Ausili didattici per la formazione sindacale 3
Centro Studi Nazionale CISL
Xxxxx Xxx • Xxxxxxxxx Xxxxx
Conciliazione arbitrato certificazione dei contratti di lavoro
Ausili didattici per la formazione sindacale 3
2006
Presentazione
Nella più recente produzione legislativa particolare attenzione è rivolta agli strumenti di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro mediante il rilievo assunto dagli istituti della conciliazione e dell’arbitrato.
Un ulteriore impulso al riguardo viene dalla legge 14 febbraio 2003, n.30, delega in materia di occupazione e mercato del lavoro (cd."legge Biagi"), e dai relativi decreti attuativi (n.276/2003 e n.251/2004), con l'attribuzione ad apposite commissioni, da istituire anche presso gli enti bilaterali, di una funzione di certificazione dei contratti di lavoro nonché di consulenza ed assistenza alle parti individuali.
Si tratta di uno dei nuovi ambiti in cui si potrà sperimentare in concreto la bilateralità, che peraltro sarà in grado di produrre risultati solo se gestita da persone motivate e competenti.
A tal fine è sembrato utile, in coerenza con lo sviluppo della collaborazione con il sistema universitario intrapresa nell'ultimo periodo dal Centro Studi di Firenze, promuovere in partnership con l’Università di Firenze e con il coordinamento nazionale Cisl degli uffici vertenze uno specifico percorso formativo di perfezionamento universitario sulla “Risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro”. Questa dispensa, curata da Xxxxxxxxx Xxxxx, tutor del corso, mira a puntualizzare i tratti essenziali della disciplina emersi dal corso e si pone come utile traccia per chi sia
interessato ad approfondire la materia.
Xxxxx Xxx
INDICE
Introduzione
Capitolo primo
LA GARANZIA DEI DIRITTI DEI LAVORATORI
1.1 Rinunzia e transazione.
1.2 Indisponibilità delle norme e disponibilità dei diritti.
1.3 Prescrizione e decadenza.
Capitolo secondo
LA CONCILIAZIONE E L’ARBITRATO
2.1 Profili generali.
2.2 Il procedimento conciliativo
2.3 La conciliazione nella Pubblica Amministrazione.
2.4 Riflessioni sullo strumento conciliativo e, in particolare, sulla possibile valorizzazione della conciliazione sindacale.
2.5 La conciliazione monocratica (riforma d.lgs. 124/2004).
2.6 L’arbitrato.
2.7 L’impugnabilità del lodo «irrituale».
Capitolo terzo
LA CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO
3.1 Premessa: le due funzioni della certificazione (qualificativa e di consulenza ed assistenza alle parti).
3.2 I soggetti abilitati.
3.3 Il procedimento di certificazione.
3.4 Gli effetti della certificazione.
Bibliografia di riferimento
1. LA GARANZIA DEI DIRITTI DEI LAVORATORI
1.1 Rinunzia e transazione.
Il diritto del lavoro trova il suo fondamento nella tutela della parte debole del rapporto di lavoro, il lavoratore, inevitabil- mente in uno stato di inferiorità socio-economica rispetto all’altra, il datore di lavoro, il quale dispone degli strumenti della produzione e quindi di un “potere di fatto” in grado di condizionare in modo rilevante la gestione del rapporto.
L’ordinamento giuridico riconosce tale disparità di poteri, facendo, anzi, di questa inferiorità l’asse portante della disciplina del rapporto di lavoro mediante una normativa di tutela e di sostegno del lavoratore.
Al fine di salvaguardare interessi che non sono soltanto quelli del singolo prestatore di lavoro, ma che si assumono come superindividuali (o collettivi), l’ordinamento prevede a favore del lavoratore una serie di garanzie esterne e sovraordinate alla volontà delle parti, sottratte alla libera disponibilità negoziale. Attraverso la tecnica dell’inderogabilità delle norme protettive, dunque, l’autonomia privata viene fortemente limitata. Ove, peraltro, datore di lavoro e lavoratore diano luogo ad una transazione o ad una rinuncia avente ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore, in virtù dell’art. 2113 c.c., quest’ultimo può sempre impugnarle nel termine di 6 mesi qualora siano avvenute fuori delle sedi di conciliazione.
L’art. 2113, co. 1° c.c., stabilisce, infatti, che non sono valide le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro “derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi” concernenti i rapporti di lavoro subordinato oppure autonomo ed associato sottoposti alla competenza del giudice del lavoro (di cui all’art. 409 c.p.c.).
In generale, la rinunzia è l’atto (negozio unilaterale recettizio, art. 1324 c.c.) tendente alla dismissione (con efficacia abdicativa o traslativa) di un diritto soggettivo da parte del titolare.
La transazione (art. 1965 c.c.) è il contratto mediante il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, rimuovono una lite esistente o prevengono una lite eventuale futura.
Detto ciò, il lavoratore che avesse, per semplice ignoranza o perché, spinto dal bisogno, sottoscritto una dichiarazione lesiva dei suoi interessi e da cui si evinca la rinuncia a diritti a lui riconosciuti dalla legge o dal contratto collettivo potrà dare forma giuridica al suo ripensamento (o pentimento), “impugnando” la rinunzia o transazione con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, cioè non necessariamente rivolto all’autorità giudiziaria, idoneo a renderne nota la volontà.
Al fine però di dare stabilità alle situazioni giuridiche derivanti dal rapporto di lavoro, dovrà farlo entro un termine di decadenza relativamente breve, fissato in 6 mesi “dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione della medesima” (art. 2113, co. 2°, c.c.).
Vale la pena di sottolineare che l’atto di impugnazione previsto dall’art. 2113 c.c. – al pari dell’analogo atto di impugnazione del licenziamento – deve essere redatto in forma scritta a pena di inefficacia (ad esempio, con lettera raccomandata). La sua funzione è, infatti, quella di comunicare tale volontà al datore di lavoro.
1.2 Indisponibilità delle norme e disponibilità dei diritti.
Come accennato, il principio ispiratore dei contratti in ambito civilistico, fondato sulla valorizzazione dell’autonomia negoziale delle parti, non si addice all’ambito lavoristico, dove
il fondamento delle norme di tutela del lavoratore è invece quello della inderogabilità, che limita fortemente l’autonomia negoziale dei contraenti, impedendo al lavoratore di gestire in modo pieno i propri interessi.
Dall’altro lato è necessario però capire cosa si intenda per “diritti indisponibili”, ossia quei diritti che non rientrano nella piena potestà dispositiva del prestatore di lavoro. Per semplicità, l’individuazione di tali diritti può essere così sintetizzata:
1) diritti riconosciuti dalla Costituzione (es. tutela della salute e sicurezza, diritto alle ferie, diritto al riposo settimanale, ecc..);
2) diritti riconosciuti dalle norme di legislazione sociale (es. orario di lavoro, tutela dei minori, ecc..);
3) diritti derivanti dai contratti collettivi (es. retribuzione, qualifica, mansioni, ecc..);
Sulla base di tale elencazione sembrerebbe che tutti i diritti derivanti dalla legislazione giuslavoristica e dalla contrattazione collettiva siano totalmente sottratti alla disponibilità delle parti. In realtà così non è, in quanto altrimenti non vi sarebbe alcuno spazio per l’ipotesi conciliativa: affermare che un diritto è indisponibile, infatti, non significa al contempo che non si possano trovare soluzioni in ordine alle sole conseguenze patrimoniali derivanti dal mancato riconoscimento (totale o parziale) di tale diritto da parte datoriale.
Ad esempio, il diritto alle ferie è sicuramente un diritto costituzionalmente garantito, a cui è impossibile rinunciare. Appare tuttavia legittima una conciliazione in ordine ai soli effetti economici derivanti dalla mancata fruizione di tale istituto, da parte del lavoratore, a titolo risarcitorio.
Soltanto alcune residuali ipotesi danno vita a diritti che nascono ab origine come “derogabili” e quindi disponibili
dalle parti, ma si tratta di ipotesi estremamente limitate, in quanto dalla giurisprudenza sono stati riconosciuti tali solo quei diritti di natura patrimoniale derivanti da un accordo diretto tra datore di lavoro e lavoratore e che pongono condizioni migliorative rispetto ai minimi contrattuali (es. superminimi retributivi) nonché quei diritti derivanti da normative legali o contrattuali che esplicitamente fanno riferimento alla loro derogabilità su accordo tra le parti.
Ulteriore condizione per la disponibilità del diritto è che questo sia stato “maturato” dal lavoratore e che quindi sia entrato nella sfera giuridica dello stesso, in virtù dell’attività lavorativa prestata. Da ciò si ricava che a tutt’oggi nel nostro ordinamento non è possibile negoziare eventuali rinunce alla fruizione di particolari diritti o garanzie scaturenti dalla disciplina lavoristica prima della instaurazione del rapporto di lavoro.
In conclusione appare fondamentale la distinzione tra inderogabilità della norma e disponibilità del diritto. L’inderogabilità ha a che fare con la produzione della norma giuridica, nel senso che non si può scrivere una regola diversa; la disponibilità del diritto ha invece a che fare con quanto già entrato nel patrimonio del soggetto.
