MASSIMA:
MASSIMA:
Cass., sez. II, 28 giugno 2004, n. 11967.
In un contratto a prestazioni corrispettive, qualora la rinunzia all’azione di risoluzione venga ravvisata in un comportamento di effettiva esecuzione del contratto, posto in essere dal rinunziante ed accettato dall’altra parte, non assume rilievo la regola prevista dall’art. 1453, 3º comma, c.c., secondo cui il debitore inadempiente non può più adempiere dopo che sia stata chiesta la risoluzione, poiché si tratta di norma a carattere dispositivo; pertanto, nulla vieta che il creditore, nell’ambito delle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata, possa accettare l’adempimento della prestazione, successivo alla domanda di risoluzione, rinunciando agli effetti della stessa, anche quando questa si sia già verificata per una delle cause previste dalla legge (art. 1454, 1456, 1457 c.c.), o per effetto di pronuncia giudiziale (art. 1453 c.c.).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del giugno 1985 la M.I.C. di Xxxxxxxxx Xxxxxx s.a.s. aveva convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Bologna M. Xxxxxxxx per sentir dichiarare la risoluzione dei contratti preliminari di compravendita, stipulati in 12-17 luglio 1983 e l'8 marzo 1984, per inadempimento della M., promissaria acquirente, con la restituzione degli immobili ed il risarcimento del danno.
Nelle more del giudizio la M. aveva riconsegnato uno degli appartamenti (quello oggetto del preliminare 8 marzo 1984) mantenendo la detenzione dell'altro. La causa si concludeva con la sentenza, in data 18 giugno 1991, con la quale il Tribunale dichiarava risolto il preliminare relativo all'appartamento ancora detenuto e condannava la M. al pagamento della somma di lire 62.500.000 a titolo di risarcimento del danno conseguente al mancato godimento dell'immobile da parte dell'attrice.
La M., con ricorso per decreto ingiuntivo del 1^ ottobre 1992, chiedeva la restituzione della caparra versata per l'importo di L. 57.500.000, essendo intervenuta, in data 14 ottobre 1991, la stipula del contratto di compravendita dell'immobile tra la s.a.s. M.I.C. ed i Signori C.- N..
Il decreto ingiuntivo era concesso e veniva opposto dalla M.I.C. s.a.s.. Il giudizio di opposizione - nelle more del quale diveniva esecutiva la sentenza 18 giugno 1991 - si concludeva con la revoca del decreto ingiuntivo e la condanna della M.I.C., da parte del Tribunale di Bologna a corrispondere alla M. la somma di L. 57.500.000, pari all'importo della caparra versata.
L'appello proposto dalla M.I.C. s.a.s. avverso la sentenza del Tribunale era respinto dalla Corte di Appello di Bologna con sentenza del 24 luglio 2000.
La Corte osservava che il preliminare relativo all'appartamento non restituito conteneva la riserva, in favore della promissaria acquirente, della nomina dell'acquirente definitivo, - che la compravendita era stata stipulata - come si leggeva nell'atto - "in esecuzione del contratto preliminare"; che era pacifico il versamento della caparra nella misura indicata; che la stipula del contratto definitivo tra la M.I.C. s.a.s. ed i Signori C. - N. era stata successiva al deposito della sentenza che aveva dichiarato la risoluzione del preliminare; che con la "esecuzione" del detto preliminare, dopo che ne era stata dichiarata la risoluzione, la M.I.C. s.a.s. aveva "inteso abbandonare” la domanda proposta superando "per facta concludentia" il "decisum" della sentenza che aveva pronunziato la risoluzione; che, quindi, era da condividersi la decisione dei primi giudici fondata sulle stesse ragioni; che l'atto di appello conteneva “dichiarazioni" integranti la confessione del fatto che il contratto definitivo era stato concluso "in esecuzione del preliminare"; che gli acquirenti risultanti dal definitivo erano stati indicati dalla M. nell'esercizio della facoltà prevista nel preliminare e che l'acquisto era avvenuto per lo stesso prezzo in esso concordato; che, essendo la domanda di danni fondata sulla risoluzione per inadempimento, una volta che questo era venuto meno, per il comportamento volontario e concludente della parte adempiente, risultava travolta anche la domanda accessoria per i danni derivati dall'inadempimento.
