FATTO
Normativa
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio
Sezione III ter
Sentenza 1° agosto 2005, n. 6068
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FATTO
Con atto notificato in data 11 febbraio 2005 e depositato il successivo 24 febbraio il ricorrente, preposto alla società gestrice del bar "Lo Scaletto" nei pressi del porto di Savona, premette di essere stato sanzionato, in data 14 gennaio 2005, dalla Polizia Municipale di Savona, quale coobbligato solidale, per la violazione dell'art. 51, V comma, della legge n. 3/2003, al pagamento di euro 420,00 per avere omesso di "far rispettare la norma di cui sopra", relativa al divieto di fumare in tutti i locali privati aperti al pubblico.
Il suddetto art. 51 ha stabilito un generale divieto di fumare in tutti i locali chiusi, salvo che si tratti di locali "privati non aperti ad utenti o al pubblico", ovvero "riservati ai fumatori e come tali contrassegnati", prevedendo un apparato sanzionatorio.
In attuazione del settimo comma dello stesso art. 51 è stato adottato, in sede di Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, un accordo per definire "le procedure per l'accertamento delle infrazioni, la relativa modulistica per il rilievo delle sanzioni, nonché l'individuazione dei soggetti legittimati ad elevare i relativi processi verbali, di quelli competenti a ricevere il rapporto sulle infrazioni accertate ai sensi dell'art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e di quelli deputati a irrogare le relative sanzioni"; tale accordo prevede l'obbligo dei conduttori dei predetti locali, o loro delegati, ad operare una generale vigilanza ed a segnalare la trasgressione ai soggetti pubblici indicati nello stesso accordo.
In particolare, sono enucleati obblighi "positivi" di ammonimento (a non fumare) e di segnalazione a pubblico ufficiale, oltre che obblighi strumentali (ad esempio, iscrizione dei nomi dei responsabili sul cartello contenente il divieto di fumare) in capo a soggetti privati (i conduttori di locali privati aperti al pubblico) che esercitano una libertà costituzionalmente tutelata (la
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libertà di iniziativa economica privata, di cui all'art. 41 della Costituzione).
L'illegittimità di tali obblighi, ed in particolare di quelli prescritti dai punti nn. 4, 2.5 e 3 dell'Accordo impugnato, diviene ancora più manifesta e conclamata nell'interpretazione che degli stessi viene fornita dalla circolare emanata dal Ministero della Salute in data 17 dicembre 2004, pure oggetto di gravame, la quale stabilisce che il richiamo al trasgressore deve essere "formale".
Deduce a fondamento del ricorso i seguenti motivi di diritto:
1) Illegittimità degli atti impugnati per violazione del principio di legalità (artt. 23, 25 e 41 Cost.; art. 51, VII comma, della legge n. 3/2003) e per falsa applicazione delle disposizioni citate.
Il punto 4 dell'Accordo impugnato prevede che i conduttori dei locali od i loro collaboratori formalmente delegati, cui spetta la vigilanza sul rispetto del divieto di fumo, "richiamano i trasgressori all'osservanza del divieto e curano che le infrazioni siano immediatamente segnalate ai soggetti pubblici incaricati a norma dei punti 2.5 e 3".
Analoghe disposizioni sono formulate dalla circolare egualmente impugnata.
In sintesi, vengono addossati ai conduttori di locali privati tre obblighi distinti, anche se coordinati: a) dovere di vigilanza generale sul rispetto del divieto di fumo all'interno del locale privato da essi gestito; b) dovere di richiamare i trasgressori all'osservanza del divieto attraverso interventi attivi e formali di dissuasione e di ammonizione; c) obbligo di curare che le eventuali infrazioni siano immediatamente segnalate agli agenti o ai funzionari di polizia, ovvero ai soggetti pubblici incaricati di accertare e di contestare la violazione di legge, oltre che di applicare la relativa sanzione.
Viene dunque imposto un preciso dovere di vigilanza a fini pubblici a soggetti privati, del tutto sfornito di base legale, e che dunque è illegittimo anzitutto per violazione del principio di legalità.