Il legislatore, inoltre, ha voluto specificare che un negozio di transazione o un atto di rinuncia, per essere
«inimpugnabile», deve essere necessariamente concordato in sede di conciliazione, (giudiziale, amministrativa o sindacale), in cui vi sia la presenza di un soggetto terzo (legale o sindacale) che faccia venir meno la condizione di inferiorità negoziale del lavoratore (art. 2113, co. 4°).
Il legislatore, pertanto, attribuisce piena validità - e quindi la inimpugnabilità - solo a quelle rinunce e transazioni avvenute secondo la procedura sopra descritta, a testimonianza che, una volta compensato lo squilibrio di potere negoziale tra le parti,
anche la stabilità e la certezza delle situazioni giuridiche scaturenti dal rapporto di lavoro meritano di essere tutelate.
1.3 Prescrizione e decadenza.
Un aspetto ulteriore è quello concernente il regime temporale entro cui far valere le ragioni derivanti dai diritti attinenti al rapporto di lavoro. Premesso che, in termini generali, l’ordinamento giuridico ha tra i suoi principi quello della “certezza” delle situazioni giuridiche – certezza che sotto il profilo di carattere temporale è garantita mediante gli istituti della prescrizione e della decadenza - si tratta di vedere come, in ambito lavoristico, operino tali istituti.
Il legislatore stabilisce che i diritti del prestatore di lavoro sono soggetti ad un periodo di prescrizione inferiore rispetto a quella ordinaria decennale (art. 2946 c.c.) e sottoposti alla prescrizione breve quinquennale (disposta dall’art. 2948, co. 4° e 5°), concernente, in genere, tutto quello che deve essere pagato periodicamente ad anno o in termini più brevi, nonché le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, in virtù della loro tipica qualità di crediti di natura retributiva. L’operatività dunque della prescrizione ordinaria deve considerarsi situazione eccezionale, verificabile nei casi in cui dal rapporto di lavoro derivino al prestatore di lavoro diritti diversi da quello alla retribuzione (es., secondo la giurisprudenza, il diritto alla qualifica superiore); analogamente, in materia di risarcimento del danno per il mancato versamento dei contributi assicurativi il termine di prescrizione è quello decennale, previsto dall’art. 2946 c.c., con decorrenza dal verificarsi dell’evento dannoso.
Ogni diritto, quindi, si estingue per prescrizione (c.d. prescrizione estintiva), quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge (art. 2934 c.c.), pur avendo la
possibilità legale di farlo valere: la prescrizione, normalmente, comincia a decorrere dal giorno in cui tale astratta possibilità matura (art. 2935 c.c.).
Tuttavia, quando entriamo nell’ambito dei rapporti di lavoro, la decorrenza dei termini va valutata con particolare attenzione in quanto strettamente connessa con la posizione di inferiorità socio-economica in cui versa una delle parti del rapporto.
Infatti, durante il periodo in cui si trova alle dipendenze e sotto il potere direttivo del datore di lavoro, il lavoratore può essere condizionato dal timore del licenziamento, e perciò limitato nella sua libertà di agire in giudizio per far valere i propri diritti.
Questo principio è stato enunciato dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza 10 giugno 1966 n. 63, con cui si è argomentato che il timore del licenziamento produce l’effetto di una soggezione, quantomeno psicologica, del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, tale da impedirgli l’esercizio pieno dei propri diritti. Dunque, la rinuncia al credito quando è fatta in costanza di rapporto non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale. In virtù di questa argomentazione la Corte ha ritenuto opportuno spostare il termine di inizio di decorrenza della prescrizione alla fine del rapporto di lavoro.
La sussistenza del rapporto di lavoro viene qui considerata come un vero e proprio impedimento all’azione del lavoratore di convenire in giudizio il suo datore di lavoro; ostacolo che viene superato, secondo la Suprema Corte, quando tale rapporto si estingue.
Nel corso del tempo, tuttavia, grazie anche all’introduzione dello Statuto dei Lavoratori, ed in particolare dell’articolo 18
- che garantisce la reintegrazione, il risarcimento del danno e il pagamento della retribuzione a seguito dell’annullamento del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo - la
Xxxxx ha ritenuto di dover ridimensionare tale principio, affermando che non decorrono i termini prescrizionali in costanza di rapporto di lavoro solo qualora non si applichi la disciplina limitativa dei licenziamenti (sentenza Corte Cost. n.174 /1972).
Pertanto, la regola generale della decorrenza dei termini prescrizionali dalla data di effettiva maturazione del diritto trova applicazione in tutti quei rapporti dotati di “stabilità” e di “resistenza”, nei quali si presume che, per la particolare posizione di garanzia goduta dal lavoratore, quest’ultimo non subisca alcun condizionamento nell’agire in via giudiziale o extragiudiziale nei confronti del datore di lavoro.
La stessa logica, tesa a garantire la certezza degli accordi intervenuti durante il rapporto di lavoro, si ritrova anche (e in misura ben più stringente) nella disciplina delle rinunce e transazioni di cui abbiamo precedentemente trattato.
Il legislatore, infatti, ha posto un termine perentorio, decorso il quale il lavoratore non potrà più impugnare l’atto di rinunzia o il contratto di transazione: si tratta di un periodo di 6 mesi che decorre dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, ove la rinuncia o la transazione siano avvenute nel corso del rapporto medesimo, ovvero entro 6 mesi dalla data della rinuncia o della transazione, qualora esse siano intervenute successivamente alla cessazione di quest’ultimo (art. 2113, co. 2°, c.c.).
Tale periodo di tempo entro il quale il lavoratore deve necessariamente agire per invalidare l’atto di rinuncia o il contratto di transazione prende il nome di “decadenza”. Questo istituto giuridico - in virtù del quale “un diritto deve esercitarsi entro un dato termine”- non estingue il diritto in capo al titolare (risultato finale, invece, della prescrizione), ma gli preclude la possibilità di esercitarlo.
Il periodo di decadenza, a differenza di quello della prescrizione, quindi, non può essere né interrotto né sospeso: decorso tale termine, l’esercizio del diritto è definitivamente precluso.
Riguardo alla questione della decorrenza dei termini ai fini della perdita dell’esercizio del diritto, la Corte costituzionale, seguendo la stessa logica usata per la prescrizione, con la sopra indicata sentenza n. 174/1972, ha indicato, anche per la decadenza decadenza, quella medesima regola che già abbiamo visto, secondo la quale il termine non inizia a decorre durante il rapporto, ma alla cessazione dello stesso, almeno quando questo sia privo delle menzionate caratteristiche di
«stabilità» e di «resistenza».
2. LA CONCILIAZIONE E L’ARBITRATO
2.1 Profili generali
Conciliazione e arbitrato sono istituti giuridici diretti alla soluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, ossia tecniche che consentono al datore di lavoro e al lavoratore, qualora lo vogliano, di sciogliere il conflitto esistente tra loro al di fuori dalle aule del tribunale.
In generale, mentre la conciliazione è indirizzata a risolvere il conflitto attraverso la ricerca di un accordo tra le parti (che può essere raggiunto autonomamente dalle stesse o “favorito” dall’intervento di un terzo, la commissione di conciliazione), l’arbitrato consente di risolvere la controversia attraverso il deferimento ad un terzo – all’arbitro, appunto – del potere di decisione sul merito della stessa.
Previsti nel nostro ordinamento a partire dal codice del 1942 e rivisitati poi dalla riforma del processo del lavoro (con legge
n. 533/1973), gli istituti della conciliazione e dell’arbitrato trovano l’attenzione del legislatore soltanto sul finire degli anni ’90, quando la crescente inefficienza dell’apparato giudiziario (che rischia di trasformarsi in una vera e propria paralisi) induce a migliorarne la disciplina per farli diventare una possibile alternativa al giudice.
Il decreto legislativo n. 80/1998, in particolare, introduce l’obbligo del tentativo di conciliazione per tutte le cause di lavoro e ne rende l’espletamento quale «condizione di procedibilità» per la successiva domanda in giudizio (art. 410 e 412-bis c.p.c.). In altri termini le parti, prima di accedere al giudice, sono tenute – attraverso il supporto dell’organo conciliatore – ad abbandonare le proprie iniziali posizioni per trovare una soluzione comune. Se a seguito del tentativo di
conciliazione nessun accordo è raggiunto, la controversia irrisolta verrà sottoposta all’attenzione del giudice.
Sebbene la conciliazione rappresenti uno strumento già presente nel nostro ordinamento, il fatto che venga accompagnata dalla obbligatorietà costituisce elemento di sicura novità rispetto al passato. Tuttavia, gran parte della dottrina non ha risparmiato critiche circa l’efficacia della nuova formulazione in termini deflattivi del contenzioso. Infatti, è stato più volte obiettato che il tentativo obbligatorio di conciliazione non rappresenta altro che un rallentamento del decorso giudiziario, considerando l’istituto un mero adempimento burocratico. Il suo successo, invece, è strettamente collegato all’esercizio di un’effettiva attività conciliativa della commissione. Il “pesante silenzio” del legislatore sui contenuti dell’istanza di conciliazione – a differenza di quanto puntualmente previsto per le controversie del pubblico impiego, per le quali si richiede, invece, l’esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa, il che consente alla commissione di conciliazione e, in particolare, ai rappresentanti delle parti di avere una conoscenza preventiva sui motivi che hanno portato al dissenso e di predisporre quindi un possibile “piano” di mediazione della controversia – non ha fatto altro che alimentare un tal genere di critiche.
