CONSEGUENZE DELLA ILLEGITTIMA STIPULA DI CONTRATTI DI LAVORO A TERMINE NEL SETTORE PUBBLICO; QUESTIONI ULTERIORI INTRODOTTE DALL’ENTRATA IN VIGORE DEL COLLEGATO LAVORO ( LEGGE N. 183/2010) Premessa
IL DIRITTO EUROPEO, LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, E LE
CONSEGUENZE DELLA ILLEGITTIMA STIPULA DI CONTRATTI DI LAVORO A
TERMINE NEL SETTORE PUBBLICO; QUESTIONI ULTERIORI INTRODOTTE
DALL’ENTRATA IN VIGORE DEL COLLEGATO LAVORO ( LEGGE N. 183/2010)
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Premessa
Con la presente relazione cercherò di dipanare l’intricata matassa normativa e giurisprudenziale, anche comunitaria, della disciplina dei contratti a termine stipulati con una P.A., ed in particolare delle conseguenze derivanti dall’utilizzazione abusiva dei contratti a termine, in violazione, non solo di norme interne, ma soprattutto di disposizioni dell’Unione Europea.
Previa individuazione del quadro normativo, comunitario e nazionale, analizzerò le più significative pronunce della Corte di Giustizia in ordine all’interpretazione ( vincolante per il giudice nazionale) data alla Direttiva 1999/70/CE, nonché la giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Cassazione ed infine dei giudici di merito.
Con riferimento a questi ultimi analizzerò il variegato panorama giurisprudenziale in ordine al risarcimento del danno riconoscibile in base all’art. 36 D.Lgs. 165/01, valutando criticamente le soluzioni ritenute preferibili, in quanto conformi al disposto della Direttiva.
Esaminerò altresì la giurisprudenza ( allo stato) minoritaria che invece ritiene di disapplicare l’art. 36 comma 5 D.Lgs. 165/01 e convertire anche nel pubblico impiego i contratti con termine illegittimo, o comunque abusivi, in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, soffermandomi sugli aspetti maggiormente critici di questa soluzione ermeneutica.
Illustrerò, infine, la recentissima giurisprudenza in punto di trattamento economico derivante dagli scatti di anzianità, non riconosciuti dalle norme di diritto interno ai precari
della scuola, valutando criticamente le varie posizioni assunte, ed infine sintetizzerò le mie conclusioni in ordine al regime e alla disciplina applicabile in questa complicata materia.
1- Il quadro normativo vigente:
a) a livello comunitario
Le organizzazioni intercategoriali a carattere generale – Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea (UNICE), Centro europeo dell’impresa a partecipazione pubblica (CEEP), Confederazione europea dei sindacati (CES) – il 18 marzo 1999 hanno concluso un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, avente l’obiettivo di : 1) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo
il rispetto del principio di non discriminazione; 2) creare un quadro normativo per la
prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di
rapporti a tempo determinato.
In particolare:
- la clausola 2, punto 1, dell'accordo quadro così dispone: << Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro>.
- A norma della clausola 3 dell'accordo quadro si stabilisce che : <<1. Ai fini del presente accordo, il termine "lavoratore a tempo determinato" indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro [di durata determinata] definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.
2. Ai fini del presente accordo, il termine "lavoratore a tempo indeterminato comparabile" indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata
indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a [un] lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. (-)>>.
- La clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro dispone quanto segue: << Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive>>.
- La clausola n. 5 dell’accordo ( Misure di prevenzione degli abusi), prevede che << Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e delle prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in modo che tenga conto delle esigenze dei settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a : a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti>>.
- La clausola 8 prevede che : << Gli Stati membri e/o le parti sociali possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo. Il presente accordo non pregiudica ulteriori disposizioni comunitarie più specifiche, in particolare per quanto riguarda la parità di trattamento e di opportunità uomo-donna. L’applicazione del presente accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso>> ( c.d. clausola di non regresso).
Per dare attuazione a tale accordo è stata approvata la Direttiva 99/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 che prevede che gli Stati membri mettano in atto le
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla Direttiva entro il 10/7/2001 e pongano in essere tutte le disposizioni necessarie per garantire i risultati della Direttiva medesima.
b) a livello nazionale.
Benché l’ordinamento italiano fosse già sostanzialmente conforme ai principi enunciati nella Direttiva, il legislatore ha dato espressa attuazione alla stessa emanando il D.Lgs. 6/9/2001, n. 368 ( più volte successivamente modificato), il quale, dopo avere abrogato espressamente la L. 18/4/1962, n. 230, l’art. 8 bis della L. 25/3/1983 n. 79, l’art. 23 L. 23/2/1987, n. 56, e << tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo>> ( cfr. art. 11 comma 1 D.Lgs. 368/01), ha regolato ex novo la materia, prevedendo, oltre che condizioni meno stringenti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro ( sostituendo il sistema basato sulla tassatività delle ragioni di cui alla L. 230/62, la regola secondo cui può essere adottata tale tipologia di contratto in presenza di ragioni di carattere, tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, purchè specificate in un atto scritto), sanzioni diverse per la violazione dei limiti dalla stessa previsti, stabilendo una normativa speciale in caso di prosecuzione di fatto del rapporto oltre la data di scadenza o in caso di successione di contratti senza soluzione di continuità o con intervalli inferiori ai limiti dalla stessa previsti ( cfr. art. 5 D.Lgs.368/01), e lasciando spazio alla tutela di diritto comune ( ed in particolare quella prevista dall’art. 1419 comma 2 cod.civ. , comportante la riqualificazione a tempo indeterminato del rapporto, con sua conversione ex tunc in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato) nei casi in cui il termine viene apposto in violazione di divieti legali o per ragioni solo formalmente indicate nel contratto, ma insussistenti in concreto.
Con l’art. 1, comma 39 della L. 24/12/2007, n. 247 il legislatore ha altresì previsto un ulteriore limite alla stipulazione di contratti a termine tra le stesse parti, prevedendo il
limite massimo di 36 mesi ( derogabile per una sola volta in presenza delle condizioni previste dalla seconda parte del comma 4 bis del già citato art. 5 D.Lgs. 368/01), superato il quale il nuovo contratto a termine successivamente stipulato si considera a tempo indeterminato.
Per quanto concerne il pubblico impiego contrattualizzato , al momento di emanazione del D.Lgs. 368/01 era già vigente l’art. 36 del D.Lgs. 3/2/1993, n. 29, sostituito poi dall’art. 17 del D.Lgs. 546/93 e ancora successivamente dall’art. 22 del D.Lgs. n. 80/98, infine confluito nell’art. 36 del T.U. 30/3/2001, n. 165 ( successivamente più volte modificato dal legislatore) il quale, comunque, già all’epoca della ricezione in Italia della Direttiva 70/99 CE, prevedeva forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale, tra cui anche il contratto a tempo determinato, ma soprattutto prevedeva una disciplina speciale per ciò che concerne le sanzioni, in quanto stabiliva che << in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave>>.
Con la legge finanziaria 23/12/2007, n. 244 ( e precisamente con l’art. 92), il contratto a termine torna ad essere uno strumento eccezionale nel pubblico impiego, posto che può essere adottato solo per esigenze temporanee ed eccezionali, ma l’impianto sanzionatorio non muta. Successivamente intervengono a modifica del contenuto dell’articolo in questione l’art. 49 del D.L. 25/6/2008, n. 112, conv. nella L. 133/2008, e l’art. 17 D.L. n. 78/2009, ma questi interventi legislativi non introducono nuove sanzioni,
ribadendo il precedente sistema, in base al quale è previsto il divieto assoluto di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, ed è previsto a favore del lavoratore solo il << diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative>>.1
1La vigente formulazione dell’art. 36 è la seguente: <<1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35.
2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall'articolo 3 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall'articolo 16 del decreto- legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile ed il lavoro accessorio di cui alla lettera d), del comma 1, dell'articolo 70 del medesimo decreto legislativo n. 276 del 2003, e successive modificazioni ed integrazioni. Non e' possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali (3).
3. Al fine di combattere gli abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, le amministrazioni redigono, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento. Al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato (4) (5).
4. Le amministrazioni pubbliche comunicano, nell'ambito del rapporto di cui al precedente comma 3, anche le informazioni concernenti l'utilizzo dei lavoratori socialmente utili (6).
5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286 (7)
Il divieto di conversione del contratto, da tempo determinato a tempo indeterminato, quindi, si pone come la principale differenza tra la disciplina del contratto a termine nel lavoro pubblico rispetto al lavoro privato, e questa differenza trova delle replicazioni ( peraltro pleonastiche, visto l’ampio raggio di azione dell’art. 36 T.U. 165/01) in alcune norme speciali relative a particolari settori dell’amministrazione, quali ad esempio il comparto scuola, ove il legislatore recentemente è intervenuto con il cd.decreto salva- precari ( D.L. 25/9/2009, n. 134), il quale, all’art. 1, comma 1, reca una disposizione generale, con incidenza su tutto il personale a tempo determinato della scuola, che aggiunge all’art. 4 della L. 124/1999, in materia di supplenze, il comma 14 bis il quale stabilisce l’impossibilità di trasformare i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento di supplenze in contratti a tempo indeterminato e, al contempo, esclude che i contratti a tempo determinato consentano di maturare scatti di anzianità.
In questo quadro generale è ultimamente intervenuta la L. 183 del 4/11/2010 ( c.d. Collegato Xxxxxx), la quale, all’art. 32 ha introdotto nuove norme in materia di contratti di lavoro con termine illegittimamente apposto.
I commi 5,6,e 7 dettano norme, (valevoli anche per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge), volte a disciplinare il risarcimento del lavoratore nel caso
5-bis. Le disposizioni previste dall'articolo 5, commi 4-quater, 4-quinquies e 4-sexies del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si applicano esclusivamente al personale reclutato secondo le procedure di cui all'articolo 35, comma 1, lettera b), del presente decreto>> (8) (9).
(1) Articolo modificato dall'articolo 4 del D.L. 10 gennaio 2006, n. 4, e successivamente sostituito dall' articolo 3, comma 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Vedi le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 345 e 346, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
(2) Articolo sostituito dall'articolo 49 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112.
(3) Comma modificato dall'articolo 17, comma 26, lettera a), del D.L. 1° luglio 2009, n. 78.
(4) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 26, lettera b), del D.L. 1° luglio 2009, n. 78
(5) Vedi anche la Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri 16 febbraio 2010, n. 2.
(6) Comma sostituito dall'articolo 17, comma 26, lettera c), del D.L. 1° luglio 2009, n. 78
(7) Per le ulteriori modifiche al presente comma, vedi l'articolo 17, comma 26, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78.
(8) Comma aggiunto dall'articolo 17, comma 26, lettera d), del D.L. 1° luglio 2009, n. 78
(9) Vedi deroga di cui all'articolo 1, comma 11 del D.L. 4 novembre 2009, n. 152
in cui, a seguito della violazione delle norme relative al contratto di lavoro a tempo determinato, sia prevista la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato, stabilendo, in questo caso, l’obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno con una indennità omnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità, (ridotta alla metà nel caso di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo determinato, di lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie).
