DIRETTORE
4-5/2008
AGENZIA PER LA RAPPRESENTANZA
NEGOZIALE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
LUGLIO OTTOBRE 2008
REDAZIONE XXX XXX XXXXX 000
00000 XXXX
LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA D’ISTITUTO: MANEGGIARE CON CURA
IL CCNL DEL COMPARTO UNIVERSITÀ
IL CCNL DELLA DIRIGENZA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
LA VALORIZZAZIONE DEL LAVORO PUBBLICO. IL PUNTO DI VISTA DEGLI STUDIOSI
numero 4-5 • luglio/ottobre 2008
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DIRETTORE
Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxx
DIRETTORE RESPONSABILE
Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx
COMITATO EDITORIALE
Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx D’Xxxxx Xxxxxxx D’Auria Carlo Dell’Aringa Xxxxxxxx Della Xxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxx Xxxx
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxx
COMITATO DI REDAZIONE
Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Xxxxxxx Xx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
REDAZIONE
Telefono 0632483265-340
Fax 0000000000
xxxxxxxxxxxxxx@xxxxxxxxxxx.xx xxx.xxxxxxxxxxx.xx
STAMPA
Eurolit srl
Aut. Trib. di Roma n. 630 del 27.12.95 Sped. In Abb. post.
L. 662/96 art. 2 C. 20/c
ANNO XIII N. 4-5 LUGLIO OTTOBRE 2008
COMMENTI
La contrattazione collettiva d’istituto: maneggiare con cura
di Xxxxx Xxxxxxxxx 2
Il CCNL del Comparto Università
di Xxxxxxxx Xxxxxxxx 9
Il CCNL della dirigenza del Servizio sanitario nazionale
di Xxxxxx Xxxxxxx 12
I contratti collettivi integrativi.
Gli orientamenti della Corte di Cassazione e della Corte dei conti
di Xxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxxx 18
OSSERVATORIO UNIONE EUROPEA
Il dialogo sociale nelle politiche
di riconciliazione tra vita lavorativa, privata e familiare
di Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx 27
CONVEGNI
Sistemi contrattuali e produttività
di Xxxxx Xxxxxxx 31
FLASH NOTIZIE
a cura di Xxxxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxx
Attività svolta dall’Aran 36
OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA
a cura dell’Xxxxxxx Xxxxxx giuridici Aran 39
INSERTO
La valorizzazione del lavoro pubblico. Il punto di vista degli studiosi Audizioni al Senato su ddl 847 e 746
di Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxxxx X’Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx
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La contrattazione collettiva d’istituto: maneggiare con cura1
Fare una riflessione sulla contrattazione collettiva nel Comparto Scuola richiede una premessa d’ordine generale. Occuparsi della contrattazione collettiva in questo momento è un’impresa faticosa. Ci troviamo infatti in una fase d’intensa trasformazione del sistema contrattuale nel suo insieme. Da un lato è in corso una trattativa che vede come protagoniste le Confederazioni sindacali e la Confindustria. Si tratta di un negoziato che procede lentamente, per tappe, e sul quale è difficile dare un giudizio compiuto poiché, almeno nel momento in cui scriviamo queste note, diverse questioni sono soltanto abbozzate e molti nodi devono ancora essere sciolti. Dall’altra parte, una discussione per certi aspetti analoga si è aperta anche nel settore pubblico, dove le cose hanno proceduto, almeno in una prima fase, in maniera separata, nell’attesa che i due percorsi (e quelli di altri settori produttivi e dei servizi) confluiscano, se confluiranno, in un’unica trattativa.
Naturalmente, lo stato, per così dire
“sospeso”, delle trattative generali condiziona in misura notevole ogni possibile previsione sul futuro dei sistemi contrattuali anche settoriali. Da ciò deriva che ogni ragionamento possibile oggi viene fatto, per così dire, “a bocce ferme”.
Quali sono i principali problemi e le criticità più evidenti della contrattazione della scuola, e in
particolare del sistema della contrattazione d’istituto? Per abbozzare una riflessione in proposito occorre probabilmente partire da una breve analisi dei punti di contatto e delle specificità di questo sistema contrattuale a partire dalle caratteristiche strutturali della contrattazione stessa, per dire qualcosa, infine, sui suoi contenuti. Bisogna ricordare, intanto, che la contrattazione d’istituto nel settore della scuola ha varie caratteristiche strutturali che la differenziano sia da quella del settore privato che da quella dei comparti pubblici. Si tratta di differenze che per alcuni aspetti marcano efficacemente la specificità della scuola da altri comparti aventi caratteristiche diverse, ma che per altri aspetti presentano anche problemi e criticità che meriterebbero forse un approfondimento ed adeguate soluzioni.
Occorre ricordare, innanzitutto, che
le relazioni sindacali d’istituto sono nate abbastanza tardi rispetto agli altri modelli, avendo dovuto aspettare, sostanzialmente, la trasformazione del sistema scolastico da un equilibrio fortemente centralizzato in sistema nel quale ha conquistato spazio, grosso modo una decina di anni or sono, l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Ciò ha sicuramente consentito alle relazioni d’istituto di inserirsi in un assetto per così dire più “maturo” delle relazioni sindacali nel settore pubblico, ma ha anche fatto sì che le relazioni
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sindacali di secondo livello non abbiano conosciuto una fase di incubazione e di rodaggio, come è accaduto in altri settori, ma siano uscite, per usare una metafora mitologica, un po’ come Minerva armata di tutto punto dalla testa di Giove. Esse si sono inserite, peraltro, in un sistema contrattuale molto complesso, nel quale la ricerca di ambiti nuovi non ha avuto la capacità o l’energia di fare a meno della conservazione, totale o parziale, dei livelli contrattuali esistenti.
Naturalmente, tutto ciò non è dovuto a un capriccio, ma in certa misura al fatto di riferirsi al più grande e articolato comparto pubblico. Inoltre, bisogna ricordare che tale pluralità di livelli ha seguito anche l’evoluzione del sistema organizzativo della scuola, con la nuova importanza conferita alle direzioni regionali. Tuttavia, così come tale assetto organizzativo si è fermato per alcuni aspetti in mezzo al guado, anche la struttura contrattuale fatica a trovare un assetto stabile, come dimostra il fatto che alcune materie ancora oscillano, da un contratto all’altro, tra il livello ARAN e quello integrativo nazionale, tra questo e quello regionale.
Tutto il sistema si è venuto
costruendo, insomma, in una fase complessa dell’evoluzione dell’organizzazione scolastica, e del bilanciamento tra i suoi poteri.
Sarebbe ormai tempo, tuttavia, di dare spazio ad una riflessione che, magari senza dover coincidere necessariamente con i tempi convulsi dei rinnovi contrattuali, aprisse una riflessione ampia e pacata non solo sulla contrattazione d’istituto, ma sul sistema contrattuale della scuola nel suo complesso, con un approccio “costituente”. La mia opinione, per dirla in modo estremamente sbrigativo, è che sia necessaria una semplificazione forte di questo sistema, che porti in maniera più decisa verso la bipolarità: contratto
nazionale - contratto d’istituto, seguendo lo schema valido per la maggior parte dei comparti pubblici e privati. Ciò significherebbe dare alla contrattazione d’istituto un respiro assai maggiore di quello di cui dispone adesso. Dicendo questo, intendo dire ovviamente che sarebbe opportuno marciare contestualmente nel senso di un consolidamento dell’autonomia scolastica assai maggiore di quello, a mio parere incerto e parziale, che si è venuto costruendo da un decennio a questa parte.
Un secondo elemento di specificità della contrattazione d’istituto, in parte conseguente a quanto abbiamo appena detto, è il fatto che essa è nata con protagonisti un poco improvvisati, e in un sistema strutturalmente e culturalmente poco avvezzo alle dinamiche negoziali. Non si dice niente di nuovo se si ricorda che tra le competenze abitualmente addestrate e richieste per i capi d’istituto, e poi per i dirigenti scolastici, non c’era sicuramente quella di gestire i rapporti con i sindacati e che d’altra parte, mentre nelle amministrazioni pubbliche e private il compito di gestire i rapporti sindacali è di norma affidato a strutture a ciò appositamente formate e dedicate, nelle istituzioni scolastiche questo compito si è andato a sommare agli altri cento compiti, spesso molto complessi ed eterogenei, affidati al vertice, dirigenziale ed amministrativo, delle scuole.
Allo stesso modo si può dire che,
almeno in una prima fase, le RSU si sono letteralmente dovute “inventare” i compiti e il mestiere, ed è un piccolo miracolo che, dopo varie tornate elettorali, i meccanismi di legittimazione democratica continuino a funzionare e a conoscere una così elevata partecipazione. Non v’è dubbio tuttavia che, perché tale fenomeno
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continui a rinnovarsi, sia necessario proseguire e incrementare la formazione e l’assistenza delle persone addette ai rapporti sindacali da entrambe le parti del tavolo, il consolidamento delle competenze diffuse in questa materia e, forse, anche impegnarsi in una maggiore presa di responsabilità da parte della contrattazione nazionale circa le procedure e gli ambiti tematici nei quali è possibile ed opportuno che si svolga la contrattazione d’istituto.
Naturalmente, le azioni di sostegno, per così dire organizzative e formative alla contrattazione d’istituto e ai suoi protagonisti, sono fondamentali per la sua buona salute, anche se possono non bastare, nel termine medio- lungo. Qualche anno fa l’ARAN condusse una ricerca sulla contrattazione d’istituto, un’indagine in profondità centrata su quattro realtà territoriali/campione e che diede interessanti risultati. Ebbene, quell’indagine mise in luce che la minaccia forse più importante alla contrattazione d’istituto e ai suoi protagonisti era il rischio di trasformarsi in burocratica routine, e metteva in evidenza il divario evidente tra l’impegno e lo sforzo negoziale delle parti e la modestia, talora, dei risultati raggiungibili. Io credo allora che una risorsa fondamentale per mantenere e rilanciare questa attività sia quella di riqualificarne i contenuti, collegandoli più visibilmente e stabilmente con il miglioramento dell’offerta e della qualità formativa. Su questo tornerò con qualche maggiore dettaglio in conclusione di questo scritto.
Una terza specificità delle relazioni
sindacali d’istituto è che quando leggi e contratti nazionali le hanno importate, per dir così, nel settore scolastico, esse non si sono inserite in una situazione di tabula rasa, ma anzi hanno dovuto fare i conti con un assetto quanto mai aggrovigliato e complesso di rapporti tra
microistituzioni ad esse preesistenti, dovendosi misurare, altresì, con un assetto organizzativo e funzionale della scuola già preorientato, piuttosto, sui rapporti professionali che su quelli sindacali. Quella dell’insegnamento è infatti, storicamente, una professione che viene esercitata tra pari, e dunque la dimensione collegiale è in qualche misura positivamente connaturata con l’esistenza stessa dell’istituzione scolastica. Il rapporto tra gli insegnanti, il proprio ruolo professionale e le aspettative sociali possono essere affrontati efficacemente solo insieme. In Italia, questa collegialità professionale si era venuta coniugando con un forte movimento orientato all’apertura al sociale e al territorio, oltre che ad un coinvolgimento degli utenti nella definizione degli obiettivi istituzionali. La creazione dei cosiddetti organi collegiali era stata la sanzione istituzionale dell’accettazione degli obiettivi di questo trend. Rispetto a questa dimensione dell’insegnante, come persona che esercita collegialmente la professione in un ambito aperto al mondo circostante, la dimensione del lavoratore della scuola come lavoratore dipendente risultava non assente, ma certamente più sbiadita, almeno a livello delle singole scuole. Tale dimensione è riemersa invece con forza, nell’ultimo decennio, in parte proprio come conseguenza del rafforzarsi dell’autonomia e della dimensione gerarchica, che hanno focalizzato l’attenzione sull’attività dei docenti e del personale amministrativo non solo sul versante professionale ma anche su quello della concreta condizione lavorativa. Va detto tuttavia che la ricerca dell’equilibrio tra dimensione professionale e dimensione
lavorativo-subordinata, per dir così, è
tutt’altro che scontata, anche perché sarebbe ingenuo cercare di
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incanalarla entro binari rigidamente preordinati. Il confine tra l’attività dei collegi, nei quali si esplica l’attività professionale dei docenti e l’attività sindacale e contrattuale sono molto labili ed esposti, in positivo, alla possibilità di reciproci stimoli e contaminazioni fruttuose ma anche, in negativo, al rischio di accrescere la confusione, attraverso non auspicabili invasioni di campo. Ciò pone, a mio parere, alla contrattazione d’istituto un problema in più rispetto alla contrattazione negli altri settori: quello di dover esercitare con grande saggezza e flessibilità l’attività delle relazioni contrattuali per far sì che la tutela dei diritti di chi lavora nell’ambito scolastico non sia d’intralcio, ma anzi solleciti positivamente la dimensione dell’innovazione e della trasformazione dell’offerta formativa. Sarebbe inoltre positivo, anche per la buona salute futura della contrattazione d’istituto, che si giungesse finalmente ad una complessiva ridefinizione degli organi di governo della scuola, al fine di definire in maniera semplice e chiara ruoli e competenze dei vari soggetti che operano in ambito scolastico.
Un’ulteriore specificità strutturale
della contrattazione d’istituto riguarda, infine, i temi e gli ambiti nei quali essa concretamente si svolge.
Come abbiamo ricordato, gli ambiti della contrattazione nei settori privati e in quelli pubblici si sono venuti incanalando, negli anni più vicini a noi, sia pure con molte esitazioni e difficoltà, verso tematiche abbastanza precise e delimitate. Nel privato, la contrattazione aziendale ha avuto come punti di riferimento principali la produttività del lavoro e la redditività dell’impresa, alla crescita dei quali si fa corrispondere l’erogazione di quote di salario più o meno significative. Nei settori pubblici la contrattazione decentrata ha imboccato due strade: quella del
finanziamento e della gestione di percorsi di carriera, le cui regole generali sono definite dai contratti nazionali, e quella della distribuzione di quote di salario legate a prestazioni aggiuntive e/o ad incrementi di produttività. Tutto ciò si inserisce, occorre ricordarlo, in una struttura retributiva che ha da tempo archiviato le progressioni automatiche per anzianità anche se si può, a buon diritto, ritenere che in diversi casi le progressioni di carriera cosiddette orizzontali siano diventate anch’esse, nei fatti, automatiche, o semiautomatiche.
In questo contesto, la contrattazione della scuola mantiene un grado assai elevato di specificità. Essa non può infatti fare riferimento/fotocopia, per evidenti ragioni di differenza strutturale e funzionale, a indici e parametri di produttività e di redditività di tipo “industriale”. D’altra parte, alla scuola appaiono difficilmente applicabili anche i meccanismi di progressione di carriera adottati in altri settori del pubblico impiego. Qui, per la verità, occorre distinguere. Per quanto riguarda il personale Ata, l’attuale sistema di progressione è un ibrido, derivante dall’intreccio tra il sistema basato sugli automatismi per anzianità e quello basato sulle progressioni verticali. Questo sistema, come tutti gli ibridi, è troppo confuso e ormai poco produttivo. Sono a mio parere maturi ormai i tempi per operare una scelta semplificatrice e chiarificatrice, che porti a creare un sistema di progressioni verticali ed orizzontali sostanzialmente senza automatismi e analogo a quello esistente per il personale amministrativo nel resto del pubblico impiego. Diverso, e per diversi aspetti assai più complesso, è il problema per quanto riguarda gli insegnanti. Qui, com’ è noto, si sono identificate finora sostanzialmente due strade per uscire da un appiattimento retributivo che non ha
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paragoni, almeno nei settori contrattualizzati, e per realizzare una struttura di carriera. Una prima strada fu quella battuta nel contratto nazionale del 1999, conclusasi con l’infelice vicenda del “concorsone”.
Una seconda strada è quella che da tempo il parlamento sta cercando, finora vanamente, di imboccare, ed è quella della creazione per legge di una vera e propria carriera verticale, fatta di livelli corrispondenti a diversi gradi di preparazione e capacità dei docenti, livelli corrispondenti a vere e proprie qualifiche alle quali si accederebbe attraverso concorsi, con una struttura per vari aspetti analoga, anche se probabilmente più “corta”, a quella esistente negli altri comparti del pubblico impiego. È difficile dire quale sarà l’esito dei progetti presentati in questa legislatura, essendo questa una materia assai controversa. Certamente, non è impossibile immaginare sistemi che, pur impostati, come a mio avviso è necessario, su una solida base legislativa ed ordinamentale, lascino poi spazi anche alla contrattazione, nazionale e d’istituto. Si tratta di capire, però, se questo sia il problema. Dando per acquisita l’opinione, ormai ampiamente condivisa, che la piattezza del sistema di progressione economica degli insegnanti italiani sia un disvalore e vada dunque archiviata, sostituendola con un sistema che colleghi e valorizzi l’apporto del personale scolastico alla “missione” della scuola, il problema è capire se sia davvero la carriera, costruita su una serie di titoli distribuiti tra impegni burocratici, esibizioni cartacee e impegno formativo, con la rigidità e l’inevitabile gerarchizzazione che essa comporta, la strada maestra per accrescere la motivazione degli insegnanti, stimolando quella partecipazione e identificazione con l’impegno individuale da una parte, e il gioco di squadra dall’altro, che sono la chiave
per migliorare la qualità del servizio scolastico. Se cioè il modello aziendale burocratico di carriera, buono per altri e diversi ambiti organizzativi (ove peraltro, va pur detto, non sempre funziona in maniera ottimale), sia senz’altro esportabile con efficacia anche nell’ambito scolastico. In merito è più probabile avere dubbi che certezze, e del resto tutti sappiamo che questa è una discussione da tempo aperta, sulla quale le opinioni anche tra gli specialisti restano divergenti.
Qualunque soluzione si decida alla fine di adottare, solo dopo un adeguato periodo di sperimentazione e di confronto sarà probabilmente possibile trovare la soluzione giusta al problema.
Vengo da ultimo brevemente al tema delle procedure e dei contenuti della contrattazione collettiva d’istituto, così come essi sono attualmente definiti e circoscritti dalla contrattazione nazionale, senza trascurare qualche osservazione su qualche possibile evoluzione di prospettiva. Per quanto riguarda le procedure, si può dire che in particolare nell’ultimo contratto nazionale vi sia stato un significativo sforzo per rendere più solleciti i tempi, snellire e dare maggiori certezze al negoziato, renderlo coerente con l’ordinato svolgimento dell’anno scolastico e aiutare anche a trovare una soluzione, con l’istituzione della commissione di conciliazione, a quei casi in cui il raggiungimento dell’accordo sia più difficile. Si può ricordare che alcune delle norme introdotte dal contratto erano appunto finalizzate a risolvere alcuni problemi che erano stati segnalati, tra l’altro, nella ricerca ARAN cui ho prima accennato.
Per quanto riguarda i contenuti della
contrattazione d’istituto, si può dire che, date le premesse che abbiamo poc’anzi ricordato, le relazioni sindacali e a livello d’istituzione
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scolastica si siano soprattutto indirizzate a creare elementi di trasparenza e di vincolo alle decisioni del dirigente, riguardanti alcuni aspetti cruciali della prestazione lavorativa nelle istituzioni scolastiche. Si tratta di elementi di trasparenza e vincolo riguardanti soprattutto aspetti salariali (cioè le prestazioni da retribuire con il fondo d’istituto), di impegno orario, sia dei docenti che del personale Ata, la sicurezza e i diritti sindacali. Si tratta di temi abbastanza circoscritti, anche se importanti, e sostanzialmente presenti in tutta la contrattazione integrativa, sia privata che pubblica.
Date per scontate le difficoltà e le
criticità della contrattazione integrativa, su cui ci siamo in precedenza soffermati, appaiono francamente fuori luogo le immagini, che qualche volta si vedono evocare sulla stampa, di una contrattazione sindacale che spadroneggia nelle scuole italiane. L’indagine per campione condotta dall’ARAN rivelava, tra l’altro, che in molti casi la contrattazione d’istituto viene messa in atto in uno spirito collaborativo tra le parti, e che essa viene in non pochi casi considerata, dagli stessi attori, come uno strumento che arricchisce il tessuto relazionale, mette in moto un circolo virtuoso di maggiore partecipazione e migliori legami sociali tra colleghi, aiuta la gestione e la risoluzione dei conflitti in un settore delicato come quello della scuola.
Ci si può chiedere tuttavia se gli
ambiti nei quali finora si è mantenuta la contrattazione d’istituto abbiano un sufficiente collegamento con il miglioramento della qualità dell’istruzione e la valorizzazione delle risorse in essa contenute, risorse che non sempre sono, a mio parere, utilizzate al massimo delle loro potenzialità. Ci si può e ci si deve chiedere, insomma, se i confini finora mantenuti dalla contrattazione
d’istituto non rischino di mantenere la contrattazione stessa in un ambito insieme dispersivo e troppo “difensivo” e conservatore, anziché positivamente innovatore, come sarebbe opportuno che fosse.
È qui opportuno il richiamo al modello aziendale, in particolare laddove collega la contrattazione con il miglioramento della qualità del prodotto. Anche nella scuola italiana c’è una forte e condivisa preoccupazione per i problemi di arretratezza che affliggono molte istituzioni scolastiche, per la situazione decisamente a “pelle di leopardo” di una scuola nella quale convivono, talvolta gomito a gomito, realtà d’eccellenza e situazioni di degrado. Vi è cioè, per usare un linguaggio d’importazione, una forte e diffusa esigenza di miglioramento della qualità del prodotto, un miglioramento che dev’essere perseguito attraverso una grande quantità di misure convergenti, d’ordine strutturale, infrastrutturale, formativo, culturale, ma che non può non avere il suo epicentro in una decisa rivalutazione dell’attività didattica e del lavoro in classe. La regolazione e la strutturazione istituzionale del sistema scolastico in tanto hanno un senso in quanto, attraverso un lavoro coordinato degli insegnanti e del personale scolastico, contribuiscano a realizzare un’offerta scolastica qualificata che conduca al massimo grado possibile di successo formativo.
A questo potrebbe contribuire, mi
sembra, anche la contrattazione integrativa, se fosse capace di un più deciso salto di qualità. Penso ad una contrattazione d’istituto che, superando definitivamente la logica della pioggerella che bagna un po’ tutti e non disseta nessuno, utilizzasse gli spazi aperti dall’autonomia scolastica per sperimentare forme di definizione di obiettivi misurabili di successo
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formativo, concentrando su questo obiettivo le risorse disponibili, e incentivando anche economicamente chi partecipa al loro raggiungimento. È ovvio che, come ricordava un maestro del diritto del lavoro italiano, bisogna sempre ricordare che “la contrattazione può molto, ma non può tutto”. Vale a dire, in questo caso, che la necessaria valorizzazione dei risultati formativi richiede il funzionamento a pieno regime di un serio e condiviso sistema di valutazione del sistema scolastico, e
di uno sforzo comune e coordinato in questa direzione dei diversi livelli istituzionali. Ma intanto, cominciare bisogna, e anche una marcia lunga mille miglia incomincia con un passo.
di Xxxxx Xxxxxxxxx
Comitato direttivo ARAN
NOTE
1 Intervento pronunciato alla Settima Conferenza Nazionale di Organizzazione della Uil Scuola, Fiuggi 8-9 settembre 2008
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Il CCNL del Comparto Università
Il 16 ottobre u.s., sulla scorta del parere favorevole espresso dal Comitato di settore e della certificazione positiva rilasciata dalla Corte dei conti, è stato finalmente sottoscritto in via definitiva il CCNL del Comparto Università per il quadriennio giuridico 2006 - 2009 e per il biennio economico 2006 - 2007. Va subito evidenziato che si tratta di un testo faticosamente negoziato ma che costituisce anche il T.U. delle norme contrattuali vigenti per il Comparto Università. Con ciò l’Agenzia continua a realizzare quanto raccomandato al punto 6 del documento emanato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2007 concernente le linee generali da adottare per i rinnovi contrattuali del quadriennio normativo 2006 - 2009 (c.d. “direttiva madre”). Si tratta di un risultato di non poco conto qualora si consideri che a datare dall’Atto d’indirizzo, il 7 marzo u.s., sono state necessarie numerose riunioni su due tavoli negoziali separati e diverse consultazioni formali e informali con il Comitato di settore per realizzare un testo condiviso che riunifica, modifica e aggiorna tutta la materia contenuta nei precedenti testi contrattuali.
Per comodità e trasparenza di lettura
del testo, anche per i non addetti ai lavori, immediatamente sotto la titolazione di ciascun articolo, tra parentesi, sono indicate le norme riferibili a quello stesso argomento contenute in precedenti accordi
negoziali, in quest’occasione appunto, come prima accennato, riunificate, modificate e aggiornate, segnalando che talune parti sono state completamente espunte perché inattuali o incompatibili con il testo in esame.
Occorre aggiungere che le indicazioni fornite dal Comitato di settore, in riscontro ad una nota informativa interlocutoria di quest’Agenzia, hanno consentito di liberare la trattativa da ostacoli e conflittualità tecnicamente insuperabili, rimandando a sequenza contrattuale (cfr. art.70) argomenti quali lo stato giuridico delle A.O.U. (Aziende Ospedaliere integrate con l’Università) che certamente richiedono ulteriori riflessioni sia in sede politica che finanziaria. Allo stato, infatti, non sembrano sussistere né le risorse finanziarie né gli indispensabili orientamenti tecnici e organizzativi per definire, pur nell’ambito del CCNL Università, un separato stato giuridico del personale che lavora presso le AOU, come più volte auspicato da quest’Agenzia al fine di eliminare i dubbi e gli equivoci che inevitabilmente si producono per effetto di una gestione costretta ad operare in un’ambigua terra di nessuno, al confine tra Università e Sanità.
Nel contesto dell’art. 37 (aspettativa
per dottorato di ricerca o borsa di studio) è stato aggiunto un comma 2 che prevede un’aspettativa senza assegni per realizzare diverse
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esperienze lavorative in ambiti pubblici o privati diversi, oppure per superare un periodo di prova; all’art. 54 (formazione professionale) - è stato aggiunto un comma 8 con la disciplina della partecipazione anche del personale appartenente alle AOU alle attività di formazione per le professioni sanitarie.
Con l’art. 57 (trasferimenti), poi, sono stati fissati criteri puntuali cui le Amministrazioni dovranno adeguarsi in materia di mobilità tra Sedi diverse dello stesso Ateneo, privilegiando la circostanza del possesso di un idoneo curriculum professionale da parte del richiedente. Sono stati fissati anche (comma 6) i criteri per i passaggi intercompartimentali, evitando il ricorso alla produzione di tabelle di equiparazione che, com’è noto, hanno presentato ostacoli tecnici difficili da superare in qualsiasi altro tentativo esperito presso quest’Agenzia e che, forse, potranno trovare realizzazione solo in un apposito CCNQ.
Per quanto riguarda i docenti
incaricati esterni (art. 67), va sottolineato che la Presidenza del Consiglio dei Ministri, già con nota n. 44155 del 23 aprile 2005 di approvazione dell’Atto d’indirizzo per il quadriennio 2002 - 2005, aveva raccomandato anche la soluzione del problema relativo a queste figure di docenti, disciplinati dall’art. 15 del DPR n. 319/90 e poi non regolamentati dai successivi CCNL del comparto (comprensibilmente, in quanto, appartenendo al personale docente, non potevano essere oggetto degli accordi contenuti nei CCNL di comparto). Tale anomala situazione si è ripetuta anche con l’attuale CCNL e, a questo punto, è parso equo aggiungere un comma 3 che consentisse anche la progressione orizzontale del personale in questione, pure considerando che si tratta di meno di 50 unità complessive in tutte le Università.
Nell’ambito del conferimento e revoca di incarichi al personale della categoria EP (art. 75) sono stati predisposti i commi da 7 a 11 con la previsione di incarichi aggiuntivi agli EP per valorizzarne la professionalità. L’art. 79, progressione economica all’interno della categoria, ha previsto una cadenza annuale dopo la maturazione di due anni di servizio, ma in ogni caso a condizione dell’effettiva disponibilità finanziaria. Il sistema di valutazione del personale (art.81) già realizzava, con la precedente stesura, un modello particolarmente efficace e casualmente vicino alle attuali indicazioni della Funzione pubblica.
La modifica dei commi 2 e 3 ha
introdotto una più puntuale e stringente procedura. Anche il successivo art. 82 (criteri di selezione ai fini della progressione economica interna alla categoria) ha rovesciato, al comma 1, la filosofia precedente, nel senso che è il CCNL che detta i criteri, eventualmente solo integrabili in sede d’integrativo (e non il contrario), mentre il comma 2 incrementa l’ipotesi della sospensione cautelare dal servizio.
Sarebbe ipocrita non riconoscere che il D.L. n. 112/2008, successivamente trasformato in Legge n. 133/2008, piombando sulla trattativa quando essa si avviava ormai a conclusione, ha mandato per aria gran parte del lavoro già fatto e messo la rappresentanza datoriale nella difficile situazione di dover rinegoziare non pochi elementi delle clausole contrattuali, mediando anche delicati aspetti politici sostanzialmente estranei alla competenza tecnica dell’Agenzia. Alla fine, comunque, è prevalso il buon senso delle XX.XX. nell’ammettere l’ineluttabilità delle modifiche imposte dalla legge sopravveniente.
Una qualche incomprensione con la
Funzione pubblica, frutto probabilmente più di un equivoco di
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contesto, dovuto alla rigida scansione dei tempi di verifica, ha in particolare prodotto il comma 5 dell’art. 22 in materia di assunzioni a tempo determinato, censurato perché avrebbe potuto alimentare aspettative di stabilizzazione da parte di soggetti assunti per esigenze di carattere temporaneo e contingente, ciò in violazione dell’art. 49 della Legge n.
133/2008. In effetti, il predetto comma 5 riproduce l’analogo testo di cui all’art. 5, comma 2, del CCNL Ricerca del 7 aprile 2006, prevedendo un’ipotesi del tutto diversa, sia concettualmente che giuridicamente, dal contingente ricorso al lavoro flessibile di cui all’art. 49 della Legge
n. 133/2008. Qui ricorre il caso di un’Amministrazione che debba bandire un concorso pubblico (quindi non per esigenze temporanee ed eccezionali) ma disponga già di personale a tempo determinato assunto con le medesime modalità e procedure del concorso pubblico. Si tratta di un’ipotesi rara, ma talvolta verificatasi quando, per effetto delle diverse leggi finanziarie succedutesi, le Amministrazioni non hanno potuto coprire le vacanze d’organico con nuove assunzioni a tempo indeterminato, ricorrendo quindi, soprattutto per alcune indispensabili professionalità, alle procedure concorsuali a tempo determinato. Queste stesse Amministrazioni potranno dunque, se lo vorranno (si tratta di una facoltà discrezionale, non obbligatoria), previa anche un’ulteriore verifica, costituire un nuovo rapporto di lavoro, evitando in sostanza le ingenti spese procedurali di un altro concorso pubblico e salve, s’intende, tutte le autorizzazioni, le condizioni e le garanzie sottese a tale
soluzione. Si tratta di una modalità opzionale di reclutamento del tutto analoga a quella in uso nell’impiego privato, notoriamente celebrato in termini comparativi di maggiore efficienza.
L’Agenzia ha comunque correttamente trasmesso le osservazioni della Funzione pubblica al Comitato di settore dell’Università, chiedendo istruzioni sul da farsi, in particolare circa l’opportunità di riaprire le trattative per espungere il comma in questione. Il Comitato di settore, per parte sua, ha espresso la volontà di mantenere inalterato il testo contrattuale, peraltro successivamente certificato dalla Corte dei conti senza censure.