Il predetto "dovere di vigilanza" rileva come "prestazione personale" ai sensi dell'art. 23 della Costituzione, il quale enuclea una riserva relativa di legge.
Ad analoga conclusione si perviene nella prospettiva dei limiti imposti alla libertà di iniziativa economica privata, atteso che anche questi sono apponibili soltanto nel rispetto della riserva relativa di legge prevista dall'art. 41 della Costituzione.
Esiti ancora più rigorosi derivano dalla riconducibilità anche delle "pene amministrative" all'art. 25 della Costituzione, che enuclea una riserva di legge assoluta.
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L'unica disposizione di legge astrattamente invocabile è quella dell'art. 51, V e VII comma, della legge n. 3/2003; il comma VII rinvia ad un accordo della Conferenza Stato - Regioni la specificazione delle operazioni relative all'accertamento ed alla contestazione delle infrazioni al divieto di fumo; in tale norma non si fa alcun riferimento al predetto dovere di vigilanza in capo agli esercenti privati, concernendo la stessa solamente le attività (di accertamento delle infrazioni e relativa modulistica) che, in materia di infrazioni, spettano a soggetti pubblici (agenti ed ufficiali di polizia).
2) Illegittimità degli atti impugnati per violazione del principio di legalità (artt. 23, 25, 41 della Costituzione; art. 51, V comma, della legge n. 3/2003 e artt. 7 e 21 della legge n. 584/1975), nonché falsa applicazione delle disposizioni medesime.
Il dovere di vigilanza a fini pubblici, con i correlativi obblighi imposti ai gestori di locali privati, viene giustificato dalla circolare invocando come base legale l'art. 51, V comma, della legge n. 3/03, il quale rinvia all'art. 7 della legge n. 584/1975, che, a sua volta, rinvia all'art. 2 della medesima legge.
Quest'ultima norma si limita a stabilire che i gestori dei locali "curano l'osservanza del divieto, esponendo, in posizione visibile, cartelli riproducenti la norma con l'indicazione della sanzione comminata ai trasgressori".
L'interpretazione seguita dalla circolare appare palesemente erronea in quanto desume dall'art. 2 della legge n. 584/1975 (di cui è dubbia la stessa sopravvivenza dopo l'entrata in vigore della legge n. 3/2003) elementi precettivi insussistenti.
A ben vedere, degli obblighi positivi imposti ai gestori privati dalla circolare non v'è traccia in alcuna disposizione di legge; l'art. 2, III comma, della legge n. 584/1975 costituisce fondamento legislativo soltanto dell'obbligo di esporre i cartelli riproducenti il divieto di fumo.
3) Illegittimità del punto n. 4 dell'Accordo e, in parte qua, della circolare del Ministro della Salute del 17 dicembre 2004, per eccesso di potere, disparità di trattamento, sproporzionatezza, contraddittorietà, incoerenza, sviamento del potere, erroneità dei presupposti, falsa rappresentazione dei fatti, falsa applicazione di legge).
Gli atti impugnati impongono ai gestori di un locale privato obblighi positivi ricollegabili ad una posizione di vigilanza o di sorveglianza a fini pubblici (tutela della salute pubblica).
Peraltro collegare alla posizione di un soggetto privato, considerato nell'esercizio della sua libertà di iniziativa economica privata, e perciò nel suo rapporto paritario (contrattuale) con gli utenti e
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gli altri soggetti privati con i quali entra in relazione (collaboratori, fornitori, etc.), una posizione, come quella di vigilanza a fini pubblici, che comporta un rapporto di autorità e di sovraordinazione (asimmetrico), evidenzia la arbitrarietà e contraddittorietà degli atti impugnati; ed infatti il rapporto paritario tra gestore e clienti non tollera, se non a pena di contraddizione ed irrazionalità, che sia innestato su di esso una posizione di autorità di un soggetto su di un altro.