Poiché la norma testualmente ancora la corresponsione dell’indennità ai casi di conversione del contratto, questa disposizione non può ovviamente trovare applicazione diretta in tutti i casi in cui, alla declaratoria di illegittimità del termine apposto, comunque non consegua la conversione del contratto a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, quindi, a tutti i casi in cui si ritiene applicabile ( e se si ritiene applicabile) il già citato art. 36 T.U. 165/2001 .2
Il diverso contenuto del D.Lgs. 368/01 e dell’art. 36 T.U. 165/01, nonché la loro successione nel tempo, hanno fatto sorgere dei dubbi in dottrina ed in giurisprudenza relativamente alla sopravvivenza della disciplina prevista dal testo unico sul pubblico impiego.
In particolare, il fatto che l’art. 36 D.Lgs. 165/01 vieti nel pubblico impiego la conversione del contratto a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e che si ponga in contrasto con il successivo D.Lgs. 368/01, il quale, in attuazione della Direttiva 1999/70 CE ha previsto le sanzioni di cui all’art. 5 ( tra cui anche la conversione ) e quelle di diritto comune della riqualificazione del rapporto, ha indotto taluno a sostenere che la legge successiva ( di portata generale e comunque applicabile anche al settore pubblico, stante l’assenza di limitazioni al suo interno, oltre che nella legge delega n. 422/2000) abbia abrogato l’art. 36 D.Lgs. 165/01, stante il
2 Sul punto si veda infra.
principio secondo cui la legge successiva abroga la legge anteriore con essa incompatibile, e visto comunque il disposto dell’art. 11 del D.Lgs. 368/01.3
Si è inoltre osservato che la circostanza che il legislatore recentemente abbia introdotto con il D.L. 134/09 il comma 14 bis all’art. 4 L. 124/1999, il quale, ribadendo il divieto di conversione, si paleserebbe ultroneo qualora l’art. 36 T.U. 165/01 fosse ancora vigente, costituisce conferma del fatto che il D.Lgs. 368/01 avrebbe abrogato l’art. 36 in questione.4
Questa interpretazione ( tuttora riproposta da alcuni legali che adiscono il giudice per chiedere una declaratoria di illegittimità del termine apposto in contratti di lavoro di pubblici dipendenti, di cui chiedono la conversione) , tuttavia, si palesa minoritaria e ampiamente sconfessata sia dal legislatore ( che ,come abbiamo visto, più volte, dopo l’introduzione del D.Lgs. 368/01 è intervenuto in sostituzione e modifica dell’art. 36 T.U. 165/01, sul presupposto, quindi, della sua perdurante vigenza), che dalla prevalente giurisprudenza, che ritiene la vigenza dell’art. 36 D.Lgs. 165/01 in quanto lex specialis, e come tale insuscettibile di essere sostituita dalla legge generale successiva.
Ne consegue, pertanto, che, a giudizio di chi scrive, il D.Lgs. 368/01 si applica certamente anche al settore pubblico limitatamente alle disposizioni non incompatibili con la disciplina speciale di cui all’art. 36 T.U. 165/01, e cioè per quanto riguarda il contenuto precettivo ( condizioni in base alle quali può essere apposto un termine al contratto di lavoro e illegittimità della clausola non conforme al disposto dell’art. 1 D.Lgs. 368/01; illegittimità del termine apposto ai contratti successivamente stipulati nelle ipotesi previste dall’art. 5 D.Lgs. 368/01).
3 Questo argomento è sostenuto anche dalla ordinanza 21 gennaio 2004 del Tribunale di Genova, con cui è stata rimessa alla Corte di Giustizia questione di pregiudizialità comunitaria – causa C- 53/04 Marrosu-Sardino, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2004, 9, 885 e ss.
4 Così Trib.Siena, sentenza 23 novembre 2009, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2010, 369.
Questa conclusione ermeneutica risulta avvalorata dall’attuale testo del comma 2 dell’art. 36 T.U. 165/01, il quale prevede, per quanto qui interessa, che i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368.5
Si discute invece dell’applicabilità al settore pubblico del regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. 368/01 ( negato dalla maggioranza della giurisprudenza), essendo aperto un dibattito in dottrina e, allo stato, tra i giudici di merito, in ordine alla conformità alla Direttiva comunitaria 1999/70 CE del divieto di conversione previsto dall’art. 36 D.Lgs. 165/01, di cui daremo conto nel proseguo della presente relazione.
2- Il contenuto della Direttiva 1999/70 CE alla luce della giurisprudenza della
Corte di Giustizia
Pacificamente l’ambito soggettivo di applicabilità della Direttiva riguarda sia i rapporti di lavoro privati che i rapporti di lavoro pubblico.
Nel preambolo dell'allegato, contenente il testo dell'Accordo quadro recepito dalla direttiva, il legislatore comunitario precisa che << i contratti a tempo indeterminato sono e
5 L'articolo 17, comma 26, lettera a), del D.L. 1° luglio 2009, n. 78, ha modificato il comma 2 dell’art. 36 T.U. 165/2001 nei termini seguenti: << Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall'articolo 3 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984,
n. 863, dall'articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile ed il lavoro accessorio di cui alla lettera d), del comma 1, dell'articolo 70 del medesimo decreto legislativo n. 276 del 2003, e successive modificazioni ed integrazioni. Non é possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali>>
continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro>>; d'altra parte << i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori>>.
Quanto sopra viene riproposto nelle Considerazioni generali dell'Allegato ove, al punto 6, si conferma << che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento>>.
Il successivo punto 7 precisa che << l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo
determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi>>.
Il succedersi di contratti a termine è considerato infatti una potenziale forma di abuso a danno dei lavoratori (cd. abuso da reiterazione), per prevenire il quale i rinnovi contrattuali o i contratti a termine successivi al primo devono essere sorretti da ragioni oggettive, nozione, questa, da riferirsi a circostanze precise e concrete che caratterizzano una determinata attività e che, quindi, rispondono necessariamente ad esigenze temporanee, straordinarie o urgenti del datore di lavoro, non finalizzate a soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli.
Conformemente a queste premesse, trovanti fondamento nel dato testuale dell’accordo recepito dalla Direttiva 1999/70 CE, la Corte di Giustizia nella sentenza della Grande Sezione 4.7.2006 ( causa X- 000-00 - Xxxxxxxx), occasionata da una questione pregiudiziale sollevata da un giudice greco, ha affermato che l’Accordo quadro e la direttiva hanno come destinatari tanto i lavoratori del settore pubblico quanto quelli del
settore privato (sicché, i due settori sono parimenti meritevoli della massima tutela con riguardo al fenomeno dell’abuso dei contratti). La Corte precisa che la sanzione della
conversione del contratto a tempo determinato in contratto sine die non è
necessariamente l’unica possibile forma di reazione che uno Stato membro può approntare per contrastare questo fenomeno, ma che, tuttavia, l’Accordo quadro impone
l’adozione di misure dirette a prevenire e contrastare l’utilizzazione abusiva di contratti a termine in successione; sicché lo Stato membro, se anche può prescindere dalla sanzione della conversione, dovrà comunque adottare misure concrete, proporzionate ed effettive, volte a contrastare il fenomeno in discussione.
La Corte di Lussemburgo ,( che in questo caso ha ritenuto la normativa greca incompatibile con la direttiva in quanto non prevedeva alcuna delle misure previste dalla clausola 5), sottolinea la finalità dell’accordo quadro, che consiste nel proteggere i
lavoratori dall’instabilità dell’impiego, ed il principio generale secondo cui i contratti a
tempo indeterminato costituiscono la forma generale dei rapporti di lavoro ( cfr. i punti 73- 75 della sentenza), di tal che statuisce che l’accordo quadro allegato alla direttiva deve essere interpretato nel senso che, qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato
membro interessato non preveda nel settore considerato altra misura effettiva per evitare
e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato
successivi, il detto accordo quadro osta all’applicazione di una normativa nazionale che
vieti in maniera assoluta , nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro
a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto,
hanno avuto il fine di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro e che pertanto devono essere considerati abusivi ( cfr. punto 105, dispositivo 3).
La Corte tuttavia precisa che << 91-l’accordo quadro non stabilisce un obbligo
generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo
indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce
nemmeno le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi. 92- Tuttavia esso impone agli Stati membri di adottare almeno una delle misure elencate nella clausola 5,
punto 1, lett.a)-c) dell’accordo quadro, che sono dirette a prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi. 93- Inoltre gli Stati membri sono tenuti, nell’ambito della libertà che viene loro lasciata dall’art.
249, terzo comma, CE, a scegliere le forme e i mezzi più idonei al fine di garantire
l’efficacia pratica delle direttive>>. << 94- Pertanto, quando, come nel caso di specie, il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche, neppure nel caso in cui sono stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto
proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro.>>. Le misure prescelte dagli Stati, però, non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna ( principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario ( principio di effettività) ( cfr. punto 95).
La Corte infine delimita le competenze della sua giurisdizione, rispetto a quella del giudice nazionale, sottolineando di non essere competente a pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, spettando tale compito esclusivamente al giudice del rinvio, il quale, nel caso riscontrasse una sua contrarietà alla direttiva, dovrebbe astenersi dall’applicare la normativa nazionale ( cfr. punti 103-104).
Con le sentenze Xxxxxxx-Xxxxxxx,( procedimento C-53/04) e Vassallo ( procedimento C-180/04) del 7 settembre 2006, entrambe provocate da due questioni di pregiudizialità sollevate dal Tribunale di Genova6, la Corte di Giustizia ribadisce che la
6 cfr. in particolare l’ordinanza di rimessione del 21 gennaio 2004, est. Basilico, causa C-53/04 Xxxxxxx-Xxxxxxx in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2004, 9, 885.
Il caso concerneva la domanda giudiziaria di un cuoco di un’azienda ospedaliera pubblica “licenziato” dopo che aveva stipulato due successivi contratti a tempo determinato, il quale chiedeva al giudice del lavoro di dichiarare, sulla base del D.Lgs. n. 368/01, la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera e la condanna dei quest’ultima al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento del danno subito.
Il giudice xxxxxxxx aveva ritenuto di adire la Corte di Giustizia posto che l’art. 36 D.Lgs. 165/01 vieta la conversione in un rapporto a tempo indeterminato e questo appariva in contrasto con il D.Lgs 368/01, norma interna successiva che, in attuazione della Direttiva 1999/70/CE, prevede la riqualificazione per tutti i contratti a tempo determinato, salvi i casi espressamente esclusi.
Direttiva 1999/70/CE, trasfusa nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. 368/01, costituisce la disciplina generale sul contratto a tempo determinato sia per le imprese private che per il pubblico impiego7, e la necessità che l’ordinamento preveda sanzioni anche alternative
alla tutela conservativa, idonee a soddisfare l’effetto utile delle prescrizioni comunitarie, e tra queste viene espressamente menzionato il risarcimento del danno. Per altro verso essa riconosce la legittimità di un sistema nazionale che diversifica l’apparato
sanzionatorio tra lavoro privato e lavoro pubblico.
