EZIO MORO*
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ART. 32 DEL COLLEGATO LAVORO E CONTRATTI DI LAVORO A TERMINE: PROBLEMATICHE E PROSPETTIVE.
SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. L'onere di impugnazione dei contratti a termine. - 3. Conseguenze della conversione del contratto.
1. Introduzione.
A seguito dell'introduzione dell'art. 32 del collegato lavoro è stato esteso anche ai rapporti di lavoro a termine l'onere, a pena di decadenza, di impugnare il contratto entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro (nonché l'ulteriore onere, sempre a pena di decadenza ed entro successivo termine di 270 giorni, di depositare presso la Cancelleria del Tribunale il ricorso introduttivo del giudizio o, in alternativa, l'istanza di conciliazione alla DPL o la richiesta di arbitrato).
Non solo, il comma quarto della norma ha esteso il nuovo regime di decadenza, per il caso della nullità del termine, anche ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge (24 novembre 2010) e ciò tanto per quelli in corso di esecuzione al momento di entrata in vigore (per i quali il termine di decadenza decorre dalla cessazione del contratto), quanto per i contratti già conclusi, per i quali il primo termine di impugnazione stragiudiziale, dei 60 giorni, sarebbe decorso dalla stessa entrata in vigore della legge e sarebbe dunque scaduto il 23 gennaio 2011.
* Avvocato, Studio Legale Associato Moro
I successivi commi 5 e 6 vanno a disciplinare le conseguenze derivanti dalla declaratoria di illegittimità del contratto a termine: il comma 5, in particolare, prevede che "in caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604"; il comma sesto prevede la riduzione della metà del risarcimento dovuto al lavoratore cui sia stato convertito il contratto a termine alla presenza di contratti collettivi, nazionali, territoriali o aziendali che prevedano l'assunzione anche a tempo indeterminato di lavoratori già occupato a termine.
L'intento del legislatore è stato chiaramente quello di porre un freno al dilagante contenzioso sui contratti a termine1.
Come dimostrato da molti filoni di cause (su tutti il caso delle Poste), infatti, le aziende, che avevano fatto largo (ab)uso dei contratti a termine, si sono ritrovate a dovere fare fronte a richieste risarcitorie tanto più cospicue tanto più durava la causa, nonché a vedersi convertiti a tempo indeterminato rapporti di lavoro a termine ormai cessati da anni.
La situazione, per le aziende, era ulteriormente aggravata dalla cronica lentezza di molti Tribunali, nonché da possibili "abusi" da parte dei lavoratori i quali, nella vigenza del vecchio regime, dopo l'iniziale messa in mora del datore di lavoro potevano essere indotti a tardare a depositare il ricorso avanti al Giudice del lavoro pur con la ragionevole certezza che, in caso di accoglimento del ricorso, il risarcimento dovuto da parte del datore
1 come peraltro aveva già cercato di fare in passato senza fortuna con l'introduzione dell'art. 4 bis del d.lgs n. 368/01, introdotto dall’art. 21, comma l bis, d.l. 25.6.2008 n. 112, convertito, con modificazioni, in legge 6.8.2008 n. 133, poi dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 214/09.
di lavoro, parametrato alle retribuzioni perse dalla messa in mora alla riammissione in servizio, sarebbe in ogni caso lievitato2.
Se l'intento di fondo del legislatore (tempi certi per l'impugnazione del contratto e per il successivo deposito del ricorso in tribunale e limite ai risarcimenti in caso di illegittimità del contratto a termine) appare in linea di principio condivisibile, la tecnica di redazione della norma in esame ha lasciato alquanto a desiderare ed ha provocato e sta provocando forti dubbi ed incertezze interpretative (e non solo con riferimento ai contratti a termine, nel cui ambito intendo restare).
2. L'onere di impugnazione dei contratti a termine.
L'estensione dell'onere di impugnativa, entro sessanta giorni dalla cessazione del contratto, anche ai contratti a termine ha determinato una vera e propria "rivoluzione copernicana".
Si è passati infatti da un regime in cui, pur con le precisazioni ed i limiti posti dalla giurisprudenza (in ogni caso non univoca) formatasi nel corso degli anni in tema di risoluzione del rapporto per mutuo consenso3, l'azione volta ad ottenere la nullità della clausola appositiva del termine, proprio in quanto azione di nullità come tale imprescrittibile, poteva essere proposta (quasi) senza limiti temporali, ad una situazione, del tutto opposta, in cui un lavoratore a termine, per potere fare valere la nullità del termine apposto al suo contratto di lavoro, doveva, entro un lasso temporale assolutamente breve, decidere se impugnare o meno il contratto (sempre che lo stesso fosse a conoscenza di tale necessità).
