DEL DATORE DI LAVORO
“SILENZIO MALIZIOSO” ALLA CONCILIAZIONE E DOLO OMISSIVO
DEL DATORE DI LAVORO
di Xxxxxxx Xxxxxxx XX XXXXXXX*
Corte di Cassazione - Sezione lavoro Sentenza 30 marzo 2017 n. 8260 (Pres. MANNA - Rel. XXXXX)
Nel contratto di lavoro, la condotta di “silenzio malizioso” su circostanze ri- levanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni costituisce un ele- mento di raggiro idoneo a influire sulla volontà negoziale del soggetto. Ciò po- sto, il verbale di conciliazione firmato in sede protetta può essere annullato se la condotta del datore di lavoro è idonea a trarre in inganno il lavoratore ed a indurlo a firmare.
[Omissis]
Svolgimento del processo
Con sentenza 19 agosto 2014, la Corte d’appello di Milano rigettava l’appello proposto da X.X. xxxxxxx la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto le do- mande di accertamento dell’annullabilità del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale per vizio del consenso derivante da dolo della datrice A. D. s.r.l. o comunque da errore e di conseguente annullamento o dichiarazione di inefficacia del licenziamento intimatogli con lettera del 18 dicembre 2011, con la condanna della società alla sua reintegrazione nel posto di lavoro.
A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva il difetto di allegazioni in fatto (con la conseguente corretta esclusione dal Tribunale delle circostanze de- dotte a prova orale) in ordine alla sussistenza di raggiri da parte della società datrice nell’indurre il lavoratore (con qualifica di quadro e mansioni di “strategic sourcing
* Praticante avvocato.
senior manager”, ossia di responsabile della produttività relativa agli acquisti) alla firma del suindicato verbale del 24 gennaio 2012, di formalizzazione di accettazione del licenziamento suddetto, in esito all’accordo sindacale, nell’ambito della proce- dura di mobilità aperta nel 2011 per un’eccedenza di 21 posizioni lavorative, tra cui la propria, sull’assunto dell’inesistenza, solo poi scoperta, della soppressione della propria posizione lavorativa. Essa escludeva parimenti la sussistenza di un errore incolpevole del lavoratore, una volta individuato il criterio di scelta dei dipendenti da licenziare, rilevata la genericità evidente della lettera di apertura della mobilità e così pure del tenore degli accordi sindacali, nella volontà di non opposizione alla mobilità medesima.
Con atto notificato il 27 dicembre 2014, E.V. ricorre per cassazione con sostan- zialmente quattro motivi, cui resiste D.A. s.r.l. con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente deduce vizio di omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del fatto decisivo delle ragioni effettive della ritenuta inclusione della propria posizione lavorativa tra quelle eccedentarie, avendo la Cor- te territoriale dato una risposta (inidoneità della ricerca datoriale di una posizione lavorativa identica alla propria, con la conseguente inesistenza delle condizioni del- la sua esuberanza, ad integrare prova indiretta della sua induzione, per raggiro, ad accettare la proposta di mobilità) diversa da quella del Tribunale (difetto di prova tout court di una tale ricerca) in ordine alla loro rilevanza ai fini dell’accertamento del proprio errore, con omissione della necessaria indagine istruttoria sollecitata con la formulazione delle istanze istruttorie, in ogni caso da disporre anche in via officiosa.
Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., ai sensi dell’art. 360 x.x.x., xxxxx 0, x. 0, xx xxxxxxx di corret- tezza nella fase precontrattuale, applicabili anche alle ipotesi di annullabilità del contratto, per avere senza propria colpa confidato nella relazione causale tra ragioni di crisi di mercato e posizioni lavorative da sopprimere, di cui la Corte territoriale ha escluso l’effettivo accertamento.
Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429, 1439 e 1440 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per totale obli- terazione del contenuto del documento prodotto sub 3) in primo grado (recante l’espressa menzione della posizione propria) nell’accertamento dell’idoneità del- la condotta datoriale a indurlo nell’ingannevole convinzione dell’inclusione della propria posizione lavorativa tra quelle eccedentarie, nell’ambito della procedura di mobilità ai sensi della L. n. 223 del 1991. Con il quarto, il ricorrente deduce vio- lazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss., L. n. 223 del 1991, art. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea interpretazione degli accordi sindacali, nell’ambito della procedura di mobilità, alla luce della lettera di sua aper- tura, senza considerazione dell’allegato ad essa, recante l’espressa menzione della posizione propria (doc. sub 3).