In particolare la sentenza Xxxxxxx –Xxxxxxx sottolinea che l’art. 5 punto 2
dell’accordo quadro, recepito dalla Direttiva, non stabilisce un obbligo generale degli Stati
membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce le condizioni precise alle quali si può
fare uso di questi ultimi, ma lascia agli Stati un certo margine di discrezionalità in materia ( cfr. punto 47). Ne consegue che la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico ( vietando solo per quest’ultimo la conversione in un contratto a tempo indeterminato), purchè l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro preveda, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente
A sostegno della richiesta il giudice ligure ha osservato che: 1) l’Accordo quadro e la direttiva in questione hanno portata generale e si applicano anche al settore pubblico; 2) il D.Lgs. 368/01, in quanto successivo al D.Lgs. 165/01 e incompatibile con l’art. 36 di quest’ultimo T.U,, dovrebbe avere abrogato tale disposizione ai sensi dell’art. 11 del decreto legislativo medesimo; 3) il D.Lgs. 368/01, in quanto di derivazione comunitaria dovrebbe comunque prevalere sulle altre norme di diritto interno; 4) il diritto comunitario prevale anche sulle norme di rango costituzionale, salvo quelle espressione dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale o di diritti inalienabili della persona umana; 5) è peraltro possibile dare una diversa interpretazione in ordine alla perdurante vigenza dell’art. 36 T.U. 165/01, di tal che è lecito dubitare che questa disposizione sia in contrasto con la Direttiva 1999/70/CE e, in particolare, sia misura non idonea a prevenire gli abusi.
7 L’applicazione della Direttiva anche al settore pubblico italiano era stata negata dalla difesa dello Stato Italiano, ma la Corte di Giustizia ha invece imposto l’interpretazione contraria ai punti 41-42 della sentenza, sulla base delle clausole 2 e 3 dell’accordo quadro.
sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione.(cfr. punto 49).
La Corte poi ribadisce che la clausola 5, punto 1 dell’accordo quadro impone agli
Stati membri l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure enumerate in tale
disposizione e dirette a prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, a meno che il diritto nazionale già non preveda misure equivalenti. Il diritto comunitario, nel caso di specie, non prevede sanzioni
specifiche, di tal che, qualora siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità
nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una simile situazione, misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo
e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro. ( cfr. punti 50 e 51). Le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, ma tuttavia non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna ( principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario ( principio di effettività).( cfr. punto 52).
Con la sentenza Del Cerro Xxxxxx del 13 settembre 2007 ( procedimento C- 307/05), la Corte, nel ribadire l’importanza del principio della parità di trattamento e del
divieto di discriminazione, facenti parte dei principi generali del diritto comunitario, afferma che dalle disposizioni previste dalla direttiva e dall’accordo quadro tali principi sono
affermati al fine di garantire ai lavoratori a tempo determinato di beneficiare degli stessi
vantaggi riservati ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili, e che tali principi, in
quanto di portata generale, trovano applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che
forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato
che li vincola al loro datore di lavoro ( cfr. punti 25, 27, 28 e 29).
Particolarmente importante è la sentenza 15 aprile 2008 - Impact ( procedimento C-268/06), la quale precisa l’operatività della direttiva nei rapporti orizzontali. Essa, dopo avere premesso che in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di
vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, queste possono essere
invocate dai singoli nei confronti dello Stato, anche in qualità di datore di lavoro, ha operato una distinzione all’interno della Direttiva 1999/70/CE.
In particolare ha ritenuto che la clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro ( che vieta in generale e in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato per quanto riguarda le condizioni di impiego) è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere
invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, mentre ciò non si verifica per la
clausola 5, punto 1 dello stesso accordo quadro, la quale assegna agli Stati membri un
obiettivo generale, consistente nella prevenzione dell’utilizzo abusivo di una successione
di contratti a tempo determinato, pur lasciando ad essi la scelta dei mezzi per conseguirlo
( cfr. punti 57-58, 60, 68, 70, 73, 79-80, dispositivo 2).
In particolare la Corte espressamente statuisce che, diversamente dalle disposizioni all’origine della sentenza Xxxxxxxxxx, << la clausola 5, punto 1, dell’accordo
quadro non comporta alcun obbligo incondizionato e sufficientemente preciso che possa
essere invocato, in assenza di misure di trasposizione adottate nei termini, da un singolo
dinanzi ad un giudice nazionale>> ( cfr.punto 73).
Nell'applicare il diritto nazionale, in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva, il giudice
nazionale deve interpretare tale diritto per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo
della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 249, terzo comma, CE (v., punto 98).
L'esigenza di un'interpretazione conforme del diritto nazionale è infatti inerente al sistema del Trattato CE, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta . Tuttavia l'obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al
contenuto di una direttiva nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme pertinenti del
suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli
di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad
un'interpretazione contra legem del diritto nazionale (v. punti 99 e 100, nonché le sentenze 8 ottobre 1987, causa 00/00, Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxx, Racc. pag. 3969, punto 13, nonché Xxxxxxxx e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa X- 000/00, Xxxxxx, Xxxx. pag. I-5285, punti 44 e 47).
Il principio di interpretazione conforme richiede nondimeno che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti della loro competenza, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua interezza e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest'ultimo, al fine di garantire la piena effettività della direttiva di cui trattasi e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest'ultima (v. punto 101 e sentenze Xxxxxxxx e a., punti 115, 116, 118 e 119, nonché Xxxxxxxx e a., punto 111).8
8 Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che, <<102…dal momento che, secondo le indicazioni contenute nella decisione di rinvio, sembra che il diritto nazionale comporti una regola escludente l'applicazione retroattiva di una legge in assenza di indicazione chiara ed univoca in senso contrario, spetta al giudice del rinvio verificare se esista in tale diritto, segnatamente nella legge del 2003, una disposizione contenente un'indicazione di tale natura, atta a conferire all'art. 6 della suddetta legge siffatto effetto retroattivo.
103 In assenza di una disposizione siffatta, il diritto comunitario, in particolare l'esigenza di interpretazione conforme, non potrebbe interpretarsi, salvo costringere il giudice nazionale ad interpretare il diritto nazionale contra legem, come un diritto che gli impone di conferire all'art. 6 della legge del 2003 una portata retroattiva alla data di scadenza del termine di trasposizione della direttiva 1999/70.
104 Alla luce delle precedenti considerazioni, la quarta questione va risolta nel senso che, nei limiti in cui il diritto nazionale applicabile contenga una norma che esclude l'applicazione retroattiva di una legge in assenza di indicazione ed univoca in senso contrario, un giudice nazionale, adito con una domanda fondata sulla violazione di una disposizione della legge nazionale di trasposizione della direttiva 1999/70, è tenuto, ai sensi del diritto comunitario, a
Nella ordinanza 12 giugno 2008 – Xxxxxxxxxx ( procedimento C- 364/07) si ribadisce che i giudici nazionali devono, nella misura del possibile, interpretare il diritto interno alla luce
del testo e della finalità della direttiva di cui trattasi al fine di raggiungere i risultati
perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali che sia maggiormente conforme a tale finalità, per così giungere ad una soluzione compatibile con le disposizioni della detta direttiva.
Con la sentenza 23 aprile 2009 Xxxxxxxxxx ( procedimenti riuniti da C- 378/07 a C- 380/07), la Corte afferma che la clausola 5 punto 1 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta all’adozione, da parte di uno Stato membro, di una normativa nazionale che, al fine di trasporre la direttiva 1999/70/CE nel settore pubblico, prevede l’applicazione delle misure volte a prevenire l’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo indeterminato successivi, qualora nel diritto interno esista già una norma equivalente ai sensi della medesima clausola, a condizione però che detta
normativa, da un lato non comprometta l’effettività della prevenzione dell’utilizzo abusivo di
contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato derivante dalla norma equivalente,
dall’altro rispetti il diritto comunitario ed in particolare la clausola 8, n. 3 di detto accordo ( cfr. punto 87 e dispositivo 1).
conferire alla disposizione in parola effetto retroattivo alla data di scadenza del termine di trasposizione della direttiva stessa solo se esiste, nel diritto nazionale, un'indicazione di tale natura, idonea a conferire alle disposizioni in questione siffatto effetto retroattivo>>.
La clausola 8, n. 3 dell’accordo deve essere interpretata nel senso che essa non osta a
una normativa nazionale che, a differenza di una norma di diritto interno previgente, da un
lato non prevede più per l’ipotesi di ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo
determinato nel settore pubblico, la conversione di questi ultimi in contratti di lavoro a
tempo indeterminato, oppure condiziona quest’ultima al rispetto di talune condizioni
cumulative e restrittive e, dall’altro, esclude i lavoratori con un primo o unico contratto di
lavoro a tempo determinato dal godimento delle misure di tutela previste da detto accordo,
allorché siffatte modifiche riguardano una categoria circoscritta di lavoratori con un
contratto di lavoro a tempo determinato, oppure sono compensate dall’adozione di misure
volte a prevenire l’utilizzo abusivo di contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi
dell’art. 5, n. 1 dell’accordo, cosa che spetta al giudice verificare. La clausola 5, n.1 dell’accordo quadro impone comunque che detta normativa preveda, per quanto riguarda l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi, misure effettive e vincolanti di prevenzione, nonché sanzioni aventi un carattere sufficientemente efficace e dissuasivo ( cfr. punti 177-178 e dispositivo 4).
Secondo la sentenza l’accordo quadro non osta a che, qualora l’ordinamento giuridico interno dello stato membro interessato preveda, nel settore in questione, altre misure effettive per evitare, e , se del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, venga applicata una norma nazionale che vieti in modo assoluto, nel
solo settore pubblico, la conversione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato di
contratti di lavoro a tempo determinato successivi che, in quanto destinati a soddisfare
esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro, devono essere considerati abusivi.
Con riguardo al principio di non discriminazione , la Corte ha altresì affermato nella sentenza 19 gennaio 2010 – Xxxxxxxxxxx ( procedimento C- 555/07 riguardante peraltro altro caso, ed in particolare la Direttiva 2000/78/CE in punto di discriminazione in base all’età) , che il giudice nazionale deve disapplicare, se necessario, qualsiasi
disposizione nazionale contraria al principio comunitario di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
Nella sentenza 24 giugno 2010 Sorge ( procedimento C- 98/09), ha precisato che la
clausola 8, n. 3 ( clausola di non regresso) dell’accordo quadro è priva di efficacia diretta,
sicchè spetta al giudice del rinvio, qualora ritenesse di concludere per l’incompatibilità con
il diritto dell’Unione della normativa nazionale, non escluderne l’applicazione, bensì
operarne per quanto possibile, un’interpretazione conforme sia alla direttiva 1999/70, sia allo scopo perseguito dal citato accordo .
Nell’ordinanza 1 ottobre 2010 Affatato ( procedimento C- 3/2010), avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 del Trattato dell’Unione Europea, dal Tribunale di Rossano,9 la Corte di Giustizia ha ribadito che la clausola 5
dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una
normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36 comma 5 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n.
165, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo
determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che
questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato quando
9 Cfr. l’ordinanza 14 dicembre 2009, in Foro It., 2010, I , 1656-1675.
Il Tribunale di Rossano ha proposto una serie di questioni di pregiudizialità che riguardano l’intero apparato sanzionatorio in materia di contratti a termine nel settore pubblico, partendo da una fattispecie contrattuale di ricorso abusivo ( in quanto volto a sopperire a carenze strutturali di personale) di rapporti a tempo determinato nati da una assunzione “legittima” ex art. 16 L. n. 56/1987 da parte di una azienda sanitaria, simile, sostanzialmente, alle due situazioni già scrutinate dalla CGUE nei giudizi incidentali sollevati dal Tribunale di Genova.
Il giudice remittente rileva come la sanzione del risarcimento del danno non ha una condivisa ed uniforme applicazione nell’ordinamento interno e manchi di effettività per essere priva di parametri di computo del danno, stante la mancata previsione, nel nostro sistema, della possibilità di determinazione del danno in via equitativa se non nei pochi casi espressamente previsti dalla legge, tra cui non figura l’art. 36 T.U. 165/01.