Tale decisione appare assai delicata in caso di successione di diversi contratti a termine con lo stesso datore di lavoro: dopo la cessazione del primo contratto, il lavoratore deve decidere, pena decadenza dall'azione, se
2 vero è che il datore di lavoro avrebbe potuto ottenere la riduzione del danno a fronte della prova dell'aliunde perceptum, ma trattasi di dimostrazione spesso ardua ed a volte impossibile come nei caso in cui il lavoratore avesse nelle more lavorato in nero.
3 v. sul punto Cass. civ. sez. lav. 28 aprile 2009, n. 9924.
impugnare il contratto per cercare di ottenere per via giudiziaria una incerta conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a fronte però di una pressoché certa mancata chiamata da parte del datore di lavoro per successivi rapporti a tempo determinato4.
Con l'originaria formulazione dell'art. 32 del Collegato Xxxxxx, si poneva anche il problema dei contratti a termine già cessati al momento dell'entrata in vigore del collegato lavoro (24 novembre 2010): tali contratti avrebbero dovuto essere impugnati entro il successivo 23 gennaio 2011.
Proprio per cercare di dare una certa gradualità a tale inversione di rotta, anche viste le pressioni dei sindacati e delle opposizioni, il legislatore, con il
c.d. Decreto mille proroghe (art. 2, comma 54, D.L. n. 225/2010, convertito dalla Legge n. 10/201) ha aggiunto all'art. 32 il comma 1 bis che così prevede: "in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'art.6, comma 1, del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011".
Tale disposizione, salutata da lavoratori e sindacati come norma "salvaprecari", ha però ingenerato un’ulteriore serie di problematiche e dubbi interpretativi che in giurisprudenza hanno fino ad ora trovato risposte contraddittorie.
Come evidenziato quasi unanimemente dalla dottrina5 la norma è redatta in modo tecnicamente discutibile (per non dir di peggio).
A seguito dell'introduzione di tale norma, dottrina, avvocati e giudici hanno iniziato a porsi una serie di domande di non immediata soluzione: in caso di licenziamenti (o contratti a termine) già impugnati il deposto del ricorso deve essere effettuato nei successivi 270 giorni o anche tale termine è slittato? La proroga si applica ai soli licenziamenti od anche alle altre
4 Sul punto il governo Xxxxx, con il recente Ddl sulla riforma del mercato del lavoro – v. testo su xxx.xxxxxxxxxxx.xxx - sembra avere preso atto di tale problematica e tale termine dovrebbe essere esteso dagli attuali 60 giorni a 120.
5 (v. X. Xxxxxxxxx in xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx/XxxxXxxx/XxxxXxxxxx.xxx?XXXXx00000000_Xxxxxxx- milleproroghe-2011_COMMENTO-Xxxxxxxxx.pdf)
ipotesi di cui all'art. 32, tra cui i contratti a termine? Tale proroga vale a salvare i contratti a termine già scaduti al momento dell'entrata in vigore del Collegato e non impugnati entro l'originario termine del 23 gennaio 2011?
La prima domanda mi pare la meno pressante; se un lavoratore ha già provveduto ad impugnare il licenziamento o il contratto a termine significa che con ogni probabilità si sia rivolto ad un legale; dunque il professionista sarà certamente portato a "stare dove l'acqua è bassa" ed a depositare il ricorso tenendo conto del termine più stringente.
In ogni caso l'art. 1 bis si riferisce espressamente al termine primo di 60 giorni per l'impugnazione stragiudiziale; ad un'immediata lettura sembrerebbe che solo il primo termine sia stato prorogato e pertanto, se impugnazione vi è stata, dovrebbe iniziare a decorrere il secondo termine di 270 giorni.
Così argomentando, però, non si capirebbe l'inserimento dell'inciso "in sede di prima applicazione": il termine di 60 giorni era già previsto per i licenziamenti dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato; la vera novità è costituita dal successivo termine decadenziale per il deposito del ricorso di cui al comma 2 dell'art. 6 legge n. 604/66, come modificato dall'art. 32 del Collegato Lavoro.
Incertezze si sono registrate anche nello stabilire se lo slittamento dei termini decadenzali di cui al comma 1 bis dell'art. 32 si riferisca ai soli licenziamenti o sia applicabile anche all'impugnazione dei contratti a termine. Così come si sono registrate pronunce discordanti in merito all'applicazione dello slittamento anche ai contratti a termine già cessati e non impugnati entro l'originario termine del 23 gennaio 2011.
