LUOGHI CONFINATI E SOSPETTI DI INQUINAMENTO: QUANDO È OBBLIGATORIA LA CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI?
LUOGHI CONFINATI E SOSPETTI DI INQUINAMENTO: QUANDO È OBBLIGATORIA LA CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI?
Non vi è dubbio che il D.P.R. n. 177/2011 in tema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano in ambienti confinati o sospetti di inquinamento presenti ancora diversi punti problematici e di difficile interpretazione. Uno degli aspetti pratici che sembra di maggior interesse per le imprese che intendono esternalizzare questo tipo di lavorazioni riguarda l’interpretazione delle previsioni che stabiliscono l’obbligo di certificazione dei contratti ai sensi Titolo VIII, Capo I, X.Xxx. n. 276/2003. Quando è obbligatorio certificare e quando non è richiesto dalla legge? La questione appare piuttosto rilevante, in quanto la mancanza di certificazione dei contratti laddove essa è richiesta dalla norma comporta la mancanza di qualificazione dell’impresa o del lavoratore autonomo che esegue i lavori ai sensi dell’art. 27 D.Lgs. n. 81/2008.
La norma sul punto non è certamente chiara.
Appare opportuno preliminarmente elencare le ipotesi in cui il D.P.R. n. 177/2011 richiede la certificazione dei contratti. In questo senso, sono tre le ipotesi che qui interessano, e precisamente:
Certificazione dei contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato;
Certificazione dei contratti di appalto;
Certificazione dei contratti di subappalto.
Nell’ambito di queste categorie è dunque necessario individuare le ipotesi in cui in concreto è necessario certificare il contratto, rispetto ai casi in cui tale obbligo legale non sussiste.
Certificazione dei contratti di lavoro
Con riferimento alla prima categoria di contratti, vale a dire quella dei contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato, i dubbi che possono sorgere riguardano l’estensione soggettiva dell’obbligo di certificazione: sono da sottoporre a certificazione tutti i contratti di lavoro “flessibili” dei lavoratori coinvolti ovvero soltanto quelli che riguardano quella sorta di “nocciolo duro” che costituisce il 30 percento del personale che deve avere un’esperienza minima triennale in questo tipo di lavorazioni (si veda l’art. 2, comma 1, lett. c del D.P.R. n. 177/2011)? In effetti, la seconda opzione interpretativa “minimalista” sarebbe supportata dalla lettera della norma, la quale, laddove richiama gli obblighi di certificazione dei contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato, utilizza il participio femminile «assunta», che sul piano grammaticale può essere letteralmente riferito solo alla «percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro». Ora, tralasciando valutazioni sulla coerenza grammaticale del raccordo tra il termine «assunta» e i sostantivi femminili presenti nella frase («percentuale» ovvero «forza lavoro»), il significato letterale resta comunque quello per il quale ci si riferisce solo ai rapporti di lavoro flessibili riguardanti i lavoratori considerati esperti ed affidabili (il 30 percento della forza lavoro, appunto), in virtù dell’esperienza lavorativa specifica che deve essere almeno triennale. Infatti, ciò che la norma sembra voler sottolineare come requisito essenziale è che almeno il 30 percento della forza lavoro sia costituito da lavoratori esperti, e che tale esperienza debba essere di durata almeno triennale nelle mansioni specifiche relative alle lavorazioni in luoghi confinati. A completamento di ciò, e comunque sempre in funzione della necessità di utilizzare lavori “esperti” nella percentuale minima prevista dalla legge, sembra, sul piano dell’interpretazione letterale, doversi declinare l’obbligo di certificazione dei contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato.
Sul punto, ci si limita in questa sede a rilevare che probabilmente sarebbe stato più opportuno che il legislatore avesse previsto in ogni caso, per tutti i lavoratori, l’obbligo di certificazione dei contratti di lavoro “flessibili”; tuttavia, in via interpretativa, la presenza di tale obbligo, pur certamente auspicabile in
considerazione dell’entità dei rischi presenti in questo tipo di lavorazioni, non sembra emergere con chiarezza dall’attuale lettera della norma.
Si ritiene utile poi precisare che, in questa ipotesi normativa, la certificazione dei contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato deve avere ad oggetto non soltanto la genuinità del contratto stipulato dalle parti, ma anche la sussistenza di una esperienza lavorativa specifica almeno triennale da parte del lavoratore interessato.