Il giudice calabrese lamenta come per i settori con il maggior numero di contratti o rapporti a tempo determinato nella pubblica amministrazione ( quali ad esempio la Scuola, i lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità) si applicano discipline autonome o speciali diverse dal D.Lgs. 368/01, le quali legittimano ex se i contratti a tempo determinato, senza prevedere alcuna sanzione né preventiva, né repressiva in caso di abusi, con conseguente mancata applicazione della Direttiva 1999/70/CE.
l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore in
questione, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso
abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione.
Spetta al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione , nonché l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, sanzionare il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o rapporti di lavoro stipulati in successione. Le misure previste
dalla normativa nazionale, quale quella italiana, al fine di sanzionare il ricorso abusivo a
contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di
quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento
giuridico dell’Unione.
1 Xxxx’ordinanza 11 novembre 2010 – Vino ( procedimento C-20/2010), avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 267 del Trattato UE, dal Tribunale di Trani con decisione 23 novembre 2009, infine, la Corte ha ribadito che la clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, come si ricava chiaramente dal suo titolo e dal suo disposto, si limita, a definire la nozione di «lavoratore a tempo determinato» e a designare, in tale cornice, l’elemento caratteristico di un contratto a tempo determinato, vale a dire la circostanza che la cessazione di un contratto siffatto sia determinata da «condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico» (cfr. punto 61, nonchè anche, in questo senso, la sentenza 18 dicembre 2008, causa X-000/00, Xxxxx Xxxxxxxx, Racc. pag. I-10279, punto 45).
Viceversa, come giustamente sostenuto dalla Commissione europea, questa clausola non
impone agli Stati membri nessun obbligo relativamente alle norme di diritto nazionale
applicabili alla conclusione di un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato
(cfr. punto 62).
In conclusione
La rassegna della giurisprudenza che precede evidenzia che, secondo l’interpretazione ( vincolante per il giudice nazionale) della Corte di Giustizia:
1) la Direttiva 1999/70/CE si applica sia ai contratti a termine del settore privato che al pubblico impiego;
2) la Direttiva non si applica al caso di un primo o unico contratto a termine, avendo la finalità di prevenire ed evitare il ricorso abusivo ad una successione di contratti a termine;
3) i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma generale dei rapporti di lavoro, mentre il rapporto di lavoro a tempo determinato è ontologicamente connesso ad esigenze temporanee;
4) l’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce nemmeno le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi;
5) la direttiva impone agli Stati membri di adottare almeno una delle misure elencate nella clausola 5, punto 1, lett.a)-c) dell’accordo quadro, che sono dirette a prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
6) gli Stati membri sono tenuti, nell’ambito della libertà che viene loro lasciata dall’art.
249, terzo comma, CE, a scegliere le forme e i mezzi più idonei al fine di garantire l’efficacia pratica delle direttive;
7) il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche, neppure nel caso in cui sono stati comunque accertati abusi, e spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione;
8) le misure scelte dagli Stati devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro. Esse, però, non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna ( principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario ( principio di effettività);
9) è legittimo un sistema nazionale che diversifica l’apparato sanzionatorio tra lavoro privato e lavoro pubblico;
10) l ’accordo quadro non osta a che, qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato preveda, nel settore in questione, altre misure effettive per evitare, e , se del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, venga applicata una norma nazionale che vieti in modo assoluto, nel solo settore pubblico, la conversione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato di contratti di lavoro a tempo determinato successivi che, in quanto destinati a soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro, devono essere considerati abusivi;
11) più in particolare, per quello che riguarda la legislazione italiana, la clausola 5 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36 comma 5 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato quando l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore in questione, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione;
12) le misure previste dalla normativa nazionale, quale quella italiana, al fine di sanzionare il ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione;
13)la direttiva persegue due obiettivi distinti: a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivati dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato;
14) il principio della parità di trattamento e il divieto di discriminazione, fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, e nella direttiva tali principi sono affermati al fine di garantire ai lavoratori a tempo determinato di beneficiare degli stessi vantaggi riservati ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili: essi, in quanto di portata generale, trovano applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di impiego a tempo determinato ;
15) la clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro ( che vieta in generale e in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato per quanto riguarda le condizioni di impiego) è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale : ha pertanto una efficacia orizzontale e
in caso di contrarietà della norma nazionale con la stessa, il giudice dovrà disapplicare la disposizione di diritto interno incompatibile;
16) ciò non si verifica per la clausola 5, punto 1 dell’ accordo quadro, la quale assegna agli Stati membri un obiettivo generale, consistente nella prevenzione dell’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, pur lasciando ad essi la scelta dei mezzi per conseguirlo . Da ciò consegue che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro non comporta alcun obbligo incondizionato e sufficientemente preciso che possa essere invocato, in assenza di misure di trasposizione adottate nei termini, da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale;
17) il giudice nazionale può in questo ultimo caso solo interpretare il diritto interno, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima , ma certamente non può procedere alla disapplicazione della norma di diritto interno;
18) l'obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova , tuttavia, i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale;
19) la nomofilachia autentica delle norme dell’Unione europea la esercita la Corte di giustizia, mentre la verifica di compatibilità delle norme interne con il diritto comunitario la può effettuare solo il giudice nazionale;
20) mentre non può ritenersi in sé incompatibile il disposto normativo previsto dalla legislazione italiana in punto di contratti a termine con la P:A., per contro non può ritenersi che la conformità del disposto di cui all’art. 36 D.Lgs. 165/01 con l’ordinamento comunitario sia un elemento acquisito in re ipsa, ma deve essere sottoposto a puntuale verifica da parte del giudice nazionale.
3- La giurisprudenza della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale si è occupata della legittimità dell’art. 36 del T.U. sul pubblico impiego con la sentenza n. 89 del 27 marzo 2003, che ha ritenuto pienamente legittimo l’art. 36 comma 2 del D.Lgs. 165/01 ( che all’epoca prevedeva il divieto di conversione dei contratti a termine, materia ora disciplinata dal comma 5 dello stesso articolo), affermando che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello ( del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato), dell’accesso mediante concorso.
Nel caso di specie il Tribunale di Pisa, con ordinanza 7 agosto 2002, aveva sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 165/01 ( che appunto prevedeva il divieto di riqualificazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato invalidi), avuto riguardo ad una vicenda concernente alcuni collaboratori scolastici, ( personale A.T.A,), ex dipendenti a termine del Comune di Pisa, la cui posizione, ai sensi della L. n. 124/99, era confluita nelle graduatorie permanenti provinciali del profilo professionale corrispondente ( ex V qualifica funzionale CCNL Comparto Scuola), disciplinate dal D.Lgs. n. 297/1994. Le graduatorie in questione costituivano ( e ancora costituiscono) l’unica modalità di reclutamento a tempo indeterminato o a tempo determinato del personale A.T.A.. I collaboratori in questione , per il tramite delle predette graduatorie ( e quindi con modalità di reclutamento legittime in quanto conformi alla previsione di legge) erano stati assunti con contratti a termine stipulati nel gennaio 2000, successivamente più volte prorogati , fino alla domanda giudiziale di conversione a tempo indeterminato per violazione dell’art. 2 della L. n. 230/1962, all’epoca vigente, cui però si contrapponeva il disposto dell’art. 36 citato, che il giudice remittente ha dubitato essere conforme agli artt. 3 ( principio di uguaglianza) e 97 ( principio del buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione) della Costituzione.
Il giudice delle leggi in quella occasione ha ritenuto che il principio di accesso mediante concorso, enunciato nell’art. 97 della Costituzione a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, renda palese la non omogeneità del rapporto di pubblico impiego rispetto al lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati, di tal che deve ritenersi giustificata e non irrazionale la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle amministrazioni, conseguenze esclusivamente risarcitorie in luogo della conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.10
La Consulta ha poi osservato che, pur contemplando lo stesso art. 97 Cost.,comma 3, la possibilità di derogare per legge al principio del concorso, a miglior tutela dell’interesse pubblico, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, l’individuazione di tali casi eccezionali.
4- La giurisprudenza della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione unanimemente ha sposato l’impostazione data al problema dalla Corte Costituzionale.
Partendo dal dato letterale dell’art. 36 T.U. 165/01, il quale, utilizzando l’espressione
<<in ogni caso>>, non consentirebbe alcuna eccezione al divieto, afferma che nell’area del lavoro pubblico non può operare il principio della trasformazione dei rapporti flessibili in rapporti a tempo indeterminato. Se sono stati violate norme imperative che regolano i lavori flessibili, il lavoratore, i cui diritti siano stati lesi, potrà chiedere il risarcimento dei danni subiti e le amministrazioni avranno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, se vi è stato dolo o
10 Critica la statuizione della Corte, DE XXXXXXX ( in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2010, 11,1108 e ss.), rilevando come la Corte Costituzionale abbia ignorato il fatto che le norme sottoposte al vaglio di costituzionalità rientravano nell’ambito di applicazione del diritto comunitario, e giudicando la decisione in commento sbagliata in fatto ( posto che il principio del pubblico concorso non avrebbe valenza né teorica né pratica), oltre che in diritto, atteso che la Consulta avrebbe invaso anche il campo interpretativo della Corte di Giustizia.
colpa grave. Il lavoratore dipendente di ente pubblico, però, non potrà per questa via instaurare con l’amministrazione un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Infatti la materia in cui rientra questa problematica non è stata regolata dal legislatore in deroga al principio del concorso, e la Corte Costituzionale ha ritenuto la previsione dell’art. 36 D.Lgs. 165/01 conforme all’assetto costituzionale ( cfr. Cass..15 giugno 2010, n. 14350; nonché, in senso sostanzialmente conforme Xxxx. 22 agosto 2006, n. 18276). In parte fuori dal coro si pone la decisione di Xxxx. 22 aprile 2010, n. 9555, la quale si occupa di una fattispecie molto particolare di rapporti precari, e cioè i contratti a tempo determinato stipulati dall’INAIL ( ente pubblico non economico) con un addetto alla custodia e alla vigilanza degli immobili di proprietà dell’Istituto, cui era stato applicato il CCNL di categoria dei datori di lavoro privati e non quello del Comparto Enti Pubblici non Economici.
Questa la vicenda.
Con ricorso al Tribunale di Roma la ricorrente aveva. convenuto in giudizio l'INAIL, deducendo di avere prestato servizio in qualità di portiera presso uno stabile di proprietà dell'Istituto, a seguito della stipulazione di cinque contratti a tempo determinato. Lamentava che, in realtà, si era trattato di un rapporto a tempo indeterminato per illegittima apposizione del termine e che quindi il licenziamento, da parte dell'INAIL, andava annullato, con la conseguenza che la stessa doveva essere reintegrata nel suo posto di lavoro, con condanna dell'Istituto al pagamento delle retribuzioni non corrisposte.
Il Tribunale aveva accolto le domande dell' attrice, dichiarando la nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro subordinato e condannando l'INAIL al ripristino del rapporto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate.
