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“La concorrenza sleale (parte terzo)”
Xxxx. Xxxxx Xxxxxxxxxx
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1 LE VIOLAZIONI DI ESCLUSIVE CONTRATTUALI 3
4 ATTI DI CONCORRENZA COMPIUTI DA EX-DIPENDENTI 9
1 Le violazioni di esclusive contrattuali
Con riguardo a tale pratica, negli ultimi anni si registra uno scarso interesse, poiché essa ha sostanzialmente perso ogni rilievo sul piano della casistica giudiziaria.
Sotto il profilo scientifico, anche in relazione alla violazione di esclusiva, negli ormai lontani anni ’50, si assisté allo scontro tra gli assertori di teorie antimonopolistiche, che ritenevano la liceità della pratica, e sostenitori della slealtà di una simile condotta: i primi, peraltro, hanno sempre sottolineato la circostanza che il patto di esclusiva assume sempre la natura di convenzione tra distributore e concessionario, sicché rispetto ad esso colui che invade la zona è un terzo, al quale la pattuizione è inopponibile .
La Suprema Corte da lungo tempo non risulta interessata a controversie attinenti a tale pratica . Sembra doveroso segnalare quanto meno due ulteriori circostanze:
- gli studi più recenti tendono a trasferire, per le ragioni accennate, la valutazione circa la liceità della violazione di esclusiva dal terreno concorrenziale a quello dell’illecito aquiliano, nel più specifico contesto della induzione all’inadempimento ovvero della responsabilità extra contrattuale da contratto ;
- accade di frequente che la violazione di esclusiva possa venire a sovrapporsi alla violazione di norme imperative, laddove la prima sia attuata mediante importazioni in contrabbando .
2 Il boicottaggio
Una delle forme più complesse di estrinsecazione di un comportamento in violazione dei principi di correttezza professionale è rappresentata dal boicottaggio.
Il boicottaggio, già da diverso tempo fa, è stato definito come lo sforzo organizzato per eliminare o indurre terzi a fare ritirare qualcuno da relazioni di affari con altri .
La realtà economico-commerciale ha in concreto prospettato diverse forme di boicottaggio in senso ampio: tant’è che i primi studi italiani che si sono preoccupati di approfondire l’argomento ne hanno individuato quanto meno tre, ovverosia:
- il boicottaggio primario individuale, definito come quel comportamento del singolo che spontaneamente rifiuta di intrattenere rapporti con un soggetto determinato per ostacolarne o bloccarne l’attività ;
- il boicottaggio secondario individuale, caratterizzato dal comportamento di un soggetto (promotore) il quale induce altri soggetti (esecutori) a rifiutare di intrattenere determinati rapporti con un terzo (boicottato), al fine di ostacolarne o bloccarne le relazioni economico-sociali ;
- il boicottaggio collettivo che non si contrappone al boicottaggio primario ed al boicottaggio secondario, come un terzo elemento di una serie, cioè come una fattispecie distinta dalle prime due sullo stesso piano logico; l’elemento dell’accordo e la conseguente organizzazione di una pluralità di soggetti attivi, che caratterizza appunto, il boicottaggio collettivo, accede tanto ad ipotesi di boicottaggio primario, quanto ad ipotesi di boicottaggio secondario ed in numerosi casi la fattispecie considerata comprende addirittura le diverse forme di boicottaggio tra loro variamente combinate .
La pratica del boicottaggio (nelle suddette diverse forme) assume significativo rilievo sul piano della disciplina antimonopolistica ancor più che su quello della concorrenza sleale: con riguardo a quest’ultima, il problema di maggior sostanza risulta ancora oggi rappresentato dalla circostanza che – soprattutto nella forma del boicottaggio collettivo – l’agente di norma non è un imprenditore. Il che, ad avviso della giurisprudenza, spesso rappresenta un impedimento al riconoscimento della sussistenza dei presupposti di un atto di concorrenza sleale.
Grazie soprattutto alle significative intuizioni della dottrina anche la giurisprudenza ha finito con il riconoscere che la finalità impeditiva e l’abuso di posizione dominante connessi alla pratica in esame ne determinano la rilevanza sotto il profilo della slealtà .
L’enunciato della Suprema Corte può riassumersi nei seguenti principi:
a) il boicottaggio, ove illecito, è atto di concorrenza sleale anche se posto in essere da associazioni non imprenditoriali;
b) l’illiceità degli accordi restrittivi è strettamente dipendente dalla posizione dominante sul mercato assunta dal boicottante;
c) detta illiceità è da escludersi quando la restrizione nella scelta dei contraenti sia rimessa a discrezionalità e non a mero arbitrio.
A tal proposito, va detto, che un accordo fra associazioni di produttori (nella specie: editori) e di commercianti (nella specie: giornalai) inteso a regolare la procedura di istituzione ed assegnazione dei punti di vendita può essere considerato come un atto contrario alla correttezza ex art. 2598, n. 3, cod. civ., non in base alla semplice valutazione discrezionale dei suddetti requisiti e per il conseguente rifiuto nei confronti di un aspirante alla rivendita ritenuto dotato di requisiti inferiori rispetto a quello scelto, ma soltanto se sono stati violati i criteri prefissati o non è stata seguita una regolare procedura o è stata posta in essere un’incongrua o non imparziale valutazione delle situazioni esaminate. In tal caso, se l’atto è potenzialmente produttivo di danno a carico dell’escluso, con vantaggio potenziale di altro imprenditore concorrente, può essere considerato come atto di concorrenza sleale .
Nella giurisprudenza di merito, per lo più, siffatte indicazioni paiono recepite e confermate .
Va peraltro segnalato che, nella più recente giurisprudenza di merito, non mancano voci contrarie, che tendono ad iscrivere nell’area dell’illecito aquiliano le forme di boicottaggio imputabili a soggetti non imprenditori .
3 Lo storno di dipendenti
Gli ultimi anni (in contrasto con i primi quarant’anni di vigenza del codice civile), probabilmente anche a causa di una mobilità sul mercato del lavoro prima sconosciuta nel nostro Paese, hanno registrato diverse fattispecie di azioni di concorrenza sleale per preteso storno di dipendenti: anche questa ipotesi pone, come è evidente, un problema di equilibrio tra due interessi configgenti, rappresentati, l’uno, da quello del concorrente danneggiato alla conservazione della massima produttività dell’impresa, e, l’altro, da quello del lavoratore alla libertà di autodeterminazione nella scelta del lavoro.
La dottrina, tradizionalmente, si è divisa in due orientamenti: il primo, cd. oggettivo, che tende a valutare l’illiceità dell’atto sulla scorta di una indagine basata esclusivamente sui fatti; il secondo, denominato finalistico, che ha sempre ritenuto insufficiente il valore obiettivo degli eventi, se non accompagnato da una considerazione delle intenzioni del concorrente e, dunque, sostanzialmente dalla prova di un animus nocendi. Questa distinzione, all’interno della dottrina, si registra sin dagli inizi del dibattito sull’argomento: mentre infatti da un lato, sia pure con varietà di accenti, si è posta l’attenzione sulla rilevanza dello stato soggettivo dell’agente ; dall’altro si è rilevato come lo storno è atto di concorrenza sleale solo se attuato con mezzi illeciti .
Negli ultimi anni si è poi affermato un orientamento intermedio che, privilegiando l’illiceità oggettiva del comportamento, tende a valutare i fatti anche in relazione alla finalità soggettiva che in termini non equivoci possa averli ispirati .
Per ciò che attiene alla giurisprudenza, per quanto concerne la teoria oggettiva, va detto che dopo decenni di sostanziale irrilevanza della questione nelle aule giudiziarie, gli anni novanta del secolo scorso hanno conosciuto molteplici pronunce sull’argomento, nelle quali si trova sostanzialmente recepito il principio alla base dell’orientamento intermedio, sia pure con qualche concessione alla teoria finalistica .
Una maggiore propensione, invece, verso la teoria finalistica registra altra parte della giurisprudenza .
La concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza deve essere, piuttosto, desunta dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga, attraverso il menzionato passaggio, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel
mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce .
La giurisprudenza di merito, invece, nei suoi più recenti enunciati mostra una più decisa adesione alla teoria intermedia: sul presupposto che la sottrazione di dipendenti costituisce al contempo esercizio di libertà di concorrenza, garantita dall’art. 41 Cost., ed esplicazione, da parte dei lavoratori, del diritto alla libera circolazione tutelato dall’art. 35 Cost. , ed in aderenza all’orientamento giurisprudenziale secondo cui non può configurarsi un atto di concorrenza sleale per storno di dipendenti allorché un imprenditore tenda ad ottenere per sé le prestazioni di lavoro di un dipendente del concorrente, se non abbia lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda, oltre i limiti in cui quella azienda può subire un danno per il fatto stesso che un dipendente abbia scelto di dimettersi per andare a lavorare da un’altra parte , essa per l’appunto puntualizza che tale specifico animus nocendi deve inoltre tradursi in elementi obiettivi, quali il numero dei dipendenti stornati, la loro particolare qualificazione ed utilità per l’impresa concorrente danneggiata, la denigrazione del datore di lavoro, la brevità del lasso di tempo in cui si sia realizzato lo storno ed in generale l’uso di messi comunque subdoli o scorretti .
Fra le ulteriori questioni che molto spesso lo storno pone vi è:
a) la questione della punibilità del tentativo che, in genere, presuppone una adesione, quanto meno, alla teoria intermedia e che è, invece, radicalmente escluso dai sostenitori di quella oggettiva. la questione è stata risolta nel senso della ammissibilità da una non più recente giurisprudenza di merito: per quanto riguardo il mero tentativo di storno, mentre non constano pronunce della Cassazione, si deve ricordare che la prevalente giurisprudenza di merito è orientata nel senso che esso costituisce atto di concorrenza sleale. Tale giurisprudenza, che il Tribunale condivide, ha esattamente rilevato che il tentativo di storno non riuscito integra un comportamento contrario ai principi di correttezza mercantile che il legislatore ha voluto rispettata ;
b) il problema della natura delle sanzioni, tenuto conto della difficoltà, persino concettuale di emanare un provvedimento inibitorio o ripristinatorio: il primo si sostanzierebbe nel divieto al lavoratore <<stornato>> di prestare il proprio lavoro ed il secondo determinerebbe la ricostituzione, per provvedimento giudiziario di un rapporto giuridico cessato ;
c) la configurabilità dello storno con riguardo anche ai collaboratori autonomi del concorrente (agenti, concessionari, ecc.): in dottrina pare vi sia una sostanziale convergenza di opinioni . Quando un imprenditore si avvale di una rete di concessionari e sub concessionari che svolgono l’attività in modo autonomo, con mezzi propri e con l’assunzione dei rischi relativi,
l’organizzazione di vendita creata dai concessionari appartiene a loro esclusivamente, come a loro appartiene la clientela che si sono procurati con il frutto del loro lavoro. Dunque propendiamo per una distinzione basata sulla piena, effettiva (non formale) autonomia organizzativa dell’agente o del concessionario. In assenza di tale piena effettiva autonomia, lo storno di tali ausiliari va parificato esattamente a quello dei dipendenti .
Analogamente, la giurisprudenza pare orientata ad ammetterla: costituisce atto di concorrenza sleale l’utilizzazione dell’ex agente di un’impresa concorrente diretta allo scopo di sviare la clientela di quest’ultima, mediante il fraudolento impiego di informazioni o documenti indebitamente rimasti in possesso di detto soggetto .
4 Atti di concorrenza compiuti da ex-dipendenti
Nell’eventualità in cui il responsabile della sottrazione sia un ex dipendente, ad avviso della dottrina, pur dovendo essere i canoni di valutazione sostanzialmente analoghi, dovrebbe tenersi presente che l’ex dipendente già conosce quei segreti: naturalmente se l’ex dipendente compie atti, oggettivamente qualificabili come sleali (quali ad esempio l’abuso di segreti), egli sarà perseguibile: (ma) come qualsiasi altro soggetto .
Nonostante i principi ora accennati, varie sentenze hanno in passato affermato che nel caso di concorrenza di ex dipendenti sarebbe stato necessario applicare un maggiore rigore fondato sul presupposto della maggior pericolosità della concorrenza dell’ex dipendente – nella valutazione di fatti di per se stessi astrattamente riconducibili nell’ambito della concorrenza sleale .
Esisterebbe, dunque, sulla base di siffatta impostazione, a carico dell’ex dipendente una speciale accentuazione del dovere di lealtà e probità professionale; e uno speciale dovere di
<<discrezione>> e di non <<aggressione>> verso l’impresa di provenienza , per altro verso, va sottolineato il fatto che le conoscenze acquisite dal lavoratore rappresentano il suo patrimonio culturale, del quale difficilmente egli potrebbe spogliarsi: una tale impostazione indurrebbe a sollecitare una valutazione più <<indulgente>> in simili fattispecie.
E si è così affermato come non fosse ipotizzabile né che <<con la cessazione del rapporto di lavoro si debba deporre sulla soglia dell’azienda il patrimonio della propria personale formazione lavorativa>> né che l’ex dipendente, cancellando dalla propria vita l’esperienza acquisita, debba in buona sostanza ricominciare tutto daccapo.
La soluzione probabilmente sta in una corretta valutazione comparativa di interessi: mentre sulle cognizioni professionali non v’è problema, per quelle concretamente legate alla loro fonte d’origine (le cc.dd. notizie oggettive) l’interesse dell’ex dipendente può assumere prevalenza rispetto a quello dell’ex datore di lavoro soltanto in una proiezione articolata: il fatto, cioè, che oggettivamente sussista la necessità di utilizzazione deve essere direttamente comparato con la particolarità specifica del tipo di segreto che venga in discussione; sicché, mentre per i segreti penalmente tutelati non può giammai consentirsi ad una loro utilizzazione, anche per quelli riservati (ove il penalista ovviamente, ad essi non conceda egualmente tutela) è da adottare eguale soluzione; e, quindi, l’ex dipendente può usare della notizia meramente riservata, solo se questa non sia a sua volta di rilevante importanza .
La giurisprudenza maggioritaria, in ogni caso, sembra tradizionalmente orientata a considerare con maggior rigore la posizione di colui che era legato all’imprenditore da un rapporto di lavoro subordinato .
I principi giurisprudenziali sono successivamente ribaditi (sia pure in un contesto più problematico) nei seguenti termini: l’utilizzazione a proprio vantaggio di notizie riservate relative ad altra impresa, può costituire una delle forme di concorrenza parassitaria in senso lato, contrarie ai principi della professionalità imprenditoriale e come tali illecite. Nel momento stesso, infatti, in cui un dipendente, interrotto il rapporto di lavoro, assume la qualifica di imprenditore, si sottopone a quelle norme di correttezza della professionalità imprenditoriale, nelle quali si è individuato il divieto di situazioni di parassitismo imprenditoriale, che costituiscono il fondamento, ma anche il limite invalicabile della sua nuova iniziativa ed in relazione alle quali anche cognizioni legittimamente acquisite nella precedente situazione di collaborazione xxxx’altrui impresa non possono essere impiegate per forme di concorrenza parassitarie .
Va, peraltro, segnalato che in epoca più recente la magistratura di merito dà segni di maggiore sensibilità rispetto alle sollecitazioni della dottrina, tanto da pervenire ad affermare che il diritto alla segretezza riconosciuto all’imprenditore non può giungere ad impedire o limitare la facoltà di sfruttamento da parte dell’ex dipendente o collaboratore delle conoscenze acquisite nella propria pregressa esperienza lavorativa o la libertà di avvalersi della propria capacità tecnica, pur se acquisita nell’esplicazione di mansioni alle quali esso era addetto nell’impresa e, più recentemente (seppure in una fattispecie nella quale veniva dedotta una condotta illecita di tipo <<parassitario>> da parte del dipendente) l’utilizzazione da parte dell’ex dipendente della professionalità acquisita presso l’imprenditore già suo datore di lavoro, se può dar luogo a concorrenza parassitaria ove sia volta a sviare a proprio vantaggio i lavori aziendali dell’impresa di provenienza, non può considerarsi illecita ove l’ex dipendente si limiti ad avvalersi delle capacità professionali non distinguibili dalla sua persona, non potendo cioè essergli inibito senza sacrificio della sua libertà individuale, con ingiustificata protrazione di una situazione di dipendenza, oltre i limiti contrattuali, risolventesi in una sorta di rendita parassitaria per l’impresa precedente datrice di lavoro .
La giurisprudenza più recente ha individuato il discrimine tra comportamento lecito ed illecito dell’ex dipendente sulla base della valutazione della riferibilità, della conoscenza utilizzata, al patrimonio personale del medesimo ovvero al patrimonio dell’impresa ed, in senso ancora più favorevole per l’ex dipendente, ha escluso che rappresenti atto di concorrenza sleale persino la spendita di informazioni afferenti alla <<politica commerciale>> dell’impresa .