L'irrazionalità dell'imposizione a privati degli obblighi in questione evidenzia poi anche la contraddittorietà tra le finalità pubbliche dei doveri conferiti ai gestori privati e la totale mancanza in capo agli stessi soggetti dei corrispondenti poteri pubblici.
Va inoltre rilevato come, per effetto degli atti gravati, si determina la surrettizia trasfigurazione giuridica di un soggetto privato (gestore) in una figura pubblica, ovvero in un incaricato di pubblica funzione o di pubblico servizio; il che è di per sé sintomo di sviamento di potere.
4) Prospettazione, in via subordinata, della questione di legittimità costituzionale dell'art. 51 della legge n. 3/2003 e dell'art. 7 della legge n. 584/1975, come sostituito dall'art. 52, XX comma, della legge n. 448/2001, per violazione degli artt. 2, 3, 23, 25, 41 e 43 della Costituzione.
Ove si assuma che gli atti amministrativi impugnati, da cui derivano gli obblighi dei gestori privati di vigilanza e segnalazione qui contestati, rappresentino una coerente applicazione dell'art. 51 della legge n. 3/2003 e delle altre norme nello stesso richiamate, deve allora essere prospettata, per la sua rilevanza, la q.l.c. delle stesse disposizioni, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 25, 41 e 43 della Costituzione.
Con atto ritualmente notificato è intervenuta ad adiuvandum la FIPE - Federazione Italiana Pubblici Esercizi, rassegnando le medesime conclusioni del ricorrente.
Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate eccependo l'inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva e di interesse del deducente, anche in considerazione della natura degli atti impugnati, nonché per difetto di giurisdizione dell'adito giudice amministrativo, e comunque la sua infondatezza nel merito.
All'udienza del 7 luglio 2005 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. - Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso svolte dalle Amministrazioni resistenti.
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Deve essere anzitutto disattesa l'eccezione di carenza di legittimazione attiva, desumendosi dalle allegazioni di parte ricorrente e dal verbale di accertamento della Polizia Municipale di Savona che il sig. Xxxxxxxxxxxx Xxxxxxx è socio della società che gestisce il bar "Lo Scaletto", e risulta coobbligato in via solidale con l'altro socio, sig. Xxxxxxxx Xxxxxx, al pagamento della sanzione amministrativa irrogata per la violazione della normativa sul divieto di fumo.
In tale veste è peraltro anche titolare di una posizione di interesse qualificato ad impugnare gli atti che, in pretesa attuazione dell'art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, hanno disciplinato il contenuto degli obblighi dei soggetti cui spetta la vigilanza sul rispetto del divieto, la cui inosservanza schiude la strada all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Non può infatti negarsi la configurabilità in capo ai gestori di locali privati aperti al pubblico (ristoranti, bar, teatri, cinematografi) di una situazione di interesse legittimo a fare verificare la legittimità di una disciplina amministrativa direttamente incidente sulla propria attività economica.
1.1.- Egualmente infondata è l'eccezione di inammissibilità dell'impugnativa avverso la circolare del Ministero della Salute del 17 dicembre 2004.
Ed invero, nel caso di specie, non si è in presenza di una mera circolare interpretativa, che è atto interno all'Amministrazione, finalizzato essenzialmente ad indirizzare uniformemente l'azione dei vari uffici od organi, contenendo la stessa, al contrario, anche "indicazioni attuative dei divieti conseguenti all'entrata in vigore dell'art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 ...".
Né rileva la circostanza che gli obblighi imposti ai soggetti responsabili della struttura od ai loro delegati siano per la gran parte previsti dall'accordo del 16 dicembre 2004 intervenuto in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, od ancora della precedente direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 14 dicembre 1995, in quanto ciò non esclude che, dal punto di vista contenutistico, la circolare, per ragioni di opportunità e chiarezza, riproduca vincoli nei confronti di soggetti terzi, e cioè estranei all'Amministrazione, e dunque presenti caratteri di lesività, che la rendono autonomamente impugnabile.