Con sentenza del 7 marzo-16 maggio 2006, la Corte di Appello di Roma, pur confermando la declaratoria di nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro, come
sancito dal primo Giudice, in considerazione della natura pubblicistica del dedotto rapporto di lavoro, disattendeva, ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 2, le richieste relative al ripristino del rapporto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal 27 aprile 2001, data di cessazione del rapporto medesimo. La Corte di Appello di Roma ha osservato in proposito che il rapporto di lavoro dei dipendenti addetti al servizio di portineria degli immobili proprietà dell'INAIL, ancorchè soggetti alla disciplina privatistica dei contratti collettivi, integra un rapporto di pubblico impiego, con conseguente esclusione dell'operatività della L. n. 230 del 1962 e, in particolare, della conversione del contratto con apposizione di termine illegittimo in rapporto a tempo indeterminato. In altri termini, secondo il convincimento espresso dal Giudice di appello, dalla natura pubblicistica del rapporto di lavoro discenderebbe sic et simpliciter l'applicazione della disciplina stabilita dal Testo unico sul pubblico impiego.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha annullato la decisione della Corte di Appello, rinviando ad altra Sezione della Corte medesima, sulla base della considerazione che il rapporto fra l'INAIL ed i portieri addetti alla vigilanza e custodia di edifici di proprietà del primo, pur essendo di pubblico impiego, è disciplinato, nel suo contenuto, da un contratto collettivo di natura privatistica che lo sottrae all'operatività della legge sul parastato (n. 70 del 1975), per effetto del successivo D.P.R. n. 411 del 1976, che disciplina il rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici. Pertanto la natura dell'ente datore di lavoro non può ritenersi circostanza autonomamente sufficiente per conferire carattere di stabilità al rapporto suddetto e, conseguentemente, consentire il decorso, in costanza del medesimo, del termine di prescrizione dei diritti del lavoratore, rimanendo, invece, come in ogni altro caso, necessario accertare, a tal fine, se, ai sensi della disciplina in concreto applicabile, l'eventuale licenziamento sia subordinato alla presenza di circostanze obiettive e predeterminate, sindacabili dal giudice, con possibilità, per quest'ultimo, ove riconosca
la illegittimità del recesso, di rimuoverne compiutamente gli effetti (Cass. n. 7774/1990).
Alla luce di siffatto orientamento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il convincimento espresso nella sentenza impugnata fosse erroneo, dovendo, al contrario, ritenersi che la deroga alla sanzione della conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001 citato, trovi applicazione per i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni diversi da quelli di vigilanza e custodia.
Detti rapporti, invero, se pure rientrano nella generale nozione di pubblico impiego, non possono essere ricondotti agli specifici rapporti di impiego pubblico di cui alla L. 20 marzo 1975, n. 70 e successive modifiche (cfr. Cass., sez. un., 23 giugno 1989, n. 3000).La loro instaurazione, peraltro, non avviene mediante pubblico concorso e neppure tramite particolari procedure selettive, essendo richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo, (D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 36, comma 1, lett. b) come modificato dal D.Lgs n. 80 del 1998, art. 22), oltre, beninteso, gli "eventuali ulteriori requisiti per specifiche professionalità"; ciò che vale di per sè ad escluderne l'assoggettamento alla disciplina pubblicistica. Tale conclusione è stata peraltro ritenuta del tutto in linea con la sentenza n. 89 del 2003, con la quale la Corte Costituzionale ha sottolineato la ratio della inoperatività della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, costituita esclusivamente dalla salvaguardia del principio del concorso nell'accesso al pubblico impiego.
Questa sentenza, del tutto isolata, a quanto consta, è stata ritenuta da parte della dottrina particolarmente importante, ai fini del regime giuridico applicabile ai contratti a termine invalidi stipulati con la P.A., in quanto ridimensionerebbe il divieto di conversione per violazione dell’art. 97 comma 3 della Costituzione e della regola del pubblico concorso, e limiterebbe il divieto assoluto di conversione dei contratti a
termine solo ai casi in cui è in discussione la violazione del pubblico concorso, con ciò implicitamente ammettendo che in caso di modalità di accesso stabile alla P.A. diverse dal concorso ( e comunque disciplinate da norme di legge, come nel caso dell’art. 16 L. 56/87 dell’usciere a tempo determinato assunto dall’INAIL) evidentemente non si può porre il limite costituzionale del divieto di conversione enunciato dalla Consulta.11
5-La giurisprudenza di merito
5-A) L’orientamento maggioritario che individua nel risarcimento del danno
l’unica sanzione applicabile
La giurisprudenza di merito maggioritaria prende atto dell’esistenza di un regime speciale per i contratti a termine illegittimi o abusivi stipulati con una pubblica amministrazione, e si cimenta nel dare corpo alla sanzione risarcitoria consentita dall’art. 36 D.Lgs. 368/01, pervenendo a soluzioni molto differenti tra loro.
Un primo filone giurisprudenziale , rimanendo nei circoscritti ambiti della nozione nazionale di risarcimento del danno, che come tutti sappiamo ha per il nostro ordinamento interno funzione solo riparatoria e ,di regola, mai funzione sanzionatoria, (non essendo codificata la categoria dei c.d. danni punitivi presenti invece negli ordinamenti di Common Law12 )13, ha ricondotto il danno alle comuni categorie
11 In questo senso Xxxxxxxx DE XXXXXXX, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, cit., 1117, il quale ritiene che detta sentenza apra un percorso di legittimazione alle soluzioni interpretative che pone la sentenza del Tribunale di Siena 23 novembre 2009, che ha deciso per la conversione dei contratti con termine nullo, stipulati con la P.A., e di cui meglio si dirà nel proseguo della presente relazione.
12 Il danno punitivo, in ambito europeo, è espressamente previsto negli ordinamenti nazionali dell’Irlanda, del Regno Unito e di Cipro.
13 Nel nostro ordinamento nazionale il risarcimento del danno non ha mai una funzione sanzionatoria, e non ha l’obiettivo di dissuadere il responsabile, ma ha ad oggetto la tutela della parte offesa, essendo volto a ripristinare la situazione esistente prima dell’atto lesivo.
Il testo della Direttiva in materia di contratto a termine ,così come interpretata dalla Corte di Giustizia, quindi, oltre a valorizzare una dimensione sanzionatoria dell’istituto del risarcimento del danno , esplicita una opzione per il c.d. “danno punitivo”, che invece nel nostro ordinamento, non viene affatto riconosciuto, essendo stato ribadito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, dopo alcune oscillazioni, che la sanzione civile punitiva non ha vigenza nel nostro ordinamento, e che << l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno>>, mentre << alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del
civilistiche, con specifici obblighi di deduzione e di prova dei danni concretamente riportati, giungendo al rigetto della domanda in mancanza del tempestivo adempimento a tali oneri.
In particolare questa giurisprudenza14 riconduce la sanzione risarcitoria prevista nel settore pubblico in caso di illegittimo ricorso al contratto a termine, alla regola generale del neminem laedere stigmatizzata dall’art. 2043 c.c.
A una tale liquidazione del danno consegue l’applicazione dei criteri di quantificazione dello stesso dettati dal codice civile, con una specificazione dello stesso in termini di perdita subita e di mancato guadagno.
Questa ricostruzione comporta che il lavoratore sia gravato dall’onere di provare il pregiudizio subito, la violazione in cui è incorsa l’amministrazione ed il nesso causale che lega la violazione al danno, con la conseguenza che nessun risarcimento potrà essere riconosciuto qualora il dipendente non sia in grado di fornire una simile dimostrazione.15
Questa riconduzione del risarcimento ai soli schemi della responsabilità civile di diritto interno , dal punto di vista concreto, crea enormi difficoltà in capo al dipendente leso, il quale si deve cimentare con oneri di allegazione e prova al limite della c.d. “prova diabolica”, atteso che deve allegare e provare , ad esempio, che, a causa del termine
soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda a eliminare le conseguenze del danno arrecato>>.(Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione -C.,
S.U. 24.3.2006, n. 6572, X.Xxxx, 2006,852-, affrontando la questione del danno c.d. “esistenziale” da demansionamento, hanno formulato una opzione teorica in favore dell’inesistenza del c.d. “ danno in re ipsa” e hanno ribadito che << la sanzione civile punitiva … non ha vigenza nel nostro ordinamento>>).
Ancora recentemente la Corte di Cassazione ( C., 19.1.2007, n. 1183, CG, 2007, 497) ha affermato la preclusione nel nostro ordinamento dei punitive damages, negando, per contrarietà ai principi fondamentali dell’ordinamento interno, la delibazione di una sentenza straniera che aveva riconosciuto tali danni.
14 Cfr. Trib. Foggia 6 novembre 2006, in Lav. Pubbl. Amm, 2007, 1153 e ss; Trib. Trapani 2
dicembre 2008, in Giur.mer. 2009, 5, 1278.
15 Come poi è effettivamente avvenuto nel caso esaminato dal Tribunale di Foggia 6 novembre 2006, citato.
illegittimamente apposto al proprio contratto, ha perduto la possibilità di conseguire un posto di lavoro a tempo indeterminato , atteso che, se fosse stato bandito il relativo concorso, avrebbe avuto serie “ chance” di superarlo.
Questa impostazione del problema ha poi la pecca di non tenere in alcun conto della nozione del danno a livello comunitario, e delle connotazioni che il risarcimento deve avere, secondo la Corte di Giustizia, in questa materia, e cioè : 1) effettiva efficacia dissuasiva; 2) comportare conseguenze non di minore favore rispetto al settore privato ( principio di equivalenza); 3) non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario ( principio di effettività). La conseguenza che ne deriva, quindi, è che, aderendo a tale filone interpretativo, la normativa italiana in materia di ricorso abusivo a contratti a termine con la P.A. si palesa non conforme alla Direttiva, con conseguente illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost. dell’art. 36, comma 5 D.Lgs. 165/01 ( ma sulle possibili conseguenze derivanti in caso di norma di diritto interno contraria alla direttiva, si veda infra).
Si ricollega in qualche modo a questo orientamento anche chi16, ritenendo che non possa farsi ricorso ad un indennizzo uguale per tutti ( quindi svincolato dall’accertamento di un danno), ma debba essere adottato un risarcimento che abbia più propriamente una funzione ristoratrice , parametra il danno liquidabile in questi casi al trattamento retributivo contrattuale non erogato nei periodi di intervallo fra i contratti a termine intercorsi tra le parti; così come chi17 riconosce istituti contrattuali nella stessa misura che sarebbe spettata qualora l’assunzione fosse stata a tempo
16 Trib. Catania, 19 gennaio 2007, in Foro it., 2008, I, 350
17 Trib. Milano 12 gennaio 2007, in D&L Riv. Critica dir.lav., 2007, 182, che ha giudicato un caso di reiterati contratti a termine illegittimi intercorsi tra un medico e un’azienda ospedaliera e ha riconosciuto al dipendente l’indennità di esclusività , prevista dalla contrattazione collettiva, nella stessa misura che sarebbe spettata qualora l’assunzione fosse stata a tempo indeterminato.
indeterminato, o chi18, in un caso di proroga illegittima, riconosce le maggiorazioni retributive per l’intera durata dell’illegittima prosecuzione del rapporto, maggiorazione che, secondo il giudicante, << funge non solo da deterrente per il datore, ma assolve alla funzione di indennizzare il lavoratore per l’ulteriore precarietà alla quale viene costretto, essendo chiamato a prestare la sua attività lavorativa senza più alcuna certezza temporale e senza più alcun titolo legittimo>>; o infine, ancora, chi19 ha quantificato il risarcimento nella misura delle retribuzioni perdute per il periodo compreso tra la messa in mora e la pronuncia giudiziale.
