La riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92∗ Valerio Speziale
La riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92∗ Xxxxxxx Xxxxxxxx
1. L’incremento della flessibilità “in entrata” 185
2. Il «primo rapporto a tempo determinato» “acausale” 186
3. Il rapporto a termine “alternativo” a quello “acausale” 192
4. La prosecuzione del contratto dopo la scadenza 195
5. Gli intervalli temporali tra i contratti a termine ed il periodo massimo di 36 mesi 197
6. Il termine di decadenza per impugnare i licenziamenti o la nullità del termine 201
7. L’interpretazione autentica del regime risarcitorio per l’illegittima apposizione del termine205
8. La possibile violazione della clausola di non regresso 207
9. Riferimenti bibliografici 211
∗ Originariamente pubblicato come WP C.S.D.L.E. "Xxxxxxx X'Xxxxxx”.IT – 153/2012
1. L’incremento della flessibilità “in entrata”
La recente riforma del mercato del lavoro ha introdotto importanti innovazioni in tema di con- tratto a tempo determinato. La finalità è quella di ridurre la precarietà «favorendo l'instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato» quale «contratto dominante». Il tutto nell'ambito del contrasto all’«uso impro- prio e strumentale» delle tipologie contrattuali flessibili e «adeguando contestualmente alle esi- genze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento» (art. 1, c. 1, lettere a) e
c) l. n. 92/2012). In sostanza si persegue lo scopo di una diminuzione della "flessibilità in entrata" compensata da una più ampia "flessibilità in uscita" (Vallebona 2012, p. 11).
In verità questi obiettivi non sono coerenti con le nuove regole previste per il lavoro a termine. La nuova disciplina certamente contiene disposizioni che riducono la possibilità di utilizzare il con- tratto a tempo determinato in un'ottica di contenimento degli abusi e di maggior tutela del lavo- ratore. Tuttavia la riforma, con la previsione di un «primo rapporto» a tempo determinato "acau- sale" e di durata massima di 12 mesi, di fatto rafforza il lavoro a termine come contratto di in- gresso nel mondo del lavoro in assenza di ragioni oggettive che possono giustificare la sua stipu- lazione. In questo modo, il contratto a termine diventerà la forma generale di prima assunzione, scoraggiando la costituzione di rapporti stabili con apposizione del patto di prova. Anzi quest'ul- timo istituto - già di fatto depotenziato dalla ricchezza delle tipologie contrattuali alternative al lavoro standard via via introdotte negli anni - diventerà ancora meno conveniente per l'impresa. Non si vede, infatti, perché si debba assumere un lavoratore in prova per i periodi non molto lunghi stabiliti dai contratti collettivi quando vi è la possibilità di stipulare un contratto a termine di durata assai superiore che consente di sperimentare le capacità del dipendente (Voza 2012, pp. 6, 13). Lo stesso Ministero del Lavoro, tra l’altro, afferma che la finalità del primo rapporto “acausale” é quella di verificare le «attitudini e capacità professionali del lavoratore in relazione all’inserimento nello specifico contesto lavorativo» (Circolare 2012, p. 2), confermando come il nuovo contratto svolga la medesima funzione del patto di prova. Il maggior costo contributivo (1,4%, salvo i rapporti a termine esclusi)592 non è certo di entità tale da scoraggiare le assunzioni, anche perché gli esborsi effettuati sono in parte recuperabili in caso di stabilizzazione del rap- porto593. D'altra parte, la maggiore facilità di recedere durante la prova - nella quale non vi è la necessità della giusta causa come nel contratto a termine (Voza 2012, pp. 6 – 7) - è ampiamente compensata dalla possibilità di modulare la durata del contratto in modo da non utilizzarlo per i 12 mesi previsti dalla legge ma per un tempo in ogni caso più lungo degli ordinari periodi di prova previsti dai contratti collettivi e comunque tale da non determinare costi eccessivi nel caso di recesso prima della scadenza e senza una valida giustificazione.
592 L’aumento contributivo, infatti, non è previsto per i contratti a termine per la sostituzione di lavoratori assenti, per gli stagionali, gli apprendisti ed i lavoratori pubblici (art. 2, c. 28 e 29, della l. 92/2012). Sul punto si vedano Voza (2012, p. 12); Xxxxxxx (2012, p. 30). 593 La restituzione del contributo é prevista nel limite massimo di sei mesi in caso di trasformazione del contratto in uno stabile ovvero di assunzione a t. indeterminato entro sei mesi della precedente cessazione del contratto a termine (Voza 2012, p. 13). Questo a., tra l’altro, sottolinea come la possibilità di recuperare 6 mesi su 12 di contributo addizionale costituirà un ulteriore deterrente ad utilizzare il patto di prova, perché l’impresa avrà sempre la convenienza ad usare un contratto a termine almeno per sei mesi (e, quindi per un periodo molto più lungo di quello in genere previsto dai ccnl) nella evenienza poi di stabilizzare il lavoratore e di recuperare il contri- buto (ad un costo quindi non superiore di quello di un normale rapporto di lavoro ed avvantaggiandosi della durata più lunga del contratto).
Il confronto tra la nuova disciplina del rapporto a termine "causale" ed il contratto di inserimento (abrogato dall'articolo 1, comma 14, della l. 92/2012) conferma che la riforma ha ampliato i mar- gini della "flessibilità in entrata". In precedenza la prima assunzione doveva essere effettuata con un rapporto fondato su esigenze temporanee (secondo l’interpretazione accolta anche dalla giu- risprudenza per tutti i contratti a termine, incluso quello di inserimento) e con l'obbligo di realiz- zare le (modeste) esigenze formative contenute nel «progetto individuale di adattamento delle competenze professionali» definito dalla contrattazione collettiva. Inoltre, la legge prevedeva li- miti soggettivi (con riferimento specifico anche ai giovani ed ai datori di lavoro) ed oggettivi (in relazione, ad es., ai rapporti di lavoro stabilizzati quale condizione di accesso all'istituto). Oggi, al contrario, tutta questa normativa è stata eliminata ed è autorizzato un contratto a termine assai lungo, senza causale giustificativa, privo di qualsiasi obbligo formativo e di conversione in lavoro stabile dei contratti precari già stipulati. In sostanza, il contratto a termine é ormai la dimensione fisiologica di prima occupazione con un'impresa, anche per i lavoratori non giovani (vista l'assenza di limiti di età) e che hanno avuto già pregresse esperienze lavorative con altri datori di lavoro.
Mi sembra, dunque, che la "precarietà in entrata" nel mondo del lavoro è destinata ad aumentare e che la nuova disciplina non è certo tale da poter attribuire al lavoro stabile il ruolo di «contratto dominante» almeno quale strumento di ingresso al lavoro. Nella situazione attuale, antecedente alla riforma, vi é già «il forte ricorso alle assunzioni con contratti a tempo determinato che nel periodo (ndr: 2005 – 2010) giungono a rappresentare in media circa il 71,5% degli ingressi» nell’occupazione (Istat 2012a, p. 5), in un contesto comunque di estesa diffusione del lavoro a termine, attualmente pari al 10,7% della forza lavoro (Istat 2012b, p. 7). Da questo punto di vista la riforma ha introdotto ulteriori elementi di flessibilità che, in considerazione dell'ampia utilizza- zione dei contratti a tempo determinato, non potrà certo essere compensata dalla limitazione (sicuramente positiva) del ricorso al contratto a progetto o alle "false partite Iva".
In realtà, tenendo conto della indiscutibile flessibilizzazione anche nella disciplina dei licenzia- menti individuali, “l’equilibrio” tra riduzione della precarietà nell’ingresso del mondo del lavoro e maggior facilità di interruzione del contratto di lavoro non mi sembra realizzata.
2. Il «primo rapporto a tempo determinato» “acausale”
La novità più significativa introdotta dalla riforma è quella della possibilità di stipulare un «primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a 12 mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualsiasi tipo di mansioni, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione…» nell'ambito della somministra- zione di manodopera594. Questo contratto non ha bisogno delle esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive previste per tutti i rapporti a termine, ed è quindi "acausale". In so- stanza, non richiede alcuna giustificazione e si fonda sulla semplice volontà delle parti di intro- durre un termine finale al contratto. La disposizione va coordinata con il nuovo comma 01 dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 («il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro»), che ha sostituito il testo inserito nel 2007 («il contratto di lavoro subordinato é stipulato di regola a tempo indeterminato»). La nuova formulazione, che richiama il Preambolo ed il Considerando n. 6 dell'accordo quadro recepito nella direttiva
594 Art. 1, c. 9, lettera b), l. 92/2012, che ha introdotto il c. 1 bis all’art. 1 del d.lgs. 368/2001.
1999/70/CE del 28 giugno 1999, ribadisce la «relazione tra ordinarietà del contratto a tempo in- determinato e specialità di quello a termine» (Xxxxxxx 2008, p. 649). Un rapporto tra "regola" e "deroga" che la nuova legge sicuramente ribadisce.
La nuova disposizione non è priva di significato rispetto a quella preesistente595, né può essere considerata «evanescente» (Xxxxxxxxx 2012, p. 1). Essa, in realtà, serve proprio a giustificare il
«primo» contratto a termine "acausale". Infatti, come avevo già in precedenza sottolineato (Spe-
ziale 2010, p. 289), la Corte di Giustizia Europea ha affermato che il primo rapporto a t. determi- nato può essere privo di ragioni obiettive e quindi non fondato su esigenze tecniche o organizza- tive (anche se questa tesi era stata contestata dalla Cassazione)596. Pertanto, l’art. 0, x. 0, xxx x.xxx. 000/0000, xxx ponendosi in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, introduce una disposizione di miglior favore sicuramente compatibile con la fonte comunitaria (clausola 8, comma 1, dell'ac- cordo quadro recepito nella direttiva). La riforma del 2012 vuole ribadire che la nuova disciplina del primo contratto acausale é certamente coerente con il "diritto vivente" della Corte di Giustizia che si è formato sulla direttiva e questo spiega la ripetizione della medesima disposizione norma- tiva ivi contenuta. Essa, inoltre, sempre in conformità alla interpretazione adottata dalla giuri- sprudenza europea, intende indirettamente riaffermare la necessaria "causalità" dei contratti a termine successivi al primo. Una conclusione, quest'ultima, che è confermata dalla stessa con- trapposizione tra il «primo rapporto» regolato dal nuovo comma 1 bis e le «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» del comma 1, evidentemente applicabili a tutti i contratti a termine diversi dal primo.
La legge, infatti, pur introducendo una notevole eccezione, ribadisce la necessaria giustificazione dei rapporti a t. determinato quale caratteristica fisiologica del lavoro a termine. Essa, inoltre, conferma indirettamente la tesi delle esigenze temporanee di lavoro da me già sostenuta (Spe- ziale 2001, p. 377 ss.; Id. 2003, p. 399 ss.; Id. 2008a, p. 188 ss.) ed accolta dalla maggior parte della dottrina ed anche dalla giurisprudenza597. Il legislatore, infatti, proprio in considerazione della prevalente interpretazione sulla causale temporanea, è intervenuto per escludere espres- samente tale necessità nel «primo» contratto. Mentre una simile riforma non sarebbe stata as- solutamente necessaria qualora si fosse ritenuto che le esigenze tecnico organizzative presuppo- nevano soltanto l'esistenza di ragioni oggettive e verificabili ma senza necessità della tempora- neità delle causali economiche e quindi anche per l'utilizzazione di lavoro stabile (Vallebona, Pi- sani 2001, p. 27 ss.).
Senza dimenticare, d’altra parte, che, come ho già avuto modo di sostenere (Speziale 2001, p. 377 ss.; Id. 2003, p. 399 ss.; Id. 2008a, p. 188 ss.; Id. 2010, p. 285 ss.), la causale temporanea è l’unica spiegazione plausibile per giustificare un contratto che è una “deroga” alla «forma comune di rapporto di lavoro» (a t. indeterminato), a meno di non voler affermare la piena fungibilità tra le due tipologie contrattuali, secondo una tesi da alcuni sostenuta (Vallebona, Pisani 2001, p. 27 ss.) ma respinta dalla dottrina e dalla giurisprudenza (anche comunitaria) prevalenti (da ultimo,
595 Si è detto infatti che «la norma non ha proprio niente di nuovo, né il sapore né lo stile» (Rausei 2012, p. 1321).
596 Si veda, ad esempio, Cass. 21 maggio 2008, n. 12985, in FI, 2008, I, c. 3583 ss.
597 Per l’analisi delle diverse interpretazioni in materia rinvio a Speziale (2008a, p. 188 ss.); Xxxxxxxxxxx (2008, p. 93 ss.), Xxxxxx (2010,
p. 219 ss.), Voza (2012, p. 1 ss.) con indicazione degli autori che aderiscono, in xxx xxxxxxxxxx, xxxx xxxx della temporaneità. Questa interpretazione è stata recentemente fatta propria anche dalla Cassazione (Cass. 27 aprile 2010, n. 10033, in RIDL, 2010, II, p. 41 ss.; Cass. 11 maggio 2011, n. 10346, XX, 0000, p. 26 ss).
in tal senso, anche Voza 2012, p. 2). Tra l’altro, la impossibilità di considerare fungibili i due mo- delli negoziali (ad eccezione del «primo rapporto» a termine) è espressamente confermata dal legislatore anche in base a quanto specificato nell’art. 1 della l. 92/2012, quando si ribadisce il carattere «dominante» del lavoro a tempo indeterminato quale «forma comune di rapporto di lavoro». Infine, in sede di presentazione del disegno di legge governativo, è stato espressamente chiarito che l’introduzione di un contratto a termine “acausale” avveniva «nella logica di contra- stare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato» (Ministero del Lavoro 2012, 5). Si tratta di elementi che confermano la volontà dell’Esecutivo e del Parla- mento di non assimilare le due tipologie contrattuali e di considerare il termine come una ipotesi derogatoria rispetto a quella ordinaria.