1.2. - Allo stesso modo non sembra meritevole di positiva valutazione l'eccezione di inammissibilità dell'impugnativa del (predetto) accordo del 16 dicembre 2004, motivata con riguardo alla natura non amministrativa, ma politica, di tale atto, intercorrente tra soggetti aventi rilevanza costituzionale.
E' opportuno al riguardo sottolineare come il modulo consensuale nei rapporti tra Stato e regioni
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è espressione di quel principio di leale collaborazione che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato come strumento da utilizzare nel caso in cui si verifichino interferenze sia per la competenza legislativa, che per quella amministrativa.
Il d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, rafforzando i compiti della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, ha recepito il modulo patrizio, distinguendo tra intese (art. 3) ed accordi (art. 4).
Questi ultimi, per quanto qui rileva, sembrano assumere collocazione prevalente nel campo dell'attività amministrativa, come si desume anche dalla littera legis, ove si fa riferimento ad accordi conclusi in sede di Conferenza Stato - regioni, "nel perseguimento di obiettivi di funzionalità, economicità ed efficacia dell'azione amministrativa", "al fine di coordinare l'esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune".
La "dimensione amministrativa" che caratterizza tali accordi induce ad escludere, già sul piano oggettivo, la natura di atto politico.
Va aggiunto ancora che la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome non è organo dell'Esecutivo, e non appartiene né all'apparato statale, né a quello delle regioni, trattandosi di un'istituzione che opera nell'ambito della comunità nazionale, quale strumento per l'attuazione della cooperazione (in termini Corte cost., 31 marzo 1994, n. 116).
Anche il profilo soggettivo depone dunque nel senso di escludere la natura di atto politico dell'accordo, in conformità della giurisprudenza formatasi sull'art. 31 del t.u.c.s. (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), ritenuto ipotesi eccezionale di sottrazione al sindacato giurisdizionale di atti soggettivamente e formalmente amministrativi, nel presupposto che costituiscano espressione della fondamentale funzione di direzione ed indirizzo politico del Paese.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ritiene che, per integrare la nozione legislativa di atto politico, debbano concorrere due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: da un lato che si tratti di atto o provvedimento emanato dal Governo, dall'altro che si tratti di atto o provvedimento emanato nell'esercizio di potere politico, anziché di attività meramente amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 1996, n. 217).
Nessuno di tali due requisiti dell'atto politico sembra caratterizzare l'accordo in tale sede gravato.
Si intende peraltro che ove anche, per mera ipotesi, voglia sostenersi la natura di atto politico dell'accordo in questione, risulterebbe comunque utilmente impugnata in questa sede la circolare, che è, per quanto qui rileva, riproduttiva e specificativa del contenuto del primo.
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2. - Può dunque procedersi all'esame del merito del ricorso.
Non prima, peraltro, di avere chiarito come oggetto del medesimo non sia il divieto di fumo, inteso quale limite posto ai privati a tutela del diritto alla salute, bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona, ed impone piena ed esaustiva tutela (Corte cost., 20 dicembre 1996, n. 399), ma solamente gli "obblighi positivi" (di ammonimento e di segnalazione a pubblico ufficiale) che gli atti impugnati prevedono in capo ai conduttori di locali privati aperti al pubblico.
Ciò precisato, giova ricordare che con il ricorso, le cui censure possono essere esaminate congiuntamente, in quanto intimamente connesse, scansione articolata di una medesima prospettazione giuridica, viene dedotta la violazione del principio di legalità, e, più pregnantemente, della riserva di legge contenuta negli artt. 23, 25 e 41 della Costituzione, nella considerazione che i doveri di vigilanza, di ammonizione e di segnalazione agli agenti di polizia, prescritti dagli atti impugnati ai conduttori dei locali privati (od ai collaboratori da essi formalmente delegati), sono privi di base legislativa.
Il ricorso è fondato, e meritevole dunque di positiva valutazione.
