, è di particolare importanza in quanto fa salva la qualifica di erede, e quindi di successore a titolo universale, anche nel caso di designazione testamentaria desunta da una semplice attribuzione specifica di beni, quando è possibile interpretare che il de cuius abbia inteso attribuire questi beni come quota di patrimonio, e non solo nel caso di istituzione universale di erede dopo aver predeterminato le quote in maniera astratta; da ciò, è agevole, quindi, dedurre, che la qualità di erede può risultare anche se la disposizione testamentaria attribuisce una porzione concreta di beni, senza fare menzione alcuna di quote astratte80.
A conclusione di questa analisi di collegamento normativo, non si può che dimostrare che la fattispecie regolata dall’art. 588 comma 2° x.x. x xxxxxx xxxx’xxx. 000 x.x. xxxxxxx coincidere, dato che l’institutio ex re certa può essere una modalità di attuazione della divisione del testatore, il quale effettuando una divisione sine partibus scriptos pone in essere un collegamento funzionale fra le varie istituzioni di erede le quali realizzano il risultato distributivo perseguito dal testatore81; ad ogni modo, anche se questa perfetta coincidenza possa verificarsi, non è possibile escludere che gli ambiti delle fattispecie siano solo parzialmente coincidenti, sia in quanto il testatore potrebbe propendere per una divisione ex partibus scriptos, sia
79“L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”.
80P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 304.
81G. XXXXXX, La divisione del testatore, in X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 267-268.
perché è possibile che il testatore, con un’unica institutio ex re certa, non attui tecnicamente una divisione82.
Infine, è doveroso sostenere, che non ogni divisione fatta dal testatore senza indicazione delle quote astratte costituisca comunque un insieme di institutiones ex rebus certis, collegate con scopo distributivo, sarà possibile, anche, una divisione testamentaria senza predeterminazione di quote astratte che non realizzi una istituzione ex re certa degli eredi apporzionati83.
Per una completezza di analisi dell’istituto, prima di passare a discutere dei poteri del testatore in sede di divisione e degli ovvi limiti che questi incontra nella predisposizione delle porzioni da attribuire agli eredi, limiti che devono essere rispettati al fine di non incorrere nelle impugnazioni all’uopo previste dal legislatore, è necessario introdurre un’anticipazione sulla caratteristica principale di questo istituto, cioè che essa non scioglie un precedente stato di comunione che non esiste84.
Come abbiamo detto più sopra, la divisione è l’istituto predisposto dal legislatore che consente di sciogliere uno stato di comunione, ma nella divisione fatta dal testatore “ il termine divisione non viene assunto nel significato ordinario di scioglimento della comunione”85. A seguito dell’accettazione dell’eredità, i singoli beni come divisi dal testatore
82G. XXXXXX, La divisione del testatore, in X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 268.
83G. XXXXXX, La divisione del testatore, in X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 268.
84G. XXXXXX, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, cit., p. 265;
X. XXXXXXXX, Nullità, per preterizione di legittimario, della divisione fatta dal testatore, in Giur. it., 1974, I, I, p. 828; DEL PASQUA, La divisio inter liberos secondo il nuovo codice civile, in Nuovo diritto, 1950, p. 423; XXXXXX, Osservazioni in tema di institutio ex re certa e divisione testamentaria, in Vita not., 1997, III, LXXXVII; Cass., 26 Maggio 1951, n. 1308, in Giur. it., 1952, I, I, p. 502; Cass. 18 Maggio 1957, in Mass. Foro It., 1957, n. 1794; Cass. 21 marzo 0000, x. 000, xx Xxxxx. xxx., 0000, X, 0000; Trib. Roma, 18 dicembre 1996, in Nuovo dir., 1997, 733, con nota di X. XXXXXXXXXXX.
85G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 750.
diventano immediatamente di proprietà dei singoli eredi, senza che una situazione di comunione ereditaria si possa configurare86.
Passando alla trattazione dei poteri del testatore, principio cardine è quello per cui ciò che è consentito fare al giudice, al notaio e ai condividenti di comune accordo non può non essere riconosciuto anche al testatore, il quale nella formazione delle porzioni, quindi, gode di ampia libertà87.
Nel procedere alla divisione potrà fare anche ricorso ai conguagli88, con duplice funzione: da una lato potrà servirsi dei conguagli al fine di perequare eventuali ineguaglianze in natura, presenti fra le porzioni fin dal momento della formazione del piano di riparto, dall’altro potrà servirsene allo scopo di correggere eventuali squilibri verificatisi in seguito alla fluttuazione dei prezzi di mercato <<o ad altri non prevedibili eventi89>> .
La libertà divisoria del testatore, come prima si accennava, non è ovviamente illimitata, essendo temperata da due limiti relativi al valore delle quote assegnate.
Il primo di essi, analogamente a quanto previsto per la divisione ordinaria, consiste nella proporzione che deve sussistere fra il valore della quota e quello dei beni assegnati: come anche più sopra descritto, un’eventuale discrepanza di valore maggiore al quarto consentirebbe di impugnare la divisione per rescissione90.
Il secondo limite, invece, riguarda l’obbligo di non tralasciare nella divisione i legittimari, ai quali, proprio per evitare che questi agiscano con l’azione di loro spettanza ossia l’azione di riduzione, deve essere
86Sul punto si tornerà successivamente (infra 6).
87In particolare, il testatore può anche formare porzioni senza tenere conto del diritto all’omogeneità delle porzioni stesse, che, invece, nella divisione ordinaria è riconosciuto dagli artt. 718 x.x. (xxxxxxx xx xxxx xx xxxxxx) x 000 x.x. (xxxxx per la formazione delle porzioni) del codice civile.
88C. XXXXXXXXXXXX, Successioni testamentarie, in Comment. del cod. civ., UTET, Torino, 1978, p. 63.
89G. XXXXXX La divisione del testatore, cit. p. 211; Cass. 24 Ottobre 1981, n.5568, in
Mass. Giust. civ., p. 1971.
90Cfr. Art. 763 comma 2° cod. civ.
riconosciuto quanto ad essi dovuto ex lege. Questo limite, però, è solo quantitativo e non qualitativo91.
Il testatore può altresì disporre una divisione parziale, e non esclusivamente totale, e parziale sia in senso soggettivo che oggettivo.
Partendo da questo ultimo caso92, si ha divisione oggettivamente parziale quando il testatore distribuisce agli eredi solo una parte dei beni che compongono l’asse ereditario; tale ipotesi non è affatto eccezionale, ma si verifica, ad esempio, ogni qual volta il testatore abbia acquistato beni dopo aver confezionato il testamento.
In tale situazione ictu oculi emerge un quesito al quale la dottrina ha prontamente dato risposta.
Il quesito che bisogna porsi è il seguente: come vengono distribuiti i restanti beni che non sono oggetto di divisione testamentaria? Partendo dal dato normativo, questo stabilisce che i beni che non sono compresi nella divisione siano “attribuiti conformemente alla legge”, salvo che non emerga “diversa volontà del testatore.
Varie sono state le interpretazioni date dalla dottrina93 a questa norma apparentemente superflua, visto che è comunque ovvio che alla ripartizione dei beni si proceda secondo legge, con successione legittima in assenza di un testamento, ma alla fine la lettura tradizionale94 della norma sembra quella preferibile.
Secondo codesta interpretazione, i beni non compresi nella divisione saranno attribuiti secondo le norme della successione legittima, a meno che
91Ciò si desume a chiare lettere dal tenore dell’articolo 734 c.c. il quale espressamente consente al testatore di comprendere in sede di divisione anche la quota disponibile.
92G. XXXXXX, La divisione del testatore, cit. p. 216 secondo cui la configurabilità di una divisione oggettivamente parziale, oltre che risultare positivamente dal capoverso dell’art. 734 c.c. sarebbe logicamente deducibile dalla correlativa ammissibilità d’una istituzione di erede parziale. In altre parole, non si potrebbe negare al testatore, che ben può a norma dell’art. 588 comma 1° c.c. disporre di una quota soltanto del proprio patrimonio, di procedere alla ripartizione concreta di una sola parte dell’asse.
93A. CICU, Xxxxxxxxxxx, xxx., x. 000 xx.
00X. XXXX, Xxxxxxxxxxx, cit., p. 435; X. XXXXXXXX, Le successioni, cit., p. 722; ; X. X. XXXXXXX, xxxx Xxxxxxxxx xxxxxxxxxx, xxx., x. 00, XXXXXXXX, Manuale, cit., p. 593.
non sia possibile dal tenore del testamento95 accertare una volontà del disponente nel senso di devolvere i beni tra gli stessi assegnatari dei lotti già attribuiti, nella stessa proporzione deducibile dal riparto attuato mediante la divisione.
Venendo a trattare della divisione soggettivamente parziale, questa si ha quando il testatore avendo formato le porzioni di alcuni dei coeredi, non abbia provveduto in tal senso anche per quanto riguarda gli altri coeredi; ovvia conseguenza di questa situazione è il restringimento della comunione che rimale tale solo fra i coeredi non apporzionati96.
La validità di un siffatto tipo di divisione si ricava argomentando per sottrazione, dal potere generale del testatore di apporzionare tutti i coeredi: se egli ha la facoltà di attribuire i beni e quindi dividerli fra tutti, ben egli può farlo solo per alcuni di essi, tenendo sempre in conto che un apporzionamento si verifica anche nei confronti dei coeredi che rimangono in comunione, essendo ad essi sottratti i beni distribuiti; ancora, potremmo argomentare a favore della possibilità di siffatta tipologia divisoria dicendo che, come a breve avremo modo di esprimere più dettagliatamente, la nullità per preterizione si ha solo quando a seguito della divisione non siano stati lasciati beni sufficienti a soddisfare i successori legittimari o gli eredi istituiti.
Ultimo accenno meritano i mezzi di impugnazione della divisione fatta dal testatore: il legislatore ne prevede tre e sono nullità per preterizione97,
95P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 312 ss. La dottrina ha individuato dei casi in cui è evidente la volontà del testatore di prevenire l’operatività della successione legittima. Così si può dire il caso in cui il testatore indichi le quote che sommate raggiungano il totale del patrimonio ma si limiti ad assegnare solo parte dei beni: cosi ad esempio X. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 753 “Istituisco eredi Tizio per la metà e Caio per l’altra metà e assegno il fondo Tuscolano a Caio”; oppure il caso in cui il disponente pur assegnando solo una parte dei beni in sede divisoria dichiari espressamente di voler escludere dalla successione gli eredi legittimi.
96G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 752 “Nomino eredi universali Primo, Secondo e Terzo e formo la porzione di Terzo con il fondo Tuscolano”.
97 Cfr. Art. 735 1° comma c.c.
riduzione per lesione della quota di riserva98 e rescissione per lesione oltre il quarto99.
Procedendo con ordine, la nullità della divisione per preterizione è dalla dottrina interpretata secondo due diverse visioni. Da un lato vi è chi100 ritiene che la divisione sia nulla in tutti i casi in cui il testatore non abbia compreso tutti gli eredi legittimari ed istituiti, così implicitamente negando la configurabilità di una divisione soggettivamente parziale, dall’altro, invece, chi101 interpreta la norma logicamente, facendo incorrere la nullità solo nel caso in cui non siamo stati lasciati bene per un ammontare tale da soddisfare le pretese dei pretermessi; quest’ultima soluzione sembra quella da preferire; ad ogni modo la norma non dispensa i legittimari dall’esperimento dell’azione di riduzione, cioè la norma102 non scalfisce il solido principio consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte103 secondo il quale il legittimario pretermesso non partecipa alla comunione senza avere prima vittoriosamente esperito l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie.
Per quanto riguarda l’azione di riduzione per lesione della quota di riserva, questa altro non rappresenta se non una speciale applicazione della generale azione di riduzione.
La situazione che si cerca di correggere con questa azione, che evidentemente non ha lo scopo di far dichiarare la nullità della divisione stessa, è quella nella quale il testatore ha si istituito erede il legittimario ma, nel procedere alla divisione gli ha attribuito beni in misura inferiore alla quota di riserva; in questo caso, ovviamente, non si può parlare di preterizione del legittimario, visto che questi non è stato escluso dalla
98Cfr. art. 735 2° comma c.c.
99Cfr art. 763 2° commma c.c.
100V. X. XXXXXXX, voce Divisione ereditaria, cit., p. 57 ss.
100A. CICU, Successioni, cit., p. 460.
101P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 332; X. XXXXXXX, La
divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 106.
102Art 735 c.c.
103Cass. 6 ottobre 1972, n. 2870, in Giust. civ., 1973, I, p. 78.
divisione, ma ha solo ottenuto beni per un valore inferiore a quanto è a tale categoria di eredi dovuto per legge.
L’azione in esame, quindi, ha lo scopo di correggere la divisione104 così effettuata integrando la porzione del legittimario in modo tale che la sua quota possa raggiungere il livello garantito dalla legge , integrazione che avverrà con beni ereditari105.
Infine, il legislatore ha esteso anche al tipo di divisione in esame il rimedio della rescissione per lesione ultra quartum. La rescissione è consentita quando il valore dei beni assegnati ad uno dei coeredi è inferiore di oltre un quarto all’entità della quota di sua spettanza.
La rescissione per lesione oltre il quarto è consentita solo quando sia possibile fare un confronto tra la quota astrattamente assegnata e il riparto dei beni, ciò rappresenta un evidente differenza rispetto all’ institutio ex re certa, che evidentemente non consente rescissione essendo possibile in quest’ultimo caso solo a posteriori dedurre l’entità delle rispettive quote.
104L. MENGONI, La divisione testamentaria, cit., p. 216 ss.
105G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 756 nel quale l’autore fa il seguente esempio per chiarificare come opera la norma “ Xxxxx, vedovo, ha due figli e lascia beni per un valore di 90 milioni. Egli nomina eredi il primo figlio per i 2/3 dell’eredità e il secondo figlio per 1/3, ma attribuisce nella divisione, beni per una valore di 65 milioni al primo figlio e beni per un valore di 25 milioni al secondo figlio, ledendo cos’ la usa legittima per il valore di 5 milioni. L’istituzione resterà valida e la divisione non dovrà essere rifatta, ma il primo figlio dovrà corrispondere al secondo un valore di 5 milioni, vale a dire 1/6 della quota a lui spettante( che è di 30; cfr art. 537 c.c.)”.
6. I rapporti tra comunione e divisione: la tesi della non necessarietà della comunione quale presupposto della divisione
A conclusione di questo capitolo introduttivo è d’uopo soffermarci nuovamente106 su un tema che ha interessato la dottrina, quello del presupposto della divisione e della non necessarietà di uno stato di comunione ai fini di una valida divisione fra i contitolari dei diritti.
La divisione, come è utile ricordare, è stata definita come l’istituto che consente lo scioglimento della comunione attraverso l’apporzionamento107. Dei due elementi tipici della divisione, da un lato lo scioglimento e dall’altro l’apporzionamento, il primo non risulta adeguatamente verificato come si cercherà di evidenziare nel prosieguo.
La preesistenza di uno stato di contitolarità, infatti, si presenta non solo come inessenziale ma anche come insufficiente a caratterizzare il fenomeno divisorio.
Insufficiente in quanto in tutta una serie di casi il venir meno della comunione non comporta divisione tecnicamente intesa: si pensi al caso del perimento della cosa comune108, dell’usucapione di essa da parte del contitolare109, oppure dell’ acquisto della quota stessa per successione mortis causa tra coeredi110 o anche dell’accrescimento111.
Da ciò si deduce, ulteriormente, che l’interesse allo scioglimento sia solo un debole riflesso del più intenso interesse all’acquisto della porzione in proprietà esclusiva; e che quindi lo scioglimento sia alquanto inadeguato ad
106Vedi supra n.5 “L’intervento del testatore nella divisione ereditaria”.
107G. XXXXXX, Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio, in Atti del convegno Santa Margherita di Pula Fortevillage 30 e 31 Maggio 2008, Contratto di divisione e autonomia privata, Milano, 2008, p. 28 “L’apporzionamento si atteggia a mezzo tecnico tipico, seppur non esclusivo, dello scioglimento; simmetricamente il venir meno della contitolarità appare come il risultato degli apporzionamenti, e dunque l’effetto finale della divisione”.
108A. PALAZZO, voce Comunione, in Dig., disc. Priv., sez. civ., III, Torino, 1990, p. 180.
109A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 84.
110A. XXXX, Successioni per causa di morte, cit., p. 468; F. D. XXXXXXXX, voce
Comunione ereditaria, dir. civ., in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 282.
111A. XXXX, op. ult. cit., p. 363.
esprimere il più pregnante conflitto di interessi che la divisione regola, tanto da portarci a concludere circa la sua inidoneità ad individuarne lo schema causale.
Ancora, in sede successoria, lo scioglimento di una comunione, che dovrebbe caratterizzare l’evento divisorio, si rivela non essenziale.
Ne è dimostrazione, come anticipato precedentemente, la fattispecie della divisione del testatore: alla quale si ricollega l’effetto di prevenire112, con riferimento ai beni assegnati, l’instaurazione di una comunione ereditaria e quindi la conseguente necessità di operazioni divisionali ulteriori, ma alla quale non vi è dubbio che si possa attribuire la qualificazione di fenomeno sostanzialmente divisionale113.
Infatti, anche i tratti caratteristici della divisione del testatore inducono un’autorevole dottrina114 a definire la divisione testamentaria alla stregua di una pluralità di separate attribuzioni di beni che attribuiscono a ciascun erede un diritto per l’innanzi inesistente, e quindi a riconoscere carattere attributivo ma non anche distributivo alla divisione operata dal testatore, non può essere negato che tale istituto attui un regolamento di situazione attraverso assegnazioni immediatamente attributive, comunque sostenuto dallo scopo distributivo, e quindi classificabile come divisione.
Del resto, anche la dottrina meno recente115 riteneva la divisione testamentaria essere sorretta da un chiaro intento distributivo, anche se la stessa giungeva a questo assunto argomentando con una fictio iuris per lo
112F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 491 “Anche l’ipotesi ex art.734 c.c. rientra nel fenomeno divisorio, benché non si tratti di sciogliere una comunione, ma anzi di impedire che essa si formi”.
113G. XXXXXX, Funzione distributiva e tecniche di apporzionamento nel negozio divisorio, cit, p. 26 “L’attenzione si sposta dal profilo della struttura a quello a quello teleologico, e il risultato perseguito dal disponente (attraverso l’insieme delle assegnazioni) vale a determinare tra esse un nesso di reciproca subordinazione funzionale, che ne configura la causa unitaria: la distribuzione (per quote ) di un complesso patrimoniale”.
114F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, III, Milano, 1947, p. 591.