In via preliminare, deve essere negata l’ammissibilità del controricorso, per ri- getto dell’istanza 6 marzo 2015 di rimessione in termini: istituto peraltro applica-
bile, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, anche alle situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, quali sono le attività necessarie alla propo- sizione del ricorso per cassazione ed alla prosecuzione del procedimento (Cass. 17 giugno 2010, n. 14627; Cass. 4 gennaio 2011, n. 98).
Essa non è affatto documentata in ordine ai meramente allegati imprevedibili ostacoli, incontrati di fatto dalla società nel reperimento del fascicolo di parte pres- so l’ufficio giudiziario a quo, estranei alla propria sfera di controllo, che ne hanno comportato il deposito del controricorso (avvenuto il 6 marzo 2015) oltre il termine di venti giorni dalla sua notificazione (il 4 febbraio 2015) prescritto dall’art. 370 c.p.c., u.c..
E l’inammissibilità del controricorso induce quella conseguente della memoria comunicata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Nella selezione della cd. “ragione più liquida” di decisione (che, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operati- vo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, stabilito dall’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost.: Xxxx. 28 maggio 2014,
n. 12002; Cass. s.u. 8 maggio 2014, n. 9936), questa Corte reputa opportuno avviare l’esame dal terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429, 1439 e 1440 c.c. per totale obliterazione del documento sub 3) in primo grado nell’accertamento dell’idoneità della condotta datoriale a trarre il lavoratore in in- ganno sulla sua inclusione tra le posizioni eccedentarie nell’ambito della procedura di mobilità.
Esso è fondato in riferimento alla denuncia di xxxx, quale errore di diritto conse- guente all’omessa valutazione dalla Corte territoriale dell’idoneità della condotta della società datrice (che nel citato documento, in allegato alla lettera di apertura della procedura di mobilità, aveva a suo tempo espressamente incluso la posizione di E.V. tra quelle eccedentarie, salva poco tempo dopo l’assunzione di altro lavora- tore per la medesima posizione) a trarre in inganno il lavoratore (come illustrato in particolare nel primo periodo di pg. 17, in combinazione con il secondo capoverso di pg. 15 e l’ultimo di pg. 16 del ricorso).
La corte milanese non ha considerato come anche una condotta di silenzio mali- zioso sia idonea ad integrare raggiro.
Infatti, un tale silenzio, serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce, per l’ordinamento penale, elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo (Cass. pen. 18 giugno 2015, n. 28791).
Non diversamente, nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439
c.c. (Cass. 17 maggio 2012, n. 7751). Occorre poi tenere presente in linea generale come, in tema di dolo quale causa di annullamento del contratto, nelle ipotesi di dolo tanto commissivo quanto omissivo, gli artifici o i raggiri, così come la reticenza
o il silenzio, debbano essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilirne l’idoneità a sorprendere una persona di normale diligenza, non potendo l’affidamento ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (Cass. 27 ottobre 2004, n. 20792).
Per le suesposte ragioni il mezzo scrutinato deve essere accolto, con assorbimen- to dell’esame del primo (omesso esame del fatto decisivo delle ragioni effettive della ritenuta inclusione della posizione lavorativa tra quelle eccedentarie) e del quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss., L. n. 223 del 1991, art. 4, per erronea interpretazione degli accordi sindacali, nell’ambito della procedura di mobilità, alla luce della lettera di sua apertura, senza tenere conto dell’allegato doc. sub 3).
Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., in materia di correttezza nella fase precontrattuale, per avere il lavo- ratore senza propria colpa confidato nella relazione causale tra ragioni di crisi di mercato e posizioni lavorative da sopprimere, è invece inammissibile.