Altra soluzione20 ritiene che <<il danno risarcibile debba essere individuato con riferimento ai periodi lavorati da considerarsi soggetti non al regime (illegittimo) del contratto a tempo determinato di fatto applicato, ma a quello (legittimo) del contratto a tempo indeterminato . Tale danno quindi andrà individuato calcolando la differenza tra quanto effettivamente percepito dal lavoratore e quanto lo stesso avrebbe percepito qualora fosse stato da subito inquadrato quale lavoratore a tempo indeterminato ossia con l'assunzione in ruolo. Il calcolo dovrà essere fatto con riferimento a tutti gli istituti influenti sulla retribuzione, calcolando quindi anche l'effetto dell'incremento retributivo determinato dall'anzianità di servizio>> (è il cd. criterio della ricostruzione della carriera): soluzione quest’ultima, che se, sotto il profilo teorico, appare scevra da censure non sembra, tuttavia, garantire, nei suoi esiti applicativi, un reale effetto dissuasivo conducendo, nella maggior parte dei casi, a forme di ristoro poco più che simboliche.
Secondo altro filone giurisprudenziale, invece, il lavoratore dovrebbe sempre ritenersi esentato dall’onere di provare quale sia esattamente il danno subito, potendosi questo identificare sempre e comunque nella perdita del posto di lavoro, derivante dalla
18 Trib. Perugia, 21 settembre 2007, WPC. S.D.L.E. 95/10, p. 21.
19 Tribunale di Trapani, sentenza 30 gennaio 2007.
20 . Trib. Treviso 21.09.09 est Xxxxx ; Trib. Xxxxxxx 00.00.0000, xxx Xx Xxxx
xxxxxxxxxx xx xxxxx imperative ( quelle poste in materia di contratto a termine), e questo dovrebbe consistere in un trattamento forfetario ( di stampo sostanzialmente indennitario), piuttosto che in un ristoro in senso tecnico.
Si inserisce in questo filone quella giurisprudenza21 secondo cui il danno da illegittima reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego è riconoscibile in re ipsa, anche in assenza di specifiche allegazioni e deve essere liquidato equitativamente22; (nel caso concreto la Corte di Milano nella sentenza in questione liquida €. 3.000,00, senza tuttavia spiegare quale procedimento abbia condotto a tale risultato).
Altra giurisprudenza,23 invece, quantifica il danno ricorrendo ad un meccanismo risarcitorio parzialmente forfetizzato e predeterminato, il quale tiene conto della perdita del posto di lavoro e della perdita di retribuzioni conseguenti utilizzando come parametro normativo interno quello fornito dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale, quale è quello alle dipendenze della pubblica amministrazione ( 5 mensilità quale indennizzo sanzionatorio previsto dall’at. 18 comma 4 L.300/70 + 15 mensilità quale misura sostitutiva della reintegra ai sensi
21 App.Milano 14 marzo 2006, in Lav. prev. oggi, 2008, suppl.6, 906
22 Alle stesse conclusioni giunge anche Trib. Foggia, 17 ottobre 2008, in Guida al lavoro, 2009, 9, 47.
23 Trib. Genova 14 dicembre 2006, in Riv. Giur.Lav, 2008, II, 446 e ss. Trattasi della sentenza emessa all’esito del procedimento Xxxxxxx-Xxxxxxx, nell’ambito del quale il giudice del lavoro di primo grado del capoluogo ligure ha sollevato questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia, e che ha dato luogo al pronunciamento della CGUE individuata con il nome dei ricorrenti, e illustrata nella presente relazione, nella parte ove viene ripercorsa la giurisprudenza comunitaria su questo tema.
Nello stesso senso si pongono anche Trib. Genova 5 aprile 2007, in Riv.it.dir.lav. 2007, 907; Trib. Genova 14 maggio 2007 in Lavoro e prev. Oggi, 2007, 1514; Trib. Latina, 27 novembre 2007, n.
3324.
La sentenza Trib. Genova 5 aprile 2007 è stata confermata da App. Genova 9 gennaio 2009, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, 1, 133 e ss., la quale, tuttavia, fa comprendere tra le righe come l’avvenuta detrazione dell’aliunde perceptum ( non oggetto di appello incidentale da parte dei lavoratori) non sia del tutto condivisibile, indebolendo la struttura del risarcimento forfetizzato, predeterminato e svincolato da un accertamento in concreto del danno.
dell’art. 18 comma 5 L. 300/70), decurtato tuttavia dell’aliunde perceptum e per ragioni di considerazioni di natura equitativa.
Questo orientamento, pur avendo il pregio di tenere in considerazione le indicazioni date dalla Corte di Giustizia in materia di risarcimento effettivo, non mi pare condivisibile là ove deduce l’aliunde perceptum, atteso che quest’ultimo istituto ha ragione di sussistere là ove viene in gioco un effettivo accertamento del danno secondo i criteri classici, e non ove si proceda ad una quantificazione di tipo indennitario, di tal che, mescolare i due istituti dà quale conseguenza un meccanismo di quantificazione del danno ibrido , non presente nel nostro ordinamento ( l’art. 18 comma 4 L. 300/70 infatti non lo prevede).
Maggiormente coerente appare pertanto quell’orientamento24 che, alla luce della Direttiva comunitaria 1999/70/CE e delle decisioni della Corte di Giustizia, ritiene che l’unica interpretazione dell’art. 36 D.Lgs. 165/01 compatibile con il diritto comunitario, e precisamente con i canoni di adeguatezza , effettività e dissuasività della tutela offerta in caso di abusi, oltre che con il criterio di equivalenza della stessa con le misure offerte per analoghe situazioni che si verificano nel settore privato, sia quella offerta dall’art. 18 , commi 4 e 5, St. Lav. ( e quindi delle 5 + 15 mensilità), senza procedere ad alcuna decurtazione dell’aliunde perceptum.
Ritiene che il risarcimento debba comunque compensare il posto di lavoro anche l’orientamento25 di chi, pur esonerando il lavoratore dal provare esattamente il danno subito, ritiene maggiormente congruo addivenire ad una quantificazione risarcitoria maggiormente personalizzata, parametrata al periodo medio occorrente per trovare una nuova occupazione, tenuto conto della zona geografica, dell’età , del titolo di
24 Trib. Foggia , 5 novembre 2009, in D & X. Xxx. Critica dir.lav. 2010, 453. Pare condividere questa impostazione anche App. Genova 9 gennaio 2009, cit..
25 Trib. Xxxxxxx Xxxxxxx 13 giugno 2007, in Riv. Critica dir.lav., 2008, 736, il quale nel caso di specie è addivenuto ad una quantificazione del danno pari a 17 mensilità
studio e del sesso. Questa impostazione qualifica il tipo di responsabilità come contrattuale, sulla base della considerazione che anche verso la PA il rapporto a termine illegittimamente instaurato o prorogato debba considerarsi a tempo indeterminato: rapporto che tuttavia si risolve automaticamente ex lege per effetto del divieto contenuto nell’art. 36.
Tale soluzione è stata, peraltro, bocciata dalla locale Corte d’appello26 sul rilievo che il riferimento al tempo medio necessario per ricercare una nuova occupazione è concetto connotato da alea eccessiva, perché privo di un concreto riferimento alla posizione del singolo lavoratore interessato, alla sua storia professionale, all’effettività della ricerca di una nuova occupazione ed al tempo concretamente necessario per l’effettiva assunzione. Maggiormente confacente al caso, secondo la sentenza in questione, è l’applicazione del criterio assunto dall’art. 8 l. 604 del 1966 ( da 2,5 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), in quanto la situazione in esame, in cui è per legge preclusa la prosecuzione del rapporto di lavoro, è simile a quella contemplata dall’art. 8, in cui la prosecuzione del rapporto è per legge rimessa alla scelta del datore di lavoro, che può rinunciare alla riassunzione mediante pagamento dell’indennità.
Un recente orientamento27 ha ritenuto che un utile parametro di quantificazione del danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine stipulati con la PA possa rinvenirsi nella recente legge 183 del 2010, il cui art 32, comma 5, prevede che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del (ndr. pregiudizio subito dal) lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
26 App. Catanzaro 1 aprile 2010, in Foro it. , 2010, I, 1931.
27 Trib.Treviso 28 gennaio 2011, est. Xxxxxxx.
Secondo questa giurisprudenza la norma, sebbene non direttamente applicabile al lavoro pubblico per il quale la conversione è esclusa, << può costituire un valido parametro per la liquidazione del danno in esame, avendo il pregio di :
(-) evitare l’incertezza del diritto derivante dall’applicazione di regimi di tutela differenziati sul territorio nazionale, a seconda delle opzioni esegetiche privilegiate dal singolo interprete (20 mensilità, regime di tutela obbligatoria, criterio delle ricostruzione della carriera, tutela aquiliana ecc);
(-) assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, più volte predicato dalla CGE, garantendo al lavoratore pubblico una forma di tutela non meno favorevole, “sub specie damni”, rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato in situazioni analoghe (lavoro privato);
(-) consentire al Giudice di personalizzare e graduare la sanzione risarcitoria tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto sottoposto al suo vaglio (es. complessiva durata dei rapporti a termine, ecc.)>>.
A giudizio di chi scrive quest’ultimo orientamento, pur avendo il pregio di commisurare l’indennizzo a parametri predeterminati e tali da sollevare dall’onere della prova il lavoratore, non considera il fatto che l’indennizzo previsto dall’art. 32 comma 5 del c.d. Collegato lavoro, nei rapporti di lavoro con privati si aggiunge alla conversione del rapporto, di tal che va ad indennizzare un danno ulteriore e diverso dalla perdita dell’impiego , che invece subisce il dipendente pubblico, il quale, pertanto, con la sola percezione di questa indennità, non verrebbe a ricevere una tutela equivalente a quella riconosciuta dall’ordinamento ai lavoratori non pubblici, con violazione, pertanto, del principio di c.d. equivalenza di matrice comunitaria e con conseguente contrarietà della normativa italiana, così interpretata, alla Direttiva 1999/70/CE.
Si segnala infine la recente giurisprudenza28 che, alla luce della precisazione contenuta nell’ordinanza VINO della Corte di Giustizia , la quale ha ribadito che l’ambito di operatività della Direttiva 1999/70/CE non comprende il primo o unico contratto di lavoro a termine, ha ritenuto di prescindere dalla nozione ( allargata) di risarcimento del danno comunitariamente orientata ( necessaria solo se vi sia in concreto un’esigenza di rendere l’interpretazione della norma interna conforme al diritto comunitario), in un caso in cui era lamentata l’illegittima apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro a termine con la P.A., facendo ricorso, per la liquidazione del danno, alle categorie giuridiche di diritto interno, così come comunemente intese in base al diritto nazionale. Il Tribunale ha infatti ritenuto che, <<qualora, come nel caso di specie, si tratti di un unico contratto a tempo determinato, sia a priori esclusa la configurabilità di una questione di compatibilità dell’art. 36 co. 5 del D.lgs. n. 165/2001 con l’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18.3.1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE>>.