Avverso detta sentenza, notificata il 12.1.2001, ricorre per Cassazione la M.I.C. sas, in liquidazione, con unico motivo articolato in sei censure ed illustrato da memoria. X. Xxxxxxxx resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la prima e con la seconda censura la ricorrente denuncia violazione del giudicato formatosi sulla sentenza del Tribunale di Bologna n. 1665 del 18, 6.1991, che aveva pronunziato la risoluzione del preliminare e condannato la M. al risarcimento del danno, nonchè la violazione dell'art, 1453 cc, sotto il profilo della autonomia della pronunzia di risoluzione rispetto a quella di danno per la occupazione dell'immobile, durata circa otto anni. Le censure possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione.
Esse sono infondate.
L'intera costruzione logica della sentenza impugnata muove dalle premesse di fatto che nell'atto pubblico di vendita in favore di altri soggetti si legge che questa avveniva "in esecuzione del contratto preliminare " e che il definitivo era seguito alla nomina, assunta come dato pacifico, da parte della M., degli acquirenti del definitivo, secondo la previsione espressa del preliminare.
In base al dato testuale ed a quello dall' avvenuta nomina degli acquirenti del definivo da parte della promissaria, nonchè dall'ulteriore dato, non smentito, che la vendita definitiva era avvenuta allo stesso prezzo a suo tempo concordato nel preliminare, la Corte distrettuale ha tratto il convincimento (analogo a quello del Tribunale) che la M.I.C. avesse, per facta concludenti a, abbandonato la domanda di risoluzione, su cui era intervenuta una pronunzia giudiziale non ancora passata in giudicato; che, inoltre, la rinunzia alla domanda implicasse anche rinunzia al decisimi del Tribunale e che, infine» la domanda di danno, accessoria a quella di risoluzione, restasse travolta dalla rinunzia alla prima.
Orbene, il Collegio osserva che la rinunzia all'azione non deve essere necessariamente espressa nè contenuta in atti formali ma può essere anche tacita e compiersi mediante atti e fatti concludenti incompatibili con la volontà di proseguire nella domanda proposta (Cass. 2267/90). Nel caso in cui, in un contratto a prestazioni corrispettive, la rinunzia all'azione di risoluzione venga ravvisata in un comportamento di effettiva esecuzione del contratto, posto in essere dal rinunziante ed accettato dall'altra parte, non assume rilievo la regola prevista nell'art. 1453 c. 3 cc, secondo cui il debitore inadempiente non può più adempiere dopo che sia stata chiesta risoluzione, poichè trattasi di norma a carattere dispositivo, sicchè nulla vieta che, nell'ambito delle facoltà connesse all'esercizio dell'autonomia privata, il creditore possa accettare l'adempimento della prestazione, successivo alla domanda, rinunziando, in tal modo, agli effetti della risoluzione, anche quando questa si sia già verificata per legge (artt. 1454, 1456 e 1457 cc.)o per effetto di una pronuncia giudiziale ex art. 1453 cc(Cass. 2^ n. 4908/91)- Il contraente non inadempiente, infatti, così come può rinunziare ad eccepire l'inadempimento, che potrebbe dar causa alla pronunzia di risoluzione, può, allo stesso modo, rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto o della clausola risolutiva espressa o dello spirare del temutine essenziale o della diffida ad adempiere, e può anche rinunziare ad avvalersi della risoluzione già dichiarata giudizialmente, ripristinando contestualmente l'obbligazione contrattuale ed accettandone l'adempimento.
Ed è proprio questa l'ipotesi che il giudice di merito ha ritenuto essersi verificata nella specie grazie alla nomina da parte della M., e l'accettazione da parte della M.I.C., dei contraenti del definivo, espressamente stipulato in esecuzione ed adempimento -"volontario" e “spontaneo", secondo le espressioni della sentenza impugnata - da parte della M.I.C. del (id est: degli obblighi del) preliminare, specificamente richiamato nell'atto definivo anche con gli estremi della registrazione, richiamo che, secondo la Corte d'Appello, sarebbe stato altrimenti "illogico ed inutile".
Ed in proposito non ha rilievo, se non come argomento logico non dirimente, l'assunto della ricorrente che insiste all'autonomia della domanda di risoluzione rispetto a quella di danni nè mette conto di stabilire se su tale ultima domanda si sia formato il giudicato, posto che l'oggetto del presente giudizio riguardava unicamente la sorte della domanda di risoluzione che, in relazione ad uno soltanto degli effetti restitutori ad essa connessi - e controverso(cioè, quello della caparra) - è stata ritenuta oggetto di rinunzia tacita, con il conseguente "venir meno" della richiesta (definita accessoria) di danni che dall'inadempimento sarebbero derivati.
Da tanto consegue anche l'assoluta irrilevanza, ai fini della decisione che ne occupa, della questione relativa alla sussistenza della (eventuale) remissione del debito per risarcimento che viene, prospettata nella censura sub 4). In ordine a tale questione, che è riportata tra le deduzioni dell'appellante (cfr. pag. 6 della sentenza), può osservarsi che, intanto, non viene dedotto il vizio di omessa pronunzia e che, in
ogni caso, la Corte di Appello è - come si è visto - risalita a monte dell'azione risarcitoria ritenendo che fosse avvenuta la rinunzia all'azione di risoluzione, logicamente ad essa preordinata, per avere le parti, con la volontaria esecuzione del preliminare, dopo la sentenza relativa all'inadempimento dello stesso, dato un diverso assetto al complesso dei loro interessi, rinunziando al decisum.
Tale conclusione, frutto di ragionamento chiaro e logicamente ineccepibile, non viene puntualmente censurata dalla ricorrente, posto che, per contestare la rinunzia all'azione, che è stata ritenuta sussistente nella specie pur in mancanza di formule sacramentali e/o espresse, non possono introdursi istituti diversi, come la remissione del debito, rispetto alla quale, peraltro, neppure è a parlarsi della necessità di forme solenni o particolari (Cass. n. 5646/94; Cass. n. 5148/87; Cass., 1752/72; Cass. 1100/74).
La nomina del terzo, che i giudici di merito hanno dato per pacifica e certa, viene dalla ricorrente contestata in maniera apodittica ed inefficace ovvero (come nella censura sub 3) per il solo profilo formale, sul rilievo della mancanza dell'atto scritto di nomina del terzo, previsto dall'art. 1403 cc. Tale censura, che era già stata ampiamente disattesa dal Tribunale, anche con riguardo alle carenze formali, non risulta essere stata riproposta specificamente nei motivi di appello, ond'è che, per tale profilo, essa va ritenuta inammissibile.
Da tutto quanto sopra detto deriva che l'inquadramento della fattispecie, da parte della Corte di Appello, deve ravvisarsi giuridicamente corretto e che altrettanto corretta, nonchè adeguatamente e logicamente motivata, deve ritenersi la soluzione - data dalla stessa Corte alla "quaestio voluntatis" con riguardo alla rinunzia all'azione. Resta, così, assorbita anche la questione - che è piuttosto un argomento logico, peraltro basato su un fatto di equivoco significato - della esecuzione spontanea della sentenza (non ancora passata in giudicato) mediante la restituzione dell'appartamento da parte della M., come prospettata nella censura sub 5).
L'ultima questione (prospettata sub 6) relativa alla prova del "negozio transattivo" a del tutto nuova sia per quanto riguarda il merito che, di conseguenza, il fatto da provare.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato.
Il Collegio ravvisa giusti motivi per la compensazione totale delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e compensa le spese tra le parti.