La questione è infatti nuova, non risultando trattata dalla sentenza impugna- ta, nè avendo il ricorrente indicato specificamente, nè trascritto gli atti nei quali l’avrebbe posta nei gradi di merito: ciò inficia di genericità il motivo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso e pertanto della prescrizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; 11 gennaio 2007, n. 324).
Dalle superiori argomentazioni discende allora, in via conclusiva, l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, assorbiti il primo e il quarto e inammissibile il secondo, con la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e rinvio alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che provvederà, oltre che alla regolazione delle spese anche del presente giudizio di legittimità, all’accerta- mento, alla luce dei suenunciati principi di diritto, dell’idoneità della condotta della società datrice ad integrare un dolo omissivo in danno del proprio dipendente, così da comportare l’annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto tra le parti in sede sindacale, nell’ambito della procedura di mobilità ai sensi della L. n. 223 del 1991 e le pronunce ad esso eventualmente conseguenti.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbiti il primo e il quarto, inammissi- bile il secondo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese anche del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.
[Omissis]
NOTA
Sommario: 1. La fattispecie e le vicende processuali. 2 La conciliazione in sede protetta e l’art.2113 c.c.. 3. Il dolo omissivo del datore di lavoro
4. Conclusioni.
1. La fattispecie e le vicende processuali
Nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, l’azienda A. D. s.r.l. addiveniva ad un accordo sindacale con alcuni suoi dipendenti, dichiarati in esu- bero. L’accordo prevedeva il pagamento di determinate somme di denaro a fronte della firma del verbale di conciliazione in sede protetta, con rinuncia del dipenden- te all’impugnazione del licenziamento e a qualsiasi diritto connesso al rapporto di lavoro. Il Sig. E.V. dichiarato eccedentario, accettava il licenziamento e firmava il verbale di conciliazione salvo poi scoprire, che la Società aveva effettuato una nuova assunzione nella posizione da lui ricoperta fino a poco tempo prima; pertanto ricor- reva al Giudice del lavoro chiedendo l’annullamento del verbale di conciliazione, ritenendo che il suo consenso fosse stato viziato da dolo del datore di lavoro per aver nascosto l’intenzione di voler assumere un altro lavoratore, in una posizione appena soppressa perche dichiarata in esubero.
Il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano rigettavano il ricorso per mancanza della prova del dolo. Il lavoratore ricorreva in Cassazione, insistendo sulla centralità di un documento, da lui prodotto in giudizio e ignorato dai giudicanti, attestante la presenza del suo nominativo nell’elenco dei ventuno dipendenti eccedentari, ele- mento determinante nella formazione della sua volontà di sottoscrivere il verbale di conciliazione, rinunciando a tutti i diritti connessi al rapporto di lavoro.
2. La conciliazione in sede protetta e l’art. 2113 c.c.
Il nostro ordinamento riguardo i diritti oggetto di rinunce e transazioni contenute nei verbali di conciliazione e fino a che punto esse siano impugnabili ex art. 2113
c.c. prevede che: «Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di proce- dura civile, non sono valide»1. Tuttavia questa disposizione non trova applicazione, come nel caso in esame, qualora le rinunzie e le transazioni siano firmate in sede protetta (giudiziale, sindacale e amministrativa), ove le stesse si cristallizzano de-
1 L’art. 2113 c.c. si pone come limite alla facoltà di disposizione dei diritti del lavoratore ed ha come fine quello di offrirgli uno strumento di impugnativa degli atti di disposizione che possono apparire determinati dalla sua sogge- zione e debolezza nei confronti dell’altra parte, ma, per altro verso, corrispondere alla sua libera volontà ed ai suoi effettivi interessi (SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Napoli, 1990). In ordine alla causa giuridica dell’invalidità sancita dalla norma per i negozi di rinunzia e transazione , prevalgono in dottrina due teorie: la teoria soggettiva per la quale l’invalidità deriverebbe da una presunzione di vizio del consenso del lavoratore, determinata dall’incapacità giuridica relativa di costui, esistente solo nei confronti del datore di lavoro, a causa della posizione di soggezione in cui si trova il prestatore (XXXXXXX XXXXXXXXXX, L’invalidità delle rinunzie e transazioni del prestatore di lavoro, in GCCC, 1948; XXXXXX, Le rinunzie e le transazione del lavoratore: riesame critico, in DL, 1970); la teoria oggettivistica, per la quale l’invalidità nascerebbe da una precisa volontà del legislatore di sottrarre persino al titolare dei diritti inderogabili la possibilità di disporne, e ciò non solo per la tutela del singolo, ma anche per la protezione dell’interesse collettivo dei lavoratori che verrebbe danneggiato da tali atti (PROSPERETTI, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Milano 1955; RIVA - XXXXXXXXXXX, Dell’impresa in generale, Bologna-Roma, 1977; DE XXXX XXXXXX, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1979).