Il contratto a termine “acausale” ovviamente non richiede la specificazione delle esigenze tecni- che produttive od organizzative, che non esistono598. Tuttavia è sempre necessaria la forma scritta ad substantiam, perché la deroga riguarda solo le «ragioni» per cui si stipula il contratto e non modifica la prima parte del comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. 368/2011 («l’apposizione del ter- mine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto…»)599. Inoltre, il «primo rapporto» non può essere prorogato600, perché la proroga presuppone «ragioni ogget- tive» che sono qui assenti (Vallebona 2012, p. 18), oltre che per il carattere eccezionale e dero- gatorio di un contratto a termine “acausale” rispetto a quello ordinario, fondato su necessità temporanee di lavoro. La proroga, infatti, riflette la necessità di un prolungamento del contratto iniziale sempre per esigenze temporanee e non è quindi compatibile con un accordo individuale che prescinde dalla temporaneità delle ragioni del lavoro.
Il «primo rapporto» può essere realizzato con un’assunzione a termine diretta o nell’ambito di una somministrazione di mano d’opera. Si è sostenuto che il contratto “acausale” non consente un precedente rapporto a t. determinato, mentre sarebbe compatibile con anteriori contratti di lavoro subordinato stabile, con l’apprendistato, il lavoro intermittente ed anche con il lavoro au- tonomo in forma coordinata e continuativa (Vallebona 2012, p. 19). Al contrario si è affermato che «l’esenzione della causale non (può) applicarsi in ogni caso in cui tra le parti sia stata prece- dentemente instaurata una relazione lavorativa, anche tramite rapporti diversi dal contratto a tempo determinato» (Xxxxxxx 2012, p. 28; conf. Chiusolo 2012, p. 16). In realtà la formulazione letterale della nuova disposizione consente entrambe le conclusioni descritte, a seconda che si valorizzino le parole «primo rapporto» - inteso come relazione contrattuale di qualunque tipo che sia necessariamente la «prima» – o le si colleghino in modo indissolubile a quelle successive, con- siderando l’espressione «primo rapporto a tempo determinato» come inscindibile. In quest’ul- xxxx xxxx, il contratto “acausale” sarebbe compatibile con pregresse e diverse tipologie contrat- tuali di altra natura.
598 Art. 1, c. 9, lettera c), della l. n. 92/2012.
599 Il carattere ad substantiam della forma scritta è confermato da dottrina e giurisprudenza. Si vedano Speziale (2010, p. 290 ss.), Xxxxxxxxxxx (2008, p. 322 ss.), con indicazione della dottrina e giurisprudenza.
600 Art. 1, c. 9, lettera d), l. 92/2012, che introduce un comma 2 bis all’art. 4 del d.lgs. 368/2001. Conf. anche Voza (2012, p. 5), Xxxxxxx
(2012, p. 28); Xxxxxxxx (2012, p. 17); Xxxxxxxxx (2012, p. 3).
La potenziale ambiguità del testo suggerisce di risolvere il problema cercando di individuare la ratio perseguita dalla nuova normativa. A me sembra che essa abbia la finalità di garantire, attra- verso il contratto “acausale”, l’accesso ad una prima occupazione presso un determinato datore di lavoro, diventando un surrogato del patto di prova. Il Ministero del Lavoro rileva come questo
«primo rapporto» è diretto «ad una migliore verifica delle attitudini e capacità professionali del lavoratore in relazione all'inserimento in uno specifico contesto lavorativo; pertanto non appare coerente con la ratio normativa estendere il regime semplificato in relazione a rapporti in qualche modo già 'sperimentati'. Ciò a maggior ragione vale per la stipula di contratti a tempo determi- nato con lo stesso datore di lavoro con cui si è intrattenuto un precedente rapporto a tempo indeterminato» (Circolare 2012, p. 2). Mi sembrano considerazioni condivisibili (così anche Voza 2012, p. 6) e coerenti con l’obiettivo di “sperimentare” il lavoratore (con una finalità simile a quella del contratto di inserimento, oggi abrogato e sostituito dal nuovo modello contrattuale). D’altra parte, lo scopo complessivo della legge è quello di favorire rapporti stabili, considerati come «contratto dominante» e di contrastare «l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con le tipologie contrattuali» (art. 1, c. 1, lettere a) e c), l. n. 92/2012). In questo contesto, consentire l’instaurazione di un rapporto a t. determinato privo di ragioni oggettive e temporanee dopo aver già stipulato con il medesimo datore di lavoro forme diverse di lavoro subordinato od autonomo significa creare una ulteriore forma di lavoro precario che è in assoluto contrasto con le finalità perseguite dalla legge anche in relazione ai contratti a progetto od alle “partite Iva”, riformati in senso restrittivo ed anti elusivo. Tutte queste considerazioni mi inducono a valorizzare le parole «primo rapporto», intendendole come prima relazione contrattuale incompatibile con precedenti contratti di qualsiasi natura in- tercorsi tra le medesime parti601.
L’interpretazione letterale e sistematica descritta esclude che sia possibile avere diversi… “primi rapporti a tempo determinato” tra le medesime parti, mentre ovviamente vi potrebbero essere distinti contratti “acasuali” con lavoratori differenti (Voza 2012, p. 4. ss.). Dopo l’iniziale contratto a termine privo di esigenze tecniche ed organizzative sarà possibile stipulare con lo stesso datore di lavoro e lavoratore esclusivamente contratti fondati su ragioni temporanee di lavoro. Il comma 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 fa riferimento ad un rapporto a termine «per lo svolgimento di qualsiasi tipo di mansione» (e senza quindi limiti connessi alla professionalità come era ad esempio previsto in origine per il lavoro temporaneo regolato dalla legge 196/1997). Ci si è chiesti quale influenza questa previsione possa avere sul limite complessivo dei 36 mesi previsto dal comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 (Voza 2012, p. 5). La questione verrà successivamente esaminata. Non vi è dubbio, peraltro, che questo «primo rapporto» “acausale” non sia comunque ripetibile a prescindere dalle mansioni svolte e per le ragioni più volte spiegate (Circolare 2012, p. 2). E per arrivare a tali conclusioni non è necessario far riferimento al divieto di abusi nella suc- cessione dei contratti a termine previsti dalla direttiva 1999/70/CE o al carattere di «norma ecce- zionale» del comma 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001, non estensibile in via analogica (Voza
601 La Circolare Ministeriale n. 18/2012 conferma il divieto di stipula del contratto acausale quando tra le parti vi è stato «già un primo rapporto lavorativo di natura subordinata» (p. 2), lasciando quindi aperta la possibilità di avere una assunzione a t. determinato se in precedenza vi erano stati contratti di lavoro autonomo. Tuttavia, la finalità di “contratto di ingresso” del lavoro a termine senza giu- stificazione, l’intento della legge di ridurre la precarietà del lavoro e l’abuso dei contratti flessibili, la possibilità, anche tramite un xx.xx.xx o un lavoro a progetto di verificare «le attitudini e le capacità del lavoratore in relazione all’inserimento nello specifico con- testo lavorativo» (Circolare 2012, p. 2) sono tutti elementi che mi portano a ritenere che la preclusione operi anche in presenza di pregressi rapporti di lavoro autonomo.
2012, pp. 5 – 6). La formulazione letterale della disposizione e le finalità perseguite dalla legge non lasciano dubbi sulla unicità di questo particolare contratto a termine privo di giustificazione.
Se il contratto “acausale” supererà i 6 mesi, il lavoratore potrà usufruire del diritto di precedenza nelle assunzioni stabili ai sensi dell’art. 5, comma 4 quater, del d.lgs. 368/2001 (che lo condiziona a questa durata minima), mentre non ne avrà diritto se sarà più breve (Voza 2012, p. 4). Non dovrebbe inoltre operare il diritto di precedenza previsto per i contratti stagionali (art. 5, comma 4 quinquies del d.lgs. 368/2001), perché, trattandosi di un contratto privo di giustificazione «è ben difficile che il datore di lavoro dichiari la natura stagionale dell’attività». Tuttavia il lavoratore potrebbe fruire del beneficio se riesce «a provare che la propria assunzione è stata legata alla stagionalità» del lavoro (Voza 2012, p. 5).
Il rapporto di lavoro “acausale” potrà operare anche «nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276» (art. 1, c. 1 bis, d.lgs. 368/2001, aggiunto dalla l. n. 92/2012)602. Si è dubitato se tale formulazione si riferisca al contratto com- merciale o a quello di lavoro con l’Agenzia (Xxxxxxx 2012, pp. 28 – 29). In verità la norma è chia- rissima, perché parla di «utilizzatore» e di «missione» svolta «ai sensi del comma 4 dell’art. 20» del d.lgs. n. 276/2003. È evidente, quindi, che la disposizione incide sul contratto commerciale di somministrazione, venendo a derogare al principio delle «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore» sancito dall’art. 20 sopra citato (conf. Rosolen 2012, p. 17). Ovviamente, poiché ai sensi dell’art. 22, comma 2, del d.lgs. 276/2003 il rapporto tra lavoratore ed Agenzia è regolato dal d.lgs. 368/2001 (salvo ecce- zioni), è evidente che anche tra questi soggetti sarà possibile stipulare un «primo rapporto a tempo determinato». Ed anzi è plausibile che «primo» contratto e prima «missione» potranno venire a coincidere, visto il collegamento negoziale tra le due tipologie negoziali. Ciò non esclude, ovviamente, anche la possibilità di tenere distinti i due aspetti. Con la conseguenza, ad esempio, che un lavoratore già assunto a termine in precedenza dall’Agenzia non potrà instaurare un
«primo rapporto» di lavoro “acausale”, ma, ad es. nell’ambito di un contratto a termine fondato
su esigenze tecnico organizzative o in forza di un’assunzione a t. indeterminato, potrà essere in- viato ad una prima «missione» che non richiede una giustificazione specifica. Mentre, se la mis- sione è successiva ad un’altra già svolta dal medesimo soggetto e nei confronti dello stesso utiliz- zatore, sarà necessario, anche per il contratto commerciale, che vi siano le esigenze tecniche ed organizzative previste dall’art. 20 del d.lgs. 276/2003603.
Si è affermato che il nuovo comma 1 bis non è coordinato con le ipotesi "acausali" di sommini- strazioni commerciali previste dall'art. 4, c. 1, lettera c), del d.lgs. 2 marzo 2012 n. 24 (relative ai disoccupati, ai percettori di ammortizzatori sociali, ai lavoratori «svantaggiati» o «molto svantag- giati»), che sarebbero state completamente ignorate (Xxxxxxx 2012, p. 29). In realtà la legge ha introdotto una «prima missione» di carattere generale e di tipo oggettivo (Rosolen 2012, p. 17),
602 Su tale aspetto cfr. Circolare (2012, p. 2); Xxxxxxx (2012, p. 17 ss.); Xxxxxxx (2012, p. 28 ss.).
603 La Cassazione, peraltro, ha recentemente affermato che l’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003 «introduce una causale ampia…per cui si impone più che mai di verificare ed accertare non la temporaneità o l’eccezionalità delle esigenze organizzative richieste per la somministrazione a termine…quanto, piuttosto, la effettiva esistenza delle esigenze alle quali si ricollega l’assunzione del singolo di- pendente, allo scopo di escludere il rischio di ricorso abusivo a forme sistematiche di sostituzione del personale dipendente atte a mascherare situazioni niente affatto rispondenti a quelle contemplate…» dalla disposizione (Cass. 15 luglio 2011, n. 15610).
che non richiede alcuna giustificazione e si aggiunge a quelle soggettive previste dall’art. 4 sopra citato. Nel caso di prima somministrazione commerciale a termine, la nuova disciplina del comma 1 bis - introdotta dall'art. 1, c. 9, lettera b), della l. n. 92/2012 - assorbe e rende irrilevanti le fattispecie regolate dall’art. 4, c. 1, lettera c), del d.lgs. 124/2012. Per tutte le missioni successive, l'esonero soggettivo dalle esigenze tecniche organizzative continuerà ad essere regolato da que- sta disposizione per le particolari categorie di lavoratori ivi previste (e, quindi, le due normative sono facilmente coordinabili).