Un ulteriore intervento legislativo di perfezionamento dell’istituto conciliativo, sull’esempio di quanto predisposto per il pubblico impiego, sarebbe dunque decisamente auspicabile.
L’ordinamento giuridico predispone tre sedi di conciliazione (a cui se ne sono aggiunte altre due per effetto della riforma del mercato del lavoro, legge 30/2003 e relativi provvedimenti attuativi).
Le «classiche» sedi di conciliazione sono:
1) La conciliazione in sede amministrativa, disciplinata dagli artt. 410-412-bis, c.p.c., la quale si esplica di fronte alle Commissioni di conciliazione istituite presso gli Uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione (adesso Direzioni provinciali del lavoro o, per semplicità, Dpl) del luogo in cui si svolge l’attività dell’impresa;
2) La conciliazione in sede sindacale, prevista dai contratti collettivi per la soluzione delle controversie relative alla loro applicazione;
3) La conciliazione in sede giudiziale, che può essere promossa in ogni momento del processo su iniziativa del giudice, qualora si presentino le condizioni idonee a realizzarla.
I momenti conciliativi di «nuova generazione» riguardano invece:
4) La conciliazione presso gli enti bilaterali, che in base alle novità introdotte dal D.Lgs. n. 276/2003 (attuativo della “Legge Biagi”), sono individuati non solo quali soggetti abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro ma, ai sensi dell’art. 82 del suddetto decreto, anche come sedi in cui possono avere luogo “rinunzie e transazioni di cui all’articolo 2113 del codice civile a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse”;
5) La conciliazione monocratica, ovvero quella introdotta dal D.Lgs. n. 124/2004, di riforma dei servizi ispettivi, con la quale si consente al funzionario della Direzione provinciale del lavoro, di avviare il tentativo di conciliazione nelle ipotesi di richieste di intervento ispettivo e in quelle di normale accertamento qualora emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia.
2.2 Il procedimento conciliativo
Gli artt. 410, 410-bis, 411, 412, 412-bis c.p.c. (così come modificati dai D.Lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998) disciplinano il procedimento conciliativo.
L’articolo 410 c.p.c., «tentativo obbligatorio di conciliazione», dispone innanzitutto per l’alternatività della scelta tra l’utilizzo delle procedure conciliative amministrative e quelle sindacali. Il lavoratore (ma anche il datore di lavoro) che intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409 c.p.c., può infatti scegliere liberamente se avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi o affidarsi all’attività della commissione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione ha luogo il rapporto di lavoro.
La comunicazione della richiesta di conciliazione deve essere fatta pervenire dal soggetto interessato - anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato - alla commissione la quale, entro dieci giorni dal ricevimento, convoca le parti per una riunione, tentando in quella sede la conciliazione della controversia.
A seguito della comunicazione, il periodo di prescrizione si interrompe ed il termine di decadenza si considera sospeso fino ai venti giorni successivi alla conclusione del tentativo stesso (art. 410, co. 2°, c.p.c.). L’inoltro della domanda rappresenta, infatti, manifestazione di volontà di rivendicare il diritto in sede di giudizio.
Il termine previsto per l’espletamento del tentativo di conciliazione è stabilito dall’art. 410-bis c.p.c. in sessanta giorni dalla presentazione della richiesta. Se le parti non si presentano alla riunione nel giorno stabilito dalla commissione senza darne spiegazione, lasciando trascorrere tale termine inutilmente senza che alcun tentativo di conciliazione sia stato
espletato, ai sensi dell’art. 412-bis c.p.c. il tentativo si considera comunque esaurito “ai fini della procedibilità” della domanda per agire in giudizio, ovvero per rimettere la soluzione della controversia ad un arbitro.
Se invece le parti convocate si presentano regolarmente di fronte alla commissione per espletare il tentativo di conciliazione, la procedura conciliativa trova il suo inizio e potrà dare luogo o meno ad un accordo. Infatti:
• Se la conciliazione ha esito positivo, ai sensi dell’art. 411 c.p.c., si forma «processo verbale di conciliazione», che deve essere sottoscritto dalle parti e dal presidente del collegio, il quale attesta l’autenticità delle firme. Il verbale così redatto viene depositato a cura delle parti o dell’Ufficio provinciale del lavoro nella cancelleria della Pretura nella cui circoscrizione è stato formato; il pretore, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.
Nel caso in cui il tentativo di conciliazione si sia svolto con successo in sede sindacale, il processo verbale di avvenuta conciliazione non viene consegnato direttamente presso la cancelleria della Pretura ma viene preventivamente esaminato nella sua autenticità dal direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro. Soltanto dopo questo ulteriore passaggio il verbale potrà essere depositato presso la cancelleria della Pretura nella cui circoscrizione è stato redatto e reso esecutivo con decreto del pretore.
La Direzione provinciale del lavoro non è dunque solo luogo fisico in cui si svolgono le conciliazioni ma la sede di controllo dei processi conciliativi che si attivano nel suo ambito territoriale di competenza.
• Al contrario, se la conciliazione dà esito negativo, si forma
«verbale di mancata conciliazione» (art. 412 c.p.c.). In questo documento devono essere contenute le ragioni del
mancato accordo che verranno prese in considerazione dal giudice nel successivo giudizio, ai fini della ripartizione delle spese.
La previsione tende ad incentivare le parti a considerare in termini anche economici la “partita” che stanno giocando in sede conciliativa: la loro “resistenza” a trovare un accordo potrebbe infatti essere influenzata dalla “minaccia” di un cospicuo esborso finanziario cui potranno andare incontro una volta avviato il processo.
Può succedere poi che le parti trovino un accordo anche solo parziale della controversia: in questo caso sono tenute ad indicarlo nel verbale di mancata conciliazione, assieme all’ammontare del credito che spetta al lavoratore, ove possibile. Il processo verbale così redatto acquista efficacia di titolo esecutivo, in osservanza alle procedure descritte dall’art. 411 c.p.c. poc’anzi esaminate.
Se invece le parti ricorrono al giudice senza aver prima promosso alcun tentativo di conciliazione, il giudice è obbligato a sospendere il giudizio, fissando alle parti il termine perentorio di 60 giorni per promuoverlo. Una volta trascorso il termine suddetto, il processo può essere riassunto entro 180 giorni; ove il processo non venga tempestivamente riassunto, il giudice dichiara d’ufficio l’estinzione dello stesso tramite decreto.
2.3 La conciliazione nella Pubblica Amministrazione.
Xxxxxx soffermarsi brevemente sulla diversa procedura conciliativa contemplata per il pubblico impiego. Innanzitutto, è da ricordare che in questo settore l’obbligo del tentativo di conciliazione era presente ben prima dell’intervento riformatore del 1998 (art. 69 del d.lgs. n. 29/1993).
La struttura prevista per la conciliazione nel pubblico impiego mantiene però pur sempre marcati caratteri di specialità rispetto al privato, consistenti nella diversa qualità e tipologia della presenza sindacale, che assume in questa sede, venature arbitrali. Ciò è dimostrato dal fatto che, ai sensi dell’art.69- bis, co. 3° e 4°: a) il lavoratore ha la possibilità di scegliere il proprio rappresentante sindacale nel collegio di conciliazione, così come l’Amministrazione ha la possibilità di scegliere il proprio, munito del potere di conciliare; b) nella richiesta del tentativo di conciliazione - trasmessa a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento all’ufficio della Direzione Provinciale del Lavoro (ove si svolge la conciliazione) e all’Amministrazione di appartenenza - deve essere necessariamente contenuta l’esposizione sommaria dei fatti intervenuti e le ragioni poste a fondamento della pretesa;
c) qualora l’Amministrazione non accolga la pretesa del lavoratore, deve depositare le proprie osservazioni scritte alla Direzione Provinciale del Lavoro, entro 30 giorni dal ricevimento di copia della richiesta.
- Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto il processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio che costituisce titolo esecutivo;
- Se non viene raggiunto l’accordo tra le parti, il collegio di conciliazione è tenuto a formulare una proposta «per la bonaria definizione della controversia»; proposta la cui accettazione o meno assume rilievo - similmente a quanto previsto dall’art. 412 per il settore privato – ai fini della ripartizione delle spese processuali nel successivo giudizio. Tale disposizione mira a penalizzare ingiustificati ricorsi al giudice ed incentivare invece l’esito positivo del procedimento conciliativo.
L’istituto conciliativo per il pubblico impiego consente pertanto, in ultima analisi, l’originarsi di un dibattito che avviene sulla base di una conoscenza (anche se sommaria) dei termini della controversia; cosa che invece non è prevista nella procedura conciliativa del settore privato, dal momento che all’interno della richiesta trasmessa all’organo di conciliazione non vi è alcun obbligo per le parti convenute di specificare i termini del contenzioso.