5-B) La giurisprudenza di merito che disapplica l’art. 36 D.Lgs. 165/01 e converte
il rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato
Con orientamento del tutto nuovo e, allo stato minoritario, ( anche se già emulato da sporadici uffici giudiziari di primo grado) il Tribunale di Xxxxx, xxx. Xxxxxxxxxxx, 00 ha ritenuto che l’illegittima reiterata apposizione del termine nei contratti di lavoro stipulati con l’amministrazione scolastica determina la nullità dei contratti e la conversione in contratto a tempo indeterminato, dando diritto al reinserimento in servizio nel posto di lavoro per lo svolgimento delle medesime mansioni, oltre al risarcimento del danno, da commisurarsi alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data della messa in mora
28 Trib.Firenze, 27 gennaio 2011, est. Xxxxx.
29 Trib. Siena, 27 settembre 2010, in Il Lavoro nella giur. 2010, 11,1107 e ss; xxxxxx in Questione Lavoro, Anno II, 2011, I,89 e ss.
fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Per giungere a questa decisione, il giudice ha disapplicato la normativa nazionale, e segnatamente l’art. 36 D.Lgs. 165/2001 a vantaggio della Direttiva 1999/70/CE e quindi dell’art. 5 D.Lgs. 368/01.
Il caso esaminato dal Tribunale concerne un’insegnante che aveva stipulato tra il 1999 e il 2007 sei contratti a tempo determinato con l’amministrazione scolastica, interrotti nel periodo successivo al termine delle lezioni scolastiche, e che ha chiesto al Tribunale una declaratoria di nullità dei contratti per utilizzo abusivo di contratti a termine successivi, contrastante con i precetti del D.Lgs. 368/01, e il reinserimento nel posto di lavoro, con condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dalla messa in mora.
Questi i passaggi principali della motivazione:
- il contratto a tempo determinato resta la forma ordinaria di rapporto di lavoro, anche rispetto alla P.A.;
- la direttiva 1999/70/CE sancisce i principi di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato, oltre che di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine;
- la reiterazione dei contratti dimostra che la P.A. ha utilizzato il contratto a termine in violazione dei precetti di cui al D.Lgs. 368/01, ed in particolare in assenza di temporaneità ed eccezionalità delle esigenze prospettate;
- il risarcimento del danno, inteso variamente dalla giurisprudenza di merito, costituisce una tutela inadeguata in quanto l’unica tutela effettiva è rappresentata da quella in forma specifica, che nel nostro ordinamento è la regola e non l’eccezione, come sancisce l’art. 2058 c.c.;
- l’art. 24 Cost prevede che il processo debba dare alla parte lesa tutto quello che è riconosciuto dalla norma sostanziale, per cui la sanzione del risarcimento danni si palesa all’uopo inadeguata;
- la perdita del lavoro conseguente alla scadenza di un termine illecitamente apposto è equiparabile alla perdita del posto di lavoro a seguito di licenziamento, di tal che la tutelabilità in forma specifica del diritto del lavoratore a fronte di una vicenda risolutiva illegittima del rapporto merita paritaria attuazione tanto in caso di licenziamento, che in caso di apposizione del termine, realizzandosi in difetto una discriminazione tra lavoratori c.d. “ comparabili”;
- con la conversione la regola costituzionale di cui all’art. 97 della Costituzione non risulta violata, posto che quest’ultimo prevede espressamente che il legislatore ordinario possa derogare al principio della concorsualità;
- per il settore scolastico il CCNL 2006/2009 Comparto Scuola ( art. 40) contempla la possibilità di trasformare il rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato per effetto di specifiche disposizioni normative;
- una specifica deroga legislativa all’art. 97 Cost. non è peraltro necessaria in quanto l’assunzione a termine con la P.A. deve avvenire comunque per selezioni pubbliche ex artt 35 e 36 D.Lgs. 165/01, e quindi, una volta assunto il lavoratore a termine attraverso selezioni ( come nel caso sottoposto a giudizio, ove la lavoratrice è stata assunta a termine sulla base di graduatorie pubbliche), non vi è alcun ostacolo alla conversione;
- appare pertanto consentita nel caso di specie la disapplicazione della normativa nazionale ( art. 36 D.Lgs. 165/01) a vantaggio della Direttiva 1999/70/CE, delle pronunce della Corte di Giustizia e quindi dell’art. 5 D.Lgs. 368/01.
La decisione in questione è stata impugnata e la Corte di Appello di Firenze , con provvedimento assunto ai sensi dell’art. 431 comma 3 c.p.c., nel febbraio 2011, ha sospeso l’esecutorietà della sentenza in commento << ferma restando la necessità di un completo esame delle argomentazioni sollevate dal Ministero appellante, conformi alla giurisprudenza anche recentissima della S.C., nella quale la normativa nazionale
viene ritenuta conforme ai precetti costituzionali e comunitari (x. Xxxx. . 14350/2010) ,
….., in considerazione del gravissimo danno cui potrebbe dare luogo l’esecuzione della sentenza impugnata;>>, danno che in particolare è stato ravvisato <<da un lato nella grave interferenza che la reintegra del ricorrente (non più in servizio presso l’amministrazione scolastica) nel posto occupato da altro dipendente che non ha partecipato al giudizio avanti al Tribunale, potrebbe comportare, in contrasto col principio del buon andamento dei pubblici uffici (97 Cost.), dall’altro nell’erogazione di notevolissime somme a carico dell’erario, che non trovano riscontro in una prestazione lavorativa effettivamente eseguita ed appaiono ormai in contrasto con i criteri di liquidazione introdotti dall’art. 32 L. 183/2010>>.
La sentenza del Tribunale di Siena, pur ricorrendo a diversi argomenti, a mio giudizio non pare stringente nei suoi passaggi logici cruciali, né chiara circa il percorso giuridico che ha portato alla disapplicazione, nè comunque condivisibile nelle conclusioni.
Infatti:
- ai sensi dell’art. 2058 c.c. la reintegrazione in forma specifica non è prevista come un diritto assoluto del danneggiato, essendo subordinata al fatto che sia in tutto o in parte possibile e che comunque non sia eccessivamente onerosa per il debitore. Nel caso di contratto a termine abusivo stipulato con la P.A. da un lato la conversione è giuridicamente non possibile, stante il divieto di cui all’art. 36 D.Lgs. 165/01 , dall’altro la Direttiva 1999/70/CE pone sullo stesso piano la sanzione della conversione e quella del risarcimento del danno, lasciando agli Stati membri di individuare la misura preventiva, ed eventualmente la sanzione, ritenute più opportune. Ne discende che l’art. 36 D.Lgs. 165/01 non può ritenersi contrario alla direttiva per il fatto di escludere il risarcimento in forma specifica.
- E’ vero che l’art. 24 della Costituzione implica che il processo debba poter dare alla parte lesa tutto quanto è riconosciuto dalla norma sostanziale, ma nel caso del contratto a termine illecitamente stipulato con la P.A. la norma sostanziale ( e cioè l’art. 36 D.Lgs. 165/01) non riconosce al dipendente il diritto alla riqualificazione del rapporto, così come non lo riconosce neppure la Direttiva 1999/70/CE, la quale non impone agli Stati membri di adottare come sanzione al ricorso abusivo dei contratti a termine la conversione.
- L’equiparazione della situazione di chi perde il lavoro, in quanto licenziato, a chi invece lo perde in quanto scade il termine illegittimamente apposto ad un contratto, che poi non viene rinnovato, è suggestiva, anche se un po’ azzardata.. In ogni caso il richiamo al principio di non discriminazione contenuto nella direttiva 1999/70/CE è fuori luogo, atteso che i lavoratori “comparabili” non sono quelli che vengono licenziati ed hanno diritto alla tutela della reintegrazione, ma sono più semplicemente i lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Comunque, posto che la Direttiva 1999/70/CE ritiene astrattamente equivalenti i rimedi della conversione del contratto e del risarcimento del danno, non vi è in radice alcun trattamento deteriore degli uni rispetto agli altri, e quindi alcuna discriminazione.
- Il ritenere che con la conversione del contratto non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 97 Cost., oltre ad essere del tutto discutibile, in ogni caso non è argomento che possa consentire all’interprete di disapplicare una legge ordinaria quale è l’art. 36 D.Lgs. 165/01, così come è in onferente, a tali fini, il fatto che l’insegnante in questione è stata assunta con contratti a termine in virtù di procedure selettive e concorsuali.
- In ogni caso, anche a prescindere dalle confutazioni sopra riportate, la decisione non appare condivisibile in quanto, se pure per assurdo si volesse ritenere che la
disciplina italiana in concreto si ponga in contrasto con la Direttiva 1999/70/CE ( in quanto ad esempio la sanzione del risarcimento del danno non è effettiva, poiché il dipendente incontra ostacoli probatori tali da rendere eccessivamente difficoltosa la realizzazione del proprio diritto, oppure perché la tutela apprestata dall’ordinamento non può ritenersi equivalente a quella assicurata ai lavoratori a termine del settore privato), comunque il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma di diritto interno, in quanto <<la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro non comporta alcun obbligo incondizionato e sufficientemente preciso che possa essere invocato, in assenza di misure di trasposizione adottate nei termini, da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale>> ( cfr. sentenza CGUE IMPACT, punto 73).
6- Altre recenti questioni relative al precariato nella scuola
Avanti ai giudici di merito si stanno ponendo peraltro altre questioni afferenti la legittimità dei contratti a termine stipulati in successione nel Comparto Scuola, atteso che si sta diffondendo a macchia d’olio un contenzioso, che verosimilmente diverrà seriale ( probabilmente anche in altri settori del pubblico impiego), in cui insegnanti e personale A.T.A., premesso di aver lavorato alle dipendenze del MIUR per svariati anni in forza di una serie di contratti a tempo determinato, svolgendo l’attività di insegnamento o di assistenza tecnica presso vari istituti di istruzione, senza aver mai percepito alcuno scatto economico né maturato alcuna anzianità di servizio, sostengono che la stipulazione reiterata dei predetti contratti a termine sia da ritenersi illegittima in quanto non giustificata da concrete esigenze di carattere temporaneo ed eccezionale così come previsto dalla legge, e chiedono di accertare il diritto all’equiparazione del loro trattamento economico a quello degli insegnanti ed assistenti tecnici di ruolo con condanna del Ministero interessato al pagamento delle differenze retributive derivanti dal mancato riconoscimento degli scatti stipendiali.
. Il punto centrale di questi giudizi consiste nello stabilire se ed eventualmente entro quali limiti sia legittima la stipulazione reiterata di contratti a tempo determinato nel settore della scuola pubblica e se vi sia violazione del principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE..
I ricorrenti, infatti, in genere svolgono da diversi anni l’attività lavorativa e di insegnamento presso vari Istituti statali di istruzione, in regime di c.d. “precariato” vale a dire in forza di una serie di contratti a tempo determinato stipulati di volta in volta all’inizio di ciascun anno scolastico e normalmente con durata fino al termine delle attività didattiche dell’anno in questione.
Essi di regola sostengono che tale utilizzo reiterato e prolungato della contrattazione a tempo determinato sarebbe illegittimo in quanto non giustificato da concrete esigenze di carattere temporaneo ed eccezionale (secondo quanto previsto, nel settore del pubblico impiego, dall’art 36 del d.lgs. n. 165/01 come modificato da ultimo dall’art. 49 del d.l. n. 112/08) e in contrasto con la normativa comunitaria che vieta l’utilizzo abusivo dei contratti a termine e sancisce l’illegittimità delle disposizioni nazionali che comportino ingiustificate disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. Infatti sia gli insegnanti che gli assistenti tecnici ausiliari precari ritengono la descritta situazione del tutto equiparabile a quella dei colleghi a tempo indeterminato impiegati negli stessi anni scolastici e lamentano pertanto che, a differenza loro, sia loro negato il diritto agli scatti retributivi di anzianità. Ai sensi dell’art. 79 CCNL di comparto, la progressione economica compete al personale scolastico con la maturazione dell’anzianità di servizio prestato. Ai dipendenti a tempo determinato è invece applicato con ogni contratto ancora il trattamento iniziale, valorizzandosi il fatto che essi non rientrino tra il personale di ruolo, così come prevedevano gli artt. 53 l. 312/80 e 526 d. lgs 297/94 (cd. testo unico per la scuola).