Inoltre, sebbene la norma non sembri prevederne l’obbligo, la certificazione può anche risultare assai utile nel caso di quei lavoratori che siano stati assunti dall’impresa da meno di tre anni, e che tuttavia hanno un’esperienza di settore almeno triennale precedentemente acquisita presso altre imprese. Infatti, può accadere che sia difficile che il lavoratore sia concretamente in grado di dare prova al nuovo datore di lavoro delle mansioni specifiche svolte presso un’altra impresa, o perlomeno può essere difficile che egli possa documentare che le mansioni specifiche svolte presso altre imprese siano certamente riconducibili a lavori in luoghi confinati. Infatti, la norma in esame è molto recente, e dunque non vi erano obblighi particolari in tal senso prima del 2011, anno in cui è stato approvato il regolamento. La certificazione, in questo senso, può contribuire a rendere certa e documentabile per il datore di lavoro l’esperienza specifica che un proprio dipendente, anche assunto a tempo indeterminato, abbia precedentemente acquisito presso altri datori di lavoro.
Certificazione dei contratti di appalto e di subappalto
La questione interpretativa certamente più problematica riguarda l’esistenza o meno, nel caso concreto, dell’obbligo di certificazione del contratto di appalto principale tra committente ed appaltatore, vale a dire del contratto di appalto che non viene sottoposto ad ulteriore esternalizzazione mediante ricorso al subappalto.
Si tratta dell’ipotesi in concreto più rilevante e ricorrente nell’ambito delle lavorazioni in luoghi confinati e/o sospetti di inquinamento. Infatti, nella maggior parte dei casi, le imprese che operano nei più diversi settori produttivi dove oggettivamente possono riscontrarsi operazioni da effettuare in luoghi confinati scelgono normalmente di esternalizzarne l’esecuzione rivolgendosi ad imprese specializzate. Si pensi ad esempio a operazioni saltuarie anche estranee al normale ciclo produttivo aziendale, come quelle di manutenzione straordinaria di macchinari presenti in azienda. Questo tipo di contratto è sottoposto all’obbligo di certificazione?
La questione non appare di facile soluzione, e deve essere risolta attraverso la lettura ragionata di un passo normativo contenuto nell’art. 2, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 177/2011.
In primo luogo, occorre osservare che, poiché la norma letteralmente prevede un obbligo di certificazione del contratto di appalto, non è possibile sostenere che tale obbligo non sussista in alcuna ipotesi. Piuttosto occorre individuare, sul piano interpretativo, quale sia la portata dell’obbligo, interpretazione che dunque non può riguardare l’an, cioè la sussistenza o meno dell’obbligo (la norma infatti stabilisce l’esistenza dell’obbligo), ma piuttosto il quando o il quomodo (individuando cioè la portata e l’ampiezza dell’obbligo).
Nel testo normativo, il riferimento all’appalto si inserisce nella previsione per la quale la forza lavoro, con esperienza almeno triennale, possa essere assunta a tempo indeterminato «ovvero con altre tipologie contrattuali o di appalto». La difficoltà interpretativa nasce da una discutibile concordanza logico-grammaticale del testo, in base alla quale risulterebbe letteralmente che la forza lavoro potesse essere assunta con contratto di appalto. Ovviamente, poiché il contratto di appalto è un contratto commerciale e non un contratto di lavoro, per comprendere l’espressione occorre tralasciarne il significato puramente letterale/formale, e considerare l’espressione nella sua portata sostanziale. Qui si intende dire che, nel caso in cui le lavorazioni vengano affidate a personale che opera in virtù di un contratto di appalto alle dipendenze di un appaltatore, sussiste un’ipotesi di obbligo di certificazione del contratto di appalto. Ma qual è la portata di quest’obbligo? Si
deve ritenere che tutti i contratti di appalto che abbiano ad oggetto l’esecuzione di opere in luoghi confinati siano soggetti all’obbligo di certificazione?
Questa è indubbiamente un’ipotesi interpretativa possibile. Nella sua ampiezza, certamente essa risulterebbe efficace nel garantire in ogni caso una verifica, da parte della Commissione di certificazione, sulla effettiva qualificazione dell’impresa appaltatrice che si incarica della esecuzione di lavorazioni particolarmente rischiose come certamente sono quelle da eseguire in luoghi confinati.