La riforma non affida alla contrattazione collettiva il potere di stabilire limiti quantitativi al «primo rapporto a tempo determinato». Si è sostenuto, peraltro, che essi potrebbero essere inseriti ai sensi dell’art. 10, x. 0, xxx x.xxx. 000/0000 (Xxxx 2012, p. 4; Vallebona 2012, p. 20). In verità si potrebbe affermare il contrario, perché l’art. 10, c. 7, non riguarda il contratto a termine "acau- sale", ma solo quello fondato su esigenze tecniche od organizzative ai sensi del comma 1 dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001. Tuttavia, il nuovo «primo rapporto» non rientra tra le ipotesi di divieto espresso di introduzione di limiti quantitativi (start up, esigenze stagionali ecc.) previste dalla se- conda parte del c. 7 dell’art. 10 (Vallebona 2012, p. 20). D'altra parte, se il contratto collettivo decidesse di stabilire limiti quantitativi anche per il primo contratto a termine, si tratterebbe di una disciplina di miglior favore per il lavoratore rispetto alla legge, perché limiterebbe le assun- zioni non stabili. Essa, quindi, sarebbe sicuramente legittima in base al principio del trattamento più favorevole, che è parte integrante del nostro sistema giuridico (anche a livello comunitario) e consente ai contratti collettivi di migliorare le condizioni economiche o normative previste da fonti primarie in assenza di divieti (nel nostro caso assenti).
Il «primo rapporto a tempo determinato» non può essere superiore a 12 mesi e richiede, come si è detto, la forma scritta ad substantiam. I due limiti sopra indicati sono contenuti in norme imperative604. Pertanto, la loro violazione determinerà la conversione del contratto a termine in uno a t. indeterminato ai sensi degli artt. 1418 e 1419, c. 2, c.c., pur in assenza di un'espressa sanzione in tal senso che non è contenuta né nel d.lgs. 368/2001, né nella l. 92/2012 (che non si occupa minimamente di questo aspetto). La conversione, infatti, è conseguente all'applicazione dei principi civilistici in tema di nullità parziale, in coerenza con quanto da me già sostenuto in passato605 e con la giurisprudenza costante in materia di contratto a termine che costituisce or- mai un vero e proprio "diritto vivente"606.
Più problematico è individuare la sanzione applicabile qualora la missione “acausale” effettuata ai sensi del comma 1 bis non rispetti il limite dei 12 mesi ivi previsto. Anche in questo caso si è in presenza di una nullità del contratto commerciale di somministrazione a t. determinato per con- trasto con norma imperativa. Tuttavia, tale invalidità determina soltanto l'instaurazione di un rap- porto "di fatto" con l'impresa utilizzatrice e senza che vi sia una automatica costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore. Non va dimenticato infatti che l’art. 1 della legge 1369/1960 - il cui ultimo comma avrebbe consentito un tale risultato - è stato abrogato.
604 Rinvio, per la nozione di norma imperativa, a Speziale (2001, p. 406 ss.) e, più recentemente, a Speziale (2012, p. 373 ss.), con ulteriori indicazioni bibliografiche.
605 Speziale (2001, p. 406 ss.; 2008a, p. 216 ss.; 2012, p. 371 ss.) A questi saggi rinvio anche per l'indicazione delle opinioni contrarie
che in realtà ritengono applicabile l'art. 1419, c. 1, c.c.
606 Tra le tante x. Xxxx. 21 maggio 2008, n. 12985; Cass. 18 gennaio 2010, n. 629; Cass. 23 novembre 2010, n. 23684; Cass. 11 maggio 2011, n. 10346; Cass. 21 novembre 2011, n. 24479 e molte altre. Non è un caso che la conversione sia stata ritenuta dalla Corte costituzionale come “diritto vivente” (C. cost. 14 luglio 2009, n. 214, in MGL, 2009, p. 653).
D'altra parte, l'art. 27 del d.lgs. 276/2003 – che permette al lavoratore di agire in giudizio per la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore - si applica quando la som- ministrazione di lavoro avvenga «al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b) c), d) ed e)» del decreto legislativo. La nuova somministrazione “acausale” a termine di 12 mesi non è disciplinata dall’art. 20 del d.lgs. 276/2003, ma dal nuovo comma 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001. Si potrebbe quindi sostenere che l’art. 27 non è applicabile, perché riferito a fattispecie diverse.
Tuttavia, questa disposizione può essere estesa in via di interpretazione analogica. Infatti, la “la- cuna” – consistente nella mancanza di una sanzione espressa in caso della violazione della legge
– può essere colmata con la «disciplina prevista per un caso analogo che abbia…lo stesso razionale fondamento…» (Cass. 23 novembre 1965, n. 2404. In senso analogo Bobbio 1968a, p. 603 ss.; Xxxxxxxx 2004, p. 154 ss.). L’art. 27 del d.lgs. 276/2003 afferma il principio secondo il quale la somministrazione di lavoro priva dei requisiti sostanziali e formali imposti dalla legge può deter- minare la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore. Poiché la viola- zione del limite dei 12 mesi determina la lesione di un requisito essenziale stabilito dalla legge per la legittimità della “prima missione” regolata dal comma 1 bis, la sanzione prevista dall’art. 27 potrebbe essere analogicamente applicata anche in questo caso per l’identità di ratio legis607.
3. Il rapporto a termine “alternativo” a quello “acausale”
Il «primo rapporto a tempo determinato» può essere sostituito da un ulteriore contratto a ter- mine "acausale" (senza «il requisito di cui al comma 1» del d.lgs. 368/2001 che prevede le esi- genze tecniche od organizzative). Questo contratto può essere definito dall'autonomia collettiva
«nell'ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all'articolo 5, comma 3» e cioè per l'avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, l'implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, la fase supplementare di un signifi- cativo progetto di ricerca e sviluppo, il rinnovo o la proroga di una commessa consistente. Questi contratti a termine, peraltro, non possono superare il «6 per cento del totale dei lavoratori occu- pati nell'ambito della unità produttiva»608.
La riforma ritorna alla tecnica della delega al contratto collettivo di ipotesi aggiuntive di rapporto a termine rispetto a quelle legali, non limitandosi a concedere il potere di introdurre "tetti" quan- titativi, che è la scelta effettuata dal legislatore dal 2001 in poi, con l'evidente intento di ridurre il ruolo dei sindacati in materia. La nuova disposizione attribuisce alla contrattazione collettiva fun- zioni in parte tradizionali ed in parte innovative. Senza dubbio la legge aveva già in passato con- sentito al contratto collettivo di integrare le ipotesi stabilite dalla legge. Tuttavia é la prima volta che questa integrazione avviene per surrogare un contratto individuale "acausale" e con l'intento di introdurre nuove forme di lavoro a termine prive di ragioni oggettive. Si tratta di una novità assoluta, perché l'autonomia collettiva viene chiamata non a "flessibilizzare" la legge (riducendo
607 La costituzione di un rapporto di lavoro presso l’utilizzatore potrebbe essere conseguita anche in altro modo. Infatti, la nullità del contratto commerciale di somministrazione che eccede i 12 mesi potrebbe, per il collegamento negoziale, rendere invalido anche il contratto a termine con l’Agenzia in base al quale il dipendente è stato inviato in missione. Pertanto, il lavoratore, che ha svolto per lungo tempo la sua attività nell’organizzazione dell’impresa utilizzatrice e sotto la sua direzione, potrebbe chiedere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato.
608 Art. 1, comma 9, lettera b), della l. 92/2012, che, nella seconda parte del comma 1 bis aggiunto all’art. 1 del d.lgs. 368/2001, regola
questa nuova fattispecie. L’art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001 è stato modificato dall’art. 1, c. 9, lettera h), della l. 92/2012.
la sua rigidità), ma ad integrare l'autonomia individuale già… totalmente libera. Ora, a parte la scarsa convenienza ad utilizzare queste ulteriori tipologie contrattuali (su cui si tornerà), non si comprende perché si sia voluto intervenire in un ambito che non richiede alcuna ponderazione di interessi collettivi, visto che l'ordinamento già attribuisce alle parti del rapporto di lavoro una disponibilità piena e senza limiti del modello negoziale. L'unica spiegazione plausibile dell'inter- vento del contratto collettivo é quella di poter prevedere un termine di durata superiore (o infe- riore) a 12 mesi (v. infra), lasciando quindi alle parti sociali il compito di definire un tempo mas- simo che costituisce un punto di equilibrio (definito a livello collettivo) diverso da quello previsto dalla legge per il primo rapporto "acausale".
Si è detto che l'utilizzazione della «preposizione articolata (dalle) anziché semplice (da) esclude che si possa ipotizzare l'efficacia - ai fini richiesti dalla norma - di contratti collettivi stipulati solo da alcuni fra i sindacati più rappresentativi» (Voza 2012, p. 7). In verità, nonostante la enfatizza- zione della preposizione sia stata utilizzata per giustificare la contrattazione collettiva separata, non mi sembra che l'uso del «dalle» invece di «da» possa giustificare tali conclusioni. Entrambe le formulazioni utilizzate selezionano i soggetti sindacali abilitati a stipulare contratti ma senza incidere sulla possibilità che l'atto negoziale sia sottoscritto soltanto da uno o più organizzazioni. E, quindi, non è possibile escludere un contratto collettivo separato anche in questo ambito.
La legge, come si è visto, fa chiaramente intendere che anche i contratti a termine autorizzati dalla contrattazione collettiva sono "acausali". Tuttavia, poiché i rapporti a t. determinato pos- sono essere stipulati solo in presenza di ragioni economiche ed organizzative tassative, è facile osservare come esse riguardano situazioni transitorie limitate nel tempo e pertanto queste ipo- tesi di lavoro a termine sono in effetti giustificate soltanto da esigenze temporanee di lavoro (Voza 2012, p. 7; Vallebona 2012, p. 21) e non escludono quindi il controllo "causale" da parte del giudice (Vallebona 2012, p. 21; Voza 2012, pp. 7 - 8)609. In tale ambito si è giustamente sottoli- neato che le imprese difficilmente utilizzeranno queste tipologie contrattuali, perché non c'è con- venienza a stipulare contratti temporanei invece di quello “acausale” sino a un massimo di 12 mesi (Vallebona 2012, p. 20; Voza 2012, p. 7 - 8), anche in considerazione del limite quantitativo del 6%, non molto elevato rispetto a quelli in genere previsti dai contratti collettivi per i rapporti a termine (Voza 2012, p. 8).
Il nuovo comma 1 bis, oltre a selezionare i soggetti sindacali, abilita la contrattazione decentrata ad esercitare il potere normativo di definire le ipotesi di rapporto a termine. In questo caso la legge segue un criterio opposto a quello enunciato nell’art. 8 della l. 148/2011 (Voza 2012, p. 7; Circolare 2012, p. 3). Si valorizzano, infatti, il livello interconfederale e di categoria, aprendo spazi per quelli inferiori solo in base a scelte espresse effettuate dai soggetti sindacali. Mentre l’art. 8, come é noto, enfatizza la capacità regolativa dei contratti aziendali territoriali rispetto ai superiori livelli negoziali a prescindere da qualsiasi delega e soprattutto consente la deroga anche in pejus delle norme inderogabili di legge. La riforma - che non abilita i contratti collettivi a derogare a disposizioni imperative di legge ma solo ad esercitare un potere normativo alternativo alla fonte primaria - introduce una norma speciale rispetto a quella generale contenuta nella l. 148/2011.
609 È evidente, infatti, che «l'inizio di una nuova attività», il «lancio di un prodotto o di un servizio innovativo» e tutti gli altri eventi previsti dalla norma non hanno carattere stabile e sono destinati ad esaurirsi in un determinato arco temporale. Anche altri autori, pur non parlando di ragioni temporanee, affermano che le ipotesi previste dai contratti collettivi devono fondarsi sulle ragioni previste dalla legge e non possono essere ritenute “acausali” (Rosolen 2012, p. 18; Xxxxxxxx 2012, p. 17).
Pertanto, il comma 1 bis si sostituisce all’art. 8 in questa funzione, mentre la disposizione conte- nuta nella l. 148/2011 potrà essere applicata per disciplinare aspetti del contratto a termine di- versi da quelli contemplati dal nuovo comma dell'art. 1 del d.lgs. 368/2001 (Vallebona 2012, p. 21).