Inoltre nel settore pubblico è assicurata una certa dialettica tra i membri della commissione, e tra questi e le parti, grazie alla presenza di soggetti che effettivamente rappresentano le stesse, poiché scelti espressamente per essere portatori dei loro interessi nella controversia.
2.4 Riflessioni sullo strumento conciliativo e, in particolare, sulla possibile valorizzazione della conciliazione sindacale.
L’istituto della conciliazione è considerato come quello che meglio si presta ad evitare che il dissidio insorto tra le parti possa trasformarsi in un vero e proprio conflitto. In questa sede, infatti, attraverso la mediazione di un soggetto conciliatore, le parti sono invitate a desistere dalle loro iniziali posizioni ed a trovare una soluzione comune che soddisfi entrambe. L’esito positivo del procedimento è un accordo, il quale consente alle parti di proseguire in un clima sereno il rapporto di lavoro.
Va da sé che il ruolo di mediazione dell’organo conciliatore è destinato a rivestire, in questo contesto, un’importanza strategica e funzionale al successo dell’istituto, nella misura in cui realmente le parti vengano “sospinte” a trovare un accordo anche qualora inizialmente non lo vogliano.
Non vi è dubbio che all’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione abbia presieduto prioritariamente una visione utilitaristica, denunciata del resto dallo stesso legislatore delegante (legge delega n. 15 marzo 1997, n. 59). L’obiettivo immediato era quello di prevenire disfunzioni della giustizia civile a seguito del passaggio al giudice ordinario delle controversie in materia di pubblico impiego. Vale la pena tuttavia evidenziare che dallo schema della obbligatorietà può derivare una valorizzazione delle procedure di conciliazione sindacale, che godono – grazie alla previsione enunciata dall’art. 410 del c.p.c. - di uno status di alternatività paritaria con le conciliazioni in sede amministrativa.
Proprio la conciliazione sindacale, a seguito dell’adozione dello schema dell’obbligatorietà, ha subìto infatti le maggiori innovazioni, tali da renderla forse concorrenziale rispetto a quella amministrativa, a ragione o a torto fin qui privilegiata dai lavoratori e dalle stesse associazioni sindacali.
La conciliazione in sede amministrativa, per contro, non è stata nel complesso oggetto di alcuna modifica, se si esclude una maggiore formalizzazione della fase finale, relativa all’indicazione dei motivi del mancato accordo che permetterà al giudice di imputare alle parti le spese del successivo giudizio (art. 412 c.p.c.).
La conciliazione in sede sindacale, a fronte della precedente assenza di disciplina (salvo la stabilità assicurata dall’art. 2113 c.c.), viene considerata equivalente alla conciliazione amministrativa ai fini deflattivi del contenzioso; pertanto, anche al tentativo di conciliazione in sede sindacale si rendono applicabili le disposizioni relative all’espletamento entro 60 giorni dalla richiesta (art. 410-bis c.p.c.), al contenuto del processo verbale di mancata conciliazione e all’efficacia di titolo esecutivo in caso di soluzione parziale (art. 412 c.p.c.). La maggior formalizzazione ex lege delle procedure si è resa
necessaria a fronte dell’incardinamento della conciliazione sindacale nello schema del tentativo obbligatorio quale requisito processuale. Ed invero, anche laddove ciò non sia previsto dai contratti collettivi, il tentativo di conciliazione in sede sindacale dovrà essere attivato attraverso una richiesta formale scritta (proprio perché da esso comunque decorre il termine di 60 giorni) e dovrà essere redatto un verbale di mancata conciliazione, con indicazione delle ragioni del fallito accordo.
Dai recenti accordi sindacali è poi emersa la tendenza a valorizzare la soluzione extragiudiziale delle controversie di lavoro. Pertanto la nuova disciplina consente alle parti sociali di controllare l’amministrazione del contratto collettivo al fine di evitare sia il conflitto sia l’intervento del giudice. In tale ottica la giustizia privata assume una vera e propria «funzione alternativa» alla giustizia statale.
A questo scopo si rende auspicabile non soltanto che il contratto collettivo preveda una maggiore procedimen- talizzazione dell’istanza di conciliazione - che, sull’esempio di quella prevista per le controversie del pubblico impiego, contenga l’esposizione sommaria dei fatti e le ragioni poste a fondamento della pretesa - ma che lo stesso sindacato si impegni per la riqualificazione dei propri operatori e la riorganizzazione dei servizi di consulenza.
Nella misura in cui le associazioni sindacali – e in maggior misura gli enti bilaterali - riescano ad accreditarsi come sedi di efficace riuscita delle conciliazioni si può pensare ad una loro funzione di effettivo supporto all’attività del giudice e degli Uffici provinciali del lavoro. Il che comporta, fra l’altro, una riorganizzazione dei servizi nonché una revisione delle convenzioni o delle prassi instaurate tra gli uffici vertenze e i legali di riferimento.
2.5 La conciliazione monocratica (riforma d.lgs. 124/2004)
Come accennato il legislatore, nell’ambito del più generale riordino dei servizi ispettivi, ha introdotto, con il D.Lgs. n. 124/2004, un altro importante istituto, la c.d. conciliazione monocratica.
Si tratta di uno strumento direttamente volto a risolvere le controversie di carattere patrimoniale insorte tra datore di lavoro e lavoratore e che è destinato ad incidere sulla volontà conciliativa delle parti molto di più delle classiche sedi (sindacali e amministrative).
In generale, l’art. 11 comma 1° del D.Lgs. n. 124/2004, prevede che «nelle ipotesi di richieste di intervento ispettivo», qualora «emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia, la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente può, mediante un proprio funzionario, anche con qualifica ispettiva, avviare il tentativo di conciliazione sulle questioni segnalate».
La medesima procedura conciliativa può aver luogo anche nel xxxxx xxxxx xxxxxxx xxxxxxxx xx xxxxxxxxx, qualora l’ispettore ritenga che sussistano i presupposti necessari per una soluzione conciliativa della controversia (art. 11, co. 6, d.lgs. 124/2004).
Pertanto, come ha avuto cura di specificare la circolare ministeriale 24 giugno 2004 n. 24, sono due le forme in cui la conciliazione monocratica può concretamente svilupparsi:
a) La «conciliazione preventiva», che segue di norma alla richiesta di intervento ispettivo da parte del lavoratore o dell’organizzazione sindacale che lo rappresenta;
b) La «conciliazione contestuale», che segue l’espletamento di un accesso ispettivo, nell’ambito dell’attività di vigilanza.
Il presupposto fondamentale che permette al funzionario della Direzione provinciale del lavoro di avviare il procedimento di conciliazione è il carattere necessariamente patrimoniale della controversia (ad esempio, il mancato pagamento della retribuzione o di alcune componenti della stessa) con probabili riflessi anche sul mancato pagamento dei contributi previdenziali; inoltre, non devono emergere chiari indizi di violazioni penalmente rilevanti (per esempio, l’impiego di lavoratori in nero o il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza nel posto di lavoro), poiché in tal caso il personale della Dpl dovrà procedere direttamente all’accertamento ispettivo.
La conciliazione può attivarsi anche nelle ipotesi in cui il lavoratore non sia subordinato ma sia, invece, titolare di un rapporto di lavoro autonomo (es. contratto a progetto o collaborazione coordinata e continuativa nelle ipotesi residuali di cui al decreto legislativo n. 276/2003).
Nel caso in cui, invece, la richiesta di intervento provenga da un lavoratore il cui contratto di lavoro sia stato oggetto di certificazione, e siano state riscontrate difformità tra il programma negoziale certificato e quanto effettivamente realizzato (si pensi, ad esempio, ad un contratto a progetto certificato che però si sia svolto con tutti i tratti del rapporto subordinato), non vi è possibilità di intervento da parte del conciliatore monocratico. Ai sensi dell’art. 80, co. 4°, D.lgs. n. 276/2003, infatti, chi intende presentare ricorso giurisdizionale contro la certificazione deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla Commissione che ha certificato il contratto per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c.
In caso di accordo il verbale, sottoscritto dal funzionario, acquisisce piena efficacia ed estingue il procedimento ispettivo, a condizione che il datore di lavoro provveda al
pagamento integrale, nel termine stabilito, sia delle somme dovute a qualsiasi titolo al lavoratore, sia al versamento totale dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi determinati sulla base della legislazione vigente ma con riferimento alle somme concordate in sede di conciliazione (cf. circolare n. 24/2004).
Ciò significa che, qualora l’accordo in sede conciliativa monocratica si determini su parametri retributivi di misura inferiore ai minimali contrattuali, ai fini previdenziali il computo degli oneri contributivi e assicurativi va comunque operato con riferimento ai minimali di legge, se l’importo oggetto di conciliazione è inferiore ai predetti minimali.
Nel caso in cui non venga raggiunto un accordo, oppure nel caso di assenza di una o di entrambe le parti convocate, la Direzione provinciale del lavoro dà seguito agli accertamenti ispettivi (art. 11, comma 5°).