Alcune pronunce6 hanno affermato che lo slittamento dell'efficacia delle nuove norme in tema di decadenza introdotte dal Collegato Lavoro fosse
6 Tribunale di Milano 29 settembre 2011 n. 4404 est. Xxxxxxx in Guida al lav. 2011, 42, p. 15; Tribunale di Milano 16 dicembre 2011 n. 6214 inedita; Tribunale di La Spezia 22 settembre
limitato ai soli licenziamenti e non sarebbe operante con riferimento ai contratti flessibili ed, in particolare, ai "vecchi" contratti a termine già scaduti al momento dell'entrata in vigore del Collegato Xxxxxx e non impugnati entro il 23 gennaio 2011.
Al contrario altre pronunce7 hanno ritenuto che la postergazione dell'efficacia del termine di impugnazione sia da riferirsi non solo ai licenziamenti (per i quali l'onere di impugnazione esisteva giá da decenni) ma anche alle altre ipotesi previste dall'art. 32, tra cui anche i contratti a termine, ed anche i contratti a termine già cessati e non impugnati entro il 23 gennaio.
I sostenitori di tale orientamento pongono l'accento sulla presenza dell'inciso "in sede di prima applicazione", evidenziando che l'onere di impugnazione già esisteva per i licenziamenti (unica innovazione rispetto al passato è costituita dall'estensione ex art. 32 comma 2 del collegato lavoro ai licenziamenti invalidi, prima esclusi) e che la portata innovativa del regime decadenziale introdotto dall'art. 32 è ben più ampia ed eterogenea rispetto ai soli licenziamenti (contratti a termine in primis, ma anche trasferimenti ex art. 2103 c.c., recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, trasferimenti d'azienda, somministrazione irregolare). Di talchè sarebbe del tutto irragionevole ritenere che il Legislatore abbia voluto introdurre una così evidente disparità di trattamento in situazioni del tutto analoghe (si legge nella sentenza n. 96505 del Tribunale di Roma: "ciò concorre a far negare che il Legislatore abbia voluto introdurre una discriminazione che appare priva di ogni possibile ragionevole giustificazione, e quindi di far dubitare anche della sua legittimità costituzionale. Ed è principio acquisito che tra più possibili interpretazioni di una disposizione di legge, il giudice deve preferire quella che previene dubbi di legittimità costituzionale".
2011, in Lavoro nella Giur., 2011, 11, 1167; Tribunale di Roma 8 febbraio 2012 n. 16469 - est. Xxxx, v. sentenza su xxx.xxxxxxxxxxx.xxx.
7 Tribunale di Milano 4 luglio 2011 n. 3402; Tribunale di Milano 4 agosto 2011 n. 3914 est. Xxxxxxxx, v. sentenza su xxx.xxxxxxxxxxx.xxx; Tribunale di Roma, in sede di reclamo ex art. 669 terdecies cpc, del 20 settembre 2011 n. 96505, pres. Sordi, est. Xxxxx, v. sentenza su xxx.xxxxxxxxxxx.xxx.
3. Conseguenze della conversione del contratto a termine.
Anche il comma 5 dell'art. 32 del collegato lavoro ha ingenerato forti dubbi (anche di legittimità costituzionale) ed incertezze applicative che sembravano essere risolte a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 303 del 9 novembre 20118 ma che, anche dopo il pronunciamento dei Giudici Costituzionali, si sono riproposte.
Fin dall'introduzione della norma si sono registrate tre diverse interpretazioni: due "estreme" ed isolate ed una mediana certamente più rispondente alla lettera della norma ed all'intento del Legislatore.
Per alcuni l'indennità risarcitoria era l'unica sanzione connessa alla declaratoria di illegittimità del contratto a termine ed escludeva il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio9; per altri10 la nuova indennità si aggiungeva non solo alla trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro ma anche al risarcimento del danno riconosciuto in precedenza commisurato alla retribuzioni perse dalla messa in mora da parte del lavoratore all'effettivo reintegro.
La giurisprudenza assolutamente maggioritaria, però, ha letto la norma nel senso che la nuova indennità si aggiunge alla trasformazione del rapporto a termine in ordinario rapporto a tempo indeterminato, ma esclude ogni ulteriore risarcimento.