Si è ipotizzato che la riforma, pur prevedendo due forme alternative di contratto a termine (“acausale” o nelle ipotesi definite dal contratto collettivo) consente agli imprenditori di scegliere liberamente tra i due modelli negoziali (Voza 2012, p. 8). In realtà la situazione è più complessa in considerazione dell'indiscutibile volontà della legge di creare due rapporti a termine alterna- tivi610. Se l’autonomia collettiva decide di esercitare il suo potere normativo delegato (che non è obbligatorio) e introduce ipotesi di causali a termine, il datore di lavoro iscritto all'organizzazione imprenditoriale o comunque tenuto ad applicare il contratto collettivo in forza di altri vincoli legali o negoziali dovrà necessariamente utilizzare i rapporti a termine da esso definiti. In caso contrario si esporrà a possibili azioni sindacali (in base all’art. 28 della l. 300/1970) o individuali finalizzate ad ottenere l'adempimento degli obblighi nascenti dal contratto. Tra l'altro, la stipula del rapporto a termine "acausale" in luogo di quello previsto dal contratto collettivo esporrebbe l'imprenditore vincolato al rispetto dell'autonomia collettiva al rischio di vedersi contestare la legittimità del rap- porto a termine sottoscritto in violazione di quanto stabilito dalla fonte negoziale. Con la possibi- lità, in questo caso, di avere una sentenza che stabilisca la sua conversione in un contratto a t. indeterminato per contrasto con il comma 1 bis. In realtà, l'inequivocabile carattere alternativo delle tipologie contrattuali previste dalla nuova disposizione non consente di cumularle o di sce- gliere liberamente tra esse. Inoltre, l'autonomia collettiva non potrebbe autorizzare la scelta al- ternativa tra i due tipi di contratti a termine. Si tratterebbe, infatti, di una deroga peggiorativa non autorizzata dalla legge, in quanto consentirebbe di stipulare un rapporto a termine “acau- sale” anche in situazioni dove la legge consente solo contratti temporanei.
Il contratto collettivo, pur vincolato alle ipotesi tassative previste dalla l. 92/2012, potrà definire una durata del rapporto anche superiore a 12 mesi (Voza 2012, p. 8; Chiusolo 2012, p. 16), o inferiore, sempre nell'ambito, peraltro, delle esigenze temporanee di lavoro. La legge infatti non impone un termine finale massimo o minimo, fermo restando, comunque, che il contratto non potrà mai superare il limite dei 36 mesi o quello superiore o inferiore previsto dall’autonomia collettiva. La riforma, infatti, non interviene sul comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001.
Inoltre, pur in assenza di un regime sanzionatorio specifico, il lavoratore potrebbe contestare la violazione del comma 1 bis se il contratto a termine – nei casi previsti dall’autonomia collettiva - venga stipulato senza il rispetto delle ragioni organizzative di carattere temporaneo previste dalla legge. Anche in questo caso, infatti, si è in presenza di una norma imperativa relativa alle causali del contratto, la cui violazione determinerebbe la nullità del termine e la conversione del rapporto di uno a tempo indeterminato ai sensi degli articoli 1418 e 1419, c. 2, c.c., in coerenza con il "diritto vivente" già in precedenza descritto. Identica sanzione si applica nel caso di mancato ri- spetto del limite quantitativo del 6%.
610 Infatti, il comma 1 bis afferma che il lavoro a termine nei casi previsti dal contratto collettivo opererà «in luogo dell'ipotesi di cui al
precedente periodo», relativo al primo contratto “acausale”.
La contrattazione collettiva potrebbe prevedere anche delle ipotesi di «missione nell’ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato» sempre per soddisfare le esigenze tempo- ranee stabilite dall’art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001, così come modificato dalla riforma. An- che in questa ipotesi si pone il problema di quale sia la sanzione applicabile nel caso di missioni prive del requisito della temporaneità o qualora non sia rispettato il “tetto” del 6%. In assenza di una disposizione espressa, ritengo che anche in questo caso si possa estendere in via analogica la disciplina prevista dall’art. 27 del d.lgs. 276/2003 e per le ragioni già spiegate.
4. La prosecuzione del contratto dopo la scadenza
L’art. 1, comma 9, lettera e), della legge 92/2012 estende il periodo di “tolleranza” entro il quale il prolungamento del contratto oltre il termine finale (eventualmente prorogato) non determina la sua conversione in un rapporto a tempo indeterminato, ma soltanto un incremento della retri- buzione dovuta. I termini di venti giorni (per i contratti fino a sei mesi) e quello di trenta giorni (per i contratti superiori a sei mesi) sono stati elevati rispettivamente a trenta e cinquanta giorni. La nuova disposizione, come è evidente, «penalizza i lavoratori» (Chiusolo 2012, p. 17) e non si muove certo «nel segno del contenimento della flessibilità in entrata» (Voza 2012, p. 8). Essa, al contrario, «accresce la protezione del datore di lavoro contro l’effetto dirompente della conver- sione» (Vallebona, 2012, p. 23).
La finalità dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 368/2001 è sempre stata quella di evitare che, soprat- tutto in organizzazioni imprenditoriali complesse, la semplice dimenticanza della scadenza del termine del contratto e la prosecuzione di fatto dell’attività lavorativa penalizzasse ingiustamente il datore di lavoro, imponendogli una conversione in un rapporto a tempo indeterminato. Si trat- tava, in sostanza, di evitare che, anche in assenza di una reale volontà delle parti o di ragioni oggettive, si consentisse la costituzione di un rapporto stabile. In tale ambito i termini originaria- mente previsti (venti e trenta giorni) erano più che sufficienti ad impedire gli effetti negativi sopra descritti. La loro estensione, che è assai rilevante, non sembra avere una reale giustificazione se non quella di consentire al datore di lavoro di poter utilizzare più a lungo il lavoratore anche in assenza delle causali temporanee originarie, con il solo obbligo degli incrementi retributivi previ- sti dal comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001, che non è stato modificato. In sostanza si intende favorire l’abusiva permanenza del lavoro a termine anche quando non vi sarebbero le condizioni imposte dalla legge.
La nuova disposizione si applica, in primo luogo, ai contratti inferiori o superiori a sei mesi e quando si superi il periodo complessivo dei 36 mesi previsto dalla legge (o quello maggiore o minore stabilito dalla contrattazione collettiva). Essa, peraltro, può regolare anche il «primo rap- porto» “acausale” introdotto dalla legge 92/2012 (Voza 2012, p. 8) o quelli alternativi disciplinati dalla contrattazione collettiva ai sensi della seconda parte del comma 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001. Al contrario, si è affermato che il prolungamento oltre il termine di 12 mesi (o dopo quello inferiore previsto dalle parti) costituirebbe una proroga di fatto del rapporto, espressa- mente vietata dalla legge611 (Chiusolo 2012, p. 17; Xxxxxxx 2012, p. 28). Pertanto, secondo questa tesi, questa tipologia contrattuale e quella alternativa prevista dai contratti collettivi ai sensi del
611 Ai sensi dell’art. 4, comma 2 bis, aggiunto dall’art. 1, comma 9, lettera d), della l. 92/2012, che non consente, appunto, la proroga.
comma 1 bis non potrebbero essere prolungate e, superata la scadenza originaria, esse dovreb- bero immediatamente convertirsi in un rapporto stabile.
Tale interpretazione, peraltro, si espone ad alcune obiezioni. In primo luogo, i commi 2 e 2 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 hanno una formulazione letterale che non consente di escludere dal loro ambito applicativo i nuovi modelli contrattuali introdotti dal comma 1 bis dell’art. 1 del medesimo decreto legislativo. Le disposizioni, infatti, fanno riferimento solo alla durata e possono essere applicate a tutti i contratti a termine indipendentemente dalle loro caratteristiche intrin- seche («primo rapporto» “acausale” o fondato su esigenze temporanee ecc.). Inoltre, la proroga (regolata dall’art. 4 del d.lgs. 368/2001) presuppone la volontà negoziale dei contraenti di prose- guire il rapporto per ragioni oggettive di carattere temporaneo. Invece, nel caso della prosecu- zione di fatto del rapporto, la volontà del datore di lavoro di continuare il contratto a tali condi- zioni è assente e la disposizione intende soltanto consentire – entro certi limiti – il superamento del termine finale senza che si verifichi automaticamente la conversione. D’altra parte, anche prima della riforma, periodo di “tolleranza” e proroga erano due istituti nettamente distinti, per- ché basati su presupposti differenti (come le ragioni oggettive previste solo dall’art. 4 del d.lgs. 368/2001). Infine, la riforma ha modificato la stessa funzione della prosecuzione del rapporto prevista dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 368/2001.
Infatti, il prolungamento del contratto deve essere comunicato «entro la scadenza del termine inizialmente fissato» al Centro per l’impiego, «indicando altresì la durata della prosecuzione»612. Si è giustamente sottolineato che questo onere di comunicazione «è irragionevole, perché il pe- riodo “cuscinetto” è stato introdotto da tempo non per prosecuzioni di fatto programmate con precisione in anticipo, quanto per situazioni dovute a disguidi o a esigenze del momento per de- finizione incompatibili con precise comunicazioni preventive» (Vallebona 2012, p. 24). L’osserva- zione coglie nel segno e dimostra il mutamento delle finalità perseguite dalla disposizione: non si tratta più di evitare le conseguenze sproporzionate (la conversione del contratto) derivanti dal superamento del termine finale per qualche giorno e per ragioni comprensibili, bensì di consen- tire la programmazione del prolungamento del rapporto oltre la scadenza pattuita senza incor- rere nel pericolo di trasformazione del contratto in uno stabile e con conseguenze di carattere solo economico. In sostanza si intende favorire un fisiologico ampliamento della durata del con- tratto a prescindere dalla effettiva sussistenza delle esigenze tecniche od organizzative. Questo mutamento di funzione dei termini previsti dal comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 è un ulte- riore elemento che conferma l’applicazione dei 30 e 50 giorni di “tolleranza” ivi previsti anche al
«primo rapporto» “acausale” previsto dal nuovo comma 1 bis (o a quello alternativo rimesso alla
contrattazione collettiva). La legge, infatti, oggi consente a priori di estendere la durata del con- tratto (come dimostra la comunicazione preventiva) e senza che si determini, nel tempo prefis- sato, alcuna conversione. L’estensione di queste tipologie negoziali, per espressa volontà della legge, non può dunque mai essere assimilata ad una proroga (che in questo caso non sarebbe consentita).
612 Le modalità di comunicazione saranno fissate «con decreto di natura non regolamentare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali da adottare entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente disposizione» (art. 1, comma 9, lettera f), della l. 92/2012, che ha inserito il comma 2 bis all’art. 5 del d.lgs. 368/2001).
La comunicazione preventiva dovrebbe probabilmente costituire un deterrente contro il prolun- gamento arbitrario del contratto oltre i termini stabiliti. Tuttavia, la deterrenza è fortemente ri- dotta in primo luogo per la carenza di mezzi e di personale dei Centri territoriali per l’impiego (che difficilmente potranno esercitare un controllo effettivo in presenza di un numero rilevante di comunicazioni). La legge inoltre non prevede alcuna sanzione, neanche economica, nel caso di mancata comunicazione e non incentiva quindi l’applicazione della norma.
Mi sembra ragionevole, infine, ritenere che la violazione dell’onere di avvertire il Centro per l’im-
piego non determina la conversione del contratto in uno a tempo indeterminato (Vallebona 2012,
p. 24). In mancanza di una espressa disposizione in tal senso, il mancato rispetto di un onere di comunicazione esterno al rapporto contrattuale sia dal punto di vista sostanziale che formale non può costituire una ipotesi di invalidità tale da incidere sull’atto negoziale determinando la nullità del termine finale. Senza dimenticare che la legge – nonostante l’introduzione dell’onere de- scritto - esclude espressamente la conversione nel caso di prosecuzione di fatto del rapporto per altri trenta o cinquanta giorni, stabilendo soltanto il diritto del lavoratore ad incrementi crescenti della retribuzione. Una previsione che è evidentemente incompatibile con la sanzione della tra- sformazione del rapporto qualora la comunicazione non sia regolarmente effettuata.
5. Gli intervalli temporali tra i contratti a termine ed il periodo massimo di 36 mesi
Le innovazioni fino ad ora analizzate non sono certo tali da ridurre il ricorso al contratto a termine, in coerenza con gli intenti dichiarati dal legislatore. Xxxx, come si è visto, la legge estende addirit- tura l’utilizzazione del lavoro a t. determinato quale contratto “di ingresso” o consente di pro- grammarne la durata anche ben oltre la scadenza fisiologica o introduce nuove ipotesi di causali temporanee. In questo contesto, peraltro, la riforma cerca di equilibrare la ulteriore flessibilizza- zione del contratto a t. determinato e si propone di limitare la reiterazione dei rapporti a termine, nella evidente logica di scoraggiare gli “abusi” nell’uso dei contratti flessibili, secondo quanto sta- bilito dalla direttiva 1999/70/CE.
L’art. 1, comma 9, lettera g), della l. 92/2012 (che modifica il comma 3 dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001) estende gli intervalli tra un contratto a termine e l’altro. I dieci giorni, originariamente previsti per i rapporti fino a sei mesi, vengono elevati a sessanta ed i venti giorni, relativi ai con- tratti superiori a sei mesi, diventano 90. Sono indubbiamente estensioni consistenti dei periodi temporali, dirette ad evitare la utilizzazione sistematica del lavoro a termine e la precarizzazione del lavoratore (Vallebona 2012, p. 24). In questo caso la legge si è adeguata agli orientamenti della Corte di Giustizia Europea che ha censurato normative nazionali che prevedono intervalli eccessivamente ridotti tra un contratto e l’altro (come, ad esempio, i 20 giorni previsti dalla legge italiana). In tale modo, infatti, si consentirebbe di utilizzare il lavoro a termine per soddisfare esi- genze lavorative delle imprese «permanenti e durevoli», in contrasto con la finalità della fonte comunitaria, che, secondo la Corte, non può giustificare un contratto a termine per lavori stabili (Speziale 2010, p. 289, con indicazione della giurisprudenza europea).