La particolarità della conciliazione monocratica risiede proprio in questo: nel velato “ricatto” sotteso alla mancata volontà di trovare un accordo (si dà per scontato che si tratti di quella del datore di lavoro) e che ha come conseguenza l’accertamento ispettivo in azienda del funzionario della DPL che assumerà la veste di ufficiale di Polizia giudiziaria.
2.6 L’arbitrato
Accanto alla conciliazione il legislatore del 1998 ha deciso di dare impulso anche all’istituto dell’arbitrato.
Tramite l’arbitrato le parti pervengono alla composizione della controversia attraverso il deferimento ad un terzo – l’arbitro, appunto - del potere di decisione. Esso trova la sua fonte nell’accordo compromissorio, che può essere contenuto nel contratto di compromesso oppure nell’ambito di un’apposita clausola c.d. “compromissoria”.
La differenza tra compromesso e clausola compromissoria consiste nella diversa modalità identificativa delle controversie devolute agli arbitri:
- Con la clausola compromissoria, inserita generalmente nel contratto, le parti si impegnano a deferire ad arbitri tutte le controversie eventuali e future che dovessero insorgere in merito all’applicazione di quel contratto (art. 808 c.p.c.).
- Con il compromesso invece, nel momento in cui una determinata lite è già insorta, le parti convengono di devolvere ad arbitri detta specifica controversia (art. 806 c.p.c.).
Il nostro ordinamento conosce due tipi di arbitrato, quello rituale e quello irrituale. Anche se la funzione svolta è comune - giudicare e decidere una controversia consensualmente deferita dalle parti ad un organo privato (monocratico o collegiale) attraverso la conclusione dell’accordo compromissorio – l’arbitrato rituale ha natura giurisdizionale e si configura come un vero e proprio giudizio sostitutivo di quello del giudice; è disciplinato integralmente dal codice di procedura civile (artt. 806-831) e il suo epilogo fisiologico (il c.d. “lodo”) può sempre aspirare ad ottenere l’esecutività del giudice statale e dunque un’efficacia pari a quella di una sentenza; l’arbitrato irrituale, invece, ha natura negoziale, è disciplinato dai contratti collettivi e il “lodo” può ottenere l’esecutività del giudice soltanto qualora la legge preveda espressamente tale possibilità. Tuttavia, come vedremo in seguito, gli artt. 412 ter e quater c.p.c. - introdotti dal d.lgs. n. 80/1998 - consentono al lodo arbitrale di ottenere l’esecutività nonostante la natura irrituale, per effetto del decreto del magistrato.
A) In particolare, l’arbitrato rituale si svolge come un vero e proprio giudizio, secondo norme procedurali stabilite dalle
stesse parti nel compromesso o nella clausola compromissoria. Esso conduce alla formazione di un atto (“lodo”) che acquista autorità di sentenza mediante un decreto di omologazione emesso dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro, una volta che quest’ultimo ne abbia verificato la regolarità formale (art. 825, co. 5°, c.p.c.).
Avendo natura giurisdizionale - e dunque configurandosi come un vero e proprio giudizio sostitutivo di quello del giudice togato - l’arbitrato rituale è oggetto di una disciplina fortemente vincolistica. Esso è infatti ammesso, ai sensi dell’art. 808 c.p.c., solo nel caso in cui il contratto o accordo collettivo lo preveda come facoltativo e secondo diritto: deve, quindi, essere consentita, a pena di nullità, la facoltà di ciascuna delle parti di adire il giudice; tanto se prevista nel contratto collettivo quanto se contenuta nel contratto individuale, la clausola compromissoria deve inoltre essere considerata nulla qualora autorizzi gli arbitri a decidere secondo equità; il lodo infine non può essere dichiarato non impugnabile: il lodo è impugnabile, oltre che per i casi sopraindicati previsti dall’art. 829 c.p.c., anche per «violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi», per questo verso equiparati alle norme di legge. La disciplina pretende, quindi, non solo l’osservanza delle norme di diritto, ma anche quella delle norme dei contratti e degli accordi collettivi.
B) L’arbitrato irrituale ricorre invece quando le parti rimettono – sempre mediante compromesso o clausola compromissoria - all’arbitro la risoluzione della controversia in via negoziale e non giurisdizionale (in sostanza viene deferito al terzo l’accertamento convenzionale delle situazioni soggettive litigiose). In questo caso l’atto formato dal terzo
(chiamato ugualmente “lodo”) ha natura negoziale ed effetti contrattuali.
Tuttavia, come dicevamo, mediante la riforma del 1998 è stata dettata una disciplina organizzativa e procedurale dell’istituto che presenta forti tratti di originalità rispetto al passato, potendo il lodo dell’arbitrato irrituale diventare esecutivo con decreto del giudice qualora vengano rispettate le regole procedurali contenute negli artt. 412-ter e quater del c.p.c.
Difatti, l’art. 412-ter c.p.c. stabilisce che qualora il tentativo di conciliazione sia stato espletato senza esito (o comunque decorso il termine, di 60 giorni, previsto) le parti «possono concordare» di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia tra loro insorta, a condizione che i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro contemplino tale facoltà e contengano una serie di regole procedurali, quali:
a) Le modalità della richiesta di devoluzione della controversia al collegio arbitrale e il termine entro il quale l’altra parte può aderirvi;
b) La composizione del collegio arbitrale e la procedura per la nomina del presidente e dei componenti;
c) Le forme e i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria;
d) Il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo;
e) I criteri per la liquidazione dei compensi agli arbitri.
Ci troviamo di fronte, dunque, ad una vera e propria “procedimentalizzazione” dell’istituto arbitrale, disciplinato dai contratti collettivi, richiesta espressamente dalla legge, che costituisce innovazione non di poco conto in materia: con le previsioni di cui alle lett. da a) ad e) dell’art. 412-ter c.p.c. il legislatore ha attribuito infatti un ruolo decisivo ai sindacati, rimettendo alla responsabilità della contrattazione collettiva la precostituzione delle clausole c.d. “strutturali” per l’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro. Ciascuna parte, una volta
che la lite è insorta, ha l’opportunità (e non l’obbligo) di proporre all’altra la scelta della via della giurisdizione privata, conoscendone a priori le caratteristiche essenziali. Cosa non da poco visto che si tratta di elementi decisivi per una più efficace risoluzione della controversia. Basti pensare alla scelta degli arbitri e del presidente (anche se non sembra necessariamente trattarsi di un arbitrato collegiale), al termine
– essenziale – per la pronuncia del lodo e alle spese della procedura, che potrebbero essere contenute di molto qualora contratti o accordi collettivi istituissero collegi o camere arbitrali stabili definendo criteri per la liquidazione dei compensi.
La normativa lascia dunque ampi spazi di intervento alla contrattazione collettiva. Perché il patto individuale di compromettere ad arbitri la controversia sia valido è tuttavia necessario che la regolazione collettiva non solo consenta il ricorso all’arbitrato, ma disciplini compiutamente tali aspetti della procedura.
La contrattazione collettiva, dispone dunque di tre possibilità:
1) quella di tacere, conferendo validità assoluta al divieto di accordi compromissori;
2) quella di “abilitare” la fruibilità di una predeterminata clausola compromissoria per arbitrato rituale, strutturata secondo le previsioni dell’art. 808 c.p.c.;
3) quella di regolare i confini entro i quali le parti possono ricorrere, una volta che la lite sia insorta, ad un contratto di compromesso per arbitrato “irrituale”, ai sensi dall’art. 412-ter c.p.c., comunque in grado di ottenere l’esecutività del giudice. Il successo o meno dell’istituto arbitrale “irrituale” pertanto, sarà direttamente collegato al contenuto che vi daranno i contratti collettivi, in termini di garanzia di celerità, di regolarità del procedimento e terzietà dell’organo.
La possibilità poi per i contratti e accordi collettivi di istituire collegi o camere arbitrali stabili non rappresenta altro che una ulteriore opportunità che il legislatore ha voluto attribuire alla autonomia contrattuale per rendere l’arbitrato ancora più una reale alternativa al giudizio ordinario. Infatti, nella misura in cui le sedi arbitrali stabili siano in grado di offrire giudizi autorevoli per competenza e consapevolezza degli interessi in gioco, ma anche e soprattutto per tempi rapidi di decisione, si può ipotizzare un ruolo addirittura promozionale dell’istituto.
2.7 L’impugnabilità del lodo «irrituale».
A differenza dell’arbitrato rituale, quello previsto dai contratti collettivi è soggetto ad un regime di impugnabilità molto meno rigido. Infatti, mentre nella prima stesura della riforma dell’istituto arbitrale irrituale - originata dal decreto legislativo
n. 80/1998 - i motivi di impugnazione del lodo erano da rinvenirsi nella «violazione di disposizioni inderogabili di legge e difetto assoluto di motivazione», il decreto correttivo
n. 387/1998, attualmente in vigore, fa riferimento soltanto a controversie «sulla validità del lodo arbitrale», nulla dicendo sui motivi di impugnazione.