115C. XXXXXX, Le disposizioni comuni alle successioni legittime e testamentarie secondo il codice civile, Torino, 1911, p. 706; X. XXXXXXXX, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, p. 714.
meno discutibile, secondo la quale comunque uno stato di comunione fra i coeredi si determinasse, immediatamente sciolta dal testatore, ricollegando appunto l’effetto distributivo allo scioglimento di questa ideale comunione; si configurava in questo modo un duplice passaggio di proprietà: dal testatore alla collettività degli eredi, e dalla collettività a ciascuno dei divisionari.
Per concludere, vorrei portare all’attenzione del lettore, anche al fine di corroborare l’assunto per cui la divisione testamentaria prevenga l’insorgere di uno stato di comunione, e che quindi questa non sia sempre un elemento necessario della divisione, la differenza tra la divisione fatta dal testatore e la fattispecie del c.d. assegno divisionale semplice116.
Con l’assegno divisionale semplice il testatore, senza procedere immediatamente alla divisione, ha la facoltà di limitarsi a stabilire delle regole distributive117, da seguire nella composizione dei lotti, in sede di divisione ordinaria: criteri che sono vincolanti per gli eredi, salvo che l’effettivo valore dei beni non corrisponda alla quote stabilite dal testatore. Detto che la ricorrenza dell’uno o dell’altro istituto dovrà essere valutata con riferimento alla volontà ed intenzione del testatore, importante è la differenza che ricorre dal punto di vista degli effetti: nel caso di semplici norme dettate dal testatore per la divisione, a norma dell’art.733 c.c., si evita l’effetto tipico della divisione del testatore, quindi non si elude lo stato di comunione, tra i chiamati a succedere; con ciò che successivamente si dovrà dare seguito ad una divisione ordinaria tra i coeredi, che ovviamente, in quella sede avranno il diritto di far rispettare le indicazioni date in precedenza nel testamento e, quindi, di vedersi assegnato quanto stabilito dal disponente.
116Cfr. art. 733 1° comma c.c.
117Ovviamente il disponente incontra dei limiti nel dettare le norme per la successiva divisione, limiti per i quali vale quanto già detto sopra circa la libertà divisoria in genere, e soprattutto il limite di rispettare le regioni dei legittimari.
CAPITOLO SECONDO
I CONTRATTI A CAUSA DIVISORIA
SOMMARIO: 1. Causa in astratto e causa in concreto del contratto ad effetto divisorio. –
2. Tipicità ed atipicità del contratto quali strumenti dell’autonomia privata per la realizzazione dell’effetto divisorio. – 3. Lo scioglimento della comunione mediante negozio indiretto. – 4. Lo scioglimento della comunione mediante negozio a causa mista.
– 5. Lo scioglimento della comunione mediante collegamento negoziale. – 6. La qualificazione di una fattispecie divisoria e l’interferenza della normativa fiscale: la divisione di masse plurime. – 7. L’oggetto di un contratto a causa divisoria.– 8. Il problema dei beni non divisibili. – 9. Effetto retroattivo della divisione e dei suoi surrogati.
1. Causa in astratto e causa in concreto del contratto ad effetto divisorio
Il codice civile prevede la causa fra gli elementi essenziali del contratto118 elemento connotato dalla sua complessità, che si è evoluto nel tempo, e che tutt’ora ricopre un ruolo di preminenza quando si introduce l’argomento contratto.
118Cfr. art 1325 c.c.
Il codice vigente, in continuità con quello del 1865, annoverando la causa fra gli elementi essenziali del contratto, accoglie il principio causalistico; questo è reso ancora più rigoroso dalla giurisprudenza, la quale accerta la nullità del contratto se la causa non sia espressamente menzionata nello stesso, con ciò statuendo il principio dell’expressio causae, che vale anche per la donazione, con la sola deroga generalmente ammessa per il contratto gratuito atipico119.
Sotto il vigore del precedente codice, però, la causa era riferita esclusivamente all’obbligazione, ciò perché dominava l’idea che il contratto fosse unicamente fonte dell’obbligazione, e che, quindi, non fosse possibile concepire una causa del contratto che non fosse causa dell’obbligazione. Questa situazione sarà superata con una certa gradualità, prima si sostituisce all’idea di obbligazione quella di prestazione, concetto importato dall’elaborazione giuridica tedesca, che meglio ricomprende anche vicende non obbligatorie ma immediatamente traslative. Sarà poi con l’elaborazione dottrinale120 coeva alla nuova codificazione che prenderà campo un’idea di
119F. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, V.II, 1, Padova, 2004, p. 226 ss.; X. XXXXX, Quando la massima travisa la ratio decidendi: è, dunque, inammissibile l’atto unilaterale ricognitivo, con effetti traslativi, in Contratto e impresa, 2001, p. 525 ss.
120E. XXXXX, voce Causa del negozio giuridico, (diritto romano), in Noviss. dig. It., Torino, 1957, p. 36; X. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, V.II, 1, cit., p. 226; X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1957, p. 174; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 32, il quale non esita a definire la causa come << ragione economico-giuridica dell’atto>>; X. XXXXX, Il contratto, in Tratt. dir. civ., diretto da X. XXXXX, X. X, Torino, 2004, p.742, dove la causa è trattata tra i costituenti del contratto; F. FERRARA, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p.133 ss.; X. XXXXXXXXXXXX, Contratti in generale, in Tratt. dir. civ., diretto da X. XXXXXX e X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, V.IV, 2, Milano, 1972, p. 127; X. XXXXX, L’autonomia
privata, Milano, 1959, p. 321; X. XXXXXXXX, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da X. XXXX- X. XXXXXXXX, V.XXI, t.2, Milano, 1972, p. 204; ID., Dottrina generale del contratto, Milano, 1946, p. 63; X. XXXXXXXX, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p.115; X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, libro IV, tomo II, p. 159; ID., Causa, oggetto, funzione, interesse, in Arch. giur. Xxxxxxx Xxxxxxxx, 1950, p. 106; La teoria soggettiva ha continuato ad essere sostenuta dopo il codice civile del 1942 da X. XXXXXXX, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, X.X, Xxxxxx 0000, p. 409; X. XXXXXX, La causa nei negozi giuridici e l’autonomia della volontà nel diritto privato italiano, Napoli, 1947, p. 218; X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 762; X. XXXXXXX, Obiter dicta della giurisprudenza, l’accertamento della causa <<reale>> dei contratti, gli equivoci
causa svincolata dagli scopi individuali dei contraenti e dall’unilaterale prospettiva dell’obbligazione, a tutto vantaggio di una prospettiva oggettiva “incentrata nell’unità del contratto come strumento per il perseguimento di scopi riconducibili all’interno di schemi predisposti dal legislatore121”.
Non ci si può esimere, però, dal rilevare che non sono mancate teorie che hanno negato rilevanza alla causa stessa122.
Alla causa, come intesa dopo l’emanazione del codice del 1942, è attribuito un nuovo compito123, che non consiste più nel mediare tra gli interessi individuali dei contraenti in vista della tutela di interessi dei singoli, ma che è funzionale a realizzare un più ampio controllo dell’ordinamento sull’autonomia privata: nella sua nuova veste essa funge da limite dell’autonomia privata, oltre il quale l’ordinamento giuridico non ne conosce l’efficacia; la causa cessa di essere intesa solo come funzione oggettiva del contratto, ma in via più generica come << funzione economico-sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica l’autonomia privata124>>.
Il lungo percorso concettuale sviluppatosi attorno a questo complesso elemento contrattuale, ha portato a una distinzione che ormai compare in tutti i manuali di diritto privato, la ormai celebre distinzione fra causa in astratto e causa in concreto125.
della funzione economico-sociale del negozio, in Rischio contrattuale e autonomia privata, a cura di Xxxx-Xxxxx-Xxxxxxx, Napoli, 1982, p. 65.
121F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 813.
122M. XXXXXX, La teoria generale del contratto, Torino, 1965, p. 65 ss.; OSILLA, Considerazioni sulla causa del contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1949, p. 365, il quale sottolinea che <<la causa, come elemento essenziale del contratto, non è definibile>>; X. XXXXX, La conversione del negozio giuridico, Napoli, 1947, p. 166 e 225 ss.; X. XXXXXXX, Xxxxxxx di accertamento, , Torino, 1942, p. 38.
123G. X. XXXXX, Tradizione e novità nella disciplina della causa del negozio giuridico (dal cod. civ. 1865 al cod. civ. 1942), in Riv. dir. comm., 1986, I, p. 128.
124Relazione al codice civile n. 613.
125Tale distinzione si rinviene anche nella relazione al Re n. 614, la quale rileva che << […] in ogni singolo rapporto deve essere controllata la causa che in concreto il negozio realizza, per riscontrare non solo se essa corrisponda a quella tipica del rapporto, ma anche se la funzione in astratto ritenuta degna dall’ordinamento giuridico possa
La causa astratta è la funzione economico-sociale che tipicamente il contratto realizza126, come nel caso del contratto di divisione che consiste nello scioglimento della comunione attuato a mezzo dell’apporzionamento127; astratta in quanto fotografa la situazione astrattamente considerata, come schema costante di regolamentazione di interessi, che prescinde dal contesto concreto, dalle circostanze esistenti, dalle finalità pratiche perseguite dai contraenti; in questa accezione la causa realizza la funzione tipica e costantemente ripetuta del tipo contrattuale considerato. Così intesa essa è identificata con il tipo contrattuale.
La dottrina specialistica che più da vicino ha esaminato il contratto divisorio ha, prevalentemente, tratto dalla causa del contratto il criterio per individuare il contratto di divisione quale tipo128.
In più occasioni129, infatti, è stato detto che l’unicità del negozio divisorio, individuato sotto il profilo funzionale, deriva dall’impossibilità che più negozi di tipo diverso abbiano una medesima causa, da qui è evidente l’identificazione del tipo con la causa.
Tuttavia è d’uopo rilevare, conformemente ai risultati ai quali la dottrina130 è giunta, che non sarebbe possibile qualificare il contratto divisorio per mezzo del profilo funzionale.
veramente attuarsi, avuto riguardo alla concreta situazione sulla quale il contratto deve operare.>>
126R. XXXXX, Xxxxx in astratto e causa in concreto, in Le monografie di Contratto e impresa, diretto da X. Xxxxxxx, Padova, 2008, p. 67.
127G. XXXXXXXXX, voce Divisione (diritto civile), cit., p. 35.
128A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 207.
129G. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, in Arch. giur. Xxxxxxxx, 1949, p. 7 ss.
X. XXXXXXXXX, voce Divisione (diritto civile), cit., p. 34
130M. XXXXXXXXXX, voce Causa (diritto privato), in Enc. dir., vol. VI, sl., ma Milano, s.d., ma 1960, p. 547; G. B. XXXXX, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1966, p. 249; X. XXXXXXX, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1975,
p. 91; X. XXXXXXXX, La prelazione volontaria, Milano, 1984, p. 74 ss.; X. XXXXXXXX,
Il mutuo di scopo, Padova, 1985, p. 227.
La dottrina131, è giunta a una distinzione tra causa e tipo qualificando la causa come funzione non più economico-sociale, ma economico- individuale, coincidente con l’assetto degli interessi predisposto dalle parti nel regolamento contrattuale132; con l’avvertenza, tuttavia, che il riferimento agli interessi delle parti non debba far pensare ad un ritorno ad una concezione soggettivistica della causa, ma bisogna solo prendere in considerazione quelle che appunto è stata definita la causa in concreto.
Infatti, oggi, si ritiene corrispondere maggiormente alle esigenze di un teoria evolutiva del contratto concepire la causa come concreta: non più come ragione che astrattamente giustifica qualsiasi contratto che appartenga al tipo del contratto in esame (lo scioglimento di quella comunione, tra quei partecipanti i quali perseguono interessi che sono specifici del caso concreto nell’insieme di circostanze che quel caso caratterizzano).
In tal modo << la causa del contratto comprende gli interessi della parte che il contratto deve assicurarle, perché formano la ragione giustificativa del contratto stesso133>>.
I fautori della dimensione concreta della causa, comunque, hanno avvertito l’esigenza di non contraddire la conquista di una dimensione oggettiva della causa, vista la rilevanza giuridica che nel concetto di causa concreta è attribuita agli interessi delle parti.
131G. X. XXXXX, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 372.
132Questa concezione della causa, però, non si limita alla mera distinzione con il tipo contrattuale, ma è il risultato di una più pregante riflessione circa i vari aspetti del contratto, quali il rapporto tra il contenuto e gli effetti del contratto, tra le fonti stesse del contratto, come fonti legali e convenzionali, e in via più generica sull’integrazione ed interpretazione del contenuto del contratto. In questo senso si veda, G. B. XXXXX, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 264 ss.
133E. XXXXX, Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di Xxxxxx e Zatti, Milano, 2001, p. 364.
Infatti, la causa concreta non << deve risolversi in una mera proiezione di un disegno soggettivo, ma deve rilevare oggettivamente, ossia deve essere immediatamente o potenzialmente idonea a diventare operativa nella pratica134>>.
La causa sarebbe così la funzione del contratto espressa nella relazione fra gli interessi da soddisfare e mezzi giuridici utilizzati dalle parti135.
Con ciò, in conclusione, quando si risolve la causa nello scopo pratico individuale bisogna sempre tenere a mente che si fa riferimento all’individualità del contratto e non all’individualità delle parti: così la causa è lo scopo comune alle parti e obiettivato nel contratto.
134G. X. XXXXX, tradizione e novità nella disciplina della causa del negozio giuridico (dal cod. civ. 1865 al cod. civ. 1942, cit., p. 142.
135A. XXXXXXXX, Regolamento contrattuale e interessi delle parti, (intorno alla nozione di causa), in Il contratto, Silloge in onore di X. Xxxx, V. I, Milano, 1992, p. 151.
2. Tipicità ed atipicità del contratto quali strumenti dell’autonomia privata per la realizzazione dell’effetto divisorio
L’ordinamento giuridico, concetto che ricomprende il complesso di regole e di istituzioni attraverso le quali è governato e diretto lo svolgimento della vita sociale e dei rapporti fra i singoli, lascia agli individui, per la realizzazione dei loro interessi, una sfera di libertà136.
L’attività di autoregolamentazione dei propri interessi e rapporti è detta autonomia: l’ordinamento riconosce l’autonomia sotto due diverse funzioni, da un lato autonomia pubblicistica, come fonte di norme giuridiche destinate a far parte integrante dello stesso ordinamento giuridico che la riconosce, dall’altro, autonomia privatistica, come presupposto e fonte generatrice di rapporti giuridici già disciplinati, in astratto e in generale, dalle norme dello stesso ordinamento giuridico137.
Possiamo, quindi, ritenere che l’autonomia privata coincida con la libertà di esplicare la propria libertà morale e con il potere di autoregolamentare i propri interessi; è la possibilità di decidere sul se, e sul come perseguire un certo scopo138.
Siffatta autonomia in ambito successorio, detta autonomia ereditaria, coinvolge tutte le manifestazioni di autonomia che influiscono sul fenomeno successorio: non solo quindi il testamento, giacché si ritiene sia
000X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, voce Autonomia collettiva, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 369. I singoli godono della possibilità di disciplinare da loro i propri rapporti, essendo ad essi stessi attribuita una sfera di interessi e un potere di iniziativa per la loro regolamentazione, si attua così – secondo X. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, II ed., p. 92 – una soluzione storica del problema della regolamentazione degli interessi privati e della circolazione dei beni, soluzione che trova le sue radici nella stessa natura umana e nel principio di libertà individuale.
137R. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, cit., p. 87.
138C. X. XXXXXX, Le autorità private, Napoli, 1977, p. 88; X. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, cit., p. 84; X. XXXXXXX, Autonomia privata nel contratto e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ. 1957, I, p. 526.
limitativo considerare il testamento come l’unico atto di autonomia privata che vada a incidere sulla disciplina delle successioni mortis causa139.
L’autonomia privata va quindi a occupare gli spazi lasciati vuoti dal legislatore: questa ha modo si manifestarsi in vari modi, libertà di concludere o meno il negozio, di stabilirne il contenuto, di dar vita a disposizioni atipiche.
Infatti, proprio la legge140, prevede il potere dei privati di determinare il contenuto del contratto, potendo anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare positivamente individuata dal legislatore.
In particolare, la possibilità delle parti di dare una connotazione atipica al contratto è espressione magnifica dell’autonomia privata, essendo queste abilitate non solamente a determinare il contenuto del contratto all’interno di schemi contrattuali tipici, ma possono altresì esercitare questa facoltà all’interno di schemi atipici, cioè “inventati” dai privati contraenti poiché meglio adattantesi all’interesse da costoro perseguito.
Riconosciuta autonomia ai privati è necessario, comunque, tenere conto della competenza dispositiva che a questi si attribuisce: ossia si deve tener conto del rapporto concorrenziale tra autonomia e diritto positivo, in relazione alla disciplina della situazione di interesse141.
Lo Stato, in sostanza, non deve esclusivamente limitarsi a riconoscere il diritto di ciascuno di regolare da se i propri interessi, se questo diritto divenga uno strumento di abuso a danno di altri: il regolamento dei propri interessi deve essere diretto a “ realizzare interessi meritevoli di tutela
139Si può portare l’esempio del patto di famiglia, tipico esempio di contratto che manifesta il carattere di anticipazione della successione non solo fra il disponente e i beneficiari, ma anche tra costoro inter se: X. XXXX, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”, in Riv. dir. civ., 2006, p. 439; X. XXXXXXXX, Patto di famiglia e diritto delle successioni mortis causa, in Fam. Pers. Succ., 2007, p. 390.
140Cfr. art. 1322 cod. civ.
141In questo senso X. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico,
cit., p. 171.
secondo l’ordinamento giuridico”, come il codice civile142 espressamente prevede.
Proprio a questo fine sono previsti dei limiti all’attività privata autonoma, limiti che hanno sempre carattere negativo143.
In termini generali i limiti dell’autonomia privata possono essere raggruppati in due ambiti distinti: limiti che riguardano il procedimento di formazione del negozio e limiti che attengono direttamente al suo contenuto.
Solo questi ultimi sarebbero da intendersi quali veri divieti o limiti, in senso stretto, essendo i primi oneri di natura positiva che incombono su chi, aspirando a un risultato pratico, ha interesse alla validità del negozio che compie per raggiungerlo144.
Gli oneri, sono classificabili come oneri formali e oneri di carattere causale, che attengono alla funzionalità del negozio giuridico, qualificabili come oneri di legittimità145.
Tra i primi s’include: la determinazione dei tempi e delle modalità per le manifestazioni dei consensi o per la loro revoca, e secondo parte della dottrina anche i fattori impeditivi alla genuinità dell’accordo come vizi della volontà, lo stato di bisogno, la simulazione146; sotto questo punto di vista il diritto ereditario è denso di oneri giustificati da una comprensibile esigenza di certezza: sono imposte forme particolari, infatti, oltre che per l’accettazione o la rinuncia dell’eredità, per la divisione della stessa, per la revoca del testamento o per la rinunzia al legato.