Per chiarezza espositiva è opportuno ricordare, ancora una volta, che gli obblighi ricadenti sui soggetti responsabili della struttura o sui loro delegati sono essenzialmente quelli: a) di richiamare formalmente i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare; b) di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento del o dei trasgressori ai pubblici ufficiali od agenti ai quali competono la contestazione della violazione del divieto e la conseguente redazione del verbale di contravvenzione.
Viene dunque ad essere imposta una specifica prestazione personale che non ha peraltro fondamento legislativo.
Ed invero, l'art. 51, VII comma, della legge n. 3/2003 si limta stabilire che "entro 120 giorni dalla data di pubblicazione della presente legge nella G.U., con accordo sancito in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, su proposta del Ministro della Salute, di concerto con i Ministri della Giustizia e dell'Interno, sono ridefinite le procedure per l'accertamento delle infrazioni, la relativa modulistica per il rilievo delle sanzioni nonché l'individuazione dei soggetti legittimati ad elevare i processi verbali, di quelli competenti a ricevere il rapporto sulle infrazioni accertate ai sensi dell'art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e di quelli deputati ad irrogare le relative sanzioni".
Neppure il quinto comma dell'art. 51, che fa riferimento alle sanzioni applicabili in caso di
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infrazioni al divieto di fumo, mediante rinvio all'art. 7 della legge 11 novembre 1975, n. 584, contiene una disciplina del contenuto degli obblighi gravanti sui soggetti preposti alla vigilanza.
Infatti l'art. 7 della legge n. 584/1975, al secondo comma, stabilisce solamente l'importo della sanzione pecuniaria; l'art. 2 della legge n. 584/1975, cui rimanda l'art. 7 dello stesso testo legislativo, pur essendo l'unica norma "sostanziale", che cioè disciplina il contenuto dell'obbligo dei conduttori dei locali, si limita stabilire che costoro "curano l'osservanza del divieto, esponendo, in posizione visibile, cartelli riproducenti la norma con l'indicazione della sanzione comminata ai trasgressori".
Appare dunque evidente in primo luogo la violazione della riserva relativa di legge contenuta nell'art. 23 della Costituzione, alla stregua del quale "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge".
Ciò significa che prestazioni personali possono essere imposte per la soddisfazione di interessi pubblici, ma solamente ope legis, cui compete di indicare il soggetto pubblico abilitato ad imporre la prestazione, nonché a fissare i limiti dell'imposizione (rispettivamente, soggetto ed oggetto della prestazione imposta).
E', del resto, proprio questo il quid proprium della riserva di legge, esprimente la necessità che la legge disciplini effettivamente la materia; la distinzione tra riserva assoluta e relativa si fonda poi sull'intensità della disciplina legislativa, nel senso che nella prima ipotesi la fonte primaria deve regolare compiutamente la materia, mentre nel secondo caso detta la disciplina fondamentale, rimettendone il dettaglio ad altre fonti del diritto, gerarchicamente subordinate, anche formalmente amministrative.
In tale modo, la riserva di legge si sovrappone al principio di legalità sostanziale, imponendo al legislatore l'individuazione dei limiti contenutistici dell'azione amministrativa (in termini, Corte cost., 5 febbraio 1986, n. 34).
Ne discende che la riserva (anche relativa) pone uno specifico vincolo di contenuto a carico della legge, che nel caso di specie non risulta essere stato rispettato, neppure nel suo limite negativo, volto a circoscrivere la discrezionalità dell'Amministrazione.
Ciò sia nella prospettiva dell'art. 23 della Costituzione, sia in quella dell'art. 41, che sancisce la libertà di iniziativa economica privata, rispetto alla quale limiti sono configurabili solamente nel rispetto della riserva relativa di legge.
Più precisamente, secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, l'art. 41 della Costituzione, nell'affermare la libertà dell'iniziativa economica privata, consente l'apposizione di
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limiti al suo esercizio subordinandola ad una duplice condizione, e cioè richiedendo, sotto l'aspetto sostanziale, che essi corrispondano all'utilità sociale, e, sotto quello formale, che ne sia effettuata la disciplina per opera della legge (in termini Corte cost., 6 febbraio 1962, n. 4; 8 febbraio 1962, n. 5).