Tale interpretazione è stata fin da subito fatta propria della Corte di Cassazione che, come si diceva, ha però sollevato il dubbio di legittimità
8 In xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
9Tribunale di Milano 9 febbraio 2011 n. 618 est. Xxxxxxxxxxxx, in Lav. nella Giur. 9/2011, p. 929.
10 Tribunale di Busto Arsizio 29 novembre 2010 - est. Xxxxxxxx; in senso sostanzialmente conforme Tribunale di Reggio Xxxxxx 28 aprile 2011, est. Gnani e Tribunale di Napoli 21 febbraio 2010 est. Xxxxxxx.
costituzionale dell'art. 32 comma 5 e 6 in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost. (Cass. Ord. n. 2112/201111).
Tali dubbi sono stati sciolti dalla Corte Costituzionale che ha "salvato" l'art. 32 del collegato lavoro chiarendo che:
- l'indennità di cui al comma 5 dell'art. 32 del Collegato Xxxxxx ha natura di indennità forfettaria sanzionatoria in relazione al periodo intermedio compreso tra la cessazione del contratto a termine e la sentenza che ordina la riammissione in servizio del lavoratore, senza che siano dovuti altri importi a diverso titolo.
- la nuova indennità, proprio in ragione della sua xxxxxx xxxxxxx xxxxxxxxxxxxx, non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum.
- viene fatto salvo il risarcimento del danno secondo gli ordinari canoni civilistici conseguente all'eventuale contegno inadempiente del datore di lavoro che, a seguito della sentenza di primo grado che abbia trasformato il rapporto di lavoro, non provveda o ritardi a riammettere in servizio il lavoratore.
-la Corte ha evidenziato che la normativa in esame ha "realizzato un equilibrato componimento dei contrapposti interessi": quello del lavoratore che si vede garantita la conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro ed il pagamento di un'indennità risarcitoria in ogni caso ed a prescindere dalla messa in mora del datore di lavoro nonché dall'aliunde perceptum e dall'aliunde percipiendum e quello del datore di lavoro nei confronti del quale è prevista la predeterminazione entro limiti certi del risarcimento del danno fino alla sentenza.
Nonostante la chiarezza e la linearità della motivazione della Corte Costituzionale, sul presupposto che trattandosi di pronuncia di rigetto è vincolante solamente nel giudizio a quo, si sono fin da subito registrate pronunce di merito di segno opposto.
11 analogo dubbio di costituzionalità era stato posto anche dal Tribunale di Trani con ordinanza del 20 dicembre 2010.
In particolare alcune sentenze, muovendo dall'assunto per cui, a mente dell'art. 111 Cost., chi agisce in giudizio e vince la causa non può essere danneggiato dalla durata del processo, hanno ritenuto che l'indennità di cui all'art. 32, comma 5, del Collegato copra solamente il minor periodo compreso tra la cessazione del rapporto di lavoro alla proposizione del ricorso di primo grado, mentre per il successivo periodo di durata del processo sono dovute le retribuzioni maturate (eventualmente detratto l'aliunde perceptum)12.
Distinzione questa di non poco conto vista la cronica lentezza di molti Tribunali e ciò a maggior ragione nel caso in cui si registrino sentenze discordanti nei vari gradi di giudizio.
Sulla questione è però, da ultimo, ritornata la Corte di Cassazione (sentenze n. 3056 del 29 febbraio 2012 e n. 4909 del 27 marzo 2012 – v. testo delle sentenze su questo sito) che, oltre a confermare che la nuova indennità si applica a tutti i giudizi pendenti (ed anche quelli in sede di legittimità), ha ribadito che l'indennità in questione copre tutto il periodo compreso dalla cessazione del rapporto di lavoro alla sentenza che dichiara la conversione del rapporto di lavoro.
L’impostazione fatta propria dalla Cassazione appare ulteriormente avallata dalla recente bozza del Ddl in tema di riforma del diritto del lavoro: l’art. 3 comma 5 della bozza, infatti, ribadisce che “la disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguente retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
Chissà se ciò porrà definitivamente fine ai dubbi sollevati da parte degli interpreti e della giurisprudenza o se il passaggio parlamentare ingarbuglierà ulteriormente la questione … chi vivrà vedrà.
12 Trib. Napoli n.29910 del 16 novembre 2011; Corte d'Appello di Roma n. 267/2012 e n. 547/2012, v. testo delle sentenze su xxx.xxxxxxxxxxx.xxx.
X. XXXX, Art. 32 del Collegato lavoro e contratti di lavoro a termine: problematiche e prospettive, 4 Businessjus 8 (2012)
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