finitivamente, diventando inoppugnabili. Come peraltro reso lapalissiano di recente dalla Suprema Corte di Cassazione «Le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in una conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 cod. civ., con conseguente irrilevanza degli eventuali vizi formali del relativo procedimento, attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto ex art. 2113 cod. civ»2.
Detta deroga trova la propria ratio nel fatto che nelle “sedi protette”, appunto, il lavoratore trova protezione nei confronti del datore di lavoro per effetto dell’in- tervento di un terzo, quale l’autorità giudiziaria, il sindacato o l’autorità ammini- strativa.
Dunque il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare il licenzia- mento, facendone oggetto di rinunce o transazioni, sottratte alla disciplina dell’art. 2113 c.c., per il quale i risultano invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi3.
3. Il dolo omissivo del datore di lavoro
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e invocando il principio della c.d. ra- gione più liquida, giungeva al cuore del problema, riconoscendo il dolo “quale errore di diritto conseguente all’omessa valutazione della Corte territoriale dell’idoneità della condotta del datore di lavoro a trarre in inganno il lavoratore”; infatti nel do- cumento prodotto dal lavoratore, in allegato alla lettera di apertura della procedura di mobilità, la Società aveva a suo tempo espressamente incluso la posizione di E.V. tra quelle eccedentarie, salvo poi assumere poco tempo dopo un altro lavoratore per la medesima posizione.
Secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello non ha considerato che la con- dotta di “silenzio malizioso” su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni costituisce un elemento di raggiro4 idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo. «Il silenzio del datore di lavoro su situazioni di interesse del lavoratore integra, quindi, gli estremi del dolo omissivo qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con xxxxxxx e astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando
2 Cass. civ. Sez. lav., 18 marzo 2014 n. 6265.
3 Cass. civ. Sez. lav., 3 ottobre 2000 n. 13134.
4 Il raggiro può realizzarsi non solo mediante artifici positivi o dichiarazioni menzognere (SACCO, Il contratto, I, in Tratt. Xxxxx, in SACCO - DE NOVA, Torino, 1993, 428), ma anche con la reticenza o, in presenza di determinate cir- costanze, con il semplice silenzio (cd. dolo omissivo). In particolare, con riguardo al silenzio ed alla reticenza prevale nella dottrina la tesi secondo cui essi integrano gli estremi del dolo solo quando si inseriscano in un complessivo com- portamento diretto ad ingannare la vittima (BIANCA, 665; FUNAIOLI, 745). Altra parte della dottrina ritiene, invece, che il silenzio e la reticenza assumano in via generale rilevanza quando costituisca violazione di un dovere di informazione gravante sul soggetto in forza del principio di buona fede (vd. VISINTINI, La reticenza come causa di annullamento dei contratti, in RDC, 1972, I, 170; SACCO, 435; nel senso della rilevanza dei doveri legali di informazione vd. invece PE- LAGGI, Il dolo nei contratti, in GA, 1975, 455).
l’errore del deceptus».
Alla luce di quanto detto può desumersi che la transazione, anche quando forma- lizzata in un verbale di conciliazione, sia annullabile per dolo ex art. 1439 c.c. alla stregua di un qualsiasi contratto. Il dolo che determina l’annullabilità del contratto (dolus causam dans) si sostanzia di quegli artifici o raggiri utilizzati da una parte c.d. deceptor per far cadere l’altro contraente c.d. deceptus in errore, così inducendolo a concludere un contratto che, in assenza di xxxx, non avrebbe concluso. Nel caso in esame, la Corte parla di dolo omissivo, proprio perché l’omissione di informazioni e la reticenza di una parte insistono su circostanze che se conosciute, avrebbero potuto indurre l’altra parte a non firmare.