D’altro canto, però, si osserva, questa interpretazione così ampia dell’obbligo di certificazione finisce per includere anche le ipotesi in cui il contratto di appalto non sia di tipo endoaziendale in senso strettamente topografico, ma debba piuttosto essere eseguito in locali nella disponibilità giuridica dell’appaltatore o di un terzo, ma non del committente. In questi casi, infatti, si può ritenere meno evidente la necessità di certificazione del contratto di appalto principale, proprio perché le lavorazioni materialmente non avvengono in luoghi sottoposti alla disponibilità giuridica del committente.
Si pensi ad esempio ai lavori di allacciamento fognario di uno stabile alla fogna principale, o più in generale a lavori di manutenzione in cunicoli tombati (non a cielo aperto). In questo caso, ad esempio, i lavori vengono eseguiti dall’impresa specializzata su tratte interrate, e dunque in spazi confinati, che non necessariamente sono nella disponibilità giuridica del committente (ad esempio dell’Ente/Azienda che gestisce la rete fognaria), ma che possono essere tratte di sottosuolo appartenenti a privati a beneficio dei quali l’Ente commissiona i lavori. O, viceversa, è possibile che un privato sia di fatto il committente di lavori appaltati che devono essere effettuati su tratte di proprietà pubblica.
In queste ipotesi e in casi analoghi, dunque, sembra meno giustificabile l’interpretazione estensiva che prevede la necessità di certificare comunque il contratto di appalto, sia con riferimento alla verifica della corretta qualificazione dell’appalto rispetto alla somministrazione di lavoro (art. 84 D.Lgs. n. 276/2003), sia nel senso di effettuare una verifica della qualificazione in concreto dell’impresa esecutrice, la quale è comunque assoggettata agli obblighi di qualificazione previsti dagli artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 177/2011.
Pertanto, una diversa lettura possibile, meno ampia e forse più strettamente coerente con la lettera e con la finalità della norma, appare quella che qui si intende proporre, secondo la quale l’obbligo di certificazione del contratto di appalto principale sussiste sempre quando committente ed appaltatore operino entrambi in luoghi confinati e/o sospetti di inquinamento, ovvero in luoghi adiacenti con essi interferenti. Secondo l’interpretazione proposta, si tratterebbe dunque di un obbligo che sussiste sul piano sostanziale nei casi di possibili interferenze tra attività svolte dal committente ed attività svolte dall’appaltatore.
Questo tipo di interpretazione, poi, sarebbe supportata anche sul piano della lettera della norma. Infatti, la lettera c) del comma 1 dell’art. 2 del D.P.R. n. 177/2011 dovrebbe essere letta alla luce dell’incipit del comma 1 a cui essa si riferisce, il quale recita «qualsiasi attività lavorativa nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati può essere svolta unicamente da imprese o lavoratori autonomi qualificati in ragione del possesso» dei requisiti specificati nei punti declinati dalla lettera a) alla lettera h) della norma. Quindi, ciò che la norma intende regolare (qualificare), anche attraverso lo strumento dell’obbligo di certificazione del contratto di appalto, è l’attività delle imprese che concretamente operano in ambienti confinati. Secondo questa interpretazione teleologica, dunque, nel caso in cui l’attività lavorativa da svolgere in ambiente confinato sia interamente affidata ad un’impresa appaltatrice che la realizza in piena autonomia e senza interferenza con l’attività lavorativa dell’impresa committente, l’obbligo di certificazione non dovrebbe sussistere. Si pensi ad esempio al caso dell’impresa proprietaria di un impianto di distribuzione di carburante che esternalizzi la manutenzione straordinaria (dunque ad impianto fermo) dei serbatoi interrati, laddove le lavorazioni debbano avvenire all’interno dei serbatoi. In questo caso, secondo la lettera della norma, l’attività viene completamente eseguita dall’impresa appaltatrice, senza alcun contatto con l’attività del committente. Insomma, il committente non opererebbe in ambienti confinati, in quanto sceglie di affidarsi ad un’impresa specializzata, la quale deve certamente essere qualificata ai sensi del D.P.R. n. 177/2011. Pertanto, secondo l’interpretazione qui proposta, non sarebbe necessario certificare il contratto di appalto, in quanto l’impresa
esecutrice sarebbe l’unica impresa qualificata ad operare concretamente in ambienti confinati e/o in ambienti con essi interferenti.