Tuttavia la nuova regolamentazione introduce una serie assai ampia di eccezioni, che di fatto ri- xxxxxxx di svuotare la innovazione introdotta. Gli intervalli tra i contratti a termine, infatti, pos- sono essere ridotti a venti giorni (invece di sessanta) ed a trenta giorni (invece di novanta) per tutte le attività stagionali «e in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni
livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazio- nale»613. Inoltre, le riduzioni temporali operano per tutte le assunzioni a termine introdotte dalla contrattazione collettiva ed effettuate nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle esigenze temporanee che sono state già esaminate e che consentono la stipula del contratto a termine alternativo al «primo rapporto» “acasuale” (v. retro § 3)614.
Va subito detto che la reintroduzione di termini più brevi e vicini a quelli già esistenti in prece- denza potrebbe riproporre il problema della compatibilità di questi intervalli con la direttiva 1999/70/CE secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia già in precedenza analizzata, che aveva censurato proprio l’esiguità dei venti giorni tra un contratto e l’altro.
La nuova disposizione, inoltre, è frutto di successive stratificazioni normative e contiene qualche incongruenza. Non si vede, infatti, per quale ragione dilungarsi analiticamente su possibili fatti- specie di lavoro a termine per ragioni temporanee previste dall’autonomia collettiva e connesse a processi organizzativi esattamente definiti e poi introdurre una sorta di “delega in bianco” ai contratti collettivi, che hanno piena libertà nel definire le ipotesi derogatorie alle regola degli intervalli di sessanta e novanta giorni. In ogni caso, la riattribuzione ai contratti collettivi del po- tere di definire ipotesi derogatorie alla legge è un fatto positivo (nell’ottica della «flessibilità con- trattata»), anche se la devoluzione di tale facoltà al livello aziendale può determinare qualche problema. La particolare condizione di “debolezza contrattuale” in cui si trova il sindacato in de- terminati contesti produttivi potrebbe infatti produrre un forte fenomeno deregolativo, genera- lizzando la riduzione degli intervalli tra un contratto e l’altro e limitando quindi in modo consi- stente l’innovazione introdotta dalla legge 92/2012. Non vi è dubbio, peraltro, che i contratti col- lettivi non potrebbero mai ridurre i periodi temporali sotto il limite dei venti e trenta giorni. Per- tanto, rispetto alla normativa preesistente, vi è in ogni caso un ampliamento dei tempi entro i quali reiterare i rapporti a termine, con un indubbio miglioramento per i lavoratori rispetto al passato615.
Si è sostenuto che non sarebbe chiaro se le disposizioni esaminate si riferiscono anche alla som- ministrazione (Rosolen 2012, p. 18). In verità le norme senza dubbio regolano soltanto il contratto a termine. Per quanto riguarda il rapporto tra Agenzia per il lavoro e un proprio dipendente, le nuove disposizioni non sono applicabili. Infatti, l’art. 22 del d.lgs. 276/2003 esclude che il con- tratto a termine con l’Agenzia sia soggetto alle regole previste dai commi 3 e seguenti dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001, che sono proprio quelli innovati dalla riforma. Nel contratto commerciale di somministrazione di lavoro a t. determinato, l’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003 non pone
613 Art. 46 bis, comma 1, lettera a), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modifiche, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. Questa disposizione ha modificato l’art. 1, comma 9, lettera h), della legge 92/2012, che a sua volta aveva riformato il comma 3 dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001.
614 La legge prevede che, in mancanza di contratti collettivi, sarà il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sentite le organizzazioni
sindacali, ad «individuare le specifiche condizioni in cui, ai sensi del periodo precedente, operano le riduzioni ivi previste» (art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001, come modificato dall’art. 1, comma 9, lettera h), della l. 92/2012).
615 La riduzione degli intervalli per i lavori stagionali e per le altre situazioni temporanee previste dall’art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001 (start up, lancio di un nuovo prodotto ecc.) dovrebbe giustificarsi con le particolari caratteristiche delle prestazioni da svol- xxxx, che potrebbero richiedere una reiterazione più ampia di contratti a termine in considerazione della difficoltà di prevedere con esattezza ex ante l’entità del lavoro temporaneo necessario.
alcun limite alla reiterazione delle missioni a termine (purché vi siano le esigenze tecnico organiz- zativo o la prima missione “acausale”), né introduce intervalli minimi nelle assegnazioni del lavo- ratore presso l’utilizzatore. Pertanto, il medesimo lavoratore potrà essere assunto dall’Agenzia con diversi contratti a termine senza il rispetto di intervalli minimi (M.T. Carinci 2010, p. 70) e potrà essere avviato a svolgere successive missioni anche in questo caso senza necessità di dover interrompere l’attività lavorativa presso l’utilizzatore per periodi di tempo predefiniti616.
Ovviamente la disposizione che estende gli intervalli tra un contratto a termine e l’altro è una norma imperativa la cui violazione determinerà, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001, la conversione del secondo contratto in uno a tempo indeterminato (questa parte della disposi- zione non è stata innovata). Inoltre tale effetto si realizzerà anche qualora si sia operata una ri- duzione dei tempi di interruzione nella successione di rapporti a termine senza che sussistano le deroghe tassative previste dalla legge. Questa situazione si verificherà quando, ad esempio, gli intervalli ridotti sono stati applicati a rapporti non stagionali, o al di fuori delle ipotesi previste dai contratti collettivi o senza il rispetto delle esigenze organizzative temporanee previste dall’art. 5, comma 3 (avvio di una nuova attività, lancio di un prodotto o servizio innovativo ecc.). In queste ipotesi, infatti, vi sarebbe la violazione delle norme imperative che introducono le deroghe am- messe ai periodi temporali previsti dalla prima parte dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. 368/2001. Pertanto – al di fuori delle eccezioni tassative previste dalla legge – non sarebbero rispettati gli intervalli di sessanta e novanta giorni ivi stabiliti, con l’automatica conversione del contratto in uno a t. indeterminato.
Un'altra disposizione diretta a ridurre la precarizzazione del lavoro è quella che modifica il comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001. Nel computo dei 36 mesi (o del diverso periodo previsto dai contratti collettivi), che costituisce il tetto massimo di rapporti a termine tra le stesse parti e per mansioni equivalenti, devono essere computate anche le somministrazioni a tempo determinato, sia quella “acausale” prevista dal comma 1 bis del decreto delegato, sia quelle effettuate in base alle esigenze tecniche od organizzative previste dal comma 4 dell’art. 20 del d.lgs. 276/2003. In precedenza le missioni effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti del medesimo utilizzatore non potevano essere prese in considerazione nel “tetto” triennale, in quanto tra impresa utilizza- trice e dipendente non sussiste un contratto di lavoro a termine, ma un particolare rapporto re- golato dalla legge (Speziale 2008a, p. 210). La inclusione anche delle somministrazioni a t. deter- minato riduce le possibilità di utilizzare lavoro precario con il medesimo lavoratore ed impedisce che “attraverso il ricorso alla somministrazione di lavoro si possano aggirare i limiti di impiego dello stesso lavoratore con mansioni equivalenti» nell’ambito dei 36 mesi previsti dalla legge (Cir- colare 2012, p. 4).
La necessità di mansioni equivalenti (e, a maggior ragione, dello svolgimento di identiche attività lavorative) (Speziale 2008a, p. 203) comporta che la prima missione “acausale” o quella alterna- tiva effettuata ai sensi del comma 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 deve essere computata nei 36 mesi quando i successivi rapporti a termine o contratti di somministrazione hanno richiesto lo
616 Ovviamente sarà necessario che, almeno per quanto attiene i contratti di lavoro a termine con l’Agenzia, sussistano le esigenze temporanee di lavoro (in coerenza con quanto previsto dal d.lgs. 368/2001) (M. T. Carinci 2010, p. 63). Mentre tale necessità non dovrebbe essere richiesta per il contratto commerciale di somministrazione, secondo l’interpretazione recente della Cassazione (sent.
n. 15610/2011, cit. a nt. 12), sostenuta da parte della dottrina (M. T. Carinci 2010, p. 55). In verità a me sembra che anche la missione debba essere giustificata da ragioni temporanee di lavoro (Speziale 2004, p. 319 ss., con ulteriori indicazioni bibliografiche su autori favorevoli o contrari alla temporaneità).
svolgimento delle medesime professionalità o di altre coerenti con la nozione di equivalenza in- dividuata da dottrina e giurisprudenza. Al contrario, nel calcolo del “tetto” triennale non possono essere prese in considerazioni le successive somministrazioni a termine che abbiano avuto ad oggetto mansioni diverse. Con la conseguenza che, attraverso la successione di contratti a ter- mine o di missioni relative sempre ad attività professionali non equivalenti è ben possibile dila- tare, anche in misura consistente, il periodo massimo triennale. Tuttavia, questa estensione molto accentuata dei 36 mesi (o del diverso periodo previsto dalla contrattazione collettiva) po- trebbe essere contestata dal lavoratore alla luce dei principi in tema di frode alla legge, la cui applicazione alle ipotesi regolate dal comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 pone peraltro problemi di non semplice soluzione, che non possono essere esaminati in questa sede617.
Il Ministero del Lavoro sostiene che il “tetto” triennale vale soltanto per i contratti a termine. Con la conseguenza che, dopo il periodo massimo previsto dalla legge (o dai contratti collettivi), sa- rebbe possibile utilizzare tra le stesse parti (lavoratore ed utilizzatore) anche ulteriori sommini- strazioni a tempo determinato (Circolare 2012, p. 4). Dal punto di vista letterale queste conclu- sioni sono corrette, perché la disciplina del comma 4 bis dell’art. 5 riguarda solo il contratto a termine e per l’ulteriore ragione che la legge non pone limiti alla successione di somministrazioni a t. determinato ai sensi dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003. Tra l’altro, poiché si tratta di missioni effettuate dopo la maturazione del “tetto” previsto dalla legge o dal contratto collettivo, non si potrebbe neppure sostenere che – ai sensi dell’art. 1344 c.c. - la somministrazione viene utilizzata per “bypassare” il limite massimo temporale, a condizione ovviamente che dopo i 36 mesi non si proceda ad assunzioni dirette a termine. Tuttavia un limite a questo uso indiscrimi- nato della somministrazione a t. determinato potrebbe essere individuato nella necessità delle esigenze temporanee che giustifichino la missione (Speziale 2004, p. 319 ss.), difficilmente rinve- nibili nella reiterazione continuativa delle assegnazioni alla stessa impresa utilizzatrice. Oppure, secondo il recente orientamento della Cassazione, un altro limite potrebbe consistere nella veri- fica della effettiva esistenza delle ragioni economiche ed organizzative, «allo scopo di escludere il rischio di ricorso abusivo a forme sistematiche di sostituzione del personale dipendente atte a mascherare situazioni niente affatto rispondenti a quelle contemplate…» dall’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003 (Cass. 15 luglio 2011, n. 15610).
Si è affermato che le missioni a termine in mansioni equivalenti possono essere prese in conside- razione per il computo dei 36 mesi soltanto se vi è stato almeno un contratto a termine, visto che la nuova disciplina riguarda le assunzioni dirette a t. determinato regolate dal d.lgs. 368/2001 (Vallebona 2012, p. 23). In effetti, la conclusione è condivisibile, in primo luogo per il dato formale che la legge regola la successione di contratti a termine e non vi sono limiti alla reiterazione delle somministrazioni a t. determinato (salvo le ragioni oggettive previste dall’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003). D’altra parte la finalità della disposizione è quella di impedire che le missioni a termine sostituiscano le assunzioni dirette per evitare di superare i 36 mesi, attraverso l’alter-
617 Sulla frode alla legge nel caso di successione di contratti a termine nell’ambito del limite massimo previsto dal comma 4 bis dell’art. 5 mi permetto di rinviare a quanto da me scritto (Speziale 2008a, p. 202). Le considerazioni ivi svolte possono sicuramente essere estese anche alla reiterazione di missioni per mansioni sempre diverse nell’ambito della somministrazione a termine tra lo stesso lavoratore ed il medesimo utilizzatore.
nanza di contratti a t. determinato e contratti di somministrazione. Dunque, occorre che, nel pe- riodo temporale massimo, un rapporto a termine ai sensi del d.lgs. 368/2001 venga quantomeno instaurato tra le stesse parti, perché altrimenti la norma non raggiungerebbe il suo scopo.