La Suprema Corte ha avuto modo di approfondire a riguardo, uniformandosi ad alcune precedenti sue pronunce, chiarendo che: “Il silenzio di una parte non modifi- ca la realtà. Esso si limita a non contrastare l’incompleta o errata percezione della stessa e non costituisce di per sé causa invalidante del contratto”5. Perché la man- cata informazione integri gli estremi del dolo omissivo sono necessari tre elementi: l’esistenza di un obbligo di rivelare determinate circostanze, che trova origine nel generale dovere di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., dal quale consegue anche il dovere di informare l’altro contraente sulle circostanze che possano incidere sulla conclusione del contratto; la consapevolezza del fine a cui tende l’omissione e quindi il dolo può consistere nella semplice omissione purché sia l’espressione di una condotta maliziosa, finalizzata a realizzare l’inganno; la condot- ta omissiva dev’essere oggettivamente in grado di trarre in inganno una persona di normale diligenza e buon senso.
Dunque la Corte, ha cassato la sentenza con rinvio alla corte d’Appello di Milano in nuova composizione, alla quale spetterà valutare se l’assunzione immediatamen- te successiva alla firma del verbale di conciliazione, per una posizione poco prima dichiarata in esubero, possa integrare un’ipotesi di dolo omissivo.
4. Conclusioni
La sentenza in commento, Cass. civ. Sez. lav., 30 marzo 2017 n. 8260, pone l’at- tenzione sul verificarsi di dinamiche alternative a quelle usuali nell’ambito della transazione.
Nella normale logica transattiva il lavoratore subisce il recesso come atto unilaterale di fronte al quale può scegliere se impugnare il licenziamento o accettare un’offerta conciliativa. In quest’ottica qualsiasi fatto successivo – come l’assunzione di un nuo- vo lavoratore in una posizione appena soppressa perché in esubero - è ininfluente nel processo volitivo finalizzato alla scelta transattiva.
Nel caso di specie, invece l’alternativa data al lavoratore consisteva tra l’accettare il licenziamento o conservare il proprio posto di lavoro, in quanto la mancata accet- tazione del licenziamento avrebbe impedito al datore di lavoro di recedere. Assume dunque rilievo quale elemento determinante del processo volitivo, la circostanza
5 Cass. civ. Sez lav., 20 aprile 2006 n. 9253; Cass. civ. Sez. III, 20 febbraio 2014 n. 4065.
che il lavoratore sapesse che la sua posizione era tra quelle dichiarate in esubero dall’azienda e che quindi, prima o poi, sarebbe stata soppressa. La condotta tenu- ta dalla Società nell’assumere un nuovo dipendente in una posizione poco prima dichiarata eccedentaria è comportamento contrario a quanto voluto rappresentare agli occhi del lavoratore, il cui processo di formazione della volontà risulta eviden- temente fondato su di una rappresentazione distorta della realtà. Tale ricostruzione trova coerente riscontro in quanto sancito dalla Suprema Corte di Cassazione per la quale: «A norma dell’art. 1439 cod. civ., il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso per la conclusione del contratto, ossia quando, determinando la volontà del contraente, abbiano ingenerato nel “deceptus” una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell’art. 1429 cod. civ. Ne consegue che a produrre l’annullamento del contratto non è sufficiente una qualunque influenza psicologica sull’altro contraente, ma sono necessari artifici o raggiri, o anche sem- plici menzogne che abbiano avuto comunque un’efficienza causale sulla determina- zione volitiva della controparte e, quindi, sul consenso di quest’ultima»6.
Sarà interessante capire come i giudici di rinvio valuteranno gli elementi a disposi- zione al fine di riconoscere la sussistenza del dolo omissivo del datore di lavoro, nel senso indicato dalla Cassazione, consistente cioè nell’aver tenuto maliziosamente nascosta, al lavoratore, l’intenzione di assumere un nuovo dipendente in una posi- zione dichiarata poco prima in esubero.
6 Cass. civ. Sez. III, 23 giugno 2015 n .12892.