142Cfr. art. 1322 cod. civ.
143G. CODACCI-XXXXXXXXX, L’invalidità come sanzione di norme non giuridiche,
Milano, 1940, p. 45.
144La distinzione fra limiti ed oneri dell’autonomia privata si deve a X. XXXXX, Teoria generale de negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., dir. da X. Xxxxxxxx, Torino, 1960, rist. II ed., p. 103.
145E. XXXXX, Teoria generale de negozio giuridico, cit., p. 108.
146P. XXXXXXXXXXX, L’autonomia privata ed i suoi limiti, in Giur. it., 1999, p. 231; E.
M. D’AURIA, Il negozio giuridico notarile fra autonomia privata e controlli, Milano, 2000, p.12.
Resta da dire, per completezza, che alcuni di questi oneri positivi hanno carattere disponibile, in quanto il consenso o l’acquiescenza della controparte può dispensare dall’osservarli, ovvero sanare le conseguenze di una loro eventuale inosservanza147.
Per gli oneri di legittimità la liceità della causa gioca un ruolo essenziale148. Venendo a parlare dei divieti, si devono ricordare quelli posti da norme imperative con o senza esplicita comminatoria di nullità149. Il legislatore non sempre si è curato di rendere manifesto che una norma sia inderogabile, imperativa o invalidante. C’è da dire, comunque, che l’atto autonomo è un atto spontaneo, che non costituisce adempimento di alcun dovere: essendo esterni i limiti, v’è senz’altro un’area in cui l’autonomia può liberamente operare150.
Tra le più chiare manifestazioni dell’autonomia ereditaria vi è senza dubbio il contratto di divisione, con il quale si da un assetto individuale ai beni compresi nella massa comune.
Bisogna ricordare che in materia di divisione ereditaria vige la regola della proporzionalità tra il valore dei beni che sono stati attribuiti ai coeredi apporzionati e il valore della quota astrattamente a questi spettante: questo rappresenta un evidente limite all’autonomia dei coeredi che possono
147F. CARRESI, Introduzione ad uno studio degli oneri e obblighi delle parti nella formazione del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p. 843 ss., secondo il quale possono qualificarsi disponibili gli oneri la cui inosservanza pregiudica l’efficacia vincolante delle dichiarazioni nei riguardi della controparte: ad essi fa riscontro, nella controparte, un onere di rilievo, la cui inosservanza vale acquiescenza e sana l’inefficacia. In antitesi, gli oneri indisponibili sarebbero quelli comuni ad entrambe le parti.
148E. XXXXX, Teoria generale de negozio giuridico, cit., p. 108; diversamente X. XXXXXXXXXXX, L’autonomia privata ed i suoi limiti, cit., p. 231.
149G. DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985,
p. 435; X. XXXXX , Libertà contrattuale e norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985,
p. 473; X. XXXXX, Autonomia privata e norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 493.
150Di diverso avviso X. XXXXXXX, Equità ed autonomia privata, Milano, 1970, p. 189, il quale ritiene che la normativa di origine eteronoma vincoli e restringa l’autonomia privata fin all’interno, e non dunque agendo dall’esterno di essa. Ciò significherebbe che si è in presenza di una funzionalizzazione dei poteri privati, la quale, tendenzialmente, è presente in tutti i settori del diritto privato, dall’impresa, al diritto di proprietà, e, almeno in potenza, alla stessa iniziativa economica privata.
solamente incidere sulla qualità dei beni che a ciascuno di essi verrà assegnato non potendo, invece, decidere niente in merito alla loro quantità151.
I coeredi, neppure in sede di divisione, hanno la facoltà di disporre del patrimonio del de cuius in maniera difforme dalle quote di reciproca spettanza: la rinunzia ad eventuali conguagli (in una divisione con attribuzione ad uno dei coeredi di beni di valore superiore alla sua quota e tacitazione degli altri con conguagli in denaro) rappresenterebbe una donazione indiretta.
151A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 356.
3. Lo scioglimento della comunione mediante negozio indiretto
Con il termine negozio indiretto si fa riferimento a quella particolare situazione nella quale i privati utilizzano un dato tipo negoziale per raggiungere un scopo che non è quello tipico del negozio stesso, ma uno ulteriore o addirittura diverso152.
Ciò è possibile a volte in forza dell'apposizione di speciali clausole o patti accessori, altre volte altre volte attraverso la combinazione di una serie di atti.
Vi è la possibilità, infatti, che talvolta vi sia parziale divergenza tra lo scopo programmato dalle parti e il risultato che sarebbe raggiungibile attraverso l’atto tipizzato dal legislatore; è in casi come questo che, appunto, attraverso un insieme di atti collegati fra loro e avvinti da quello che è definito collegamento negoziale è possibile raggiungere lo scopo che le parti si prefiggono153.
La caratteristica principale di siffatta tipologia di negozi sta proprio nella divergenza tra lo scopo perseguito in concreto dalle parti e la funzione tipica del negozio posto in xxxxxx000: si dice anche che in esso vi sia un'eccedenza dello scopo rispetto al mezzo: la finalità pratica perseguita dai contraenti va al di là della causa tipica dell'atto155.
152M. DI PAOLO, Digesto delle discipline privatistiche (sezione civile), XII, Torino, 1995, p. 124.
153S. XXXXXXXXX, Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1950, p. 298; X. XXXXXX, voce Negozio giuridico, V, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990, p. 3; X. XXXXXXX, Il sistema del diritto privato, Torino, 1993, p. 265. 154A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1998, p. 149 – 150 Dove si specifica che anche se lo scopo è diverso da quello che di regola si persegue con il negozio tipico, il negozio indiretto essendo sostanzialmente voluto, ha piena validità e la sua disciplina è quella stabilita per il negozio posto in essere; perché esso non costituisca frode alla legge o non serva a realizzare motivi illeciti comuni ad entrambe le parti.
155F. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, p. 182.
Ad esempio, qualora i coeredi stipulassero una compravendita fra di essi, scambiandosi il bene comune contro il prezzo, in questo caso avremo appunto un tipico caso di divisione attuata tramite negozio indiretto.
Cercando di cogliere l’aspetto essenziale dell’esempio, bisogna rilevare che l’aggettivo indiretto non si riferisce agli effetti del negozio, bensì alla sua funzione pratica che non corrisponde affatto alla causa in astratto assegnata positivamente dalla legge al tipo di atto in concreto posto in essere dalle parti.
E’ evidente che lo schema causale della compravendita, e lo scopo che lo stesso consente di raggiungere, ossia lo scambio della cosa contro il pagamento del prezzo della stessa, non è la reale intenzione delle parti, le quali attraverso la vendita, appunto, cercano anche di soddisfare l’ulteriore loro interesse ad avere un bene in proprietà esclusiva e non più uno stato di comunione ( ovviamente attraverso la compravendita un soggetto riceverà in proprietà esclusiva il bene e l’altro avrà come corrispettivo il denaro).
Si tratta, per spiegarsi meglio, di un’aberrazione causale, di una mancanza di corrispondenza tra causa in astratto e causa in concreto156.
156C. M. BIANCA, Diritto civile, vol. III, Milano, 2000, p. 459.
4. Lo scioglimento della comunione mediante negozio a causa mista
L’operazione economica realizzata dai privati, talvolta, presenta taluni elementi di un tipo e taluni elementi di un altro tipo contrattuale. In questa eventualità si teorizza l’esistenza di un contratto misto, cioè un contratto che è il risultato di una combinazione di una pluralità di elementi appartenenti a differenti schemi negoziali tipici che si fondono in un'unica causa157.
Parte della dottrina, invece, ritiene che tale contratto non costituisca un’autonoma categoria del diritto, in quanto rientrerebbe nel più ampio genus del contratto atipico158. La confluenza in un unico contratto di parti di schemi contrattuali tipizzate darebbe vita ad un contratto non riconducibile a nessuno dei frammenti che concorrono a costituirlo. La concettualizzazione del contratto misto, quindi, secondo alcuni159, servirebbe ad assolvere una funzione meramente descrittiva.
Per completezza v’è da dire, che non mancano autori che cercano di inquadrare il contratto misto in una indipendente categoria giuridica, rifuggendo dall’usuale binomio tipico\atipico160.
Il contratto misto, ovviamente, non gode di una propria regolamentazione tipica, varie sono state le elaborazioni dottrinali, che in parte corrispondono anche a quelle della sua inquadrazione dommatica, al fine di ricavare una regolamentazione per la categoria contrattuale in esame.
157V. LOPILATO, Questioni attuali sul contratto, approfondimenti tematici e giurisprudenza annotata, Milano, 2004, p. 44.
158R. XXXXXXXXXXXX, Xxxxxxxxx in generale, in Tratt. X. Xxxxxx- X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Xxxxxx ,0000, p. 134; X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, in Commentario del
c.c. UTET, Libro IV, Tomo 2, Torino, 1980, p. 33.
159L. XXXXXXXXX XXXX – U. Breccia – F. D. Busnelli- X. Xxxxxx, Diritto civile, fatti e atti giuridici, Torino, 1986, p. 509; BIANCA, Il contratto, 3, Milano, 2000, p. 478.
160Con argomentazioni diverse: G. DE XXXXXXX, I contratti misti. Delimitazioni, classificazioni e disciplina. “Negotia mixta cum donatione”, Padova, 1934, p. 112 ss.; X. XXXXXXXXX, La donazione mista, Milano, 1970, p. 46 ss.
Per cominciare bisogna dar conto della teoria dell’analogia: in coerenza con l’assunto dell’inquadranmento del contratto misto nella più ampia categoria del contratto atipico, autorevole dottrina applica al contratto misto i medesimi criteri dell’analogia che servono a fissare la disciplina per i contratti innominati161.
Altri autori, invece, aderiscono alla tesi della combinazione, che ha anche il pregio di sapersi adattare alla reale struttura del contratto misto.
In sostanza, i fautori di questa teoria162, traggono come conseguenza del fatto che il contratto misto si presenta come composto dalla mescolanza di una pluralità di parti di schemi contrattuali tipizzati quella di applicare le norme dettate per i singoli schemi da cui risultano formati. La teoria ora esposta presuppone una duplice serie di operazioni. Innanzitutto è necessario individuare i singoli tipi contrattuali che formano la struttura del contratto stesso, dopodiché si può procedere ad applicare ai tipi così individuati la normativa per essi prevista dal legislatore. Tuttavia, la teoria della combinazione da tempo soggiace ad aspre critiche. Per primo si rileva che essa rompe l’unicità contrattuale163. Inoltre la stessa non è sempre di facile applicazione pratica.
La giurisprudenza, dal canto suo, tradizionalmente, si è sempre ancorata al principio dell’assorbimento. La Suprema Corte, infatti, la maggior parte delle volte isola all’intero della complessiva operazione negoziale lo schema tipico che ricopre nel suo ambito un ruolo preminente, per così applicarne la relativa ed unica disciplina a tutto il contratto. Di recente, tuttavia, la Corte di cassazione sembra aver cambiato orientamento, allontanandosi dal criterio dell’assorbimento per seguire un misto fra
161G. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., p. 29; X. XXXXXXXX, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, p. 229.
162L. XXXXXXX XXXXXXX, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1956, p. 219; X. XX XXXXXXX, I contratti misti. Delimitazioni, classificazioni e disciplina. “Negotia mixta cum donatione”, cit., p. 176 ss.
163S. ORLANDO-XXXXXX X. XXXXXXXXX, voce contratti misti e contratti collegati, in
Enc. giur., Roma, 1988, p. 5.
quest’ultimo e quello della combinazione. In sostanza essa ha precisato, in alcune sentenze164, che il criterio della prevalenza non esclude ogni possibile rilevanza giuridica ad altri elementi che le parti, nel libero esercizio della loro autonomia, hanno inserito nel contratto. Tali elementi, anche se secondari, concorreranno quindi a fissare l’ampiezza del programma di interessi in concreto predisposto, con il solo limite della loro incompatibilità con la disciplina unitaria basata sugli elementi prevalenti.
Riveste un’importanza sicuramente centrale il dibattito che si è sviluppato al fine di individuare la differenza, o meglio il criterio da utilizzare per individuarla fra il contratto misto e i contratti collegati.
Di fronte ad una operazione negoziale nella quale, per volontà delle parti, concorrono una pluralità di prestazioni, il quesito al quale bisogna trovare una risposta è quello se siamo in presenza di un unico contratto o di diversi schemi contrattuali collegati fra loro.
Bisogna, per comprendersi meglio, individuare il criterio per distinguere se siamo in presenza di una pluralità di negozi o meno, partendo dalla ormai pacifica assunzione della non decisività del dato formale costituito dalla predisposizione di una pluralità di negozi o meno.
A tal fine una parte della dottrina si è fatta portatrice di una teoria soggettiva, altra di una teoria oggettiva.
La tesi soggettiva fa dipendere l’unicità o la pluralità del contratto dalla volontà delle parti165; la critica mossa a questa teoria si basa sul fatto che non si può demandare alle parti di determinare e qualificare gli effetti giuridici che scaturiscono dalle fattispecie negoziali. Questo compito è di esclusiva spettanza dell’ordinamento giuridico166.
164Vedi per tutte Cass., 2 dicembre 1997, n.12199, in Giur. it., 1998, 1808.
165T. XXXXXXXXX, Contratto misto, negozio indiretto, negotium mixtum cum donationem, in Riv. dir. comm., 1930, II, p. 464.
166G. DE XXXXXXX, I contratti misti. Delimitazioni, classificazioni e disciplina. “Negotia mixta cum donatione”, cit., p. 52; X. XXXXXXXXXX, negozi giuridici collegati, in riv. it. scienze giur., 1937, p. 9 ss.
La teoria oggettiva ha prospettato due divergenti linee interpretative. Da un lato vi è quella che fonda la distinzione sull’elemento causale167. Nel contratto misto, infatti, i frammenti negoziali appartenenti ai diversi tipi negoziali tipizzati perdono la loro identità fondendosi in un’unica causa; il collegamento negoziale, invece, mantiene la individualità dei contratti che concorrono alla sua formazione ognuno di questi mantenendo il loro assetto causale. Secondo questo ragionamento, in presenza di un’unica causa avremo un unico negozio, misto appunto; nel caso di più cause avremo una pluralità di negozi (collegati).
Tuttavia, si è osservato in chiave critica come una siffatta distinzione non conduca ad una soluzione del problema in quanto si fonda su un concetto estremamente controverso.
Si è così proposto di far ricorso alla nozione di prestazione. In particolare, se in presenza di una pluralità di prestazione è possibile individuare un rapporto di subordinazione funzionale tra le stesse nel senso che una prevale sulle altre, avremo allora un unico contratto, misto; se, per contro, tra le prestazioni vi è una relazione di pari ordinazione avremo allora una pluralità di contratti collegati168.
Anche qui, però, per completezza è doveroso ricordare che si va incontro all’obiezione che non sempre è possibile individuare una prestazione che possa essere qualificata come prevalente.
In mancanza di parametri di sicura applicazione, sembra potersi dire che l’elemento causale sia il più affidabile come criterio discretivo169. Tale
167G. SICCHIERO, Il contratto con causa mista, Padova, 1996, p. 45; XXXXXXXXX XXXXXX, I contratti collegati, in Xxxxx. xxx., 0000, XX, x. 000-000; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., 318 ss.; C. DI XXXXX, Collegamento negoziale e funzione complessa, in Riv. dir. comm,, 1977, p. 299 nt. 35; X. XXXXXXXXX, Collegamento e connessione fra negozi, in Riv. dir. comm., I, 1955, p. 373; in giurisprudenza si veda Cass., 22 novembre 1989, n. 5001, in Dir. prat. lav., 1990,
p. 431.
168M. XXXXXXXXXX, negozi giuridici collegati, cit., p. 28.
169Recentemente la Cassazione ha affermato quanto segue: << Il criterio distintivo fra contratto unico e contratto collegato non è dato da elementi formali quali l’unità o la pluralità di documenti contrattuali o la mera contestualità delle stipulazioni, ma da quello
scelta, è utile sottolineare, non ha esclusiva valenza dommatica in quanto dalla stessa discendono conseguenze circa la disciplina applicabile all’operazione contrattuale, come sopra già è stato detto.
Un caso di scioglimento di comunione mediante negozio a causa mista può essere ravvisato quando le parti pongano in essere una divisione transattiva: in tale situazione, il negozio è connotato dalla compresenza della causa della divisione, ossia quello dello scioglimento della comunione con apporzionamento dei coeredi, e quello della transazione che è rappresentata dall’eliminazione della lite, anche solo potenziale, tramite lo schema delle reciproche concessioni.
In questa situazione l’elemento causale riveste un importante ruolo anche come termine discretivo: infatti a secondo della proponderanza della causa divisoria o di quella transattiva avremo le figure della divisone transattiva o della transazione divisoria, con importanti conseguenze operative delle quali più avanti si avrà modo di approfondire.
sostanziale dell’unicità o pluralità degli interessi perseguiti (…) >> Cass., 28 giugno 2001, n.8844, in Giur. it., 2001, 1618 ss., con nota di NARDI, Collegamento negoziale: funzionale od occasionale?).
5. Lo scioglimento della comunione mediante collegamento negoziale
Il collegamento negoziale può essere considerato come quella particolare tecnica contrattuale con cui le parti predispongono tutta una serie coordinata di atti negoziali per il perseguimento di risultati economici altrimenti non perseguibili utilizzando un singolo negozio giuridico.
La giurisprudenza170, a proposito, è giunta a un’affermazione ormai assurta a ius receptum secondo la quale il collegamento negoziale si verifica ogni qual volta che: << le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale danno vita, contestualmente o no, a distinti contratti i quali, caratterizzandosi ciascuno in funzione della propria causa e conservando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, alla cui disciplina rimangono rispettivamente sottoposti, vengono tuttavia concepiti e voluti come funzionalmente e teleologicamente collegati fra di loro e posto in rapporto di reciproca dipendenza cosicché le vicende dell’uno debbono ripercuotersi sull’altro condizionandone la validità e l’efficacia>>.
Non è indispensabile che i soggetti dei singoli contratti siano i medesimi171, anche se, come dalla dottrina sottolineato, occorre che il secondo contratto abbia in comune con il primo almeno una delle parti; altrimenti verseremo non nella situazione di collegamento contrattuale, bensì in quella di influenza di un contratto su di un altro172.