L’inserimento della somministrazione a t. determinato nel computo dei 36 mesi è stato criticato per ragioni diverse (Rosolen 2012, p. 18; Xxxxxxx 2012, p. 29). In verità, la finalità di ridurre l’uti- lizzazione estensiva dei contratti a termine con l’inserimento di un periodo temporale massimo poteva essere facilmente vanificata dall’uso intensivo delle missioni. Pertanto la riforma è coe- rente con la volontà di ridurre il ricorso al lavoro a t. determinato.
6. Il termine di decadenza per impugnare i licenziamenti o la nullità del termine
La riforma modifica la disciplina relativa alla impugnazione giudiziale e stragiudiziale dei contratti a termine618. Vengono accorpate in un’unica disposizione le ipotesi che erano precedentemente contenute in due norme distinte. Si conferma che i licenziamenti che presuppongono la risolu- zione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del d.lgs. 368/2001 devono essere impugnati ai sensi dell’art. 6 della l. 604/1966 (modificato dal “Collegato Lavoro”). Inoltre, la contestazione scritta perde efficacia se non è seguita, entro un periodo temporale specifico, dalla impugnazione in sede giurisdizionale o dalla attivazione del tentativo di conciliazione o dell’arbitrato. Il doppio termine di decadenza è stato modificato quando sia in contestazione la nullità del termine. I 60 giorni per l’impugnazione in forma scritta sono diventati 120 (decorrenti dalla estinzione del con- tratto), mentre si sono ridotti da 270 a 180 giorni quelli relativi alle fasi successive. La riforma si applica soltanto «alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013» (Voza 2012, p. 10; Chiusolo 2012, p. 18).
La modifica dei termini di decadenza è certamente frutto anche del prolungamento degli intervalli tra un contratto a termine e l’altro (Voza 2012, p. 10; X. Xxxxxxx 2012, p. 540), ma ha anche una finalità ulteriore.
La introduzione della nuova disciplina, finalizzata a contrastare la pratica di impugnazioni giudiziali a lunga distanza dalla scadenza del termine (Tosi 2010, p. 473; Mimmo 2011, p. 89), era stata criticata perché sottoponeva il lavoratore al dilemma tra contestazione del contratto a termine
«e la speranza che il datore di lavoro lo reimpieghi in cambio di un atteggiamento “collaborativo” e acquiescente», rinunciando ad impugnare il rapporto precario (Xxxxxxxx 2011, p. 22). Il prolun- gamento del primo periodo entro cui effettuare l’impugnazione (da 60 a 120 giorni) consente al lavoratore di avere una migliore cognizione della situazione, rendendogli più chiaro se il datore di lavoro intende offrire una nuova occasione di lavoro (magari temporaneo) oppure ritiene ormai definitivamente esaurita la collaborazione tra le parti e gli consente quindi di esercitare il proprio diritto con maggiore cognizione di causa (Xxxxxxx 2012, p. 30; Vallebona 2012, p. 23; Xxxx 0000,
x. 00, X. Xxxxxxx 2012, p. 540; Chiusolo 2012, p. 18).
Tuttavia questa più genuina “capacità decisionale” sussisterà nelle ipotesi in cui gli intervalli tra un contratto e l’altro sono ridotti a venti o trenta giorni, perché il tempo residuo prima della decadenza dell’impugnazione é sufficiente a far comprendere al lavoratore se vi sono o meno
618 Art. 1, comma 11, lettera a), della l. 92/2012, che modifica l’art. 32, comma 3, lettera a) della l. 183/2010.
nuove prospettive occupazionali o se esse sono assenti. Al contrario, a fronte di un periodo mi- nimo di sessanta o novanta giorni tra un contratto a termine e l’altro, il lavoratore si troverà nella stessa situazione antecedente alla riforma, perché tornerà ad avere tempi molto limitati entro cui dover decidere se impugnare o meno il contratto e senza avere la sicurezza che i giorni ormai passati escludano nuove possibili assunzioni (Voza 2012, p. 11). Tra l’altro mentre in precedenza la somma del doppio periodo di decadenza era pari a 330 giorni (60 + 270), oggi i giorni comples- sivi sono 300 (120 + 180) (Xxxxxxx 2012, p. 30) venendo quindi anche in questo caso a peggiorare la situazione del lavoratore. In verità, dunque, la riforma, pur introducendo alcune positive inno- vazioni, non si tradurrà sempre nella effettiva libertà per il lavoratore di esercitare i propri diritti nei confronti di contratti a t. determinato.
Questa considerazione consente di affermare che, nei casi in cui il ridotto periodo temporale a disposizione non permette al lavoratore una adeguata valutazione dei suoi interessi, si potrebbe prospettare un contrasto con l’art. 24 Cost. Infatti, la violazione della disposizione costituzionale è configurabile nella misura in cui il termine breve di decadenza e la condizione di debolezza in cui si trova il lavoratore (soggetto al “dilemma” prima descritto) determinino una situazione tale
«da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale»619. Il che mi pare esattamente il nostro caso620. La questione di costitu- zionalità non è preclusa neanche dalla recente decisione della Corte che, con la sentenza 11 no- vembre 2011, n. 303, ha escluso il contrasto dell’art. 32 della l. 183/2010 con l’art. 24 Cost. I giudici costituzionali, infatti, hanno esaminato soltanto i commi da 5 a 7 della disposizione del “Collegato” e non si sono soffermati sul comma 3, che estende i termini di decadenza alle due ipotesi relative al contratto a t. determinato. Inoltre, proprio la sentenza n. 303/2011 ha ritenuto che l'art. 24 non fosse violato in quanto si discuteva del nuovo regime di risarcimento del danno previsto per i contratti a termine. In sostanza si era in presenza di una questione non di carattere processuale, mentre la norma costituzionale «attiene al diritto alla tutela giurisdizionale (sen- tenza n. 419 del 2000) ovvero ‘attribuisce diritti processuali che presuppongono la posizione so- stanziale alla cui soddisfazione essi sono finalizzati, con la conseguenza che la disciplina sostan- ziale non attiene alla garanzia del parametro suddetto’ (sentenza n. 401 del 2008)»621. Ebbene, proprio alla luce di questi principi enucleati dalla Corte, una possibile lesione dell'art. 24 Cost. nei termini sopra indicati sarebbe certamente ancora prospettabile. Anche perché l'eventuale obiet- tivo di garantire il principio di certezza del diritto - che potrebbe in qualche misura legittimare i termini di decadenza – deve essere contemperato con quello di effettività dell'esercizio della tu- tela giurisdizionale che, al contrario, per le ragioni già analizzate, mi sembra del tutto “svuotato” in questo caso.
619 C. cost. 14 dicembre 2004, n. 386, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p. 4 (con indicazione di altri precedenti della Corte di identico contenuto).
620 Di ciò è consapevole anche chi ha prospettato una “soluzione intermedia”, alla luce dei principi espressi dalla sentenza n. 63 del
10 giugno 1966 della Corte costituzionale. Essa consisterebbe nel “non ritenere operante la decadenza nelle ipotesi in cui il successivo contratto a termine venga stipulato entro il termine di decadenza di sessanta giorni, al fine non costringere il lavoratore a far causa al datore di lavoro in costanza di (un successivo) rapporto di lavoro” (Xxxxx 2011, p. 91).
621 C. cost. 11 novembre 2011, n. 303, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p. 11.
La nuova disposizione ripete la formulazione preesistente per quanto riguarda le ipotesi in cui si applica il doppio regime di decadenza. La norma, in relazione a tali aspetti ed anche prima della riforma, aveva sollecitato numerosi problemi interpretativi622.
Il riferimento ai «licenziamenti che presuppongono questioni relative alla qualificazione del rap- porto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro…» desta molte per- plessità. Infatti, é orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che l’azione fina- lizzata all’accertamento dell’illegittimità del termine non è qualificabile come impugnazione del licenziamento, ma come un’azione per far valere la nullità parziale del contratto623. In questa ipo- tesi, in sostanza, non esiste alcuna comunicazione di recesso da contestare, ma il rapporto di lavoro, illegittimamente costituito, si risolve alla sua scadenza. Ciò spiega perché, in caso di con- versione, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore viene quantificato secondo i principi ge- nerali in materia di mora del creditore e non in base alla disciplina sui licenziamenti individuali624. La norma contenuta nel terzo comma, lett. a), dell’art. 32 della l. 183/2010, dunque, potrebbe avere un senso soltanto con riferimento al caso in cui il datore di lavoro, alla scadenza del termine e per evitare le conseguenze di una possibile conversione del rapporto in uno a tempo indeter- minato, comunichi un vero e proprio licenziamento. Con la precisazione, peraltro, che «non po- trebbe considerarsi tale la mera lettera/disdetta (con la quale) il datore di lavoro ricorda l’immi- nente scadenza del contratto, non potendo riscontrarsi una volontà di recedere da un rapporto in essere, ma una mera dichiarazione di scienza in ordine alla scadenza già prevista dal con- tratto»625.
Inoltre, la disposizione non può riguardare il licenziamento per giusta causa prima della scadenza del termine (in tal senso, invece, Giasanti 2011, p. 109). In questo caso, infatti, il licenziamento non riguarda né la qualificazione del contratto, né profili attinenti alla nullità del termine, ma è contestato per l’assenza di giustificazione ed indipendentemente dal fatto che il contratto a t. determinato sia o meno conforme alla legge. La legge, invece, richiede una connessione oggettiva tra recesso e natura del rapporto (di cui si contesta, ad es., il carattere autonomo) o con la legit- timità del termine concordato. Queste situazioni, al contrario, non esistono nel nostro caso.
L’art. 32, comma 3, lett. a), della l. 183/2010, inoltre, fa espresso riferimento all’azione di nullità del termine da proporre per violazione degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001. La norma, quindi, prende in considerazione solo le ipotesi tassativamente previste da queste disposizioni (tra cui rientra anche l’assenza della causale temporanea o della sua espressa specificazione in
622 In tale ambito x. Xxxx 2010, p. 473 ss.; Xxxxx 2011, p. 87 ss.; Xxxxxxx 2011, p. 29 ss.; Xxxxxxxx 2011, p. 9 ss. (a cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche).
623 Si tratta di un orientamento consolidato. Tra le tante cfr. Xxxx, S.U., 6 luglio 1991, n. 7471; Cass. 7 giugno 2003, n. 9163. Cfr., sul
punto, Xxxxxxxxxx (2011, p. 26 ss.); Xxxxxxxx (2011, p. 232 ss.).
624 In realtà, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, sul punto, è discutibile. In base alle regole in tema di mora accipiendi, infatti, nei contratti a prestazioni corrispettive, come quello di lavoro, il pagamento del corrispettivo dipende dal rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione. Le somme dovute al lavoratore hanno dunque natura retributiva e non risarcitoria. La tematica, di notevole complessità teorica, non può essere approfondita in questa sede. Si rinvia, comunque, a Speziale (1992, p. 296 ss.); Cassazione (2011, p. 33 ss.).
625 Giasanti (2011, pp. 107 – 108).
forma scritta)626. In base alla inequivocabile formulazione letterale della disposizione – che per la giurisprudenza è il canone fondamentale di interpretazione (Speziale 2008b, p. 638 ss.) - non è possibile estendere il regime della doppia decadenza anche ad altre ipotesi, come la sottoscri- zione del contratto per violazione dei divieti di legge (art. 3 d.lgs. 368/2001) o per mancata appli- cazione della disciplina sulla loro successione (Vallebona 2012, p. 24; Xxxxxxxx 2011, p. 13, con riferimento alla disposizione antecedente alla riforma).
Prima della l. 92/2012, ed in relazione alla preesistente norma (in questa parte identica), si è pro- posto di estendere in via interpretativa la decadenza anche alle altre ipotesi sopra indicate al fine di garantire il fondamentale principio di uguaglianza, particolarmente nel caso di successione di contratti (Xxxx 2010, p. 475; Mimmo 2011, pp. 88 – 89). Questa tesi, tuttavia, non può essere accolta. Infatti, come è noto, l’art. 3 Cost. non impone trattamenti identici quando vi siano situa- zioni differenti che legittimino «ragionevoli diversità»627. In questo caso, le ipotesi escluse dalla formulazione letterale della disposizione (artt. 3 e 5 del d.lgs. 368/2001) esprimono una “gradua- zione” del regime delle decadenze in relazione alla gravità delle situazioni previste. La mancata applicazione dei divieti e delle norme in tema di successione nei contratti (che è la finalità princi- pale della direttiva 1999/70/Ce di evitare gli abusi connessi al lavoro a t. determinato) sono state considerate come violazioni più gravi delle altre, con un giudizio di “disvalore” superiore e tali, quindi, da essere sottratte ai termini di decadenza (Giubboni 2011, p. 14). Una scelta, quest'ul- tima, forse discutibile in considerazione delle ipotesi previste dalla legge per le quali è invece imposta l'impugnazione, ma che comunque potrebbe rispecchiare una finalità espressamente perseguita dal legislatore. D'altra parte, l’estensione in via analogica delle disposizioni esaminate si pone in contrasto con l’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, che impedisce di estendere il contenuto di norme eccezionali «oltre i casi e i tempi in esse considerati». Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni in materia di decadenza siano da considerare eccezionali, con la conseguente impossibilità di ricorrere all’analogia.