In definitiva, un contratto complesso, tribolato e difficile da condurre in porto ma che, a parere del sottoscritto, rende ancora attuali, nei termini di una condivisa chiarezza normativa e salariale e di una conseguente assenza di continue rivendicazioni, gli effetti positivi di quel metodo della concertazione che ha mosso dall’Accordo Governo- Sindacati del luglio 1993. Certo, sia il contesto politico che economico sembrano ora aprire la strada a tesi innovative e comunque diverse ma, pur riconoscendo che un diverso contesto, soprattutto economico, possa richiedere un adattamento dei modelli e delle procedure, suppongo debba essere presente alla responsabilità di tutti, ciascuno nel proprio ruolo, la necessità di evitare che tornino ad affacciarsi le stagioni della conflittualità.
di Xxxxxxxx Xxxxxxxx Direzione Contrattazione 2 Scuola, Università, Ricerca
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Il CCNL della dirigenza del SSN
PREMESSA
In data 17 ottobre 2008 sono stati sottoscritti in via definitiva i contratti collettivi nazionali di lavoro relativi al quadriennio normativo 2006-2009 e primo biennio economico 2006-2007 per le aree III e IV del Servizio sanitario nazionale, rispettivamente per la dirigenza sanitaria, professionale, tecnica e amministrativa e per quella medica e veterinaria. La definizione di tali contratti avviene alla conclusione di un lungo ed articolato confronto con le Organizzazioni sindacali, che ha portato alla introduzione, nella disciplina contrattuale vigente, di ulteriori elementi innovativi finalizzati a soddisfare sia le esigenze delle Aziende, mediante l’attribuzione alle stesse di maggiori strumenti gestionali, sia quelle dei Sindacati, attraverso una adeguata valorizzazione di alcuni istituti contrattuali connessi al ruolo e alla funzione dirigenziale. In realtà le problematiche attualmente in campo per la dirigenza medica sono molto più numerose ma, in relazione al notevole ritardo con il quale è stato avviato il negoziato (25 febbraio 2008), la scelta contrattuale è stata quella di optare, con il consenso del Comitato di settore, per la definizione di un contratto “leggero” diretto a regolare solo gli aspetti più significativi ed urgenti. Contemporaneamente, è stato però deciso di prevedere una successiva fase contrattuale, nella
quale poter prendere in esame ulteriori tematiche, legate per lo più ad aspetti normativi, che richiedono tempi più lunghi di trattativa, anche in relazione alla necessità di effettuare maggiori approfondimenti sotto il profilo tecnico-giuridico.
In ogni caso, anche se per gli aspetti contenutistici tale contratto ha affrontato un limitato numero di istituti, non è da trascurare la rilevanza delle novità introdotte rispetto alla pregressa disciplina. Il percorso contrattuale seguito è stato piuttosto complesso ed ha dovuto tener conto anche delle novità introdotte dal D.L. n. 112/2008, convertito successivamente nella Legge n. 133/2008, in materia di riposo giornaliero o di permessi retribuiti per motivi personali e familiari. Tra le innovazioni di rilievo va menzionata anche la parte relativa all’istituzione della dirigenza infermieristica, prevista dalla Legge n. 251/2000, che aveva demandato alla contrattazione alcuni aspetti regolativi. Inoltre, molti degli interventi operati sono stati finalizzati alla “manutenzione” degli istituti contrattuali vigenti, al fine di rispondere meglio alle esigenze emerse nella fase applicativa o anche dare maggiore chiarezza circa la portata delle clausole dei precedenti CCNL. Anche in questo contratto sono stati riportati alcuni elementi di novità in caso di commissione di reati penali, già introdotti in altri CCNL di questa tornata contrattuale, sia per quanto riguarda le possibilità di
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attivazione delle procedure di recesso, sia per quanto attiene, sempre al prolungamento della sospensione dal servizio, oltre i cinque anni già previsti dalla disciplina contrattuale.
RELAZIONI E DIRITTI SINDACALI
In materia di relazioni sindacali il contratto, pur confermando l’assetto vigente, ha operato alcune modifiche al fine di adeguare le procedure della contrattazione integrativa all’esigenza di dare maggiore effettività alle trattative di secondo livello, prevedendo una tempistica più stringente e introducendo elementi di maggiore trasparenza nelle varie fasi del percorso negoziale. In linea di massima, si è cercato di pervenire ad una maggiore flessibilità del sistema, eliminando quegli elementi che potevano in qualche modo ritardare l’avvio delle trattative.
Per quanto riguarda gli aspetti procedurali, è stato modificato l’arco temporale previsto per l’individuazione della delegazione di parte pubblica, per il quale il precedente termine di trenta giorni dalla stipula del CCNL è stato ridotto a quindici. Inoltre, in relazione all’obbligo di convocare la delegazione sindacale per l’apertura delle trattative entro i 60 giorni dall’entrata in vigore del CCNL, è stato precisato che questo può avvenire sulla base della documentazione presentata dall’Azienda, anche in mancanza della presentazione delle piattaforme da parte delle Organizzazioni sindacali, al fine di evitare che il mancato invio di queste ultime potesse costituire un ostacolo nella fase di avvio delle trattative. Inoltre, è stato stabilito che il negoziato deve concludersi entro il termine massimo di 150 giorni dalla stipula del CCNL. La previsione di un limite temporale perentorio è
preordinato ad indurre le parti a compiere ogni possibile sforzo per portare a compimento le trattative, atteso che per la dirigenza medica molto spesso i contratti integrativi vengono sottoscritti con molto ritardo rispetto alla tempistica prevista dai contratti collettivi nazionali oppure non si concludono affatto, determinando una situazione del tutto anomala rispetto agli altri comparti ed aree. In ogni caso, al fine di rispettare l’autonomia delle parti, il contratto prevede che tale termine possa essere differito qualora, in presenza di un negoziato già in fase conclusiva, le parti siano d’accordo sulla necessità di poter disporre di ulteriori margini temporali per la definizione delle trattative. In tale senso va segnalato che l’obiettivo della norma non era quello di limitare il dibattito contrattuale, ma di stimolare e responsabilizzare le parti sulla necessità di portare comunque a termine il negoziato in sede di Azienda. Sempre nella logica di favorire lo svolgimento delle trattative, nelle successive disposizioni (comma 4) si è ritenuto opportuno richiamare i principi di lealtà e buona fede che devono ispirare l’attività delle parti contraenti ed inoltre, allo scopo di rafforzare il rispetto della tempistica individuata, viene evidenziata la necessità che gli incontri avvengano con frequenza ed assiduità al fine di pervenire rapidamente alla conclusione delle trattative. A completamento di quanto sopra, un’ultima disposizione dà la possibilità alle parti di definire congiuntamente le modalità più opportune per l’effettuazione degli incontri. Un altro obiettivo del nuovo contratto è stato quello di dare la massima trasparenza sulle risorse economiche disponibili nei fondi aziendali: viene infatti previsto, al comma 3, l’obbligo per le aziende di fornire preventivamente (entro 30 giorni dalla stipula del CCNL), alle
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XX.XX. e alla Regione, la documentazione sull’ammontare dei fondi contrattuali, mentre anche per quanto riguarda la fase applicativa dei contratti integrativi viene stabilito, al comma 6, che le clausole circa tempi, modalità e procedure di verifica dell’attuazione dei contratti integrativi devono riguardare anche lo stato di utilizzo dei fondi. In considerazione della portata innovativa di tali modifiche, le parti hanno ritenuto opportuno prevedere la possibilità di verificare, nel prossimo CCNL, l’applicazione delle suindicate disposizioni al fine di individuare eventuali criticità e permettere modifiche o integrazioni. Per quanto riguarda il coordinamento regionale, (art. 5) il nuovo testo, nel confermare l’impianto generale dell’analogo articolo 9 del precedente CCNL del 3 novembre 2005, tende a rafforzare tale attività delle Regioni mediante l’incremento di ulteriori materie. In relazione ai tempi, al fine di armonizzare tale aspetto con le nuove previsioni introdotte per la contrattazione integrativa, viene ridotto a 90 il precedente termine di 120 giorni dall’entrata in vigore del contratto collettivo per l’emanazione delle linee generali di indirizzo.
RAPPORTO DI LAVORO
Incarichi gestionali e professionali
Come precisato nella Premessa, per alcune materie relative al rapporto di lavoro, il contratto ha previsto una specifica “coda contrattuale” al fine di definire, in modo completo ed organico, una nuova regolamentazione, più attinente alle esigenze emerse nella fase attuativa o più coerente con le disposizioni legislative nel frattempo intervenute. Tra tali aspetti va menzionata, per la sua particolare rilevanza, la tematica relativa agli incarichi gestionali e
professionali, per la quale, in vista della sequenza, sono stati solo confermati e ribaditi alcuni principi già presenti nella normativa contrattuale vigente e connessi alla valorizzazione del ruolo della dirigenza nel quadro dell’organizzazione sanitaria ed al miglioramento della qualità dei servizi assistenziali.
Riposo giornaliero
Un tema di particolare importanza è invece rappresentato dalla disciplina delle “Disposizioni in materia di riposo giornaliero” (art. 7), che si configura come uno degli aspetti più significativi del contratto. La formulazione della norma ha subito diversi cambiamenti nel corso del negoziato dovuti all’evolversi del quadro legislativo di riferimento.
Infatti, nella fase iniziale delle trattative era vigente, anche per la dirigenza sanitaria, il D.Lgs. n. 66/2003, relativo all’attuazione delle direttive comunitarie 93/104/CE 2000/34/CE concernenti aspetti dell’orario di lavoro. Tale disciplina legislativa aveva lo scopo di contemperare le esigenze relative all’organizzazione del lavoro e quelle connesse alla sicurezza e alla protezione dei lavoratori pubblici e privati e, contestualmente, prevedeva la possibilità di deroga per la contrattazione collettiva qualora tali misure non fossero compatibili con l’organizzazione e le necessità operative dei singoli settori lavorativi. Nel corso del negoziato è stato invece emanato il citato D.L. n. 112/2008, convertito nella Legge 133, che all’art. 41, comma 13 ha stabilito che alcune disposizioni del suindicato D.Lgs. n.
66/2003 non fossero applicabili alla
dirigenza medica, dando però la possibilità alla contrattazione di individuare misure di protezione e di tutela per tale personale. Pertanto il negoziato, in armonia con quanto previsto nel citato Decreto, pur
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proseguendo il confronto su tale tematica, si è indirizzato verso la definizione delle possibili misure per garantire ai dirigenti idonee modalità di riposo e pieno recupero delle energie psico-fisiche.
Al fine di evitare di porre ulteriori obblighi a livello nazionale, la scelta negoziale è stata quella di evitare la definizione “a priori” di una misura oraria del riposo giornaliero da assicurare ai dirigenti e di demandare alle Aziende l’individuazione delle modalità di effettuazione del riposo giornaliero, fissando però alcuni importanti principi, nei quali si sostanzia la tutela. Tali principi, ai quali le Aziende devono comunque dare attuazione, prevedono infatti: l’obbligatorietà, per le Aziende, di individuare un periodo di riposo “adeguato”; l’immediatezza della fruizione di tale periodo di riposo dopo il servizio di guardia notturna; la specificazione che lo stesso deve consentire, in via continuativa, una effettiva interruzione della prestazione lavorativa.
Il quadro delle tutele non si limita alla
precisazione di tali principi, ma, come ulteriore garanzia, viene evidenziato che la necessità di assicurare il riposo deve essere correlata non solo all’esigenza di evitare di danneggiare la salute dei dirigenti interessati e degli altri lavoratori, ma anche di non compromettere quella dei pazienti e, in tal senso, viene specificato che lo stesso deve essere tale da “evitare che a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori venga ridotta l’efficienza delle prestazioni ed aumenti il rischio di causare lesioni ai pazienti”.
Nonostante il fatto che le modalità di riposo vengono decise nella contrattazione integrativa, nel rispetto di quella che è la filosofia di fondo del D.Lgs. n. 66/2003, confermata anche nella citata Legge 133 del 2008, rimane nella autonomia decisionale delle Aziende tutta la materia relativa alla programmazione e all’articolazione
dell’orario di lavoro, che secondo le vigenti disposizioni contrattuali sono oggetto di concertazione.
Valutazione
Un altro tema strategico è quello della valutazione per il quale, in considerazione del fatto che nei precedenti contratti collettivi per la dirigenza sanitaria già esiste una disciplina dettagliata sull’argomento, sono stati effettuati solo interventi di “manutenzione” al fine di apportare alcune precisazioni dirette a confermare e rafforzare il sistema già esistente. In particolare, è stata evidenziata, nell’ottica di promuovere il miglioramento della qualità delle prestazioni, l’importanza dell’adozione di metodi relativi alla fissazione degli obiettivi e alla misurazione e valutazione dei risultati. Sotto altro profilo, invece, nell’ottica di dare maggiore incisività ed efficacia alle norme già vigenti, è stata definita una precisa tempistica per le diverse fasi valutative, al fine di mantenere la stretta correlazione tra i risultati raggiunti ed i nuovi obiettivi da assegnare, tenendo presente la stretta correlazione tra i risultati conseguiti e la corresponsione della retribuzione di risultato.
Al fine, poi, di indurre le Aziende che
non avessero ancora attuato il sistema di valutazione a portarlo a compimento sollecitamente, il comma 4 fissa un termine di due mesi dall’entrata in vigore del presente CCNL e ne stabilisce la trasmissione alla Regione, prevedendo un’ipotesi di responsabilità per i dirigenti preposti, ove ad essi addebitabile.
Sanzioni disciplinari
Un altro tema legato al rapporto di lavoro era quello relativo all’introduzione, anche per la dirigenza, di un sistema di disciplinare, come del resto era
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previsto dagli Atti di indirizzo, con la previsione di sanzioni conservative, ferma restando la regolamentazione delle modalità e procedure per il recesso. Nel corso del negoziato, in relazione alla complessità della materia che veniva affrontata per la prima volta in un’area dirigenziale, si è deciso, d’accordo con il Comitato di settore, di rinviare tale aspetto alla già citata sequenza contrattuale, anche in considerazione del fatto che, probabilmente, tale tematica verrà quanto prima affrontata a livello legislativo. In ultima analisi, pertanto, la scelta delle parti è stata quella di definire solo una norma di carattere generale diretta ad evidenziare la necessità che il dirigente conformi la propria condotta ai principi civilistici di diligenza e fedeltà e alle disposizioni del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, allegato al CCNL del 3 novembre 2005, nonché ai codici di comportamento adottati dalle aziende e alle disposizioni delle Carte dei servizi.
Ulteriori aspetti di novità
In analogia con altri contratti della tornata 2006-2009, nel CCNL sono state introdotte alcune disposizioni riguardanti l’obbligo, per le Aziende, di adottare la misura del recesso, intervenendo con tempestività nel caso in cui il dirigente venga colto in flagranza di reato a commettere atti di concussione, corruzione o peculato, in analogia con la disciplina prevista per il comparto e, al fine di accertare che le motivazioni siano fondate ed obiettive, l’arresto deve essere convalidato dal giudice per le indagini preliminari. Inoltre, allo scopo di rendere coerente il quadro contrattuale con gli orientamenti della Corte costituzionale, è stata prevista, per le Aziende, la possibilità di aumentare il periodo di sospensione dal servizio, in caso di
reati penali, oltre i cinque anni previsti dalla disciplina contrattuale vigente. Infatti, la Suprema Corte, nella sentenza n. 264/2003, ha ritenuto legittima l’applicazione di tale misura cautelare, qualora l’Azienda ritenga che la riammissione in servizio possa creare una situazione di grave pregiudizio alla propria funzionalità ovvero qualora la stessa provochi pregiudizio alla credibilità o all’immagine della struttura pubblica. Anche in questo caso sono previste idonee garanzie per il dirigente, in quanto viene precisato che l’Azienda è tenuta ad una verifica biennale delle condizioni ostative alla riammissione in servizio dello stesso.
Tra le ulteriori clausole poste in
essere vanno citate quelle riguardanti l’integrazione alle norme esistenti sull’affidamento degli incarichi in merito al numero di anni di attività necessari per il conferimento: infatti, al fine di garantire il riconoscimento del servizio prestato, anche se a tempo determinato, tale norma prevede che rientrano, nel computo dei cinque anni ai fini del conferimento di incarichi di struttura semplice ovvero di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio e ricerca, ispettivi, di verifica e di controllo, anche i periodi svolti con incarico dirigenziale a tempo determinato, purché prestati senza soluzione di continuità. Tale clausola intende dare maggiore flessibilità alle Aziende, nell’ottica sia di fare fronte ai numerosi provvedimenti normativi di blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, sia di valorizzare le esperienze professionali interne.
In tema di copertura assicurativa e
tutela legale, il contratto, come novità più rilevante, prevede l’istituzione presso l’ARAN, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente CCNL, di una commissione composta da rappresentanti di parte datoriale e sindacale con il compito di
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approfondire la materia assicurativa per permettere eventuali modifiche o integrazioni alla normativa contrattuale nell’ambito della sequenza contrattuale, con particolare riguardo alle questioni della tutela legale e delle consulenze tecniche.
TRATTAMENTO ECONOMICO
Gli incrementi stipendiali sono individuati dagli artt. 17 e segg. che attribuiscono, ai dirigenti medici e veterinari a rapporto esclusivo e non esclusivo ed orario unico, un beneficio medio sul trattamento tabellare pari a circa 149 euro medio pro-capite. Gli aumenti citati sono erogati in due tranches, l’una con decorrenza 1.1.2006 e l’altra con decorrenza 1.2.2007. Analoghi incrementi sono attribuiti ai medici a tempo definito ed ai veterinari ad esaurimento nel biennio 2006-2007 e agli ex medici condotti ed equiparati. Vengono, inoltre, ribaditi nell’art. 23 (Effetti dei benefici economici), secondo una formulazione ormai standard, quali sono le voci su cui gli incrementi hanno efficacia, con particolare riguardo al trattamento ordinario di quiescenza, normale e privilegiato ed all’indennità premio di servizio. Secondo una normativa consolidata i benefici competono, secondo gli scaglionamenti previsti, anche al personale cessato dal servizio a qualsiasi titolo nel periodo di vigenza economica del contratto. Anche per quanto riguarda i fondi sono previsti gli adeguamenti economici. Per essi vengono anche ribadite le modalità di utilizzazione già previste dai CCNL.
NORME FINALI
I due articoli che sono contenuti in questa parte riguardano le conferme
e le norme finali, rispettivamente disciplinate dagli artt. 27 (Conferme) e 28 (Norme finali e transitorie). Tra tali disposizioni ha un indubbio rilievo quella concernente la previsione di una specifica sequenza contrattuale dedicata ad alcune specifiche tematiche. L’art. 28 chiarisce le motivazioni di tale scelta delle parti che è essenzialmente legata al ritardo con cui sono state avviate le trattative. Parte di esse sono espressamente individuate nell’Atto di indirizzo del Comitato di Settore pervenuto il 1° aprile 2008, altre, invece, sono state aggiunte su proposta delle XX.XX. In particolare sono:
- rivisitazione delle tematiche
riguardanti le relazioni sindacali, nell’ottica di valorizzare ulteriormente la contrattazione di secondo livello;
- riordino complessivo del sistema degli incarichi gestionali e professionali, secondo quanto previsto all’art. 6;
- disciplina delle flessibilità del rapporto di lavoro, alla luce delle disposizioni contenute nella Legge n. 120/2007 e nel D.L. n. 112/2008;
- disciplina della formazione;
- verifica del sistema di valutazione, ai fini di pervenire ad una maggiore funzionalità dello stesso;
- individuazione di un sistema sperimentale di procedure e sanzioni a carattere disciplinare e comportamentale, ai sensi dell’art. 11 del presente CCNL;
- individuazione di una idonea disciplina in materia di copertura assicurativa e tutela legale, sulla base delle risultanze dei lavori della Commissione di cui all’art. 15;
- problematiche relative al risk management e alla sicurezza sul lavoro.
di Xxxxxx Xxxxxxx
Direzione Contrattazione 1 Ministeri, Sanità, Agenzie, PCM
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I contratti collettivi integrativi. Gli orientamenti della Corte di Cassazione
e della Corte dei conti
Sulla materia dei contratti integrativi è intervenuta la Legge n. 133/2008 di conversione del D.L. n. 112/2008 apportando rilevanti modifiche alla normativa vigente.
In particolare, l’art. 67 della predetta L. 133/2008 prevede, innanzitutto, una serie di disposizioni volte a contenere le risorse destinate alla contrattazione collettiva, attuando una considerevole riduzione di quelle stanziate nei precedenti anni e stabilendo, per il 2009, la disapplicazione delle disposizioni speciali che attribuiscono alle Amministrazioni pubbliche risorse aggiuntive nelle more di un generale riordino della materia che definisca una più stretta collaborazione di tali trattamenti alle maggiori prestazioni lavorative e allo svolgimento di attività di rilevanza istituzionale che richiedono particolare impegno e responsabilità. Stabilisce, inoltre, una serie di disposizioni relative al controllo della contrattazione integrativa a partire dagli organi di controllo interno delle Amministrazioni, in particolare, al Collegio dei revisori attribuisce il compito di vigilare sulla corretta applicazione delle disposizioni vigenti in materia e rafforza il controllo successivo della Corte dei conti.
Obbliga, infatti, le Amministrazioni
pubbliche a trasmettere alla Corte dei conti, attraverso il dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, un’apposita scheda con le ulteriori informazioni di interesse della Corte dei conti volte tra l’altro ad accertare,
oltre il rispetto dei vincoli finanziari previsti dalla vigente normativa in ordine alla consistenza delle risorse assegnate ai fondi e della spesa derivante dai contratti integrativi applicati, anche la concreta definizione ed applicazione di criteri improntati alla premialità, al riconoscimento del merito ed alla valorizzazione dell’impegno e della qualità della prestazione individuale, con riguardo ai diversi istituti della contrattazione integrativa, nonché ai parametri di selettività, con particolare riferimento alle progressioni economiche. Tali informazioni vengono utilizzate dalla Corte dei conti insieme a quelle trasmesse ai sensi del titolo V del D.Lgs. n. 165/2001, e fanno parte del referto sul costo del lavoro presentato ogni anno al Parlamento.
La disposizione prevede, altresì, in
caso di accertato superamento dei vincoli finanziari, oltre le ipotesi di responsabilità già contemplate dalla normativa vigente, anche la sospensione immediata delle corrispondenti clausole contrattuali e l’obbligo di recupero nell’ambito della sessione negoziale successiva.
L’articolo integra ulteriormente le disposizioni vigenti, stabilendo ancora una serie di adempimenti per le Amministrazioni volti a pubblicizzare in modo permanente, sul proprio sito web, la documentazione trasmessa annualmente all’organo di controllo in materia di contrattazione integrativa con modalità che
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garantiscano la piena visibilità e accessibilità delle informazioni ai cittadini.
E nel caso in cui gli organi di controllo rilevino violazione, da parte delle Amministrazioni, degli obblighi previsti dalla norma, è stabilito il divieto di procedere a qualsiasi adeguamento delle risorse destinate alla contrattazione integrativa.
Le modifiche apportate sono quindi rilevanti (peraltro la stessa Legge 133 è intervenuta anche sul procedimento di contrattazione collettiva nazionale affidando alla Corte dei conti veri e propri poteri di veto sui CCNL o su singole clausole di essi) e, in relazione agli interventi qui riportati e ai possibili sviluppi, ci sembra utile, almeno come base di partenza per una riflessione più approfondita, prendere in esame la giurisprudenza della Corte di Cassazione1 e della Corte dei conti in materia di contrattazione integrativa come si è delineata prima di questa recente modifica legislativa.
La Corte di Cassazione, nelle
sentenze di seguito esaminate, è intervenuta prevalentemente per interpretare la disposizione di cui all’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001. Tali pronunce della Suprema Corte sono da mettere in relazione con l’orientamento, in dottrina, di un riconoscimento di un ruolo decisivo della contrattazione nazionale rispetto alla contrattazione integrativa; che riconosce la centralità del contratto collettivo nazionale, rispetto al contratto decentrato, attribuendo “una centralità sistemica e una funzione ordinante al contratto nazionale” (Xxxxxxx)2. Tale funzione ordinante del contratto nazionale inibisce l’introduzione, nei contratti integrativi, di norme estranee o non coerenti con i criteri e gli obiettivi stabiliti nella contrattazione nazionale, in coerenza con lo spirito delle norme del D.Lgs. n. 165/2001 (art. 40, comma 3, ultimo capoverso).
Sono state esaminate, inoltre, alcune sentenze di sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti, che hanno rilevato le patologie causate da un cattivo utilizzo della contrattazione integrativa, ed individuato responsabilità degli organi amministrativi (e non solo) in base al tipo di coinvolgimento presente nelle trattative e nell’applicazione degli accordi viziati, o della qualità dei controlli richiesti, graduandole in base al ruolo istituzionale rivestito in quel contesto dagli stessi soggetti responsabili.
Corte di Cassazione Sentenza sez. lav. n. 13931/2006.
Settore pubblico - limiti dell’interpretazione della Suprema Corte sui contratti integrativi
Secondo la Suprema Corte, le disposizioni dei contratti integrativi, diversamente da come accade per i contratti nazionali di lavoro del pubblico impiego, non possono essere direttamente interpretati dalla Suprema Corte di Cassazione in virtù dell’art. 63
c. 5, del D.Lgs. n. 165/2001, “opera quindi, per i contratti integrativi del settore pubblico, la regola generale secondo cui la comune intenzione degli stipulanti rappresenta un fatto riservato all’accertamento del giudice di merito assoggettato al sindacato di legittimità soltanto sotto il profilo della violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti (art. 1362 e seguenti) ovvero del vizio della motivazione”.
Il fatto riguarda un dipendente del Ministero della giustizia il quale, inquadrato nella categoria C1, in virtù del CCNL di comparto, svolgeva mansioni di ufficiale giudiziario dirigente presso lo stesso Tribunale adito dall’interessato, per il riconoscimento della qualifica superiore.
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Il tribunale ha rigettato la domanda, accolta invece dalla Corte d’appello, la quale ha riconosciuto il diritto del dipendente, con riferimento alle sole differenze retributive riferite alla categoria successiva.
La Cassazione accoglie il ricorso dell’amministrazione per vizio di motivazione, e partendo dalla disciplina posta a base della controversia, stabilisce che l’ormai indiscusso status di dipendenti civili dello Stato consente l’applicazione delle norme del D.Lgs. n. 165/2001 e pertanto la materia della classificazione del personale, prima regolata da fonti normative, è stata ricondotta nell’ambito della contrattazione collettiva e nel caso specifico ha demandato alla contrattazione collettiva integrativa la possibilità di individuare nuovi profili professionali. E, relativamente alle clausole dei contratti integrativi, osserva che diversamente da quelle dei contratti nazionali non possono essere conosciute direttamente dal giudice di legittimità operando la regola secondo cui la comune intenzione degli stipulanti rappresenta un fatto riservato all’accertamento del giudice del merito, assoggettando al sindacato di legittimità soltanto il profilo della violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti (1362 e seguenti c.c.) ovvero del vizio della motivazione.
Corte di Cassazione sez. lavoro n. 20599/2006
Settore pubblico art. 63 D.Lgs. n. 165/2001 - la norma si applica alle controversie per violazione o falsa applicazione dei contratti con riferimento ai soli contratti nazionali
La previsione di cui all’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 deve intendersi limitata ai contratti collettivi nazionali con esclusione dei contratti integrativi, rispetto ai quali il controllo
di legittimità è finalizzato alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Nello specifico la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Lecce, confermativa della sentenza del Tribunale, con riferimento ad un accordo sindacale, concluso dal Ministero della Giustizia, sulla mobilità interna del personale, pattuendo in detto accordo procedure e criteri di selezione di detto personale. L’accordo sindacale in questione partecipa della natura dell’accordo integrativo, legittimato a questo livello di contrattazione dalla previsione del CCNL nazionale.
Pertanto l’interpretazione data all’atto negoziale dalla Corte d’appello può essere sindacata dalla Suprema Corte solo nella sua rispondenza alla volontà delle parti stipulanti, sotto il profilo della verifica del rispetto dei canoni di cui all’art. 1362 c.c. (violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti) e ss. e all’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria. In quanto la Corte dispone che si esula dalla previsione di cui al D.Lgs. n. 165/2001, art. 63 c. 5 che consente di denunciare direttamente con il ricorso per cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi previsione che è stata limitata a quelli nazionali restando esclusi i contratti integrativi contemplati dallo stesso articolo, il cui testo contrappone chiaramente questo livello di contrattazione a quello “nazionale”.
Corte di Cassazione sez. lav. n. 16522/2006
Settore pubblico - la regola di cui all’art. 63 D.Lgs. n. 165/2001 riguarda i contratti e accordi nazionali con esclusione dei contratti integrativi
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Il fatto riguarda un funzionario dipendente dal Ministero della giustizia il quale chiedeva il riconoscimento della posizione economica superiore prevista dal CCNL del comparto e specificata dal successivo contratto integrativo.
La Corte di merito ha respinto il ricorso con la motivazione che l’attribuzione dei compiti svolti dal dipendente rientrano tra le mansioni previste nel CCNL e pertanto non gli spettano differenze retributive.
La Suprema Corte conferma la sentenza di merito e conferma altresì le motivazioni del Giudice territoriale argomentando, relativamente alla richiesta di interpretazione delle norme del contratto integrativo, che con riguardo ai contratti collettivi di lavoro la regola posta dall’art. 63 del X.X.xx. n. 165/2001, che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, deve intendersi limitata ai contratti e accordi nazionali di cui all’art. 40 del predetto d.lgs. con esclusione dei contratti integrativi contemplati nello stesso articolo, in relazione ai quali il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria. La ragione di ciò va ricercata nel carattere d’eccezione rispetto alla regola che riserva l’interpretazione di contratti collettivi di diritto comune al Giudice di merito. Pertanto, estendere l’area di applicazione della disposizione di cui all’art. 63 del d.lgs. 165, che consente di denunciare direttamente con il ricorso per cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi “nazionali”, alla diversa ipotesi dei contratti “integrativi”, equivarrebbe ad estendere una disposizione eccezionale oltre i casi da essa
considerati (anche in Cass.n. 24225/2004).
Corte di Cassazione sez. lav. n. 6435/2007 Settore pubblico - le norme dei contratti integrativi sono interpretate esclusivamente dal giudice di merito - il riesame in sede di legittimità si propone per violazione dei canoni di ermeneutica e per vizi di motivazione
La controversia riguarda alcuni dipendenti del Comune di Milano, collocati a riposo prima della sottoscrizione del contratto integrativo e proprio relativamente a quest’ultimo contestavano la norma che destinava ai solo dipendenti in servizio la progressione orizzontale. La Corte territoriale rispondeva al rilievo osservando che la norma contestata non ricollegava la progressione economica orizzontale a criteri automaticamente vincolanti ma ad una serie di condizioni implicanti valutazioni soggettive dell’Ente datore di lavoro sicché dette prestazioni non potevano riguardare che i dipendenti in servizio.
La Suprema Corte, chiamata ad
intervenire relativamente al vizio di motivazione sollevato dai ricorrenti, osserva in proposito che, lungi dall’evidenziare contraddizioni e vizi logici nel ragionamento del giudice di merito, le doglianze si risolvono in un’inammissibile prospettazione di un’interpretazione delle norme del contratto integrativo diversa da quella accolta nella sentenza impugnata. E specifica che perché la motivazione possa essere considerata adeguata e sufficiente non è necessario che essa prenda in considerazione tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente con esse incompatibili.
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Xxxxx xx Xxxxxxxxxx x. 00000/0000 Xxxxxxx pubblico - è nullo il contratto integrativo su materie non rinviate dal contratto collettivo nazionale
La Suprema Corte è intervenuta sui rapporti esistenti tra contrattazione collettiva nazionale e contrattazione integrativa, nel settore pubblico, ribadendo che in virtù degli artt. 40 e 40-bis del X.X.xx. n. 165/2001, i contratti integrativi sono regolati dai contratti nazionali che ne indicano i soggetti, le procedure, nonché le materie oggetto di contrattazione ed i relativi limiti, sanzionando la difformità delle clausole difformi ai predetti vincoli con la consequenziale nullità.
Il caso concreto riguarda l’accoglimento del ricorso presentato dal Comune di Salerno contro la sentenza della Corte territoriale che aveva condannato l’Ente all’esecuzione della richiesta dei dipendenti, volta ad ottenere un diverso inquadramento professionale, in attuazione della previsione di una clausola del contratto integrativo decentrato.
In primo grado era stata accolta la posizione del Comune che escludeva questo diritto dei dipendenti ed esimeva l’Ente dal dare attuazione a quanto disposto dal contratto decentrato. Questi vantavano il diritto ad un nuovo inquadramento in attuazione di una norma inserita nel contratto integrativo decentrato.
La pretesa si fonda sul ragionamento che il CCNL (31.3.1999) rinviava ai contratti decentrati l’integrazione della disciplina relativa all’ordinamento professionale.
Ma proprio su questo punto la Corte interviene con una posizione netta sulla definizione dei rapporti esistenti tra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata, richiamando le norme inderogabili in base alle quali la contrattazione
collettiva si svolge nelle materie e nei limiti stabiliti dalle norme dei contratti nazionali e che le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai CCNL nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle.