Al contrario, sempre seguendo questa interpretazione, qualora le caratteristiche concrete dell’appalto prevedessero l’interazione tra due imprese (committente ed appaltatore), allora certamente il contratto di appalto dovrebbe essere sottoposto a certificazione. Si pensi a mero titolo di esempio ad un’impresa che costruisce serbatoi che, per l’installazione di alcuni componenti, si serva di un’impresa specializzata. In questo caso, sia i dipendenti dell’impresa committente, sia quelli dell’impresa appaltatrice (che esegue l’installazione) opererebbero in concreto in ambienti confinati, e dunque l’appalto dovrebbe essere sottoposto obbligatoriamente a certificazione. La norma, infatti, si ripete, prevede che l’attività nei luoghi confinati (e/o sospetti d’inquinamento, si ricorda) debba essere concretamente eseguita (la lettera della norma recita appunto «può essere svolta unicamente») da imprese qualificate ai sensi dell’art. 27 D.Lgs. n. 81/2008, di cui il D.P.R. n. 177/2011 costituisce una concreta attuazione. Quindi, in definitiva, se entrambe le imprese (committente e appaltatore) operano, o meglio possono in concreto operare, in lavori da eseguire in luoghi confinati, allora il contratto di appalto principale deve essere obbligatoriamente certificato, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno ricorso al subappalto.
Sempre a sostegno di questa tesi si pone anche l’argomento sistematico in base al quale, in presenza di lavoratori appartenenti a due diverse organizzazioni d’impresa, entrambe le imprese devono essere in possesso del requisito previsto dalla lettera c) della norma in commento, vale a dire che in entrambe le imprese devono essere presenti, almeno nella misura del 30 percento, lavoratori con esperienza almeno triennale assunti con contratti di lavoro a tempo indeterminato (ovvero, se con contratti di lavoro diversi, questi devono essere certificati, come sopra specificato), ed è inoltre necessario che tra le due imprese sia previsto un raccordo specifico in termini di gestione delle possibili interferenze (tramite DUVRI da allegare obbligatoriamente al contratto di appalto ai sensi dell’art. 26, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, ovvero tramite PSC/POS, nel caso di applicazione del Titolo IV della medesima norma). L’adempimento da parte delle due aziende a queste condizioni è oggetto di verifica in sede di certificazione del contratto di appalto, che in questa ipotesi risulta appunto obbligatoria.
Quella prospettata, dunque, appare una via interpretativa percorribile, che si pone come intermedia tra la situazione attuale che di fatto sembra attualmente registrarsi tra gli operatori, i quali perlopiù pare si limitino a certificare soltanto i contratti di subappalto, sostanzialmente ignorando l’obbligo di certificazione dell’appalto principale previsto dall’art. 2, comma 1, lettera c) del regolamento, e una interpretazione particolarmente estensiva che vorrebbe riconoscere l’obbligo di certificazione a tutti gli appalti.
Certamente però, sul punto, che rimane assai controverso, sarebbe assai auspicabile un chiarimento almeno in via amministrativa da parte del Ministero del lavoro, o eventualmente da parte della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 6 TUSIC.
Non pare invece particolarmente problematica la previsione di cui all’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 177/2011, in base alla quale il subappalto da eseguire in ambienti confinati deve comunque essere sottoposto obbligatoriamente alla procedura di certificazione. Nell’ipotesi del contratto di subappalto, infatti, la giustificazione dell’obbligo di certificazione non appare più condizionata dalla lettera della norma, come nel caso della certificazione dell’appalto principale (art. 2, comma 1, lettera c), alla necessità di garantire la presenza di personale qualificato sulla base di un’esperienza almeno triennale e sulla base di contratti di lavoro “stabili”, ma piuttosto viene estesa a qualsiasi subappalto che riguardi lavorazioni in luoghi confinati e/o sospetti di inquinamento, senza possibilità di particolari fraintendimenti sulla portata generale di questo obbligo.
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Commissione di certificazione Centro Studi Internazionali e Comparati “Xxxxx Xxxxx” Università di Modena e Reggio Xxxxxx