Sembrerebbe così che il legislatore voglia configurare il lodo arbitrale come decisione non attaccabile nonostante violazioni anche gravi di norme legali e contrattuali. Senonché l’espressa qualificazione dell’arbitrato come irrituale comporta che il lodo venga considerato come un atto negoziale: di conseguenza, esso sarà soggetto all’azione di nullità per violazione di norme imperative di legge e a quella di annullabilità in relazione ai vizi della volontà. Inoltre, dovrebbe ritenersi possibile agire per vedere dichiarate la nullità del lodo anche per vizi del patto compromissorio, ed in particolare nel caso in cui il contratto collettivo che disciplina
l’arbitrato non rispetti i contenuti dell’art. 412-ter c.p.c. (che deve ritenersi norma imperativa) ovvero non preveda la facoltatività dell’arbitrato rispetto alla via giudiziale. Si potrebbe ritenere invece che il lodo non possa essere impugnato per violazione delle norme inderogabili del contratto collettivo (a differenza di ciò che avviene per l’arbitrato rituale, in base all’art. 829 c.p.c.), in quanto eliminato quale motivo di impugnabilità ad opera dell’art. 43, d.lgs. 80/1998. L’arbitro “irrituale” sarebbe dunque autorizzato a pronunciare il lodo secondo equità.
Il ricorso all’equità appare plausibile nel momento in cui l’interpretazione dell’arbitro è indirizzata alla integrazione, e non alla sostituzione delle disposizioni fissate dalla legge o dalle parti sociali. Siffatto utilizzo dell’equità sembra oltretutto particolarmente efficace specie in tema di determinazione del quantum risarcibile, sia in termini di maggiori interessi (rispetto a quelli legali o convenzionali), sia in termini di risarcimento dei danni extrapatrimoniali. Si pensi al caso in cui non risulti possibile, ad esempio, l’esatta determinazione della somma dovuta al lavoratore per l’opera prestata o alla possibilità di determinare in via equitativa il periodo di ferie o il periodo di preavviso nel caso di recesso dal contratto a tempo determinato.
Resta peraltro confermato che le residue differenziazioni ancor oggi esistenti tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale risiedono (per scelta legislativa) esclusivamente nelle diversità procedurali e, soprattutto, nel carattere di specialità attribuito dal legislatore alla dichiarazione di esecutività del lodo e alla sua impugnazione, ma non ai suoi effetti di decisione finalizzata alla composizione di una lite.
3. LA CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO
3.1 Premessa: le due funzioni della certificazione (qualificativa e di consulenza ed assistenza alle parti)
La profonda riforma del mercato del lavoro operata con la Legge n. 30/2003 e poi con il successivo D.lgs. attuativo n. 276/2003, ha introdotto nel nostro ordinamento nuove tipologie di contratto, che, se da un lato hanno inteso venire incontro alle esigenze di flessibilità delle imprese, dall’altro danno luogo al moltiplicarsi di occasioni di contenzioso giudiziario; allo stato attuale, infatti, si assiste ad una innegabile maggiore difficoltà per le parti, ma anche per il giudice - chiamato ad esprimersi sulla qualificazione del rapporto di lavoro - ad inquadrare in modo corretto il contratto stipulato, nell’una o nell’altra delle diverse fattispecie.
Consapevole di ciò, il legislatore ha voluto predisporre procedure per la certificazione dei contratti di lavoro, con le quali fornire certezza al momento iniziale della stipula del contratto.
L’istituto della certificazione, come espressamente indicato dagli artt. 75 e 81 del d.lgs. n. 276/2003 assolve principalmente a due distinte funzioni: quella, rispettivamente, di esatta qualificazione dei contratti di lavoro e quella di consulenza e assistenza alle parti in relazione alla stipulazione del contratto medesimo e alle sue eventuali successive modifiche.
La prima funzione, come enunciato dall’art. 75 del D.lgs. 276/2003, ha l’obiettivo esplicito di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro, mirando a prevenire il sorgere stesso delle controversie che possono derivare dall’incerta natura del contratto che si intende stipulare.
La seconda funzione, di consulenza e assistenza effettiva alle parti contrattuali, attribuisce invece alle sedi di certificazione il compito di fornire tutte le informazioni utili per una scelta consapevole, come enunciato dall’art. 81 del decreto, del contratto che si intende realizzare e del relativo programma negoziale (nonché in relazione alle modifiche del programma negoziale medesimo concordate in sede di attuazione del rapporto di lavoro, con particolare riferimento alla disponibilità dei diritti e alla esatta qualificazione dei contratti di lavoro).
Si tratta di un intervento di carattere sperimentale, che sarà oggetto di verifica nella sua applicazione pratica con le organizzazioni sindacali. Esso trae origine dal ben più ambizioso progetto delineato all’interno del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia (ottobre 2001), nel quale la certificazione aveva lo scopo di realizzare una sorta di derogabilità assistita dei diritti del lavoratore. Secondo tale modello infatti le parti in sede di certificazione, assistite dalle rispettive rappresentanze sindacali, avrebbero avuto la possibilità di costruire ex ante una disciplina specifica adeguata al singolo rapporto di lavoro, con possibilità di deroga - entro certi limiti – ai precetti imperativi, di legge e di contratto collettivo. Ciò che è stato invece realizzato (e non poteva essere diversamente, dal momento che la legge ammette la sola gestione dei diritti che siano già maturati dal lavoratore, e non quelli non ancora entrati nel suo patrimonio) è la predisposizione di uno strumento che persegue le più “modeste” finalità di qualificazione del contratto di lavoro e di assistenza alle parti.
Tuttavia le aspettative nei confronti dell’istituto certificativo non sono da trascurare, confidando in larga parte anche sulla capacità del contratto certificato di resistere agli accertamenti difformi degli Enti (Inps, Inail, Agenzia delle entrate, ecc.) nei
confronti dei quali è destinato ad avere riflessi. Difatti, gli effetti dell’atto di certificazione permangono – ai sensi del comma 1° dell’art. 80 del decreto - sia tra le parti che nei confronti dei terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili. Tutto ciò, ancora una volta, nell’ottica della ricerca di certezza della volontà contrattuale, che si intende “cristallizzata” al momento della certificazione, e che permane fino a contrario accertamento del giudice.
La procedura di certificazione trova oggi applicazione per tutti i tipi di contratto, a differenza di quanto stabilito originariamente dal comma 1°, art. 75 d.lgs. 276/2003, che si riferiva invece ai soli contratti di: lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale, a progetto, i contratti di associazione in partecipazione, i regolamenti di cooperativa e i contratti di appalto di servizi. L’articolo suddetto è stato infatti novellato dall’art. 18 del decreto correttivo n. 251/2004 che estende dunque la procedura ad ogni tipologia lavorativa. Questo significa che sarà possibile certificare anche un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “ordinario”, specie nei casi in cui la subordinazione si dovesse presentare in forma attenuata (ad esempio, lavori ad alta componente intellettuale, svolti in accentuata autonomia operativa: giornalista, professionista, dirigente). Restano esclusi i contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione; del resto le peculiari modalità con le quali tali contratti vengono instaurati (concorso sulla base di un preciso bando, di una formale domanda, di ben definite prove, di una graduatoria impugnabile avanti al giudice amministrativo) lasciano ben pochi dubbi sulla natura dei contratti stessi che, si potrebbe dire, nascono già certificati.
Il momento della certificazione è quello della stipulazione del contratto o quello della stipulazione di un accordo
modificativo o novativo di un precedente contratto; non può essere certificato un contratto già stipulato. Infatti, se oggetto della certificazione fosse il momento attuativo del rapporto contrattuale, il certificatore dovrebbe disporre di poteri istruttori (interrogare le parti, ascoltare testi, acquisire documenti, ecc.) e non vi è traccia né nella legge delega, né in quella delegata di simili poteri. Inoltre, dato che l’art. 81 prevede di svolgere anche attività effettiva di consulenza ed assistenza alle parti, non si capisce in che misura sarebbe possibile svolgere questo compito rispetto ad un contratto già in essere.