Per la Corte appare evidente come i rapporti tra i diversi livelli di contrattazione sono regolati esclusivamente da una fonte normativa esterna rispetto al contratto e cioè la legge, e nello specifico la disciplina inderogabile prevista dal D.Lgs. n. 165/2001 che detta un sistema contrattuale gerarchico in cui la contrattazione aziendale è sotto ordinata rispetto alla contrattazione nazionale, in quanto i vincoli, le materie, i destinatari sono definiti esclusivamente da quest’ultima.
La dottrina prevalente è orientata nel senso di interpretare queste regole come caratterizzanti il ruolo ordinante e centrale del contratto nazionale rispetto al contratto decentrato ed anche una giurisprudenza costante ha definito i rapporti esistenti tra le fonti contrattuali di primo e secondo livello attribuendo alla contrattazione nazionale un ruolo preminente così come stabilito dalla disciplina del D.Lgs. n. 165/2001 che all’art. 40 prevede una norma inderogabile.
La posizione che sembra emergere da queste sentenze della Corte di Cassazione, necessita forse di qualche precisazione. Il sistema delineato dal D.Lgs. n. 165/2001 sottopone la nullità delle clausole del contratto integrativo, per violazione del contratto nazionale, al controllo del giudice (unico soggetto abilitato a dichiarare tale nullità: tale potere non è affidato né al Ministero
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dell’economia né agli organismi di controllo, che hanno semmai altri poteri e opportunità).
Le sentenze della Corte qui riportate analizzano la previsione dell’art. 63 comma 5 del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui: Nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui al comma 3 dell’art. 64, il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40.
Nulla questio per il caso dell’art. 64 comma 3 (la formulazione è chiarissima e prevede la speciale procedura solo per i contratti nazionali). Ma per i restanti casi perché, come ripetono più volte le sentenze citate, le norme dei contratti integrativi sono interpretate esclusivamente dal giudice di merito e non è proponibile il riesame in sede di legittimità “se non per violazione dei canoni di ermeneutica e per vizi di motivazione”?
Deve ritenersi ammissibile anche il ricorso in cassazione per la violazione dei contratti nazionali, operata da un contratto integrativo, ai sensi dell’art. 63 comma 5, oppure è solo esperibile la via, giustamente e opportunamente indicata dalla sentenza citata per ultima (la 10099 del 2007), della violazione di norma inderogabile di legge (ossia l’art. 40 comma 3 del D.Lgs. n. 165/2001)? In effetti tutti i contratti nazionali del pubblico impiego riproducono la previsione dell’art. 40. In questo modo fanno un’inutile duplicazione di una norma di legge o riaffermano il loro ruolo e la possibilità, in tutti e tre i gradi di giudizio, di una verifica della corrispondenza tra limiti del contratto nazionale e contratti di secondo livello? Potrebbe sembrare una questione secondaria ma è probabilmente importante riaffermare una possibilità ampia del sindacato giurisdizionale, anche e soprattutto in sede di legittimità.
In effetti il sistema delineato dal D.Lgs. n. 165/2001, se da un lato sviluppa fortemente la contrattazione di secondo livello dall’altro inserisce una serie di elementi di controllo o, quantomeno, di coordinamento tra contratto nazionale e secondo livello di cui, elemento non secondario, è proprio il controllo giurisdizionale. In effetti, tra i molti elementi che non sembrano aver funzionato, quello della declaratoria giudiziale di nullità delle clausole dei contratti, sembra aver occupato poco le controversie giudiziali (con poche rilevanti eccezioni, prima fra tutte quella appena citata). Più penetrante, invece, come vedremo, sembra essere il controllo della Corte dei conti pur se esso, come chiarito più oltre, rileva prevalentemente nella responsabilità per danno erariale e non ha il fine di accertare la nullità dei contratti integrativi.
In questo senso sarà interessante
analizzare come, a seguito dell’intervento della Legge n. 133/2008, la Corte dei conti userà i suoi più penetranti poteri.
Corte dei conti Lombardia n. 372/2006
La Sezione giurisdizionale per la Lombardia si è pronunciata su una questione che ha suscitato particolare interesse.
Il caso esaminato riguarda la pretesa risarcitoria azionata dalla Procura nei confronti di un piccolo Comune lombardo per il danno derivante dall’illegittima riduzione dell’orario di lavoro attraverso un contratto decentrato, mantenendo la stessa retribuzione. Tale norma del contratto decentrato era in contrasto con il contratto nazionale che limitava il beneficio di tale riduzione esclusivamente a determinate categorie di personale (turnazione, ampliamento servizi utenza).
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Nel merito la Corte osserva che tale condotta è frutto di evidente colpa grave delle parti stipulanti l’accordo decentrato, stante l’inequivoca formulazione della sovraordinata e inderogabile previsione contrattuale nazionale, che non si prestava, per la sua chiarezza, ad alcun dubbio interpretativo, consentendo la contrazione oraria de qua solo a favore di lavoratori adibiti a regimi di orario articolato in più turni …pertanto tale colpevole condotta è ascrivibile, in modo decisamente prevalente, 60/% del danno, ai firmatari del cennato accordo decentrato, conditio sine qua non del successivo intervento della Giunta, volto a sollecitare i responsabili di settore a dare piena attuazione all’illegittimo disposto contrattuale decentrato.
Circa l’individuazione dei
responsabili chiamati a rispondere, in sede di giudizio, di responsabilità in casi di riscontrati danni erariali dinanzi alla Corte dei conti, già in precedenza era stato acquisito il parere dell’Avvocatura generale dello Stato sollecitato dall’ARAN attraverso il Dipartimento della funzione pubblica.
L’Avvocatura, nel parere espresso, ha ritenuto di individuare tra i soggetti responsabili coloro che in sede di contrattazione decentrata rappresentano l’amministrazione, quali il presidente ed i componenti della delegazione, l’organo di governo che ha autorizzato la definitiva sottoscrizione del contratto, ed anche la dirigenza che si è attivata promuovendo provvedimenti applicativi di norme contrattuali nulle in quanto difformi alla disciplina nazionale. Si tratta dei soggetti più direttamente interessati in quanto ad essi concretamente può ricondursi la formazione di quelle scelte che si siano tradotte in clausole contrattuali successivamente dichiarate nulle o, comunque, ritenute causa di danno erariale.
Ma la parte più interessante della sentenza della Corte3 è il riferimento che viene fatto alle controparti sindacali: poiché, sul piano causale, il danno de quo trae origine, in via prevalente, dall’accordo decentrato 19.1.2000, un evidente contributo etiologico è stato dato anche dai componenti della controparte sindacale (RSU) che ebbero a sottoscrivere tale accordo, atto bilaterale e non unilaterale. Quale che sia la natura, pubblica o privata di tale rappresentanza sindacale, ….., è innegabile che se da un atto negoziale derivi un danno, del relativo risarcimento debbano rispondere in modo paritetico tutte le parti contraenti. Ne consegue che, dal danno ipotizzato dalla Procura, una quota addebitabile ai componenti della RSU debba essere necessariamente scomputata (da quanto dovuto) dai responsabili dell’amministrazione. Quindi ancorché i rappresentanti sindacali non siano stati citati in giudizio, per motivi procedurali chiariti in sentenza ma su cui è inutile, allo stato, soffermarsi, è importante il principio affermato dalla Corte che potrebbe anche essere ripreso dalle procure della Corte dei conti con possibili estensioni dei soggetti responsabili.
Nella sentenza in esame, i giudici
contabili escludono qualunque responsabilità nei confronti dell’ARAN precisando che nessun contributo causale (con portata decurtante sul danno predetto) può invece essere ascritto all’Aran, in quanto l’Agenzia, pur destinataria della trasmissione del teso contrattuale decentrato ex art. 46 co.5 del D.Lgs. n. 165/2001, non ha per legge alcun potere di direttiva né di sindacato sulla validità delle clausole negoziali ivi contenute, né gode di poteri interdittivi sulla efficacia del contratto stesso. L’unico potere residuo dell’Agenzia, in un sistema di contrattazione integrativa ispirato ad
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un coinvolgimento diretto delle amministrazioni nella cura delle relazioni sindacali decentrate, attiene alla definizione, in sede di contrattazione nazionale, degli spazi da concedere alla contrattazione integrativa (art. 40 e 46 co. 1 D.Lgs. n. 165/2001) e al mero monitoraggio sull’applicazione dei contratti nazionali da parte di quelli integrativi (art. 46, co.4, D.Lgs. 165/2001). Né vi è stata, nel caso di specie, alcuna richiesta di assistenza dell’Aran dal parte del Comune di Indago in sede di contrattazione integrativa, come sarebbe stato possibile in base all’art. 46, co. 2, D.Lgs. 165 cit, con conseguente esclusione di coinvolgimenti dell’Agenzia nella illegittima scelta negoziale.
La sentenza, inoltre, chiarisce il suo
potere di intervento, come prima accennato la Corte dei conti non ha un potere di declaratoria di nullità del contratto integrativo per violazione del contratto nazionale, ma il sindacato della Corte sulle predette previsioni contrattuali o su provvedimenti amministrativi non avviene principaliter, ma incidenter tantum, al solo fine di cogliere, in caso di acclarata macroscopica violazione del dettato normativo o di sovrastanti fonti contrattuali nazionali da parte dei convenuti che ne dovevano fare retta e legittima applicazione in sede di contrattazione decentrata, profili di illiceità comportamentale forieri di danno erariale. In altre parole, questa Corte non si sostituisce né si aggiunge agli organi giurisdizionali (a.g.o.) o istituzionali (controparti sindacali) preposti ex lege al sindacato o all’interpretazione autentica di clausole dei CCNL, ma si limita a verificare la corretta e ragionevole applicazione di detti contratti collettivi, la cui inosservanza (o la cui cattiva osservanza) da parte di amministratori o funzionari pubblici può tradursi in un danno
erariale. D’altro canto una condotta dannosa per le casse pubbliche può trarre origine sia dall’adozione di atti amministrativi illegittimi da parte di amministratori o dipendenti pubblici, sia dalla sottoscrizione da parte degli stessi di contratti (quali quelli lavoristici) non conformi a legge o, come nel caso sub iudice, a sovrastanti fonti negoziali: in entrambi i casi, quale che sia lo strumento, unilaterale o consensuale, adottato, ciò che in sede giuscontabile viene in rilievo è il “comportamento gestionale” dannoso tradottosi in tale manifestazione volitiva, pubblicistica o privatistica e non già l’annullamento o la modifica di quest’ultima, sindacata, si ripete, solo incidenter tantum da questa Corte.
Sardegna n. 274/2007
La procura generale della Corte dei conti per la Regione Sardegna interviene su una vicenda che ha interessato alcuni dipendenti del Comune di Quartu S Xxxxx i quali hanno percepito liquidazioni di compensi premiali in totale assenza di definizione degli obiettivi e di qualsiasi parametro idoneo a determinare il raggiungimento di risultati previamente programmati in base ai quali misurare il reale apporto di ciascun dipendente alla realizzazione del progetto contravvenendo così alle norme del CCNL nazionale che prevedeva che i compensi fossero correlati al merito e all’impegno di gruppo per centri di costo, in modo selettivo e secondo i risultati accertati dal sistema permanente di valutazione e che tali risorse fossero utilizzate per promuovere effettivi e significativi miglioramenti nei livelli di efficienza e di efficacia degli enti e delle amministrazioni e di qualità dei servizi istituzionali.
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Liguria n. 447/2007
La Procura generale per la regione Liguria ha contestato il comportamento di alcuni dirigenti del Comune di Alberga, i quali hanno violato il principio dell’onnicomprensività del trattamento dirigenziale di cui all’art. 24 del D.Lgs. n. 165/2001 che stabilisce che detto trattamento remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su delegazione della stessa, perché in sede di contrattazione decentrata integrativa era stato disposto, in aggiunta al contratto, il riconoscimento di una mensilità annua aggiuntiva in contrasto con la disciplina dettata dal
D.Lgs. n. 165/2001, nonchè del D.L. 267/2000 che precludono l’attribuzione di una ulteriore indennità, concretizzando un comportamento, così come sostenuto dalla Corte, di estrema leggerezza e negligenza nella valutazione del quadro normativo di riferimento.
a cura di Xxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxxx
U.O. Affari giuridici ARAN
NOTE
1 Si veda anche, nell’Osservatorio di giurisprudenza del n. 3/2008 di Arannewsletter, la sentenza n. 4505 del 21 febbraio 2008.
2 Di cui v.: “Contrattazione integrativa, nullità della clausola difforme e responsabilità diffusa” su XXX, 0000,000.
3 Come già indicato nell’articolo di Xxxxxxx cit.
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Il dialogo sociale sulle politiche di riconciliazione tra vita lavorativa, privata e familiare
Leggendo il Trattato Istitutivo della Comunità Europea, già dai primi articoli emerge che l’azione della Comunità è finalizzata, tra l’altro, ad eliminare le inuguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne1. Tale principio è più volte ribadito ed esplicitato all’interno del Trattato, ad esempio all’art. 137 dove si legge che la Comunità sostiene e completa l’azione degli Stati membri volta a perseguire la parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro2.
Il Trattato individua, inoltre, lo strumento attraverso il quale si esplica l’azione comunitaria. Infatti Il Consiglio, …, adotta misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore3. In tale ambito, favorire la riconciliazione tra vita privata e vita lavorativa rappresenta uno degli scopi principali della politica sociale attuata dalla Comunità in questi ultimi anni, anche alla luce di un progressivo, costante, invecchiamento della popolazione accompagnato da un persistente calo della natalità.
Alla luce di ciò, gli strumenti volti a
supportare le donne e gli uomini che si prendono cura degli anziani ed a facilitare la coesistenza della vita familiare con il lavoro assumono
carattere di primaria importanza, come dimostrato anche dall’attenzione che a tale problematica è stata rivolta dalle Istituzioni Europee.
Non va, inoltre, tralasciato che le misure da porre in essere sono strettamente legate alla realizzazione di una pari indipendenza economica tra uomini e donne, come ribadito nel Patto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, approvato dal Consiglio Europeo del marzo 2006.
Recenti studi demografici, infatti, hanno messo in luce come le azioni finora attuate abbiano consentito la crescita più che proporzionale del tasso di occupazione femminile rispetto a quello maschile, ma gli indicatori salariali del medesimo periodo di riferimento mostrano come il numero delle donne presenti nel processo decisionale non abbia subito significativi miglioramenti negli ultimi anni. In particolare, la differenza retributiva dal 2003 è rimasta costante (15%) e si è ridotta di un solo punto rispetto al 2000.
La stessa Commissione Europea, nella sua relazione annuale sulla parità tra uomini e donne, ha rilevato come sembri che i notevoli sforzi compiuti in connessione con la strategia europea per la crescita e l’occupazione, al fine di creare nuovi e migliori posti di lavoro per le donne, si siano dimostrati più efficaci in termini di quantità che di qualità4.
I medesimi studi hanno, inoltre, evidenziato che permane un notevole
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divario nell’occupazione di donne con figli e donne senza figli. Tra il 2000 e il 2007, il tasso di occupazione complessivo di entrambi i gruppi è aumentato ma la differenza tra i due è rimasta di 12 punti percentuali.
Si è, anche, osservato che la compresenza dei più elevati tassi di fertilità e di alti tassi di occupazione femminile si rinviene negli Stati membri che hanno prestato maggiore attenzione alla problematica della riconciliazione tra vita lavorativa e responsabilità familiari, valorizzando, tra l’altro, la creazione di servizi di assistenza, qualitativamente validi ed a prezzi accessibili, sia per i bambini (es. asili nido) che per le altre persone a carico. Alla luce di ciò le parti sociali hanno costantemente esortato la Commissione ad assumere nuove iniziative che consentano ulteriori opportunità di crescita occupazionale femminile e, contemporaneamente, aiutino a ritrovare un corretto equilibrio tra vita professionale e vita privata.
Il ruolo delle parti sociali
Al fine di meglio comprendere il ruolo delle parti sociali nelle politiche di riconciliazione della vita lavorativa con la vita privata e familiare, occorre premettere che il Trattato5 ha introdotto uno speciale iter decisionale per le azioni comunitarie di politica sociale. Tale iter, articolato in più momenti, prevede le seguenti fasi:
- in primis la Commissione non può presentare proposte senza aver precedentemente consultato le parti sociali sull’orientamento di una possibile azione comunitaria. Si tratta della cosiddetta fase di studio, in cui si analizzano le realtà dei differenti Stati membri al fine di verificare la necessità di un intervento comunitario.
- Qualora, a seguito di tale consultazione, la Commissione ritenga ancora opportuno porre in
essere un’azione comunitaria, si attiva la seconda fase, che consiste in una nuova Consultazione delle parti sociali sul contenuto della proposta che la Commissione intende fare.
- Da questo momento i ruoli si invertono e attori principali della procedura divengono le parti sociali, le quali possono decidere di non assumere un ruolo di primo piano, limitandosi a trasmettere un parere o una raccomandazione, oppure informare la Commissione della loro volontà di avviare una sessione negoziale.
In altre parole, il Trattato consente alle parti sociali di intervenire attivamente nel processo legislativo attraverso il dialogo sociale che, una volta attivato, congela, per un periodo di 9 mesi, ogni possibilità per la Commissione di assumere iniziative. È, inoltre, importante sottolineare che, qualora le Parti addivengano ad un accordo, lo stesso dovrà essere presentato dalla Commissione al Parlamento ed al Consiglio come proposta di Xxxxxxxxx.
Benché negli anni si sia sempre dato costante impulso al dialogo sociale, la storia recente mostra segnali preoccupanti quali, ad esempio, decisioni unilaterali della Commissione da cui derivano criticità i cui effetti si ripercuotono su tutti i momenti di confronto attivi.
Infatti, se da un lato la situazione descritta nei precedenti paragrafi ha indotto la citata Istituzione ad attivare la prima fase di Consultazione delle parti sociali, dall’altro non per tutti i settori di intervento si è proceduto nel rispetto dell’art. 138 del Trattato. In particolare il processo di Consultazione, che ha avuto inizio nel 2006, ha evidenziato non solo la necessità di potenziare e attualizzare le norme in materia di tutela della maternità e dei congedi parentali, ma anche l’esigenza di valorizzare il congedo di paternità, i congedi per le adozioni ed i congedi finalizzati alla
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cura dei familiari a carico. Di conseguenza, la Commissione ha assunto l’impegno di proporre, nel corso del 2008, nuove iniziative per migliorare il rapporto tra vita familiare e professionale, in linea, peraltro, con i valori di pari opportunità, parità di accesso e solidarietà su cui si fonda la Nuova Agenda Sociale per il 2008.
Tuttavia, con riguardo ai congedi di maternità, la scelta operata è stata quella di presentare direttamente una proposta di revisione della Direttiva 92/85/CEE saltando alcune fasi dell’iter procedurale e, di fatto, negando alle parti sociali la facoltà di negoziare un accordo. A ciò si aggiunge che la proposta presentata dalla Commissione appare squilibrata rispetto alle osservazioni emerse nel corso delle consultazioni, in quanto accetta di fatto le richieste dei rappresentanti dei lavoratori senza contemperarle con le esigenze di parte datoriale.
Revisione della direttiva 92/85/CEE sulla protezione della maternità
Per quanto attiene alla proposta di revisione della Direttiva 92/85/CEE, essa si articola, in sintesi, nei seguenti punti, attraverso i quali si tende a rendere più agevole, per le donne, la permanenza nel mercato del lavoro dopo la maternità:
- aumentare il periodo minimo di congedo di maternità da 14 a 18 settimane;
- individuare ulteriori periodi di congedo in caso di parto prematuro, di ricovero ospedaliero dei bambini al momento della nascita, di bambini con disabilità e di parti gemellari, la cui durata dovrà tener conto sia delle esigenze della donna che di quelle del bambino;
- incrementare l’indennità erogata alle mamme durante il congedo di maternità;
- consentire l’utilizzo flessibile dell’istituto, al fine di permettere alle
donne di decidere come articolare il congedo, ovvero quanta parte dello stesso utilizzare prima del parto e quanta dopo;
- introdurre la possibilità, per le mamme che rientrano dal congedo di maternità, di chiedere la modifica dell’orario di lavoro, richiesta che deve essere esaminata dal datore di lavoro avendo a riguardo anche le esigenze della lavoratrice;
- migliorare le tutele per le mamme che ritornano al lavoro dopo il congedo di maternità;
- potenziare le norme avverso il licenziamento della lavoratrice madre.
Inoltre, la proposta di modifica introduce diverse norme volte a sanzionare il datore di lavoro che non rispetti le tutele minime previste dalla normativa comunitaria.
Revisione della direttiva 96/34/CE sui congedi parentali
Con riferimento, invece, alla revisione della Direttiva sui congedi parentali, la Commissione Europea ha attivato correttamente l’iter previsto dal Trattato e, su richiesta delle parti sociali, è stato avviato, nel settembre 2008, un negoziato al quale partecipano, da un lato, le due associazioni europee dei datori di lavoro riconosciute a livello comunitario - BUSINESSEUROPE (per il settore privato) e CEEP (per il settore pubblico) - e, dall’altro, quale rappresentante dei lavoratori, ETUC ovvero l’organizzazione che associa le Confederazioni sindacali dei vari Stati membri.
Nel negoziato in parola la
delegazione trattante per il CEEP è presieduta dal Presidente della Sezione Italiana (CEEP_IT) che è anche il Presidente dell’ARAN.
Al momento il negoziato è ancora in corso e la conclusione è prevista per la fine del 2008. È, tuttavia, evidente che lo stesso è in parte influenzato
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dalle decisioni contenute nella proposta di modifica della Direttiva 92/85/CEE, che limitano l’ambito di movimento della parte datoriale.
Conclusioni
Gli interventi da adottare per il rafforzamento e l’ammodernamento del quadro normativo europeo sono ancora molteplici e vanno dal potenziamento delle strutture di assistenza per i bambini o le altre persone a carico, all’incentivo all’utilizzo di particolari tipologie di lavoro (ad esempio, il telelavoro), all’introduzione di nuovi strumenti volti ad incoraggiare gli uomini ad una maggiore partecipazione attiva all’interno della famiglia.
In ogni caso, le possibilità di intervento delle Parti (sociali ed istituzionali) potrebbero subire, nell’immediato futuro, limitazioni anche conseguenti al fatto che il 2009
si presenta come un anno di rinnovamento sia a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sia per la rielezione/nomina dei componenti delle Istituzioni ormai di prossima scadenza, sia, non da ultimo, per il futuro del dialogo sociale sul quale è in corso un importante dibattito.
di Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx
U.O. Relazioni sindacali
NOTE
1 Artt. 2 e 3, comma 2, Trattato Comunità Europea
2 Art. 137, comma 1, lett. i) Trattato Comunità Europea
3 Art. 141, comma 3, Trattato Comunità Europea
4 COMM (2008) 10
5 Cfr. artt. 138 e seguenti del Trattato della Comunità Europea
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Sistemi contrattuali e produttività
Intervento di Xxxxx Xxxxxxx alla Tavola Rotonda della Fondazione ISPER in collaborazione
con la XXXXX “Xxxxx Xxxxx” di Roma
Roma 15 ottobre 2008
La rinnovata centralità delle questioni del rilancio della produttività e dell’efficacia dei risultati, nodi strategici della ripresa del sistema Italia di fronte alle sfide europee e della globalizzazione, ha spinto la Fondazione Isper a promuovere un’iniziativa seminariale in cui sono stati coinvolti componenti delle parti sociali, delle istituzioni e della dottrina pratica.
Ci è sembrato opportuno pubblicare l’intervento introduttivo dell’avv.
Xxxxx Xxxxxxx, già Presidente ARAN,
come contributo al dibattito in corso sia nell’ambito dell’economia privata che nella Pubblica Amministrazione.
Quando abbiamo deciso, molti mesi fa, di realizzare questo convegno i miei colleghi del Comitato Scientifico della Fondazione ed io pensavamo che ci saremmo ritrovati a discutere su un accordo già realizzato o ancora in discussione, non nella strana e kafkiana situazione che tutti conosciamo. E quando ho con piacere accettato di tenere la relazione introduttiva non sapevo in che ginepraio mi sarei andato a cacciare. D’altra parte che la situazione dei rapporti tra confederazioni non fosse delle migliori me lo lasciava intuire, a partire dalla primavera scorsa, il continuo richiamo all’unità sindacale che si sentiva echeggiare un po’ dappertutto. Brutto segnale, diceva il mio naso! Peraltro tutti temevamo che piovesse ma non che diluviasse. La vicenda Alitalia (che non sarà
oggetto di questo incontro) metteva purtroppo drammaticamente in luce un dato costante del nostro Paese: lo scarso coefficiente di democrazia in atto; volutamente parlo di democrazia senza aggettivi perché si tratta di un valore che non soffre specificazioni. Quando ci sono interessi fondamentali in conflitto, una società democratica ha regole che dirimono quei conflitti con il ricorso, in ultima analisi, ad un’unica soluzione: contarsi.
Ma nel nostro sistema di relazioni industriali, a causa di una storia che tutti conosciamo, non vige la regola di contarsi perché (almeno nel mondo del lavoro privato) si è sempre rifiutato il concetto di rappresentanza. Cosicché abbiamo visto una organizzazione da sempre sostenitrice della sacralità del sindacato confederale come portatore di interessi generali, dichiararsi non rappresentativa di uno spezzone di lavoratori all’interno di un’azienda sull’orlo del fallimento.
Il fatto è che per fare ricorso ad un sistema corretto di rappresentanza e quindi di rappresentatività (che, è appena il caso di sottolinearlo, dovrebbe riguardare non solo i sindacati dei lavoratori ma anche le associazioni imprenditoriali) bisognerebbe - a parte gli innumerevoli problemi politici e tecnici - cominciare a fare chiarezza rispetto al settore nel quale si intende contarsi, con la conseguenza di fare un minimo di ordine nella selva dei settori di contrattazione nazionale,
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riducendoli ad un numero ragionevole e sensato. Ma per far questo bisognerebbe vincere la resistenza delle nomenclature di entrambe le parti.
Ma veniamo al merito dei problemi. Il sistema contrattuale italiano fin dal primo dopoguerra ha ruotato intorno all’asse degli accordi interconfederali e a quello dei contratti nazionali. Uno dei primi accordi riguardava l’indennità di contingenza: tutti sappiamo tutto dei pregi e difetti di quell’istituto che certamente ebbe il merito, in tempi assai bui, di proteggere il paese da una conflittualità che rischiava di sfociare in un terribile conflitto sociale, ma che con il trascorrere degli anni divenne un formidabile incentivo all’inflazione e fonte di ingiustizie palesi nei confronti dei lavoratori più professionalizzati, soprattutto dopo l’accordo che unificava il valore del punto.
In un clima di assoluta emergenza
economica e sociale, che assomigliava molto a quella attuale, si giunse ai famosi accordi del luglio 1992 e 1993 con cui si innovava profondamente il sistema.
Do ovviamente per conosciute le intese e mi limito qui a ricordarne alcune caratteristiche che serviranno, spero, ai fini del nostro dibattito.
Eliminando ogni automatismo, l’accordo introduceva il concetto di “inflazione programmata” e l’eventuale recupero successivo rispetto a quella effettiva, ma le parole usate per definire tutto il percorso erano studiate apposta per lasciare una serie di margini di indeterminatezza, francamente molto ampi. Ricorderò i tre aspetti che più hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro e trascorrere giornate e nottate intere di trattative:
- quale fosse la retribuzione su cui doveva avere effetto l’incremento dovuto all’inflazione;
- come fossero variate le ragioni di scambio del paese;
- quale fosse l’andamento delle retribuzioni alla luce del quale valutare i due dati di inflazione contrattuale o di fatto.
Quale che sia il giudizio tecnico che si può dare dell’accordo, non esiste alcun dubbio sulla sua efficacia.
Quell’accordo e il comportamento responsabile delle parti contrattuali e dei Governi produssero l’effetto di bloccare l’inflazione, di migliorare fortemente i risultati del sistema produttivo, e, in ultima analisi, di agganciare l’Italia al treno dell’euro. Nessuno di noi comprese, tuttavia, che, nello stesso giorno in cui festeggiavamo il raggiungimento di un risultato storico, decretavamo la morte di quell’accordo, pensato e attuato proprio per raggiungere quel fine.
In condizioni di normalità, e quindi di bassa inflazione, quell’intesa cominciò a zoppicare vistosamente e da allora fino ai nostri giorni si cominciò a parlare della necessità di riscrivere quell’accordo, anche perché nel frattempo si era spalancata un’altra voragine ai piedi del nostro paese: la drammatica perdita di competitività e l’assoluta necessità di generare incrementi robusti della produttività reale a tutti i livelli.
Il mio personale convincimento è che, al di là delle dichiarazioni di principio, per lungo tempo le parti sociali hanno scelto di “portare la palla” perché un cambiamento profondo avrebbe ineluttabilmente aperto serie crepe all’interno dei diversi schieramenti e delle diverse correnti di pensiero. Comunque, dopo un lungo travaglio, CGIL, CISL e UIL varavano, nel luglio di quest’anno, un documento unitario sulle linee di riforma della struttura della contrattazione. La nuova Presidenza di Confindustria si
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dichiarava disponibile al dialogo e, al termine di una prima fase di incontri, presentava una propria bozza di accordo. Il resto è cronaca un po’ bizzarra di questi giorni, compresa la nuova “proposta di linee guida per la riforma della contrattazione collettiva” che solo lunedì scorso è stata fatta conoscere. Quanto all’ambito dei soggetti, sappiamo che tale proposta è condivisa, oltreché dalla Confindustria, da CISL e UIL, mentre per quanto riguarda CGIL conosciamo un comunicato che è un capolavoro oracolare e da cui, almeno io, ho capito che quella organizzazione è in netto dissenso ma che comunque non si alzerà mai dal tavolo!!!
Mi limiterò ad alcuni accenni sui vari temi oggetto della vicenda e dell’ultimo documento.
Innanzi tutto una questione di metodo: se l’accordo deve valere per tutto il sistema produttivo del Paese mi sembra che ci sia una certa carenza di attori imprenditoriali. Non ho nessuna nostalgia per le penose sceneggiate che periodicamente vanno in onda presso la Sala Verde di Palazzo Chigi, ma ancora una volta mi sembra che esista un elementare problema di democrazia!
Cosicché non mi sembra affatto ingiustificata la reazione di Confcommercio, forte del peso del suo settore sull’economia reale del paese, di fronte alla pretesa di qualcuno di farle sottoscrivere, per adesione, un documento (qualsiasi sarà alla fine la natura dello stesso) che non ha affatto contribuito a formulare.
Per il resto, accertata la comune volontà di dare cadenza triennale alla contrattazione nazionale, la disputa aperta sulle diverse modalità di calcolo dell’inflazione realisticamente prevedibile non mi ha appassionato molto, come non mi ha appassionato la polemica sui diversi risultati delle
simulazioni presentati da IRES e Confindustria.
Chi ha fatto contrattazione sa bene che i diversi risultati di costo delle ipotesi contrattuali dipendono in misura fondamentale dalle variabili che vengono introdotte nei calcoli relativi, e non ha mai visto le controparti convenire su un dato di costo fino a un istante prima della firma.
Piuttosto mi sembra importantissimo che le parti, facendo tesoro dell’esperienza passata, abbiano finalmente chiarito quale sia l’indice di riferimento e da cosa vada depurato; quale sia il valore retributivo medio su cui si applicherà il nuovo indice, così come il fatto che il recupero dello scarto si realizzi nell’ambito temporale di validità del contratto.
Ma ancora una volta la parte fondamentale della vicenda verte sulla contrattazione aziendale, sulla sua esigibilità, la sua estensione e le sue forme: è su questo punto che si è giocata e si gioca la partita vera, posto che nessuno può dubitare che il tema della produttività riguarda esclusivamente il livello aziendale o (ma qui ho personalmente molti dubbi) quello territoriale.
Sul tema la Confindustria si è presentata con una posizione molto conservativa, proponendo le modalità e gli ambiti della contrattazione di secondo livello “nello spirito dell’attuale prassi negoziale”, dizione sostanzialmente analoga a quella contenuta nell’accordo del luglio 1993.
La questione è ovviamente delicatissima, perché è noto che nel sistema privato le aziende che realizzano la contrattazione integrativa oscillano, secondo alcuni, intorno al 30 e, secondo altri, addirittura intorno al 15%.
Mi permetto di fare alcune osservazioni in proposito:
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- l’ipotesi dell’ultimo documento rappresenta un serio sforzo per dare gambe ad un possibile rilancio della contrattazione di secondo livello, prevedendo percorsi che, almeno sulla carta, ne dovrebbero favorire lo sviluppo, posto che nessuno può pensare di inserire ex lege nel nostro sistema contrattuale un obbligo a contrarre. Tutti in proposito ricordiamo la vicenda del disegno di legge che, volendo introdurre la regolamentazione della rappresentanza sindacale in tutto il sistema, prescriveva l’elezione delle RSU anche nelle piccole e piccolissime aziende.
Cosicché mi sembra fondamentale
l’istituzionalizzazione di una legislazione di sostegno volta a favorire, in termini di sgravi fiscali e contributivi, incrementi retributivi che incentivano la produttività contenuti in accordi aziendali; a questo proposito credo che si dovrebbe porre attenzione su quali siano i soggetti abilitati a sottoscrivere tali accordi, per evitare il fiorire di sindacati di comodo. E così ancora si ripresenta il tema della rappresentanza!
- Altrettanto fondamentale l’elemento di garanzia retributiva per quei lavoratori che non godono della contrattazione aziendale, idea ripresa da importanti contratti nazionali e che serve a sanare una palese ingiustizia e a riequilibrare l’andamento delle retribuzioni nei vari settori.
- Nel documento finale mi sembra finalmente emergere una esigenza non più eludibile di proceduralizzare i rapporti e di scrivere insieme regole che valgano a dare un po’ più di certezze alle parti su modi, tempi e andamenti della contrattazione di primo e di secondo livello. Le parti si spingono fino a prevedere un soggetto terzo cui spetterebbe di fissare l’indice previsionale su cui basare i rinnovi dei contratti nazionali, un Comitato Paritetico al
massimo livello per la gestione dell’auspicato accordo interconfederale, fino addirittura a un collegio di arbitrato istituiti dai contratti nazionali per dirimere le controversie relative alla contrattazione di secondo livello.
Se a tutto questo aggiungiamo il favore che sembra emergere per un nuovo impulso agli Enti bilaterali, che ad opinione di tutti hanno svolto un ruolo positivo ed utile, se ne potrebbe trarre la conclusione che l’auspicato accordo possa segnare un punto di svolta, ponendo le basi per la realizzazione, per la prima volta, di un sistema coerente di relazioni industriali.
Tuttavia il condizionale è d’obbligo per molte ragioni. La prima è che troppe volte abbiamo letto (spesso dopo averle scritte noi stessi - è un’ammissione di colpa) norme programmatiche che sono rimaste lettera morta nei contratti, accordi e protocolli vari. Parole scritte sulla sabbia.
L’altra ragione è che sembrano altrettanto scritte sulla sabbia le dichiarazioni di intenzioni relative a due questioni fondamentali e tra loro strettamente connesse: la razionalizzazione e riduzione dei troppi settori di contrattazione nazionale e la rappresentatività. Su quest’ultima questione il documento delle Confederazioni sembrava un poco più esplicito, demandando al CNEL la certificazione dei dati relativi alla rappresentanza e alla rappresentatività dei Sindacati basati sui dati associativi e sui voti per le elezioni delle RSU che “andranno generalizzate dappertutto”. È appena il caso di notare che in questo inciso si nasconde il diavolo!
Quanto poi alla competenza del
CNEL, mi permetto di notare - senza con questo voler essere sgarbato nei confronti dei nostri ospiti - che allo stato non mi sembra un’ipotesi felice.
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Lo dico, forte della mia esperienza pluriennale sia come membro del Cnel sia come uno dei protagonisti della vicenda ARAN; della quale Aran - di cui da tempo va di moda parlar male - tutto si può dire ma non che non abbia saputo, con grande fatica, grande professionalità e con l’aiuto di pochi ma autorevoli rappresentanti sindacali, costruire e difendere contro nemici e finti amici un sistema corretto e compiuto di rappresentatività, di fronte al quale non sono più ammesse le furbizie e gli ammiccamenti che vedo ancora sussistere nel sistema privato.
A me sembra che la questione sia così delicata e complessa che dovrebbe essere affidata ad un soggetto visibilmente terzo e al di sopra di ogni sospetto.
E visto che parlo di ARAN vorrei augurarmi che l’eventuale nuovo sistema valga per tutti e che non capiti quel che è successo con i decreti legislativi applicativi della legge Biagi che all’ultimo momento non hanno riguardato i rapporti di lavoro nella Pubblica Amministrazione, creando così la situazione odierna (che sarebbe comica se non fosse tragica) con un numero di precari altissimo e la cui ventilata regolarizzazione non
solo viola principi costituzionali ma rischia di essere un ulteriore insopportabile peso per le finanze dello Stato.
Finisco qui. Con un augurio: che la vicenda termini il più rapidamente e con l’intesa di tutti per il bene del nostro Paese, che in questo momento di tutto ha bisogno tranne che di conflitti sociali. E per il bene del Sindacato che si deve al più presto liberare della sindrome dell’”accerchiamento” - per dirla con il titolo del bel libro di Xxxxx Xxxxxxxx
- comprendendo le ragioni della società attuale e di un nuovo modo di difendere gli interessi dei lavoratori. L’ultima cosa che vorrei vedere - ormai con i capelli bianchi e dopo aver passato tutta una vita professionale dall’altra parte del tavolo, è un mondo del lavoro privo di chi si batte per difendere l’interesse dei lavoratori. Chiamate la mia, se volete, sindrome di Stoccolma!
Grazie.
NOTE
1 La Fondazione Isper, costituita nel 1993 per iniziativa di Xxxxx Xxxxx Xxxxxx, ha come finalità quella di favorire la crescita della cultura delle Risorse Umane. xxx.xxxxxxxxxx-xxxxx.xx
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EVENTO CONTENUTO/NOTE |
16 ottobre 2008 I lavoratori cui si riferisce questo contratto sono circa 60 mila. L’aumento medio, a regime, delle Comparto Università retribuzioni è di 98,70 euro ed arretrati a decorrere dal 1° gennaio 2006. CCNL relativo al Il testo raccoglie e riordina tutte le preesistenti personale dei livelli per il norme contrattuali del comparto, rendendole più quadriennio normativo immediate e leggibili. 2006 - 2009 ed il primo Numerose le innovazioni nell’accordo che prevede: biennio economico 2006 - - un innovato meccanismo delle progressioni di 2007 carriera; - verifiche periodiche, con metodologie pubbliche e trasparenti, sulle capacità e sull’impegno per il passaggio alle qualifiche superiori; - progressioni stipendiali condizionate alla valutazione della qualità delle prestazioni individuali; - blocco delle progressioni economiche a seguito dell’irrogazione di sanzioni disciplinari; - valorizzazione ed incentivazione dell’impegno dei lavoratori con elevata professionalità, affidando a questi, incarichi temporanei di particolare complessità cui è collegata parte della retribuzione in base ai risultati conseguiti; - irrigidimento delle sanzioni disciplinari in caso d’insufficiente rendimento e per l’elusione dei sistemi di controllo e dell’orario di servizio; - immediato licenziamento per la flagranza in caso di peculato, concussione o corruzione; - il potenziamento delle competenze dell’Ente bilaterale (XX.XX. e CRUI) per la formazione con l’obiettivo di programmare iniziative di qualità capaci di migliorare la professionalità e l’aggiornamento del personale. |
17 ottobre 2008 Interessa complessivamente 143 mila dipendenti di cui circa 121 mila dell’area medico-veterinaria e circa Dirigenza Area III (Sanità 22 mila dell’aera della dirigenza dei ruoli amministrativa, sanitaria, professionale, tecnico, amministrativo e delle tecnica e professionale) professioni sanitarie (SPTA). I testi degli accordi sono stati definiti secondo gli CCNL dell’Area III della indirizzi del Comitato di settore della Sanità. dirigenza del Servizio L’aumento medio a regime per l’area medica è di Sanitario Nazionale, parte circa 260 euro, di cui 149 euro destinati ad normativa quadriennio incrementare lo stipendio tabellare e 111 euro per 2006-2009 e parte finanziare la parte accessoria degli emolumenti. economica biennio 2006- Per l’area SPTA l’aumento medio a regime è di circa 2007 220 euro, di cui 149 attribuiti alla retribuzione tabellare e 71 euro erogati sulla parte accessoria. Dirigenza Area IV (Sanità Gli incrementi saranno somministrati in due tranche: medica e veterinaria) 1° gennaio 2006, 1° febbraio 2007. Nel contratto sono state inserite norme di CCNL dell’Area IV della comportamento in servizio dei dirigenti per rendere dirigenza del Servizio più efficiente ed efficace la gestione delle Sanitario Nazionale, parte prestazioni con l’obiettivo delle esigenze primarie |
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EVENTO CONTENUTO/NOTE |
normativa quadriennio dei cittadini utenti L’accordo contempera l’esigenza 2006-2009 e parte di un miglioramento delle condizioni di lavoro dei economica biennio 2006- dirigenti con più appropriati strumenti per la 2007 gestione delle Aziende, in modo da fornire servizi di maggiore qualità. Al riguardo è stato previsto che le Regioni emanino linee generali d’indirizzo sui criteri per la definizione delle modalità di riposo giornaliero e delle pause, per prevenire il rischio clinico dovuto a stanchezza. Il sistema degli incarichi, dello sviluppo professionale e della valutazione è stato ancor più definito per proseguire nel processo della valorizzazione delle funzioni dirigenziali. Le parti hanno concordato sull’opportunità di definire un sistema più articolato in materia disciplinare e comportamentale, ivi incluse procedure e sanzioni. La tematica sarà affrontata in una specifica sequenza contrattuale, tenendo conto anche degli eventuali provvedimenti legislativi che dovessero intervenire sulla materia. |
12 novembre 2008 Il contratto eroga un incremento retributivo medio sul tabellare pari a 70 euro mensili per tredici Comparto Ministeri mensilità. Inoltre, per effetto di una coda contrattuale precedente, saranno destinati 8 euro Ipotesi di CCNL relativo mensili ai fondi di produttività. Il contratto prevede il al personale dei livelli per recupero dei fondi di produttività così come previsto il secondo biennio nel protocollo firmato lo scorso 30 ottobre. economico 2008 - 2009 |
18 novembre 2008 Il contratto è relativo al periodo 1 gennaio 2006 - 31 dicembre 2009 per la parte normativa ed è valido Enti art. 70 D.Lgs. dall'1 gennaio 2006 fino al 31 dicembre 2007 per la n. 165/2001 parte economica. Viene confermato l’ordinamento professionale con CCNL relativo al alcune modifiche riportate nel testo dell’Ipotesi. personale dei livelli del Si è voluta potenziare ed incrementare la capacità di CNEL per la parte rispondere in modo sempre più mirato ai compiti normativa quadriennio istituzionali e di perseguire maggiori livelli di efficacia 2006 - 2009 e primo ed efficienza nell'erogazione dei servizi resi. A tal fine biennio economico 2006 - sono potenziati i sistemi di misurazione, verifica ed 2007 incentivazione della qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche, realizzando in particolare la più ampia valorizzazione della professionalità dei dipendenti anche mediante la valutazione dell’apporto individuale definendo, a tal proposito, anche politiche di incentivazione della produttività. Un Capo a parte viene dedicato alla formazione, indicando non solo i principi generali e le finalità ma anche i destinatari e le procedure della stessa. Infine il Capo III è destinato alle norme disciplinari. L’aumento medio complessivo a regime erogato è di 113 euro in due tranches: 1° gennaio 2006 e 1° gennaio 2007. |
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EVENTO CONTENUTO/NOTE
24 novembre 2008 Comparto Agenzie fiscali
Ipotesi di CCNL relativo al personale dei livelli per il secondo biennio economico 2008 - 2009
La presente Ipotesi di accordo si riferisce al periodo dal 1° gennaio 2008 al 31 dicembre 2009. Tale accordo concerne sia norme relative ad istituti giuridici, come la valutazione dell’attività delle Agenzie in relazione ai propri obiettivi istituzionali, sia norme relative al trattamento economico consistente nell’aumento dello stipendio tabellare medio a regime di 76,70 euro e nell’incremento dell’indennità di amministrazione pari a 5,30 euro, per un totale a regime di 82 euro che rappresentano il 3,2% previsto per il 2008-2009.
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DIRIGENZA
Corte Costituzionale sentenza n. 351 del 24 ottobre 2008, Pres. Flick, Red. Cassese.
Pubblico Impiego; dirigenza; spoils system; diritto alla riammissione in servizio; sussiste
Il dirigente decaduto dalla carica per effetto dello spoils system ha diritto alla riammissione in servizio, cui non può sostituirsi un indennizzo.
Successivamente alla dichiarazione di decadenza dall’incarico di un direttore generale dell’Azienda USL RM/E, in applicazione delle disposizioni legislative della Regione Lazio istitutive dello spoils system, secondo cui i vertici istituzionali venivano meno con l’insediamento del nuovo Consiglio regionale (Leggi regionali n. 9/2005 e n. 1/2004), veniva impugnato il provvedimento davanti al Tar Lazio, chiedendone anche, in via cautelare, la sospensione.
Essendo stata rigettata la richiesta di misura cautelare, si proponeva appello davanti al Consiglio di Stato, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa regionale sullo spoils system. La questione è stata ritenuta fondata dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 104/2007, ha dichiarato l’illegittimità della normativa regionale. Di contro, prima della pronuncia del Consiglio di Stato sull’appello cautelare, in esecuzione della sentenza della Corte Costituzionale, la Regione Lazio tentava di contenere gli effetti approvando la Legge n. 8/2007 secondo cui: “1. La Giunta regionale, nei confronti dei componenti di organi istituzionali degli enti pubblici dipendenti, i quali siano decaduti dalla carica ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime a seguito di sentenze della Corte costituzionale, con conseguente risoluzione dei
contratti di diritto privato disciplinanti i relativi rapporti di lavoro, è autorizzata a deliberare in via alternativa: a) il reintegro nelle cariche e il ripristino dei relativi rapporti di lavoro; b) un’offerta di equo indennizzo. 2. La soluzione di cui al comma 1, lettera b), è comunque adottata qualora il rapporto di lavoro sia stato interrotto, di fatto, per oltre sei mesi“.
Il Consiglio di Stato ha rilevato che la nuova normativa impediva di emettere la richiesta misura cautelare di integrazione nella carica e ha sollevato ulteriore questione di legittimità costituzionale della Legge regionale n. 8/2007 con riferimento agli artt. 97, 3, 24, 103 e 113 della Costituzione.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 351 del 24 ottobre 2008, Pres. Flick, Red. Cassese) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della Legge della Regione Lazio n. 8/2007 (disposizioni concernenti le cariche di organi di amministrazione di enti pubblici dipendenti decaduti ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale), per contrasto con l’art. 97 Cost., ritenendo assorbiti gli altri profili di illegittimità denunciati. Infatti, a differenza di quanto si verifica nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è “definito” allo scopo di tutelare il dipendente - ha osservato la Corte - nel settore pubblico, il potere dell’amministrazione di sollevare un dirigente dall’incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è delimitato da garanzie e limiti posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi.
Le garanzie non mirano soltanto a
proteggere il dirigente come dipendente, ma discendono anche da
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principi costituzionali posti a protezione di interessi pubblici, come l’imparzialità amministrativa, con cui contrasta un regime di automatica cessazione dell’incarico che non rispetti il giusto procedimento; il buon andamento, che risulta pregiudicato da un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescinda dall’accertamento dei risultati conseguiti. Da ciò deriva, sul piano degli strumenti di tutela - ha affermato la Corte - che forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi.
In particolare, la circostanza che il
direttore generale di un’azienda sanitaria locale, rimosso automaticamente e senza contraddittorio, riceva, in applicazione della disposizione legislativa regionale impugnata, un ristoro economico, non attenua in alcun modo il pregiudizio cagionato da quella rimozione all’interesse collettivo, all’imparzialità e al buon andamento della Pubblica Amministrazione; tale pregiudizio, anzi, appare in certa misura aggravato, dal momento che, come correttamente è stato rilevato dal Consiglio di Stato, alludendo ad una
«forma onerosa di spoils system», la collettività subisce anche un aggiuntivo costo finanziario: all’obbligo di corrispondere la retribuzione dei nuovi dirigenti sanitari, nominati in sostituzione di quelli automaticamente decaduti, si aggiunge, infatti, quello di corrispondere a questi ultimi un ristoro economico.
Cassazione Sezione Lavoro n. 24407 del 2 ottobre 2008, Pres. Sciarelli, Rel. Xxxxxxxxx.
Dirigenza; procedimento penale; licenziamento
Il dirigente può essere licenziato per fatti che costituiscono reato anche prima che la sua colpevolezza sia accertata in sede penale; tuttavia la sola circostanza che egli sia indagato per un grave reato e l’indagine abbia suscitato clamore non può integrare giusta causa di licenziamento.
Un dirigente medico della Ausl n. 4 di Prato, nel febbraio 2001 venne posto, dall’Autorità Giudiziaria, agli arresti domiciliari, nell’ambito di un’indagine per corruzione continuata, riferita all’ipotesi di percezione di denaro, verificatasi alcuni anni prima (quando egli dipendeva da altra azienda) da parte di un fornitore di presidi medico-chirurgici.
La notizia ebbe eco mediatica. L’azienda, dopo aver sospeso il dipendente dal servizio, nel marzo 2001 lo ha licenziato con motivazione riferita all’indagine penale in corso e al rilievo anche nazionale della vicenda. Nel giugno del 2001, il dirigente è stato rinviato a giudizio, con l’imputazione di corruzione; in medio tempore, egli ha adito il Tribunale di Prato, chiedendo l’annullamento del licenziamento.
L’azienda si è difesa sostenendo che l’avvio del provvedimento penale a carico del dirigente ed il clamore derivatone avevano fatto venir meno la base fiduciaria del rapporto. Il Tribunale ha rigettato il ricorso del dirigente. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento ed ha condannato l’azienda al pagamento dell’indennità di preavviso e dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo di categoria per il licenziamento ingiustificato.
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Il dirigente - ha osservato la Corte d’Appello - può essere licenziato per fatti che costituiscono reato anche prima che la sua colpevolezza sia accertata in sede penale; tuttavia la sola circostanza che egli sia indagato per un grave reato e l’indagine abbia suscitato clamore non può integrare giusta causa di licenziamento, in applicazione dei principi di garanzia derivanti dagli artt. 24 (diritto di difesa) e 27 (presunzione di non colpevolezza) Cost., i quali assumono ancora maggior rilievo quando si tratti di reati commessi al di fuori del rapporto di lavoro e addirittura prima della sua costituzione, essendo molto difficile che, in tali casi, il datore di lavoro abbia elementi per valutare la fondatezza delle accuse. Continua la Corte di Firenze: Alla data del licenziamento la AUSL disponeva di scarni elementi di informazione e non poteva d’altra parte fondare il recesso su indiscrezioni o illazioni giornalistiche, né, del resto, essa aveva mai sostenuto di aver acquisito autonomamente elementi di colpevolezza del sanitario; inoltre, tenendo conto delle clausole collettive circa la sospensione dal servizio, l’azienda non aveva fornito alcuna dimostrazione dell’impossibilità di tollerare una sospensione del sanitario protratta quantomeno per taluni mesi.
L’azienda ha proposto ricorso per
Cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 24407 del 2 ottobre 2008, Pres. Sciarelli, Rel. Xxxxxxxxx) ha rigettato il ricorso, pur ricordando la sua giurisprudenza secondo cui il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall’art. 27, secondo comma, Cost. concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato; essa non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del
datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di prosecuzione anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna. Ma deve anche ricordarsi - ha affermato la Corte - che, per costante giurisprudenza, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario - ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto - deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda. La sentenza impugnata - ha osservato la Corte - si è sostanzialmente conformata a questi principi, avendo messo in evidenza che al momento dell’intimazione del recesso, avvenuta peraltro quando il dirigente non era ancora stato rinviato a giudizio, l’azienda, che oltretutto non aveva mai sostenuto di aver autonomamente acquisito elementi a carico del dipendente, non disponeva, né avrebbe potuto disporre - trattandosi di fatti commessi nell’ambito di un precedente rapporto di lavoro - di alcun dato per vagliare la fondatezza delle accuse, sicché in sostanza aveva licenziato il sanitario in forza della sola circostanza che questi era stato sottoposto ad indagine penale e che la vicenda aveva suscitato clamore.
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LICENZIAMENTO
Cassazione Sezione lavoro, n. 26239 del 30 ottobre 2008.
Settore privato; falsa attestazione della presenza; licenziamento per giusta causa; lesione del vincolo fiduciario; sussiste.
Farsi timbrare il cartellino rilevatore della presenza da altro lavoratore comporta il licenziamento per giusta causa, per il venir meno del vincolo fiduciario.
Con ricorso al Tribunale di Torino, una ex - dipendente aveva convenuto in giudizio la s.r.l. Villa Xxxx per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento disciplinare che le era stato irrogato con lettera 15 maggio 2003, asserendo che la motivazione addotta era inesistente.
La domanda veniva rigettata dal giudice adito ed, a seguito di gravame della lavoratrice, la Corte di appello di Torino, con sentenza 18 luglio 2005, confermava la decisione impugnata, ritenendo che, alla stregua dell’istruttoria espletata, era risultato che la lavoratrice, avvalendosi della collaborazione di altra collega, aveva fatto timbrare la cartolina-orologio di ingresso prima di essere entrata al lavoro. Riteneva ancora il giudice di secondo grado che, al caso di specie,
andava applicato l’art. 33 punto G del CCNL (alterazione o falsificazione delle certificazioni delle presenze) che legittimava il licenziamento per giusta causa.
La stessa ricorreva, quindi, in Cassazione, adducendo, tra l’altro, che la società non avrebbe subito un danno economico e che non vi sarebbe stata alcuna lesione dei doveri di lealtà e che, quindi, poteva esserle irrogata una sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, ha affermato che, nella fattispecie in oggetto, a prescindere dal danno patrimoniale (anche soltanto eventuale) subito dalla società, ricorre senz’altro la lesione del vincolo fiduciario e, pertanto, la sanzione irrogata, attesa la gravità dell’addebito contestato, risulta congrua.
La sentenza ha particolare rilevanza, anche nell’ambito pubblico, perché, in materia di falsa rilevazione della presenza, non si incentra esclusivamente sulla presenza o meno di un reato (la truffa) ma fornisce autonoma rilevanza alla fattispecie, disciplinarmente rilevante, della lesione del vincolo fiduciario.
a cura di Xxxxx Xxxxxx
Collaboratore ARAN
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LA VALORIZZAZIONE DEL LAVORO PUBBLICO. IL PUNTO DI VISTA DEGLI STUDIOSI
Audizioni al Senato su ddl 847 e 746
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Già dalla precedente legislatura forte è risultata la convinzione che la riforma delle amministrazioni e del lavoro pubblico, operata negli anni ’90, avesse bisogno di essere adeguatamente implementata.
Sia da parte degli studiosi che dagli addetti al mondo del lavoro pubblico i punti di maggiore criticità su cui operare gli opportuni interventi sono stati individuati nella scarsa economicità e qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni e nella insufficiente presenza di efficaci strumenti di valutazione e controllo del loro operato che fossero anche tesi alla incentivazione del capitale umano ad iniziare dalla dirigenza.
Il progetto di Xxxxx-delega finalizzato alla “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico” (A.S. n. 847) si inserisce in tale processo, assumendo come obiettivi:
- la convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato;
- la revisione della disciplina in materia di contrattazione collettiva;
- l’innovazione della disciplina in tema di valutazione sulle strutture e sul personale;
- la valorizzazione del merito e l’incentivazione della produttività e della qualità della prestazione lavorativa;
- la revisione della normativa sulla dirigenza pubblica;
- la modifica della disciplina in tema di
sanzioni disciplinari e di responsabilità dei dipendenti pubblici.
Al progetto di legge governativo è stato successivamente congiunto il disegno di legge “Norme in materia di trasparenza e valutazione dell’efficienza e del rendimento delle strutture pubbliche e dei loro dipendenti…” (A.S.
n. 746) di iniziativa dell’opposizione il cui nucleo fondamentale è costituito dalla tematica dei controlli da attivare per il tramite di un organismo indipendente.
La discussione si è, pertanto, sviluppata in Commissione avendo a riferimento entrambi i testi con una disponibilità al confronto che ha permesso già in quella sede di operare significative correzioni al progetto originario. Tale metodo, finalizzato a raccogliere sollecitazioni non solo politiche, è stato ulteriormente confermato dalla effettuazione di audizioni di professori e studiosi del lavoro. Dalle loro analisi, dagli approfondimenti, dai suggerimenti e anche dalle loro critiche è possibile ricavare preziose indicazioni sia per la contingente discussione sia per un più generale dibattito; riteniamo, perciò, particolarmente utile darne pubblicazione riservandoci di seguire l’iter del provvedimento nel prossimo numero, anche per verificare quanto delle osservazioni, delle proposte e delle correzioni abbia trovato positiva accoglienza.
II
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Intervento di Xxxxxxx Xxxxxxxx Ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro e Presidente Corso di Management Pubblico Università di Milano
A. OSSERVAZIONI GENERALI
1. Il ddl Brunetta-Tremonti n. 847/2008 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico) riguarda i temi principali che sono dal 1992-‘93 al centro del processo di riforma della Pubblica Amministrazione: disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 1); contrattazione collettiva nazionale e integrativa (art. 2); valutazione delle strutture e del personale (art. 3); merito e premialità (art. 4); dirigenza pubblica (art. 5); sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici (art. 6).
Il ddl Ichino-Treu-Finocchiaro e altri firmatari, n. 746/2008, copre un punto cruciale di questi temi, ovvero quello della trasparenza e della valutazione delle strutture pubbliche e dei dipendenti. Un punto cruciale perché nella Pubblica Amministrazione la valutazione svolge un ruolo fondamentale, essendo spesso assenti o strutturalmente deboli i meccanismi di mercato che servono a misurare e correggere le performances delle organizzazioni e a segnalare, attraverso l’exit, l’insoddisfazione di clienti/utenti. Un punto, anche, che ha portata ‘trasversale’ perché ha importanti ricadute su molti altri aspetti del funzionamento delle pubbliche amministrazioni, del trattamento del personale e delle relazioni sindacali.
I due ddl hanno in comune un tratto di fondo: entrambi collegano la riforma del lavoro pubblico, ed in particolare delle relazioni sindacali nel settore, con la riforma più generale della Pubblica Amministrazione, della sua organizzazione. Questo era un tratto caratterizzante anche della riforma del 1992-‘93 (Cassese-Amato) e in parte del 1997-‘98 (Bassanini-D’Antona). In particolare, in quel disegno il
potenziamento della contrattazione collettiva, come principale metodo di regolazione del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali, doveva essere preceduto da, o almeno procedere di pari passo con, il rafforzamento e la responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, sia a livello centrale che decentrato (Bordogna, 2007a).
Come insegnano gli studiosi più accreditati in materia (nella maniera più chiara il grande teorico inglese del pluralismo, H. A. Xxxxx), solo in presenza di un genuino contrasto di interessi tra le due parti il metodo negoziale può sviluppare i suoi preziosi effetti benefici (flessibilità, adattabilità, condivisione delle soluzioni adottate, ecc.); in caso contrario, la contrattazione collettiva è una mistificazione, i suoi esiti sono inefficienti ed è quasi inevitabile che si sviluppino comportamenti collusivi tra le parti invece che effetti benefici. Nel nostro caso, comportamenti collusivi a spese di altri livelli dell’amministrazione ed in ultima istanza dei contribuenti. La responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, era ed è quindi una pre- condizione essenziale per una applicazione virtuosa del metodo negoziale di regolazione degli interessi. Nella prassi applicativa, soprattutto dopo il 1997-‘98, questo legame tra riforma del lavoro pubblico e responsabilizzazione dell’amministrazione e del datore di lavoro pubblico non si è realizzato, o si è realizzato in misura insoddisfacente. Per quanto riguarda in specifico le relazioni sindacali, da più parti si è sottolineato come alcune delle maggiori distorsioni registrate negli anni recenti (specie un uso improprio nella contrattazione integrativa di istituti, anche virtuosi, introdotti dalla contrattazione nazionale, che ha portato a forti divaricazioni con il settore privato) siano precisamente riconducibili ad una debolezza del datore di lavoro a livello decentrato (si possono vedere i contributi di Dell’Aringa 2007, Vignocchi 2007 e Bordogna 2007a, indicati in bibliografia).
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Il mancato riconoscimento di questo aspetto, e della specificità del datore di lavoro pubblico rispetto a quello privato, ha portato a sottovalutare i possibili effetti perversi di una importazione ingenua nel settore pubblico - ovvero senza adeguati accorgimenti istituzionali - di tecniche e pratiche che nel settore privato possono operare in maniera virtuosa, come è stato il caso del potenziamento della contrattazione decentrata dopo il 1998-‘99. Accorgimenti istituzionali volti precisamente ad assicurare che l’attribuzione di maggiore autonomia a livello decentrato in materia negoziale sia strettamente correlata alla responsabilità in capo al datore di lavoro decentrato di reperire le risorse che decide di utilizzare nella contrattazione e nella gestione del personale a tale livello (OECD 2007a; Bordogna 2008). È precisamente da questa dissociazione tra autonomia e responsabilità degli attori, in primo luogo del datore di lavoro, che sono derivate molte delle criticità sopra richiamate.
È quindi condivisibile l’intento dei due ddl di intervenire su questo punto, sulle condizioni di contesto che possono assicurare un rafforzamento del ruolo e della responsabilità del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, e per questa via consentire di raccogliere i benefici del metodo negoziale anziché i suoi effetti perversi. Ed opportunamente entrambi i ddl condividono l’impostazione per cui potenziare il datore di lavoro pubblico significa in primo luogo rafforzare la responsabilità dirigenziale, nonché i sistemi di valutazione delle strutture e del personale. In questo quadro anche la riforma dei meccanismi premiali e della contrattazione collettiva può sortire effetti positivi.
2. Per raggiungere questi obiettivi, però, non sembrano opportune, nel ddl n. 847, né la strada di una rilegificazione del rapporto di lavoro e della contrattazione, che potrebbe riportare la situazione non solo a prima della riforma del 1992-‘93, ma anche a prima del 1983, né una normazione
troppo dettagliata ed intrusiva (quasi dirigistica) di materie che è bene lasciare invece all’autonomia e responsabilità delle amministrazioni e dei loro dirigenti. Ciò di cui c’è bisogno è di alcuni criteri generali per rafforzare la responsabilità del datore di lavoro pubblico e dare maggiore credibilità alla contrattazione collettiva, non di
pre-determinare per legge e prescrivere nel dettaglio, una volta per tutte, modelli organizzativi o comportamenti gestionali che debbano essere universalmente adottati - come indicato invece in vari punti del ddl n. 847. La Pubblica Amministrazione è peraltro una realtà ormai molto diversificata al suo interno, nella quale le attività legate alle tradizionali funzioni autoritative dello Stato sono da tempo state affiancate, e largamente superate in termini di occupati, da attività di produzione ed erogazione di servizi che obbediscono ad una diversa logica organizzativa e gestionale. È irrealistico, e sarebbe teoricamente errato, pensare di poter gestire tayloristicamente una realtà tanto eterogenea con un unico modello organizzativo ottimale, prescritto per legge a tutte le amministrazioni indipendentemente dall’attività che svolgono e dal contesto in cui operano. Va invece reso credibile, e non una mera finzione retorica come spesso è stato nella recente prassi applicativa, quanto affermato nell’art. 5, secondo comma, del D.Lgs. n. 165/2001 (che modifica solo leggermente l’art. 4, D.Lgs. n. 29/93), secondo il quale “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”.
Questa strada è peraltro coerente con l’obiettivo della “convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato” indicato nell’art. 1, comma 1, lettera a del ddl n. 847. Nella consapevolezza che, se nel settore privato il datore di lavoro ha naturalmente e direttamente responsabilità delle risorse che autonomamente decide di mettere
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nella contrattazione e nella gestione del personale, questa responsabilizzazione nel settore pubblico non si dà ‘in natura’ ma va attentamente e pazientemente costruita, predisponendo un contesto di vincoli ed incentivi che incoraggino il dirigente ad esercitare effettivamente, e congiuntamente, autonomia e responsabilità.
Indicazioni troppo intrusive e dirigistiche sono invece in contrasto non solo con la norma vigente del D.Lgs. 165, appena richiamata, ma anche con il principio opportunamente esplicitato nell’art. 5, c. 2, lettera a dello stesso ddl n. 847, ove si afferma “la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane”, attraverso il riconoscimento della sua competenza esclusiva in una serie di materie (enfasi aggiunta).
Ciò considerato, segnalo qui sotto alcune osservazioni più specifiche riguardo a tre temi centrali del ddl n. 847 relativi alla dirigenza, alla valutazione e alla contrattazione collettiva.
B. OSSERVAZIONI SPECIFICHE Dirigenza
Nella Pubblica Amministrazione il ruolo di datore di lavoro è normalmente svolto dai dirigenti: la regolazione di questa figura, specie dei dirigenti di più alto livello, è quindi cruciale. Fatte salve le osservazioni sopra sviluppate, mi limito a segnalare in primo luogo due aspetti che non trovano spazio nel ddl
n. 847, che a mio avviso meritano invece considerazione, oltre ad altre osservazioni più particolari.
a. Il primo aspetto, ai fini del rafforzamento della figura del dirigente in materia di gestione del personale e delle relazioni di lavoro, riguarda l’opportunità di mantenere la contrattualizzazione (collettiva) della fascia più alta della dirigenza stessa, quella che principalmente rappresenta e svolge le funzioni del datore di lavoro pubblico, o di valutare se non sia invece
il caso di ricorrere a metodi di regolazione alternativi, pur senza tornare a forme di legificazione. L’esperienza comparata fornisce esempi interessanti in proposito. In Gran Bretagna, ad esempio, nell’Amministrazione centrale dello Stato (Civil service, che occupa attualmente circa 500 mila dipendenti), la fascia più alta del personale, composta da circa 3800 senior civil servants, è regolata attraverso il sistema dei Pay review bodies. Questi sono organismi ristretti e indipendenti, composti da esperti (professori universitari, alti dirigenti privati e pubblici), i quali annualmente raccolgono documentazione, analizzano la situazione economica, sentono (separatamente) le parti ed alla fine stilano un rapporto in cui sono formulate raccomandazioni al Governo, compresi gli incrementi retributivi. Il Governo normalmente accetta queste proposte. Quindi né contrattazione collettiva, da un lato, né, dall’altro lato, legificazione e regolazione unilaterale dei trattamenti dei dirigenti di più alto grado dell’Amministrazione centrale, ma un metodo intermedio che si potrebbe chiamare di “negoziazione a distanza”. Si noti, peraltro, che questo sistema dei Pay review bodies ormai si applica in Gran Bretagna ad una larga fetta (oltre il 30%) dei dipendenti pubblici, tra cui praticamente l’intera sanità pubblica (oltre 1 milione di dipendenti) ed i docenti delle scuole pubbliche. Se non si vuole adottare questo sistema, occorrerebbe forse prevedere procedure ad hoc per la contrattazione collettiva di questa fascia di personale (l’alta dirigenza), e forse anche per la loro rappresentanza sindacale, al fine di evitare evidenti conflitti di interesse ed il rischio di pratiche collusive.
b. In secondo luogo, è opportuno considerare che nella Pubblica Amministrazione italiana, oltre alla debolezza dei criteri meritocratici per l’accesso alla dirigenza, vi è anche un problema di numerosità dei dirigenti in rapporto all’insieme degli occupati. Senza considerare la dirigenza medica e
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veterinaria del Comparto Sanità, e pur tenendo conto di differenze da comparto a comparto, i dirigenti italiani sono molto numerosi rispetto al totale dei dipendenti pubblici, con una marcata proliferazione, dalla fine degli anni Novanta, anche dei dirigenti di più alto grado (dirigenti generali). Questa proliferazione pone un duplice problema. Da un lato un problema organizzativo, perché è evidente che risulta difficile fare funzionare in maniera efficace una struttura in cui troppo diffuse sono le responsabilità dirigenziali; ciò significa, peraltro, che molti dirigenti sono probabilmente tali solo di nome, ma non esercitano le funzioni e le responsabilità che dovrebbero corrispondere alla carica. E, in secondo luogo, un problema di costi, anche perché le retribuzioni dei dirigenti sono, dalla fine degli anni Novanta, cresciute in misura molto maggiore di quelle del restante personale, avvicinandosi alle retribuzioni dirigenziali del settore privato.
È bizzarro, peraltro, che spesso il dibattito politico e la stampa quotidiana si concentrino con grande clamore su un aspetto che è (relativamente) secondario, almeno in termini comparativi, ovvero il numero eccessivo dei dipendenti pubblici italiani, e invece trascuri del tutto una anomalia che è reale e che ha effetti che dovrebbero destare maggiore preoccupazione, rappresentata dalla quota eccessiva di dirigenti. Circa il numero dei dipendenti pubblici, l’analisi comparata mostra che in Italia, in rapporto al totale della popolazione, esso è notevolmente inferiore non solo a quello dei paesi nordici, ma anche di Francia e Gran Bretagna: nel 2004/2005, i pubblici dipendenti italiani (forze dell’ordine e forze armate incluse, in totale poco più di 3,5 milioni di lavoratori) erano il 6,1% sul totale della popolazione, in Francia 8,6%, in UK 9,9%, in Finlandia 12,6%, in
Danimarca 15,6% ed in Norvegia 16,8% (Bordogna 2007b). In Italia vi è semmai un problema di distribuzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni - distribuzione funzionale, settoriale e territoriale; non
un problema di numeri eccessivi. Mentre il problema esiste per quanto riguarda i dirigenti.
Si potrebbe quindi valutare se introdurre un principio o criterio direttivo relativo al contenimento del numero delle posizioni dirigenziali, specie di più alto livello, che potrebbe essere collocato nel comma 2 dell’art.5, prima della lettera a.
c. Ai fini di incoraggiare l’esercizio effettivo della responsabilità dirigenziale, il comma 2, lettera d dell’art. 5 prevede di escludere “la conferma dell’incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento dei risultati”. Questo presuppone tuttavia che all’atto di conferimento dell’incarico siano specificati gli obiettivi da raggiungere. Tale elemento della specificazione degli obiettivi nel procedimento di conferimento dell’incarico dirigenziale non è menzionato nel ddl n. 847 mentre andrebbe esplicitamente inserito ed enfatizzato. Infatti l’esperienza recente per quanto riguarda i Ministeri suggerisce che i problemi di mancata o non accurata valutazione dei dirigenti spesso nascono da carenze su questo versante, con gli effetti a cascata che ne derivano sul funzionamento dell’intera organizzazione (v. Presidenza del Consiglio dei Ministri-Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato, Processi di programmazione strategica e controlli interni nei ministeri: stato e prospettive. Rapporto di legislatura, Roma, marzo 2006, p. 93). Ed è presumibile che queste carenze si registrino anche negli altri comparti pubblici. Naturalmente, in certi casi la specificazione degli obiettivi può essere difficoltosa, a causa della possibile articolazione pluriennale degli stessi o del necessario concorso di più soggetti o più amministrazioni per il loro conseguimento, o anche in ragione della natura stessa dell’incarico. Tali problemi sono conosciuti in letteratura e sono affrontati in altre esperienze nazionali. Non sono dunque insuperabili, ma suggeriscono
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l’opportunità di non eccedere in prescrizioni troppo dettagliate in proposito, pur non rinunciando al principio generale di prevedere la determinazione degli obiettivi al momento del conferimento dell’incarico dirigenziale. Si possono vedere, in tale direzione, i suggerimenti contenuti nella Relazione della Commissione per lo studio e l’elaborazione di linee guida per un sistema di valutazione del personale delle pubbliche amministrazioni (Dipartimento della Funzione Pubblica, luglio 2007).
d. Il comma 2, lettera e prevede di ridefinire e ampliare le competenze del Comitato dei garanti di cui all’art. 22 del
D. Lgs. n. 165/2001. Occorre considerare se non sia preferibile coordinare questa materia con le norme sulla valutazione (art. 3), opportunamente integrate/modificate secondo le indicazioni del ddl 746/2008 (Xxxxxx, Treu).
e. Un esempio di prescrizione troppo intrusiva è offerto dal comma 2, lettera f, sebbene la formulazione non del tutto chiara del testo renda incerta anche la valutazione. Se si vuole indicare un principio di selettività, ovvero evitare l’attribuzione generalizzata a tutti i dirigenti di una struttura della misura massima del trattamento accessorio, si tratta di un orientamento condivisibile, considerata anche la prassi negativa verificatasi negli anni recenti, specie nei Ministeri (documentata dal già citato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico, 2006). Ma è consigliabile evitare quantificazioni precise, tenendo presente che una sorta di ‘selettività obbligatoria’, con specificazione della percentuale massima di personale interessato, è già stata sperimentata in Italia tra il 1994 e 1997 e in altri paesi (UK), e l’evidenza empirica mostra che non ha dato buona prova, o addirittura ha avuto effetti controproducenti in termini di conflitti intra-organizzativi, demotivazione del personale, abbassamento di morale, ecc. (v. ad es., sul caso britannico, Xxxxxxx 1994).
Valutazione delle strutture e del personale
a. Come già osservato, un efficace sistema di valutazione è fondamentale nella Pubblica Amministrazione, mancando o essendo deboli altri meccanismi, come il mercato e la possibilità di exit, che segnalano la performance insufficiente e l’insoddisfazione degli utenti. In generale, su questo tema è auspicabile una integrazione del ddl 847 con il ddl 746/2008 (Xxxxxx, Treu primi firmatari). Occorre tuttavia considerare che la valutazione non è un fine in sé ma uno strumento di gestione delle organizzazioni, funzionale a molte e diverse finalità: per esercitare controlli efficaci, per apprendere e migliorare l’organizzazione, per ‘render conto’ a principali interni ed esterni, per orientare utenti e cittadini nelle loro scelte, per formulare e riformare le politiche pubbliche ed anche certamente per introdurre incentivi a strutture e personale. Allestire sistemi efficaci di valutazione è un processo lungo e complesso e richiede, in primo luogo, di selezionare gli obiettivi principali che si vogliono raggiungere attraverso questo strumento. Occorre, inoltre, essere consapevoli dei possibili effetti inattesi, o anche perversi, che spesso si accompagnano a processi di valutazione della performance e del personale; effetti che sono ben documentati nella letteratura scientifica in argomento, specie nel settore dell’istruzione e della sanità (v. ad esempio, tra i numerosissimi riferimenti possibili, vari saggi in Oxford Review of Economic Policy, Summer 2003; Xxxxxxx 2005). Oltre agli inevitabili oneri burocratici connessi ad ogni processo di performance appraisal, si possono ricordare il rischio di incentivare una concentrazione eccessiva sugli obiettivi di breve periodo, quelli più facilmente soggetti a valutazione, a scapito di quelli di medio e lungo termine; il rischio, strettamente connesso al precedente, di produrre una distorsione delle risorse e dell’attenzione di una struttura e del suo personale per
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soddisfare i targets oggetto di valutazione, eventualmente a scapito di obiettivi più importanti ma non rilevati, e quindi trascurati; fino a incoraggiare veri e propri comportamenti strategici e di gaming, di aggiramento e di inganno delle procedure di valutazione.
L’esperienza internazionale, specie dei paesi anglosassoni, e la letteratura in argomento suggeriscono, quindi, una applicazione non ingenua dei processi di valutazione, grande accuratezza e ponderazione nel disegnare le procedure e gli indicatori relativi e la necessità di monitorarne con continuità l’effettivo funzionamento per correggerne i possibili effetti inattesi o perversi, in un processo di affinamento costante, di prova ed errore.
Inoltre, le medesime esperienze mostrano che i sistemi di valutazione delle strutture e del personale sono più efficaci se inseriti nel, o collegati al, processo di pianificazione strategica e programmazione operativa del Governo. Nel nostro ordinamento questa connessione è prevista dal D.Lgs. n. 286/99 per l’amministrazione centrale. La prassi applicativa è però stata molto lacunosa, come denunciato dal già citato Rapporto di legislatura (marzo 2006) del Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato. Nell’ultima legislatura, sotto la guida del Ministro dell’Economia, con espliciti rinvii all’esperienza inglese delle spending reviews, vi sono stati tentativi di maggiore raccordo tra pianificazione strategica, programmazione operativa e processi di valutazione e controllo, che non ha però coinvolto la valutazione delle strutture e del personale.
Questo aspetto è trascurato nel ddl n.847 e sarebbe opportuno che trovasse spazio come principio generale
nell’art. 3.
b. Considerata la complessità del processo di valutazione, ed anche la diversità delle pubbliche amministrazioni da comparto a comparto (l’amministrazione centrale
non è la scuola o la sanità), è sconsigliabile voler individuare per legge sistemi universali di valutazione o definire criteri troppo intrusivi, non rispettosi delle inevitabili specificità settoriali. Non in tutte le amministrazioni e in tutte le strutture, ad esempio, la customer satisfaction è un importante criterio di valutazione; in alcuni casi può essere perfino controproducente o creare conflitti di interesse. Sembra opportuno, invece, esplicitare (art. 3, comma 2) il principio generale che il processo di valutazione deve interessare in primo luogo le fasce alte dell’organizzazione, dirigenza e quadri. In tal modo si supera anche il dilemma: valutazione delle strutture/valutazione del personale.
Valutare la struttura significa necessariamente valutare anche i dirigenti che ne hanno la responsabilità, e viceversa.
Un altro principio generale, che è forse opportuno indicare nell’art. 3, comma 2, è che la valutazione, in particolare della dirigenza, deve riguardare sia la performance relativa agli obiettivi assegnati, sia i comportamenti organizzativi, ivi compresa la dimensione della valutazione del personale sottoposto (dirigente e non).
c. Ai fini di incentivare la diffusione dei processi di valutazione è condivisibile la previsione di cui all’art. 5, comma 2, lettera i, che proibisce di corrispondere indennità di risultato ai dirigenti la cui amministrazione di appartenenza non abbia introdotto sistemi di valutazione dei risultati. Questa previsione dovrebbe riguardare in primo luogo l’introduzione e l’applicazione di sistemi di valutazione della dirigenza stessa: se i dirigenti non sono adeguatamente valutati, non possono ricevere premi di risultato. Il che presuppone, come sopra osservato, che nel procedimento di attribuzione dell’incarico dirigenziale vengano indicati gli obiettivi da raggiungere. Occorre tuttavia essere consapevoli che, nella recente esperienza italiana, anche dove esistono norme in tal senso, il problema è soprattutto quello di una prassi applicativa che è stata largamente
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insufficiente, con una diffusione irregolare e un utilizzo spesso inappropriato. Come denuncia esplicitamente il già ricordato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico (marzo 2006, p. 93), “le amministrazioni dello Stato continuano a corrispondere alla dirigenza una indennità di risultato in modo normalmente generalizzato. Questo modo di procedere rischia non solo di apparire iniquo e di comportare un incremento ingiustificato della spesa pubblica, ma di vanificare la stessa possibilità di una trasformazione delle amministrazioni secondo i principi della responsabilizzazione, della programmazione e della gestione per obiettivi. Infatti quando i dirigenti, in assenza di una valutazione rigorosa, ottengono una remunerazione di risultato, viene a cadere qualsiasi stimolo a migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi”. Bene quindi la previsione della norma in oggetto, ma il problema sarà soprattutto di sorvegliarne la prassi applicativa.
La previsione all’art. 5, comma 2, lettera i, potrebbe poi riguardare anche l’introduzione di sistemi di valutazione del personale di cui i dirigenti stessi hanno responsabilità, in modo da incoraggiarli ad adottare orientamenti coerenti in tale direzione. Dunque, condizionare l’erogazione dell’indennità di risultato dei dirigenti sia all’attivazione da parte delle amministrazioni di appartenenza di procedure che riguardano la valutazione dei risultati dei dirigenti stessi, sia alla introduzione da parte dei dirigenti di procedure di valutazione del personale di cui hanno responsabilità. Quest’ultimo aspetto richiede tuttavia una qualificazione, qui sotto specificata (punto d).
d. La previsione di cui all’art. 3, comma 2, lettera c, punto 1 del ddl n.847, che stabilisce il principio dell’estensione della valutazione a tutto il personale dipendente, sembra infatti un altro esempio di prescrizione troppo intrusiva, incoerente con il principio di cui all’art. 5, comma 2, lettera a, volto a rafforzare la “piena autonomia e
responsabilità” dei dirigenti nella gestione delle risorse umane. Occorre infatti considerare se non sia opportuno lasciare all’autonoma discrezionalità del responsabile della struttura la decisione circa l’ambito di applicazione dei processi di valutazione del personale, la loro estensione a tutto o a parte del personale (con eventuali limiti verso i livelli inferiori dell’inquadramento professionale), così come il loro grado di formalizzazione, onde evitare che i costi dell’operazione superino i vantaggi. Questa è una tipica decisione che dovrebbe rientrare nella sfera della “piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di datore di lavoro pubblico” e nella sua “competenza esclusiva”, come recita il citato comma 2, lettera a. Poi, naturalmente, occorre che il dirigente stesso sia valutato anche in merito a questa decisione.
Ciò che si vuole sottolineare è che l’aspetto cruciale è di introdurre processi effettivi di valutazione della fascia alta della struttura, dirigenti e quadri, non di prescrivere l’obbligo per legge di estendere la valutazione a tutto il personale dipendente. Esiste forse qualcosa del genere nel settore privato? Non solo. Come già sopra osservato, norme relative ai processi di valutazione esistono già nell’ordinamento: il problema non è moltiplicare gli obblighi, ma di evitare che questi vengano aggirati nella prassi applicativa, il che è più facilmente realizzabile se gli obblighi ed i controlli relativi sono concentrati sulla fascia alta del personale.
e. La previsione di cui all’art. 3, comma 2, lettera c, punto 2 è cruciale, perché da inadeguata professionalità ed esperienza dei componenti degli organismi di valutazione sono derivate molte difficoltà applicative di norme sul processo di valutazione, già previste nell’ordinamento. Comunque li si voglia trasformare, la competenza professionale specifica e l’esperienza dei componenti di tutti gli organismi di valutazione e controllo - dal Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello
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Stato, ai Servizi di controllo interno (Secin), ai Nuclei di valutazione, ai vari organismi di valutazione settoriale - sono di cruciale importanza.
f. Le lettere d ed e del comma 2 dell’art. 3 del ddl n. 847 riguardano un aspetto che può avere grande rilievo nell’effettiva attivazione di processi di valutazione delle strutture e del personale. Un aspetto che è consigliabile considerare sia alla luce dell’esperienza italiana recente sia in un quadro comparativo. Se infatti è condivisibile, in linea generale, che la valutazione del personale debba restare interna all’amministrazione, da parte del livello superiore, come previsto per le amministrazioni centrali dal D.Lgs. n. 286/99, si deve tuttavia prendere atto che la prassi applicativa nelle stesse amministrazioni centrali italiane è stata largamente insufficiente, secondo quanto esplicitamente denunciato nel già ricordato Rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico (marzo 2006). La previsione all’art. 3, comma 2, lettera d del ddl n. 847, di un “organismo centrale” interno al Dipartimento della Funzione Pubblica e relativo alle sole amministrazioni centrali rischia quindi di ripetere un’esperienza già conosciuta che non ha dato buoni frutti - oltre a non coprire le altre amministrazioni, che costituiscono la parte più rilevante della Pubblica Amministrazione. Non è chiaro quale apporto migliorativo la soluzione prospettata possa dare rispetto all’esperienza passata.
Si pone invece il problema di favorire la diffusione ed il rafforzamento del processo di valutazione, anche al di fuori delle amministrazioni centrali, in quelle realtà che spesso sono a stretto contatto con i cittadini e gli utenti finali dei servizi della Pubblica Amministrazione. Può essere utile a tale fine la creazione, almeno per un certo periodo, di un organismo terzo e indipendente, la cui missione non è di sostituirsi né agli organismi di controllo e valutazione interni alle singole amministrazioni, né ai processi di valutazione settoriali delle strutture (nella scuola, nella sanità), ma di
svolgere funzioni di stimolo all’introduzione di processi di valutazione nelle amministrazioni in cui sono già previsti dalla normativa ma non applicati. Funzioni quindi di stimolo, di validazione dei sistemi introdotti, di coordinamento, di monitoraggio (ad esempio che siano soddisfatti i criteri di accessibilità, trasparenza e pubblicità dei dati relativi alla valutazione delle Pubbliche Amministrazioni), ed altre analoghe funzioni al servizio dei processi di valutazione - non già funzioni di esercizio diretto della valutazione delle oltre 10 mila strutture in cui si articola la Pubblica Amministrazione italiana e dei 3,5 milioni di dipendenti pubblici.
Questo organismo potrebbe anche avere la funzione di monitorare che negli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, in primo luogo di quelli di grado più elevato, vengano specificati gli obiettivi da raggiungere, sui quali è poi possibile innestare a cascata l’intero processo di valutazione della catena dirigenziale e dell’organizzazione. E di monitorare altresì che la valutazione della performance sia parte integrante dei procedimenti di conferimento, revoca o non riconferma dell’incarico dirigenziale.
Anche su questo aspetto, relativo alla compresenza di processi di valutazione e controllo da parte di organismi interni e organismi o autorità indipendenti, l’esperienza britannica può fornire utili suggerimenti (riflessioni in proposito si possono trovare nella Relazione della Commissione per lo studio e l’elaborazione di linee guida per un sistema di valutazione del personale delle pubbliche amministrazioni, Roma, Dipartimento della Funzione Pubblica, luglio 2007).
Un altro aspetto molto importante relativo ai processi di valutazione delle strutture è quello della comparabilità dei dati sui servizi resi dalla Pubblica Amministrazione. È infatti la comparabilità che può svolgere la duplice funzione sia di aiutare cittadini e utenti nell’esercizio della scelta, ove questa sia disponibile (ad esempio di una scuola o di un ospedale), sia le pubbliche autorità nelle decisioni di
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allocazione delle risorse. Istruttiva in tale direzione può essere ancora l’esperienza britannica, dove gli organismi indipendenti di valutazione settoriali (Office for Standards in Education-OFFSTED; Healthcare Commission) stilano annualmente una graduatoria delle scuole e degli ospedali, rispettivamente attraverso lo strumento delle school league tables da un lato e dall’altro dello star rating system per gli ospedali, parzialmente modificato nel 2007. Tali graduatorie tengono conto di un insieme complesso di dimensioni e di variabili, ma sono alla fine sintetizzate in un unico indicatore di semplicissima lettura (una scala ordinale; il numero di stelle per gli ospedali, fino ad un massimo di 3) e di altrettanto facile comparabilità, sono ampiamente pubblicizzate e commentate sulla stampa nazionale e locale e servono sia per orientare le scelte di famiglie e pazienti sia, nel caso degli ospedali, per l’attribuzione di risorse e autonomia aggiuntive alle strutture che si collocano al vertice della graduatoria.
Questi criteri di semplicità e soprattutto di comparabilità dei risultati della valutazione (per settore omogeneo di servizi) potrebbero quindi essere utilmente aggiunti a quelli già indicati nell’art. 3, comma 2, lettera e del ddl n. 847, di accessibilità, pubblicità e trasparenza.
Contrattazione collettiva e integrativa
Molti studi hanno sottolineato varie criticità dell’esperienza contrattuale a partire dalla fine degli anni Novanta, in verità riguardanti maggiormente la contrattazione integrativa che quella nazionale.
Nella contrattazione nazionale si individuano in genere due aspetti problematici, tra loro strettamente collegati. In primo luogo un forte ritorno di ingerenza della politica, con l’emergere prepotente di una trattativa impropria, quella sull’entità delle risorse, spostata al di fuori dei circuiti negoziali previsti dalla normativa del 1992-‘93, su tavoli impropri e con attori impropri. Trattativa impropria, ma
quella che veramente ‘conta’, spesso anche sbandierata con grandi effetti mediatici. Nel settore pubblico è ovviamente inevitabile che le risorse per la contrattazione nazionale siano determinate dalla responsabilità politica. Tuttavia, il ritorno sulla scena di molteplici ministri, formalmente estranei al circuito negoziale istituzionale previsto dalla legge, in rappresentanza di partiti politici o addirittura di correnti interne ai diversi partiti, rischia di ricreare una situazione anomica e ‘balcanizzata’, molto simile a quella vigente negli anni Ottanta sotto il regime della legge quadro del 1983, con una sostanziale delegittimazione del ruolo dell’ARAN. Se così deve essere, il che non è affatto auspicabile, allora sarebbe preferibile che la trattativa per i contratti nazionali si spostasse per intero nelle mani del Ministro dell’Economia, come avviene in altri paesi europei - pur tenendo conto delle prerogative delle autonomie locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. A questa rinnovata ingerenza della politica e dei partiti si collega anche il secondo aspetto critico della contrattazione nazionale, ovvero i sistematici e, spesso, enormemente dilatati ritardi nei rinnovi contrattuali, non di rado firmati a periodo di riferimento già scaduto ed in prossimità di importanti scadenze elettorali.
Entrambi questi aspetti critici, in particolare il primo, non sono adeguatamente considerati nel ddl 847 e meriterebbero invece maggiore attenzione, specie se si vuole rafforzare l’autorevolezza dell’ARAN, come il ddl n. 847 propone. Circa, in specifico, i ritardi nei rinnovi dei contratti, non sembra una soluzione di per sé sufficiente la riduzione della durata dei contratti stessi o l’eliminazione della differenza di durata tra regolamentazione giuridica ed economica.
Viceversa, il ddl n. 847 sembra inutilmente intrusivo e dirigistico su aspetti che andrebbero invece lasciati all’autonomia negoziale delle parti, senza irrigidimenti da parte della legge. Non si vede, ad esempio, per quale ragione si debba prescrivere per legge la “riduzione del numero dei comparti e
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delle aree di contrattazione”, o la modificazione della durata dei contratti e la coincidenza del “periodo di regolamentazione giuridica con quello di regolamentazione economica” (art. 3, comma 2, lettera i, punto 4 e punto 5). Sembra più opportuno conservare la flessibilità della regolazione esistente, confermando da un lato l’indicazione generale di coerenza con il settore privato, come quella attualmente prevista dall’art. 40, comma 3, del D. Lgs.
n. 165/2001, ma, dall’altro, lasciando agli attori stessi le determinazioni in merito a durata dei contratti e struttura contrattuale, fatti salvi alcuni principi generali già in vigore (struttura bipolare, area separata per i dirigenti). Se, nelle circostanze presenti, si ritiene che vi sia stata una proliferazione eccessiva di comparti e aree contrattuali, il Governo può ben fare valere i propri orientamenti a normativa vigente, utilizzando il proprio ruolo nell’organismo di coordinamento dei Comitati di settore, i cui indirizzi influiscono sugli accordi quadro sui comparti contrattuali. Ma, in circostanze differenti, le parti potrebbero convenire circa l’opportunità di una maggiore articolazione di comparti e aree contrattuali, ed è bene che abbiano la flessibilità regolativa per poterlo fare, se così concordano, senza irrigidimenti di legge. Analogo discorso vale per la durata dei contratti collettivi.
Le distorsioni maggiori, secondo molti osservatori, si sono però registrate nella contrattazione integrativa, sia pure con differenze non irrilevanti e non casuali da comparto a comparto. Opportuni possono quindi essere alcuni interventi che rafforzano i controlli e i vincoli su questa contrattazione (ddl n. 847, art. 2, comma 2, lettere f, g,e i punto 6, e indirettamente anche lettera l), anche se per ora indicati in maniera troppo generica per poterli valutare con precisione.
Tuttavia, in generale, è sconsigliabile l’impostazione che sembra connotare tutto l’art. 2, secondo la quale le distorsioni e gli eccessi registratisi nella contrattazione collettiva negli anni passati, specie a livello decentrato,
sarebbero principalmente rimediabili attraverso un processo di rilegificazione e di ridefinizione dei confini tra legge e contratto, a favore della prima. Questa soluzione, che sembra riportare alla (infausta) legge quadro del 1983 o a situazioni precedenti, presenta due difetti principali:
- in primo luogo irrigidisce ed uniforma la regolazione di materie che, per una efficace gestione delle amministrazioni, dovrebbe restare flessibile e differenziata, come, ad esempio, le materie, già sopra segnalate, di cui all’art. 3, comma 2, lettera i, punto 4 e punto 5, o in parte anche quelle al comma 2, lettera b, punti 2 e 3 (sulle quali ultime l’eventuale regolazione per legge dovrebbe essere molto leggera e consentire flessibilità applicativa);
- in secondo luogo non rafforza la responsabilizzazione del datore di lavoro pubblico, specie a livello decentrato, che è invece il vero problema che ha dato origine a molti dei problemi manifestatisi negli anni recenti. Se buona parte delle distorsioni e degli eccessi dell’esperienza contrattuale recente si devono alla dissociazione tra autonomia e responsabilità degli attori, specie del datore di lavoro pubblico decentrato, la soluzione dovrebbe essere non quella di ridurre l’autonomia, che è un elemento cruciale per una gestione efficace delle amministrazioni, ma di rafforzare la responsabilità del datore di lavoro e dei suoi rappresentanti. Tra gli eccessi del contrattualismo e della cogestione, da un lato, e la regolazione per legge, dall’altro, vi è la strada maestra del rafforzamento dei poteri e delle responsabilità gestionali del datore di lavoro, specie a livello decentrato, come recita l’art. 5, D.Lgs. n. 165/2001. Una strada questa che è peraltro coerente con l’obiettivo della “convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato” indicato nel ddl n. 847 nell’art. 1, comma 1, lettera a, nonché con i principi di piena autonomia, responsabilità e competenza esclusiva del dirigente nella gestione delle
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risorse umane, come recita l’art. 5, comma 2, lettera a.
Alcune misure comprese nell’art. 2 del ddl n. 847 (potenziamento dei controlli sui costi e maggiore cogenza dei vincoli di bilancio nella contrattazione integrativa, riforma dell’ARAN nella contrattazione nazionale) vanno in tale direzione, così come le misure di potenziamento del ruolo dei dirigenti, nonché altre misure, esterne al ddl n.
847, volte a rafforzare la responsabilità finanziaria e di bilancio delle amministrazioni decentrate (federalismo fiscale). La rilegificazione va invece nella direzione della riduzione dell’autonomia, in contrasto non solo con l’art 5, D.Lgs. n. 165/2001, ma anche con gli importanti principi del più volte citato art. 5, comma 2, lettera a del ddl n. 847. Le distorsioni della contrattazione collettiva degli anni recenti vanno risolte non riducendo l’autonomia dei datori di lavoro pubblici decentrati, ma rafforzandone la responsabilità.
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Intervento di Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx e Coordinatore del Corso di Laurea in Scienze dell’Organizzazione
- Università di Milano Bicocca; Presidente Fondazione Irso
Performance del personale pubblico: il contributo di sistemi di valutazione dei dirigenti e dei piani di cambiamento organizzativo
Mi concentrerò su alcuni aspetti specifici diversi da quelli che gli altri illustri colleghi tratteranno con specifica competenza.
Gli obiettivi delle leggi corrispondono a forti attese dei cittadini, del sistema produttivo e da tempo sono indicati, in queste o altre forme, anche da studiosi di tutte le discipline e di tutti gli orientamenti scientifici e ideali come linee direttrici per azioni legislative e di governo. Un’amministrazione che offra migliori servizi, che sia più equa, che costi meno, che disponga di personale qualificato e responsabile è stato l’obiettivo di fondo di tutti i programmi di cambiamento delle Pubbliche Amministrazioni nei paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Danimarca.
La modifica dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche
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Amministrazioni che potenzi la responsabilità e la valorizzazione del merito va considerata un elemento essenziale per il ridisegno, il miglioramento della produttività e il monitoraggio dei servizi, l’aumento della produttività e il controllo dei costi. Le leggi proposte tendono opportunamente a contribuire a rimuovere vincoli e ad orientare i comportamenti in questa direzione.
Occorre notare però che risultati significativi si otterranno solo se le Amministrazioni che si avvieranno effettivamente a sviluppare programmi di miglioramento dei servizi a) ripenseranno la concezione dei servizi;
b) identificheranno e ascolteranno i bisogni degli utenti finali; c) re- ingegnerizzeranno i processi di servizio e progetteranno congiuntamente tecnologia, organizzazione e persone, per migliorare la produttività; d) attiveranno processi di professionalizzazione, impegno e partecipazione da parte degli addetti. Questo creerà le basi sia per fissare e conseguire obiettivi, impegni, operosità, sia per ottenere migliori comportamenti, sia infine per l’esercizio efficace di nuovi e migliori sistemi di valutazione, incentivazione, controllo. I disegni di legge in esame in particolare possono generare effetti positivi su due piani distinti, fra loro legati, ma non riconducibili l’uno nell’altro:
A) la valutazione: lo sviluppo di sistemi di monitoraggio dei servizi, il controllo della produttività e dell’efficienza, la valutazione del funzionamento delle singole organizzazioni e dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, lo sviluppo di meccanismi sanzionatori per azioni negative e premiali per quelle positive da parte dei dirigenti e del personale pubblico;
B) la progettazione organizzativa: la progettazione e il monitoraggio di servizi, processi, strutture, tecnologie, ruoli, sistemi di gestione che producano “amministrazioni che funzionino meglio e costino meno”.
A. Valutazione
Sulla valutazione, opportuno è affermare la piena autonomia e
responsabilità del dirigente come datore di lavoro pubblico rafforzando il potere di xxxxxxxxx, di sanzione e di premio sui propri collaboratori.
Opportuna è quindi la proposta di riforma dell’ARAN in direzione del rafforzamento della sua indipendenza dalle Organizzazioni sindacali. Come indicato anche dalla Commissione sulla Valutazione istituita l’anno scorso presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, ed a cui ho avuto l’opportunità di partecipare, si attrae l’attenzione sui seguenti punti:
1. è cruciale soprattutto la valutazione dei dirigenti, perché essa fa specifico riferimento alla performance dell’unità organizzativa di cui il dirigente è responsabile. Questa performance coincide molto spesso con quella della “quantità e qualità dei servizi”, il cui miglioramento è al centro delle preoccupazioni in materia di efficienza del lavoro del Pubblico Impiego. La maggiore responsabilità richiesta ha per oggetto la qualità dell’organizzazione, delle tecnologie e soprattutto l’impegno, qualità professionale e partecipazione dei dipendenti pubblici a tutti i livelli. Questa responsabilità sostanziale è, più ancora delle norme, ciò che può conferire responsabilità ed autorità al dirigente per intervenire sui comportamenti dei dipendenti, utilizzando le leve attuali e quelle maggiori previste dal disegno di legge in esame. In una parola, si suggerisce di rafforzare obiettivi e strumenti previsti nel disegno di legge per intervenire in primo luogo su quella leva chiave che è il management pubblico. Ciò è ancora più efficace ed economico di azione generalizzate sui comportamenti della generalità di dirigenti pubblici, appartenenti ad amministrazioni e operanti in situazioni diversissime;
2. occorre attivare un processo formale di valutazione di ogni Capo dipartimento, ogni Segretario generale, ogni Dirigente generale al momento dell’assunzione dell’incarico, che parta dalla attribuzione dell’incarico affidato. Esso dovrebbe essere basato rigorosamente sulla assegnazione degli
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obiettivi - strategici e operativi - da conseguire, sulla loro misurazione e sulla analisi dei comportamenti organizzativi, ivi compresa, ovviamente, la dimensione della valutazione dei dirigenti e del restante personale su cui essi hanno la responsabilità. Tale valutazione andrebbe poi ripetuta con periodicità annuale e dovrebbe concludersi con un giudizio finale. Tale valutazione dovrebbe generare un documento e un giudizio sintetico che, in un processo dialogico col dirigente interessato, dia indicazioni sui necessari miglioramenti e che sia esplicitamente riferito alla responsabilità politica del Ministro. Questo punto potrebbe essere rafforzato nella formulazione del Disegno di legge;
3. può essere opportuno anche prevedere una supervisione esterna sull’esercizio del potere di nomina alle posizioni apicali (quelle, cioè, la cui responsabilità ricade sugli organi politici). Tale controllo, orientato ad assicurare il massimo di professionalità di tali figure, può svolgersi attraverso meccanismi politici, come l’advice and consent da parte delle commissioni parlamentari; oppure attraverso meccanismi professionali espressi da una authority indipendente (come la Civil Service Commission inglese), oppure attraverso un misto di questi due sistemi;
4. per quanto riguarda l’incentivazione dei risultati ottenuti, si potrebbe introdurre la previsione di aumenti retributivi non legati alla posizione organizzativa ma a un bonus legato “effettivamente” ai risultati conseguiti da parte di un dirigente, che poi potrebbe dare origine ad un aumento stabile e permanente, che crei differenziali salariali che registrino la serie di successi del dirigente;
5. è opportuno sviluppare una funzione di supporto professionale di alto livello tecnico nella funzione di valutazione della dirigenza svolta da ogni singola Amministrazione, una sorta di “ufficio tecnico della valutazione”, inserito o meno nei Dipartimenti del personale;
6. appare opportuno che il Disegno di legge impegni i membri del Governo a provvedere alla valutazione dei propri dirigenti apicali e attribuisca al Dipartimento per la Funzione Pubblica, quale struttura centrale con competenza in materia di politica delle risorse umane, lo svolgimento della funzione di supporto di cui al punto precedente. Tale funzione dovrebbe esprimersi non in termini ispettivi, ma attraverso la predisposizione di momenti di confronto tra le pratiche in uso all’interno e all’esterno dell’amministrazione dello Stato, attraverso interventi formativi, attraverso la predisposizione di linee guida e schemi di manuali operativi, attraverso la tenuta di un elenco di soggetti in possesso delle necessarie professionalità e competenze;
7. in aggiunta a quanto enunciato nel punto precedente, la Commissione costituita a suo tempo presso il DFP suggerì creare una Agenzia per la Valutazione composta da figure di alta professionalità e prestigio impegnate per una parte maggioritaria del proprio tempo e distaccate per un periodo limitato da altre Amministrazioni o Università o Enti professionali. Essa, scientificamente indipendente e autorevole, avrebbe dovuto prioritariamente attivare un processo per pervenire in tempi brevi a un nuovo frame (un sistema di riferimento) per la valutazione sia della qualità dei servizi che dei comportamenti dei dirigenti e dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni. Tale sistema dovrebbe possedere, fra gli altri, i seguenti requisiti generali: contribuire a definire standard che migliorino la qualità dei servizi ai cittadini, alla comunità e alle altre Istituzioni; controllarne il raggiungimento effettivo; definire obiettivi di efficienza e di efficacia chiari e raggiungibili e controllarne l’effettivo raggiungimento; supportare e monitorare azioni di innovazione, miglioramento, riorganizzazione, buone prassi, attivare progetti e energie di cambiamento; dare sistematica voce agli utenti dei servizi;
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assicurarsi che vengano fatti seguire effetti personali a tale valutazione (mobilità verticale, incentivi e premi, rimozione). In una parola, una struttura scientifico-professionale molto autorevole. Tale eventuale nuova Agenzia non dovrebbe sostituire, ma supportare i processi di valutazione svolti dai singoli enti, rafforzarli e aiutarli a divenire più efficaci. Essa dovrebbe svolgere soprattutto un ruolo culturale autorevole di promozione ed attivazione del nuovo frame di riferimento sopra descritto anche verso l’esterno (i media, il mondo politico, la scuola, le relazioni sindacali, la comunità accademica, le imprese di servizio che servono le Pubbliche Amministrazioni, ecc.): un organo cha assomigli allo JUSE giapponese, una struttura professionale di grande prestigio che fece decollare e supportò fin dagli anni ‘60 lo sviluppo dei sistemi di Qualità in Giappone, lasciando la responsabilità della realizzazione alle singole aziende e amministrazioni. In una parola, una nuova cultura e una nuova strumentazione tecnica della valutazione delle Pubbliche Amministrazioni, dei loro dirigenti e dei loro dipendenti, sottratta alle visioni contingenti della politica e della gestione e ai tecnicismi delle società di consulenza. Questa proposta, se accolta, richiederebbe un emendamento all’art. 5 del ddl 847, rafforzando le funzioni e le attività di tale organismo, anche se venisse confermata la sua costituzione entro il Dipartimento della Funzione Pubblica.
B. Progettazione
La progettazione di sistemi efficienti e innovativi di organizzazione, tecnologie e persone non può essere fatta per la Pubblica Amministrazione in generale, ma per le Pubbliche Amministrazioni, che hanno storie, livelli di efficienza, vincoli e soprattutto risorse manageriali molto differenziati.
È attualmente stato predisposto, per il Dipartimento della Funzione Pubblica, uno studio volto a concepire e realizzare un programma nazionale di promozione, animazione, supporto e diffusione di progetti esemplari di
riorganizzazione di singoli “pezzi” delle amministrazioni dello Stato, ossia piani di cambiamento precisi che ottengano simultaneamente, in tempi brevi, miglioramenti non incrementali di efficienza (riduzione dei costi e aumento della produttività), di efficacia (miglioramento del servizio), di qualità (soddisfazione dei clienti), di valorizzazione professionale del lavoro pubblico, di relazione positiva con il contesto economico e sociale del paese. Questo tipo di programmi (con una varietà enorme di soluzioni) sono stati realizzati nel passato in diversi paesi: USA (Reinventig Government); Gran Bretagna (Next Step), Francia, Danimarca, ecc.
Tale Programma Nazionale di Cambiamento delle Amministrazioni dello Stato, denominato Acropolis, qualora accolto e realizzato, potrebbe attivare un insieme di progetti e piani di azioni delle Pubbliche Amministrazioni che vogliano riorientarsi al potenziamento dei sistemi di regolazione, alla qualificazione dei servizi, alla gestione per processi, al monitoraggio della qualità del servizio e della soddisfazione dei cittadini, alla qualità della vita di lavoro professionale attraverso una modifica della struttura e del modo di operare.
Tale programma prevede anche la possibilità di trasformazione in Agenzie con buoni margini di autonomia gestionale di quelle Amministrazioni che si candidano ad ottenere i più marcati risultati di produttività, qualità del servizio, qualificazione e responsabilizzazione del personale e li ottengono.
Tale programma, nella proposta avanzata dalla Fondazione Irso e dal Politecnico di Milano che hanno condotto lo studio, dovrebbe essere coordinato da un organismo di forte autorità e condivisione dell’intero Consiglio dei Ministri ed affidato alla responsabilità del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione.
Tale Programma potrebbe fortemente avvalersi di quelle modifiche positive inserite nei Decreti legge in esame e potrebbe assicurare alle nuove norme
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una forte efficacia, non solo nelle singole Amministrazioni ma in generale per l’effetto benefico di benchmark e “contagio” positivo.
Per questi motivi, qualora questa proposta dovesse essere accolta, occorrerebbe inserire un articolo che consenta un futuro raccordo con i contenuti del presente Decreto legge, e in particolare una sinergia fra l’Agenzia della Valutazione e la Struttura di governo del programma Acropolis.
Intervento di Xxxxxxxxxx D’Xxxxxxx Xxxxxxxxx di Diritto amministrativo Università Roma Tre
I due disegni di legge che costituiscono l’oggetto di questa audizione (n. 746 e n. 847) sono accomunati da un insieme di obiettivi che, per come sono formulati nei testi normativi e nelle relazioni, non possono non essere condivisi, nel momento in cui esprimono la volontà di elevare il tasso di efficienza delle Pubbliche Amministrazioni e di efficacia della loro azione, così da porle in grado di migliorare in termini quantitativi e qualitativi le prestazioni rese ai cittadini: ciò, attraverso interventi intesi ad accrescere la produttività del lavoro pubblico, garantendo al tempo stesso adeguati livelli di pubblicità e trasparenza. In tal senso, viene opportunamente posto l’accento sulla valorizzazione del merito, sulla responsabilizzazione dei dirigenti e dei dipendenti e sul rafforzamento e la riqualificazione dei sistemi e gli strumenti (organizzativi e procedimentali) di verifica della produttività e dei risultati conseguiti dalle amministrazioni. Si tratta, del resto, di criteri e finalità che non solo corrispondono a quanto è andato progressivamente maturando ed affermandosi nell’ambito della riflessione culturale sui problemi dell’innovazione del sistema amministrativo, ma soprattutto si collocano in una linea di sostanziale continuità con le linee della riforma dell’organizzazione e del lavoro negli uffici pubblici sviluppatasi a partire
dallo scorso decennio e trovano un significativo riscontro anche in atti di indirizzo che hanno caratterizzato la fase politica appena conclusa: basti pensare ai contenuti dell’Intesa sul lavoro pubblico e sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (il c.d. Memorandum) stipulato il 6 aprile 2007 dal Governo Prodi e dalle rappresentanze delle autonomie regionali e locali con le principali organizzazioni sindacali, nel quale si fa riferimento all’esigenza di creare condizioni di misurabilità, verificabilità e incentivazione della qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche, valorizzando in tal modo le professionalità dei lavoratori pubblici, e fornendo alla dirigenza la motivazione e l’incentivo per perseguire in modo trasparente e giudicabile la missione ad essa assegnata.
Se, quindi, è fuori discussione la positività del dato teleologico che motiva e qualifica i provvedimenti in esame, meritano, invece, un giudizio più articolato - sotto il profilo della coerenza e della correttezza tecnico- giuridica, prima ancora che dal punto di vista dell’opportunità e dell’efficacia delle soluzioni prospettate - le indicazioni di merito e le scelte normative da essi adottate in ordine ai diversi temi affrontati.
Qui si svolgeranno alcune riflessioni che riguardano prevalentemente il ddl di iniziativa governativa n. 847 (Brunetta): ciò in ragione del fatto che le osservazioni che si intendono proporre, come si dirà, sono riferite principalmente ad aspetti che sono affrontati in tale testo, e solo indirettamente o marginalmente nel ddl di iniziativa parlamentare n. 746 (Xxxxxx e altri).
Per avviare un ragionamento sul ddl n. 847, intitolato all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, occorre tenere conto in xxx xxxxxxxxxxx xx xxxxxx due elementi che, a diverso titolo, costituiscono fattori di complicazione dell’approccio all’analisi dell’articolato in questione.
Va, innanzitutto, considerato che si tratta di una proposta di legge delega: una opzione, questa, in sé
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comprensibile, se non inevitabile, posto che tutti i principali interventi (o tentativi) di riforma amministrativa negli ultimi decenni sono stati realizzati attraverso, appunto, lo strumento delle delega legislativa; ma che - oltre a porre, ovviamente, il problema dell’individuazione di un giusto equilibrio nella formulazione dei principi e dei criteri direttivi, che eviti i difetti contrapposti della genericità e dell’eccessivo dettaglio - non rende sempre agevole al lettore e all’interprete comprendere il reale significato delle disposizioni, individuare le intenzioni dei proponenti e prevederne le conseguenze in termini di definizione delle norme attuative e dei loro effetti concreti.
In secondo luogo, si deve tenere conto del fatto che il ddl n. 847 - pur guardando soltanto alle vicende di questo esordio di legislatura - va letto alla luce di (e raccordato con) altri provvedimenti già approvati negli scorsi mesi, come il D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 133/2008, il quale, come è noto, contiene diverse previsioni concernenti la disciplina del lavoro pubblico e della contrattazione, oppure attualmente in itinere, come gli XX.XX. n. 1441 bis e n. 1141 quater, che comprendono varie disposizioni in tema di reclutamento, mobilità, aspettative dei dipendenti pubblici, nonché di riordino degli istituti di formazione.
Partendo da queste premesse, ritengo opportuno centrare il mio intervento (limitandomi, per il resto, soltanto ad alcune rapide e sommarie notazioni sugli altri aspetti del testo) fondamentalmente su due ordini di argomenti, uno di carattere generale, l’altro più specifico, ma strettamente collegato, se non consequenziale rispetto al primo: a) il sistema delle fonti di regolazione del personale pubblico (ma anche dell’organizzazione amministrativa) che scaturirebbe dall’approvazione del disegno di legge;
b) il riassetto delle norme sulla dirigenza.
Nell’affrontare il primo profilo, si deve immediatamente sollevare un’ulteriore questione di carattere preliminare: come si rapportano il ddl n. 847 e i
conseguenti decreti legislativi con il D.Lgs. n. 165/2001? Nella relazione si parla di interventi volti a modificare la disciplina di detto decreto legislativo e si fa riferimento ad una specifica delega volta a coordinare le disposizioni della legge delega e dei decreti di attuazione con le disposizioni contenenti le “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”. Ma nell’articolato si dice che verranno emanati decreti volti a riformare, anche mediante modifiche al D.Lgs. n. 165/2001, la disciplina del lavoro pubblico (art. 1, comma 1), e non c’è traccia della delega sul coordinamento fra le due normative. Il problema è rilevante, perché è evidente che se la riforma, come appare opportuno ed auspicabile, si innesterà sul decreto del 2001 - correggendolo ed integrandolo, ma non giustapponendo ad esso altri, distinti atti normativi - da un lato non potrà non recepirne la logica e l’impianto privatistico/contrattuale; dall’altro, in tal caso l’intervento del legislatore delegato dovrà preoccuparsi di dare coerenza complessiva al testo del D.Lgs.
n. 165/2001 quale risultante dalle modifiche, per evitare che insorgano al suo interno contraddizioni, incongruenze e salti logici (come è avvenuto per alcune novelle introdotte negli scorsi anni, che anche a causa del mancato coordinamento fra le previsioni modificative ed il restante testo del decreto hanno dato luogo a querelles interpretative e difficoltà applicative). Forse, si potrebbe e dovrebbe cogliere l’occasione per riproporre l’idea della predisposizone di un testo unico o di un codice del lavoro nel settore pubblico (ipotesi già avanzata più volte, senza successo, nel recente passato).
Ma, al di là di questo, il tema dell’assetto delle fonti regolatrici della materia solleva una serie piuttosto ampia e complessa di problemi di merito, che per vari aspetti revocano in dubbio la chiarezza e la coerenza del dettato del ddl n. 847: cerchiamo di passarli rapidamente in rassegna.
Il primo principio di delega (art. 1, comma 1, lett. a) pone alla riforma
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l’obiettivo della convergenza del mercato del lavoro pubblico con quello del lavoro privato. Cosa significa questa formula? Visto che si tratta di un criterio finalizzato alla definizione di regole legislative, è da intendersi come la prefigurazione di un processo di revisione del quadro normativo che favorisca la “omogeneizzazione”, nei limiti del possibile, delle due discipline (anche se probabilmente si vuole soprattutto porre l’accento sull’esigenza che il lavoro pubblico si ispiri sempre più alle regole del mercato). Ora, non si può non ricordare un dato elementare ed essenziale: il lavoro privato è retto da un regime compiutamente di diritto privato e, fondamentalmente, da fonti contrattuali. Se ne dovrebbe dedurre che per realizzare la “convergenza” dovrebbe essere confermato e, anzi, ulteriormente rafforzato il regime privatistico e contrattuale (concetti distinti e da non sovrapporre, come si dirà) introdotto per i dipendenti pubblici dalla legislazione degli anni Novanta.
Invece il ddl n. 847 sembra andare, contraddittoriamente, in direzione opposta: l’art. 2 parte dalla corretta e opportuna affermazione dell’esigenza di assicurare il rispetto della ripartizione fra le materie sottoposte alla legge e quelle demandate alla contrattazione collettiva, distinguendo e precisando i rispettivi ambiti di disciplina (comma 2, lett. a), ma poi elenca una serie di materie da definire ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (comma 2, lett. b), cioè con legge, regolamento o altro atto pubblicistico: quindi, adottando un regime di diritto pubblico.
A cosa risponde tale scelta, che è fra le più significative del progetto di iniziativa governativa? Il documento programmatico del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione del 4 giugno 2008 su “Riforma del lavoro pubblico e della contrattazione collettiva” (nel quale dovrebbero individuarsi i principi ispiratori del testo normativo in esame) richiama esplicitamente l’elenco delle materie di cui all’art. 2, comma 1, lett. c),
della L. n. 421/92, per definire la sfera organizzativa sottratta alla competenza della contrattazione e assoggettata alla potestà unilaterale pubblicistica, e sottolinea che il principio della privatizzazione … non esclude (né potrebbe) la possibilità che la legge delinei un quadro di riferimento normativo che circostanzi l’operatività delle stesse norme collettive, come del resto avviene, si ricorda, anche nel lavoro privato. Sullo sfondo di queste affermazioni sta un concetto che dovrebbe costituire il presupposto e la chiave di volta di tutto il ragionamento, ma in realtà finisce per essere l’anello debole che lo inficia radicalmente: Se è vero che il personale pubblico è stato oggetto di una delle riforme più radicali che abbiano investito il nostro ordinamento amministrativo, costituzionalmente compatibile, come ha più volte chiarito la Consulta, rimane la necessità che l’esercizio del pubblico potere (della ‘capacità e i poteri del privato datore di lavoro’, come recita l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001), rimanga un potere funzionalizzato alla realizzazione del pubblico interesse.
Ora, quanto al rapporto con la legge delega del 1992, va rammentato che - come, del resto, rilevato nello stesso documento ministeriale - tale legge fra le materie sottratte alla contrattazione ne contemplava soltanto una (quella delle incompatibilità) rientrante nella sfera della regolazione del rapporto di lavoro, mentre tutte le altre attenevano alla dimensione organizzativa (organi, uffici e modi di conferimento della titolarità dei medesimi, principi fondamentali di organizzazione, ruoli e dotazioni organiche) ovvero a istituti, procedure e atti collegati, ma esterni alla gestione del rapporto di lavoro in quanto tale (responsabilità giuridiche nell’espletamento di procedure amministrative, procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro, garanzia della libertà di insegnamento). Invece, su cinque materie per le quali - si badi - non solo si esclude il riferimento alla fonte negoziale, ma si impone la sottoposizione a fonti pubblicistiche, di natura normativa o amministrativa, il ddl
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n. 847 ne comprende ben quattro (valutazione del personale, strumenti premiali e incentivazioni, responsabilità disciplinare, progressioni professionali) che attengono pienamente, o in larga misura, alla regolazione del rapporto di lavoro: e che, infatti, nel settore privato, con il quale quello pubblico in teoria dovrebbe “convergere”, sono oggetto normalmente di contrattazione. È evidente la volontà di dar luogo ad una consistente “rilegificazione” (rectius “ripubblicizzazione”) di una parte consistente della disciplina delle relazioni di lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, che finisce per negare o, quantomeno, rendere assai meno limpido il criterio distintivo generale, posto dal D.Lgs. n. 29/93 e confermato dal D.Lgs. n. 165/2001, all’art. 2, comma 2, secondo il quale in linea di principio ciò che attiene ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è disciplinato dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporto di lavoro subordinato nell’impresa. Si torna, in qualche modo, all’elenco di materie demandate rispettivamente a fonti pubblicistiche e a fonti negoziali, che caratterizzava la Legge quadro sul pubblico impiego n. 83/93, e che aveva dato cattiva prova in sede applicativa, provocando incertezze interpretative e incursioni reciproche fra le fonti di diversa natura, ed era stata una delle ragioni dalle quali era scaturita, dieci anni dopo, la scelta di procedere alla privatizzazione del Pubblico Impiego (come efficacemente ricordato dal Presidente della Commissione Affari Costituzionali nella sua relazione introduttiva). In realtà, va detto, le formulazioni adottate nell’art. 2, comma 2, lett. b, del ddl 847 non riconducono completamente le materie indicate alla regolazione pubblicistica, ma ne “ritagliano” aspetti che restano di competenza della contrattazione: questo, peraltro, non fa altro che aumentare il rischio che si riproponga una situazione di confusione e di difficoltà nel definire i confini fra gli oggetti dell’uno o dell’altro tipo di fonte.
Tra le norme sul rapporto legge e contrattazione contenute nel disegno di legge si incontra una previsione che
suscita particolare perplessità, in relazione al ragionamento ora svolto: quella dell’art. 2, comma 2, lett. d, dove si stabilisce una periodica modificabilità, sulla base di meccanismi di monitoraggio sull’effettività e congruenza, dei rispettivi ambiti di competenza di legge e contratto, anche in relazione agli specifici andamenti ed alle esigenze della contrattazione collettiva. Anche a voler prescindere dalla considerazione che nel testo non si dice nulla su chi, come e in che forme sarà competente ad operare tale ridefinizione di confini, e sui parametri in base ai quali si darà legittimamente luogo ad essa (conferendo, così, una delega largamente indeterminata), è preoccupante l’affermazione di un’idea di instabilità permanente nei rapporti fra le due fonti, che può avere riflessi negativi sia sul piano sostanziale, ponendo in una condizione di incertezza tutti i soggetti interessati, sia, potenzialmente, in ordine al riparto fra le giurisdizioni. Tra l’altro, occorrerebbe chiedersi in che rapporto sta questa disposizione con la riaffermazione del valore di quanto previsto dall’art. 2, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs.
n. 165/2001, contenuta nell’art. 2, comma 2, lett. c, del medesimo ddl n. 847.
In ogni caso, da questa parte del progetto di legge delega presentato dal Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, come osservato da qualcuno fra i primi commentatori, emerge chiaramente la volontà di restringere il ruolo della contrattazione. Se si mettono insieme tutte le materie “ripubblicizzate”, alla negoziazione resta uno spazio estremamente limitato, attinente principalmente al trattamento economico (senza dimenticare che anche su questo possono andare ad incidere le previsioni del disegno di legge, pure in larga parte comprensibili nelle loro motivazioni, riguardanti il regime della contrattazione nazionale e, soprattutto, la fissazione di vincoli e limiti alla contrattazione integrativa).
Naturalmente, è legittimo revocare in dubbio il valore e l’opportunità del modello di gestione del personale pubblico incentrato sul riferimento al
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diritto privato e sull’utilizzazione dello strumento contrattuale. Come da tempo affermato dalla Corte costituzionale (si può citare, in particolare, la sentenza n. 313/96), non sussistono vincoli di ordine costituzionale in ordine al tipo di regolazione (pubblicistica o privatistica) da preferire per il pubblico impiego: in proposito c’è discrezionalità del legislatore. Ma possono essere svolte alcune considerazioni in favore del mantenimento del regime a base privatistico/contrattuale (di nuovo, senza sovrapporre i due concetti), riflettendo anche sulle motivazioni che stavano alla base della scelta per la privatizzazione operata nel 1992-1993 e ribadita negli interventi legislativi successivi, motivazioni che paiono conservare tuttora una sostanziale validità: si voleva, con la riforma, superare l’incertezza dei confini fra materie negoziabili e non negoziabili derivante, come già accennato, dalla Legge quadro del 1983, ed eliminare l’ambiguo e contorto meccanismo dell’accordo sindacale recepito in regolamento previsto dalla stessa L. n. 93/83; si contava sulla maggiore trasparenza di scelte discusse e definite attraverso una chiara ed esplicita negoziazione rispetto a decisioni legislative frutto di informali azioni di lobbying e di pressioni corporative; ci si voleva liberare del vecchio sistema di governo del personale di tipo paternalistico-autoritario, che per unanime consenso aveva prodotto risultati negativi in termini di funzionamento degli uffici, di qualificazione e motivazione dei dipendenti e di contenimento della spesa pubblica; si puntava, appunto, sui meccanismi privatistici per limitare e riqualificare la spesa per il personale (basta pensare, in tal senso, al motivo ispiratore della L. 421/92, dalla quale prese avvio la vicenda della privatizzazione, dove questa veniva messa in rapporto con la razionalizzazione e il controllo della spesa per il settore del pubblico impiego); ma, sullo sfondo, ci si poneva soprattutto l’obiettivo fondamentale della ricomposizione della storica
spaccatura fra mondo del lavoro pubblico e del lavoro privato.
Non va, poi, dimenticato un altro aspetto, già emerso nei lavori della Commissione: quello relativo alle conseguenze della eventuale “ripubblicizzazione” (almeno parziale) del pubblico impiego sul riparto di competenze normative fra Stato e regioni, alla luce dell’art. 117 della Costituzione: se e fino a quando rimane solidamente in piedi un assetto regolativo privatistico, secondo le più qualificate opinioni (avvalorate anche dalla giurisprudenza della Consulta) siamo nell’ambito della materia dell’ordinamento civile, attribuita in via esclusiva alla competenza legislativa statale dall’art. 117, comma 2, lett. l della Costituzione; invece, se e nella misura in cui entrano in gioco fonti e regole pubblicistiche è inevitabile uno spostamento del focus della disciplina del lavoro pubblico verso la dimensione organizzativa e, quindi, la sua riconduzione alla potestà legislativa regionale sull’ordinamento degli uffici di tutte le amministrazioni diverse dallo Stato e dagli enti pubblici nazionali (arg. ex art. 117, comma 2, lett. g). Dopo l’entrata in vigore della legge di revisione della Titolo V della Costituzione del 2001, sia in dottrina che nel dibattito istituzionale sono state messe in luce soprattutto le possibili conseguenze (dirette e indirette) di un siffatto spostamento della materia del lavoro pubblico dalla dimensione legislativa nazionale a quella regionale sull’assetto della contrattazione collettiva. Ma, in prospettiva può finire in tal modo per essere messa in discussione la stessa possibilità per il legislatore statale di dettare regole generali valide per l’insieme dei dipendenti pubblici: verrebbe, in tal senso, chiamata in causa - o, quantomeno, dovrebbe essere rimodulata nel suo oggetto e nei suoi contenuti - anche l’individuazione delle disposizioni rientranti nella competenza esclusiva dello Stato e di quelle contenenti principi generali dell’ordinamento giuridico, demandata ai decreti delegati dall’art. 1, comma 4, del ddl 847.
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Il fatto che nella prassi, a parere di molti, la negoziazione abbia spesso dato una prova non felice deve davvero comportarne una compressione in favore delle fonti pubblicistiche? Se il giudizio sulla contrattazione è drasticamente negativo, forse bisognerebbe dichiarare francamente di puntare ad un ritorno al regime di diritto pubblico, ma questo realisticamente non sembra all’ordine del giorno, e in ogni caso non è previsto nel testo del disegno di legge. Quindi, sarebbe saggio non rendere incerto e confuso lo spazio della contrattazione, sollevando dubbi e suscitando preoccupazioni sulla sua sorte futura, ma confermarla come perno della disciplina del rapporto di lavoro, intervenendo per razionalizzarla (come per certi aspetti mostra di voler fare lo stesso disegno di legge delega, al di là del giudizio sull’opportunità di questa o quella soluzione proposta). Sia consentito anche di ricordare che se è fuor di dubbio che la prassi della contrattazione collettiva nel settore pubblico - a livello nazionale e, soprattutto, in sede decentrata - abbia prodotto disfunzioni e sia stata oggetto di forzature nella sua utilizzazione da parte dei protagonisti, deludendo in buona parte le aspettative di quanti si erano fatti promotori della sua introduzione, è altrettanto vero che, guardando ai fatti reali senza opinioni precostituite, si possono individuare dati che fanno dubitare sulle virtù taumaturgiche di un revirement in senso pubblicistico: basti pensare al fatto che negli scorsi anni (stando ai dati della Corte dei conti e dell’ISAE) gli incrementi retributivi del personale “non contrattualizzato” (quello dell’art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001) hanno prodotto una crescita della spesa di gran lunga maggiore, in percentuale, rispetto a quelli delle categorie “contrattualizzate”.
C’è, poi, un ulteriore profilo di carattere tecnico-giuridico (ma non privo di rilievo pratico) che non tocca immediatamente la materia del lavoro, ma attiene alla disciplina dell’organizzazione. Il disegno di legge delega (art. 2, comma 2, lett. b, n. 1)
mette al primo posto fra le materie riservate alla legge e/o ad altre fonti pubblicistiche l’organizzazione degli uffici (è stato da altri ricordato come in una prima versione del progetto, poi corretta, si parlasse di “organizzazione del lavoro”). Questa indicazione segna una netta rottura, che si configura come un vero e proprio tuffo nel passato, rispetto a quanto previsto attualmente dal D.Lgs. n. 165/2001, ma già prima dal D.Lgs. n. 29/93 e dalla stessa Legge delega n. 421/92 (alla quale pure i promotori del ddl n. 847 dichiarano di ispirarsi): quest’ultima assegnava alla legge (e, più complessivamente, alle fonti di diritto pubblico) non tutta l’organizzazione, bensì l’individuazione degli organi, degli uffici e dei modi di conferimento della titolarità dei medesimi, e i principi fondamentali di organizzazione degli uffici; successivamente, prima il D.Lgs. n.
80/98, poi il D.Lgs. n. 165/2001 hanno precisato ulteriormente il dato normativo, stabilendo che alle fonti pubblicistiche spetta, oltre all’individuazione degli uffici di maggiore rilevanza e dei modi con copertura degli stessi, la definizione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici. Ciò è statuito proprio in quell’art. 2, comma 1, del decreto del 2001 al quale fa esplicito richiamo il ddl n. 847 nel “ripubblicizzare” in toto l’organizzazione degli uffici: il che appare perlomeno singolare, se non palesemente contraddittorio.
Posto che la legge e gli altri atti di tipo pubblicistico non coprono pienamente la funzione di regolazione dell’organizzazione, dove e in che modo vengono disciplinati, nel sistema del D.Lgs. n. 165/2001, le parti di essa che vanno oltre le “linee fondamentali”? Come è noto, in proposito si deve ricorrere all’art. 5 del medesimo decreto legislativo, dove (al comma 2) si legge che Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla
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gestione con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Questo è un passaggio decisivo della riflessione che sto cercando di sviluppare, sotto vari aspetti che si tenterà di seguito di chiarire. Intanto, possiamo rilevare che la formula introdotta dal ddl n. 847 su questo punto rischia di configurarsi come un ritorno all’indietro di circa venti anni, che travolge un articolato percorso normativo e trascura gli esiti di un complesso dibattito dottrinale, il quale da tempo aveva messo in discussione l’impostazione tradizionale, che dalla riserva di legge (relativa) dell’art. 97, comma 1, della Costituzione faceva discendere la necessità di una regolazione tutta pubblicistica - se non tutta legislativa - dell’organizzazione amministrativa, con una immediata ricaduta (fino alla svolta normativa del 1992-1993) sulla regolazione del personale. Insomma, se venisse introdotta una norma come quella dell’art. 2, comma 2, lett. b, n. 1, del disegno di legge delega, verrebbe meno la distinzione, ormai largamente consolidata, tra “macrorganizzazione” e “microrganizzazione”.
Il ddl n. 847, in alcuni passaggi, sembra far propria l’idea che in tema di personale in gioco ci sia unicamente la determinazione dei rapporti fra fonti legislative (e, in genere, pubblicistiche) e fonti contrattuali. Si tratta di un ragionamento che potrebbe essere riassunto nei seguenti termini: se si parte da un giudizio critico sull’uso (o l’abuso) della contrattazione, allora si deve inevitabilmente espandere lo spazio della legge (e, a cascata, dei regolamenti, degli atti amministrativi, ecc.). La dimensione della decisione “unilaterale”, dichiarata come indispensabile per riaffermare le esigenze di funzionalità del sistema amministrativo messe in discussione da un uso eccessivo o distorto dello strumento negoziale, viene, in tal modo, riportata tutta sulle fonti normative (e, quindi, sulla decisione politica), come se al di fuori di esse vi fosse solo la contrattazione. In questa ricostruzione c’è un grande assente o, meglio, un convitato di pietra: la dirigenza, il management pubblico. Il
disegno di legge governativo in più punti dichiara l’intenzione di valorizzare i dirigenti, di accrescerne funzioni, poteri autonomi e, correlativamente, responsabilità: vedremo più oltre se e in che misura le indicazioni dell’art. 5 dell’articolato soddisfino tali esigenza. Ma nell’art. 2 (e, segnatamente, nelle disposizioni del comma 2, ma prima ancora nella formula del comma 1) sembra non esserci spazio per la funzione - di organizzazione e di gestione delle risorse umane - dei dirigenti, schiacciati fra legge e contratto (ancora una volta, incidentalmente, qui pare di poter cogliere un elemento di non perfetta coerenza fra le diverse parti del provvedimento).
Vediamo il dato relativo all’organizzazione degli uffici: se questa pertiene tutta a legge e ad atti pubblicistici, che fine fa la potestà “microrganizzativa” dei dirigenti? Non si tratta solo di un discorso di ordine formale (in particolare, di coerenza con il D.Lgs. n. 165/2001), ma di un problema sostanziale: un’amministrazione ispirata ad una logica efficientistica, “industriale”, può prescindere da un ruolo essenziale dei managers, oppure metterlo in secondo piano, perché il legislatore si preoccupa soprattutto di dotarsi di strumenti normativi per circoscrivere il territorio della contrattazione?
Quanto, poi, al governo del personale, il corto circuito che potrebbe crearsi fra legge e contratto rende marginale, mette in ombra proprio quella figura del datore di lavoro pubblico che pure si dichiara di voler evidenziare ed irrobustire. Viene espunta, o sottovalutata, la dimensione della potestà datoriale che connota la gestione del lavoro nella realtà aziendale, e che si esplica attraverso le scelte organizzative o attinenti all’utilizzazione delle risorse umane affidate al management. Si coglie qui uno dei profili di rilevanza della distinzione logica fra privatizzazione e contrattualizzazione, più volte in precedenza sottolineata: fra legge (norma) e contratto c’è lo spazio dell’attività privatistica/gestionale
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assegnata alla responsabilità dei dirigenti degli uffici. Se la contrattazione tende ad occupare spazi non suoi, prima dell’argine della norma (quindi, dell’intervento della politica) c’è quello della decisione spettante alla dirigenza, con gli strumenti propri del datore di lavoro (come recita puntualmente, lo si è visto, l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001). Se si va per un’altra strada, ancora una volta, al di là delle intenzioni, ci si discosta dall’obiettivo della “convergenza” fra mercato del lavoro pubblico e privato. In realtà, se si torna alle affermazioni del documento ministeriale sulla riforma del lavoro pubblico sopra riportate, si può comprendere dove stia la radice di quella che, a mio parere, è l’errata prospettiva in cui si colloca il ddl
n. 847 nell’affrontare il problema che si sta esaminando: in tale testo si interpretano “le capacità e i poteri del privato datore di lavoro”, assegnati al dirigente dall’art. 5, comma 2, del X.Xxx.
n. 165/2001, come una forma di “esercizio del pubblico potere”, un potere “funzionalizzato alla cura del pubblico interesse”. Ma, in realtà (come spiegava Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx già all’inizio degli anni Settanta) nel momento in cui adotta scelte interne alla sua organizzazione, ed a maggior ragione quando si occupa della provvista e della gestione del personale, l’amministrazione non sta esercitando il potere pubblico, non sta provvedendo alla cura del pubblico interesse, come avviene quando essa esprime la sua volontà nei confronti dei terzi o prende le decisioni organizzative fondamentali che assumono rilievo verso l’esterno, ma si dota delle risorse (umane, finanziarie, tecnologiche, ecc.) e predispone i meccanismi occorrenti per l’espletamento dei suoi compiti: il che non implica necessariamente l’uso della potestà pubblica e di atti di natura pubblicistica, ma consente un utilizzo fisiologico di regole e procedure privatistiche in tutto e per tutto corrispondenti a quelle delle quali si avvalgono i responsabili delle organizzazioni private: cioè, appunto i “privati datori di lavoro” nell’esercizio dei loro poteri e delle loro capacità.
A chi insiste sulla centralità della funzione dirigenziale spesso si obietta che il modello fondato sulla responsabilità e la capacità dei dirigenti di garantire un adeguato livello di funzionamento degli uffici ad essi affidati, anche confrontandosi dialetticamente con il sindacato, non ha avuto fin qui esiti positivi. I dirigenti si sarebbero dimostrati deboli, inefficienti, poco attrezzati a ricoprire il delicato ruolo loro assegnato. In questo giudizio c’è un elemento di verità (anche se le generalizzazioni sono, come sempre, inopportune): ma la questione che si pone è quella di andare al di là della diagnosi, cercando di indicare ipotesi di soluzione per le criticità individuate.
Si deve considerare perduta la scommessa di chi in questi anni ha tentato di risolvere i problemi di produttività delle Amministrazioni Pubbliche puntando sul riconoscimento di un’ampia autonomia decisionale e di corrispondenti responsabilità alla dirigenza, ed è, quindi, preferibile (o, addirittura, inevitabile) adottare una linea incentrata sulla “ripubblicizzazione”, cioè sulla riespansione dello spazio di intervento delle fonti normative e sulla restituzione di un potere di intervento diretto nelle scelte amministrative ai vertici politici? Questa è l’indicazione che, seppure in modo implicito e in termini dubitativi, si potrebbe ricavare dai primi articoli del progetto di legge delega (quelli che prefigurano il ridisegno dell’assetto delle fonti). Ma tale scelta - ammesso che ci sia davvero, e corrisponda realmente all’intenzione dei proponenti - si scontra con il principio di distinzione fra politica e amministrazione, del quale la Corte Costituzionale ha ormai chiarito i fondamenti costituzionali: ci troveremmo di fronte al versante funzionale di quello spoils system strutturale ormai reso improponibile (salvo che per le figure a carattere fiduciario) dalla stessa giurisprudenza costituzionale.
Un percorso alternativo rispetto a questa impostazione discutibile - e, probabilmente, poco praticabile -
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dovrebbe prendere le mosse dall’individuazione delle radici e delle cause dell’ ”inefficienza” dirigenziale per affrontarle e rimuoverle, confermando la validità, se non la imprescindibilità, anche alla luce dei principi costituzionali, del modello fondato sulla distinzione fra politica e amministrazione, affermatosi nella legislazione a partire dai primi anni Novanta (prima con la L. n. 142/90 sulle autonomie locali, poi con il D.Lgs. n.
29/93), ed ampliando e razionalizzando l’ambito dei poteri e delle responsabilità dei dirigenti. Si dovrebbero impostare e realizzare una serie di interventi normativi - da integrare e sostenere con coerenza e impegno in sede attuativa - che superino (o, perlomeno, aiutino a superare) i limiti dell’attuale disciplina della dirigenza, per farne finalmente l’attore principale del rinnovamento amministrativo.
Si tratta, del resto, di una linea d’azione che trova riscontro in altra parte dello stesso ddl n. 847, ed in particolare nell’art. 5, dedicato appunto alla dirigenza: il quale, in effetti, sembra muovere in tale direzione, anche se questo mette in luce una palese contraddizione con la sopra evidenziata sottovalutazione della funzione dirigenziale, stretta nella forbice legge/contratto. Sui contenuti di tale articolo - e qui veniamo al secondo dei temi che ci si proponeva di sviluppare in questo interevento - si possono, sinteticamente, svolgere le seguenti considerazioni.
Sicuramente, diverse indicazioni dell’art. 5 appaiono utili e meritevoli di approvazione: così è, ad esempio, per l’idea di un accesso selettivo alla prima fascia dei ruoli dirigenziali (ma forse si potrebbe andare oltre, prevedendo una opportuna articolazione verticale della qualifica), per la limitazione del numero degli incarichi attribuibili a soggetti esterni (che, nella realtà, spesso non sono veri esterni, ma dipendenti della stessa amministrazione), per la fissazione di limiti percentuali al numero dei dirigenti ai quali può essere attribuita nella misura massima la retribuzione di risultato (come pure per
la previsione, contenuta nell’art. 12, comma 1, del disegno di legge n. 746, che una consistente quota della retribuzione dei dirigenti debba essere legata alla valutazione dei risultati), per il rafforzamento del regime delle incompatibilità (anche se andrebbe chiarito cosa si intende per autonomia rispetto ai sindacati, che risponde ad un problema reale, ma per evidenti ragioni di ordine costituzionale non può tradursi in un divieto di iscrizione dei dirigenti alle organizzazioni sindacali, e dovrebbero essere inserite ipotesi di incompatibilità anche rispetto ai soggetti economici)1.
Altre disposizioni, invece, suscitano qualche perplessità e meriterebbero di essere integrate o riequilibrate. È il caso delle previsioni che mettono l’accento su meccanismi “sanzionatori” a carico dei dirigenti senza prevedere corrispondenti “sanzioni” per le amministrazioni: ad esempio, nell’art. 5, comma 2, lett. i (come pure nell’art. 12, comma 2, del disegno di legge n. 746) si stabilisce giustamente il divieto di corrispondere ai dirigenti l’indennità di risultato se le amministrazioni non hanno predisposto validi sistemi di valutazione dei risultati; ma manca una norma correlativa nella quale, recependo anche qui l’insegnamento del giudice costituzionale, si stabilisca che in tale ipotesi (cioè, in assenza di valutazione) l’incarico del dirigente non può essere revocato o non confermato. Una disposizione di tale tenore andrebbe introdotta non solo per motivi di equità e di garanzia della posizione e della professionalità dirigenziale, ma anche perché in tal modo entrambi i soggetti in causa (amministrazione e dirigente) sarebbero davvero interessati a realizzare un efficiente sistema valutativo.
Ma, soprattutto, se gli obiettivi ambiziosi che l’art. 5 si pone sono validi e condivisibili, per realizzarli occorrerebbe procedere ad una revisione del quadro normativo in tema di dirigenza più ampia ed organica di quella definita nell’articolato, che è lacunosa o detta principi troppo generici perché se ne possa valutarne il
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valore e l’impatto: si dovrebbe dire in termini più puntuali - per non lasciare uno spazio indeterminato ai decreti delegati - come vanno strutturati i meccanismi di accesso alla qualifica e di passaggio fra le fasce (chi recluta, con quali procedure, sulla base di quali rapporti percentuali fra soggetti esterni e interni, ecc.), e come deve essere concepita la formazione dei dirigenti, iniziale e successiva; andrebbero precisati i vaghi criteri della norma sull’attribuzione degli incarichi di funzioni dirigenziali (chiarendo natura degli atti di conferimento, procedure, forme di pubblicità, garanzie, ecc.); bisognerebbe spiegare meglio quali compiti si vogliono assegnare al Comitato dei garanti (anche per capire se è opportuno conferirli a detto organo di natura “arbitrale”, oppure è preferibile demandarli ad altro tipo di organismo); si dovrebbero precisare gli spazi e i confini dell’autonomia operativa dei dirigenti, specie in ordine alla gestione delle risorse finanziarie (autonomia di budget); si dovrebbe intervenire in modo complessivo, e non per qualche aspetto specifico, sull’attuale disciplina della responsabilità dirigenziale (e delle relative sanzioni), anche in rapporto alla responsabilità disciplinare; bisognerebbe ragionare sull’assetto del “corpo dirigenziale” (per conferire ad esso elementi di omogeneità ed unitarietà, superando o compensando la frammentazione dei ruoli, pur senza riproporre il soppresso ruolo unico dei dirigenti statali); e, soprattutto, xxxxxxxx affrontato esplicitamente e chiaramente il nodo cruciale del rapporto fra politica e amministrazione, operando una netta distinzione fra dirigenza fiduciaria e professionale e dettando principi volti ad impedire forme più o meno surrettizie di spoils system2.
Qualche rapida, notazione, infine, su altri aspetti del ddl n. 847 (ed anche del disegno di legge n. 746). Non mi soffermo sui profili riguardanti la contrattazione collettiva, i rapporti fra i livelli contrattuali, i vincoli di spesa, i controlli, di cui all’art. 2, comma 2, lett. i): mi limito a dire che le disposizioni in
tema di riordino delle procedure negoziali, ruolo e assetto dell’ARAN e dei comitati di settore, numero dei comparti e delle aree, durata dei contratti, sembrano - per come formulate in termini di principio, e salvo verificare come saranno interpretati ed attuati nella decretazione delegata - sostanzialmente condivisibili.
Non mi intrattengo neanche sulla parte concernente la valutazione del personale e delle strutture, che pure assume un rilievo fondamentale in entrambi i progetti e risponde, con tutta evidenza, ad una esigenza largamente sentita: accenno solo ad alcuni aspetti problematici. C’è, a ben vedere, qualche rischio - specie nel ddl n. 847, ma anche nel ddl n. 746 - di una confusione fra verifica dei risultati delle strutture ed analisi dei comportamenti e delle prestazioni dei singoli dipendenti (tra l’altro, nei due testi ci si prefigge di estendere la valutazione a tutto il personale dipendente, ponendosi un obiettivo commendevole, ma poco realistico), con una sovrapposizione di due dimensioni che andrebbero logicamente distinte, in relazione alla diversità degli scopi che si prefiggono ed alla necessaria differenziazione degli strumenti da utilizzare per porli in essere e degli effetti concreti delle valutazioni. Inoltre, non emerge con la dovuta evidenza il ruolo decisivo che rivestono, come presupposto della valutazione, la qualità e la tempestività della determinazione degli obiettivi e dei piani e programmi di attività delle amministrazioni, ai quali va rapportata la verifica di quanto prodotto dalle strutture e delle decisioni assunte dai dirigenti (come è noto, e come è stato più volte rilevato dalla Corte dei conti, senza buone direttive si inceppa in partenza - è tutta la storia della nostra amministrazione a dimostrarlo - il circuito virtuoso fra “definizione dell’indirizzo-gestione-valutazione- ridefinizione dell’indirizzo” che dovrebbe caratterizzare l’azione delle strutture pubbliche), anche se è difficile risolvere il problema di come far rilevare la responsabilità politica per carenza nell’esercizio della funzione di
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indirizzo politico-amministrativo. Ancora, l’organismo da costituirsi presso il Dipartimento della Funzione pubblica ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. d, del disegno di legge del Governo, preposto alla validazione dei sistemi valutativi delle amministrazioni, all’indirizzo, al coordinamento e alla sovrintendenza dell’esercizio delle funzioni di valutazioni, appare una soluzione piuttosto debole per un problema molto serio: oltre al limite costituito dal fatto di poter operare solo per le amministrazioni centrali (in quanto incardinato nell’apparato dell’esecutivo nazionale), esso si presenta come una entità troppo “leggera”, vuoi per la gratuità dell’impegno dei componenti (che è da immaginare non si dedichino in via esclusiva a tale compito), vuoi perché non se ne prevede una struttura tecnico-operativa servente, ecc. È difficile dire se l’alternativa giusta sia quella di dare vita ad una autorità indipendente (come quella prevista dal ddl n. 746) o non si possa pensare ad un organismo con diversa natura e inquadramento istituzionale, tale comunque da essere al servizio di tutte le amministrazioni, che potrebbe forse assumere i connotati di un’agenzia tecnica analoga all’ARAN (ricordo che
nella scorsa legislatura era emersa, tra le altre, l’idea di fare riferimento ad una struttura da collocare presso il CNEL): ma, comunque, deve essere una struttura abbastanza solida e attrezzata, oltre che dotata di una sufficiente quota di autonomia rispetto all’amministrazione attiva, per svolgere compiti che appaiono molto impegnativi, oltre che delicati. È, in ogni caso, positivo che nei due disegni di legge sia stata abbandonata l’idea, che era emersa in una fase precedente del dibattito su questo tema, di dar vita ad un organismo con poteri di intervento diretto nella valutazione delle varie strutture amministrative e dei loro dipendenti, in funzione sostitutiva, e non integrativa e di sostegno (come è, invece, negli attuali progetti), rispetto agli istituti di controllo interno.
Poche battute anche sui contenuti dell’art. 4 del ddl n. 847, che si prefigge
l’encomiabile obiettivo di favorire la valorizzazione del merito e la premialità nella gestione degli uffici amministrativi e dei loro dipendenti, attraverso una serie di criteri e di strumenti che, nel modo in cui sono delineati in termini di principio, appaiono nel loro insieme convincenti (a parte qualche dubbio sulla opportunità dell’estensione anche alle posizioni apicali delle aree funzionali del meccanismo dell’accesso dall’esterno tramite corso-concorso, proprio della dirigenza). Però, senza indulgere necessariamente al pessimismo, si può esprimere la preoccupazione che le nuove regole e i nuovi modelli pensati per premiare merito e professionalità dei dipendenti possano alla prova dei fatti produrre risultati largamente inferiori alle aspettative (ed alle necessità): per prevenire tale esito, prima di definire nel dettaglio i meccanismi attuativi dei principi in questione, occorre indagare sulle ragioni - naturalmente, in prevalenza di ordine prettamente metagiuridico - per le quali istituti di vario tipo e peso che si prefiggevano le medesime finalità, già previsti in passato da leggi e, ancor più, da contratti collettivi di lavoro, abbiano avuto scarsi riscontri o abbiano dato luogo a notevoli distorsioni sul piano applicativo.
Sempre riguardo all’art. 4, si può fare un’ultima considerazione sulla decisa presa di posizione ddl n. 847 in favore del principio di “concorsualità”. Tale opzione è sicuramente da vedere con favore, se non altro perché è in linea con i forti e ripetuti richiami del giudice costituzionale al rispetto dell’art. 97, comma 3, della Costituzione; ma anche perché è un modo per favorire l’inserimento di giovani motivati e preparati nell’amministrazione, superando elementi patologici di autoreferenzialità e di “introversione” che la caratterizzano da sempre.
Occorre, però, evitare che un uso generalizzato e, si potrebbe dire, pedissequo dei meccanismi di tipo concorsuale possa finire per “ingessare” le amministrazioni, se non, addirittura, per paralizzarle, in conseguenza della sfasatura fra
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momento della manifestazione delle esigenze di copertura di determinati uffici e di determinate posizioni e tempi di espletamento delle procedure selettive. Si può, inoltre, segnalare un altro dato problematico che potrebbero derivare da un’applicazione estensiva (anche alle progressioni professionali) della tecnica concorsuale: non si tratta tanto del “malcontento” che si può produrre nei soggetti interni alle amministrazioni frustrati nelle loro aspettative di carriera, quanto della sottrazione ai dirigenti ed ai responsabili del personale di uno strumento essenziale ai fini della loro azione di valorizzazione delle risorse umane (in tal senso, tra l’altro, ci troveremmo di fronte ad un ennesimo fattore - seppure in parte inevitabile - di “divergenza” fra lavoro pubblico e lavoro privato). Per evitare, almeno in parte, alcune di queste possibili disfunzioni occorrerebbe porre le basi normative per una revisione della regolazione e della struttura delle procedure concorsuali e di selezione, che così come sono oggi appaiono lente, farraginose ed eccessivamente formalistiche e, al tempo stesso, spesso non garantiscono affatto una effettiva scelta dei migliori (l’A.C. n. 1444 quater introduce alcune novità interessanti in proposito, ma si dovrebbe andare oltre, verso un riordino organico della materia).
NOTE
1 Ci si permette di segnalare che previsioni di questo tipo erano contemplate anche in un progetto di legge sulla dirigenza pubblica predisposto dalla Commissione per lo studio e la elaborazione di interventi correttivi e migliorativi in materia di rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, istituita nel 2006 dal Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione, e da me presieduta; tale testo è ora riprodotto in una proposta di legge dei deputati Xxxxxxxx e Xxxxxxxxxxx (A. C. 950 del 9 maggio 2008).
2 Su questi diversi aspetti sia consentito rinviare al
progetto citato nella nota precedente.
Intervento di Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx di Diritto del lavoro Università di Xxxxxx Xxxxxxxx XX
1. Nell’analisi giuridico-istituzionale dei ddl n. 847 e n. 746 vi sono innanzitutto due questioni da affrontare, seppure in sintesi. La prima riguarda il ruolo e la portata che una riforma legislativa può oggi ancora avere con riguardo alle materie oggetto dei due progetti di nuova regolamentazione (in sintesi: negoziazioni dei trattamenti economici e normativi del personale, rapporti di lavoro della dirigenza, organizzazione del lavoro e qualità dei servizi, valutazione, sistemi premiali e sistemi punitivi). La seconda riguarda la riconduzione di questa ulteriore riforma legislativa alle linee regolative ed applicative delle riforme effettuate a partire dagli anni Ottanta, con una sensibile accelerazione registrata negli anni Novanta.
Sul primo punto - dopo aver studiato approfonditamente e partecipato, in costante e prezioso confronto con la scuola napoletana alla quale mi onoro di appartenere, ai processi riformatori dell’ultimo quarto di secolo1 - sono sempre più dell’avviso che sia illusorio e pericoloso sopravvalutare la fase dell’approvazione di un nuovo testo legislativo per quanto riguarda l’attivazione di processi di riorganizzazione delle Pubbliche Amministrazioni. Naturalmente il varo di una nuova legislazione - sia essa di delega o già immediatamente precettiva
- è sempre un elemento politico e normativo di grande rilievo, che può comportare trasformazioni epocali (e quella varata in materia di lavoro pubblico agli inizi degli anni Novanta sicuramente ha avuto tali caratteristiche). Ma se dalla mera approvazione di nuove norme di legge ci si attende impatti rapidi e significativi sulla vita quotidiana dell’enorme e complesso apparato amministrativo di cui oggi è costituita la nostra Repubblica, si rischia di alimentare illusioni e di innescare molto rapidamente un processo di reazione contraria. Non solo per il fatto - banale,
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ma spesso sottovalutato - che l’applicazione delle riforme legislative è sempre la parte più complessa; ma anche perché certi assetti regolativi riflettono sempre culture, equilibri, prassi che si sono andate assestando nel corso di molti anni e che affondano le loro radici in rapporti reali - politici, sindacali, professionali e, persino, umani - sui quali il potere del legislatore è limitato (non dimentichiamo che parlando di lavoro pubblico parliamo di oltre tre milioni di lavoratori, con tutto l’”indotto” ad essi connesso). Perché una radicale riforma legislativa riesca davvero ad incidere nella realtà delle relazioni tra politici, burocrati pubblici e cittadini occorrono profonde trasformazioni culturali e comportamentali. Tali trasformazioni sono particolarmente difficili proprio in un contesto in cui la cultura giuridica viene utilizzata con una tradizionale abilità e con una relativa facilità di comunicazione diffusa con i controlli esterni dell’azione amministrativa, effettuati ad opera di organi, agenzie o giurisdizioni varie che, a loro volta, applicano regole legislative e procedure amministrative lunghe e complesse.
Inoltre c’è da aggiungere che negli ultimi dieci anni - soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 - il sistema amministrativo italiano, sotto il profilo delle fonti di regolazione, è diventato sempre meno centralistico, eterodiretto ed omogeneo o, se si preferisce, è andato caratterizzandosi per una governance multilivello per sua natura ancora più difficilmente condizionabile da una mera novella legislativa. Perciò sarebbe bene che le riforme delle amministrazioni che comportano modifiche legislative fossero di non eccessiva estensione e tenessero adeguato conto di quanto di positivo esiste, o è faticosamente emerso, negli assetti sui quali si va ad incidere, evitando di pregiudicarlo; ed evitassero anche il più possibile di introdurre regole o procedure più rigide di quelle preesistenti, contribuendo a formalizzare (o riformalizzare) un contesto che fatica molto ad entrare in una logica organizzativa moderna, cioè
in una logica in cui le regole sono necessarie, ma è necessario anche adattarle rapidamente in vista del raggiungimento del migliore risultato in termini di perseguimento del maggiore benessere collettivo. Certo è che un’amministrazione di risultato (goal oriented piuttosto che rule oriented) non è un’amministrazione più legificata di quella attuale. Venendo ai due ddl in esame, mi pare che l’847 mostri scarsa consapevolezza di questa problematica preliminarmente, seppur brevemente, delineata.
Sulla questione del nesso tra gli attuali progetti riformatori e le preesistenti riforme, mi pare che, sotto il profilo generale, entrambi i ddl si colleghino abbastanza chiaramente al disegno riformatore avviato agli inizi degli anni Novanta con la c.d. privatizzazione del lavoro pubblico (che però andrebbe scissa almeno in due fasi, assumendo come spartiacque il biennio 1997-1998). Nel senso che nessuno dei due ddl intende tornare sulle linee portanti di quella riforma, che - seppure in modo non lineare e con successive fasi di disorientamento, anche marcato (v. la disciplina del c.d. lavoro flessibile maturata a partire dal 2003) - ha prodotto l’unificazione di fondo dei sistemi giuridici di regolazione del lavoro pubblico e privato. Ed anche nel senso che entrambi i ddl puntano a completare una disciplina che per alcuni aspetti si è rivelata lacunosa, inadeguata o non sufficientemente avvertita dei problemi applicativi che avrebbe via via prodotto. Sotto questo secondo aspetto, peraltro, entrambi i ddl riprendono alcune delle linee di riforma che erano state annunciate o avviate già dal precedente Governo e che avevano avuto anche un formale sostegno delle parti sociali con il Memorandum-intesa della primavera del 2007. Quelle linee di riforma vengono anche riprese con un proficuo lavoro di chiarificazione rispetto ad alcuni equivoci o appesantimenti che avevano destato subito profonde perplessità2.
Xxxxxxx, però, che anche da questo punto di vista si colga una profonda differenza tra i due ddl in esame. Infatti
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il ddl n. 847, pur collocandosi nell’alveo delle riforme degli anni ‘90, rischia per molti versi di introdurre una cesura profonda proprio in ordine a quella politica di delegificazione e snellimento organizzativo-gestionale che era stata all’origine delle riforme cui intende ricollegarsi. È abbastanza chiaro, soprattutto dalla relazione illustrativa e da alcuni interventi nel dibattito in Commissione, che l’intento consapevolmente perseguito non è quello di ribaltare il quadro di fondo contenuto nel D.Lgs. 165/2001. Ma il tenore delle norme proposte e la ratio legis oggettivamente ricostruita inducono a conclusioni diverse, facendo balzare agli occhi delle profonde contraddizioni teoriche e pratiche, proprio con le finalità esplicitamente perseguite dallo stesso ddl (“ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico”).
Al riguardo può servire un esempio specifico. L’art. 2, comma 2, lettere b e c, obbliga il legislatore delegato a ricondurre all’art. 2., comma 1 del D.Lgs.
n. 165/2001 alcune materie, tra le quali: criteri generali, metodi, procedure e finalità della valutazione del personale; individuazione degli strumenti volti a premiare e ad incentivare la produttività e la qualità della prestazione lavorativa. È evidente che si tratta di due materie cruciali al fine di ottimizzare in concreto la produttività del lavoro nelle singole amministrazioni. E si può persino capire che su queste materie si ritenga pericoloso lasciare troppo spazio alle negoziazioni collettive, siano esse traducibili o no in vere e proprie norme contrattuali. Non si capisce però assolutamente la ragione per cui si fissa un criterio di delega in base al quale il risultato giuridico-istituzionale che si raggiungerebbe è assolutamente ultroneo e, persino, contraddittorio: infatti, per l’interpretazione dell’art. 2, comma 1 del D.Lgs. n. 165/2001 che si è maggioritariamente affermata in giurisprudenza e dottrina, il criterio di delega porterebbe a riservare ad atti di macrorganizzazione di carattere pubblicistico l’intera materia della valutazione e dell’incentivazione (cioè il cuore della meritocrazia),
determinando non tanto la sottrazione a qualsiasi negoziazione (chi ha un po’ di memoria sa che negoziazioni con sindacati, o pseudotali, avvenivano anche in regime pubblicistico), ma la sua riconduzione al sistema di regole e procedure riguardanti i regolamenti ed i provvedimenti amministrativi, cioè ad un sistema molto più rigido e formalizzato di quello oggi consentito dall’applicazione del diritto dei contratti (grazie al quale gli atti di valutazione sono atti di gestione che l’amministrazione adotta con i poteri del privato datore di lavoro: art. 5, comma 2 del D.Lgs. n. 165/2001). A mio parere - considerando quanto di fortemente gestionale, rapido e adattabile deve inevitabilmente esserci nei processi valutativi realmente praticati in sintonia con la vita delle amministrazioni - questa non è un’operazione di innovazione, ma di restaurazione giuridico-istituzionale, tale da riportarci ad un contesto politico, amministrativo e sindacale in cui, nonostante alcuni generosi e pionieristici tentativi, la parola “produttività” nemmeno aveva diritto di cittadinanza (penso alle amministrazioni italiane fino a tutti gli anni Ottanta). Xxxxxxxx dirigenza e personale attraverso provvedimenti amministrativi - pur considerando le profonde differenze del diritto amministrativo odierno rispetto a quello di trenta anni fa - varrebbe a sottoporre questa attività gestionale al controllo del giudice amministrativo, un controllo che comprende l’eccesso di potere e che offrirebbe innumerevoli occasioni di minacce di impugnative, ricorsi al TAR, richieste di sospensive al singolo dipendente, più o meno spalleggiato dall’organizzazione sindacale. Né è da trascurare che la rigida espulsione del consenso sindacale almeno sui criteri generali della valutazione - oggi consentita dal fatto che la materia può essere oggetto di consultazione o concertazione e, molto limitatamente, di contrattazione - potrebbe determinare una recrudescenza della conflittualità o della vertenzialità giudiziaria nella fase gestionale, con esiti di paralisi
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facilmente immaginabili e con buona pace degli apprezzabili propositi di ottimizzazione della produttività.
Pure nel senso di un allontanamento del pubblico dal privato va l’affermazione di alcuni principi di delega indicati all’art. 1 del ddl n. 847 (soprattutto comma 1, lettere d, f), laddove sembrano marcatamente differenziare i meccanismi premiali a seconda che riguardino episodici incentivi o progressioni stabili, irrigidendo proprio questi ultimi, che sono di certo i più significativi e che andrebbero resi assai più sensibili a valori meritocratici non sempre garantiti dall’osservanza formale del “principio di concorsualità”.
