REPUBBLICA ITALIANA
R.G. n. 1084/2009 + R.G. n. 1136/2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Xxxxx, in persona del G.M. Dott.ssa Xxxxx Xxxxxx, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nei giudizi riuniti R.G. n. 1084/2009 e R.G. n. 1136/2010 aventi ad oggetto CONTRATTI BANCARI, pendenti
TRA
Lo ( , elettivamente domiciliato in
Paola, al X.xx Xxxx x. 0, presso lo studio dell’Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx che lo rappresenta e difende giusta procura margine degli atti di citazione;
attore
E
Banco di Napoli s.p.a. (già San Paolo Banco di Napoli s.p.a.) in persona del legale rappresentante p.t., con sede in Napoli alla Xxx Xxxxxx, x. 000, elettivamente domiciliato in Cosenza
che lo rappresenta e difende giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta di nuovo difensore depositata telematicamente in data 4.03.2016;
convenuta
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso riportandosi a tutti i propri atti e scritti difensivi nonché alle conclusioni ivi rassegnate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.Questioni preliminari.
In xxx xxxxxxxxxxx, xx dà atto che la scrivente è subentrata ai precedenti magistrati (persone fisiche) avvicendatisi sul ruolo in data 21.11.2015 e che i procedimenti riuniti sono stati trattati per la prima volta innanzi a sé all’udienza del 7.04.2016.
Sempre in xxx xxxxxxxxxxx xx dà atto che la presente sentenza viene redatta ai sensi degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., che come modificati dalla legge n. 69/2009, consentono una concisa esposizione delle questioni di fatto rilevanti e delle ragioni giuridiche della decisione.
Sempre in via preliminare, poi, la banca contesta al cliente di aver agito, prima della chiusura del c/c, in ripetizione di indebito senza individuare i pagamenti fatti, con conseguente inammissibilità della domanda. Ciò sulla scorta del precedente di Xxxx. 15.1.2013 n. 798, secondo cui "con riferimento al conto aperto, la deduzione e prova della natura solutoria [delle rimesse di cui l'attore chiede la ripetizione] costituiscono elementi conformativi, rispettivamente, della domanda e del relativo thema probandum, diversamente dovendo inferirsi l'inammissibilità della condictio indebiti, dal momento che, vero il principio secondo cui actio nondum nata non praescribitur, deve essere ovviamente riconosciuto anche l'opposto". L'eccezione è manifestamente infondata.
In diritto, anche a c/c ancora aperto, il cliente ha comunque titolo e interesse a proporre azione di accertamento negativo, intesa a ottenere: a) la dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali (che prevedano, a titolo di es., diversa periodicità di chiusura al fine di liquidare le competenze, l'applicazione di interessi eccedenti il tasso soglia ecc.); b) l'accertamento delle somme addebitate dalla banca (a titolo di interesse commissione spesa) in base alla clausola nulla o comunque in difetto di una conforme previsione contrattuale; c) infine, lo storno dell'annotazione indebita, col conseguente ricalcolo dei rapporti di dare-avere. Questa azione condivide con quella ex art. 2033 c.c. un nucleo di fatti comune (addebito in c/c in base a patto nullo oppure in mancanza di patto), il quale esaurisce il contenuto dell'accertamento negativo e costituisce parte del più ampio thema decidendum dell'azione di ripetizione. Soltanto per agire in ripetizione, infatti, il cliente ha l'onere di allegare e provare non soltanto l'indebito, ma anche lo spostamento patrimoniale, ossia la rimessa c.d. solutoria.
Per contro, l'accertamento negativo non è subordinato all'esistenza, individuazione e prova di un pagamento ed è pertanto certamente proponibile ancorché il c/c sia ancora aperto. Infatti, a conto aperto, l'interesse ad agire del cliente trova normale soddisfazione nel ricalcolo dell'effettivo dare-avere, a seguito della depurazione del saldo dagli addebiti nulli. Secondo la varietà dei casi, lo storno dell'indebito potrà implicare una semplice riduzione dell'esposizione debitoria, eventualmente anche una maggior disponibilità di fido (se il c/c è affidato), perfino il passaggio del c/c "in nero", senza che all'effetto sia necessario al cliente individuare e provare pagamenti di sorta per legittimarsi ad agire. Di più. Anche ad ammettere che il cliente agisca ex art. 2033 c.c., su c/c ancora aperto, e dia prova di aver pagato somme indebitamente annotate, ciò non basterebbe per accogliere la domanda di condanna della banca a restituire il pagamento. Infatti il (teorico) credito restitutorio del cliente troverebbe inevitabile compensazione, fino a concorrenza, nel saldo passivo di c/c, posto che - come è noto e da tempo acquisito in giur. (da ultimo Cass. 8.8.2007 n. 17390; Cass. 30.3.2010 n. 7624; Cass. 10.11.2011 n. 23539) - quando i reciproci debiti e crediti traggano origine da un unico rapporto, il giudice, per accertare il buon fondamento della domanda, deve procedere anche d'ufficio alla compensazione c.d. impropria ossia al ricalcolo del dare-avere.
In definitiva, vista la convergenza negli esiti pratici e negli elementi costitutivi - le due azioni condividono un nucleo comune di fatti, mentre la sola azione di indebito esige inoltre la prova del pagamento; l'esistenza dell'indebito è antecedente logico indispensabile dell'azione ex art. 2033 c.c. - ritiene lo scrivente che l'azione di accertamento negativo debba intendersi proposta e sia quindi decidibile nel merito, nonostante la mancanza di allegazione e prova di pagamenti, ogni qual volta il cliente, pur dichiarando di agire in ripetizione di indebito, abbia chiesto espressamente (come in specie: vedi le conclusioni in epigrafe) l'accertamento della nullità delle clausole e delle somme indebitamente annotate e il relativo storno, con ricalcolo del dare-avere.
È invece inammissibile la domanda di ripetizione dell’indebito delle somme contestate, perché come dedotto dallo stesso attore alla data della proposizione dell’atto di citazione, il conto è ancora aperto, circostanza questa confermata dalla produzione dell’ultimo estratto conto del 31.03.2009, ma non risulta da tale documento la chiusura del conto corrente con il passaggio " a sofferenza" del saldo passivo finale. Ciò premesso appare del tutto ininfluente l'eccezione di prescrizione sollevata dalla banca convenuta atteso che, per la ragioni che si andranno ad esplicitare, nel caso di specie è ammissibile solo l'azione di accertamento. Orbene mentre l'azione di ripetizione dell'indebito ( nel caso di specie inammissibile) soggiace al termine di prescrizione, diversamente l'azione di accertamento di nullità delle clausole contrattuale e di determinazione del saldo di c/c è di per sè imprescrittibile.
Riguardo alla ammissibilità della domanda del correntista di ripetizione dell'indebito delle somme illegittimamente addebitate dalla Banca nel corso di un rapporto di conto corrente, occorre richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (a cui ci si riporta) con riferimento alla nota distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il
proprio debito verso la banca (cfr. Cassazione sezioni unite civili n. 24418/2010);
Ed invero si ritiene che un pagamento, per dar vita ad un'eventuale pretesa restitutoria di chi assume di averlo indebitamente effettuato, deve tradursi nell'esecuzione di una prestazione da parte di quel medesimo soggetto (il solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l'accipiens); e in tanto può definirsi indebito, con conseguente diritto di ripetizione a norma dell'art. 2033 cod. civ., in quanto difetti di una idonea causa giustificativa.
Secondo questo orientamento giurisprudenziale nel caso in cui, durante lo svolgimento del rapporto di conto corrente bancario, il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca.
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Deve ritenersi in merito che l'annotazione in conto di una posta di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito dello stesso correntista, o una riduzione dei credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nel senso che non vi corrisponde alcuna attività solutoria nei termini sopra indicati in favore della banca; con la conseguenza che il correntista potrà agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell'addebito si basa (allo scopo eventualmente di recuperare una maggiore disponibilità di credito, nei limiti del fido accordatogli), ma non potrà agire por la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto (Cassazione civile sentenza n. 798/2013).
Richiamando il suddetto orientamento della giurisprudenza di legittimità, ove il rapporto bancario come nel caso di specie sia ancora in essere, il correntista non potrà proporre azione di ripetizione dell'indebito, ma potrà agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui gli addebiti contra legem si basano, accertare l'effettivo saldo di conto corrente come depurato da tutti gli addebiti illegittimi e l'importo complessivo di essi, allo scopo eventualmente di recuperare una maggiore disponibilità di credito, nei limiti del fido accordatogli.
Tale azione di accertamento è stata avanzata dalla società attrice, tenuto conto che nelle conclusioni dell'atto introduttivo la Pre.sac. s.r.l. ha chiesto al Tribunale adito di dichiarare ed accertare che la banca ha addebitato somme non dovute a titolo di interessi ultra legali ed anatocistici, nonchè di spese e commissioni non pattuite e di procedere alla corretta determinazione del saldo di conto corrente.
Ne consegue che ai fini della decisione il rapporto di conto corrente va ricostruito, previo accertamento della sussistenza di addebiti contra legem, per l'intera sua durata e quindi sin dal primo estratto conto in atti e sino alla data del 31.03.2009.
2.Sul merito.
La pluralità di domande e la riunione dei due giudizio, consigliano per comodità espositiva, la trattazione separata.
2.1.Sulla nullità dei contratti bancari cd. “monofirma”.
All’udienza di precisazione delle conclusioni, l’attore ha concluso per la nullità del contratto di conto corrente n. 27/2318 stipulato il 1.08.1990 perché sullo stesso manca la sottoscrizione del Banco di Napoli, essendo riportata esclusivamente quella del correntista.
La domanda è inammissibile, trattandosi di domanda nuova, formulata soltanto in sede di udienza di precisazione delle conclusioni, mentre il termine ultimo per la precisazione e/o modifica di domande già formulate nei limiti della sola emendatio libelli, è rappresentato dal deposito della memoria ex art. 183 c. 6 n. 1 c.p.c.
In ogni caso, questo giudicante rileva come sulla questione dei cd. contratti “monofirma si siano espresse di recente le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con sentenza 16.01.2018 n. 898, intervenuto a dirimere il contrasto sussistente all’interno delle sezioni semplici, ove a fronte di alcune pronunce (cfr. Cass. 24.02.2016 n. 3623; Cass. 24.03.2016 n. 5919; Cass. 19.05.2016, n. 10331) hanno rilevato che laddove è prevista la forma scritta ad substantiam per il regolamento negoziale (nel caso di specie si trattava del contratto quadro di intermediazione finanziaria da stipularsi in forma scritta a pena di nullità ex art. 117 T.U.B.), il contratto deve essere provato a mezzo della produzione in giudizio, negandosi la possibilità di desumere la conclusione del contratto dalla dichiarazione sottoscritta dal cliente di aver ricevuto copia del contratto sottoscritta dal soggetto abilitato a rappresentare la banca, un primo orientamento espresso da Cass. 22.03.2012 n. 4564, espressasi in relazione al contratto di conto corrente bancario, aveva escluso la nullità per difetto di forma, evidenziando che il contratto aveva avuto pacifica esecuzione, visti gli ordini di investimento e la comunicazione degli estratti conto. Pertanto, la produzione in giudizio del contratto, secondo tale orientamento realizza un valido equipollente della mancata sottoscrizione, purchè la parte non avesse in precedenza revocato il proprio consenso o fosse deceduta.
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A fronte di tale difformità di decisioni, le Sezioni Unite hanno dato continuità all’ultimo degli orientamenti espressi rilevando che quella prevista dalla normativa di settore, ossia dalla normativa in tema di contratti di intermediazione finanziaria integra una nullità cd. di protezione, in quanto posta nell’interesse dell’investitore e che da questi può essere fatta valere. se questa è la ratio della nullità per assenza di forma scritta, appare difficile ritenere che tale sanzione possa essere comminata allorché il documento inviato dall’istituto bancario al correntista risulti sottoscritto solo da quest’ultimo. Ed infatti, come evidenziato dalle Sezioni Unite il requisito della forma di cui all’art. 1325 n. 4 c.c. va inteso nella specie non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità propria della normativa, ne consegue che il contratto quadro deve essere redatto per iscritto, che per il suo perfezionamento deve essere sottoscritto dall’investitore, e che a questi deve essere consegnato un esemplare del contratto, potendo risultare il consenso della banca a mezzo di comportamenti concludenti. Tale principio ben si attaglia al caso di specie, ove entrambe le parti del giudizio hanno prodotto il documento con cui l’attore ha sottoscritto la lettera di apertura del conto corrente di corrispondenza, che così dispone “Ho ricevuto la Vostra lettera del 1.08.1990 con la quale mi avete comunicato di aver aperto un conto corrente di corrispondenza a mio nome che sarà regolato, fino a nuovo avviso da parte Vostra, alle seguenti condizioni”.
Tale documento, recante la sottoscrizione del correntista, è sufficiente a ritenere che il contratto stipulato tra le parti abbia rispettato il requisito della forma scritta e sia stato, perciò stesso, validamente formato.
Del resto, come già evidenziato da questo giudicante in altra decisione precedente, l'art. 117 T.U.B. non richiede che la sottoscrizione sia contestualmente apposta sul medesimo supporto documentale, richiede invece che la manifestazione di volontà che concorre a formare il contratto sia formulata per iscritto a conferma della importanza dell'atto posto in essere. Peraltro, nella fattispecie in esame, il consenso espresso dal correntista è stato apposto su modulo predisposto dalla stessa banca convenuta, sicché affermare che la mancata apposizione contestuale sul medesimo foglio della sottoscrizione di entrambe le parti (in particolare di quella della banca) di una firma che è invece il frutto del formarsi della volontà, già documentalmente evidente, porterebbe alla nullità di un rapporto di durata, appare connaturarsi anche per una violazione della buona fede contrattuale posta in essere dal correntista che lamenta, solo nel 2009 una nullità che non sussiste (cfr. Trib. Catania 7.04.2017, n. 1026; Trib. Ferrara, 8.06.2017, n. 608).
Alla luce, dunque, dei principi affermati, la domanda di nullità del contratto di conto corrente deve essere rigettata, con osservazioni analoghe che si estendono al contratto di apertura di credito correlato a quello di conto corrente.
2.2.Sull’illeggitimità della clausola di capitalizzazione trimestrale.
L’attore ha allegato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale applicata dalla banca, concludendo per l’accertamento della nullità della relativa clausola.
Punto di partenza non può che essere l’art. 1283 c.c., secondo il quale “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”. Dal dettato codicistico, dunque, si desume un generale divieto posto dal nostro ordinamento per le operazioni anatocistiche ad eccezione di tre casi (ed a condizione che gli interessi scaduti siano dovuti per almeno 6 mesi): il cd. “anatocismo usuario”, quando usi aventi valore normativo con rango di fonte del diritto ex artt. 1 e 8 disp. prel. c. c. preesistano all’entrata del vigore del codice civile del 1942; un “anatocismo convenzionale”, allorché le parti del rapporto obbligatorio espressamente pattuiscano l’adozione degli interessi; il cd. “anatocismo giudiziale o legale”, nel caso in cui la pretesa degli interessi capitalizzati si fondi su un’apposita domanda giudiziale proposta successivamente alla scadenza degli interessi già previsti sul capitale.
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Alla luce di tale necessaria premessa, si coglie il problema interpretativo venutosi a creare con riferimento all’anatocismo bancario, ossia alla prassi bancaria di capitalizzare con criteri diversi gli interessi maturati sul conto corrente, e cioè con cadenza trimestrale gli interessi a debito, e con cadenza semestrale o annuale quelli a credito. La legittimità della esposta prassi – in contrasto con l’art. 1283 c.c. – era inizialmente giustificata da una particolare impostazione interpretativa – avallata da una giurisprudenza sostanzialmente uniforme - secondo la quale la previsione di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi inserita dagli istituti di credito nei contratti di conto corrente era compatibile con il citato disposto normativo, attesa l’operatività della clausola di salvezza ivi contenuta e relativa agli usi contrari. Invero, secondo la ricordata lettura ermeneutica, la sistematica riproduzione nei rapporti con la clientela della clausola anatocistica trimestrale degli interessi a debito costituiva una consuetudine avente valore normativo - e pertanto derogatoria del divieto di cui all’art. 1283 c.c. - in quanto, per un verso, prassi significativamente reiterata anteriormente all’entrata in vigore del codice civile, e, dunque, recante il carattere della diuturnitas; nonché, per altro verso, contraddistinta dai crismi dell’ opinio iuris ac necessitatis. Tuttavia, la giurisprudenza con diverse pronunce intervenute alla fine degli anni ’90 (cfr. ex multiis, Cass. 30 marzo 1999, n.3096), ha progressivamente mutato orientamento sul punto, affermando che la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi da parte della banca non costituisce uso normativo bensì negoziale: la relativa clausola è, dunque, illegittima perché in contrasto col divieto di cui all’art. 1283 c.c.. La Corte ha osservato, in primo luogo, che tale diversa periodicità della capitalizzazione è stata adottata per la prima volta in via generale, e su iniziativa dell’A.B.I., solo a partire dagli anni ’50 (e dunque ben dopo l’entrata in vigore del codice civile); nonché, in secondo luogo, che l’apposizione di tale clausola non era di certo connotata dal requisito dell’opinio iuris ac necessitatis, in quanto percepita dai clienti come vera e propria "coercizione" da parte del contraente “forte”. A fronte della dichiarata nullità delle clausole anatocistiche, il legislatore è intervenuto con il d.lgs. 342/1999, introducendo una disciplina pro futuro (con la modifica dell’art. 120 T.U.B.), sancendo che nelle operazioni di conto corrente dovesse essere assicurata la stessa periodicità nel conteggio sia degli interessi debitori, sia di quelli creditori; nonché una disciplina per il passato (dettata dall’art. 25,co. 3, del citato d.lgs.), la quale prevedeva che tutte le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi pattuite fino alla data di entrata in vigore della delibera del C.I.C.R. si dovessero considerare valide ed efficaci, sancendo l’inefficacia delle pattuizione successive al provvedimento amministrativo e divergenti dalla relativa disciplina. Tuttavia, subito dopo, è intervenuta la pronuncia di illegittimità costituzionale (Corte Cost. 17 ottobre 2000, n. 425) dell’art. 25, co. 3, d.lgs. 342/1999 per contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto la relativa delega legislativa non conteneva una disciplina di sanatoria per il passato e di validazione anticipata (per il periodo compreso tra l’entrata in vigore del decreto delegato e quella della prevista delibera del C.I.C.R.) di clausole anatocistiche bancarie. In seguito al decisum della Corte Costituzionale e del relativo vuoto normativo venutosi a creare, la
giurisprudenza della Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. n. 21095/2004) sancendo che “l’uso di annotare con cadenza trimestrale gli interessi a debito del correntista è un uso meramente negoziale e non normativo e, come tale, risulta inidoneo a derogare al disposto dell'art. 1283 c.c., anche con riferimento al periodo anteriore alle decisioni con cui la Corte di cassazione ha accertato, in difformità rispetto all'orientamento sino ad allora seguito, l’inesistenza di tale uso normativo, difettandone anche in relazione a tale epoca i presupposti”. Se ne desume, pertanto, che nell’ambito dei rapporti bancari regolati in conto corrente, relativamente al periodo antecedente all’entrata in vigore della delibera C.I.C.R. del 9 febbraio del 2000, sono nulle – in quanto contrastanti con il disposto dell’art. 1283 x.x. – xx xxxxxxxx xx xxxxxxxx xxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx xxxxxx dal correntista. Ad oggi, l’illegittimità della capitalizzazione degli interessi bancari per contrarietà alla norma imperativa è ormai un principio acquisito, tanto da poter essere ormai considerato vero e proprio "diritto vivente". Sotto tale profilo non può sottacersi che sull'argomento è intervenuta Cass., 20 agosto 2003, n. 12222, la quale ha confermato detto indirizzo (inaugurato da Cass, 16 marzo 1999, n. 2374), che ha ormai acquisito valore nomofilattico (in virtù della citata Xxxx., Sez. Un., n. 21095/2004), ribadendo in modo granitico una serie di altre pronunce conformi (Cass., 30.3.1999, n. 3096; Cass., 11.11.1999, n.12507; Cass., 13.6.2002, n. 8442; Cass., 28.3.2002, n. 4490; Cass., 6.12.2002, n.
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17338; Cass. 20.2.2003, n. 2953). Tale indirizzo, dunque, non può che essere condiviso e trovare ulteriore applicazione in questa sede. Quanto, poi, alla questione relativa agli effetti della illegittimità della capitalizzazione degli interessi, consistente nello stabilire se, al di là della sicura impossibilità di capitalizzare gli interessi con frequenza trimestrale, debba essere esclusa qualsiasi capitalizzazione ovvero possa individuarsi una diversa frequenza di capitalizzazione degli interessi (a favore di entrambe le parti del rapporto), va evidenziato, che, alla luce della pronuncia n. 24418/2010 delle Sezioni Unite della S.C., il problema possa ritenersi definitivamente risolto. In proposito, invero, le Sezioni Unite hanno affermato che “detta giurisprudenza, come è noto, ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare, nel settore bancario, una deroga ai limiti posti all'anatocismo dall'art. 1283 c.c.: ma non perché abbia messo in dubbio il reiterarsi nel tempo della consuetudine consistente nel prevedere nei contratti di conto corrente bancari la capitalizzazione trimestrale degli indicati interessi, bensì per difetto del requisito della "normatività" di tale pratica. Sarebbe, di conseguenza, assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l'esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale. Prima che difettare di normatività, usi siffatti non si rinvengono nella realtà storica, o almeno non nella realtà storica dell'ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi della fine degli anni novanta del secolo passato: periodo caratterizzato da una diffusa consuetudine (non accompagnata però dalla opinio uris ac necessitatis) di capitalizzazione trimestrale, ma che non risulta affatto aver conosciuto anche una consuetudine di capitalizzazione annuale degli interessi debitori, né di necessario bilanciamento con quelli creditori. Ne segue che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”. Non vi è, dunque, possibilità di sostituzione legale o di inserzione automatica di clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità, in quanto l’anatocismo è consentito dal sistema – con norma eccezionale e derogatoria - soltanto in presenza di determinate condizioni (quelle di cui all’art. 1283 c.c.), in mancanza delle quali esso rimane giuridicamente non pattuito tra le stesse. Inoltre, quanto ai contratti già esistenti prima del 22.4.2000 – data di entrata in vigore della menzionata delibera del C.I.C.R. -, si è ancora dibattuto se gli stessi possano essere adeguati con atto unilaterale della banca, ovvero se sia necessario l'accordo espresso del correntista. Infatti, l’articolo 7 della delibera disciplina i presupposti per l’adeguamento: pubblicazione in G.U. e comunicazione per iscritto al correntista entro il
31.12.2000 (co. 2), ovvero – nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate – l’approvazione del cliente (co.3). Al riguardo, si ritiene di aderire all’indirizzo interpretativo – sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria – che ritiene necessaria una specifica pattuizione scritta tra le parti. Le ragioni di tale necessità sono state giustificate in modo diverse dalle corti territoriali, ma l’esito delle relative argomentazioni conduce in ogni caso – ed anzi rafforza – la convinzione che le parti debbano addivenire ad un nuovo e specifico accordo sul punto. Infatti, secondo un primo orientamento “la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, secondo quanto stabilito dal CICR con delibera del 9 febbraio 2000, può trovare applicazione a condizione che essa sia reciproca (tanto su interessi debitori che su interessi creditori) e prevista in contratto. Con riferimento ai contratti stipulati nel periodo antecedente all’entrata in vigore della delibera CICR, è richiesta, ai fini della legittimità di tale capitalizzazione, la specifica pattuzione delle nuove modalità di capitalizzazione, non essendo sufficiente la mera comunicazione da parte dell’intermediario” (Trib. Piacenza, 27.10.2014): si sostiene cioè che, essendo venuto meno l’art. 25 co. 3 del
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d. lgs. 342/99 per effetto della sopra richiamata sentenza della Corte Costituzionale, l’art. 7 della delibera CICR – norma secondaria che era volta a darvi attuazione – deve ritenersi caducato (Trib. Torino, 6204/07; Trib. Benevento, 252/08; Trib. Venezia, 518/14). Secondo, invece, una diversa – e, ad avviso di questo Giudice, più convincente – argomentazione, si avrebbe comunque un peggioramento della disciplina attuale rispetto a quella previgente, in quanto si passa da un sistema in cui la capitalizzazione degli interessi era vietata (con la conseguente nullità delle relative clausole), ad un sistema in cui l’anatocismo diverrebbe legittimo: tale peggioramento, dunque, comporta l’applicabilità del citato art. 7, co.3, della delibera C.I.C.R., ai sensi del quale è necessario un nuovo accordo tra le parti. Xxxxxx, al riguardo, è una pronuncia del Tribunale di Venezia, conforme a pronunce di altri giudici di merito: “invero, tenuto conto che per le ragioni esposte la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori fino alla citata modifica legislativa doveva ritenersi in radice nulla, con esclusione pertanto di qualsiasi capitalizzazione degli interessi, va da sé che, nel momento in cui la banca, senza concludere un nuovo contratto, ma intervenendo unilateralmente sulle originarie previsioni negoziali, modifica la periodicità di capitalizzazione dei frutti creditori al fine (nella sua intenzione) di “sanare” e salvare l’originaria clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, che altrimenti - come detto - sarebbe nulla, introduce una variazione del tasso di interesse sfavorevole al cliente: ebbene, detta condotta, non risultando alcuna previsione per iscritto rilasciata in tal senso dal cliente medesimo, non è legittima e la relativa nuova clausola risulta nulla ai sensi dell’art. 117 del TUB” (Tribunale di Venezia, 22.1.2007; conf.: Tribunale di Benevento, del 18.2.2008 n. 252; Tribunale di Padova, sentenza del 27.4.2008). D'altronde, per mera completezza, si osserva che in seguito alla modifica dell’art. 120, co. 2 T.U.B. ad opera della l. n. 147/2013, a fronte di un primo indirizzo interpretativo secondo il quale tale norma legittimerebbe l’anatocismo solo una volta (e, quindi, operata una prima capitalizzazione, alle scadenze successive gli interessi dovrebbero essere computati solo sulla sorta capitale, dovendosi, di conseguenza, separare la componente capitale dagli interessi già capitalizzati); si sta consolidando un diverso e più uniforme indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il legislatore avrebbe introdotto un vero e proprio divieto generale di anatocismo (cfr. le recentissime ordinanze del Tribunale di Milano del 25 marzo 2015 n. 3558, e del 3 aprile 2015 n. 3562). In applicazione dei richiamati principi, nel caso di specie risulta fondata la deduzione di parte attrice avente ad oggetto l’illegittima previsione della clausola prevedente la capitalizzazione trimestrale, con la naturale conseguenza che la capitalizzazione trimestrale applicata dalla banca nel rapporto di conto corrente di cui è causa deve essere dichiarata illegittima e, conseguentemente, non deve essere applicata alcuna capitalizzazione. Una tale declaratoria di illegittimità non è di certo xxxxxxx -come invece sostenuto da parte convenuta- dalla mancata contestazione da parte della società attrice degli estratti conto in pendenza di rapporto. Va difatti ribadito quanto già precedentemente osservato sul punto, e cioè che, per costante giurisprudenza ( cfr. Cass. n. 12507/1999; Cass. n. 1978/1996; Trib. Genova 5.5.2002; X.Xxx. Lecce
598/2001; Trib. Pescara 4/7.4.2005), l’approvazione del conto – anche tacita - preclude qualsiasi contestazione circa la conformità delle singole e concrete operazioni sottostanti ai rapporti obbligatori da cui derivano gli addebiti e gli accrediti sotto il profilo meramente contabile, senza incidere sulla validità ed efficacia dei rapporti medesimi, che restano soggetti alle regole ordinarie. A ciò deve aggiungersi che lo stesso CTU ha evidenziato che negli atti non vi è una nota ufficiale con cui l’istituto di credito comunica al suo cliente l’adeguamento alla delibera CICR. Solo sul foglio 3/7 dell’estratto conto al 30.09.2001 risulta annotato: Capitalizzazione trimestrale” (cfr. Pag. 6 relazione tecnica). Parimenti infondata è l’eccezione, sollevata dalla banca convenuta, secondo cui la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi può operare quantomeno in relazione al periodo successivo alla delibera del CICR del 9 febbraio 2000, avendo essa adeguato la disciplina del rapporto in conformità con quanto prescritto da tale delibera.
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Stante, però, la nullità della capitalizzazione degli interessi anatocistici, sulla scorta di quanto sino ad ora osservato, non si deve – per un verso – dar luogo ad alcuna capitalizzazione degli interessi, neppure con una periodicità diversa da quella trimestrale, in quanto non può applicarsi il meccanismo di sostituzione automatica di clausole nulle; nonché – per altro verso – applicare alcun interesse anatocistico anche in seguito alla delibera C.I.C.R. per effetto della comunicazione inviata dalla banca all’attore e della pubblicazione dell’adeguamento delle condizioni contrattuali sulla Gazzetta Ufficiale, in quanto tali adempimenti non sono idonei a determinare una variazione unilaterale ed in senso negativo per il correntista delle condizioni contrattuali relative al rapporto di conto corrente di cui è causa. Correttamente, dunque, il nominato C.T.U. ha ritenuto di non dover applicare alcun tipo di capitalizzazione di interessi al rapporto di conto corrente oggetto del presente giudizio per l’intero corso del rapporto non essendo stata rinegoziata la capitalizzazione trimestrale reciproca, calcolando la somma dovuta dal Banco di Napoli all’attore in € 48.316,71.
2.2.Xxxxx commissione di massimo scoperto.
Quanto alla commissione di massimo scoperto, per la disamina del relativo regime giuridico, va individuato, in via preliminare, come la stessa debba essere intesa. Sul punto, si sono date due diverse definizioni: la prima, secondo la quale tale commissione è un’obbligazione pecuniaria restitutoria aggiuntiva, dovuta dal cliente bancario proporzionalmente al massimo saldo-avere registrato nel periodo di liquidazione degli interessi; la seconda, secondo la quale la commissione di massimo scoperto è una remunerazione dovuta per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall'effettivo prelevamento della somma stessa; parlandosi - nel primo caso - di commissione "sull'utilizzato", e - nel secondo caso - di commissione "sull'affidato”. Tale ultima tesi, a parere del Tribunale, appare la più corretta, non solo per l’ autorevole “avallo” ricevuto dalla Corte di Cassazione (Cass., 18 gennaio 2006 n. 870); ma anche alla luce della circolare della Banca d'Italia del 1° ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. xxxxx di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell'interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108 (quindi, dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto, cfr., in tal senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11772 del 06.08.2002). In ragione di tale definizione, la commissione di massimo scoperto è legittima solo se applicata in presenza di un’apertura di credito in conto corrente, con un computo sull’accordato e non sull’utilizzato. Successivamente, il c.d. decreto
«anticrisi» (d.l. 28 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009) ha stabilito , all’art. 2 bis, co.1, le condizioni affinchè la c.m.s. sia valida: 1) il saldo negativo del conto corrente deve avere una durata superiore a trenta giorni; 2) il conto deve essere "affidato" (non si applica più sugli sconfinamenti eventualmente tollerati dalla banca o su conti non affidati); infine, 3) va computata sull’utilizzato. Inoltre, tale decreto dispone, che la commissione per la sola messa a disposizione dei fondi è legittima solo se il compenso sia 1) predeterminato con un patto scritto non rinnovabile tacitamente; 2) pattuito in maniera omnicomprensiva (tale, cioè, da assorbire tutte quelle voci di spesa sull'apertura di credito, comunque denominate, che non siano riconducibili al tasso o alla «nuova» c.m.s.); 3) in misura proporzionale all'importo ed alla durata dell'affidamento richiesto
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dal cliente, di xxxxxx detto corrispettivo deve essere calcolato in termini percentuali o comunque proporzionali rispetto all'accordato; 4) evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza massima annuale; 5) non superiore allo 0,5% per trimestre dell'importo dell'affidamento, a pena di nullità del patto di remunerazione. Il successivo comma 3 del d.l. citato, poi, contiene una disciplina transitoria, prevedendo che «i contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono adeguati alle disposizioni del presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data. Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell'art. 118, comma 1, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni». A chiusura dell'evoluzione normativa che si è registrata al riguardo, è intervenuta la modifica dell’art. 117 bis T.U.B. (rubricato, appunto, “remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti”) ad opera dell’art. 6 bis, d.l. 6.12.2011 convertito – con modificazioni – dalla l. 22.12.2011 n. 214, secondo il quale la commissione di massimo scoperto deve essere calcolata sull’affidato (tanto che dovrebbe parlarsi di “commissione massimo affidato”), qualificandola - così - commissione omnicomprensiva calcolata in maniera proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente ed alla durata dell’affidamento, con un limite massimo percentuale sull’affidamento sempre pari allo 0,5 % (avendo come base di calcolo la somma massima messa a disposizione) a pena di nullità. In conclusione, posto che la esatta determinazione o determinabilità del criterio di computo della c.m.s. è requisito indefettibile ai fini della validità della relativa clausola ai sensi dell’art. 1346 c.c., la stessa commissione deve comunque rispettare i parametri imposti dal legislatore in virtù delle richiamate disposizioni. Xxxxxx, nel caso di specie, la commissione di massimo scoperto non risulta pattuita in contratto; ad essa si fa genericamente riferimento nel contratto di apertura di credito in conto corrente n. 27/2318, ma non è indicata né la base di calcolo né il tasso da applicarsi, sicché la sua assoluta genericità ed indeterminatezza né rende assolutamente nulla la pattuizione per violazione dell’art. 1346 c.c.
Ne deriva che il CTU correttamente ha ricalcolato i saldo dare/avere tra le parti scomputando la somma pretesa dalla Banca a titolo di c.m.s. e calcolata in € 21.890,15.
2.3.Sulla nullità degli interessi ultralegali pattuiti tramite clausola di rinvio ai cd. usi piazza.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4490/2002 ha chiarito che, nel regime anteriore alla entrata in vigore della disciplina dettata dalla legge sulla trasparenza bancaria 17 febbraio 1992, n.154, poi trasfusa nel testo unico 1 settembre 1993, n. 385, le clausole che regolano l'applicazione di interessi passivi per la clientela in misura superiore a quella legale devono essere caratterizzate dalla sufficiente univocità.
Per i contratti stipulati in epoca anteriore alla legge n. 154/1992, ma ancora in vigore, non essendo applicabile la nuova normativa, la validità della clausola relativa agli interessi deve, infatti, essere valutata esclusivamente in base all'art. 1284 comma terzo c.c.
Non è, quindi, necessario che "i contratti indichino il tasso d'interesse e ogni albo prezzo e condizione praticati", alla stregua del disposto dell'art. Il 7 del T.U., essendo condizionata la validità della pattuizione contenente la determinazione degli interessi unicamente al rispetto del requisito della forma scritta ed alla fissazione di un saggio di interesse determinabile e controllabile in base a criteri oggettivamente indicati.
Qualora la clausola sia nulla, i tassi debitori applicabili, anche per il periodo successivo all'entrata in vigore della legge n. 154/1992, sono nulli laddove abbiano superato la misura legale.
Quanto, in particolare, alla validità della clausola di determinazione del tasso d'interesse con riferimento alle condizioni praticate usualmente dalla banca, va richiamato il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la clausola in parola è nulla in quanto, perché una convenzione relativa agli interessi sia validamente stipulata ai sensi dell'art. 1284 c.c., comma 3, che è norma imperativa, la stessa deve avere un contenuto assolutamente univoco e contenere la puntuale specificazione del tasso di interesse; ove il tasso convenuto sia variabile, è idoneo, ai fini della sua precisa individuazione, il riferimento a parametri fissati su scala nazionale alla stregua di accordi interbancari, mentre non sono sufficienti generici riferimenti,
dai quali non emerga con sufficiente chiarezza quale previsione le parti abbiano inteso richiamare con la loro pattuizione (cfr. ex multis Cass. n. 17679/2009; Cass. n. 2317/2007; Cass. n. 4095/2005).
Il riferimento del contratto alle condizioni usualmente praticate dalla banca deve, pertanto, ritenersi del tutto generico e, conseguentemente, non idoneo a costituire valida pattuizione degli interessi ultralegali.
Nella fattispecie in esame, la pattuizione relativa al computo degli interessi contenuta nel contratto di c/c n. 2772318 è assolutamente generica perché il Banco di Napoli si è appunto limitato ad utilizzare la dicitura gli interessi dovuti dal correntista al banco, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producono interessi nella stessa misura.
Va altresì osservato che la mancata contestazione degli estratti conto, non vale a superare la nullità della clausola relativa agli interessi, perché l'unilaterale comunicazione del tasso d'interesse non può supplire al difetto originario di valido accordo scritto richiesto dall'art. 1284 c.c. (Cass. n. 17679/2009) né può essere considerata equipollente ad un nuovo accordo in ordine alla determinazione degli interessi.
Al riguardo, non può neppure essere valorizzato l'omesso esercizio da parte del cliente del diritto di recesso previsto dall'alt 118 T.U. n. 385/1993, da intendersi quale accettazione tacita del tasso debitore, considerato, peraltro, che una nuova pattuizione sugli interessi dovrebbe rivestire la forma prescritta dall'ari. 117 T.U. n. 385/1993.
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È noto, altresì, il generale principio normativo per cui "il contratto nullo non può essere convalidato se la legge non dispone diversamente" (art. 1423 c.c.), onde giammai una variazione unilaterale di una originaria clausola nulla (quella in ipotesi priva di forma scritta ovvero di rinvio all'uso piazza per la determinazione degli interessi ultralegali passivi) avrebbe potuto sanare quella invalidità originaria, così come è parimenti noto che l'esecuzione spontanea del contratto da parte dei contraenti non ne sana la nullità (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8993 del 05/06/2003; Cass. N. 11156 del 1994). Inoltre è opportuno ricordare come in tutti i suesposti casi di nullità del tasso di interesse, la conoscenza successiva del saggio applicato (nella specie, attraverso l'invio degli estratti conto) non varrebbe a sanare l'originario vizio di nullità della pattuizione, per carenza del requisito della determinabilità, la cui esistenza l'art. 1346 cod. civ. esige "a priori", al punto che non può essere individuato successivamente, tanto più quando il saggio non sia determinato da entrambe le parti ma da una di esse, che l'abbia portato a conoscenza dell'altra, attraverso documenti che abbiano il fine esclusivo di fornire l'informazione delle operazioni periodicamente contabilizzate e non anche di contenere proposte contrattuali, capaci dì assumere dignità di patto in difetto di espresso dissenso (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14684 del 02/10/2003; Cass. 1 febbraio 2002 n. 1287).
Da ciò deriva che, in assenza di prove circa una rinegoziazione delle condizioni contrattuali avvenute per iscritto, all'intero rapporto di conto corrente andranno applicati gli interessi al tasso legale ovvero a quello previsto ex art 117 TUB a seconda dell'epoca delle annotazioni e, in particolare, con il tasso di interesse legale di cui all' art. 1284 c.c. fino all'entrata in vigore della L. n. 154/92 e, a far data dal 9 luglio 1992, con il tasso sostitutivo di cui all'art 117 TUB. Nel procedere al detto calcolo si prende a riferimento la conclusione alla quale è giunto il CTU nella relazione iniziale (pag. 22) ove la somma vantata dall’attore è calcolata in € 53.911,59.
2.4. Sull’illegittimità di ulteriori addebiti per costi e spese e sul calcolo degli interessi usurari.
Solo per mera completezza espositiva, questo Tribunale evidenzia che non sono presi in considerazione i calcoli effettuati dal CTU con riferimento agli interessi usurari, pure richiesti dal precedente G.I. in assenza di ogni domanda da parte dell’attore, né le somme di cui il correntista pretende la restituzione a titolo di spese e costi non pattuiti.
Trattasi infatti, rispetto a tali spese di domanda generica, non specificando l’attore quali sarebbero le spese e i costi non pattuiti.
In conclusione, alla luce della ricostruzione compiuta dal CTU, depurato il rapporto delle somme addebitate dalla banca illegittimamente a titolo di commissioni di xxxxxxx xxxxxxx, interessi anatocistici e ultralegali, alla data del 31.03.2009 il conto corrente in essere deve presentare un saldo a debito a credito a favore del correntista di € 1.454,13.
3.Sul giudizio R.G. n. 1136/2010.
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Nel riunito giudizio R.G. n. 11136/2010, instaurato tra le medesime parti, l’attore Lo premesso che a seguito dell’instaurato giudizio di accertamento della nullità delle clausole contrattuali aventi ad oggetto capitalizzazione trimestrale, commissione massimo scoperto, interessi ultralegali, il Banco di Napoli ha ridotto l’affidamento bancario, ha chiesto al Tribunale di Xxxxx con ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso avverso il Banco di Napoli, il ripristino dell’apertura di credito sul conto corrente n. 27/2318, con aggiunta alla segnalazione rischi effettuata dal Banco di Napoli alla banca d’Italia della dicitura “che il credito è in contestazione giudiziaria” e l’inibitoria della segnalazione presso la Centrale rischi della Banca d’Italia di qualsiasi importo inferiore ad € 123.950,00 ovvero di ordinare di non segnalare tali somme quali crediti a sofferenza al Banco di Napoli s.p.a. (giudizio ex art. 700 c.p.c. conclusosi con ordinanza di parziale accoglimento del ricorso ordinando soltanto al Banco di Napoli di aggiungere alla segnalazione a sofferenza dell’importo effettuata alla Centrale Rischi la dicitura “credito in contestazione”, ha convenuto in giudizio il Banco di Napoli al fine di accertare l’illegittima segnalazione a sofferenza e per l’effetto condannare il Banco di Napoli al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla illegittima revoca dell’affidamento nonché dall’illegittimità della segnalazione a sofferenza, entrambe effettuate in violazione dei principi di correttezza e buona fede.
Come già evidenziato nell’ordinanza conclusiva del giudizio ex art. 700 c.p.c. la revoca dell’affidamento da parte della Banca non può essere qualificata come arbitraria e improvvisa. Xx xxxxxx, l’istituto di credito ha proceduto alla riduzione (peraltro modesta dell’apertura di credito concessa) da € 123.950,00 ad € 100.000,00 il 22.10.2209. Con successiva missiva del 23.11.2009 il Banco di Napoli ha invitato il Sig. Lo a rientrare nei limiti del fido accordato, precisando che tale riduzione si è resa necessaria a causa dell’utilizzo irregolare della linea di credito, perdurante da moltissimo tempo, con frequenti sconfinamenti e ritardi nel pagamento delle rate del finanziamento in essere. Nessun legame ha detta riduzione con la vertenza per anatocismo intervenuta.
Soltanto con missiva del 18.06.2010 la Banca ha proceduto alla revoca dell’affidamento di € 100.000,00. Orbene, l’apertura di credito concessa al sig. Lo sul conto corrente n. 27/2318 è contratto a tempo indeterminato al quale dunque trova applicazione l’art. 1845 c. 3 c.c. a norma del quale se l’apertura di credito è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi, o in mancanza in quello di quindici giorni.
Nel caso di specie, all’art. 4 del contratto di apertura di credito è previsto che il banco ha la facoltà di recedere in qualsiasi momento, anche con comunicazione verbale, dall’apertura di credito ancorché concessa a tempo determinato, nonché di ridurla o di sospenderla: per il pagamento di quanto dovuto verrà dato al cliente con lettera raccomandata, un preavviso non inferiore ad un giorno. Analoga facoltà di recesso ha il cliente con effetto di chiusura dell’operazione mediante il pagamento di quanto dovuto.
L’art. 1845 c.c. è, quindi, norma dispositiva derogabile convenzionalmente dalle parti che possono fissare un termine di preavviso inferiore rispetto a quello legale o, addirittura, di escluderlo, con conseguente immediatezza degli effetti del recesso. Unico limite al potere di recesso ad nutum, è rappresentato dall'esercizio con modalità contrastanti i principi di correttezza e buona fede (Cfr. Trib. Roma 1.03.2017, n. 4104, Cass. 22.11.2000, n. 15066; Cass. 14.07.2000, n. 9321). Alla luce dell'art. 1186 c.c., inoltre, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date [ artt. 2743, 2813] o non ha dato le garanzie che aveva promesse.
Neppure può essere accolta la tesi sostenuta dal correntista di invalidità della detta clausola per nullità del contratto in quanto carente della sottoscrizione della Banca, in considerazione di quanto detto in precedenza e cioè della validità del contratto monofirma a seguito dell’intervento risolutore delle Sezioni Unite n. 898/2018.
Nel caso di specie, per quanto in astratto non sembra che la Banca abbia esercitato la facoltà di recesso in maniera arbitraria o illegittima, posto che la stessa è avvenuta solo a seguito degli inviti rivolti al correntista quanto al ripristino dei versamenti e a seguito di rilevati ritardi e irregolarità nel pagamento delle rate di mutuo concesso, va rilevato come la stessa si sia rivelata illegittima alla luce della rideterminazione del saldo nel rapporto dare/avere tra le parti pari non ad € 103.449,67 ma ad un saldo a favore del correntista di € 1.454,13. Certamente, dunque, deve essere disposto il ripristino del affidamento bancario nei limiti di € 100.000,00.
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Quanto all’illegittima segnalazione alla centrale rischi, questa come è noto trova la sua ratio risponde ad un'esigenza di ordine generale, volta a tutelare l'intero sistema economico e ad evitare che venga concesso credito a soggetti che non saranno prevedibilmente in grado di restituire quanto ricevuto. L'obbligo della segnalazione è previsto a carico delle banche che, vantando un credito inadempiuto nei confronti di un soggetto, a seguito di adeguata istruttoria si avvedano della sua situazione di difficoltà, simile allo stato di insolvenza, sebbene non così grave. In tale ottica, quindi, è evidente come il vantare un credito non è un vero e proprio requisito di legittimità della segnalazione a sofferenza, essendo tale circostanza solo l' occasione che permette all' istituto bancario di svolgere l'istruttoria per vagliare la situazione economico-finanziaria del debitore. Non sembra, quindi, necessario che il credito sia certo ed incontestato tra le parti, anche perché altrimenti sarebbe facile per chiunque evitare di essere segnalato a sofferenza, semplicemente contestando il credito (cfr. Trib. Napoli, 1.12.2017). Ciò che più conta al fine di vagliare la legittimità della segnalazione, invece, sembrano essere il preavviso all'interessato e l'adeguata istruttoria che la banca deve svolgere e dalle cui risultanze deve emergere la situazione di difficoltà economica del debitore.
Ebbene, l’istruttoria espletata ha evidenziato come la Banca non abbia ottemperato all’ordine del giudice attraverso l’allegazione della dicitura “credito in contestazione”. Con riguardo al credito in contestazione, di recente la giurisprudenza ha evidenziato che non può essere considerata lecita una segnalazione di un credito contestato (cd. “credito litigioso”), qualora la contestazione abbia i caratteri della non manifesta infondatezza e quando siffatta contestazione sia alla base del rifiuto del cliente (riconducibile giuridicamente alla cd. “autotutela” di cui all’art. 1460 c.c.) di adempiere alla obbligazione pecuniaria oggetto di segnalazione (cfr. Trib. Como 10.10.2016). Nella fattispecie in oggetto, deve evidenziarsi che la Banca ha proceduto alla revoca del fido il 18.06.2010 e che alla data del 21.07.2010 ha informato il correntista che non era stata effettuata ancora alcuna segnalazione a sofferenza, così sottraendosi all’onere di preavvisare il correntista quanto alla segnalazione. Invero, la società opponente ha contestato il credito nel 2009 per illegittima applicazione di tassi di interesse ultralegali, anatocismo, commissioni e spese non dovute, chiedendo la rettifica del saldo. Tale contestazione non risulta prima facie manifestamente infondata, avuto riguardo alla data di apertura del conto corrente oggetto di causa, risalente al 1990, epoca in cui erano comunemente attuate pratiche di indebita capitalizzazione, commissione massimo scoperto e interessi ultralegali. Inoltre, la banca non ha dato prova di un mutamento in peius delle condizioni economiche del cliente, idoneo a dimostrare che la società opponente versasse, al momento della segnalazione, in una situazione patrimoniale di grave e non transitoria difficoltà economica. Gli sconfinamenti, infatti, non sono indice di per sé, in assenza di segnali di mancati pagamenti dei creditori, di incapacità non transitoria di adempiere alle obbligazioni assunte, tale da giustificare una segnalazione alla Centrale dei Rischi (Trib. Milano, 29.08.2014). La banca non ha fornito ulteriori elementi, quali la presenza di protesti, iscrizioni di ipoteche giudiziali, provvedimenti monitori, azioni esecutive, idonei a provare, al momento della segnalazione, lo status di insolvenza. Solo nella comparsa conclusionale depositata il 18.12.2017 il Banco di Napoli allega di aver intrapreso procedura di pignoramento per il recupero delle rate di mutuo rimaste impagate, procedura di cui tuttavia non stata fornita alcuna prova quanto ad
incardinamento e prosecuzione. Tali elementi consentono, al contrario, di ritenere che la banca non abbia operato unavalutazione della complessiva situazione patrimoniale del cliente, necessaria per effettuare la segnalazione. Quanto al periculum in mora, la segnalazione alla Centrale Rischi ha effetti altamente negativi sulla possibilità, per il soggetto segnalato, di accedere al credito, in quanto essa determina una sorta di reazione negativa a catena del ceto bancario (Trib. Milano, 16.06.2015), come dimostrato anche dalla documentazione prodotta da parte opponente (cfr. produzione allegata alla memoria ex art. 183 c. 6 n. 2 c.p.c.), la quale versa in una effettiva situazione di difficoltà di accesso al credito.
Tenuto conto della lesione del diritto all’immagine e alla reputazione del soggetto, esercente attività imprenditoriale, il danno subito (con esclusione del preteso danno alla salute che non vi è prova possa essere causalmente collegato alle azioni intraprese nei confronti della Banca) può essere liquidato in via equitativa –a anche in considerazione dei tempi dei due giudizi riuniti – in € 5.000,00 (cinquemila/00) oltre interessi legali dal deposito della presente sentenza all’attualità.
4.Sulle spese di lite.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, facendo applicazione dei valori medi, decurtati del 50% ed aumento del 20% in forza dell’avvenuta riunione dei giudizi ex art. 4 D.M. n. 55/2014, stante il carattere routinario della controversia, con distrazione in favore dell’Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx dichiaratosi antistatario ai sensi dell’art. 93 c.p.c.
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In applicazione del medesimo principio della soccombenza, le spese della CTU compiuta nel giudizio R.G. n. 1084/2009 liquidate con separato decreto in € 2.796,50 (duemilasettecentonovantasei/50) sono poste definitivamente a carico del Banco di Napoli s.p.a.
P.Q.M.
Il Tribunale di Xxxxx, in persona del G.M. Dott.ssa Xxxxx Xxxxxx, definitivamente pronunciando nelle causa civili riunite R.G. n. 1084/2009 e R.G. n. 1136/2010 aventi ad oggetto CONTRATTI BANCARI, pendenti tra
Lo – attore – e Banco di Napoli s.p.a. in persona del legale rappresentante p.t. – convenuto – ogni contraria istanza disattesa, così provvede:
1.Accerta e dichiara la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi pattuiti nel contratto di conto corrente n. 27/2318;
2.Accerta e dichiara la nullità della clausola di commissione di xxxxxxx scoperto in relazione al contratto di conto corrente n. 27/2318;
3.Accerta e dichiara la nullità della clausola di pattuizione degli interessi ultralegali del contratto di conto corrente n. 27/2318 e che alla data del 31.03.2009 il saldo del conto corrente era a credito del correntista per l'importo di Euro 1.454,13, in luogo di quello debitore risultante dagli estratti conto;
4.Dichiara l’inammissibilità della domanda di ripetizione dell’indebito; 5.Dichiara l’illegittimità della revoca dell’affidamento di € 100.000,00 e Per l’effetto:
Ordina al Banco di Napoli s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., di ripristinare l’apertura di credito per € 100.000,00;
Dichiara illegittima la segnalazione del nominativo del sig. Lo alla centrale rischi presso la Banca d’Italia e
Per l’effetto:
Condanna il Banco di Napoli s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., al pagamento a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, in favore di Lo della somma di € 5.000,00 oltre interessi legali dalla data del deposito della presente sentenza e sino al soddisfo;
Condanna il Banco di Napoli s.p.a. in persona del legale rappresentante p.t., al pagamento delle spese di lite che nella già ridotta aliquota del 50% e dell’aumento del 20%, si liquidano in complessivi € 3.617,00
(tremilaseicentodiciassette/00) così suddivisi: € 716,00 (settecentosedici/00) per spese ed € 2.901,00 (duemilanovecentouno/00) per compenso professionale, oltre il 15% rimborso spese generali oltre IVA e
C.P.A. se dovute come per legge, con distrazione in favore dell’Avv. Xxxxxxx Xxxxxxx ex art. 93 c.p.c.
Pone definitivamente a carico del Banco di Napoli s.p.a. in persona del legale rappresentante p.t. delle spese della compiuta CTU già liquidate con separate decreto in € 2.796,50 (duemilasettecentonovantasei/50).
Così deciso in Paola il 10.02.2018.
Il Giudice Xxxxx Xxxxxx
IL XXXX.xx