Il carattere discriminatorio della soluzione adottata è invece negato dal MIUR , in genere sul presupposto dell’esistenza di ragioni oggettive che la giustificano e che risiederebbero nell’appartenenza o meno al ruolo del personale scolastico: non rientrandovi, i dipendenti a tempo determinato sarebbero inseriti in un diverso sistema di reclutamento, che valorizza comunque l’anzianità di servizio acquisita ed è finalizzato o all’assunzione definitiva o all’attribuzione d’incarichi di supplenza annuale e temporanea.
Deve peraltro considerarsi che i contratti a termine del settore scolastico, tanto per il personale docente quanto per quello amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA), sono disciplinati dalle norme speciali dettate in materia, ossia il D.Lgs 16 aprile 1994, n. 297, modificato dalla legge n. 124/99, oltre che da tutte le fonti integrative, rappresentate dai contratti collettivi nazionali di lavoro e dai regolamenti ministeriali per le supplenze.
In relazione a questa tipologia di controversie si possono individuare due orientamenti :
1) Secondo un filone giurisprudenziale di giudici di primo grado30, la domanda volta al riconoscimento degli scatti economici di anzianità è fondata e si basa sulla clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE, che prevede il divieto di discriminazione dei lavoratori a termine rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato comparabili, nonché sulla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea [Corte giust. 13 settembre 2007, causa c-307/05, Del Cerro Xxxxxx] che si è espressa nella circostanza sulla incompatibilità con la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro europeo allegato alla direttiva 99/70 di una norma interna che esclude il personale sanitario a tempo determinato dagli scatti retributivi triennali riconosciuti invece ai dipendenti di ruolo a tempo indeterminato.
Secondo l’interpretazione vincolante della Corte , la clausola vieta l’applicazione di trattamenti deteriori per i lavoratori a termine, determinati dal <<solo fatto di avere un
30 Trib.Alba, 8 novembre 2010; Trib. Genova 10 febbraio 2011; Trib. Trieste 18 novembre 2010.
contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive>>.
Per la Corte dell’Unione la clausola 4.1 osta all’introduzione d’una disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, giustificata dalla mera circostanza che essa sia prevista da una disposizione legislativa o regolamentare di uno Stato membro ovvero da un contratto collettivo concluso tra i rappresentanti sindacali del personale e del datore di lavoro interessato.
Il caso deciso dalla Corte di Giustizia è del tutto sovrapponibile a quello che si verifica per i precari nella scuola.
La successione di contratti a tempo determinato con la stessa amministrazione è comunque significativa di esigenze lavorative stabili, e non temporanee ed eccezionali, con la conseguenza che la successione di contratti deve ritenersi abusiva ai sensi della Direttiva 1999/70/CE
Il divieto contenuto nella clausola 4.1 è stato ritenuto preciso al punto da non richiedere atti di trasposizione interna della direttiva, e da essere considerato operante nei rapporti orizzontali [Corte giust. 15 aprile 2008, causa c-268/06, Impact].
A questo punto le modalità attraverso le quali si arriva all’accoglimento della domanda si diversificano :
a) il Tribunale di Xxxx, applicando l’art. 36 D.Lgs. 165/01, riconosce anche ai precari gli emolumenti economici derivanti dagli scatti di anzianità, a titolo di risarcimento del danno derivante dalla violazione delle regole che disciplinano l’apposizione del termine ;
b) il Tribunale di Genova applica il principio di non discriminazione, non direttamente quale regola disciplinante il rapporto dedotto in giudizio, ma come principio ispiratore di una interpretazione conforme al diritto comunitario ( ma in realtà, più che di una operazione
ermeneutica in senso proprio, il Tribunale ha adottato un’esegesi contraria al dato normativo di diritto interno);
c) il Tribunale di Trieste disapplica le norme contrarie al principio di non discriminazione, così come sancito nella Direttiva 1999/70/CE.
Quest’ultima soluzione mi pare quella preferibile, posto che la clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro ( che vieta in generale e in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato per quanto riguarda le condizioni di impiego) è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, così come ha statuito la stessa Corte di Giustizia con la sentenza IMPACT.
2) Secondo altro filone giurisprudenziale ( peraltro di secondo grado),31 la normativa applicabile non è costituita né dal primo comma dell’art. 36 D.Lgs n. 165/01, né dal D.Lgs n. 368/01, ma è, piuttosto, individuata nell’insieme delle leggi speciali in materia di reclutamento del personale della scuola succedutesi nel tempo (con le ordinanze ministeriali d’attuazione), a cominciare dal D.Lgs 16 aprile 1994, n. 297, in seguito modificato e integrato. Di conseguenza, l’indagine del giudice non può essere diretta ad accertare la violazione del D.Lgs n. 368/01, inapplicabile alla materia in esame; piuttosto, deve accertare se la stipulazione di una serie di contratti di lavoro con la parte ricorrente abbia dato luogo, da parte dell’amministrazione resistente, ad un abuso dello strumento delle assunzioni a termine, alla stregua della direttiva 70/1999 CE e dell’accordo quadro a essa allegato, e, dunque, costituisca una condotta illegittima, tale da far sorgere nella lavoratrice il diritto al risarcimento.
In linea generale, secondo la Corte di Appello di Perugina, occorre tener presenti le esigenze peculiari che, nel settore dell’amministrazione scolastica, le assunzioni a tempo
31 Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx, 00 febbraio 2011.
determinato sono destinate a soddisfare. L’organico del personale scolastico – docente e non docente – è caratterizzato da una certa variabilità, in dipendenza del variare, di anno in anno, del numero degli utenti del servizio scolastico. Di conseguenza, per un verso, ragioni di contenimento della spesa pubblica suggeriscono di evitare il sovradimensionamento degli organici, così da evitare esuberi di personale e costi inutili nei momenti di calo demografico o di diminuzione, per qualsiasi motivo, delle iscrizioni; per altro verso, la necessità di assicurare la costante erogazione del servizio scolastico, finalizzato al soddisfacimento di un interesse costituzionalmente garantito, rende giu- stificato e ragionevole il ricorso alle assunzioni a termine.
Queste considerazioni di carattere generale inducono a escludere l’esistenza di un abuso nel ricorso dell’amministrazione scolastica allo strumento del contratto a tempo deter- minato, di tal che la domanda avanzata dalla dipendente viene respinta.
La Corte non prende affatto in considerazione la clausola n. 4 punto 1 dell’accordo quadro, ma esamina solo la sussistenza di ragioni oggettive giustificanti la reiterazione dei contratti, coincidente, nella sostanza, nel semplice fatto che la struttura dell’istruzione pubblica è normativamente e di fatto così congegnata.
7-Conclusioni
Dalla disamina sopra effettuata riterrei possano essere tratte le seguenti conclusioni:
1) La normativa italiana, ed in particolare l’art. 36 D.Lgs. 165/01, è astrattamente compatibile con la Direttiva 1999/70/CE;
2) La direttiva in questione , che si basa su due pilastri ( quello del principio di non discriminazione dei lavoratori a termine rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato comaparabili, e quello della prevenzione degli abusi nella successione di contratti a termine) fissa , con riferimento alla prevenzione degli abusi di reiterazione, solo degli obiettivi, che gli Stati membri sono liberi di perseguire come meglio ritengono,
purchè attuino almeno una delle misure previste dalla clausola n. 5 , e siano rispettosi dei principi di equivalenza, effettività, proporzionalità e dissuasività- efficacia delle misure adottate;
3) Il giudice nazionale, sulla base dei principi e della interpretazione forniti dalla Corte di Giustizia, deve valutare se in concreto la normativa di diritto interno si ponga in contrasto con la Direttiva e, per quanto riguarda la disciplina apprestata per i contratti a termine nel settore pubblico, se il rimedio del risarcimento del danno previsto dall’art. 36 D.Lgs. 165/01 sia adeguato e conforme alla direttiva;
4) Prima di decretare l’incompatibilità del diritto nazionale con la direttiva comunitaria, il giudice deve ricorrere, se possibile, ad una interpretazione della norma interna conforme al diritto comunitario : questa operazione non può portare a dare soluzioni contra legem e non qualificabili come interpretazione;
5) Tra le interpretazioni possibili della nozione di risarcimento del danno di cui all’art.
36 D.Lgs. 165/01, l’unica che appare conforme alla Direttiva, in quanto misura equivalente rispetto a quella riservata dal diritto interno agli altri settori, efficace, dissuasiva ed effettiva, è quella che consente di liquidare al dipendente leso dal ricorso abusivo ai contratti a tempo indeterminato con la P.A. un risarcimento- indennizzo almeno pari a 20 mensilità globali di fatto per il mancato conseguimento del posto di lavoro, oltre gli eventuali ulteriori danni che invece in concreto potrà provare ( es: intervalli non lavorati e non pagati tra un contratto ed un altro, trattamenti economici inferiori a quelli spettanti ad un dipendente assunto con contratto a tempo indeterminato, ecc.);
6) Un risarcimento così strutturato deve ritenersi equivalente alla tutela attuata con la riqualificazione del contratto;
7) Una diversa valutazione, in punto di conformità della disciplina nazionale alla clausola n. 5 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE non legittima la disapplicazione della norma interna, posto che la disposizione comunitaria in questione ha la forma di una direttiva ( che vincola in linea di principio solo gli Stati, ed eventualmente può operare direttamente nei rapporti di lavoro alle dipendenze dello Stato membro, persona giuridica – con esclusione, quindi, di tutti i rapporti di pubblico impiego presso soggetti pubblici diversi) e che soprattutto non ha un contenuto così preciso e completo da essere self-executing. L’eventuale incompatibilità potrà essere fatta valere solo sollevando questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 117 Cost . in relazione alla Direttiva 1999/70/CE;
8) Discorso diverso deve farsi con riguardo alle disposizioni normative interne che si pongano in contrasto con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4, punto 1 della Direttiva 1999/70/CE, la quale, essendo espressione di un principio generale dell’ordinamento comunitario, ed essendo sufficientemente precisa e completa, è idonea ad essere applicata orizzontalmente e ad essere invocata dai cittadini appartenenti ad ogni Stato dell’Unione, i quali possono rivolgersi direttamente al giudice nazionale per richiederne l’applicazione. In questo caso l’eventuale difformità del diritto interno rispetto a tale principio, non sanabile attraverso una interpretazione conforme al diritto comunitario, comporta la disapplicazione da parte del giudice della norma nazionale in favore della disposizione comunitaria32;
32 Si veda al proposito anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia (X.Xxxxx.CE 12.12.2002, causa C-442/2000, Caballero, FI 2003,IV,1) in ordine alla modalità di ripristino della parità di trattamento violata, secondo cui, quando venga accertata una discriminazione, incompatibile con il diritto comunitario, e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle
9) Questo è quanto può essere fatto con riferimento al contenzioso economico dei precari della scuola, i quali denunciano un trattamento meno favorevole e non giustificato oggettivamente, e quindi discriminatorio, rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili.
Roma, 16 marzo 2011
Xxxxxxxx Xxxxx
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persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tali ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale