UNIVERSITA’ DI PISA
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UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO NELLA MODA
Il Candidato Il Relatore
Xxxxxxx Xxxx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
A.A. 2015/2016
Al mio babbo, a cui non è stato concesso il tempo per assistere a questo momento ma che ha creduto in me e mi ha sempre sostenuto.
INDICE
INTRODUZIONE pag. 1
CAPITOLO I
IL MARCHIO CHE GODE DI RINOMANZA E L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA
1. Il marchio e le fonti normative………………………………………….....pag. 8
2. Le funzioni del marchio: funzione di indicazione d‟origine, funzione di garanzia qualitativa e funzione suggestiva………………………………….pag. 10
3. La tutela dei marchi celebri prima della riforma del 1992……………….pag. 21
4. La tutela dei marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda……………pag. 30
5. Il D.lgs. 480 del 1992 e l‟introduzione della disciplina del marchio che gode di rinomanza…………………………………………………………………...pag. 33
CAPITOLO II
LA DISCIPLINA A TUTELA DEL MARCHIO NEL SETTORE DELLA MODA
1. L‟ambito di protezione per il titolare del marchio……………………….pag. 39
2. Uso di un segno identico per prodotti o servizi identici………………….pag. 42
3. Uso di segni identici o simili per prodotti o servizi identici o affini: il rischio di confusione e di associazione………………………………………………..pag. 44
4. La tutela ultramerceologica per i marchi che godono di rinomanza……..pag. 54
5. Il concetto di “rinomanza”……………………………………………….pag. 56
6. Ambito merceologico della tutela e pubblico di riferimento…………….pag. 61
7. Il caso Xxxxxxxx e l‟estensione della tutela a prodotti o servizi identici o affini………………………………………………………………………...pag. 65
8. Ambito territoriale nazionale……………………………………………..pag. 71
9. Ambito territoriale comunitario: il concetto di “parte sostanziale del territorio della Comunità”…………………………………………………………….pag. 72
10. L‟elaborazione del concetto di “nesso”……………………………........pag. 75
11.1 Pregiudizio ed indebito vantaggio: criteri di valutazione pag. 81
11.2 Le ipotesi di pregiudizio e di indebito vantaggio……………………...pag. 84 12. Il giusto motivo…………………………………………………………pag. 92
CAPITOLO III
LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO NELLA GIURISPRUDENZA
1. La contraffazione del marchio nella moda………………………...……pag. 102 2. I marchi di forma………………………………………………………..pag. 104
3. I marchi costituiti da lettere……………………………………………..pag. 121
4. I marchi costituiti da colore…………………………………………......pag. 142 5. I marchi patronimici…………………………………………………….pag. 150
CAPITOLO IV
LA CONTRAFFAZIONE SUL WEB: LE SFIDE DI INTERNET AL SISTEMA DELLA MODA
1. La contraffazione in Internet: dal domain grabbing all‟uso come meta-tag o
adword fino ai rischi dei social network…………………………………..pag. 170
2. Il fenomeno del domain grabbing o cybersquatting……………………pag. 173 3. I meta-tag……………………………………………………………….pag. 180
4. Il keyword advertising: la responsabilità dell‟inserzionista, del motore di ricerca e del gestore del mercato elettronico………………………………………pag. 182
5. I social network ed il loro ruolo nella contraffazione del fashion………pag. 196
6. La giurisdizione e la competenza………………………………….……pag. 200
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………........pag. 208
INTRODUZIONE
La contraffazione è oggi uno dei fenomeni maggiormente diffusi, che grava in modo consistente sul sistema economico, minacciando il buon andamento del mercato. Esso si è progressivamente insediato in quasi tutti i settori dell‟economia, dai medicinali ai tabacchi, dai cd/dvd all‟alimentare, dall‟abbigliamento al calzaturiero, dai profumi agli orologi, dagli occhiali ai gioielli.
Per quel che riguarda il settore della moda e del lusso, cui è circoscritta l‟analisi compiuta in questa tesi, i fenomeni contraffattivi sono quelli che hanno ad oggetto il marchio ed il prodotto.
Nella prima ipotesi si verifica un‟imitazione fedele o una riproduzione simile dell‟altrui marchio apposto su prodotti identici o affini ma anche diversi da quelli offerti del titolare del segno distintivo. La contraffazione può riguardare anche le linee stilistiche del prodotto che, unitamente all‟apposizione di un marchio identico o simile a quello che contraddistingue l‟originale, possono indurre il consumatore all‟acquisto del bene contraffatto.
Scopo di questo lavoro è analizzare le norme e gli strumenti di tutela del marchio celebre alla luce degli orientamenti della giurisprudenza nazionale ed europea nel settore della moda.
Il primo capitolo sarà dedicato alla descrizione delle funzioni giuridicamente protette del marchio, rilevando come queste si siano progressivamente ampliate.
Il marchio è un simbolo, che opera come fattore di identificazione, creando un collegamento ideale esclusivo e costante con un determinato oggetto. Esso, dando un nome a certi prodotti o servizi, funge da essenziale strumento di comunicazione tra le imprese ed i consumatori e consente a questi ultimi, attraverso la diversificazione dei beni, di operare le proprie scelte di mercato: il marchio, quindi, si presenta come uno strumento di comunicazione, di informazione e di concorrenza, costituendo un elemento indefettibile dell‟avviamento e del valore dell‟azienda.
Particolarmente dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza è stato il problema della
identificazione della funzione giuridicamente protetta del marchio.
Attualmente, si ravvisano tre tipologie di funzioni economiche del marchio: una funzione distintiva, e cioè di identificazione della fonte di provenienza del prodotto; una funzione di garanzia qualitativa, intesa quale aspettativa da parte del consumatore di una costanza qualitativa dei prodotti contrassegnati dal medesimo marchio; ed, infine, una funzione suggestiva o pubblicitaria, che si esplica nell‟attitudine del segno ad essere dotato di un intrinseco potere di richiamo ed a divenire un “collettore della clientela”.
Anteriormente alla riforma della legge marchi con D.lgs. 480/1992, in attuazione della Direttiva 89/104/CEE, la tesi prevalente era quella secondo cui la funzione distintiva fosse la sola a godere di una giuridica protezione nell‟ordinamento sulla base di precisi indici testuali, tra i quali spiccava, soprattutto, il vincolo tra marchio ed azienda previsto dall‟art. 15 l.m. in materia di circolazione del segno. Parimenti, la quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza era schierata per il ripudio dell‟autonoma tutelabilità della funzione di garanzia del marchio, considerandola alla stregua di un particolare aspetto della funzione distintiva, ma vi era chi, pur riconoscendo la preminenza di quest‟ultima, poneva in rilievo anche la funzione pubblicitaria del marchio e la sua valenza suggestiva.
Il quadro è radicalmente cambiato a seguito della novella del 1992, che ha depotenziato la tutela accordata alla funzione di indicazione di provenienza e ha condotto ad un totale ripensamento di quella funzione di garanzia qualitativa e di quella suggestiva grazie alla previsione della circolazione libera del marchio (rafforzata dal divieto di uso ingannevole del medesimo), ma soprattutto alla introduzione di una tutela allargata per il marchio che gode di rinomanza.
La carica innovativa della riforma si coglie nello spostamento dell‟asse della protezione verso la salvaguardia dei valori commerciali del marchio in sé, senza alcun riferimento merceologico ai prodotti o servizi contrassegnati.
Ad essere tutelata non è più la sola funzione distintiva, tradizionalmente intesa come idoneità del marchio a consentire ai consumatori di distinguere i prodotti o i servizi di un‟impresa da quelli di un‟altra; il che implica che la tutela sia limitata alle ipotesi di adozione di un segno identico o simile da parte di un terzo per prodotti o servizi identici o affini, ossia a situazioni in cui possa ingenerarsi un
rischio di confusione per il pubblico (c.d. principio relatività o specialità della tutela).
Un marchio, infatti, quando sia particolarmente noto ed affermato presso la platea dei consumatori, diviene un formidabile strumento di richiamo che può essere sfruttato nella comunicazione con il pubblico per qualsiasi tipologia di merce. Una siffatta situazione comporta l‟instaurarsi di una forma di concorrenza basata non sulla qualità del bene, ma sulla forza di suggestione del segno.
Si apre, così, la via all‟autonomo riconoscimento di una funzione suggestiva, attrattiva o pubblicitaria del marchio, che viene sempre più a configurarsi come un “collettore della clientela”.
Il risultato più evidente della riforma del 1992 è costituito dalla tutela rafforzata dei segni dotati di particolare rinomanza (come sono quelli legati al mondo del lusso e della moda), la cui protezione non è più circoscritta dal principio di specialità, prescindendo, quindi, dal riferimento a determinati settori merceologici e dal rischio di confusione del pubblico quanto all‟origine dei beni (c.d. tutela ultrameceologica).
Un analogo spostamento del baricentro verso la salvaguardia del valore pubblicitario incorporato nel segno si è riscontrato nella giurisprudenza nazionale e comunitaria: in particolare, gli orientamenti dei giudici nazionali, del Tribunale di primo Grado e della Corte di Giustizia sono mutati rispetto all‟originaria attribuzione di tutela alla sola indicazione d‟origine imprenditoriale del prodotto, contemplando anche la protezione di una triade di funzioni, di “comunicazione, investimento e pubblicità”, connesse alla forza suggestiva del segno.