2. Tenendo conto di quanto premesso sul piano generale, vanno poi formulate alcune ulteriori osservazioni sulle modifiche al sistema delle fonti di regolazione del lavoro pubblico desumibili dal ddl n. 847.
Innanzitutto non vanno sottovalutati i problemi di costituzionalità posti da una tendenziale rilegificazione del sistema delle fonti del lavoro pubblico. Mi pare che si aprano o si aggravino almeno due fronti problematici: uno con riguardo ai rapporti tra i diversi tipi di fonti legislative; l’altro con riguardo alla contrattazione collettiva.
Il primo è connesso alla ancora non stabilizzata prassi interpretativa e applicativa dell’art. 117 Cost., laddove questa norma pare attribuire alla potestà legislativa residuale (e particolarmente protetta quanto ad autonomia) delle Regioni, non solo a Statuto speciale, almeno la disciplina della materia “ordinamento e organizzazione amministrativa”. Specie se si ripubblicizzano tutti i profili indicati nel già citato art. 2 del ddl n.
847, tali materie diventano difficilmente regolabili dal legislatore centrale, anche mediante principi generali. Al riguardo non pare che della questione ci sia un adeguato riflesso nell’articolato, nemmeno dando il dovuto rilievo all’art. 1, comma 4.
Con riguardo poi alla contrattazione collettiva, va tenuto presente che, per quanto si voglia contenerla e
centralizzarla, la sua collocazione giuridica di fondo rimane quella prevista dal D.Lgs. n. 165/2001, cioè, ancora una volta in virtù di giurisprudenza e dottrina prevalenti, essenzialmente privatistica. Così stando le cose, e dovendo trovare applicazione anche nel lavoro pubblico l’art. 39 Cost, sempre più problematico può diventare giustificare le profonde differenziazioni di disciplina della contrattazione collettiva nel settore pubblico rispetto al settore privato, specie quando danno vita a vincoli e rigidità relativi a profili contenutistici e procedurali che non riguardano strettamente aspetti economico-finanziari. Mentre infatti questi ultimi possono radicarsi nell’interpretazione stringente di altre norme costituzionali (essenzialmente gli artt. 81 e 97), il richiamo al solo buon andamento non può essere tale da ridurre al lumicino la contrattazione collettiva come tecnica regolativa, che, di per sé, non contrasta con il perseguimento del buon andamento delle amministrazioni, così come non contrasta con il buon andamento delle imprese private. Il problema si sostanzia e si riduce piuttosto alla buona organizzazione e alla buona conduzione delle trattative ad opera della parte negoziale che rappresenta le Pubbliche Amministrazioni.
Più specificamente sul piano delle tecniche regolative, non si comprende poi perché nel modificare il rapporto legge/contratto collettivo su materie assai delicate, come le sanzioni disciplinari, invece di utilizzare la riserva di competenza alla fonte legislativa, accompagnata magari dall’inderogabilità assoluta delle norme di legge nelle materie che si intende sottrarre alla contrattazione collettiva, si fa ricorso ad un improprio e tortuoso meccanismo di inserzione automatica di clausole legali su quelle contrattuali collettive (v. soprattutto art. 6, comma 1 ultimo periodo), equiparando il contratto collettivo del lavoro pubblico ad un contratto individuale. Anche queste incongruenze introducono confusione in un sistema di fonti profondamente riformato dieci anni fa e tutt’altro che assestato.
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3. Sulla contrattazione collettiva aggiungerei, infine, tre osservazioni:
a) nel ddl n. 847 si punta essenzialmente sulla contrattazione nazionale, rinunciando a rendere più virtuosa la contrattazione integrativa (peraltro ancor più messa sotto tutela dall’art. 67 del D.L. n. 112/2008, convertito con la L.
n. 133/2008). Ma la contrattazione nazionale, essendo portatrice di vincoli o, comunque, di norme generali, non è certo lo strumento più indicato per perseguire la produttività del lavoro a livello di singolo ente. Si dice che la contrattazione integrativa non ha dato buoni risultati negli anni recenti. Per molti versi è vero; ma non si può trascurare che sulla contrattazione integrativa si sono scaricati molti dei problemi derivanti da un sistema nazionale che ha funzionato a rilento, tenendo però sotto controllo le retribuzioni di tutti i lavoratori e inducendo recuperi anche impropri a livello periferico (magari snaturando l’applicazione degli istituti più innovativi, come il sistema di inquadramento, modificato dappertutto proprio alla fine degli anni Novanta). Inoltre gran parte delle deviazioni della contrattazione integrativa sono riconducibili al datore di lavoro pubblico (inteso qui come risultante dell’operare congiunto di vertice politico e di dirigenza burocratica), che non ha saputo o voluto tener testa ad un sindacato sempre più proiettato nell’inseguimento dei bisogni micro o macro della propria base. Certo il sindacato non si fa mai carico abbastanza dell’efficienza e dell’efficacia delle organizzazioni amministrative; ma, in fondo, non è questo il suo mestiere. Sono altri che dovrebbero farsene carico senza cedimenti e, spesso, non l’hanno fatto. È ben strano che proprio l’attore politico - indossato l’austero abito del neo-legislatore - con la riforma in discussione lanci oggi sostanzialmente il seguente messaggio: nelle varie articolazioni amministrative il vertice politico non è riuscito a tener dietro ad un gioco che non conosce, non sa o non vuole giocare, perciò è necessario cambiare di nuovo le regole del gioco
fino al punto da mettere in discussione la stessa esistenza degli altri giocatori. Questo indirizzo legislativo, comunque lo si voglia giustificare, depone piuttosto male anche sulla fiducia che i riformatori nutrono sulla possibilità di dar vita ad una nuova dirigenza, capace di fare bene il proprio mestiere in ciascuna amministrazione. Xxxxxx se una dirigenza che ha bisogno sempre più delle barriere legislative per non consegnare le chiavi della contrattazione formale, trasparente e visibile ai sindacati, sarà poi più capace di resistere alle contrattazioni informali, che sempre si sono svolte nelle amministrazioni pubbliche dell’Italia repubblicana. E chissà se quella stessa dirigenza, al riparo di più legge e più contrattazione nazionale, sarà più in grado di mettere la mani laddove è necessario per incrementare la produttività delle Pubbliche Amministrazioni nell’interesse dei cittadini. Al riguardo la questione più insidiosa mi pare la seguente: più legge e più contrattazione nazionale possono significare forse meno sindacato, ma significano anche più managerialità nei luoghi di lavoro pubblici? Ho l’impressione che ci sia la tentazione di dare anche qui una risposta troppo facile e non corroborata dalle più risalenti esperienze di apparati amministrativi iper-regolati. Forse sarebbe più opportuno immaginare altre strade per adeguare soggetti e procedure della contrattazione integrativa al nuovo volto del sistema amministrativo italiano, strade utili a metterla in maggiore correlazione con l’obiettivo principale dell’azione amministrativa, cioè la soddisfazione dell’utente finale (oltre ad intervenire su ruolo e funzioni della dirigenza, si possono, ad esempio, promuovere sistemi di relazioni sindacali e contrattuali più coerenti con il coordinamento dell’azione di enti appartenenti a comparti diversi - si pensi ad un Comune e ad una Asl e alle numerose attività socio-sanitarie da essi svolte - ma che servono bisogni territoriali analoghi).
b) Pienamente condivisibile è invece la finalità di responsabilizzare
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maggiormente le parti contraenti su tempi e risultati delle contrattazioni integrative, obiettivo perseguito da entrambi i ddl in esame. Più specifico al riguardo appare il n. 746, che all’art. 13 apporta una significativa modifica all’art. 40 del D.Lgs. n. 165/2001. Mi pare però ancora troppo generico, e persino tautologico, prevedere che ogni volta che non si raggiunge un accordo per la stipulazione di un contratto nazionale o integrativo “l’amministrazione provvede in xxx xxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxx…”.
Talvolta, e tenendo conto dei vincoli derivanti dall’esistenza di un contratto individuale di lavoro, questo è ovvio; più spesso può significare che un accordo non si raggiungerà mai. Per renderla più praticabile e concreta, limiterei perciò la disposizione alla contrattazione periferica, obbligando i contratti collettivi nazionali a prevedere un termine massimo entro cui i contratti integrativi devono essere stipulati e, superato quel termine, abilitando comunque l’amministrazione a provvedere unilateralmente se necessario per garantire la continuità e il migliore svolgimento dell’azione amministrativa.
c) L’ultima osservazione riguarda l’ARAN, di cui il ddl n. 847 si propone giustamente di rafforzare l’indipendenza rispetto alle organizzazioni sindacali e nel quale maggior potere di rappresentanza dovrebbero avere Regioni ed enti locali. Qui troppo generici sono i criteri di delega per esprimere una compiuta valutazione. Si colgono però stranezze e contraddizioni. Cosa ora impedisce all’ARAN di essere indipendente dai sindacati? Non certo regole legislative. Che senso ha rafforzare l’indipendenza di questo organismo, mentre il già citato art. 67 del D.L. n. 112/2008 convertito dalla L. n. 133/2008 l’ha sostanzialmente indebolito e marginalizzato rispetto ai soggetti politici e contabili? Con riguardo a Regioni ed enti locali, si intende potenziarne la presenza in un organismo che negozia per tutte le amministrazioni anche nazionali? Ma è questo un criterio utile a rendere l’ARAN un soggetto negoziale più forte
ed autorevole? Se l’ARAN resta un organismo di rappresentanza negoziale delle amministrazioni, non sarebbe preferibile articolarne la composizione in modo da garantire una rappresentanza più specializzata e compatta?
4. Un altro punto sul quale entrambi i ddl intervengono diffusamente è quello della valutazione del personale e segnatamente della dirigenza. Molte modifiche mi trovano in pieno accordo, specie laddove aumentano incisività e trasparenza delle valutazioni, immaginando meccanismi che eliminano l’autoreferenzialità delle (poche) esperienze finora fatte. Occorre però anche qui prestare attenzione a valorizzare i progressi registrati negli ultimissimi anni, specie a seguito delle prime applicazioni meditate del D.Lgs. n. 286/99. Non tutto infatti si esaurisce nelle valutazioni indifferenziate della maggior parte dei Ministeri. Ci sono buone pratiche disseminate sul territorio da conoscere e sostenere. Al riguardo mi pare centrale concentrare l’attenzione su come migliorare la disciplina per la valutazione anche individuale della dirigenza, senza però introdurre eccessive rigidità legislative. È infatti pericoloso e controproducente immaginare la valutazione come un processo essenzialmente autoritativo volto a stilare pagelle; essa è piuttosto uno strumento gestionale, da affiancare ad altri (come è ben chiaro nel D.Lgs. n. 286/99) e da configurare in modo fortemente dinamico e adattivo, collegandolo sì ai criteri di attribuzione degli incarichi e delle retribuzioni, ma anche alle politiche di riorganizzazione e di formazione/aggiornamento. Difficile se non impossibile è sottoporre la valutazione di tutte le amministrazioni (o anche solo di quelle centrali) a sistemi regolativi generali, indifferenziati, poco sensibli ai contesti microrganizzativi e ai mutamenti nonché alle continue emergenze che le amministrazioni devono affrontare; può invece essere molto utile monitorarne autorevolmente l’utilizzazione e promuovere continui confronti e
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miglioramenti, onde evitare che la inevitabile gestione microrganizzativa si tramuti in un’autoreferenzialità sorda alle aspettative di cittadini e utenti. Ma l’attività di monitoraggio e promozione è assai impegnativa: va condotta in una logica di sistema politico- amministrativo multilivello, con la costruzione di standard per effettuare un tempestivo benchmarking e con un adeguato investimento di risorse e competenze. Non servono a mio parere particolari appesantimenti istituzionali; piuttosto serve sostenere l’autonomia tecnico-professionale, soprattutto rispetto alla politica, degli organismi che effettuano o garantiscono la regolarità dei processi valutativi e un supporto alla trasparenza di procedimenti e risultati della valutazione. Imprescindibile è al riguardo un’esplicita responsabilizzazione della politica nel dare sostegno e rilevanza al regolare svolgimento dei processi valutativi3.
I criteri regolativi brevemente descritti si colgono in entrambi i ddl, ma sembrano più presenti o meglio formulati nel ddl n. 746.
5. Anche molti degli interventi sulla dirigenza prefigurati dai due ddl appaiono necessari e condivisibili, seppure con un’accentuazione pubblicistica da parte del ddl n. 847. Si rilevano però due significative carenze. La prima riguarda l’assenza di una strumentazione in grado di produrre impatti immediati sulle amministrazioni che non si dimostrino in grado di raggiungere standard minimi di efficienza/efficacia. Al riguardo si potrebbe tentare di fornire gambe più valide alla riorganizzazione e all’introduzione di meccanismi autovalutativi e valutativi nelle amministrazioni, promuovendo la costruzione interistituzionale di una task-force (inizialmente) di almeno 300/400 dirigenti superesperti di organizzazione e di valutazione, formati al riparo dalle appartenenze politiche e dalle affiliazioni sindacali. Il problema spesso è infatti di poter disporre nella singola amministrazione di un’intelligenza organizzativa
specializzata ed autonoma, un bilanciamento tecnocratico ad un sistema fortemente impregnato di logiche politiche o di parte, una sorta di rete di sicurezza tecnocratica che potrebbe essere urgentemente allestita. Per giungere a questo obiettivo le strade non sono ancora state percorse tutte. Anzi da qualche anno sul fronte della dirigenza pubblica si è come impantanati nel dibattito tra spoils system e garanzie tradizionali, statuto privatistico o statuto pubblicistico. Ma il vero problema è garantire almeno un “serbatoio”, pure inizialmente di scarsa capienza, di alte qualità professionali specializzate nei processi di riorganizzazione necessari quando la qualità dei servizi erogati non sia soddisfacente. Insomma la regola aurea potrebbe essere: se non si spende più del dovuto e la qualità dei servizi raggiunge determinati standard di soddisfazione dell’utenza (verificati mediante peer o public review), tutti i modelli organizzativi vanno bene. Ogni amministrazione, purché rispetti i limiti di spesa, può agire liberamente nell’ambito della propria autonomia politica, organizzativa e gestionale. Se però un’amministrazione non raggiunge gli standard di qualità, dovrebbe essere obbligata, prima o poi, ad affidarsi ad uno o più dei dirigenti specializzati in (rior)organizzazione che fanno parte della suddetta taskforce, posta alle dipendenze dell’Autorità di cui all’art. 5 del ddl 746 o di una speciale Agenzia, con la partecipazione di tutti i livelli istituzionali. Tale taskforce potrebbe essere costituita attingendo dall’esterno o, anche, selezionando i migliori dirigenti in servizio nelle Pubbliche Amministrazioni, purché siano assicurate la qualità professionale (molto alta, anche con esperienze pratiche ed extranazionali) e l’età (il più possibile bassa); ed applicata o inviata presso le Amministrazioni non “autosufficienti” sul piano dell’output, con un incarico ed una missione a termine. Insomma una via di mezzo tra un Commissario straordinario ed un top manager (o un pool di autorevoli consulenti) con incarico speciale in situazione di crisi aziendali. Ma senza
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ripercorrere alcuna finalità antica: la task force dovrebbe entrare in azione ad esclusiva tutela della qualità dei servizi nell’interesse dei cittadini.
Sospetto che anche questa proposta possa apparire una piccola utopia o l’ennesimo sogno tecnocratico. Essa invece, a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, potrebbe pragmaticamente funzionare come una ultima rete di garanzia, destinata a scattare solo una volta acclarata oggettivamente l’inidoneità di un determinato modello organizzativo, sperimentato da un’amministrazione nel pieno rispetto di tutta la sua autonomia politica, sindacale e gestionale. In fondo sarebbe una modalità concreta di garantire quei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere assicurati su tutto il territorio nazionale secondo Costituzione (art. 117, comma 2, lett. m). Ciò significa però porsi anche più seriamente il problema della rimozione dei dirigenti pubblici incapaci. Al riguardo i due ddl in esame contengono alcune innovazioni interessanti, ma tralasciano del tutto un aspetto a mio parere cruciale: cioè quello del regime sanzionatorio dell’eventuale licenziamento illegittimo del dirigente pubblico.
6. La questione è di una centralità addirittura ovvia: non si può infatti far valere nessun reale circuito di responsabilità se non si comincia dal vertice. Per riprendere i termini di un dibattito a grande risonanza mass- mediale, i “fannulloni”, per non figurare come capri espiatori, non devono poter additare ad esempio di “nullafacenza” la propria dirigenza. È quindi innanzitutto al vertice delle amministrazioni che non si può tollerare alcuna garanzia di inamovibilità. Soprattutto per questo motivo la riforma del lavoro pubblico degli anni Novanta, seppure con qualche tentennamento (su cui tornerò tra breve), aveva tendenzialmente equiparato la gran parte della dirigenza pubblica alla dirigenza privata. Quest’ultima, in base alla legge, è licenziabile ad nutum e non è mai
reintegrabile, salvo che il licenziamento sia dovuto a ragioni discriminatorie. Per la dirigenza pubblica - come del resto per quella privata - è però previsto dai contratti collettivi che un licenziamento privo di qualsiasi motivazione comporti il pagamento di un’indennità. Tale regime, comunque, non inficia la catena delle responsabilità: infatti, anche laddove può essere difficile dimostrare oggettivamente la ragione del licenziamento, il dirigente estromesso non può mai ottenere di diritto il posto in precedenza occupato. Può sembrare una scelta drastica; ma è evidente che questo equilibrio regolativo serve a perpetuare la legittimazione del vertice organizzativo rispetto a valutazioni insindacabili sull’idoneità a farne parte. Tale legittimazione è così importante da far affievolire la tutela giuridica dell’interesse del lavoratore a non perdere il proprio posto di lavoro se non in presenza di una giustificazione (un interesse tutelato anche come diritto fondamentale dell’Unione europea: v. art. 30 della Carta di Nizza, ora incorporata nel Trattato di Lisbona). La chiarezza di questi equilibri normativi esistenti nel “privato”- più concettuale che reale in verità - conosce però nel pubblico vari offuscamenti.
Molte le ragioni di contesto: a) il vertice delle organizzazioni ha una natura polivalente e anfibia, essendo composta non da soggetti omogenei (come nell’impresa individuale e, alla fin fine, anche societaria) ma da soggetti completamente diversi, anche per circuiti di legittimazione (il politico è in genere eletto; il dirigente pubblico è, in genere, assunto per pubblico concorso); b) vi sono vincoli costituzionali tendenzialmente espansivi, come una più invasiva cogenza del principio di eguaglianza, l’obbligo di imparzialità, il concorso pubblico; c) i meccanismi di finanziamento e le tecniche gestionali sono più formalizzati; d) le situazioni sindacali sono più radicate e omologanti. Determinante però è il tipo di dirigenza in servizio, che, per un verso, si identifica con il vertice politico (soprattutto nei ministeri e negli alti gradi di comuni, regioni, asl), e, per
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l’altro, non fa sostanzialmente parte di nessun vertice, essendo del tutto simile, per cultura e per mansioni, al restante personale pubblico (così in gran parte della sanità, nella scuola o nelle ipertrofiche dirigenze di regioni ed enti locali).
Le peculiarità del contesto hanno finito per condizionare sempre di più anche la riforma del licenziamento della dirigenza pubblica, rendendo il quadro legislativo meno chiaro rispetto al privato e inducendo i giudici a farne un’opinabile applicazione.
Sotto il primo aspetto la riforma del ’98, pur eliminando le residue specialità di stampo pubblicistico del rapporto di lavoro dirigenziale contenute nel D.Lgs.
n. 29/93, evitò di precisare la latitudine delle peculiarità normative che venivano conservate, soprattutto in ordine alla dettagliata regolamentazione della responsabilità di risultato. Si è creato così un notevole problema interpretativo che la Cassazione ha di recente affrontato per la prima volta (ma speriamo non in via definitiva) in modo ben poco coerente con la generale direttrice dell’unificazione normativa tra dirigente pubblico e privato. In particolare la sentenza n. 2233 del gennaio 2007, a proposito dell’annullamento del licenziamento di un dirigente dell’Agenzia delle Dogane per mancato superamento del periodo di prova, ha ritenuto applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro. Tale orientamento interpretativo del quadro legislativo non è affatto scontato (in senso conforme v. Trib. Napoli gennaio 2003; contra X.Xxx. Napoli 31 ottobre 2004 n. 4939, che riforma la sentenza appena citata; Trib.Firenze 15 gennaio 2004). In effetti una ricostruzione abbastanza lineare della riforma del ‘98, pur considerata nella sua poco lineare evoluzione, potrebbe portare ad applicare alla dirigenza pubblica la legislazione generale in materia di dirigenza privata, che, come si è detto, non prevede l’applicazione dell’art. 18, salvo che non si sia in presenza di un licenziamento discriminatorio. Questa soluzione, che è la più semplice e
immediata, viene complicata dal fatto che il D.Lgs. n. 165/2001 (ma già il X.Xxx.
n. 29/93, seppure con qualche non irrilevante differenza) prevede un particolare procedimento per contestare al dirigente la responsabilità di risultato o dirigenziale. L’art. 21 del D.Lgs. 165 prevede infatti che un comitato di garanti debba dare un parere vincolante sul licenziamento intimato per inosservanza delle direttive o mancata realizzazione degli obiettivi; la stessa norma poi, con intenzione chiaramente garantista, gradua le reazioni nei confronti del dirigente al quale si voglia contestare la realizzazione del risultato cui lo stesso è tenuto per contratto. In considerazione di questa disciplina la Cassazione, con la sentenza citata, ha interpretato l’art. 21 come norma dalla quale dovrebbe dedursi una deroga complessiva alla legislazione generale lavorista in materia di licenziamento del dirigente pubblico. Xx ha ritenuto applicabile la reintegrazione ex art. 18 Stat.lav.
La ricostruzione è, a mio parere, decisamente forzata, almeno per due motivi: perché la deroga per tabulas riguarda soltanto la responsabilità di risultato; perché, come s’è detto, la stessa contrattazione collettiva, sin dalla prima tornata dei “contratti di area” (è questa la denominazione dei contratti nazionali per i dirigenti pubblici), ha sposato un’interpretazione che esclude l’applicabilità dell’art. 18 Stat. lav. al dirigente pubblico. D’altronde la deroga al regime della libera recidibilità contenuta nel D.Lgs. 165 si spiega agevolmente anche circoscrivendone la portata: se l’amministrazione sceglie di contestare al dirigente la responsabilità di risultato, entra in un percorso in cui tale responsabilità va verificata in relazione a regole particolari che la presidiano, ivi compreso un parere conforme del comitato dei garanti. Il D.Lgs. 165 con tali regole obbliga in sostanza l’amministrazione a seguire questo procedimento se vuol far valere la responsabilità di risultato, che garantisce di più sia il dirigente sia l’amministrazione, perché consente a quest’ultima di far funzionare la
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responsabilità del risultato in maniera oggettiva e trasparente. E ciò appare anche coerente con le indicazioni della recente giurisprudenza costituzionale (sentenze 233/2006; 103 e 104 del 2007), cui si richiama soprattutto il ddl n. 847. Al di fuori di questo percorso, il cui funzionamento sta particolarmente a cuore al legislatore, l’amministrazione può legittimamente utilizzare la potestà generale di licenziare un dirigente prevista per il datore di lavoro privato, seppure rivista alla luce della giurisprudenza costituzionale appena citata, che sembra imporre comunque un onere di motivazione. In tal caso l’amministrazione torna ad utilizzare quelli che sono i poteri del datore di lavoro privato, esponendosi però ad un rischio: che il licenziamento possa essere considerato nullo per ragioni discriminatorie, con conseguente condanna alla reintegrazione. Al riguardo non c’è bisogno di invocare nessuna disciplina speciale, perché la disciplina del licenziamento nullo, anche per il dirigente privato, prevede la possibilità di applicare l’art. 18 Stat. lav. quando a fondamento del licenziamento ci siano ragioni discriminatorie anche di carattere politico. Naturalmente, xxxxx ripeterlo, l’amministrazione che licenzia un dirigente in maniera arbitraria, non seguendo un procedimento trasparente ed oggettivo, si espone ad un’azione giudiziaria per licenziamento discriminatorio.
In conclusione si può senz’altro ritenere che il quadro normativo di stampo privatistico abbia in sé adeguati anticorpi per l’eventualità che il licenziamento del dirigente venga disposto per ragioni di discriminazioni politiche (come di altre discriminazioni:
v. artt. 4 della L. n. 604/66, 15 della L. n. 300/70, 3 della L. n. 108/90). È vero però che il legislatore non ha mai dichiarato apertamente e lucidamente la preferenza per questo quadro legislativo, apparendo addirittura più prudente rispetto alla contrattazione collettiva. Perciò, per elevare l’effettività della riforma degli anni Novanta, sarebbe senz’altro opportuno chiarire le regole legali in materia. Nessuno dei
disegni di legge presentati di recente sembra invece diretto a intervenire su questo punto di cruciale importanza. Questa lacuna è abbastanza spiegabile per l’ 847, che, muovendosi in una logica di più rigida regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale, si allontana dalla prospettiva di equiparazione tra dirigente pubblico e privato. Ma così si rischia di perdere una preziosa occasione per portare a compimento una difficilissima evoluzione legislativa, messa in discussione da sentenze autorevoli, ma non motivate con particolare sensibilità ai profili sistematici più generali.
Ove mai si decidesse di reintervenire legislativamente sul licenziamento del dirigente pubblico, sarebbe però assolutamente necessario accompagnare il chiarimento generale sulla inapplicabilità della reintegrazione con una tutela rafforzata del dirigente licenziato per ragioni discriminatorie, soprattutto di tipo politico, al fine di alleggerire l’onere probatorio e di circondare l’ordine di reintegrazione di una particolare cogenza, scoraggiando così ulteriormente l’uso intimidatorio o ultroneo dell’istituto da parte di una politica che tendesse a travalicare il suo ruolo istituzionale. Pericoloso, e finanche inconstituzionale (è in ballo l’imparzialità di cui all’art. 97 Cost.), sarebbe infatti accentuare la precarizzazione della dirigenza quanto ai suoi rapporti con il vertice politico.
Per le ragioni articolatamente esposte sarebbe dunque auspicabile che uno dei principi di delega in materia di dirigenza contenesse un riferimento alla necessità di confermare l’omogeneità dei meccanismi sanzionatori del licenziamento illegittimo del dirigente pubblico rispetto a quelli previsti dalla legislazione per i dirigenti privati, migliorando però la tutela antidiscriminatoria dei dirigenti pubblici e rafforzandone la tutela processuale.
Siccome poi, come si è accennato, la storia remota e recente del lavoro pubblico italiano non agevola la distinzione tra dirigenza che è tale solo di nome e dirigenza realmente investita
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di compiti manageriali, può essere opportuno, nel chiarire la disciplina del licenziamento, reintrodurre sanzioni disciplinari c.d. conservative (come sembra fare, ad esempio, l’art. 17 del ddl di riforma della dirigenza pubblica presentato, alla Camera dei deputati, il 9 maggio 2008: v. A.C. 950), simili a quelle utilizzabili per gli altri lavoratori dipendenti, ma ritenute nel privato non coerenti con l’appartenenza al vertice organizzativo. Ancora per molti anni è infatti realistico pensare che nel pubblico sarà difficile reagire con sanzioni espulsive (cioè essenzialmente con il licenziamento) dinanzi a responsabilità non di grande rilievo, quali sono quelle in cui incorrono molti dipendenti pubblici che rivestono solo formalmente la qualifica di dirigente.
NOTE
1 Alle origini della scuola napoletana è la fondamentale opera di Xxxxx Xxxxxxxx, L’impiego pubblico in Italia, Il Mulino, 1978. Per le successive vicende oggettive e soggettive sia consentito rinviare a Zoppoli L., Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego. Dalla legge quadro alle politiche di “privatizzazione”, Napoli, Jovene, 1990 (seconda ediz. ampliata di Contrattazione e delegificazione, Napoli, Jovene, 1986); Zoppoli L., Autonomia collettiva e pubbliche amministrazioni, in D’Xxxxxx X. (a cura di), Letture di diritto sindacale, Napoli, Jovene, 1990, p. 127 ss.; Rusciano-Zoppoli L. (a cura di), Il lavoro pubblico, Il Mulino, 1993; Xxxxxxxx - Xxxxxxx X. (a cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 1993; Xxxxxxxx- Xxxxxxx L., Lo spazio negoziale nella disciplina del lavoro pubblico, Il Mulino, 1995; Xxxxxxx X. (a cura di), Contratti collettivi a confronto: impiego pubblico industria, servizi, X. Xxxxxx, 1996; Corpaci X.- Xxxxxxxx - Xxxxxxx X. (a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche (d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), in Nuove leggi civili, 1999, p. 1361 ss.; Carinci F.-Zoppoli L., Progettando il testo unico sul pubblico impiego, in Lav. pubbl. amm., 2000,
n. 1; Xxxxxxx X., La revisione delle norme della legge 23.10.1992 n. 421 e del d.lgs. 3.2.1993 n. 29 e i decreti correttivi riguardanti i rapporti individuali di lavoro, in D’Xxxxxx, Xxxxxxxx, Talamo (a cura di), Riforma del lavoro pubblico e
riforma della pubblica amministrazione (1997- 1998), Xxxxxxx, Milano, 2001; Xxxxxxx L:, Alla ricerca della razionalità sistematica della riforma del lavoro pubblico. Considerazioni su “un testo unico che non c’è”, in Lav. pubbl. amm., 2001, supplemento al n. 2; Zoppoli L., La riforma del titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i “pezzi” di un difficile puzzle?, in Lav. pubbl. amm., 2002, quad. speciale; Xxxxxxx X., La (piccola) “controriforma” della dirigenza nelle amministrazioni pubbliche non statali: prime riflessioni critiche, in Lav. pubbl. amm., 2002, p. 911 ss.; Xxxxxxx X., La ricerca di un nuovo equilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione integrativa, in Rassegna sindacale, 2003, n. 4, p. 99 ss.; Xxxxxxx X., Dieci anni di riforma del lavoro pubblico, in Lav. pubbl. amm., 2003; Xxxxxxx X., Accertamento pregiudiziale e contratto collettivo: ancora una sentenza tranquillizzante (nota a Corte Cost. 5.6.2003 n.
199), in Diritti Xxxxxx Xxxxxxx, 2003, n. 2; Zoppoli L., La reintegrazione del dirigente pubblico tra “capriccio degli organi politici” e “giurisprudenza creativa”, in Diritti Lavori Mercati, 2003, n. 2; Xxxxxxx L., Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, e Xxxxxxx X.-Xxxxxxx M., L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni; I Comitati di settore, in Carinci F.-Zoppoli L. (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Utet, 2004, vol. I; Xxxxxxx X., Il contratto collettivo nella riforma del lavoro pubblico, in Scritti in memoria di Xxxxxxx X’Xxxxxx, Milano, 2004, III, p. 3013 ss.; Xxxxxxx L:, La riforma della contrattazione collettiva vista dal versante del lavoro pubblico, in Riv.it.dir.lav, 2006, I; Xxxxxxx X., Una riforma che riprende faticosamente il suo cammino, in Riv.giur.lav., 2007, I, p. 289 ss.; Xxxxxxx L., Qualità dei servizi e del lavoro nell’eterna riforma delle pubbliche amministrazioni, in Lav. pubbl. amm., 2007, n. 3-4; Xxxxxxx X., La valutazione delle prestazioni della dirigenza pubblica: nuovi scenari, vecchi problemi, percorsi di “apprendimento istituzionale”, in WP Xxxxxxx X’Xxxxxx 2007/66, xxx.xxx.xxxxx.xx, e in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx, 2008 (in corso di pubblicazione); Xxxxxxx L., A dieci anni dalla riforma Xxxxxxxxx: dirigenza e personale, in Lav. pubbl. amm., 2008,
p. 1 ss., e in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxx,
Napoli, 2008.
2 Per ragioni di spazio rinvio soprattutto agli ultimi scritti citati in nota 1.
3 Anche qui, per ragioni di spazio, rinvio
soprattutto a Xxxxxxx X., La valutazione delle prestazioni della dirigenza pubblica: nuovi scenari, vecchi problemi, percorsi di “apprendimento istituzionale”, cit. alla nota 1.
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