3.2 I soggetti abilitati.
L’art. 76 abilita all’attività di certificazione commissioni ad hoc costituite presso:
• Gli enti bilaterali: questi sono definiti dall’art. 2, comma 1°, lett. h), D.lgs. 276 quali soggetti di diritto privato costituiti “a iniziativa di una o più associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”. La commissione di certificazione può essere istituita, ai sensi del comma 1°, lett. a) dell’art. 76, presso gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento, ovvero a livello nazionale quando la commissione di certificazione è costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale. Il legislatore nulla dice in relazione alla composizione di questi organi, da stabilirsi assieme alle procedure che regolano l’attività della commissione. Non vi è dubbio che l’ente bilaterale sia chiamato in questo caso a svolgere una funzione prettamente pubblica, giacché la certificazione è dotata non solo di un’efficacia persuasiva, ma anche inibitoria rispetto agli eventuali provvedimenti adottati dalle autorità
pubbliche. Il soggetto bilaterale deve pertanto essere in grado di svolgere al meglio il ruolo di certificatore dei contratti, sia in ordine alla rigorosa padronanza della tecnica giuridica, che alla necessaria attitudine a percepire i reali interessi sottesi al singolo caso concreto;
• Le Direzioni provinciali del lavoro e le Province, secondo quanto stabilito dal comma 1° lett. b) dell’art. 76 del decreto e, in un secondo momento, dal Decreto Ministeriale 21 luglio 2004, che individua le modalità attraverso le quali tali enti dovranno espletare l’attività di certificazione. In particolare si evidenzia come a livello di articolazione provinciale si sia in presenza di ben due organi di certificazione (sia pure dalla composizione diversa): benché le Province non abbiano particolari competenze tecniche sull’argomento, la prospettazione di uno specifico organo sulla materia nasce dal parere espresso dalla Conferenza unificata sullo schema di decreto attuativo della legge n. 30/2003 (c.d. Xxxxx Xxxxx) che constatava come i Centri per l’impiego, in particolare, e le Province, in generale, svolgano attività promozionale tra domanda ed offerta di lavoro, con funzioni di consulenza, orientamento e servizi di preselezione. E pertanto si qualificano tra i soggetti maggiormente idonei a realizzare la qualificazione del contratto di lavoro. A ben vedere, tuttavia, queste ultime non compaiono in una lettera a parte dell’art. 76, che individua gli organi presso cui si formano le commissioni di certificazione, bensì vengono ricomprese nella medesima lettera che abilita alla certificazione le Direzioni provinciali del lavoro.
Ciò consente di ipotizzare forme di coordinamento tra soggetti che agiscono sullo stesso territorio provinciale, eventualmente in sedi ad hoc in cui potranno essere coinvolti
gli istituiti di previdenza, le parti sociali, gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro, ecc.. A maggior ragione, se si considera che l’unico elemento che differenzia i due tipi di commissione (in seno alla DPL e alla Provincia) è inerente alla composizione delle stesse: mentre la commissione di certificazione istituita presso la DPL vede la sola presenza di funzionari pubblici (Dirigente preposto in funzione di presidente della commissione, due funzionari appartenenti al Servizio politiche del lavoro, due rappresentanti appartenenti, rispettivamente, all’Inps ed all’Inail. A titolo consultivo possono partecipare alla riunione, analogamente a quanto previsto per la Provincia, un rappresentante dell’Agenzia delle entrate ed uno del Consiglio provinciale degli ordini professionali individuati dalla legge n. 12/1979), quella costituita presso la Provincia conta anche sulla presenza - oltre che del dirigente del servizio provinciale e tre funzionari del predetto servizio nonché di due rappresentanti rispettivamente di Inps e Inail – dei rappresentanti delle parti stipulanti il contratto. Ciò caratterizza la natura “mista” della commissione di certificazione costituita in sede provinciale, in cui si rinvengono sia soggetti di estrazione amministrativa che rappresentanti di natura sindacale.
Rispetto ai profili funzionali, invece, la certificazione segue il medesimo iter procedimentale ed è sottoposta ad identica regolamentazione presso entrambe le commissioni. Il motivo principale di siffatta scelta legislativa riguarda il carattere prevalentemente tecnico dell’attività svolta dalla commissione di certificazione istituita presso la DPL che, essendo limitata alla sola qualificazione dei contratti di lavoro, prescinde da valutazioni di opportunità o di necessaria mediazione o conciliazione fra le diverse posizioni contrattuali.
• Le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, registrate in un apposito albo ed esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo. Anche per questi soggetti è stato emanato un apposito Decreto Ministeriale (DM 14 giugno 2004) che istituisce l’albo delle commissioni di certificazione universitarie, la cui iscrizione è subordinata alla verifica della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 76, commi 1 e 2 del D.lgs. n. 276/2003.
A ben vedere, il coinvolgimento delle strutture universitarie nel ruolo di certificatori dei contratti di lavoro rappresenta una novità rispetto al passato. Il legislatore ha inteso da un lato avviare un processo di maggiore integrazione tra Università e territorio e, al contempo, fornire assistenza di elevata professionalità al Ministero del lavoro e delle politiche sociali nella elaborazione degli strumenti che dovrebbero facilitare il lavoro delle altre sedi di certificazione abilitate dall’ordinamento. Le Università, infatti, per ottenere la registrazione nell’albo istituito presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (ed essere dunque abilitate all’attività certificatoria), sono tenute a inviare, all’atto della registrazione e ogni sei mesi, studi ed elaborati contenenti indici e criteri giurisprudenziali di qualificazione dei contratti di lavoro con riferimento a tipologie di lavoro indicate dallo stesso Ministero (art. 76, co. 2°, d.lgs. 276/2003). L’intento perseguito dal legislatore è quello di permettere il costante aggiornamento – da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – di codici di buone pratiche, necessari per uniformare a livello nazionale le procedure di certificazione e per orientare l’attività degli organi collegiali nella individuazione delle c.d. «clausole indisponibili» riferite ai
trattamenti economici e normativi che vengono concordati dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro.
Da più parti è stato sollevato il dubbio che la sede di certificazione universitaria possa mostrare carenze in ordine alla valutazione della situazione specifica circa i diversi interessi coinvolti.
Auspicabile pare pertanto l’istituzione di commissioni unitarie di certificazione, così come espressamente disposto dall’ultimo comma dell’art. 76, in cui prevedere la compresenza di soggetti diversi in grado di compensare le rispettive “debolezze” nell’ottica di un modello cooperativo, anzichè concorrenziale, di certificazione.
L’ambito di competenza delle diverse commissioni, è espressamente indicato nell’art. 77 del decreto: quelle costituite presso le Direzioni provinciali del lavoro e le Province hanno una competenza limitata ad un determinato territorio; pertanto le parti dovranno rivolgersi alla commissione nella cui circoscrizione si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore.
Le commissioni costituite presso gli enti bilaterali hanno invece una competenza limitata alla categoria organizzata dalle associazioni di riferimento; pertanto, le parti che intendano presentare l’istanza di avvio della procedura di certificazione dovranno rivolgersi alle commissioni costituite dalle rispettive associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro.
Nessun limite è invece previsto per le Università, la cui competenza è estesa a tutto il territorio nazionale. Eventuali vizi di incompetenza – attraverso un’interpretazione estensiva dell’espressione “violazione del procedimento” – potranno essere fatti valere innanzi al giudice amministrativo (art. 80, co. 5°, d.lgs. 276).
3.3 Il procedimento di certificazione.
Entrando più nello specifico ed analizzando il procedimento di certificazione, questo, ai sensi dell’art. 78 del d.lgs. 276/2003, si apre con un’istanza scritta comune delle parti con la quale viene espressa l’intenzione di certificare il contratto di lavoro presso la sede prescelta di certificazione.
Buona parte della dottrina ha espresso forti perplessità in relazione al carattere volontario della certificazione: ci si chiede, infatti, quanto sia spontaneo il consenso del lavoratore o non, invece, condizionato dal fatto che il datore offra una opportunità di lavoro in quanto «a priori» riesca a certificare una determinata tipologia contrattuale.
La difficoltà per la commissione di certificazione di verificare tale aspetto è evidente. Tuttavia un chiaro indirizzo è contenuto nel Decreto Ministeriale 21 luglio 2004 all’art. 5 ove, seppur riferendosi alle sole commissioni istituite presso la DPL e la Provincia, è obbligatoria l’audizione del datore di lavoro e del lavoratore ai fini «dell’assunzione di informazioni sui fatti e sugli elementi del contratto da certificare»; la scelta peraltro di coinvolgere direttamente i soggetti del rapporto di lavoro testimonia l’esigenza di un approccio non burocratico dell’attività certificativa. L’eventuale assenza, anche solo di una delle parti, rende improcedibile l’istanza e necessaria la presentazione di una nuova domanda.
Nella fase successiva all’audizione delle parti si entra nel vivo del procedimento: il certificatore dovrà fornire alle parti
«consulenza ed assistenza»; dovrà, ad esempio, indicare che il programma negoziale ipotizzato non è riconducibile al tipo contrattuale prescelto e dunque quali modifiche apportare al contratto medesimo per arrivare al risultato voluto; ovvero se le clausole dispositive di diritti che le parti intendano introdurre siano valide o meno.