Il fondamento di questa tecnica contrattuale è, con certezza, ravvisabile nel principio di autonomia contrattuale. Il nesso funzionale che le parti
170Cass., 15 febbraio 1980, n. 1126, in Mass. Giur. it., 1980; sul collegamento negoziale si veda altresì, tra le sentenze più recenti: Cass., 16 maggio 2003, n. 7640, in Giust. civ. mass., 2003, f. 5; Cass., 11 giugno 2001, n. 7852, in Mass. Foro it., 2001, 684; Cass., 23
aprile 2001, n. 5966, ivi, 510; Cass., 2 aprile 2001, n. 4812, ivi, 401; Cass., 12 gennaio
2001, n. 396, ivi, 36; Cass., 13 dicembre 2000, n. 15762, in Giust. civ. mass., 2000, 2593;
Cass., 4 agosto 2000, n. 13278, ivi, 1714; Cass., 28 luglio 2000, n. 9944, in Dir. & Giur.,
2000, 33, 41.
171Cass., 30 ottobre 1992, n. 11638, in Giust. civ. mass., 1991, fasc. 10.
172F. MESSINEO, voce Contratto collegato, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 49.
decidono di instaurare tra distinti negozi giuridici rappresenta una delle possibili manifestazioni della libertà di determinare il contenuto del contratto173.
Essendo diverse le forme attraverso le quali il collegamento negoziale si può manifestare, la dottrina che si è occupata dei contratti collegati174 si è proposta anche di individuare efficaci schemi classificatori all’interno dei quali sistemare le possibili forme di nesso contrattuale esistenti. Lasciando al di fuori di questi schemi, come ormai dalla maggioranza sostenuto175, il collegamento occasionale, il quale non si può definire collegamento in senso tecnico, in quanto manca una forma di coordinamento fra i diversi contratti verso un fine unico, e sussistendo solo un rapporto esteriore fra negozi cui l’apparenza del legame funzionale deriva nella maggior parte dei casi dall’unicità del documento o dalla medesimezza delle parti, è prevalsa l’adozione di un criterio ordinatorio che distingue tra collegamento necessario ( detto anche tipico) e collegamento volontario (detto anche atipico).
173G. XXXXXXXX, I contratti collegati, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da X. Xxxxxxx, Torino 1991, p. 587; X. XXXXXXXX, voce Contratto collegato, cit., p. 49; X. XXXXXXXXXXXX, voce Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 376; in giurisprudenza vedi Cass., 28 giugno 2001, n.8844, cit., 1618, con nota di X. XXXXX, Collegamento negoziale: funzionale od occasionale?.
174F. CARINGELLA, Il collegamento negoziale, in Studi di diritto civile, Milano, 2003,
p. 1867 ss.; X. XXXXXXX, Operazioni economiche e collegamento negoziale in una recente ricostruzione, in Riv. dir. comm., 2001, I, p. 387; X. XXXXXXXXXX, I contratti collegati: profili dell’interpretazione, in Eur. e dir. priv., 2000, p. 133.
175F. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993, p. 188; X. XXXXXXXX, I contratti collegati, cit., p. 582; X. XXXXXXXX, Appunti in tema di negozi giuridici collegati, in Giust. civ., 1954, I, p. 259; in giurisprudenza è frequente la distinzione tra collegamento funzionale e collegamento occasionale << Nel caso di negozi collegati, il collegamento deve ritenersi meramente occasionale, quando le singole dichiarazioni, strutturalmente e funzionalmente autonome, siano solo casualmente riunite, mantenendo l’individualità propria di ciascun tipo negoziale in cui esse si inquadrano; il collegamento è invece funzionale quando i diversi e distinti negozi, pur conservando l’individualità propria di ciascun tipo negoziale, vengono tuttavia concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza>>(Cass., 19 giugno 2001, n. 8333, in Giust. civ., 2002, I, 2875; nello stesso senso Cass., 11 giugno 2001, n.
7852, in Giust. civ. mass., 2001, 1165).
Il collegamento volontario, del quale sinora si è trattato, nasce, giova ripeterlo, dalla relazione che le parti instaurano tra negozi dotati di propria autonomia strutturale per il raggiungimento di uno scopo economico unitario.
Il collegamento necessario, viceversa, si caratterizza per l’esistenza di una correlazione funzionale tra contratti che trova la propria fonte nella legge176, o nella natura dei contratti stessi177, o nella funzione che un contratto svolge nei confronti dell’altra178.
Nonostante questa non sia la sede più appropriata per affrontare la complicata questione della causa, sicuramente merita menzione il meccanismo operativo che presiede all’instaurazione del nesso teleologico tra contratti strutturalmente autonomi.
In sostanza, le parti si prefiggono il raggiungimento di un determinato risultato economico complesso; consapevoli dell’impossibilità di ottenere quanto programmato mediante un solo strumento giuridico, decidono di far ricorso ad una serie combinata di atti al fine di raggiungere l’obiettivo stesso.
Ciascun contratto manterrà inalterata la sua funzione economico- individuale, ossia la sua causa in concreto. L’operazione contrattuale nel suo complesso considerata, invece, avrà la sua ragione concreta nell’interesse globale che ha costituito la spinta alla realizzazione dell’affare; consistendo la causa, quindi, nella ragione pratica dell’affare, accanto alle singole cause dei negozi che compongono la catena negoziale, le c.d. cause parziali, dovrà esser individuata una causa posta a fondamento dell’intera attività negoziale, c.d. causa complessiva179.
176F. MESSINEO, voce Contratto collegato, cit., p. 49.
177R. XXXXXXXXXXXX, voce Collegamento negoziale, cit., p. 377.
178N. XXXXXXXXX, Collegamento e connessione tra negozi, cit., p. 373.
179C. X. XXXXXX; Il contratto, cit., p. 484; X. XXXXXXXX, I contratti collegati, in Il diritto privato oggi, Milano, 1998, p. 154.
Dopo aver analizzato la struttura e la funzione dei contratti collegati, resta da dire circa gli effetti che il collegamento produce sulla sorte dei singoli contratti che costituiscono la serie negoziale.
E’ diffusa da tempo la convinzione secondo cui la regola operativa alla base del collegamento negoziale sia quella della ripercussione delle vicende relative alla validità, efficacia ed esecuzione di uno solo dei negozi sugli altri ad esso connessi, regola sintetizzata nel noto brocardo simul stabunt simul cadent180.
E’ possibile ipotizzare lo scioglimento della comunione tra i vari condividenti attraverso la tecnica del collegamento negoziale nel caso di una pluralità di vendite di quota a favore di un solo comunista. In questa ipotesi, infatti, il collegamento funzionale s’instaura fra le varie compravendite, tendendo le stesse, nel loro insieme, ad un solo scopo comune, ossia quello dello scioglimento dello stato di comunione.
180F. DI SABATO, Unità e pluralità di negozi (contributo alla dottrina del collegamento negoziale), in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 437 ss.; X. XXXXXXXXX, Collegamento e connessione tra negozi, cit., p. 357; X. XXXXXXXX, voce Contratto collegato, cit., p. 52 ss.; in giurisprudenza si veda per tutte, Cass., 18 Gennaio 1988, n.321, in Giust. civ., 1988, I, p. 1214.
6. La qualificazione di una fattispecie divisoria e l’interferenza della normativa fiscale: la divisione di masse plurime
La questione riguardante il trattamento tributario delle divisioni ereditarie di masse plurime è caratterizzata, nel suo evolversi, da una sequenza di approcci che sono espressione di due esigenze antagoniste, che nella fattispecie vengono in gioco, e che sono da un lato quella di alleggerire il carico fiscale (in evidente funzione di favor divisionis), dall’altro di limitare il più possibile le elusioni realizzabili attraverso l’uso surrettizio della divisione181.
Abbiamo più volte detto che la divisione ha quale scopo quello di far cessare uno stato di comunione. Bisogna aggiungere, però, che i medesimi soggetti possono essere partecipi di più comunioni. Ciò, in particolare, accade quando due o più soggetti hanno fatto in comune più acquisti, in forza di titoli diversi; in tale situazione, ciascuno di essi è titolare di tante quote quanti sono i titoli di provenienza, e non, come si potrebbe pensare, di una sola quota quale somma delle singole quote di sua spettanza182.
Anche la giurisprudenza in materia civile183, contrastando una plurisecolare legislazione e prassi tributaria184, nel caso in cui i beni che debbono essere divisi provengano da diversi titoli, afferma che fra i condividenti non vi sia
181M. X. XXXXXXX, La comunione e la divisione ereditaria, in Giur. sist. di dir. civ. e comm., Torino, 2a ed., 1998, p. 524.
182A. CEVARO, Il nuovo trattamento tributario della <<divisione>> di masse plurime,
in Riv. Not., 1986, p. 1123.
183Tale orientamento ha trovato elaborazione per la prima volta in Cass., 30 agosto 1947
n. 1556 in Giur. Imp. Dir., 1949, p. 360; confermata con la sentenza Xxxx. S.U. 18 ottobre 1961 n. 2224 in Foro It. 1962, I, p. 1549, dove è sancito il principio secondo il quale “l’acquisto di beni in comunione, attraverso titoli diversi, dà luogo alla “sommatoria” di tante comunioni ciascuna regolata dal suo titolo […] Ciascun compartecipe non vanta sulla totalità dei beni, che deriva dalla somma di tutti i beni delle diverse comunioni, un diritto unico, ma tanti diritti, ciascuno per la quota corrispondente ad ogni titolo e relativo ai beni acquistati da quel titolo”.
184N. CINTI, La divisione e le masse plurime secondo il nuovo T.U. dell’imposta di registro, in Boll. Trib., 1988, p. 617.
un’unica comunione, bensì tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza dei beni185.
Ne consegue che, nel caso in cui si proceda alla divisione di tali beni, non si realizza un’unica divisione, ma tante divisioni quanti sono i titoli costitutivi delle singole comunioni, in modo che la sostituzione della pars quota con la pars quanta avvenga per ogni compartecipe nell’ambio circoscritto di ogni singola massa comune.
Qualora, invece, i soggetti titolari di più comunioni con un unico atto pongano fine alle stesse, la quota ideale di ogni condividente deve essere computata e la porzione che gli è assegnata deve essere circoscritta nell’ambito di ogni singola comunione. Nell’ambito di ciascuna massa, in sostanza, dovrà trovare applicazione la questione relativa alla corrispondenza fra quota di fatto e quota di diritto. Quindi, nel caso in cui le singole assegnazioni di beni non corrispondano esattamente alle quote di spettanza di ciascun condividente in ogni singola comunione, la divisione non avrà natura esclusivamente dichiarativa, ma si determinerà un’equiparazione meramente fiscale, per l’eccedenza, in relazione ad ogni massa, di ciascun conguaglio ad un trasferimento tra condividenti (con l’applicazione delle più pesanti imposte proporzionali sui trasferimenti186).
185Se, ad esempio, A e B acquistano pro indiviso una casa e un terreno non con un unico atto, ma con due distinti atti, essi sono contitolari non di una ma di due comunioni, anche se hanno sempre acquistato in parti uguali; e precisamente ognuno di essi sarà titolare di una quota pari ad un mezzo sulla comunione che ha per oggetto la casa e di una quota pari ad un mezzo sulla comunione che ha per oggetto il terreno; A. CEVARO, Il nuovo trattamento tributario della <<divisione>> di masse plurime, cit., p. 1124.
186L. SCORDINO, Sull’imposizione della divisione di comunioni plurime, in Il Fisco, 1991, p. 1554 ss.; P. ARMATI, La disciplina tributaria della divisione, in Successioni e Donazioni, a cura di Xxxxxx Xxxxxxxx, 1994, vol. II, Padova, p. 396; X. XXXXXXX e X. XXXXXXX, La nuova disciplina tributaria della divisione delle masse plurime nel testo unico dell’imposta di registro, in Riv Not., 1988, p. 606; X. XXXXXXXX, Il trattamento tributario della divisione, in Le Successioni (IV, Divisione), in Diritto Privato nella Giurisprudenza, a cura di Xxxxx Xxxxx, Torino, 1999, p. 196; Comm. Trib. Centrale, Sez. X, 12 ottobre 1988, n.6691, in Boll. Trib. 1989, p. 1273; Comm. Trib. centrale, Sez. IV, 3 luglio 1990, n.5888, in Fiscovideo.
Un’attenuazione di quest’ultimo principio deriva dalla possibilità di tassare come permuta187 l’eventuale scambio di beni fra masse. In questo caso, infatti, l’imposta di trasferimento sui conguagli sarà applicabile soltanto al valore di quello, tra i due beni, che darà luogo alla percezione della maggiore imposta, ai sensi della lettera b) del primo comma dell’art. 43 del TUR188.
Il Testo Unico dell’imposta di Registro ha tentato di temperare, in esito ad una lunga evoluzione storica189, il trattamento fiscale che deriva da una siffatta ricostruzione delle masse plurime, nell’ultimo comma dell’art. 34190, a norma del quale si considerano comunioni uniche, e non plurime, anche quelle che trovano origine in titoli diversi purché l’ultimo acquisto di quote avvenga mortis causa.
Questa norma, ispirata chiaramente al principio del favor divisionis, amplia quindi l’applicazione della minor aliquota di divisione, applicabile anche nel caso di comunioni che trovano origine in più titoli, ma ponendo, comunque, due importanti limitazioni.
La medesimezza dei soggetti partecipi delle comunioni rappresenta la prima limitazione.
187“Tornando all’esempio precedente, se A e B decidono di dividere tra loro la casa e il terreno, acquistati con due distinti atti, assegnando ad A la casa e a B il terreno, con un tale atto, in realtà A cede a titolo di permuta a B la mezza quota di sua spettanza sulla comunione che ha per oggetto il terreno, mentre B cede a titolo di permuta ad A la mezza quota di sua spettanza sulla comunione che ha per oggetto la casa. Ciò è del tutto evidente solo se si pensa che con detto atto ad A nulla viene della comunione sul terreno, come egualmente a B nulla viene dalla comunione sulla casa” così X. XXXXXX, Il nuovo trattamento tributario della <<divisione>> di masse plurime, cit., p. 1125.
188L. XXXXXX e X. XXXXXX, Il manuale applicativo delle imposte indirette, Milano, 1996, p. 157; X. XXXXXXX, La divisione nel diritto tributario, in Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 688.
189F. XXXXXX, “Il problema delle masse plurime”, in La nuova giurisprudenza Civile Commentata, 2000, 2, p. 17 e ss.
190La norma ha innovato il testo dell’art. 32 del precedente D.P.R. 634\1972 il quale prevedeva l’applicazione della più lieve aliquota della divisione a comunioni che trovassero origine in più titoli, ma esclusivamente a causa di morte.
I soggetti devono essere i medesimi al momento della divisione: non determinano, invece, per unanime opinione191, masse plurime le variazioni soggettive dei comunisti, a seguito di successione o di atti tra vivi traslativi di quote. In questo caso, infatti, la modifica soggettiva non produce l’ulteriore effetto di intaccare il rapporto genetico e funzionale che intercorre fra titolo e massa192.
Queste modificazioni di natura esclusivamente soggettiva posso avvenire in qualsiasi momento, addirittura anche come ultima vicenda della fattispecie, nulla mutando ai fini fiscali, continuando a essere un’unica comunione193.
Per quanto riguarda la seconda limitazione, questa è data dal fatto che, per essere considerata un’unica comunione, l’ultimo acquisto di quote deve derivare da una successione a causa di morte.
La preoccupazione del legislatore di punire le elusioni, che potrebbero realizzarsi attraverso l’artifizio di aumentare artificiosamente la compagine dei comunisti, con negozi tra vivi a tal fine conclusi, è qui di tutta evidenza. L’ultimo acquisto deve essere necessariamente a causa di morte, proprio al fine di collegare questo poziore trattamento fiscale ad un evento che è fuori dalla sfera volitiva dei comunisti.
Dal punto di vista ermeneutico, la dizione “ultimo acquisto di quote” – una volta chiarito che le modificazioni soggettive non incidono sul rapporto genetico e funzionale fra titolo e massa – altro non significa se non che l’ultimo titolo costitutivo della comunione può essere solo ed
191C. SERENELLINI, Le divisioni nel Testo Unico dell’imposta di registro, in Notaro, 1986, p. 69; X. XXXXXXXXXX, Il trattamento tributario delle divisioni, in Corr. Trib., 1986, p. 224.
192Così, ad esempio, se Xxxxx Xxxx e Xxxxxxxxx sono comproprietari di beni per acquisto fatto per unico atto inter vivos, l’eventuale cessione di quota fatta da Xxxxx ad un terzo determinerà soltanto una modificazione soggettiva dei comproprietari, ma non cambierà il titolo di acquisto che ha generato la massa in comunione da dividere, che resterà sempre il primo, e la massa, sempre unica, X. XXXXXXX, La divisione nel diritto tributario, in Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 689.
193Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n.23\bis, in data 20 Maggio 1991, in CNN Strumenti, II (1991), N.14, 0700, 5.1; e Studio del Consiglio Nazionale del Notariato 5 luglio 2002 (estensore Formica), in CNN Strumenti, 0700, 17.
esclusivamente un titolo a causa di morte194. Quindi, un ultimo titolo di acquisto, per successione ereditaria, a favore di tutti gli attuali comunisti, avente per oggetto un bene diverso da quelli già costituenti la comunione. Tale interpretazione trova l’importante conferma nella relazione all’art. 34 TUR, la quale testualmente afferma che << una modifica sostanziale è stata apportata all’annosa questione della tassazione delle masse plurime, ossia che trovano origine in più titoli, nel senso che esse sono considerate comprese in una sola comunione soltanto se i comunisti sono gli stessi e se l’ultimo titolo di acquisto di quota derivi da successione a causa di morte195>>. Qui il termine titolo, che si riferisce alla quota, sarebbe uno di quei titoli che danno origine alle masse plurime196.
Da ultimo, vi è da ritenere che la massa sia unica anche nel caso in cui la comunione si estenda ad altri beni come effetto di fenomeni quali l’accrescimento, che implicano delle relazioni di derivazione ( ad esempio i
194Così X. XXXXXXX, La divisione nel diritto tributario, in Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 691.
195Per un illuminante esempio X. XXXXXXX, La divisione nel diritto tributario, in Trattato breve delle successioni e donazioni, cit., p. 689 “ Xxxxx e la moglie Xxxx sono comproprietari di tre immobili. Xxxxx muore, lasciando superstiti per legge la moglie e i tre figli: nella sua eredità è ricaduta la metà dei tre immobili. Pertanto, Xxxx è divenuta proprietaria di essi per 4/6; dei restanti 2/6 sono divenuti comproprietari i tre figli. Se Xxxx xxxx la sua quota di 4/6 ai tre figli e questi ultimi procedono alla divisione, attribuendosi ciascuno uno dei tre immobili (presupponendoli di egual valore), non si verifica il fenomeno delle masse plurime. In questo caso, infatti, la morte di Xxxxx ha determinato, ai sensi della norma in esame, la riunificazione dei tre titoli di provenienza in un’unica massa da dividere, fra Xxxx e i tre figli. La donazione fatta da Xxxx, invece, comporta una modificazione meramente soggettiva che, come detto più volte, non determina variazioni sull’unicità della massa, determinatasi, ai fini fiscali, con l’ultimo acquisto fatto a causa di morte dalla moglie Xxxx e i figli, tutti eredi di Xxxxx.