Ne deriva che occorreva una previsione legislativa per imporre i descritti doveri di vigilanza a fini pubblici nei confronti di soggetti che esercitano la propria libertà di iniziativa economica privata nell'ambito di locali aperti al pubblico, e che vengono, per effetto delle contestate prescrizioni, ad essere in qualche misura trasformati in incaricati di una pubblica funzione, o, quanto meno, di un pubblico servizio; anche sotto tale profilo appare dunque del tutto inidoneo il ricorso, nel caso di specie, agli impugnati atti amministrativi, che vengono a svolgere non già una funzione integrativa della disciplina sul divieto di fumo, ma, in violazione della norma costituzionale attributiva della competenza normativa, a regolamentare ex novo i doveri dei gestori privati, al cospetto di un avventore (sia questo un utente, un collaboratore, ovvero un fornitore), che trasgredisca all'osservanza del divieto.
La violazione della riserva relativa di legge non descrive peraltro un'ipotesi di atto adottato in carenza di potere, con conseguente difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, secondo la prospettazione dell'Amministrazione resistente.
Ed infatti si è al di fuori dell'ambito nozionale del difetto assoluto di attribuzione (c.d. carenza in astratto), manifestandosi piuttosto un cattivo uso del potere amministrativo, nei cui riguardi il privato vanta una posizione giuridica di interesse legittimo, tutelabile dinanzi al giudice amministrativo.
Non può inoltre essere condiviso l'assunto motivazionale contenuto nel punto 5) della circolare del 17 dicembre 2004, secondo cui il rinvio (indiretto) all'art. 2 della legge n. 584/1975, nell'assetto prefigurato dalla legge n. 3/2003, preclude un'interpretazione restrittiva, tale da limitare l'obbligo dei gestori soltanto alla materiale apposizione del cartello recante il divieto di fumo, in quanto risulterebbe altrimenti irragionevole l'applicazione delle severe misure sanzionatorie previste dall'art. 7, II comma, della legge n. 584/1975 (nel testo sostituito dall'art. 52 della legge 28 dicembre 2001, n. 448).
E' evidente che in tale modo la circolare viene impropriamente a fornire un'interpretazione "adeguatrice" della norma che contrasta peraltro insanabilmente con la littera legis.
Seguendo il canone ermeneutico, sancito dall'art. 12 delle preleggi, del significato grammaticale delle parole secondo la loro connessione, anche a prescindere da varie altre questioni concernenti perfino l'ambito soggettivo della prescrizione, non può sicuramente revocarsi in dubbio che il contenuto dell'obbligo imposto ai conduttori dei locali dall'art. 2, III comma, della legge n.
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584/1975 sia solamente quello di esporre, in posizione visibile, cartelli riproducenti il divieto di fumo, con l'indicazione della sanzione comminata ai trasgressori, atteso che l'uso del gerundio sta sintatticamente proprio a specificare il contenuto dell'obbligo enunciato nella proposizione principale.
La norma ora indicata costituisce dunque fondamento legislativo solamente dell'obbligo di esporre i cartelli riproducenti il divieto di fumo, e non anche degli ulteriori "obblighi positivi" illegittimamente previsti dagli atti oggetto di gravame (in specie al punto n. 4 dell'Accordo, ed ai punti nn. 4 - 5 della circolare).
3. - In conclusione, dall'accoglimento del ricorso consegue l'annullamento degli atti impugnati, nella parte in cui impongono ai soggetti responsabili di locali privati aperti al pubblico, o loro delegati, l'obbligo di richiamare formalmente i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare, e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a contestare la violazione e ad elevare il conseguente verbale di contravvenzione.
Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione III Ter, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso, e, per l'effetto, annulla gli atti impugnati, nei sensi di cui alla motivazione.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
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