Le procedure entro le quali si svolge il procedimento certificatorio, in base al comma 2 dell’art. 78 del d.lgs. n. 276/2003, sono determinate dall’atto di costituzione delle commissioni di certificazione:
a) Innanzitutto, quale che sia la sede prescelta dalle parti per ottenere la certificazione, la Direzione provinciale del lavoro deve essere informata dell’inizio del procedimento poiché dovrà inoltrarne comunicazione alle autorità pubbliche nei confronti delle quali la certificazione è destinata a produrre i suoi effetti (ossia gli Enti Inps, Inail, Agenzia delle entrate, ecc.). Queste ultime possono poi presentare proprie osservazioni di merito alle commissioni di certificazione;
b) Il procedimento di certificazione deve concludersi entro il termine ordinatorio di 30 giorni, che decorrono dal ricevimento dell’istanza. Considerata la complessità del procedimento certificatorio, nonché la molteplicità dei soggetti coinvolti, la tempistica predisposta dal decreto in esame appare particolarmente «stretta», almeno ove si consideri come vincolante questo limite temporale. Tuttavia, dal senso generale della norma, dalla mancanza di sanzioni esplicite di illegittimità della procedura che venga definita in un momento successivo al previsto limite temporale, nonché dall’assenza di qualsiasi effetto decadenziale collegato al non rispetto dei termini, sembra non emergere alcun tipo di perentorietà temporale; anche se, possiamo aggiungere, rimane auspicabile - in definitiva
- che la procedura di certificazione si concluda nel più breve tempo possibile, onde consentire alle parti l’instaurazione del concreto rapporto di lavoro.
c) L’atto di certificazione deve essere motivato ed indicare i rimedi esperibili contro di esso, nonché l’autorità cui è possibile ricorrere. Questa disposizione si rende
particolarmente necessaria perché consente di promuovere il superamento dell’asimmetria informativa - in special modo del lavoratore – il quale, nella maggior parte dei casi, ignora il fatto che il suo contratto possa essere oggetto di riqualificazione giudiziale (possa cioè essere oggetto di un accertamento del giudice che, sulla base della realtà fattuale in cui si è concretamente sviluppato il rapporto di lavoro, lo qualifichi in modo diverso da quello definito facendone discendere tutte conseguenze – giuridiche, fiscali, amministrative, contributive – a ciò collegate), ma soprattutto i presupposti necessari ad instaurare un contenzioso qualificatorio;
d) L’atto di certificazione deve contenere esplicita menzione degli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione. Anche in questo caso, la certificazione permette di colmare un possibile gap informativo, riservando alle parti la consegna di una serie di indicazioni relative alle conseguenze (previdenziali, civili, ecc) che discendono dal tipo di contratto che viene certificato.
Al fine di uniformare le prassi presenti sull’intero territorio nazionale, il decreto legislativo in esame prevede che, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, vengano adottati con Decreto Ministeriale, appositi «codici di buone pratiche» per l’individuazione delle clausole indisponibli con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi. Tali codici dovranno recepire, ove esistano, le indicazioni contenute negli accordi interconfederali stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Tramite decreto, dovranno inoltre essere definiti moduli e formulari per facilitare l’attività delle commissioni di
certificazione nella distinzione tra lavoro autonomo e subordinato sulla base degli indirizzi giurisprudenziali prevalenti.
3.4 Gli effetti della certificazione
Si ritiene che l’atto di certificazione, abbia natura di atto amministrativo. Gli effetti di tale atto non influiscono sul contenuto del contratto, quanto sulle conseguenze giuridiche di quanto accertato. Infatti, al giudice non è preclusa la possibilità di accertare che lo svolgimento concreto del rapporto di lavoro sia diverso da quanto certificato. Facendo un esempio, se le parti hanno stipulato un contratto qualificato a progetto ma che in realtà è un contratto di lavoro subordinato, il lavoratore – per far valere i relativi diritti - dovrà allegare e provare i fatti a sostegno di una qualificazione diversa da quella originale; la certificazione non modifica in alcun modo questa dinamica. Al limite, può costituire solo uno degli elementi sui quali si forma il libero convincimento del giudice. L’efficacia della certificazione potrebbe così diventare una variabile dipendente dal grado di autorevolezza che il certificatore avrà saputo conquistarsi sul campo sotto il profilo politico-sindacale ovvero sotto quello tecnico- giuridico.
Gli effetti dell’atto di certificazione del contratto si esplicano e permangono, invece, sia tra le parti che nei confronti dei terzi, fino a sentenza di merito contraria. Infatti, l’atto finale del procedimento possiede la forza della certezza pubblica e deve, quindi, essere assunto da tutti come conforme all’ordinamento. In tal modo, preclude la possibilità - per chiunque vi abbia interesse e, in special modo, per gli enti previdenziali – di rimettere giuridicamente in discussione,
salvo che con «ricorso in giudizio», la qualificazione dell’accordo contrattuale. A ciò si aggiunge la particolarità che neppure i fatti nuovi che emergono dallo svolgimento del rapporto sono in grado di intaccare la forza giuridica della certificazione a meno che essi non siano fatti valere in via giurisdizionale.
Il comma 1° dell’art. 80 del decreto 276/2003 dispone che è possibile attivare il ricorso al giudice del lavoro ex art. 413
c.p.c. per erronea qualificazione del contratto, per difformità tra il programma negoziale certificato e quello successivamente attuato dalle parti, nonché per vizi di consenso.
La prima ipotesi, ovvero l’impugnativa per erronea qualificazione del contratto, si riferisce al caso in cui l’organo collegiale abbia provveduto ad una certificazione non correttamente. Il giudice, in questo caso, accerta che la commissione di certificazione ha qualificato in modo errato il contratto di lavoro perché non ha considerato o non ha potuto considerare elementi di fatto utili alla esatta qualificazione dello stesso. Pertanto, ai sensi dell’art. 80 comma 2, l’effetto della sentenza sarà quello di annullare l’atto di certificazione fin dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale.
La seconda ipotesi, invece, riguarda l’impugnativa dell’atto di certificazione per difformità tra programma negoziale certificato e sua successiva attuazione: in questo caso c’è stato uno svolgimento difforme rispetto a quello qualificato e, quindi, l’eventuale accertamento giudiziale positivo per il lavoratore è destinato a colpire il comportamento non corretto del datore che ha posto in essere qualcosa di diverso da ciò che, a suo tempo, fu certificato. L’accertamento del giudice sarà, pertanto, xxxx ad individuare il momento nel quale le parti – tacitamente o espressamente – hanno posto in essere un altro negozio giuridico con l’intento di modificare il
regolamento negoziale (p. es., in un contratto part-time, il lavoratore, un anno dopo l’inizio dello svolgimento del rapporto, comincia ad essere costantemente utilizzato per l’orario normale di lavoro). L’accertamento giurisdizionale della difformità tra il programma negoziale e quello effettivamente realizzato avrà quindi effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità stessa.
Il terzo motivo di impugnazione dell’atto di certificazione, ossia l’ipotesi di vizi del consenso fa riferimento invece al caso in cui la manifestazione di volontà espressa nel contratto e nelle audizioni davanti all’organo di certificazione non era sin dall’inizio pienamente libera. Tuttavia, è difficile far carico alla commissione di certificazione accertare tutti i possibili vizi del consenso che potrebbero inficiare un contratto (p. es. la violenza, se esercitata fuori dagli incontri con la commissione stessa, o l’errore sì essenziale ai sensi dell’art. 1429 cod.civ., ma su fatti non portati a conoscenza). Và detto che la certificazione è un giudizio tecnico circa la qualificazione giuridica del contratto, che non può sanare eventuali vizi del consenso; anzi, questi vizi potranno essere fatti valere di fronte al giudice.
In caso di impugnativa nei casi sopra descritti, il comma 4 dell’art. 80 dispone per il necessario espletamento di un tentativo obbligatorio di conciliazione davanti alla stessa commissione che ha certificato l’atto, (che in questo caso sostituisce quello avanti alla commissione di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c.). A sostegno della efficacia persuasiva dell’istituto – ma anche dissuasiva, in relazione a ricorsi ingiustificati o temerari – è altresì previsto che il comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro e di definizione della controversia davanti alla Commissione di certificazione potrà
essere valutato dal giudice del lavoro, ai sensi degli articoli 9, 92 e 96 c.p.c.
Peraltro, ai sensi del successivo art. 82, è da ricordare che solo le commissioni costituite presso gli enti bilaterali possono certificare le rinunzie e le transazioni che si raggiungono nella fase conciliativa con gli effetti della inimpugnabilità. Qualora infatti tale compito non si limiti ad una presa d’atto della volontà delle parti ma si estenda alla verifica dell’effettiva consapevolezza di queste in ordine alle rinunce e transazioni che si pongono in essere, potrà ritenersi raggiunta quella finalità di tutela che rende inoppugnabili tali atti.
L’ultimo comma dell’art. 80 conferma, poi, la natura di
«provvedimento amministrativo» dell’atto di certificazione nel momento in cui dispone l’impugnativa di fronte al TAR per tutti gli atti certificativi in «violazione del procedimento» o per
«eccesso di potere».
Comunque sia, trattasi di un atto amministrativo anomalo perché, come detto, può essere impugnato davanti al giudice ordinario dalle parti e dai terzi destinatari dei suoi effetti (gli istituti previdenziali), sia per erronea qualificazione del contratto, sia per sopravvenuta difformità tra il programma negoziale certificato e la sia successiva attuazione, sia infine per vizi del consenso.
Il motivo di fondo di tale impugnabilità su più fronti risiede in quanto affermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze 212/93 e 115/94 nelle quali viene esclusa la possibilità che un contratto venga qualificato d’autorità senza alcuna possibilità di impugnativa, e soprattutto senza la possibilità di far accertare l’erroneità della certificazione o la sua sopravvenuta difformità rispetto all’originario progetto. Ciò che conta è la realtà effettiva, alla quale si collegano le esigenze di tutela dei diritti inderogabili del prestatore di lavoro.
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