196G. BARALIS e X. XXXXXXX, La nuova disciplina tributaria della divisione delle masse plurime nel testo unico dell’imposta di registro, cit., p. 611; A. FEDELE, Sulla nozione di “massa” ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro sugli atti che producono lo scioglimento della comunione, in Riv. dir. Trib., 1991, III, p. 1182; Circolare Ministero delle Finanze 12 giugno 1986 n.37\220391; Comm. Trib. centrale, n.5888 del 18 settembre 1990 in Rep. Foro it., 1990, voce registro, n.105; Comm. Trib. Centrale, n. 7118 del 16 novembre 1991, in Xxx. Xxxx Xx., xxxx xxxxxxxx, 0000, x. 00;
Comm. Trib. Centrale n. 3077 del 5 maggio 1989, in Rassegna Tributaria, 1989, 2, p.
1074; Comm. Trib. Centrale n. 6691 del 12 ottobre 1988, in Rassegna Tributaria, 1989, 2, p. 188; X. XXXXXXX, La divisione in presenza di comunioni plurime, in Il Fisco, 1991, p. 6334; un’ interessante casistica si trova in X. XXXXXX, Il nuovo trattamento tributario della <<divisione>> di masse plurime, cit., p. 1125.
frutti della cosa comune) o di attrazione (ad esempio accessione) fra i beni o i diritti197.
In casi come questi, si assiste solamente ad un incremento dei beni, per il solo effetto della legge, che formano la massa da dividere, già unificata fiscalmente dall’ultimo acquisto a causa di morte.
197A. XXXXXX, Sulla nozione di “massa” ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro sugli atti che producono lo scioglimento della comunione, cit., p. 83.
7. L’oggetto di un contratto a causa divisoria
Soffermando la nostra attenzione sull’oggetto del contratto di divisione, una preliminare analisi dell’oggetto del contratto si rende necessaria, nozione che ha visto la dottrina molto attiva e non sempre concorde sul significato da attribuire a questo elemento essenziale del contratto.
Analizzando le diverse conclusioni, cui anche la dottrina più recente è pervenuta, non si può fare a meno di attestare che, nonostante gli sforzi profusi, il significato da dare all’oggetto del contratto costituisce tuttora un problema aperto198, senza trascurare che vi è anche chi ha affermato l’inutilità della questione199.
Il pensiero di parte della dottrina, innanzitutto, è orientato a sostenere che l’oggetto del contratto sia rappresentato dagli interessi, dalla materia o dai beni in esso regolati200; configurazione che comunque è stata oggetto di critiche da parte di alcuni autori che hanno evidenziato come, con questa chiave di lettura per qualificare l’oggetto del contratto si designa un elemento del contratto che sta al di fuori di esso, ricorrendo ad un termine esterno201.
Il negozio desume l’oggetto dalla situazione giuridica su cui viene a incidere, finalizzandolo ad una modificazione della situazione medesima,
198V. XXXX-XXXXXXXXX, Il contenuto del contratto, in I contratti in generale, diretto da X. Xxxx e X. Xxxxxxx, vol. III, I requisiti del contratto, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da X. Xxxxxxx, s.l., ma Torino, s.d., ma 1991, p. 727 ss.
199G. GORLA, La teoria dell’oggetto del contratto nel diritto continentale (Civil Law) (Saggio di critica mediante il metodo comparativo), in Jus, 1953, p. 295; X. XXXXX, Sugli usi giudiziali della categoria <<indeterminatezza\indeterminabilità dell’oggetto del contratto>>, e su una sua recente applicazione a tutela di <<contraenti deboli>>, in Giur. it., 1979, I, 2, c. 146 ss.
200E. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p, 79 ss, sulle cui osservazini si vedano le critiche parziali di X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 625.
000X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, rist., 1983, p. 129.
questa è la posizione assunta, invece, da altra autorevole dottrina202; l’oggetto, quindi, delle dichiarazioni delle parti è il contenuto; il negozio è ciò che determina; il contenuto è ciò che è determinato203.
Orientandosi sotto il profilo del risultato unico voluto dalle parti, altri autori204 concepiscono il contratto come consenso, e l’oggetto è il termine di riferimento del consenso, l’ id sul quale e verso il quale il consenso si manifesta205.
Diversamente da quanto detto, altri ritengono non si possibile far coincidere l’oggetto con il contenuto del contratto; quest’ultimo, infatti, sarebbe inteso come l’insieme delle clausole volute dalle parti o inserite nel contratto per forza di legge, degli usi o dell’equità206. L’oggetto invece è la cosa o il diritto che il contratto trasferisce da una parte all’altra207, e che altro non è se non la prestazione che una parte deve porre in essere in favore dell’altra. Infine, l’oggetto è individuato nel bene, non solo inteso come risultato della definizione codicistica208, ma come attività, come valore anche incorporale209.
Dopo questo breve sunto delle diverse posizioni dottrinali, breve ma essenziale anche a fini dell’analisi di quello che da più vicino ci interessa
202N. XXXX, voce << Oggetto del negozio giuridico>>, in Noviss. dig. It., vol XI, s.l., ma Torino, s.d., ma 1965, p. 803, anche X. XXXX, Oggetto del negozio giuridico, in Norme e fatti. Saggi di teoria generale del diritto, s.l., ma Milano, s.d., ma 1984, p. 191 ss. In particolare p. 203.
203N. IRTI, voce << Oggetto del negozio giuridico>>, cit., p. 803.
204G. XXXXXX, Corrispettività e alea nei contratti, Milano-Varese, s.d., ma 1960, p.16 nota 14; X. XXXXXXXXXXX, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, p. 1273 ss.
205P. XXXXXXXXXX, I negozi su beni futuri. I. La compravendita di <<cosa futura>>,Napoli, 1962, p. 69.
206F. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, V.II, Le obbligazioni e i contratti, t. I,
Obbligazioni in generale. Contratti in generale, cit., p. 199.
207F. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, V.II, Le obbligazioni e i contratti, t. I,
Obbligazioni in generale. Contratti in generale, cit., p. 199.
208Cfr. art. 810 cod. civ.
209G. X. XXXXX, Capacità e oggetto nel negozio giuridico: due temi meritevoli di ulteriori riflessioni, in Quadrimestre, 1988, p. 11; G. B. XXXXX, Le anamorfosi del diritto civile attuale. Xxxxx, s.l., ma Padova, 1994, p. 339.
l’analisi dell’oggetto nel contratto di divisione, si comprende meglio la difficoltà di un inquadramento generale dell’oggetto del contratto.
Ora, venendo a parlare proprio del contratto di divisione, la caratteristica peculiare di quest’ultimo sta proprio in ciò che esso incide sempre su una situazione di comunione.
Per mezzo della divisione, infatti, i diritti che riguardano il complesso di beni in comunione si trasformano in diritti su determinati beni assegnati. In questo senso, fuor di dubbio, il contratto ricava l’oggetto dalla situazione giuridica su cui viene a incidere, cioè la comunione210.
Il contratto divisorio può avere a oggetto un solo bene, quando la comunione è formata da un solo bene appartenente a più comproprietari ma può avere a oggetto anche una pluralità di beni, nel caso in cui i beni che compongono la comunione siano più di uno; generalmente, quindi, possiamo affermare che ci sia un’equivalenza fra i beni che compongono la comunione e i beni che i condividenti dividono con il contratto. Unica eccezione a quest’affermazione è da rinvenire nell’eventuale conguaglio predisposto dai condividenti al fine di mantenere la proporzionalità fra quota e beni assegnati.
Tuttavia, questo sistema che può quasi definirsi binario, da un lato oggetto della divisione, dall’altro oggetto della comunione, non deve portare all’errata conclusione che la quota sia l’oggetto del contratto di divisione211. La quota, infatti, non è un bene e quindi non può costituire oggetto di un diritto. Essa rappresenta uno strumento di misura della contitolarità del diritto, mentre il diritto del compartecipe è sull’intero bene, ovviamente limitato dal diritto degli altri compartecipi212.
210N. IRTI, voce << Oggetto del negozio giuridico>>, cit., p. 803.
211S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, rist., 1964, p. 163.
212A. GAMBARO, La proprietà, in Tratt. dir. priv. a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxx, sl., ma Milano, sd., ma 1990, p. 262.
Per quanto riguarda i connotati dell’oggetto del contratto di divisione, come per ogni contratto, la legge213 richiede che esso sia possibile, lecito, determinato o determinabile.
Per quanto riguarda la possibilità, essa attiene alla possibilità materiale dell’oggetto; così è impossibile una divisione di beni distrutti o inesistenti, come non si possono dividere beni che non compongano una comunione214. Non si dubita, invece, dell’ammissibilità della divisione di cosa futura; in particolare, il contratto di divisione con oggetto un bene futuro è definitivo e a effetto reale, i cui effetti però si verificano nel momento in cui la cosa viene ad esistenza215.
L’impossibilità dell’oggetto è ravvisata nel caso di beni che la legge216 non
consente di dedurre in contratto, prevedendo un vincolo di indivisibilità per determinate categorie di beni appartenenti alla comunione.
I requisiti della liceità e della determinatezza non presentano questioni particolari rispetto ai principi generali validi per tutti i contratti in generale. La giurisprudenza intervenendo sul profilo della determinatezza ha posto quale condizione di sufficienza che sia chiaro che i beni in comunione siano attribuiti a ciascuno dei condividenti217.
Rimane da dire che il contratto di divisione, benché abbia carattere universale, avendo ad oggetto tutti i beni che compongono la comunione, non è da escludere una divisione parziale, rimando i condividenti in
213Cfr. art. 1346 c.c.
214Si è negata, ad esempio, da parte della giurisprudenza di merito, la possibilità alla divisione nel caso in cui il de cuius si sia spogliato in vita di tutti i suoi beni, poiché, in tale ipotesi, mancherebbe la massa da dividere che ne costituisce il presupposto, App. Napoli, 17 ottobre 1969, in Giur. it., Rep., 1970, voce <<Divisione>>.
215Cass. 12 dicembre 1974, n. 4231, in Riv. giur. edilizia, 1975, I, p. 510; Cass. Civ., 30 marzo 1968, n.998, in Giur. it., Rep., 1968, voce <<Divisione>> n.3; Cass. Civ., 10 maggio 1978, n. 2263, in Giur. it., Rep., voce <<Divisione>> n. 37; X. XXXX- ZENCOVICH, Il contenuto del contratto, cit., p. 741.
216Si tratta delle limitazioni previste dagli artt. 720, 722 e 1112 del codice civile, dei quali si tratterà successivamente (infra n. 9).
217Cass. civ., 18 dicembre 1942, n. 2714, in Foro it., Rep. Voce <<Divisione>> n. 10.
comunione relativamente ai beni non divisi218. Nel caso in cui, alcuni dei beni che compongono la comunione e che non stati compresi nella divisione siano stati acquistati dal de cuius sotto condizione risolutiva, l’avverarsi della condizione comporta la caducazione ex tunc della divisione, essendo quei beni estranei alla comunione ab origine219.
Trattato l’oggetto come elemento essenziale del contratto, e anche nello specifico caso che in questa sede interessa, come oggetto del contratto di divisione, non resta che analizzare alcune interessanti vicende che hanno riflessi diretti sull’oggetto del contratto e che meritano una seppur breve menzione, vicende in ordine alle quali si dubita dell’appartenenza di determinate categorie di beni alla comunione.
La prima situazione di cui è interessante trattare concerne i frutti prodotti dal bene oggetto della comunione. Il quesito che bisogna risolvere è se i frutti dei beni prodotti manente communione cadano anch’essi in comunione e, di conseguenza, siano anch’essi oggetto di divisione ovvero se questi, a seguito della divisione, spettino in proprietà esclusiva agli assegnatari dei beni che li hanno prodotti, come risultato degli effetti retroattivi della divisione.
In questa situazione è d’uopo, preliminarmente, prendere in considerazione la distinzione in ordine alla tipologia dei frutti, cioè la nota distinzione fra frutti civili e frutti naturali, esaminando il loro rapporto nei confronti del beni che li ha generati, se, quindi, siano stati separati o meno. In dottrina, ormai senza dubbi, si definiscono i frutti naturali come quelli che derivano per separazione dalla cosa “madre” e che si acquistano automaticamente per
218A. FEDELE, La comunione, cit., p. 367; Cass. civ. 29 novembre 1994, n. 10220, in Giur. it., Rep. 1994, voce <<Divisione>> n. 34, che viene negato che il principio di universalità della divisione abbia carattere inderogabile, e si afferma la possibilità di una divisione parziale sia per accordo tra le parti, sia qualora, richiesta giudizialmente la divisione parziale, le altre parti non amplino la domanda estendendo la divisione all’intero asse ereditario; Cass. civ. 9 febbraio 1987, n. 1337, in Riv. notar., 1987, p. 1160.
219In tal senso Cass. civ., 17 maggio 1984, n. 3049, in Giust. civ., Rep., voce
<<Divisione>> n. 6.
effetto del diritto sulla cosa220; da ciò discende, come logica conseguenza, che possiamo avere frutti naturali separati dalla cosa “madre” e frutti naturali non separati. Per i frutti naturali non separati, si ritiene che essi seguano, per quanto riguarda il diritto di proprietà, i beni che li abbiano generati221. Ciò si può dedurre dal codice civile, dove la norma222 che dà la nozione di frutti civili e frutti naturali, statuisce che, i secondi, fino a quando non avvenga la loro separazione fanno parte della cosa “madre”. Sempre secondo il codice civile, la proprietà dei frutti naturali spetta al proprietario dei beni che li ha prodotti, e quindi, nel caso di specie, ai comproprietari. Quindi, i frutti naturali che non siano stati separati cadono in comunione; si dividono tra i compartecipi in quanto beni della comunione e saranno apporzionati quale parte integrante del bene. In questo caso è ritenuto223 operante il principio di retroattività disposto dal codice civile224, cosicché ogni assegnatario percepirà i frutti prodotti dal bene assegnato in divisione.
Nel caso opposto in cui i frutti naturali siano stati separati manente communione, il complesso dei frutti separati è acquisito dalla massa e quindi alla proprietà pro quota di ciascun coerede225.
Per i frutti civili, ossia quei beni che si traggono come corrispettivo per aver concesso il godimento di un bene ad altri226, il codice civile dispone che si acquistino giorno per giorno in ragione della durata del diritto, ma nulla dice riguardo chi li acquisti. In questo caso, si ritiene227 che valga lo stesso criterio adottato per i frutti naturali separati, quindi formano una massa
220P. BARCELLONA, voce <<Frutti (diritto civile)>>, in Enc. dir., vol. XVIII, s.l., ma Mixxxx, x.x., xx 0000, x. 000 xx.
000X. XXXXXXX, La proprietà, cit., p. 30.
222Cfr. art. 820 cod. civ.
223A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 159.
224Cfr art. 757 cod. civ.
225Cass. civ., 5 marzo 1987, n. 2320, in Nuova giur. civ. comm., 1987, I, p. 456.
226P. BARCELLONA, voce <<Frutti (diritto civile)>>, cit., p. 215.
227A. MORA, Il contratto di divisione, cit., p. 160.
indivisa sulla quale ciascun comunista vanta diritti in proporzione alla quota di spettanza.
Nella divisione ereditaria, resta da evidenziare, l’assegnazione pro quota a un coerede dei frutti prodotti quando la comunione era pendente non retroagisce al momento dell’apertura della successione ma a quando questi siano venuti ad esistenza se questo momento è posteriore a quello dell’apertura della successione228.
Un’altra questione che suscita interesse e che merita di essere esposta riguarda la sorte dei debiti facenti capo al de cuius e dei crediti ereditari. L’opinione a lungo sostenuta dalla dottrina è quella che può essere riassunta nel brocardo <<nomina et debita hereditaria ipso iure dividuntur>>, ossia debiti e crediti ereditari non cadono in comunione ma si dividono automaticamente, ipso iure, tra gli eredi.
L’applicazione e la validità di questo principio sono stato vagliati e in un certo senso revisionati nel corso del tempo.
Partendo dai debiti, la dottrina a lungo è rimasta ancora al tradizionale principio229, ritenendosi che i debiti si dividessero automaticamente tra i coeredi dal momento dell’apertura della successione. Opinione che la dottrina sostiene e fonda sulla base di varie disposizioni legislative230.
228A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 201.
229D. XXXXXXX, Il sistema del diritto privato, nuova ed., a cura di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxx, s.l., ma Torino, s.d. ma 1998, p. 1221; X. XXXX, Successioni per causa di morte, cit., p. 364; V. R. XXXXXXX, voce <<Divisione ereditaria (diritto civile)>>,cit., p. 53 ss.;
X. XXXXXXXX, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. VI, Milano, 1962, p. 605;
X. XXXXXXX, La divisione ereditaria, cit., p. 11 ss.
230La prima di esse è l’art. 752 cod. civ. il quale dispone che gli eredi contribuiscono al pagamento dei debiti e dei pesi ereditari proporzionalmente alle quote di loro spettanza. Altra conferma si rinviene nell’art. 754 cod. civ. secondo il quale gli eredi sono tenuti al pagamento dei debiti ereditari personalmente ed in proporzione alla loro quota ereditaria. Ancora, un’altra disposizione che si evoca in favore della suddetta tesi è la norma dell’art. 1295 c.c. in tema di obbligazioni solidali; l’obbligazione si divide fra gli eredi di uno dei condebitori o di uno dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote.
La giurisprudenza è sempre rimasta fedele al principio dell’automatica rifrazione dei debiti231, senza poi entrare nel merito delle critiche che parte della dottrina232 ha mosso alla validità del principio stesso.
Per i crediti, la dottrina che ammette la divisione automatica ritiene che detto principio sia contenuto nel codice civile233. Anche in questo caso non sono mancate le critiche. Il presupposto della diversa tesi è una differente qualificazione del rapporto comunione ereditaria - coerede, nella quale prevalga l’interesse dei coeredi ad amministrare congiuntamente le passività e le attività ereditarie. Si tratta, in sostanza, di qualificare la disciplina dei rapporti in comunione come una disciplina collegiale, dove le decisioni sono adottate a maggioranza.
Fatte queste premesse, si critica la divisione ipso iure dei crediti in quanto anche i sostenitori di questo principio ne negano l’operatività relativamente alle obbligazioni indivisibili, non tenendo conto del fatto che i concetti di divisibilità e indivisibilità attengono non tanto all’obbligazione essendo un carattere della prestazione. Inoltre sarebbe incompatibile con la divisione ereditaria la circostanza che il coerede possa disporre iure proprio della quota di debito e di credito prima della divisione. All’affermazione che la comunione dei debiti sarebbe troppo gravosa per il coerede, si è ribattuto che non è comprensibile perché debba accollarsi al creditore il rischio dell’insolvenza di un coerede quando si tratti di eredità lucrosa234. Due
231Cass. civ. 13 ottobre 1992, n. 11128, in Foro it., 1993, I, 1, c. 2283; per una remota decisione in questo senso Cass. civ., 24 luglio 1945, n. 608, in Foro it., Rep., 1943-45, voce << Successione legittima e testamentaria>>, 126.
232F. X. XXXXXXXX, voce Comunione ereditaria, cit., p. 279; F. D. BUSNELLI, L’obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, Milano, 1974, p. 89 ss.; X. XXXXXXXXXXX, voce << Successioni (diritto civile): parte generale>>, in Noviss. dig. It., vol. XVIII, s.l., ma Torino, s.d., ma 1971, in particolare p. 762; X. XXXXXXXX, Corso di diritto civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, p. 71.
233In particolare negli artt. 1295 e 1324 del cod. civ.; si veda X. XXXX, Successioni per causa di morte, cit., p. 365; X. XXXXXXX, La divisione ereditaria, cit., p. 18.
234P. XXXXXXXXXXX, voce << Successioni (diritto civile): parte generale>>, cit., p. 762.
norme del codice civile sono state ritenute importanti, la prima235, che prevede la decisione a maggioranza tra i coeredi al fine di vendere i beni dell’eredità per pagarne i debiti, fatto che riguarda tutti i coeredi in funzione di un interesse collettivo236; l’altra237, prevedendo la resa dei conti, richiede la formazione dell’attivo e del passivo, all’interno della quale ricadono debiti e crediti che cadono nell’eredità.
Per i crediti, dettando il legislatore238 le regole per la formazione delle porzioni ed facendovi rientrare in esse beni mobili, immobili e crediti di eguale natura, si schiererebbe evidentemente in favore della caduta in comunione anche dei crediti239. Anche l’art. 757 del codice civile porta a propendere per la caduta dei crediti in comunione, in quanto l’eventuale assegnatario si deve considerare successore dal momento dell’acquisto dell’eredità240.
Anche la giurisprudenza ha mutato il proprio orientamento tradizionale con una decisione, alquanto recente, che testimonia il recepimento degli ultimi approdi dottrinali, stabilendo che i crediti del de cuius non si dividono automaticamente tra i coeredi in proporzione alle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria come si desume dagli artt. 727 e 757 del codice civile241.
235Cfr art. 719 c.c.
236P. XXXXXXXXXXX, voce << Successioni (diritto civile): parte generale>>, cit., p. 762.
237Cfr. art. 723 c.c.
238Cfr. art. 727 c.c.
239A. LENER, La comunione, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, vol. 8, Proprietà,
t. II, s.l., ma Torino, s.d., ma rist. 1991, p. 329.
240F. X. XXXXXXXX, voce Comunione ereditaria, cit., p. 279.
241Cass. civ., 13 ottobre 1992, n. 11128, cit.
8. Il problema dei beni non divisibili
La ragioni che spinsero il legislatore, già nel 1865, a escludere l’operatività del generale diritto alla divisione per i beni indivisibili o non comodamente divisibili sono abbastanza evidenti: si sono voluti evitare frazionamenti che risulterebbero non adeguati allo scopo o per l’elevato costo delle operazioni divisionali o per altri aspetti negativi che la divisione stessa genererebbe come la perdita di ricchezza che il bene subirebbe, misurabile confrontando la somma del valore delle porzioni e il valore che il bene avrebbe conservato se rimasto integro oppure la scarsa funzionalità delle porzioni stesse242.
242P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Della divisione, cit., p. 126; Affermano che la comoda divisibilità deve valutarsi non solo dal punto di vista strutturale, ma anche da quello funzionale, nel senso che le porzioni divisorie devono essere idonee ad assolvere alla funzione economica dell’intero bene oggetto di frazionamento le decisioni di Cass., 19 aprile 1962, in Mass. Foro It., 1962, n. 779; Cass. 12 luglio 1900, x. 0000, xx Xxxxx.
xxx., 0000, X, 000; Cass. 22 luglio 1900, x. 0000, xx xx., 0000, X, 0000; Cass. 4 agosto
1965, n. 1868, in Giur. it., 1965, I, I, 1298; 5 febbraio 1966, n. 385, in Riv. giur. edilizia,
1966, I, 744; Cass. 4 luglio 1966, in Mass. Foro it., 1966, n. 1720; Cass. 4 gennaio 1967,
in id., 1967, n. 11; Cass. 9 maggio 1967, in id., 1967, n. 926; Cass. 9 Ottobre 1971, n.
2813, in Giust. civ., 1971, I, 1724; Cass. 8 aprile 1972, in Mass. Foro it., 1972, n. 1086;
Cass 17 Maggio 1975, in id., 1975, n. 1930; Cass. 29 dicembre 1975, n. 4243, in Giur. it.,
1976, I, I, 1730; Cass. 29 maggio 1976, in Mass. Foro it., 1976, n. 1947; Trib. Verona 6 luglio 1990, in Giur. merito, 1990, 929, con nota di X. XXXXXXXX, secondo la quale la divisibilità dei beni immobili non può essere sostenuta in base al dato meramente formale di distinte indicazioni catastali e va accertata, invece, alla stregua di criteri obiettivi di natura economica e funzionale.
La comoda divisibilità non può neppure escludersi in base soltanto alla minore possibilità di sfruttamento delle singole frazioni di un immobile rispetto all’intero, trattandosi di un effetto che consegue normalmente e necessariamente in qualsiasi caso in cui la cosa comune sia divisa tra i partecipanti anziché attribuita in via esclusiva e per intero ad uno solo dei condomini : Cass., 29 dicembre 1975, in Mass. Foro it., 1975, 4243.
A. LIUNI, I beni durevoli sono sempre divisibili, in Riv. giur. edil., 1992, II, p. 121 ss., dove l’autore sostiene che i beni durevoli siano sempre comodamente divisibili; sempre secondo l’autore tali beni che hanno sempre un mercato del prezzo dell’uso, distinto da quello del prezzo del bene, sono sempre divisibili in parti attribuendo nel tempo il godimento dell’intero bene a persone diverse, commisurando il periodo del relativo godimento alla quantità di bene dovuta alle varie persone che insieme dovranno godere il bene per l’intera vita economica dello stesso.
La legge243, quando una di queste prospettive è ipotizzabile, ritiene ingiusto che il diritto del singolo ad avere la sua quota di spettanza di ogni bene in natura possa essere imposto, con danno evidente, alla maggioranza; a tal fine il diritto del singolo è piegato all’interesse collettivo; e senza remore in quanto questo sacrificio non comporta la negazione del fondamentale diritto di ottenere la divisione, attraverso i mezzi indiretti dell’assegnazione, del conguaglio o della vendita. In questo modo è realizzato un equo contemperamento degli interessi in gioco244.
La fattispecie, quindi, sussiste quando è accertato in modo rigoroso la
ricorrenza dei presupposti, che sono costituiti dalla impossibilità tout court di frazionare il bene, dalla sua realizzabilità solo a pena di un eccessivo deprezzamento dello stesso o dalla impossibilità di frazionare formando porzioni in concreto suscettibili di autonomo e libero godimento, ossia, non compresso da servitù, pesi o limitazioni eccessive245.
Prima di proseguire nell’analisi, è opportuna una precisazione.
La disposizione in esame, l’art 720 del codice civile, se presa alla lettera, riguarderebbe soltanto i beni immobili.
Ma non v’è dubbio che tutti gli aspetti che in un certo senso giustificano il regime d’indivisibilità dei beni immobili non comodamente divisibili non si atteggiano in maniera diversa per quanto riguarda i beni mobili246.
La coerenza, quindi, sembra imporre la stessa soluzione sia per i beni mobili che per i beni immobili, e ciò in via di interpretazione estensiva o in
243Ci si riferisce agli artt. 720 e 722 del c.c., da leggersi in connessione tra loro che rappresentano una chiara eccezione al diritto potestativo di ciascun partecipante ad ottenere i beni in natura.
244Trib. La Spezia, 22 agosto 1946, in Foro pad., 1947, I, 346, con nota di X. XXXXXXXX.
245Trib. Roma, sez. VII, 18 aprile 2012, n. 7784, in Giuda dir., 2012, 26, 66; Cass. 11
aprile 1987, n. 3617, in Vita not., 1987, p. 751;
246P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Della divisione, cit., p. 140, con un calzante esempio “ una pietra preziosa, ad esempio, dal punto di vista materiale è facilmente divisibile, ma essendo il valore commerciale degli esemplari più grandi di gran lunga maggiore del valore degli esemplari più piccoli, è palese come, sezionando un diamante o uno smeraldo, si determini una grave perdita di ricchezza.
via di estensione analogia della norma247. La mancata menzione dei beni immobili è stata giustificata in chiave storica, in funzione del minor valore che i beni mobili possedevano in passato rispetto agli immobili248.
I concetti d’indivisibilità e di non comoda divisibilità vanno ricostruiti attraverso la “considerazione integrata” dei numerosi riferimenti normativi ad essi operati dal codice civile249.
Il concetto di incomoda divisibilità è stato ripreso dal nostro codice dal modello francese250, con esso il limite alla divisione materiale dal suo ambito naturale è esteso alla categoria dei beni non comodamente divisibili. L’esame sulla comoda divisibilità va effettuato in concreto e non è sindacabile dal giudice di legittimità se motivato in maniera adeguata251.
Tra i due criteri, quello della indivisibilità e quello della non comoda divisibilità, è stato introdotto un criterio per così dire gerarchico: infatti, il fatto che il bene si deprezzi a seguito della partizione non assume rilevanza qualora risulti l’indivisibilità del bene sul piano funzionale252.
Non può farsi questione di indivisibilità o comunque di non comoda divisibilità, quando facciano parte di una comunione ereditaria più immobili, o meglio più beni, che consentano di comporre la quota di alcuni coeredi, da soli o insieme con altri beni, in modo che le pozioni degli altri possano formarsi con i restanti beni: in questo caso il soddisfacimento delle quote si realizza con la ripartizione qualitativa e quantitativa dei vari cespiti compresi nella comunione253.
Nel caso in cui, invece, i beni restanti non consentano di compensare gli altri partecipanti, allora fra i tanti confliggenti diritti al bene in natura
247M. VITALEVI, Comunione dei beni, III, n. 1029, p. 1371; X. XXXXXXX, Successione necessaria, n. 86, p. 316.
248L. MENGONI, Successione necessaria, n. 86, p. 316 e ss.
249Cfr artt. 722, 846, 1112, 1114, 1119, 1316 e 1772 c.c.
250Cfr art. 827 Cod. Nap.
251Cass. 2 febbraio 1995, n. 1260, in Mass. Giust. civ., 1995, 275.
252Cass., 11 marzo 1997, n. 2170, in Mass. Giust. civ., 1997, 381.
253Cass. 8 settembre 1994, n. 7700, in Mass. Giust. civ., 1994, 1137.
prevale quello del condividente a cui spetta la quota maggiore; la quota maggiore andrà valutata tenendo conto dei beni eventualmente già assegnati al condividente che chiede l’attribuzione del bene in via esclusiva, quindi deve farsi riferimento al fine di calcolare le quote in gara, al valore residuo di ciascuna quota, dedotto quello dei beni già attribuiti254. Ad ogni modo si deve fare riferimento al momento della divisione e non dell’apertura della successione255. Ancora, bisogna sempre tenere conto dell’eventuale acquisto di quota effettuato manente communione da parte di un condividente come dell’eventuale concentrazione di più quote nella persona di un solo coerede256.
La regola della prevalenza della quota maggiore, comunque, non è una regola rigida, si ammette infatti la disapplicazione giudiziale di questo principio valido a dettare al giudice un criterio di massima257, come indicato dall’avverbio preferibilmente258; criterio dal quale il giudice, quindi, potrebbe discostarsi, con motivazione che indichi le ragione che hanno fatto propendere per l’esclusione dell’automatica applicazione del criterio della maggior quota259.
Resta fuori dalla disciplina dell’art. 720 c.c. l’eventualità di una partizione in natura del bene, mentre la vendita all’incanto è configurata come rimedio a cui si fa ricorso quando nessuno dei coeredi è disposto a giovarsi dell’assegnazione per l’intero; ciò significa che il legislatore abbia previsto la vendita all’incanto come extrema ratio cui ricorrere quando nessuno dei
254Cass. 29 ottrobre 1992, n. 11769, in IMass. Giust. civ., 1992, fasc. 10.
255Cass. 11 luglio 1995, n. 7588, in Giur. it., 1996, I, I, 615.
256Cass. 4 maggio 1985, n.2795, in Mass. Giust. civ., 1985, fasc. 5.
257P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 152 nota 12 e p. 153, dove gli autori parlano di criterio di semplice preferenza relativa.
258Contra X. XXXXXXXXXX e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 147, dove gli autori ritengono che l’avverbio “preferibilmente” indicherebbe che il condividente di quota maggiore può esercitare o meno il suo diritto all’assegnazione dell’intero bene indivisibile a suo insindacabile arbitrio e che contro la sua volontà neppure il giudice potrebbe, d’autorità, procedere ad attribuirli quel bene addebitandogli i conseguenti conguagli.
259Cass. 21 febbraio 1985, n. 1528, in Mass. Giust. civ., 1985, fasc. 2.
condividenti sia interessato all’attribuzione per intero, con i necessari addebiti260. Siccome l’attribuzione impone dei conguagli, essa è necessariamente subordinata al consenso dell’interessato; il giudice non potrebbe accogliere la domanda di assegnazione qualora in essa sia esplicitamente espresso il rifiuto di corrispondere conguagli.
Per giurisprudenza costante261 l’istanza di attribuzione ha natura di eccezione o di specificazione della domanda: non essendo quindi una domanda in senso proprio è formulabile anche per la prima volta in appello. Il conguaglio in denaro, che è il credito che vantano i condividenti nei confronti dell’assegnatario del bene in proprietà esclusiva, trattandosi di credito di valore che esprime l’equivalente economico della quota di tale bene, deve essere determinato, con riferimento al valore del bene stesso, al momento del termine del giudizio di divisione anche se non fosse stata avanzata richiesta in tal senso262: di conseguenza, la stima durante il procedimento può essere aggiornata alla svalutazione.
Per quanto riguarda i beni indivisibili nell’interesse della produzione nazionale, previsione fatta dall’art 722 c.c., l’indivisibilità nell’interesse pubblico è presunta iuris et de iure, sollevando il giudice dal doverla provare in concreto: più che alla minima unità culturale (art. 846 c.c.), che non ha mai trovato pratica applicazione, si può fare l’esempio del maso chiuso, vigente nella provincia di Bolzano, e alle unità poderali di bonifica263. Per quanto riguarda la disciplina speciale dettata per il maso chiuso dalla legge della provincia di Bolzano264, la giurisprudenza ha chiarito che essa non toglie il bene alla successione ereditaria, ma impone di
260Cass. 9 febbraio 2000, n. 1423, in Fam. E dir., 2000, 458, con nota di Xxxxxx; Cass. 4
maggio 1994, n. 4270, in Mss. Giust. civ., 1994, 597.
261Cass. 2 giugno 1999, n. 5392, in Mass. Giust. civ., 1999, 1250; Cass. 31 Marzo 1990,
n. 2630, ivi., 1990, fasc. 3;Cass. 1 marzo 1995, n. 2335, in Mass. Giust. civ., 1995, 481.
262Cass. 28 marzo 2001, n. 4518, in Mass. Giust. civ., 2001, 614; Cass. 29 gennaio 2001,
n. 1245, in Fam. dir., 2001, 331; Cass. 9 maggio 1996, n. 4369, in Giur. it., 1997, 1, 467.
263Legge 3 giugno 1940, n. 1078.
264Legge prov. Bolzano 28 novembre 2001, n. 17.
ritenerlo un bene indivisibile e di conseguenza di assegnarlo ad un unico erede o legatario: i criteri legali di determinazione dell’assuntore operano solo in assenza di un testamento o di un accordo tra gli eredi legittimi265.
265Cass. 27 febbraio 2012, n. 2983, in Mass. Giust. civ., 2012, 2, 227.
9. Effetto retroattivo della divisione e dei suoi surrogati
Il contratto di divisione ha effetto retroattivo ex lege266. Nelle successioni, v’è da dire, la retroattività ha un rilievo del tutto primario. Ad esempio, dispone la legge267, che all’accettazione dell’eredità conseguono effetti acquisitivi dell’eredità sin dal momento in cui si è aperta la successione268. Preliminarmente è interessante un breve approfondimento del concetto giuridico di retroattività. Il far retroagire gli effetti giuridici di un atto o di un fatto ad un tempo allo stesso antecedente, ovviamente crea dei problemi la cui soluzione non può essere immediata. Anzitutto, si distingue fra retroattività reale e retroattività obbligatoria.
Solo alla prima è data la facoltà di incidere dirittamente sugli effetti giuridici degli atti, per la realizzazione di quegli interessi cui la retroattività è indirizzata269.
Al contrario, la retroattività obbligatoria genererebbe a carico delle parti un obbligo al quale attenersi al fine di ottenere l’identico effetto retroattivo270.
266Lo stabilisce espressamente l’art. 757 c.c. norma dettata per la divisione della comunione ereditaria, ma che, come detto più sopra, trova regolarmente applicazione ad ogni contratto di divisione.
267Cfr. art. 459 c.c.
268L. XXXXX, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di X. Xxxxxxxx- X. Xxxxxx, Bologna-Roma, 1980, p. 112, secondo cui l’effetto retroattivo dell’accettazione
<<rappresenta uno svolgimento logico del concetto stesso di successione ereditaria, inteso come sottentrare di un nuovo soggetto, al posto del soggetto estinto>>; X. XXXXXX, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 264; X. XXXXXXX, <<L’efficacia estintiva>> dell’accettazione di eredità con il beneficio d’inventario, in Xxx. xxx. xxx., 0000, X, x. 000; A. C. XXXXXX, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, Milano, 1975, p. 34; X. XXXXXXX, Accertamento dichiarativo e dinamica giuridica, Milano, 1963, p. 129.
269Secondo la prevalente dottrina la retroattività reale produce gli effetti retroattivi in modo automatico, X. XXXXXXX, Contributo alla teoria della condizione, Milano, 1937,
p. 39; X. XXXXX, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, p. 269, che ritiene inoltre che la retroattività reale abbia effetti anche nei confronti dei terzi; Per
X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 103, sub nota (5), la retroattività vera e propria è << chiamata pure retroattività reale, per distinguerla da quel ‘surrogato economico’ della retroattività che prende il nome di c. d. retroattività obbligatoria>>.