Non vi è spazio neppure per una interpretazione estensiva628. Essa, infatti, richiede che «l’inter- prete si trovi di fronte ad un’espressione ambigua o imprecisa, che è suscettibile di essere intesa in un senso più largo o in un senso più stretto, e adotta nel caso specifico il primo»629. La formu- lazione letterale dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, tuttavia, non permette di ravvisare alcuna ambiguità od imprecisione, dal momento che essa indica espressamente, mediante un rinvio esplicito a specifiche disposizioni contenute nel d.lgs. n. 368 del 2001, quali sono le ipotesi che ricadono nel proprio ambito di applicazione. Non sembra, dunque, possibile estendere il nuovo regime delle decadenze ai casi non espressamente contemplati dall’art. 32, anche per le ragioni prima descritte che potrebbero avere orientato il legislatore.
626 La disposizione chiarisce che la sanzione da ricollegare alla violazione della proroga é la nullità del termine, aderendo così alle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza, pur in assenza di una previsione esplicita in tal senso.
627 Il principio è consolidato nella giurisprudenza costituzionale. Si rinvia, tra le altre, a C. cost. n. 3/1957, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx,
p. 2; C. cost. n. 53/1958, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p. 3. In definitiva, «il giudizio di eguaglianza... è in sé un giudizio di ragionevo- lezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra le regole introdotte e la 'causa' normativa che le deve assistere» (C. Cost. n. 89/1996, xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p. 4).
628 Questo tipo di interpretazione, come è noto, non è dissimile dall’analogia. Si rinvia, sul punto, per tutti, a Guastini (2004, pp. 192
– 193). Sulla distinzione tra analogia ed interpretazione estensiva, cfr. anche Bobbio (1968b, p. 698).
629 Bobbio (1968b, p. 698).
7. L’interpretazione autentica del regime risarcitorio per l’illegittima apposizione del termine
La nuova legge chiarisce il contenuto dell’art. 32, comma 5, della l. 183 del 2010 (“Collegato La- voro”), stabilendo che questa disposizione «si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ri- stora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e con- tributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedi- mento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro» (art. 1, comma 13, l. 92/2012).
La norma del “Collegato” aveva sollevato numerosi problemi interpretativi ed erano state ecce- pite diverse questioni di costituzionalità. La Corte costituzionale ha respinto tutte le eccezioni, sottolineando che la disposizione regola soltanto gli effetti economici antecedenti alla sentenza di «accertamento giudiziale del diritto del lavoratore» alla illegittimità del termine ed «alla durata indeterminata» del rapporto di lavoro. Mentre, successivamente alla sentenza, «è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva»630. La regola della liquidazione esclu- siva dell’indennità risarcitoria per la fase precedente alla pronuncia del giudice era stata accolta dalla Cassazione (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 2 marzo 2012, n. 3305; Cass. 2 aprile 2012,
n. 5241). Tuttavia alcuni giudici di merito – in coerenza con specifici commenti espressi in materia
- avevano invece sostenuto che il risarcimento costituiva una sorta di “penale” per l’illegittima conversione del termine, a cui dovevano aggiungersi le retribuzioni dovute in base alle regole in tema di mora accipiendi631. La norma di interpretazione autentica ha la finalità di “imporre” la interpretazione della Xxxxx xxxxxxxxxxxxxx x xxxxx Xxxxxxxxxx (Xxxx 0000, x. 00; Vallebona 2012,
p. 22; Xxxxxxx 2012, pp. 29 – 30) e di evitare possibili diverse decisioni della giurisprudenza.
La nuova disposizione rende assolutamente chiaro che l’indennità risarcitoria esclude il diritto del lavoratore a qualsiasi altro risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale (Vallebona 2012, p. 22). Una tesi che trova fondamento nella formulazione letterale della disposizione che fa riferimento all’«intero» pregiudizio «comprese le conseguenze retributive e contributive», la- sciando intendere che anche altri danni diversi da quelli patrimoniali sono esclusi632. Questa scelta può destare qualche perplessità, soprattutto con riferimento all’entità del risarcimento (la cui misura minima è assai ridotta) ed alla esclusione dei pregiudizi che incidono sulla stessa persona del lavoratore (danno morale, esistenziale, biologico ecc.). Tuttavia la Corte costituzionale, pro- prio in relazione all’art. 32, comma 5, della l. 183/2010, ha sottolineato che «‘la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale’ (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991). Tale condizione nella specie ricorre,
630 C. cost. n. 303/2011, cit., p. 9. L’indennità risarcitoria per il periodo antecedente alla sentenza ha quindi la finalità di evitare l’ap- plicazione delle regole in tema di mora accipiendi e non riguarda le somme dovute al lavoratore dopo la decisione giurisdizionale che converte il contratto (Pisani 2011, pp. 325 ss., 330).
631 Per la ricostruzione delle tesi che sostengono il cumulo tra indennità e somme scaturenti dall’applicazione delle regole in tema di
mora del creditore, si xxxxxx Xxxxxxxx (2011, p. 19 ss.) e Xxxxxx (2011, p. 338 ss.), con una tesi che era stata fatta propria anche
dall’Ufficio del Massimario della Cassazione (Cassazione 2011, p. 81). In giurisprudenza questa interpretazione era stata sostenuta da
X. Xxxxx Arsizio 29 novembre 2010, n. 528, in GL, 2010, p. 18; T. Napoli 16 novembre 2011 e App. Roma 2 febbraio 2012, in MGL, 2012, p. 348.
632 Il termine «comprese», infatti, significa che il pregiudizio economico è una delle voci di danno risarcibili e non l’unica. L’indennità, pertanto, come afferma l’art. 32, comma 5, è «onnicomprensiva» e non ammette il ristoro di pregiudizi ulteriori.
tanto più ove si consideri che… non vi è stata medio tempore alcuna prestazione lavorativa» (C. cost. n. 303/2011, p. 9). Questa lettura della normativa alla luce dei principi in tema di danno risarcibile enucleati dalla stessa Corte mi sembra escluda qualsiasi possibilità di contestare, sotto il profilo costituzionale, la limitazione del pregiudizio introdotta dal legislatore.
Si è sostenuto che, nel caso di impugnazione di più contratti a termine dichiarati invalidi, il lavo- ratore potrebbe richiedere, per il periodo antecedente alla sentenza di conversione, tante inden- nità risarcitorie quanti sono i rapporti a t. indeterminato di cui si è accertata la nullità, incremen- tando così in misura considerevole il risarcimento (Papaleoni 2012, p. 2; Voza 2012, p. 12). Questa tesi, in verità, non considera, in primo luogo, che, nel caso di successione di più contratti, il lavo- ratore non avrà impugnato ciascuno di essi nel termine di decadenza di 120 giorni (per l’evidente timore di essere escluso da altre possibili future assunzioni). Con la conseguenza di essere così decaduto dalla possibilità di contestare i rapporti a termine diversi dall’ultimo (e, quindi, di avere il risarcimento forfettizzato anche per quelli anteriori). Peraltro, il carattere «onnicomprensivo» della indennità e la precisazione che esso «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore» per il «periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia» del giudice impedisce qual- siasi “moltiplicazione” delle somme dovute. Anche se vi è stata una successione di contratti a t. determinato, tutti i danni antecedenti alla conversione sono liquidati esclusivamente con la (sola) indennità prevista dall’art. 5, comma 3, della l. 183/2010, senza possibilità di averne più di una. Tra l’altro, l’interpretazione criticata sarebbe in totale contrasto con la finalità della disposizione che è quella di limitare i danni scaturenti dai principi di diritto civile e non di consentire al lavora- tore di avere addirittura di più di quanto le regole ordinarie potrebbero garantirgli. Invece, se- guendo la tesi qui non condivisa, potrebbe accadere che il dipendente, nel caso di successione di più contratti a termine illegittimi con intervalli di venti, trenta o sessanta giorni, avrebbe diritto ad avere, per ciascun periodo non lavorato, un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione, superiore a quanto dovuto in base alle regole della mora credendi!
Si afferma che la norma di interpretazione autentica non ha risolto il problema dell’applicazione dell’art. 32, comma 5, anche alla somministrazione, ritenendo, peraltro, che a tale risultato si possa pervenire in via interpretativa (Rosolen 2012, pp. 18 – 19). In effetti la giurisprudenza con- tinua ad essere divisa su tale aspetto633. Tuttavia a me sembra che vi siano elementi testuali e sostanziali che impediscano di estendere la disposizione anche alla somministrazione. La norma, infatti, si riferisce al «contratto a tempo determinato» e non alla «somministrazione di lavoro a tempo determinato» prevista dal comma 4 dell’art. 20 del d.lgs. 276/2003. Quando il legislatore ha inteso riferirsi al contratto commerciale con l’utilizzatore lo ha detto espressamente. Inoltre, nel caso di somministrazione irregolare «non si è in presenza di un contratto a tempo determinato che si converte in un contratto a tempo indeterminato tra le stesse parti, ma di una diversa con- figurazione giuridica, rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore, cioè del soggetto con il quale il prestatore non ha stipulato formal- mente» alcun contratto634.
633 Per le indicazioni di sentenze favorevoli e contrarie cfr. Rosolen (2012, p. 18, nt. 4). In tempi recenti si sono espressi a favore X. Xxxxxx Xxxxxx 17 dicembre 2010; T. Brescia 12 gennaio 2012, in GL, 2012, 7, p. 30 ss.; C. App. Firenze 13 dicembre 2011. In senso
contrario X. Xxxxxx 28 novembre 2011, in RCDL, 2011, 4, p. 861; X. Xxx. Xxxxxxx 00 ottobre 2011, n. 580, in xxx.xxxxxx.xx, p. 1 ss.
634 C. App. Venezia 21 ottobre 2011, n. 580, cit., p. 4.
Si è proposta una interpretazione in base alla quale nel periodo antecedente alla sentenza il rap- porto di lavoro non esiste, «come risulta dalla espressa esclusione dell’obbligo contributivo e dalla parola ‘ricostituzione’», con la conseguenza che non decorre la anzianità di servizio (Vallebona 2012, p. 22). In effetti l’opinione può essere accolta, anche perché la norma di interpretazione autentica sembra attribuire alla pronuncia del giudice il valore di sentenza costituiva e non di mero accertamento della illegittimità del contratto a termine.
In base alla decisione della Corte – che ha respinto numerose eccezioni incostituzionalità - si può affermare che l’indennità risarcitoria costituisce una penale, che prescinde dal danno effettivo ed esclude la detrazione di eventuali altri redditi percepiti (Pisani 2011, p. 331; Xxxxxxxx 2011, p. 336 ss.) e non richiede neanche la prova del pregiudizio o della offerta delle prestazioni (C. cost. 303/2011, p. 9). Essa, inoltre, non è estensibile ai contratti a termine nella P.A., la cui illegittimità, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale (anche comunitaria) non determina la conversione del contratto (Giubboni 2011, p. 17, nt. 44). L’indennità, infine, va liquidata sia nei casi in cui la conversione del contratto a termine è espressamente prevista dal d.lgs. 368/2001 (come nelle ipotesi contemplate dall’art. 5), sia nelle fattispecie non regolate (mancanza delle esigenze temporanee o della forma scritta ad substantiam, violazione dei divieti di cui all’art. 3 del d.lgs. 368/2001 ecc.) quando la costituzione di un rapporto stabile scaturisce dall’applicazione dei principi in tema di nullità parziale (Tosi 2010, pp. 478 – 479).
8. La possibile violazione della clausola di non regresso
La nuova normativa modifica in modo rilevante la regolazione del contratto a termine e richiede il consueto controllo diretto a verificare se sia stato rispettato «il divieto di reformatio in pejus contenuto nella clausola 8 dell’accordo quadro» (Voza 2012, p. 3), recepito nella direttiva 1999/70/CE635. Questa verifica, più che in base agli importanti contributi forniti dalla dottrina636, deve essere effettuata alla luce degli orientamenti della Corte di Giustizia Europea, che come è noto, ha accolto una «interpretazione debole» della clausola637. Secondo la Corte, la valutazione del peggioramento della disciplina nazionale rispetto a quella precedentemente esistente – con un controllo compiuto non solo sulla legge di recepimento della direttiva ma anche in rapporto agli interventi normativi successivi che regolano la materia638 - deve essere effettuata in coerenza con tre parametri fondamentali. Il primo è l'esame del contenuto della nuova legge in relazione al livello di tutela complessivo garantito dalla normativa nazionale rispetto all'eventuale riforma parziale introdotta dal legislatore italiano. Il secondo è il carattere generale della nuova disciplina e non la sua riferibilità solo ad una ristretta categoria di lavoratori. Infine l'eventuale riduzione del
635 «L’applicazione del presente accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori
nell’ambito coperto dall’accordo stesso».