Oggi, dunque, è unanimemente riconosciuto che il marchio svolge una funzione ben più ampia di quella strettamente distintiva, venendo ad abbracciare tutte le possibili strategie commerciali del suo titolare, basate ora sulla capacità del segno di identificare una determinata impresa presso il pubblico, ora sullo sfruttamento di valori pubblicitari, ora sulla valorizzazione di segni esteticamente accattivanti o psicologicamente suggestivi.
Il marchio è così diventato uno strumento pubblicitario e di promozione: in esso vengono a coesistere due anime diverse, da un lato quella distintiva e, dall‟altro, quella attrattiva; sicché, come affermato da Xxxxxxxx, alla tradizionale funzione di
indicazione di origine se ne affianca un‟altra di natura suggestiva, tesa alla repressione di ogni forma di parassitismo realizzata tramite l‟utilizzo del marchio altrui.
Nel secondo capitolo saranno approfonditi i requisiti che la legge richiede per la tutela dei marchi che godono di rinomanza, alla luce delle interpretazioni che offerte a livello nazionale ed europeo nel settore dei beni della moda e del lusso.
L‟art. 20 del Codice della Proprietà Industriale al comma 1 lettera c) riconosce al titolare la facoltà di vietare ai terzi di usare un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, venendo in tal modo riconosciuta la c.d. tutela ultramerceologica, che prescinde, cioè, dal pericolo di confusione tra i prodotti e dai limiti posti dal principio di relatività, laddove un uso ingiustificato consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno o rechi pregiudizio agli stessi.
Con questa norma, dunque, si attribuisce una particolare protezione ai marchi notori, dal momento che essi comunicano un messaggio, cui è possibile agganciarsi, sfruttandone economicamente il valore simbolico o il richiamo psicologico, anche nel caso in cui può risultare evidente che i prodotti o i servizi provengono da un soggetto diverso. In alcuni casi, infatti, pur mancando il rischio di confusione, il pubblico può comunque trasferire sul prodotto o sul servizio dell‟imitatore una parte delle valenze positive che vengono riconosciute al marchio originale.
Questa disciplina ha lo scopo di proteggere il titolare del marchio dal pregiudizio che potrebbe derivare dall‟offuscamento del potere evocativo e del valore simbolico del segno, per essere stato associato a prodotti non affini ma di natura vile, di qualità scadente o comunque non in linea con la sua immagine, o dall‟indebolimento del carattere distintivo a causa del venir meno della sua unicità sul mercato.
Si vuole, inoltre, impedire che un terzo si appropri di un marchio rinomato altrui, il quale, grazie alla forte pubblicità ed al massiccio uso nel tempo di cui è stato oggetto, possiede in sé un particolare valore simbolico-attrattivo, diventando un simbolo del glamour, con conseguente potere di orientare e di influenzare le scelte dei consumatori (il c.d. sellig power).
L‟agganciamento parassitario all‟immagine del marchio celebre imitato induce, infatti, il pubblico ad operare un collegamento psicologico anche inconscio tra i due segni, permettendo al contraffattore di acquisire indebitamente uno spazio specifico sul mercato che altrimenti non avrebbe occupato.
Nel terzo capitolo ci soffermeremo sull‟analisi di alcuni casi giurisprudenziali relativi ai marchi maggiormente impiegati nel settore della moda, quali i marchi di forma, i marchi costituiti da lettere, i marchi di colore ed i marchi patronimici, evidenziando le diverse posizioni assunte dai giudici nazionali e comunitari nell‟offrire tutela giuridica a questi segni contro gli atti di contraffazione.
Infine, il quarto ed ultimo capitolo sarà dedicato alle problematiche, sempre più in espansione, legate al fenomeno di Internet.
Il marchio non è solo uno strumento utilizzato da un‟impresa ai fini della distinzione sul mercato, ma un fondamentale mezzo di comunicazione, utile all‟impresa per ricollegare ad essa ed ai suoi prodotti e servizi una serie di suggestioni, messaggi, informazioni, tali da poter far considerare i suoi segni dal pubblico addirittura come un simbolo o comunque uno status.
Il miglior modo per proteggere i valori simbolici e tutte le funzioni dei marchi è quello di allargarne l‟ambito di tutela a tutte le attività che interferiscano con il loro corretto uso e che consentano illecitamente di poter trarre indebito vantaggio dal loro carattere distintivo o dalla loro rinomanza ovvero che arrecano pregiudizio agli stessi.
Questo principio è ancora più valido se si tratta di Internet, ove l‟effetto comunicativo è amplificato all‟ennesima potenza: sul web, infatti, in pochi istanti tutto il Mondo può venire in contatto ed effettuare qualsiasi attività anche in ambito economico e commerciale.
Negli ultimi anni si è assistito all‟esponenziale aumento dei fenomeni legati alla contraffazione via web. Non sono mancati, infatti, soggetti che hanno potuto sfruttare dapprima alcune lacune normative e godere dell‟anonimato garantito da tale mezzo di comunicazione, al fine di poter compiere azioni illecite, che sono andate nella direzione dello sfruttamento parassitario dei marchi celebri, in particolare quelli del settore moda e profumi.
Sempre più frequente è il fenomeno del domain grabbing o cybersquatting, per il
quale un terzo registra un domain name utilizzando il marchio rinomato altrui o una parte di esso. In questo modo si determina un pregiudizio al segno distintivo, perché si interferisce con l‟altrui attività economica, anche impedendo la mera registrazione del sito da parte dell‟effettivo titolare del marchio rinomato, ed un vantaggio indebito da parte dell‟imitatore che può agganciarsi ai segni originali, facendo transitare sulle proprie pagine gli utenti di Internet che stavano cercando il sito ufficiale del marchio famoso, e che può realizzare un lucro dal trasferimento del dominio a chi ne abbia interesse.
Altra pratica diffusissima è quella dell‟utilizzo di un marchio altrui come meta- tag. I meta-tag sono parole non visibili dagli utenti, ma che vengono utilizzate dai motori di ricerca per indicizzare i vari indirizzi sulla rete. Pertanto il creatore di un sito, per renderlo più visibile e raggiungibile, potrebbe inserire come parole chiave marchi rinomati, ottenendo che la propria pagina web sia nei primi posti dei risultati dei motori di ricerca, pur non avendo nulla a che fare con i reali titolari dei segni distintivi rinomati. Anche in questo caso ci troviamo davanti ad uno sfruttamento parassitario del marchio celebre altrui o, secondo alcuni, in un‟ipotesi di pubblicità ingannevole o occulta.
Negli ultimi anni si è particolarmente sviluppata una ulteriore pratica, di regola lecita, simile al fenomeno dei meta-tag, detta keyword advertising, che consiste in un servizio di posizionamento, fornito a pagamento dai gestori di motori di ricerca, di link sponsorizzati dagli inserzionisti per far apparire, tramite l‟utilizzo di parole chiave da loro selezionate, ma inserite da chi naviga, il proprio sito nelle prime posizioni dei risultati della ricerca. Solitamente questi link hanno un colore o un carattere diverso che dovrebbe evidenziarne l‟indole pubblicitaria.
Questo sistema pubblicitario rischia evidentemente di provocare conflitti con i diritti della proprietà industriale altrui, ad esempio nel caso in cui un inserzionista scelga, come keyword, un segno uguale o simile al marchio altrui, a prescindere che tale soggetto inserisca poi realmente il marchio in questione nel suo sito o nella pubblicità dello stesso.
Il problema che si pone, e che è stato approfondito dalla Corte di Giustizia, non è tanto quello di stabilire se queste condotte parassitarie siano illecite, ma identificare quali soggetti ne devono rispondere, per evitare che l‟anonimato e
comunque la mancanza di luoghi fisici identificabili facciano di Internet un porto franco della contraffazione.
Le possibilità fornite dalla rete appaiono, comunque, ad oggi infinite: pertanto, le fenomenologie di comportamenti illeciti citati sopra non vanno certo ad esaurire l‟intero ambito delle possibili interferenze coi marchi ed i diritti della proprietà industriale, risolvendosi essa in una rassegna esemplificativa, raccolta grazie ai pronunciamenti dottrinali e giurisprudenziali negli anni. In particolare, un fenomeno di recente sviluppo riguarda la contraffazione attraverso l‟uso dei social network. Questi rappresentano un valido strumento per le imprese di moda per aumentare la propria popolarità ed incrementare le vendite. Infatti, in un mercato sempre più competitivo si rende necessario instaurare un rapporto con i consumatori e coinvolgerli permettendo loro di confrontare idee e condividere emozioni. Ma con l‟espandersi di queste piattaforme, dove i contenuti vengono messi a disposizione di un grandissimo bacino di utenti, diventa essenziale una verifica dei flussi di informazione, dal momento che i social network possono diventare un mezzo efficace per eludere i sistemi di controllo ed utilizzare illecitamente i marchi altrui.
La rete, così com‟è stata il banco di prova della nuova tutela “allargata” dei marchi, è oggi il luogo nel quale si sperimentano i tentativi di rinvenire un limite a questa ampia protezione, che contemperi la tutela effettiva di questi diritti in ciò che concretamente rappresentano nel mercato con le esigenze pro-concorrenziali che del mercato sono il carattere fondante.
CAPITOLO I
IL MARCHIO CHE GODE DI RINOMANZA E L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA
Sommario: 1. Il marchio e le fonti normative. – 2. Le funzioni del marchio: funzione di indicazione d‟origine, funzione di garanzia qualitativa e funzione suggestiva. – 3. La tutela dei marchi celebri prima della riforma del 1992. – 4. La tutela dei marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda. – 5. Il D.lgs. 480 del 1992 e l‟introduzione della disciplina del marchio che gode di rinomanza.
1. Il marchio e le fonti normative.
Si possono definire segni distintivi quegli elementi che identificano un determinato imprenditore, il luogo dove questo svolge la sua attività economica e il segno che contraddistingue beni e servizi che sono il frutto di tale attività. Ditta, insegna e marchio sono considerati segni distintivi tipici e, in quanto tali, sono tutelati dal nostro ordinamento per far sì che l‟imprenditore trovi attorno a sé una sfera di protezione che gli permetta di svolgere in piena libertà la propria attività senza alcun ostacolo al dispiegarsi della libera concorrenza.
Il marchio, in particolare, è il segno destinato a comunicare informazioni circa la provenienza di un determinato bene o servizio ed è lo strumento utilizzato dalle imprese nel rapportarsi con i clienti: infatti, questo permette ai consumatori di effettuare la loro scelta tra i diversi beni e servizi presenti sul mercato attribuendo meriti e demeriti all‟imprenditore dal quale questi effettivamente provengono1.
L‟imprenditore con l‟apposizione di un segno sulla sua produzione costruisce una propria identità di marca che gli consentirà di rendersi, appunto, riconoscibile ai consumatori e di differenziarsi dai concorrenti.
1 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, Xxxxxxx, Milano, VII ed., 2012, pag. 149.
Il marchio, quindi, risulta essere uno strumento di comunicazione fra imprese e consumatori, di informazione e concorrenza; per tali peculiarità assume un rilievo preminente rispetto a tutti gli altri segni distintivi. In considerazione di questa preminenza il legislatore ha dettato per tale segno una speciale ed ampia disciplina, imperniata su di un procedimento amministrativo detto registrazione. Di qui il termine di marchio registrato che evoca appunto la speciale disciplina cui questo segno è soggetto2.
Ad esso il legislatore ha dedicato fin dai primi tempi dell‟unità d‟Italia una dettagliata regolamentazione, contenuta in alcuni articoli del Codice Civile (artt. 2569-2574 c.c.) ed in una legge speciale, il r.d. 21 giugno 1942, n. 929. Questa legislazione è rimasta sostanzialmente integra fino ad una profonda revisione realizzata con il D.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, in attuazione della Direttiva 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazione degli Stati membri in materia di marchi (ora sostituita dalla Direttiva 2008/95/CE). Ulteriori modifiche sono state introdotte con il D.lgs. 19 marzo 1996, n. 198, che ha adeguato la nostra legislazione agli accordi internazionali cosiddetti TRIPs del 1994. Infine la materia è stata inserita nel Codice della Proprietà Industriale adottato con D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30. Il c.p.i. ha subito numerose modifiche: anzitutto con il D.lgs. 140/2006 (emanato in attuazione della Direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, c.d. “Direttiva enforcement”), con la Legge 99/2009, ma la revisione più ampia è stata apportata con il D.lgs. 131/2010 (c.d. “decreto correttivo”).
Oltre che nella normativa nazionale, il marchio ha trovato poi una specifica disciplina a livello comunitario con la già menzionata Direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni nazionali degli Stati membri in materia di marchi, trasferita nella nostra legislazione, e con il Regolamento 207/2009/CE sul marchio comunitario, che ha sostituito il Reg. 40/94/CE: si tratta di un marchio il cui carattere unitario si riflette sul fatto che esso può essere registrato, trasferito, rinunciato, dichiarato nullo o decaduto ed il suo uso può essere vietato per la totalità dell‟Unione. A ciò si aggiungono il corpo della giurisprudenza comunitaria formatasi in materia e le decisioni di tipo amministrativo rese in sede
2 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 150.
UAMI (Ufficio per l‟Armonizzazione del Mercato Interno) concernenti la valutazione nell‟esame preventivo, nell‟opposizione o nei giudizi di nullità dei marchi comunitari, dei requisiti di validità di essi, che seguono canoni, inseriti in un vero e proprio “Manuale Pratico”, ai quali il Tribunale di primo Grado, la Corte di Giustizia e i giudici nazionali tendono ad adeguarsi.
Infine l‟istituto del marchio è stato preso in considerazione da due importanti convenzioni internazionali. Si tratta della Convenzione dell‟Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883, che è ora vigente in Italia nel testo di Stoccolma del 14 luglio 1967; nonché dell‟Accordo di Madrid concernente la registrazione internazionale dei marchi di fabbrica e di commercio del 1891, cui si è affiancato il Protocollo di Madrid del 27 giugno 1989, che hanno introdotto un sistema di deposito e di registrazione dei marchi idoneo a valere in tutti gli Stati aderenti.
2. Le funzioni del marchio: funzione d'indicazione d'origine, funzione di garanzia qualitativa e funzione suggestiva.
Nessuno studio sui marchi può prescindere dall'affrontare, seppur brevemente, il problema a lungo dibattuto in dottrina sulla determinazione della funzione del marchio.
É proprio partendo dalla natura giuridica del marchio e dalla sua funzione che dottrina e giurisprudenza, sia anteriori che successive alla riforma del 1992, hanno, infatti, elaborato le diverse teorie sul marchio rinomato e sull'ambito della sua tutela. Determinando il contenuto del diritto di esclusiva attribuito dal marchio, del diritto cioè che conferisce al titolare l'uso esclusivo del segno vietando ai terzi l'adozione e l'uso dello stesso segno o di segni con esso confondibili, sono stati individuati i confini tra la tutela dei marchi ordinari e quella dei marchi che godono di rinomanza3.
3 SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Xxxxxxx, Milano, IV ed., 2007, pag. 53.
Il concetto di funzione del marchio è, infatti, mutato nel tempo ed oggi è sicuramente diverso da quello che era stato individuato dalla dottrina sessant'anni fa. Questo non è solo dovuto alle modifiche apportate alla disciplina dei marchi, ed in particolare alla introduzione di quella relativa ai marchi che godono di rinomanza avvenuta con la novella del 1992, né soltanto al diverso ruolo progressivamente riconosciuto al marchio dal mercato, che, come vedremo, da segno distintivo dell'origine dei prodotti, oggi è da molti considerato strumento di comunicazione dell'impresa e di tutela contro forme di parassitismo.
Come osservato da autorevole dottrina, il fatto che il marchio non svolga più tanto (o soltanto) la funzione di indicazione della provenienza dei prodotti da una data impresa è dovuto anche all'evoluzione della attività dei contraffattori, più interessati all'”effetto di traino” per il prodotto o servizio per cui il segno contraffattorio è utilizzato che ad ingenerare confusione nel consumatore4.
Tradizionalmente, le funzioni attribuite al marchio sono la funzione distintiva, nella forma di identificazione dell'origine o della provenienza del prodotto, la funzione di garanzia qualitativa, intesa quale aspettativa da parte del consumatore di identità nel tempo, di costanza qualitativa e strutturale o merceologica dei prodotti contraddistinti con il medesimo marchio, e la funzione suggestiva o pubblicitaria, espressione del potere attrattivo del segno e della sua attitudine a divenire collettore di clientela.
Nel processo evolutivo che la nozione di funzione del marchio ha vissuto e nell'ambito dell'acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ne è seguito, a ciascuna di queste funzioni “tipiche”, a seconda del periodo storico di riferimento, è stata data una interpretazione ed una collocazione diversa nel sistema dei marchi.
Il dibattito sulla funzione del marchio è comunque in realtà sempre vivo.
Come vedremo, si è passati dalla opinione consolidata prima della riforma del '92, secondo la quale l'unica funzione giuridicamente protetta del marchio era la funzione distintiva, nella forma della funzione di indicazione d'origine del prodotto, all'attribuzione alla funzione suggestiva di autonoma dignità e tutela con
4 XXXXX, Commento all’art. 20 c.p.i., in (a cura di) XXXXX e XXXXXXX, Codice commentato della proprietà industriale ed intellettuale, Utet, Torino, 2011, pag. 266.
l'attuazione della Direttiva 89/104/CEE e l'emanazione del D.lgs. 480/1992, fino, in epoca più recente, al riconoscimento di ulteriori funzioni del marchio, come quella di comunicazione e di investimento.
Prima della riforma del '92, la dottrina, muovendo dall'art. 1 della legge marchi5, si interrogò a lungo se la funzione distintiva dovesse ritenersi l'unica funzione del marchio, e dunque la funzione giuridicamente protetta del marchio, o se, accanto ad essa, esistessero altre funzioni autonomamente riconosciute e protette dalla legge.
La maggior parte degli autori riteneva che l‟unica funzione protetta del marchio fosse la funzione distintiva. Questo orientamento prendeva le mosse, oltre che dal predetto art. 1 l.m., in particolare dalla previsione del vincolo tra marchio e azienda di cui all'art. 15 della legge marchi (c.d. cessione vincolata)6.
Per Xxxxxx, ad esempio, la funzione distintiva, da intendersi nel duplice aspetto di riconoscimento (dal punto di vista dell'attività imprenditoriale) e di distinzione (dal punto di vista del consumatore), era l'unica funzione necessaria e tipica dei segni distintivi, mentre il valore attrattivo esercitato dal marchio, collocandosi al di fuori della funzione distintiva, e precisamente al momento della scelta effettuata dal consumatore, che poteva anche non avvenire, era dunque solo eventuale e per tale ragione non costituiva autonoma funzione del marchio7.
Ancora prima Xxxxxxxx, la cui teoria è stata a lungo ampiamente condivisa in dottrina, aveva affermato che la funzione giuridicamente protetta del marchio risiedeva esclusivamente nella funzione distintiva, da intendersi come indicazione della provenienza da una fonte produttiva8.
5 Il riferimento è al testo dell'art. 1 della legge marchi (r.d. 21 giugno 1942, n. 929) che recitava: “I diritti di brevetto per marchio d'impresa consistono nella facoltà di far uso esclusivo del marchio per contraddistinguere i prodotti o le merci fabbricati o messi in commercio nel territorio dello stato, o che sono introdotti nel territorio stesso per scopi commerciali. Tale facoltà esclusiva si estende anche all'impiego del marchio ai fini della pubblicità.”.
6 L‟art. 15 della legge marchi recitava: “Il marchio non può essere trasferito se non in dipendenza del trasferimento dell'azienda, o di un ramo particolare di questa, a condizione, inoltre, che il trasferimento del marchio stesso avvenga per l'uso di esso a titolo esclusivo. In ogni caso, dal trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o merci che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico.”.
7 XXXXXX, Osservazioni sui segni distintivi, loro definizione e funzione, in Riv. Dir. Ind., 1975, I, pagg. 441 ss. ed in particolare pag. 444, dove l'Autore parlando della funzione suggestiva afferma che “costituisce un particolare aspetto o profilo della funzione distintiva cui va ricondotta, ma che non è giuridicamente riconosciuta e protetta in modo autonomo.”.
8 VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, in Riv. Dir. Comm., 1961, I, pagg. 17-88.
L'Autore, in un importante studio sulla funzione del marchio, partendo dall‟assunto che in concreto il marchio svolge due funzioni, l‟una distintiva, che consente all'imprenditore di distinguere i suoi prodotti da quelli del concorrente ed al consumatore di identificare i prodotti che soddisfano i suoi bisogni, e l'altra di suggestione, intesa come la capacità intrinseca del marchio di attrarre la clientela verso il prodotto contrassegnato, sia per le sue caratteristiche sia per l'intensa pubblicità, prescindendo dalla qualità e dal prezzo dello stesso, era giunto alla conclusione che la funzione distintiva era l'unica tutelata dalla legge e che non sussistevano ragioni tali da giustificare una interpretazione evolutiva della nozione di funzione che consentisse di estenderla anche ad altre funzioni, tra cui quella di suggestione9.
Quanto alla funzione suggestiva, aveva anche respinto l‟ipotesi che alla intrinseca capacità di suggestione del marchio fosse riconosciuta una tutela, seppur subordinata rispetto alla funzione distintiva.
Individuata la funzione del marchio, rilevato che il marchio identificava il prodotto collegandosi alla sua fonte produttiva e che la legge imponeva un legame inscindibile tra il marchio e la fonte d'origine dei prodotti contrassegnati10, l'Autore era poi giunto alla conclusione che la stessa dovesse essere intesa nella forma dell'indicazione di provenienza della fonte d'origine, negando che oggetto della funzione distintiva potesse essere invece il prodotto in sé e per sé. Secondo Xxxxxxxx, dunque, l'espressione “funzione di indicazione di provenienza” significava che “il marchio identifica il prodotto cui è apposto come proveniente da una fonte di produzione che resta sempre costante”, e che poteva anche restare ignota al consumatore.
Si precisava che accettare la tesi che vedeva nel prodotto in sé l‟oggetto della funzione distintiva equivaleva ad intendere la stessa come funzione di garanzia di
9 VANZETTI, Cessione del marchio, in Riv. Dir. Comm., 1959, I, pagg. 397 ss.
10 In particolare, l'art. 15 della legge marchi vincolava il trasferimento del marchio al trasferimento dell'azienda o di un ramo di essa. La teoria sulla funzione distintiva come funzione giuridicamente protetta trovava il suo fondamento proprio in questa norma. Per tale importante ragione, l'eventualità che questa norma potesse venire meno aveva preoccupato non poco l'Autore, che in proposito aveva osservato: “La norma, pertanto, che garantisce l'inscindibilità del collegamento fra il marchio e l'azienda o un suo ramo, nell'ipotesi della cessione, è elemento indispensabile perché si possa attribuire al marchio stesso una funzione distintiva, al punto che se una tale norma venisse a mancare tutta la materia andrebbe riesaminata, poiché il marchio sarebbe divenuto qualcos'altro, certo non più segno distintivo.” VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, cit., pag. 69.
qualità, “poiché identificare un prodotto nelle qualità merceologiche e tecniche che il prodotto ha in sé, non significa altro che garantirne la costanza nella qualità”, ed ammetterne la cessione svincolata dal nucleo produttivo. A contrario, se il marchio era inteso come indicatore dell'origine del prodotto, la cessione svincolata doveva respingersi11.
Vi era poi chi, invece, accanto alla funzione distintiva, riconosceva l'esistenza di altre funzioni, come quella di suggestione, di collettore di clientela o pubblicitaria12.
Alcuni autori, partendo dal secondo comma dell'art. 1 della legge marchi ponevano infatti l'accento sulla funzione pubblicitaria del marchio, considerando il carattere di suggestione che lo stesso può suscitare13.
Tuttavia, anche riconoscendo il valore attrattivo dei marchi famosi, la dottrina non era orientata nel senso di riconoscere a questa funzione autonoma dignità14.
In giurisprudenza, a decisioni nelle quali fu negata autonoma tutelabilità alla funzione pubblicitaria, se ne alternarono altre nelle quali fu riconosciuta al marchio la funzione di collettore di clientela, ma come aspetto della funzione distintiva unitamente a quella di garanzia di qualità15.
Dottrina e giurisprudenza erano invece concordi nel ritenere la funzione di garanzia qualitativa del marchio un aspetto della funzione distintiva e non una funzione autonoma.
Così Xxxxxxxx negava che da un punto di vista giuridico potesse parlarsi di funzione di garanzia del marchio posto che la legge non prevedeva un obbligo per
11 In dottrina, per una interpretazione della funzione distintiva del marchio come identificazione del “prodotto in sé e per sé” vedi XXXXXXXXXXXXX, Sui marchi d'impresa, Xxxxxxx, Milano, 1969, pagg. 97 ss., che definisce la teoria sulla fonte produttiva o d'origine “contro i tempi, contro la legge, contro la vita degli affari”.
12 Osservava ancora VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, cit., pag. 50, che la funzione pubblicitaria altro non è che la funzione suggestiva, vista ponendo l'accento sulla suggestività acquisita dal segno a seguito della pubblicità di cui è stato oggetto. Desumere dal secondo comma dell'art. 1 della legge marchi, che parla dell'uso del marchio nella pubblicità, l'esistenza di una funzione pubblicitaria equivale a confondere il modo con cui si può usare un marchio con il fine per cui lo si usa.
13 ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Xxxxxxx, Milano, 1960, pagg. 438-440; XXXXXXXXXXXXX, Sui marchi di impresa, cit., pagg. 35 ss.
14 XXXXXXXXXXXX, La tutela dei marchi di alta rinomanza, in Riv. Dir. Ind., 1980, I, pagg. 295 ss., in cui l'Autore nega che “la c.d. «réputation symbolisée» del marchio celebre costituisca un valore in sé, autonomo rispetto al prodotto” e ribadisce che la funzione principale del marchio è quella distintiva nella quale si esaurisce anche quella della marchio celebre.
15 Trib. Milano, 12 maggio 1980, Riv. Dir. Ind., 1983, II, pagg. 305 ss. (caso Coca Cola).
il titolare del marchio di uniformare la produzione a costanti caratteristiche qualitative. Il titolare del marchio era, dunque, libero di mutare il livello qualitativo del prodotto16.
Nel sistema anteriore al '92, quindi, coerentemente con l'interpretazione data della funzione distintiva e con il quadro normativo esistente (in particolare delineato dagli artt. 1 e 15 l.m.), il marchio era tutelato esclusivamente contro un rischio di confusione del consumatore circa l'origine dei prodotti o servizi.
La riforma del '92 determinò, come si è accennato e come si vedrà più dettagliatamente in seguito, il riconoscimento della tutela allargata dei marchi che godono di rinomanza. Ma questa non fu l'unica modifica apportata alla legge marchi dal D.lgs. 480/92. L'attuazione della Direttiva 89/104/CEE portò anche all'eliminazione del vincolo marchio - azienda, segnando il passaggio dal regime di cessione vincolata ad un regime di cessione libera del marchio, ed alla previsione di una serie di norme volte alla tutela contro l'uso ingannevole del marchio e che sancivano la nullità del marchio ingannevole (c.d. statuto di non decettività).
Questi significativi cambiamenti intervenuti nella disciplina dei marchi misero in crisi l'istituto della funzione del marchio così come era stato fino a quel momento interpretato, costringendo la dottrina e la giurisprudenza ad un radicale ripensamento17.
La tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria, che individuava nella funzione distintiva, intesa come funzione di indicazione d'origine dei prodotti da una costante fonte produttiva, la funzione giuridicamente protetta del marchio, aveva il suo fondamento proprio nell'art. 15 l.m., che vincolava il trasferimento del marchio al trasferimento dell'azienda o di un suo ramo.
Con l'eliminazione di questa previsione, le preoccupazioni, già a suo tempo manifestate dalla dottrina, circa le conseguenze di una eventuale eliminazione del collegamento tra il marchio e l'azienda sulla natura stessa del marchio come segno distintivo divennero reali.
16 VANZETTI, Funzione e natura giuridica del marchio, cit., pagg. 32-33. Nello stesso senso, ID.,
Cessione del marchio, cit., pagg. 415 ss.
17 Per un‟attenta riflessione sulla funzione del marchio a seguito della previsione della sua libera cessione si veda in particolare VANZETTI, La funzione del marchio in un regime di libera cessione, in Riv. Dir. Ind., 1998, I, pagg. 71-89.
Partendo dalla considerazione che, anche già prima della riforma della legge marchi, secondo l'opinione prevalente, la tutela del marchio aveva il suo limite nella funzione distintiva e nel rischio di confusione sull'origine del prodotto, che gli artt. 1 della nuova legge marchi e 5 della Direttiva 89/104/CEE parlavano di rischio di confusione per il pubblico18, e che erano state introdotte norme contro l'uso ingannevole del marchio, la dottrina recuperò la funzione d'origine anche nel regime di cessione libera del marchio.
In particolare, per recuperare la funzione d'origine e ricondurre a coerenza l'intero istituto, considerato che la cessione libera del marchio non garantisce la continuità della provenienza del prodotto da una determinata impresa, con il rischio così di inganno per il pubblico, non al corrente della cessione, sull'origine dei prodotti, autorevole dottrina propose una lettura degli artt. 41.1 lett. b) della nuova legge marchi e 12.2 lett. b) della Direttiva, che vietavano l'uso ingannevole del marchio, nel senso della previsione di un onere di informazione del pubblico relativamente alla avvenuta cessione.
In proposito, Xxxxxxxx affermava che sarebbe stato un‟insostenibile contraddizione il ritenere da un lato che la tutela del marchio fosse condizionata ad una confondibilità sull'origine, e dall'altro che esso non avesse la funzione di garantire appunto al pubblico un'origine costante dei prodotti da una determinata impresa19. Tuttavia, se da un lato si continuò a riconoscere al marchio, anche nel vigore della nuova legge marchi, la funzione distintiva nella forma della funzione d'origine, dall'altro, si prese consapevolezza del fatto che il marchio, a seguito delle modifiche intervenute con la novella del '92, non poteva più essere considerato soltanto come un segno distintivo tutelato contro la confondibilità sull'origine dei prodotti: il c.d. principio di relatività o specialità della tutela del marchio, in virtù del quale il marchio viene registrato per determinati prodotti o servizi e dunque la tutela di esso è limitata all‟ipotesi di adozione di un marchio uguale o simile da parte di terzi per quegli stessi prodotti o servizi o per prodotti o servizi affini (la
18 A ciò si aggiunga che il decimo considerando della Direttiva 89/104/CEE (oggi undicesimo considerando della Direttiva 08/95/CE) affermava che la protezione del marchio “mira in particolare a garantire la funzione d'origine del marchio d'impresa” e che anche il Regolamento 40/94 sul marchio comunitario al settimo considerando (oggi ottavo considerando del Regolamento 207/09) conteneva la stessa previsione. L'inciso “in particolare” significava, inoltre, che non era escluso che fossero tutelate anche altre funzioni.
19 VANZETTI, La funzione del marchio in un regime di libera cessione, cit., pagg. 81 ss.
confusione del pubblico sulla provenienza sarà tanto più probabile quanto più vicini tra loro saranno i prodotti e i servizi contrassegnati, mentre sarà addirittura impossibile quando questi siano tra loro molto lontani).
La nuova legge marchi aveva, infatti, introdotto nell'ordinamento alcune norme che estendevano la tutela dei marchi oltre il rischio di confusione ed il principio di specialità, tra cui l'art. 1.1 lett. c) l.m. (art. 5.2 della Direttiva 89/104/CEE), che prevedeva la tutela c.d. extramerceologica dei marchi che godono di rinomanza20. Si arrivò così ad ammettere che la funzione distintiva, intesa come funzione d'indicazione d'origine non era più la sola funzione giuridicamente protetta del marchio, ma che il marchio tutelava anche altri valori, in primis quello di suggestione proprio di marchi dotati di grande notorietà (n.d.r. marchi famosi), e che quindi anche la funzione suggestiva era tutelata in via autonoma dalla legge.
Anche oggi, nel vigore del Codice della Proprietà Industriale, che sotto questi profili ha sostanzialmente ripreso la nuova legge marchi, si può dire che la funzione del marchio è ancora intesa in termini di funzione sia di indicazione di provenienza che di suggestione, il che, secondo una parte della dottrina, rende l'istituto ambiguo o comunque pieno di contraddizioni21.
Un ruolo molto importante ha sempre svolto anche la Corte di Giustizia ed il Tribunale di primo Xxxxx, che si sono espressi in svariate occasioni sulla funzione del marchio.
Le prime decisioni sul tema avevano accolto l'orientamento anteriore alla riforma del '92 che individuava la funzione del marchio nella funzione d'origine.
Secondo la Corte di Giustizia, la “funzione essenziale” del marchio consisteva nel “garantire al consumatore o all'utilizzatore finale la provenienza del prodotto contrassegnato, consentendogli di distinguere senza alcuna possibilità di
20 La legge marchi fu modificata anche nel ‟96 con il D.lgs. 198/1996 di adeguamento della legislazione interna in materia di proprietà industriale agli Accordi TRIPs. Tra le varie modifiche apportate vi fu quella dell‟art.1 della l.m. nel quale fu aggiunta l‟ipotesi di tutela del marchio contro forme di agganciamento parassitario. Il testo così recitava: “Il titolare del marchio ha diritto di vietare a terzi, salvo proprio consenso, di usare un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi non affini, se il marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.”.
21 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pagg. 161 ss., che ritengono che solo una applicazione rigorosa dello “statuto di non decettività” possa rendere effettiva la funzione distintiva e ricondurre a coerenza l'intero istituto.
confusione tale prodotto da quelli di diversa provenienza”22. A volte vi era la precisazione, coerentemente con l'assunto secondo il quale, prima della novella del '92, il marchio era tutelato esclusivamente contro il rischio di confusione sull'origine dei prodotti o servizi, che il marchio “serve proprio ad attestare che tutti i prodotti da esso contrassegnati sono stati fabbricati o forniti sotto il controllo di un'unica impresa alla quale può essere attribuita la responsabilità della loro qualità”23.
Sulla base di questi principi una parte della giurisprudenza comunitaria era giunta a sostenere che si potesse avere contraffazione solo nei casi in cui il terzo faceva uso del segno altrui in funzione distintiva, come indicatore di provenienza. Progressivamente, l'orientamento della Corte di Giustizia relativamente alla funzione del marchio ed agli usi del segno idonei a determinare la contraffazione è però mutato.
La Corte di Giustizia, partendo dalla considerazione che le norme sulla contraffazione previste dall‟art. 5 nn. 1 e 2 della Direttiva 89/104/CEE erano funzionali a tutelare gli interessi del titolare del marchio, anziché chiedersi se l'uso del segno da parte del terzo avvenisse o meno in funzione distintiva, ha adottato come criterio di valutazione dell'uso del segno ai fini della sussistenza della contraffazione il fatto che questo uso sia idoneo a pregiudicare una delle funzioni protette del marchio.
Questa diversa impostazione è stata adottata dalla Corte di Giustizia per la prima volta con la sentenza resa nel caso Hölterhoff24, nel quale ha ritenuto che l'uso del marchio altrui (nel caso di specie si trattava di due marchi registrati per diamanti e pietre preziose) da parte del terzo per illustrare nell'ambito di trattative commerciali le caratteristiche del prodotto a professionisti che non potevano interpretare il riferimento al marchio come un'indicazione della provenienza del
22 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 0000, X-000/00 (xxxx Xxxxxxxx/Xxxxxxxxx); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 maggio 1978, C-102/77 (caso Xxxxxxx/La Roche).
23 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 marzo 0000, X-000/00 (xxxx Xxxxxxxx); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 luglio 2009, cause riunite da C-202/08 a 208/08 (caso American Clothing); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 luglio 2011, C-324/09 (caso L'Oréal/Ebay).
00 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 14 maggio 2002, C-2/00. La fattispecie riguardava un caso in cui il titolare di due marchi registrati (“Spirit Sun” e “Context Cut”), per contraddistinguere diamanti e pietre preziose da lavorare, aveva lamentato che tale sig. Hölterhoff, che trattava pietre preziose di vari tipi, utilizzava i predetti marchi nell'ambito di trattative commerciali con gioiellieri professionisti esclusivamente per descrivere il tipo di taglio delle pietre preziose che egli offriva in vendita.
prodotto, era lecito in quanto non comportava alcuna lesione degli interessi protetti del titolare.
Il riferimento alla lesione degli interessi del titolare, che nella sentenza Hölterhoff era stato preso in considerazione solo in relazione alla funzione di indicazione di provenienza del marchio, è stato poi approfondito e sviluppato nella sentenza Arsenal25, relativa al caso della riproduzione non autorizzata dei marchi di una squadra di calcio su sciarpe per i tifosi.
La Corte di Giustizia, dopo avere ribadito che “la funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all'utilizzatore finale l'identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato dal marchio, consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa”, ha affermato che il diritto di esclusiva di cui all'art. 5.1 lett. a) della Direttiva (invocato nella fattispecie perché si trattava di uso di segni identici per prodotti identici), essendo stato “concesso al fine di consentire al titolare del marchio d'impresa di tutelare i propri interessi specifici quale titolare di quest'ultimo, ossia garantire che il marchio possa adempiere le sue proprie funzioni”, “deve essere pertanto riservato ai casi in cui l'uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto”26.
Con tale decisione la Corte ha così chiarito che anche quando il segno del terzo non svolge principalmente una funzione distintiva ed è utilizzato per altri scopi (nel caso di specie come segno di appartenenza del tifoso alla squadra), se l'uso è comunque tale da interferire con le funzioni protette del marchio, sussiste la contraffazione.
25 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2002, C-206/01, relativa alla controversia sorta tra la società calcistica Arsenal Football Club e il sig. Xxxx in merito alla vendita ed alla offerta in vendita da parte di quest'ultimo, in vari chioschi situati all'esterno della cinta dello stadio dell'Arsenal FC, di sciarpe destinate ai tifosi sulle quali vi era la riproduzione non autorizzata dei marchi della squadra di calcio.
26 Sulla base di questi principi la Corte ha ritenuto che l'uso del marchio sulle sciarpe destinate ai tifosi rendesse “credibile l'esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra i prodotti interessati e il titolare del marchio” e che pertanto potesse pregiudicare la garanzia di provenienza del prodotto, a nulla rilevando il fatto che il marchio apposto sulle sciarpe venisse percepito anche “come una dimostrazione di sostegno, fedeltà o appartenenza nei confronti del titolare del marchio” .
Attraverso il criterio dell'interferenza del segno del terzo con le altre funzioni tutelate dal marchio, elaborato, come si è visto, a partire dalle sentenze Hölterhoff ed Arsenal, accanto alla funzione di indicazione d'origine, che continua ancora oggi ad essere considerata la “funzione essenziale” del marchio, la Corte di Giustizia è così giunta a riconoscere espressamente altre funzioni del marchio, come quella di garantire la qualità del prodotto o del servizio o quelle di comunicazione, investimento o pubblicità27 ed a ritenere che ai fini della contraffazione non rileva se il segno sia usato come marchio, in funzione distintiva, ma solo che l'uso interferisca con le funzioni protette e, conseguentemente, che anche usi non distintivi, percepiti come tali dal pubblico, possono costituire contraffazione.
Nelle sentenze, coerentemente con il sistema dei marchi delineato dopo la riforma del '92, si afferma che il diritto di esclusiva “deve essere pertanto riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare una delle funzioni del marchio. Fra dette funzioni si annoverano non solo la funzione essenziale del marchio consistente nel garantire ai consumatori l’origine del prodotto o del servizio di cui trattasi, ma anche le altre funzioni del marchio, come quella di garantire la qualità di tale prodotto o servizio, o quelle di comunicazione, investimento o pubblicità.”28.
La funzione d'origine non è dunque l‟unica funzione che oggi viene attribuita al marchio, che, come si è visto, ha subito un processo evolutivo, quanto alla sua natura ed alla sua funzione, piuttosto articolato.
Si è in sostanza attribuito al marchio valori e funzioni sempre più svincolati dal prodotto che il segno contraddistingue e ad estenderne la tutela ad ogni ipotesi in cui il valore di esso viene in qualche modo sottratto al suo titolare perché un terzo se ne impossessa, ricavandone un vantaggio proprio ovvero pregiudicando il titolare stesso.
27 Queste ulteriori funzioni non sono altro che la funzione suggestiva del marchio che la Corte di Giustizia ha però frammentato in una pluralità. La funzione di comunicazione qualifica il marchio come “messaggero”, come strumento che l‟impresa utilizza per avere contatti con i consumatori. La funzione pubblicitaria consiste nel ruolo di promozione delle vendite o di strategia commerciale connesso al suo uso per scopi pubblicitari con l'intento di informare e persuadere il consumatore. Con funzione di investimento si intende quella finalizzata ad acquisire o mantenere una reputazione del marchio cosicché questo possa attirare i consumatori e fidelizzarli.
28 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2009, C-487/07 (caso L'Oréal).
Questo fenomeno è stato imputato al processo di “smaterializzazione dell'economia” che aveva colpito anche il settore dei marchi e che richiedeva che il marchio fosse protetto come bene immateriale autonomo più che come segno distintivo, in funzione del suo “intrinseco potere di vendita”29. Ed è quest‟ultima la qualificazione dogmatica che è stata esplicitamente scelta dal legislatore nel Codice della Proprietà Industriale, che qualifica il marchio come oggetto di proprietà (industriale).
Ne deriva un istituto ambiguo, all‟interno del quale coesistono due anime diverse: quella di valore distintivo ed quella di valore attrattivo.
A seguito di questo processo di “smaterializzazione” del marchio, che trova la sua massima espressione nei marchi celebri, si può affermare che il marchio oggi da segno distintivo è divenuto strumento di comunicazione dell'impresa di cui racchiude il selling power.
Questa nuova e moderna concezione della funzione del marchio, che riguarda tutte le informazioni e le suggestioni comunicate in concreto dal singolo segno, ha inevitabilmente aperto la strada al riconoscimento di un numero sempre più crescente di forme di agganciamento parassitario, e dunque di tutela nell'interesse esclusivo del titolare, tanto da fare affermare in dottrina che “alla tradizionale funzione d'origine del marchio si affianca oggi quella di tutela contro ogni forma di parassitismo”30.
3. La tutela dei marchi celebri prima della riforma del 1992.
La tutela dei marchi famosi nasce come tutela dei marchi celebri, super notori o di alta di rinomanza che dir si voglia, elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza a partire dalla seconda metà del secolo scorso.
29 Di “potere di vendita intrinseco” parla MARIANI, L'analisi economica del marchio che gode di rinomanza, in Dir. Ind., 1996, n. 4, pagg. 292 ss., che nel suo esame sul ruolo svolto nel mercato dal marchio celebre osserva come lo stesso diventa, quando dotato di questo valore suggestivo che fa sì che il consumatore venga attratto dal marchio, un valore in sé: “non è più la qualità del prodotto che trascina il marchio, ma è il marchio che dà valore al prodotto”.
30 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 161.
L'esigenza di individuare una nuova categoria di marchi, inevitabilmente contrapposti ai marchi ordinari, si manifestò a seguito della crescente tendenza da parte dei titolari di marchi affermati di utilizzare questi segni per contraddistinguere prodotti diversi. Da qui l'interesse del titolare a che il marchio non fosse utilizzato da terzi nemmeno per contraddistinguere merci diverse, sia per non precludersi la possibilità di realizzare lui stesso quelle merci in futuro, sfruttando la fama del proprio marchio, sia per evitare il pericolo di indebolimento del potere attrattivo di quest'ultimo.
Si pensò, quindi, di elaborare una nuova categoria di marchi, i marchi celebri, super notori o di alta rinomanza appunto, i cui titolari avrebbero goduto di una tutela “allargata” non soltanto nei confronti di coloro che usavano un marchio identico per prodotti identici o affini, il che era previsto dal sistema normativo vigente, ma anche nei confronti di chi lo utilizzava per prodotti diversi, il che non era invece previsto dall‟ordinamento e, dunque, creò non pochi problemi di natura interpretativa.
La prima difficoltà che la dottrina e la giurisprudenza favorevoli a riconoscere questa nuova categoria di marchi dovettero affrontare fu quello della loro definizione giuridica, problema che ha riguardato successivamente anche l'adozione della nomenclatura “marchio che gode di rinomanza” avvenuta a seguito dell'attuazione della Direttiva 89/104/CEE con l'emanazione del D.lgs. 480/1992.
Se anche la scelta operata di utilizzare espressioni come marchio celebre, super notorio o di alta rinomanza per fare riferimento ad una categoria di marchi caratterizzata da una certa fama o reputazione presso il pubblico non fu casuale, ciò non significa che l'individuazione della sua nozione si rivelò altrettanto agevole.
Accanto ad autori che per marchio celebre consideravano quello particolarmente affermato, oggetto di una pubblicità intensa e riuscita, presente sul mercato da tempo ed utilizzato per prodotti apprezzati dal pubblico31, vi era chi, dopo avere inizialmente definito il marchio celebre come il marchio la cui conoscenza si estendeva al di fuori degli acquirenti del genere di prodotti contrassegnati dal
31 DI XXXXXXX, I segni distintivi, Xxxxxxx, Milano, 1993, pag. 116.
marchio stesso, era poi giunto alla conclusione che in realtà la definizione di marchio celebre fosse necessariamente empirica, e dunque non determinabile a priori32.
Secondo altri, il marchio celebre era quello che esprimeva un così elevato prestigio del suo titolare che ogni prodotto contrassegnato con lo stesso marchio posto sul mercato, anche il più diverso, veniva considerato di qualità eccellente da parte del pubblico33.
Xxxxxxx, invece, considerata la fama e la notorietà di un marchio ed il valore simbolico due fenomeni distinti, per evitare ogni confusione terminologica abbandonò la nomenclatura di marchio celebre, adottando quella di marchi famosi, per indicare quei segni che avevano acquisito una certa notorietà e fama, e di marchi c.d. evocativi, per quei segni che avevano acquistato un valore simbolico e dunque evocavano una particolare immagine (di classe, raffinatezza, eleganza, ecc.)34.
In giurisprudenza si registrano poche pronunce nelle quali furono enunciati dei criteri per individuare i marchi celebri e la loro conseguente differenziazione dai marchi ordinari.
Il Tribunale di Milano, nel noto caso Cartier del 1978, affermò: “l'essere un nome commerciale, celebre, implica normalmente un apprezzamento per chi, noto o ignoto che sia, fabbrica quel prodotto e lo pone in commercio e, quindi, la tendenza a ricevere favorevolmente altri prodotti che venissero posti sul mercato con lo stesso marchio, nell'attesa, confortata dall'esperienza fatta con il prodotto contrassegnato dal nome celebre, che anche i nuovi prodotti non deluderanno.”35. Xxxxxx fu l‟interpretazione data dalla Corte di Cassazione che statuì che il marchio
32 XXXXXXXXXXXX, Il marchio celebre o «de haute renommée», Xxxxxxx, Milano, 1977, pag. 30, ma poi anche pag. 35, dove l'Autore afferma che così come non si può stabilire con certezza quando una persona è famosa, allo stesso modo è impossibile determinare quando un marchio sia celebre. ID., La tutela dei marchi di alta rinomanza, cit., pagg. 285 ss., ove si dice che i marchi celebri non sono i marchi notori, ma quelli che godono non soltanto di notorietà, ma di fama (alta rinomanza, celebrità), che contrassegnano prodotti di qualità idonea a soddisfare la clientela e che sono conosciuti fuori dalla cerchia degli acquirenti del prodotto in relazione al quale hanno acquisito la celebrità. La pubblicità, la grande dimensione dell'impresa titolare, la conoscenza internazionale o addirittura mondiale del marchio, l'unicità e l'originalità non sono invece considerati requisiti indispensabili per l'acquisizione della celebrità.
33 RAGAZZINI, La tutela del marchio celebre, Stamperia Nazionale, Xxxx, 0000.
34 LEONINI, Marchi famosi e marchi evocativi, Xxxxxxx, Milano, 1991, pagg. 130-131.
35 Trib. Milano, 6 novembre 1978, in Riv. Dir. Ind., 1983, II, pagg. 234 ss. (caso Cartier).
marchio celebre, a differenza di quello ordinario, veniva preso in considerazione dal pubblico per ricollegare al marchio un prodotto di qualità soddisfacente, che portava a preferire il produttore nella scelta dei suoi beni e ad acquistare altri prodotti posti sul mercato con lo stesso marchio, nel convincimento che anche i nuovi prodotti sarebbero stati di eccellente qualità36.
La Corte di Appello di Milano definì i marchi celebri come quelli particolarmente affermati, oggetto di intensa pubblicità, presenti sul mercato da tempo ed utilizzati per prodotti apprezzati dal pubblico nonché quelli caratterizzati dalla conoscenza al di fuori dell'area degli acquirenti del prodotto contraddistinto dal marchio37.
Nel 1990 il Tribunale di Bassano del Grappa affermò che un marchio, conosciuto per prodotti differenti che incontravano il favore del pubblico, poteva dirsi notorio allorché era utilizzato in settori diversi con il medesimo esito di successo38.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte si può affermare che l'interpretazione della nozione di marchio celebre fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche se non uniforme, era nel complesso decisamente restrittiva.
Ulteriore problema relativo ai marchi celebri atteneva alla tutela “allargata” ed a come attuarla in concreto in un sistema nel quale vigeva il principio di specialità e non c'era alcuna differenza normativa tra marchi ordinari e marchi celebri.
Il c.d. principio di specialità o di relatività, come si è accennato nel paragrafo precedente, costituiva, e contemporaneamente determinava, il limite del giudizio di confondibilità che, coerentemente con il riconoscimento della funzione distintiva del marchio, si traduceva nella tutela contro il rischio di confusione sull'origine dei prodotti o servizi contraddistinti dal segno.
Prima della novella del '92, il principio di specialità della tutela del marchio registrato era sancito dall‟art. 2569 c.c. e dall'art. 4 comma 2 l.m., laddove si affermava che chi ha registrato un marchio “idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato” e che “il brevetto esplica effetto limitatamente al genere
36 Cass. 24 marzo 1983, n. 2060, in GADI, 1951 (caso Xxxx Xxxxx).
37 App. Milano, 5 settembre 1986, in GADI, 2066/2 (caso Porsche).
38 Trib. Bassano del Grappa, 15 dicembre 1990, in GADI, 3032/4 (caso Longines). Nel caso di specie, che riguardava il marchio figurativo di una importante società produttrice di orologi, fu escluso che si fosse in presenza di un marchio celebre sulla base dell'assunto che il marchio era stato usato ed aveva acquisito rinomanza solo nello specifico settore degli orologi.
di prodotti o merci indicati nel brevetto stesso”. In base alle predette norme il diritto di esclusiva del titolare del marchio registrato si estendeva sotto il profilo merceologico soltanto fino ai prodotti o servizi indicati nella domanda.
Secondo l'opinione prevalente, tuttavia, l'ambito merceologico della tutela del marchio si estendeva, oltre ai prodotti per i quali era stata richiesta la protezione, anche ai prodotti affini, ciò in quanto un'interpretazione letterale della norma era stata ritenuta eccessivamente restrittiva39.
Come si è sottolineato, la questione più importante relativamente ai marchi celebri consisteva nello stabilire se era possibile superare il principio di specialità laddove il marchio celebre fosse utilizzato o registrato da terzi per contraddistinguere prodotti non affini.
Una dottrina minoritaria aveva cercato di superare il principio di specialità e dunque di estendere la tutela dei marchi celebri anche a settori merceologicamente distanti facendo leva sull'art. 11 l.m., che vietava l'uso ingannevole e confusorio del marchio40. Si diceva che l'art. 11 l.m., a differenza dell'art. 17 l.m. relativo al requisito di novità del segno, non richiedeva l'affinità dei prodotti per la sua applicabilità. Pertanto, l'ipotesi di inganno prevista nell'art. 11 l.m. poteva attuarsi sia nel caso di affinità tra i prodotti sia nel caso in cui tale affinità non sussistesse, purché ricorressero altre circostanze, quali la celebrità del marchio, a determinare inganno e/o confusione41.
Tuttavia, la dottrina maggioritaria, pur riconoscendo l'esistenza di un interesse meritevole di tutela in capo al titolare del marchio celebre a vedere accordata una protezione più ampia al proprio segno, ancorava tale tutela alla funzione distintiva del marchio, e quindi entro i limiti del pericolo di confusione.
Era prevalsa, infatti, la convinzione che, nonostante la fama acquisita da questi segni, non potesse concedersi loro una tutela più ampia di quella spettante a
39 Questo orientamento prendeva le mosse dall'art. 5 della legge marchi laddove limitava il rinnovo del marchio “allo stesso genere di prodotti o merci, o a generi affini, comunque compresi nella stessa classe”.
40 Il testo dell'art. 11 l.m. della legge marchi così recita: “Non è consentito di usare il marchio in modo contrario alla legge né, in ispecie, in modo da generare confusione sul mercato con altri marchi conosciuti come distintivi di prodotti o merci altrui, o da trarre comunque in inganno nella scelta dei medesimi, o da ledere diritti esclusivi di terzi, quali i diritti di brevetto per invenzione industriale, o i diritti di brevetto per modello industriale, o i diritti di autore.”.
41 XXXXXXX DI XXXX, Xxxxx note intorno al problema del marchio che gode di rinomanza, in
Analisi della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, 1969, pagg. 269 ss.
qualsiasi altro marchio registrato e che, quindi, si dovesse tenere fermo il principio della specialità dei marchi, in forza del quale il marchio è tutelato solo con riferimento ad un determinato genere di prodotti ed a quelli affini.
La nozione di affinità divenne, dunque, cruciale per determinare l'ampiezza ed i limiti della tutela del marchio celebre.
I criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia di accertamento della affinità erano nel corso del tempo mutati verso forme di interpretazione più improntate alla tutela del titolare del marchio contro il pericolo di confusione e di inganno per il consumatore.
Inizialmente furono considerati affini quei prodotti che per la loro natura intrinseca erano ricollegabili al prodotto coperto dal marchio o erano destinati alla medesima clientela o erano idonei a soddisfare gli stessi bisogni42.
Questo orientamento fu presto superato in quanto ritenuto inadeguato a determinare con precisione i confini del diritto di esclusiva del titolare del marchio ed inidoneo ad evitare la confusione e l'inganno del consumatore sulla provenienza di prodotti diversi dalla medesima impresa. Si passò così da una valutazione totalmente astratta della affinità, incentrata sul prodotto in sé considerato, ad un criterio più coerente con l‟interpretazione della funzione del marchio intesa come funzione distintiva dell‟origine dei prodotti, considerando affini i prodotti che il pubblico riteneva provenienti dalla medesima fonte produttiva43.
Questo approccio non teneva, tuttavia, conto del fatto che il pubblico, per giudicare se due prodotti contrassegnati da marchi identici o simili provenivano dalla medesima impresa, faceva una valutazione non in astratto, bensì in concreto, facendo riferimento anche ad altri dati. Si assistette così ad un‟ulteriore evoluzione della giurisprudenza che, nell'interpretare l'affinità tra prodotti, affermò la necessità di considerare il modo in cui il marchio veniva percepito dai consumatori valutando elementi quali la rinomanza, il modo il cui il marchio veniva utilizzato, lo stile dei prodotti, il filone culturale di appartenenza, le
42 Trib. Bassano del Grappa, 15 dicembre 1990, in GADI, 3032/4 (caso Longines), in cui fu esclusa l'affinità tra orologi ed abbigliamento.