Altra distinzione, che non attiene alla produzione degli effetti ma piuttosto alla riconducibilità nella sfera dei terzi, ed alla conseguente opponibilità, dell’atto avente efficacia retroattiva è quella fra retroattività assoluta, o erga omnes, e relativa, o inter partes. Nel caso in cui la retroattività produca i suoi effetti nei confronti di tutti i soggetti e sia ad essi, quindi, opponibile, si parla di retroattività assoluta, nel caso contrario, ossia quando tale opponibilità ed assolutezza non sussistano, siano nel campo della retroattività relativa. Rientra sicuramente nel primo caso, quello della retroattività reale, la retroattività della divisione ereditaria271.
Al fine di giustificare il fenomeno retroattivo si è fatto sovente ricorso al concetto di finzione272. In sostanza, gli effetti di un particolare atto o fatto si considerano fittiziamente realizzati in un momento antecedente a quello in cui il medesimo si è verificato273.
Quindi, secondo questa ricostruzione, con la divisione ereditaria l’ordinamento finge, una volta avvenuta la divisione, che ciascun condividente sia stato titolare dei beni a lui pervenuti con l’appropriazione fin dal momento dell’apertura della successione, anziché averne la contitolarità pro quota dal momento della comunione.
270G. X. XXXXXXX, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, vol. I, Milano, 1962, p. 23; X. XXXXXXX, Irretroattività della risoluzione per inadempimento, in Riv. dir. comm., 1934, I, p. 696; X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 37.
271E. XXXXXXXXX, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 50.
272Ritengono che la retroattività della divisione, ex art. 757 cod. civ. costituisca una finzione: X. XXXXXXXX, Delle successioni, Napoli, 1935, p. 535; W. D’AVANZO, Delle successioni, vol. I, Firenze, 1942, p. 223; X. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, cit., p. 7;X. XXXXXXXXX, voce Divisione (diritto civile), cit., p. 35; A. BURDESE, La divisione ereditaria, cit., p. 199 e 207.
273Attribuisco alla retroattività il carattere della fictio G. CODACCI-XXXXXXXXX, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, p. 214; X. XXXXXX, La revoca degli atti amministrativi, Milano, 1956, p. 141; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 16; X. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, cit., p. 300.
L’ordinamento farebbe ricorso alla fictio per attribuire alla divisione effetti retroattivi274.
La norma che dispone per la retroattività della divisione non ha dato particolari problemi in ordine alla sua portata pratica, avendo quale unico fine quello di retrodatare gli effetti della divisione; la norma ha suscitato, invece, un lungo dibattito, come già diffusamente rilevato sopra, circa la natura giuridica della divisione, volendo parte della dottrina e della giurisprudenza, fondare su quanto disposto dalla norma stessa la teoria della natura dichiarativa e non costitutiva della divisione.
Quindi come abbiamo detto, la divisione ha retroattività reale, che dovrebbe travolgere tutti gli atti compiuti nel periodo della comunione ereditaria. Tuttavia, in sede successoria le situazioni interinali vengono tutelate proprio nell’ interesse stesso della successione. Infatti è di chiara evidenza che se l’efficacia retroattiva mettesse a repentaglio tutti gli atti posti in essere a tutela della comunione, e in linea di massima la comunione ereditaria come godimento, difficilmente un coerede si occuperebbe della comunione stessa. Da ciò si può affermare che la retroattività esplica i suoi effetti con riguardo solamente alla titolarità del diritto, non eliminando quegli atti posti in essere dai coeredi a vantaggio della comunione275. In questo ambito rileva la situazione dei frutti maturati dai beni ereditari dopo l’apertura della successione, dovendo, infatti, la retroattività far discendere che ogni coerede abbia diritto ai frutti prodotti dai bei a lui assegnati con la divisione; ma questa conclusione tradirebbe la voluntas del legislatore.
Infatti i frutti costituiscono una massa indivisa, su cui ogni coerede vanta la stessa quota di diritti vantata sui beni ereditari. Ad ogni modo, il principio di cui all’art. 757 c.c. non opera solo se i frutti maturati abbiano già subito il processo di separazione al momento della divisione, cadendo così in
274Così X. XXXXXXXX, Divisione contrattuale e garanzia per l’evizione, cit., p. 98, che ritiene di non poter accogliere l’idea che il legislatore <<pur considerando la divisione per sua natura traslativa, le avrebbe imposto “ex lege” natura dichiarativa>>.
275G. MIRABELLI. Intorno al negozio divisorio, cit., p. 54.
comunione ai sensi degli artt. 820 e 821 c.c., non rientrano nella proprietà esclusiva del condividente che abbia ottenuto il bene che li ha generati.
La norma del 757 c.c. che dispone la retroattività opera, per contro, nel caso dei frutti che non siano stati separati e che verranno interamente attribuiti al coerede assegnatario del bene che li ha prodotti276.
E’ interessante dire di un ulteriore problema applicativo che potrebbe verificarsi, sempre trattando degli effetti retroattivi della divisione, quando, in regime di comunione ereditaria, i coeredi abbiano costituito una servitù per destinazione del padre di famiglia277, e successivamente il bene fosse diviso. Anche in questo caso, la retroattività non infrange la servitù, sebbene faccia retroagire gli effetti dell’atto divisorio potremmo concludere che i fondi sui quali è stata costituita la servitù non sono appartenuti allo stesso proprietario bensì a due proprietari differenti. La giurisprudenza, infatti, ha chiarito in merito che, in ordine alla costituzione di queste servitù, deve aversi riguardo solo alla situazione di fatto posta in essere o lasciata dall’unico proprietario, non potendo tale situazione di fatto essere successivamente modificata e xxxxxxxxx, nel caso in cui la separazione dei
276C. XXXXXXXX, Divisione contrattuale e garanzia per l’evizione, cit., p. 137; In tal senso si esprime anche la giurisprudenza prevalente: Cass. civ., 8 ottobre 1957, n. 3660, in Giust. civ. Rep., 1957, voce <<Divisione>>, n. 18; Cass. civ., 3 luglio 1959, n. 2116,
in Giust. civ. Rep., 1959, voce <<Divisione>>, n. 12; Cass. civ., 28 giugno 1963, n. 1712, in Giust. civ. Rep., 1963, voce <<Divisione>>, n. 64; Cass. civ., 9 aprile 1965, n. 621, in Giust. civ., 1965, I, p. 1632, con nota di X. XXXXXXX, Diritto ai frutti sui beni della comunione; Cass. civ., 30 marzo 1968, n. 998, in Giust. civ., 1968, voce <<Divisione>> n. 1; Cass. civ., 28 giugno 1976, n. 2453, in Giur. it., 1978, I, 1, c. 648; Cass. civ., 10 novembre 1976, n. 4131, in Giust. civ. Rep., 1976, voce <<Divisione>>, n. 18; Cass. civ.,
5 marzo 1987, n. 2320, in Nuova giur. civ. comm., 1987, p.456, con nota di X. XXXXXXXX, ove si è stabilito che il principio di retroattività, non opera per gli incrementi oggettivi dei beni ereditari, verificatisi anteriormente alla divisione, manente communione; Cass. civ., 20 marzo 1991, n. 2975, in Giust. civ. Rep., 1991, voce
<<Divisione>>, n. 12. Contra Cass. civ., 5 settembre 1970, n. 1218, in Foro it. Rep.,
1970, voce <<Divisione>>, n. 13.
277Ipotesi prevista e regolata dall’art. 1062 del c.c. che ha luogo quando consta, mediante qualsiasi genere di prova, che due fondi, attualmente divisi sono stati posseduti dallo stesso proprietario, e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulti la servitù.
fondi avvenga per scioglimento di una comunione, dalla divisione, che rappresenta un posterius278.
278Cass. civ., 29 luglio 1955, n. 2457, in Giust. civ., 1956, I, p. 66.
CAPITOLO TERZO
CONTRATTI TIPICI ED ATIPICI CON EFFETTO DIVISORIO
SOMMARIO: 1. La divisione con conguagli e la divisione civile. – 2. La permuta di bene o di quota su bene. – 2.1. Segue: La permuta di quote su beni indivisi. – 3. La donazione.
– 4. Il patto di famiglia. – 5. La transazione.
1. La divisione con conguagli e la divisione civile
Giunti a questo punto, non ci resta che esaminare alcune operazioni pratiche che hanno quale fine ultimo lo scioglimento della comunione per mezzo dell’apporzionamento dei coeredi.
Da principio, è bene dar conto di una situazione problematica che nella prassi si riscontra di frequente, e per dar soluzione alla quale s’impone un temperamento di quanto disposto dalla legge, secondo cui ogni coerede ha diritto alla sua parte dei beni in natura279.
Si tratta dell’<<ineguaglianza nelle quote>>, o meglio, ineguaglianza nelle porzioni, che può derivare o dalla presenza nell’asse di beni indivisibili, ovvero dal fatto che le porzioni, anche se omogenee, non siano di valore esattamente corrispondente alla rispettiva quota.
Quest’ultimo caso, particolarmente, si presenta spesso nella realtà essendo pochi i beni divisibili che possono essere agevolmente divisi in beni di valore perfettamente uguale, soprattutto se beni immobili; in sostanza solo
279Cfr. art. 718 c.c.
il bene fungibile per eccellenza, il denaro, assolverebbe perfettamente a tale funzione.
Infatti, queste frequenti disuguaglianze posso essere modellate e pareggiate quando all’asse ereditario facciano parte anche beni fungibili, in particolar modo denaro, che consentano, appunto, il pareggio dei valori delle singole porzioni. Quando questa possibilità non ricorre, l’unica alternativa possibile al fine di formare porzioni equivalenti è costituita dall’imposizione dei conguagli280; in questi casi, ma solo in questi casi, infatti, la legge autorizza l’imposizione di conguagli pecuniari in deroga alla regola di cui all’art 718
x.x. xxxxx xxxxxxxxx xx xxxxxx000.
Nella situazione in cui i coeredi non hanno a disposizione strumenti legali per opporsi a questa diseguaglianza, il coerede assegnatario della porzione di valore superiore rispetto alla corrispondente quota e quello assegnatario della porzione di valore inferiore sono tenuti, rispettivamente, a dare e a ricevere il conguaglio, al fine di ristabilire la perfetta corrispondenza delle porzioni alle quote.
Con l’imposizione dei conguagli si verifica il sorgere, ex lege282, di altrettanti rapporti obbligatori fra i comunisti: il condividente che ha ricevuto una porzione di valore maggiore rispetto alla sua quota diviene, così, debitore per la differenza, nei confronti del condividente che si è visto
280Cfr. art. 728 c.c.
281App. Torino, 5 luglio 1946, in Temi, 1947, 244. E’ fuori discussione che nell’ambito della divisione amichevole, i condividenti possano pattuire tutti i conguagli che vogliono, anche se la composizione dell’asse ereditario consentirebbe la formazioni di porzioni di egual valore. In questo quadro può meglio cogliersi il senso della Cass. 11 ottobre 1956, in Foro it., Rep. 1956, voce Divisione, n. 31, secondo la quale l’art. 728 c.c.<< si applica alla divisione giudiziale e non anche alla divisione convenzionale>>.
282 Questo conguaglio ha lo scopo di rendere possibile, in alcuni casi, la divisione in natura dei beni in comunione, per cui, a differenza del conguaglio di cui all’art. 720 c.c. non presuppone il consenso del coerede cui viene imposto, quando la sua misura sia tale da non alterare eccessivamente la proporzione tra i vari beni compresi nella porzione del coerede, cui viene imposto, in confronto della proporzione osservata per gli altri condividenti ( in tal senso x. Xxxx., 00 xxxxxx 0000, xx Xxxx. Xxxx xx., 1943, n. 1281); sarà il sorteggio ad indicare chi sarà tenuto al conguaglio.
Secondo un altro orientamento, il credito di denaro spettante ai coeredi non assegnatari nei confronti di quelli assegnatari avrebbe la stessa natura di credito di conguaglio previsto dall’art. 728 c.c.: Cass., 18 luglio 1958, n. 2639, in Foro it., 1959, I, 1896.
assegnare una porzione di valore minore rispetto alla sua quota ideale; questi rapporti obbligatori, la cui efficacia dipende dalla validità della divisione che li ha originati, sono regolati in tutto e per tutto dalla disciplina delle obbligazioni in generale283.
Nel caso in cui, invece, l’uguaglianza delle porzioni è raggiunta mediante equa distribuzione del denaro esistente nella massa da dividere, non si tratterà di conguaglio in senso tecnico, o meglio, non ricorrerà la fattispecie prevista dall’art. 728 cod. civ284. Il denaro comune che per mezzo della divisione è attribuito ad una determinata porzione, dovrà essere consegnato senza indugio dal coerede possessore al coerede assegnatario, che ne diviene il proprietario. Il possessore che, invece, lo distragga integrerà gli elementi tipici del reato di appropriazione indebita285.
I passaggi per calcolare il quantum del debito di conguaglio e del diritto di conguaglio sono abbastanza immediati; infatti, anche a rigor di logica, basta porre attenzione alla funzione che il conguaglio assolve per capire come il debito da conguaglio si calcola sottraendo dal valore complessivo della porzione il valore della corrispondente quota; all’inverso, il quantum del diritto di conguaglio si determina sottraendo dal valore della quota il valore della porzione concretamente attribuito.
L’obbligazione di conguaglio è classificata dalla dottrina286 come debito di valuta; quindi non rivalutabile in funzione delle oscillazioni monetarie nel
283In questo senso v. la decisione di Xxxx., 23 marzo 1996, n. 2558, in Foro it., 1996, I, 2821, secondo la quale ove la sentenza di divisione abbia emesso in correlazione l’obbligazione, a carico di condividente, di costruire una strada (necessaria per rendere attuale la divisione) con quella, a carico dell’altro, di pagare una somma a conguaglio della quota, l’inadempimento dell’uno può giustificare l’inadempimento dell’altro.
284P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., sub art. 728 x.x., x. 000.
000X. BURDESE; Divisione ereditaria, cit., p. 180; X. XXXXXXXXX, Divisione contrattuale ed atti equiparati, cit., p. 178.
286A. BURDESE; Divisione ereditaria, cit., p. 181; X. XXXX, Successioni per causa di morte, cit., p. 449, nota 75, secondo il quale l’obbligazione di conguaglio è obbligazione facoltativa, mentre la prestazione in natura è prestazione primaria; secondo l’autore citato il <<supplemento in denaro è prestazione vicaria: perciò essa va ragguagliata al valore effettivo che quella in natura ha nel momento in cui viene convertita in denaro […] in quanto la determinazione del conguaglio rimane ferma anche se il giudizio di divisione si
frattempo intervenute. Ciò fa comprendere anche perché, la giurisprudenza, si dia cura di porre l’accento sull’esigenza che nel fissare la somma del conguaglio si debba tenere rigorosamente conto del valore di stima attuale della porzione287, in modo da dare esatto rilievo alle eventuali variazioni di valore intervenute prima della conversione del diritto del condividente in diritto al conguaglio288.
Perfezionatasi la divisione, il coerede creditore del conguaglio perde ogni potere sui beni attribuiti agli altri coeredi, per il fatto stesso di aver acquisito il credito da conguaglio. Questo fatto di acquistare un diritto di
protragga a lungo dopo la stima>> nonché le decisioni di Xxxx., 28 aprile 1949, in Mass. Foro it., 1949, n. 1027; 23 febbraio 1954, in id., 1954, n. 513; 10 marzo 1961, in id.,
1961, n. 547; 8 giugno 1962, n. 1408, in Giust. civ., 1963, I, 114; Trib. Bari, 22 aprile
1954, in Giur. it., 1955, I, 2, 350.
Secondo un altro orientamento, nella determinazione dei conguagli bisogna tenere conto delle eventuali variazioni di valore dei beni oggetto della divisione, intervenute durante il corso della procedura; di conseguenza la loro entità è suscettibile di adeguamento e conseguentemente il debito da conguaglio è da classificare come debito di valore: in tal senso: Cass. 7 novembre 1977, in Mass. Foro it., 1977, n. 4738; Cass. 5 giugno 1979, in
id., 1979, n. 3173; Cass. 21 marzo 1980, n. 1913, in Giur. it., 1980, I, I, 1580; Cass.16
marzo 1984, in Mass. Foro it., 1984, n. 1804; Cass. 21 febbraio 1985, in id., 1985, n.
1529; Cass.10 marzo 1987, n. 2474, in Vita not., 1987, 750; Cass. 28 marzo 1991, in
Mass. Foro it., 1991, n. 3380; Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769, in Giur. it., 1994, I, I, 124;
Cass. 19 marzo 1996, in Mass. Foro it., 1996, n. 2296; Cass. 9 maggio 1996, n. 4369, in
Giur. it., 1997, I, I, 468; Cass. 15 maggio 1998, in Mass. Foro it., 1998, n. 4910, secondo la quale il conguaglio in denaro che ai sensi dell’art 720 c.c. deve essere riconosciuto al condividente in caso di attribuzione dell’intero bene indivisibile ad altro condividente esprime l’equivalente economico della quota di tale bene e deve essere determinato, quindi, con riferimento al valore del bene stesso al momento della conclusione del relativo giudizio di divisione anche in mancanza di un’espressa richiesta di parte in tal senso; Cass. 20 agosto 1998, in id., 1998, n. 8243; Cass. 2 febbraio 1999, n. 857, in Giur. it, 1999, 60, con nota di X. XXXXXXX; Trib. Nuoro 11 aprile 1996, in Riv. giur. sarda, 1997, 421, con nota di XXXXXXXX.
Secondo la decisione di Xxxx. 27 febbraio 1998, in Mass. Foro it., 1998, n. 2159, gli interessi legali sulla somma dovuta da un condividente all’altro a titolo di conguaglio in base all’articolo in esame, decorrono dalla data di domanda giudiziale di divisione, ancorché a tale momento il credito non è ancora né liquido né esigibile.
Secondo la decisione di Xxxx. 7 giugno 1962, n. 1390, in Foro it., 1962, I, 1266, il conguaglio fissato in denaro nella divisione fatta dal testatore ha natura di debito di valore e, pertanto, è soggetto a rivalutazione per effetto della svalutazione monetaria, se l’indicazione pecuniaria costituiva solo l’espressione della determinazione, compiuta dal testatore con riferimento all’epoca del testamento, della differenza di valore delle quote. 287P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., sub art. 728 x.x., x. 000-000. 000Xxxx. 11 agosto 1958, in Xxxx xx., Xxx. 0000, xxxx Xxxxxxxxx, x. 00; Contr. Cass. 24 aprile 1949, in Giur. compl. Cass. civ., 1949, I, 609.
credito al posto del precedente diritto reale comporta un rischio non indifferente per il condividente-coerede, esposto all’eventuale insolvenza del coerede o dei coeredi debitori del conguaglio289. Proprio per alleviare il pericolo che il condividente-creditore deve sopportare, gli è concessa ipoteca legale sopra gli immobili attribuiti ai condividenti tenuti al conguaglio a garanzia del corrispondente credito290.
Logico sviluppo di questo procedimento è quello che la dottrina291 fa rientrare nel concetto di divisione civile, ovvero attribuzione di tutti i beni ad uno o più coeredi e tacitazione degli altri con denaro od altri diritti non provenienti dall’eredità292; metodo che può rendersi necessario quando, ad esempio, l’unico bene ereditario sia assolutamente o relativamente indivisibile293.
E’ doveroso dire, infine, che altri autori inquadrano lo scioglimento della comunione mediante l’attribuzione di tutti i beni ad uno o più coeredi e la tacitazione degli altri coeredi con denaro od altri diritti, nello scioglimento della divisione attraverso la <<vendita tra condividenti>>, con la quale uno o più partecipi ricevono beni o diritti già comuni ed altre somme di denaro294.
289P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., sub art. 728 x.x., x. 000, xx xxxxxxxx viene a determinarsi una situazione analoga a quella del venditore che, nel momento in cui si spoglia della proprietà del bene venduto, resta creditore del prezzo o della parte di prezzo non corrisposto immediatamente. Si può anche arrivare a sostenere che la posizione del condividente sia addirittura più rischiosa, non potendosi la divisione risolvere per inadempimento del conguaglio.
290Cfr. art. 2817 n. 2 c.c.
291G. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, cit., p. 47-48, che considera rientrare nella categoria del negozio a causa divisoria anche l’assegnazione di tutti i beni della comunione a più partecipi, ed il versamento agli altri di una somma pari al valore di detti beni, con la detrazione del valore delle quote spettanti a questi ultimi, tradizionalmente denominata << divisione civile>>.
Secondo X. XXXXXXXX, Divisione contrattuale e garanzia per l’evizione, cit., p. 21, rientra nel concetto di divisione anche l’assegnazione di tutti i beni della comunione ad uno o più partecipanti ed il versamento agli altri di somme di denaro oppure il conferimento di beni estranei alla comunione, in misura idonea a determinare la proporzionalità tra lotti e quote.
292P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p. 22.
293Cfr. art. 720 c.c.
294G. XXXXXXXXX, voce Divisione (diritto civile), in Noviss. dig. It., p. 33.
2. La permuta di bene o di quota su beni
Il contratto di permuta rappresenta la ricezione a livello normativo di una prassi tra le più antiche in uso fra gli uomini.
Nelle economie primitive, infatti, il mezzo più diffuso per soddisfare i bisogni della persona era proprio lo scambio di cosa contro cosa. Il commercio si serviva di questo strumento prima dell’introduzione della moneta, che, appena fece il suo ingresso nella scena, comportò un repentino declino di questa tecnica di circolazione dei beni, a tutto vantaggio della compravendita, ancorché tuttora nella prassi si riscontra la stipulazione, con una certa infrequenza, di questa tipologia contrattuale.
La permuta è definita nel codice civile all’art. 1552, come << il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro>>.Il codice civile vigente, quindi, non si scosta dalla tradizionale concezione della permuta come scambio reciproco di beni in natura senza l’utilizzo del denaro, ma precisa che essa può avere ad oggetto diritti in senso lato. Con ciò, esso sancisce un’innovazione rispetto alla previsione normativa del previgente codice civile, che si limitava a far rientrare nel concetto di permuta lo scambio delle cose, senza ricomprendere, ad esempio, lo scambio di cosa contro un credito.
Parte della dottrina295, evidenziando il carattere traslativo della permuta, lo definisce come un contratto << consensuale ad effetti reali>>, contratto idoneo a trasferire la proprietà di cose e di diritti suscettibili di trasferimento.
Altra dottrina296, e la giurisprudenza297, invece, concepiscono il contratto di permuta come un contratto di scambio ad effetti reali consistente nel
295G. COTTINO, Del riporto; della permuta (Artt. 1548-1555), Comm. cod. civ. a cura di Xxxxxxxx-Xxxxxx, vol. XIV, Bologna-Roma ,1966, p. 99-100.
296C. XXXXXXXXXXXX, La permuta, il contratto estimatorio e la somministrazione, Tratt. dir. civ. e xxxx., X. Xxxx - X. Xxxxxxxx, Milano, 1974, p. 34.
reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti reali escludendo, così, di fatto, i titoli di credito.
Soluzione, tuttavia, che non si crede condivisibile, essendo in evidente contrasto con il dato normativo che trattando di <<altri diritti>> lascia presagire all’interprete che si tratti di una previsione piuttosto ampia, non circoscritta ai soli diritti reali298.
La causa in astratto della permuta, essendo un contratto traslativo, consiste nel reciproco trasferimento dei diritti permutati. Tale funzione economica presenta un alto grado di similarità con quella della vendita dalla quale, però, si differenzia, per il diverso interesse finale delle parti: con il contratto di permuta, infatti, si tratta dello scambio di cose o di diritti o di una cosa con un diritto.
Tradizionalmente la divisione era ritenuta, concettualmente, una sostanziale permuta: ciascun coerede <<permuterebbe>> il proprio diritto parziario su tutti i beni comuni col diritto esclusivo sui beni a lui assegnati. Tale tradizionale visione ha subito, nel corso del tempo, un processo di revisione299 che ha portato alla conclusione che rientrano nel concetto di divisione in senso tecnico tutti quegli atti che perseguono e realizzano lo scioglimento della comunione mediante assegnazione a uno o più soggetti di un valore corrispondente.
La permuta, quindi, può essere stipulata tra i condividenti al fine di sciogliere la comunione, e rientrare tra quegli atti diversi dalla divisione che hanno l’effetto di sciogliere la comunione.
In particolare è stata portata all’attenzione degli studiosi della materia la distinzione fra permuta tra condividenti e permuta di quote su beni indivisi.
297Cass. 18 novembre 1987 n. 8487, in Giust. civ. mass., 1987.
298P. CIACCIAGRANO, La permuta, in Inadempimento contrattuale e risarcimento del danno, Il diritto civile nella giurisprudenza, a cura di X. Xxxxxx, Torino, 2006, p. 214.
299G. DEIANA, Xxxxxxxx e natura giuridica del contratto di divisione, in Xxx. xxx. xxx., 0000, x. 00 xx; per l’ultimo approdo dottrinale si veda X. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, in Arch. giur., 1949, p. 13-14.
Per quanto riguarda la prima fattispecie, che ricorre quando due o più comproprietari si vincolano a scambiarsi beni che a loro perverrano dalla divisione, cosicchè ad ognuno di essi tocchino beni determinati, si esclude che il negozio abbia natura divisoria, visto che tale accordo non ha l’effetto diretto di sciogliere la comunione, né di realizzare l’effetto apporzionatorio, in quanto questo accordo non può che necessariamente conseguire, cronologicamente, la conclusione di una divisione di qualsiasi tipo. In sostanza è stato rilevato300 che in tal caso, quantunque l’accordo delle parti volto a permutare i beni sia immediatamente operativo, l’effetto dell’accordo stesso non potrà verificarsi che dopo l’atto con cui ad ognuno dei contraenti sia stato assegnato il bene, ossia la divisione medesima. Per cui secondo l’autore, le parti, in questa situazione, concluderebbero una permuta sottoposta a condizione sospensiva (soluzione che perferisce all’altra astrattamente ipotizzata del contratto preliminare di permuta) i cui effetti si cosiderano sospesi fino al compimento della divisione
2.1 Segue: La permuta di quote su beni indivisi
Si ha permuta di quote indivise quando ciascuno dei facenti parte alla comunione trattiene per intero il bene, o i beni, che possiede a titolo di comproprietà, trasformando tale titolo in proprietà esclusiva sui beni stessi rinunciando, allo stesso tempo, ai diritti sui beni posseduti dagli altri comunisti, i quali a loro volta si appropriano dei beni da ciascuno di essi posseduti301.
Stando alla ricostruzione avanzata da un autorevole autore302, in questa situazione sarebbe possibile individuare due possibili alternative: innanzitutto è possibile che ognuna delle parti consideri siffatta soluzione
300G. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, cit., p. 10 – 11.
301P. FORCHIELLI e X. XXXXXXXX, Xxxxx divisione, cit., p 25, nota 10.
302G. XXXXXXXXX, Intorno al negozio divisorio, cit, p. 9 e ss.
come liquidazione della propria quota, accettando, quindi, i beni come valore proporzionale a quello della quota ideale di cui era proprietario manente communione; in questo caso, secondo tale autore, si intravedrebbe nient’altro se non una divisione in natura, sicuramente attuata nel modo più semplice e frettoloso possibile, ma pur sempre una divisione in natura con tutte le conseguenze che ne derivano, soprattutto in punto di applicazione della normativa dettata in tema di divisione e, quindi, anche la rescissione per lesione; ovvero potrebbe accadere che ogni comunista rinunci espressamente, a titolo di pacifica concessione reciproca, ad ogni sua ulteriore pretesa, in questo caso allora, sempre secondo detto autore, sarebbe difficile non individuare una transazione: ogni condividente si fa bastare ciò che ha, senza interessarsi di più a quello che ricevono gli altri.
Con ciò, quindi, secondo questa ricostruzione, la cosiddetta permuta di quote indivise non esisterebbe come autonoma figura negoziale distinta dalla divisione in natura o della transazione.
3. La donazione
La trattazione dell’istituto della donazione comporta il suo inquadramento nello schema degli atti gratuiti e delle liberalità.
Com’è stato affermato da un autorevolissimo studioso della materia303, il rapporto tra il negozio gratuito, liberalità e contratto di donazione viene cosi delineato: il negozio gratuito è il genere, la liberalità è una specie del negozio gratuito, il contratto di donazione è la principale liberalità.
L’espressione liberalità ha un preciso significato in chiave giuridica: atto che comporta l’impoverimento di chi lo compie e l’arricchimento del beneficiario304.
Il concetto di liberalità adesso esposto non comprende, ovviamente, le disposizioni testamentarie che non possono in alcun modo impoverire il testatore.
Il codice civile305 definisce la donazione come << il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione306>>. La donazione, è un contratto, a titolo gratuito, poiché comporta una diminuzione patrimoniale per un soggetto (il donante), il quale non riceve alcun corrispondente vantaggio dal donatario.
E’ un contratto consensuale, perfezionandosi con la semplice manifestazione della volontà delle parti, non essendo necessaria la consegna della cosa307.
303A.TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da X. Xxxx e X. Xxxxxxxx, Milano, 1956, p. 3 ss.
304G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 765.
305Cfr. art. 769 c.c.
306Come si evince dalla Relazione la nuova definizione è considerata più corretta e completa di quella già contenuta nell’art. 1050 del codice civile del 1865. Si sono abbandonati, infatti, i requisiti di attualità ed irrevocabilità che, come si legge dalla Relazione stessa, non rispondono ad alcuna esigenza pratica o dogmatica.
307Un’eccezione a questo principio è prevista dalla donazione di modico valore, che può essere realizzata anche senza l’atto pubblico purché vi sia stata la traizione, qualificandosi in questo caso come un contratto reale.
Essa rientra fra i contratti formali, richiedendo l’atto pubblico ad substantiam; ed è, infine, un contratto unilaterale308.
I requisiti del contratto di donazione, come per qualsiasi altro contratto309, sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e la forma, visto che in questo caso è prescritta sotto pena di nullità.
Per quanto riguarda l’accordo delle parti, solo parzialmente la disciplina dei contratti è applicabile alla donazione, o perché derogata da norme specifiche (in ossequio al principio lex specialis derogat generali) o perché incompatibile.
Anche il contratto di donazione si conclude nel momento in cui chi ha fatto la proposta (il donante) ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte; l’accettazione deve essere tempestiva.
La dottrina310 sostiene che mentre in ogni contratto ciascuna delle parti può assumere la veste di proponente, e, quindi, si parla di proponente solo in termini cronologici, nel caso della donazione è sempre il donante che prende l’iniziativa, in quanto dispone a favore del donatario. L’atto di disposizione è quindi necessariamente un prius cronologico, oltre che logico e giuridico, rispetto all’accettazione. Logico corollario di questa ricostruzione sarà quello per cui in nessun caso il donatario diverrà proponente; per cui, a differenza di quanto avviene per gli altri contratti, se l’accettazione del donatario non è conforme alla proposta, quindi vi sia una modifica della stessa, non si avrà nuova proposta ma occorrerà un nuovo
308G. XXXXXXX, Successioni e Donazioni, cit., p. 770; per quanto riguarda l’unilateralità della donazione obbligatoria, si veda X. XXXXXXXX, Il consenso e la sua formazione, in La donazione, Trattato diretto da X. XXXXXXXX, Torino, 2001, p. 708.
309Cfr. art. 1325 c.c.
310B. BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. XXXXXXXX, Torino, 1961,
p. 133 e ss.; X. XXXXX, La donazione, in Tratt. dir. civ., diretto da X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Milano, 1963, p. 8; X. XXXXXXXXXXX, Il contratto di donazione, in Successioni e donazioni, a cura di X. Xxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, vol. II, p. 169; X. XXXXXXX CONTURSI-LISI, Le donazioni, in Giur. civ. e comm. diretta da X. XXXXXXX, Torino, 1967, p. 244; X. XXXX, Formalismo ed attività giuridica, in Riv. dir. civ., I, 1990, p. 1 e ss.
atto di disposizione da parte del donante ed una nuova accettazione da parte del donatario311.
La proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso. Anche l’accettazione, purché la revoca giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione.
Trattando dell’oggetto, autorevole dottrina312 sottolinea la distinzione fra un oggetto immediato della donazione e un oggetto mediato della stessa. Il primo è il mezzo tecnico che attua l’arricchimento e consiste nella disposizione di un diritto o nell’assunzione di un’obbligazione da parte del donante e a carico del donatario. Il secondo è, invece, il bene su cui cade il diritto che è oggetto dell’attribuzione patrimoniale.
Passando a trattare della forma, come già abbiamo accennato, la donazione deve essere stipulata per atto pubblico a pena di nullità, ed alla presenza irrinunziabile dei testimoni313.
Questo formalismo, che a tutta prima potrebbe apparire eccessivo, viene giustificato dalla necessità di una maggiore riflessione e consapevolezza che il donante avrà quando partecipa al rito dell’atto notarile con la presenza dei testimoni.
Merita attenzione anche la riflessione sulla causa della donazione. In questo senso, la dottrina ha assunto tre diversi orientamenti.
Una teoria314, a dire il vero poco seguita, ha sostenuto l’acausalità della donazione, prendendo spunto da quella corrente che nega la sussistenza della causa quale requisito autonomo315.
311B. BIONDI, Le donazioni, cit., p. 134; X. XXXXXXXX, La donazione, cit., p. 180; X. XXXXXXXX, Il consenso e la sua formazione, in La donazione, Trattato diretto da X. XXXXXXXX, cit., p. 711.
312A. TORRENTE, La donazione, cit., p. 352 ss.
313La presenza dei testimoni è resa obbligatoria dall’art. 48, l. 16 febbraio 1913, n. 89 sull’ordinamento del notariato.
314S. XXXXXXX, Intorno al concetto di donazione, in Arch. giur., 1987, LVIII, p. 323 ss.;
X. XXXXXXXX, La ripetizione dell’indebito, Padova, 1940, p. 86 ss.; Cfr. anche X. XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950, p. 245 ss. 315Per una critica alla rilevanza dell’emento causale del contratto si veda (Cap. 2 par. 1 supra).
Un’altra tesi, ancora seguita sia in dottrina316 che in giurisprudenza317, ritiene che la causa donandi si compenetra inscindibilmente con l’elemento soggettivo e consiste nell’animus donandi.
Prevale nettamente, infine, la teoria oggettiva318, secondo la quale la causa della donazione sta nel depauperamento del donante accompagnato dall’arricchimento del donatario, intendendo tale arricchimento in senso strettamente giuridico, quindi come mancanza di corrispettivo dell’attribuzione patrimoniale.
La donazione rileva, ai fini della nostra indagine, in quanto attraverso questo istituto è possibile prevenire l’insorgere di una comunione ereditaria. Tramite una serie di donazioni, infatti, è possibile attribuire il patrimonio ereditario andando ad assegnare i beni direttamente tramite questo istituto. Ovviamente, è da tenere presente che il donante non può disporre liberamente dell’intero suo patrimonio, essendo una parte dei suoi beni, la quota di legittima, riservata dalla legge ai legittimari, soggetti legati al de cuius da stretti rapporti di parentela o di coniugio.
316G. XXXXX, La donazione, cit., p. 19 e 20.
317Cass. 18 febbraio 1977, n. 737, in Vita not., 1978, p. 83.
318A. XXXXXXXX, La donazione, cit., p. 180 ss.; X. XXXXXXXX, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1953, Vol. III – Parte prima, p. 5 ss.
4. Il patto di famiglia
Dagli anni settanta dello scorso secolo, la dottrina comincia a sviluppare un ragionamento secondo il quale nella società contemporanea la ricchezza si trasmette “in forme assai diverse da quelle testamentarie”; si riconduceva a questa particolare circostanza “l’inarrestabile obsolescenza” della successione testamentaria ed il mantenimento di tecniche antiquate divenute di impossibile utilizzazione a causa delle nuove esigenze economiche319.
In particolare, in un’epoca in cui la ricchezza si diffonde nelle mani di molti, assume un posto di primaria importanza la questione circa i modi attraverso i quali tale ricchezza possa essere conservata in capo alla famiglia secondo tecniche diverse da quelle individuate dal codice civile in sede di successione testamentaria. Così la dottrina comincia a indagare su quali tipi contrattuali potessero essere utilizzati al fine di costituire una valida alternativa al testamento, ricercando quegli strumenti che più di ogni altro potessero attribuire la massima autonomia negoziale al disponente; attraverso questa indagine si dichiarava, peraltro, di voler assecondare a due fondamentali esigenze: garantire l’organizzazione, il consolidarsi e la trasmissione dell’impresa ed assicurare il mantenimento e la formazione di determinate persone320.
Tuttavia la ricerca in tal senso intrapresa non fornì risultati positivi: prova evidente ne è, appunto, l’istituto del patto di famiglia, che nel prevedere uno strumento nuovo rappresenta la risposta dell’ordinamento a un’esigenza
319S. RODOTA’, Ipotesi sul diritto privato, in Il diritto privato nella società moderna, a cura di X. XXXXXX’, Bologna, 1971, p. 13. Simili valutazioni in merito alla perdita di importanza della successione ereditaria in C. M. XXXXXX, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 1989, p. 394; X. XXXXXXX, Evoluzione storica e rilievo costituzionale del diritto ereditario, in Trattato di diritto privato diretto da Xxxxxxxx, V, Torino, 1997, p. 7 ss.; X. XXXXXXX, Successione per testamento e trasformazioni sociali, Milano, 1972, p. 55.
000Xxxx descrive quelle finalità X. XXXXXXXX, nella Presentazione al volume di X. XXXXXXX, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. XIII.