636 Si rinvia, tra gli altri, a Xxxxxxx (2002), Carabelli, Leccese (2005), Franza (2006), Corazza (2008), Xxxxxxx, Xxxxxxxx (2009), Xxxxxxxxxx (2010), Corazza (2011), Giubboni (2011).
637 Giubboni (2011, p. 23).
638 Cgce, causa C-144/04, Xxxxxxx, 22 novembre 2005, punto 51; Cgce, cause riunite C-378/07 e C-380/07, 23 aprile 2009, Angelikadi, punto 131.
livello di protezione non può essere giustificata dall'attuazione della direttiva, ma dalla realizza- zione di un diverso obiettivo di politica sociale o del xxxxxx000, con un disegno riformatore moti- vato da nuove e reali esigenze di interesse generale640. In questo ambito, con la recente sentenza Sorge (Cgce, causa C-98/09, 24 giugno 2010), la Corte ha stabilito che la clausola di non regresso è priva di efficacia diretta e spetta quindi al giudice del rinvio valutarne l’applicabilità attraverso un’interpretazione conforme alla direttiva 1999/70/CE ed agli scopi che essa persegue. Alla luce di questi orientamenti, si è osservato che «solo eccezionalmente (essa) pare in grado di limitare le scelte degli Stati membri in sede di trasposizione» (Xxxxxxxxxx 2010, p. 294), anche se la clausola non «può essere ridotta ad un guscio vuoto privo di qualsiasi contenuto sostanziale» (Giubboni 2011, p. 24).
In tale ambito, l’analisi deve essere compiuta sulle parti della l. 92/2012 che riformano il contratto a termine. Tuttavia, le disposizioni modificate da questa normativa incidono anche su alcune re- centi innovazioni in materia introdotte da altre leggi precedenti. Con il paradosso che alcune norme già in vigore – sicuramente peggiorative rispetto all’assetto normativo previgente (come ad es. l’introduzione del doppio termine di decadenza) – sono state invece migliorate per i lavo- ratori dalla riforma del 2012 (prolungando il termine dell’impugnazione stragiudiziale) e si è creata una situazione molto particolare, con un intreccio tra disposizioni migliorative e peggiora- tive che non facilitano il compito di valutare il rispetto o meno della clausola di non regresso.
In questa sede, peraltro, la valutazione del divieto di reformatio in pejus deve essere effettuata principalmente nei confronti delle innovazioni sul contratto a t. determinato introdotte dalla l. 92/2012. Inoltre, nella misura in cui questa legge modifica ulteriormente disposizioni già esistenti che a loro volta hanno mutato la normativa principale di recepimento della direttiva (il d.lgs. 368/2001), è evidente che il giudizio sul possibile “regresso” deve essere esteso anche a queste norme (contenute, ad es., nella l. 183/2010).
In base ai criteri enucleati dalla Corte di Giustizia, non vi è dubbio, in primo luogo, che la riforma si riferisce a tutti i lavoratori a termine e non solo a particolari categorie di dipendenti. Inoltre, le modifiche normative, proprio per la loro portata generale (causali, prosecuzione di fatto del rap- porto, intervalli tra contratti, termini di decadenza entro i quali effettuare le impugnazioni, risar- cimento del danno ecc.) sono tali da incidere sul livello complessivo di tutela dei lavoratori. Si tratta di verificare, a questo punto, il peggioramento o miglioramento della disciplina, tenendo in considerazione l’eventuale bilanciamento tra disposizioni che riducono le garanzie con quelle che eventualmente le incrementano e, quindi, con un giudizio complessivo che tenga conto di tutti questi elementi641.
La lettura della l. 92/2012 consente di affermare che essa ha un significato ambivalente, perché introduce innovazioni del d.lgs. 368/2001 di segno opposto. Tra le deroghe in pejus va ricordato
639 Giubboni (2011, p. 25).
640 Cassazione (2011, p. 49). A questa relazione ed a Xxxxxxxx (2011), Corazza (2011) e Xxxxxxxxxx (2010) si rinvia per le più recenti ed approfondite analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea in tema di clausola di non regresso.
641 La Corte di Giustizia, infatti, richiede di controllare «se la riduzione delle tutele garantite ai lavoratori a termine in occasione della
trasposizione della direttiva sia stata compensata dall’innalzamento di altre forme di tutela in favore dei lavoratori stessi» (Cgce, Sorge, causa C-98/09, cit., punto 46).
il primo contratto a termine “acausale”, che esclude la temporaneità delle ragioni economiche ed organizzative, e la identica disciplina della prima missione con una somministrazione a t. de- terminato (v. retro § 2)642. Lo stesso può dirsi per il prolungamento del periodo di “tolleranza” nella prosecuzione del contratto, che, di fatto, consente di realizzare una ulteriore dilatazione programmata della sua durata originaria (v. retro § 4). Al contrario, l’incremento degli intervalli tra un rapporto di lavoro e l’altro è sicuramente un miglioramento (v. retro § 5). Ed analoga con- clusione può essere raggiunta per il computo della somministrazione nel “tetto” massimo dei 36 mesi previsti dall’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. 368/2001 e per l’aumento del periodo temporale entro il quale effettuare l’impugnazione stragiudiziale ai sensi dell’art. 32, c. 3, della legge 183/2010. Tuttavia, nelle ipotesi in cui non vi è riduzione degli intervalli tra i contratti (che riman- gono di sessanta o novanta giorni), l’estensione del termine di contestazione del rapporto a ter- mine non determina effetti positivi per le ragioni che sono state già spiegate (v. retro § 6). Tra l’altro, quest’ultima disposizione, se viene letta in coordinazione con la norma riformata del “Col- legato Lavoro”, conferma il netto peggioramento della regolamentazione preesistente alle modi- fiche introdotte nel 2010 e nel 2012. L’introduzione del doppio termine di decadenza, infatti, si sostituisce alla possibilità di agire nell’ambito della prescrizione ordinaria ed impone oneri di im- pugnazione e di attivazione della tutela giurisdizionale molto più ridotti di quelli precedenti.
L’inserimento del contributo addizionale dell’1,4% può essere considerato un miglioramento (Voza 2012, p. 3), in quanto finalizzato ad aumentare il costo della flessibilità e, quindi, potenzial- mente in grado di ridurne la diffusione. La disposizione relativa alla interpretazione autentica dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 32, comma 5, della l. 183/2010 presenta, rispetto alla disciplina preesistente (la mora accipiendi) elementi negativi (la possibile minore entità del risar- cimento), compensati da aspetti positivi (automaticità del diritto – senza necessità di offerta – e non deducibilità dei redditi nel frattempo percepiti) (v. retro § 7). Altre disposizioni, invece, sem- pre in base alla giurisprudenza europea, si sottraggono alla valutazione in termini di migliora- mento o peggioramento.643
A me sembra che, in una logica di valutazione complessiva delle innovazioni e di bilanciamento tra esse, il saldo sia negativo. I miglioramenti connessi alle disposizioni dirette a ridurre la succes- sione dei contratti a termine ed il ricorso a forme di lavoro temporaneo sono compensate dal netto peggioramento legato alla diffusione generalizzata di primi rapporti o missioni a tempo de- terminato “acausali” e per periodi temporali assai lunghi. Senza dimenticare le ulteriori modifiche peggiorative in tema di impugnazione dei contratti e di conseguenze risarcitorie derivanti dall'il-
642 Analoghe considerazioni possono farsi per le disposizioni collegate a quelle analizzate nel testo, che modificano il comma 01 (pro- prio al fine di giustificare il «primo rapporto» “acausale”: v. retro § 2) o che prevedono la non necessità di specificare le ragioni giusti- ficative del contratto – in questo caso inesistenti – o vietano la sua proroga.
643 È questo il caso, ad esempio, delle norme relative ai lavoratori «svantaggiati» (art. 1, comma 10, lettere a) e c), l. 92/2012), in
quanto sono riferite a categorie particolari di lavoratori (esclusi dalla valutazione del possibile «regresso»). Lo stesso può dirsi per le nuove disposizioni sul contratto a termine alternativo al «primo rapporto» “acausale” (art. 1, comma 9, lettera b, della l. 92/2012). Si è visto, infatti, che si tratta di ipotesi aggiuntive di rapporti a t. determinato di carattere temporaneo la cui introduzione è delegata all’autonomia collettiva e con la previsione di limiti quantitativi (v. retro § 3). La nuova disciplina, sia con il riferimento alla tempora- neità sia ai “tetti” numerici, pur innovando si colloca in linea con quella già esistente, senza introdurre miglioramenti o peggioramenti. Alcune disposizioni, poi, sono “strumentali” ad altre (come la comunicazione del prolungamento del contratto al Centro per l’impiego, che va letta in connessione con quella relativa alla estensione di fatto della durata contratto e non può essere oggetto di una valuta- zione autonoma) o costituiscono mere abrogazioni che non modificano la disciplina precedente (art. 1, comma 11, lettera b, l. 92/2012) o differiscono nel tempo l’entrata in vigore della riforma (art. 1, comma 12, l. 92/2012).
legittima apposizione del termine. In definitiva, la legge facilita la diffusione del contratto a ter- mine quale strumento d'ingresso nel mercato del lavoro anche in assenza di ragioni giustificative e penalizza i lavoratori sia sotto il profilo delle tutele giurisdizionali (imponendo specifici termini di decadenza, solo in parte resi meno stringenti), sia per quanto riguarda gli effetti economici della violazione di norme imperative.
Tuttavia questo indubbio regresso nelle garanzie potrebbe essere in parte giustificato dal perse- guimento di obiettivi di politica sociale o del lavoro finalizzati a soddisfare esigenze di interesse generale. Si potrebbe sostenere, ad esempio, che il «primo rapporto» "acausale" è diretto a mi- gliorare l'accesso in un mercato del lavoro caratterizzato da elevati livelli di disoccupazione (Voza 2012, p. 3), soprattutto giovanile. Xxxxxx, si potrebbe affermare che l'introduzione della inden- nità risarcitoria trova fondamento in «ragioni di utilità generale», consistenti nella «avvertita esi- genza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative a cui aveva dato luogo il sistema previgente» (C. cost. n. 303/2011, cit., p. 13). Infine, la «certezza del diritto», che «costituisce un indubbio cardine di civile convivenza e di tranquillità dei cittadini» (C. cost. 4 aprile 1990, n. 155, FI, 1990, I, c. 3072), potrebbe giustificare l'inserimento del doppio termine di decadenza, al fine di eliminare, con l'introduzione di "sbarramenti" processuali, le incertezze nascenti dalla possibilità di conte- stare a lunga distanza di tempo uno o più contratti a termine.
Queste argomentazioni potrebbero dunque legittimare le riforme in pejus ed incidere sulla valu- tazione dell'impatto della nuova legge sul livello complessivo di tutela garantito dalle normative preesistenti. Tutti i peggioramenti, infatti, troverebbero «motivi validi» diversi dall'implementa- zione della direttiva e sarebbero quindi esclusi dal principio di non regresso.
Ovviamente le ragioni giustificative descritte potrebbero essere contestate sotto diversi profili. Anche perché, pur se la Corte di Giustizia non sembra aver analizzato questo aspetto, occorre- rebbe valutare la "proporzionalità" della giustificazione addotta con altri valori costituzionali (non solo italiani). Ad esempio, è discutibile che la disoccupazione possa essere ridotta tramite il ri- corso a contratti precari in un contesto normativo (anche europeo) in cui la stabilità del lavoro é ancora un elemento fondamentale. Inoltre, la stessa esigenza di certezza del diritto dovrebbe essere contemperata con la tutela del lavoro che è un cardine della nostra Costituzione e non consente di sacrificare in misura eccessiva diritti economici del lavoratore o di accesso alla tutela giurisdizionale.
Non vi è dubbio, comunque, che il giudizio sulla possibile violazione della clausola di non regresso presenta notevoli aspetti problematici e, in base ai principi alquanto flessibili enucleati dalla giu- risprudenza europea, consente esiti interpretativi molto diversi. Senza dimenticare che – secondo il recente orientamento della sentenza Sorge - il giudice nazionale deve risolvere tali questioni in via interpretativa e senza rimettere la soluzione al giudizio della Corte di Giustizia Europea. Tut- tavia, se si dovesse ad esempio ritenere che il «primo rapporto» “acausale” violi la regola del non regresso, la decisione del magistrato italiano che ribadisca la necessità delle esigenze temporanee anche per questo contratto (in coerenza con l’assetto normativo precedente alla riforma del 2012) non sarebbe certo una «interpretazione conforme» alla direttiva, bensì una «interpreta- zione contra legem del diritto nazionale», non ammissibile secondo la Corte europea (Cgce, causa C-98/09, Sorge, cit., punti 50 e 52). Il giudice, quindi, si troverebbe dinanzi ad ostacoli tecnici difficilmente superabili.
Mi sembra, dunque, che il principio di non regresso sia stato fortemente depotenziato e renda assai problematica la limitazione del potere normativo degli Stati membri e la possibilità del giu- dice italiano di correggere in via interpretativa la legge nazionale.
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