43 App. Milano, 22 settembre 1972, in GADI, 169/4, la cui nota di commento, redatta da Xxxxxxxx, è la prima sul concetto di affinità tra prodotti come provenienti dalla medesima fonte produttiva.
caratteristiche dell'impresa e la personalità dell'autore dei prodotti, le concrete dinamiche di mercato e la tendenza del settore nonché la normale capacità e tendenza espansiva dell'impresa produttrice, in sostanza il contesto concreto nel quale il marchio si collocava44.
La giurisprudenza sul marchio celebre, facendo leva su questa concezione dell'affinità basata sulla possibilità che il pubblico riconducesse due prodotti diversi alla stessa fonte d'origine, allargò progressivamente il giudizio di affinità per favorirne la tutela.
Nei casi in cui il prodotto del titolare del marchio celebre e quello del terzo, che applicando i normali criteri di accertamento della affinità, sarebbero stati considerati “non affini”, non erano troppo distanti, si manifestò la tendenza a ritenere sussistente la contraffazione sulla base dell'assunto che il marchio celebre godeva di una sfera merceologica di protezione più ampia di quella riconosciuta ai marchi ordinari, con risultati opposti a quelli ai quali si sarebbe giunti applicando i criteri generali sulla confondibilità tra prodotti e/o imprese, poiché l'ambito entro il quale poteva sussistere la confondibilità era più ampio45.
Un primo filone giurisprudenziale aderiva all'orientamento che considerava affini i prodotti che il pubblico poteva ricollegare ai prodotti coperti dal marchio celebre in quanto ritenuti provenienti dalla stessa fonte produttiva e che teneva conto del contesto concreto in cui il marchio esplicava la sua funzione distintiva, facendo riferimento ai comportamenti di mercato, alla tendenza del settore ad espandere la produzione verso altri prodotti ed alla capacità espansiva dell'impresa produttrice e riconosceva la tutela fino al limite in cui non c'era più la possibilità che il consumatore fosse ingannato sulla reale provenienza del prodotto46.
44 Emblematica di questo orientamento è la sentenza del Trib. Milano, 6 novembre 1978, in Riv. Dir. Ind., 1983, II (caso Cartier), nella quale si afferma: “il giudizio di affinità non dovrà essere effettuato secondo un criterio astratto di valutazione che assegni ai prodotti (ed ai loro nomi) il significato di rigidi ed invalicabili dati oggettivi […], ma dovrà adeguarsi al contesto concreto in cui i consumatori percepiscono il marchio, e corrispondere ad una realtà entro la quale anche la maggiore o minore rinomanza del segno distintivo, il modo in cui esso è stato utilizzato, i comportamenti imprenditoriali normalmente seguiti nell'ambito delle imprese cui appartiene quella del titolare del marchio possano influenzare la opinione del pubblico circa l'imputabilità dei prodotti ad una determinata fonte produttiva.”.
45 In dottrina DI XXXXXXX, I segni distintivi, cit., pagg. 106-107, in cui l'Autore parla di “versione «allargata» dell'affinità merceologica”.
46 Trib. Milano, 6 novembre 1978, in Riv. Dir. Ind., 1983, II (caso Cartier); Trib. Roma, 26 febbraio 1982, in GADI, 1528 (caso Xxxxxx), in cui furono ritenuti affini prodotti di abbigliamento ed articoli di profumeria e fu ritenuta sussistente la contraffazione del marchio celebre “Xxxxxx
L'ampliamento della sfera di protezione del marchio celebre veniva escluso, però, nei casi di rilevante distanza merceologica tra i prodotti47 e nei casi in cui il marchio celebre era stato sempre utilizzato per un solo prodotto e quel prodotto era il solo fabbricato dall'impresa titolare del marchio e, quindi, non appariva ragionevolmente prevedibile un ampliamento fuori da quell'ambito di produzione, oppure era stato utilizzato od aveva acquistato rinomanza per un solo genere di prodotti o in uno specifico settore48.
Un secondo filone giurisprudenziale, privilegiando il valore attrattivo acquisito dal marchio celebre nel tempo, applicava invece la c.d. teoria del trend, secondo cui era la celebrità, in quanto fattore dinamico, ad incidere sulla determinazione dell'ambito merceologico della tutela del marchio, ma non come fatto storico verificabile ad una certa data, bensì come trend, e cioè come tendenza del marchio all'acquisizione di un forte valore simbolico. Era quindi l'apposizione del marchio celebre che rendeva affini i prodotti e giustificava un allargamento della tutela, e non fattori come la capacità espansiva dell'impresa produttrice o le tendenze del settore49.
Rochas”; Trib. Milano, 27 settembre 1982, in GADI, 1571 e in Riv. Dir. Ind., 1983, II, pagg. 312 ss. (caso Piaget), in cui furono ritenuti affini prodotti di orologeria, di gioielleria e di pelletteria; Trib. Genova, 23 maggio 1984, in Riv. Dir. Ind., 1986, II, pagg. 27 ss. (caso Xxxxxxxxx), in cui furono ritenuti affini liquori ed abbigliamento.
47 Trib. Milano, 24 aprile 1980, in Riv. Dir. Ind., 1985, II, pagg. 30 ss. (caso JPS), nel quale fu esclusa l'affinità tra tabacco e costumi da bagno; Trib. Milano, 12 maggio 1980, in Riv. Dir. Ind., 1983, II, pagg. 305 ss. (caso Coca Cola), in cui fu esclusa l'affinità tra bevande analcoliche ed abbigliamento e negata, quindi, la tutela al celebre marchio sulla base dell'assunto che non era stato provato un uso tale da rendere plausibile per i consumatori una estensione della originaria funzione distintiva del segno fino al punto da abbracciare generi di abbigliamento.
48 Cass., 21 ottobre 1988, n. 5716, in GADI, 2242 (caso Champagne) in cui fu esclusa l'affinità tra vino spumante e bagno schiuma e fu escluso che bottigliette di bagno schiuma riproducenti pedissequamente la forma ed i marchi di note società francesi produttrici di champagne costituissero contraffazione dei celebri marchi in quanto “l’alone di celebrità e di qualità accompagnava tali marchi in riferimento ai vini ed a quelli soltanto” e “non appariva ragionevolmente prevedibile, proprio per la plurisecolare monoproduzione, un ampliamento fuori da quell’ambito”.
Sul marchio celebre che ha acquisito rinomanza in uno specifico settore, Trib. Bassano del Grappa, 15 dicembre 1990, in GADI, 3032/4 (caso Longines), nel quale, dopo avere richiamato il caso Champagne relativamente al punto in cui si diceva che per beneficiare della tutela ampliata il marchio non doveva essere solo rinomato, ma doveva essere già stato utilizzato per contraddistinguere una serie di prodotti di genere diverso, il Tribunale ha negato l'estensione ai prodotti di abbigliamento della protezione del celebre marchio di titolarità della Longines costituito da una clessidra alata, in quanto il marchio era stato usato ed aveva acquisito rinomanza solo nello specifico settore degli orologi.
49 App. Milano, 24 febbraio 1984, in GADI, 1751/7 (caso JPS) (che riforma Trib. Milano, 24 aprile 1980, cit.), in cui, in base a questa teoria, la tutela del celebre marchio per sigarette “Xxxx Player Special” fu estesa anche a prodotti non affini, quali erano quelli dell'abbigliamento. In primo grado
Quando la distanza merceologica tra i prodotti era tale da escludere la sussistenza dell'affinità, anche allargata, si cercava di assicurare tutela ai marchi celebri, al di fuori della legge marchi ed al di là del principio di specialità, invocando talvolta l'art. 2598 c.c. in materia di atti di concorrenza sleale, tal‟altra l'art. 2043 c.c. in relazione alla responsabilità per fatto illecito.
Così nel caso Cointreau del 1984 fu inibito l'uso del marchio identico a quello del celebre liquore per contraddistinguere capi di abbigliamento in base all'art. 2598
n. 1 c.c. e nonostante le due imprese non fossero tra loro concorrenti, in quanto la norma fu “letta come tutela complementare a quella del segno distintivo, rivolta quindi a coprire una più ampia fascia delle utilizzazioni che un imprenditore può fare dei propri segni distintivi”50.
Le difficoltà derivanti dall'applicazione delle norme sulla concorrenza sleale ai casi in cui non esisteva un reale rapporto di concorrenza tra il titolare del marchio celebre ed il terzo che utilizzava lo stesso marchio per prodotti diversi favorirono però il ricorso all'art. 2043 c.c., come nel caso Bulgari51, dove si affermò che dalla contraffazione del marchio celebre, anche se avvenuta in assenza di confusione tra i prodotti, derivava al suo titolare un danno ingiusto nel c.d. pericolo di annacquamento, ovvero nel pregiudizio al prestigio del segno.
Tuttavia, questo orientamento trovò scarso seguito in giurisprudenza e in dottrina che ritenevano che l‟uso dell‟altrui marchio per prodotti non affini potesse configurare un illecito aquiliano solo se la qualità del nuovo prodotto fosse cattiva od inferiore a quella del prodotto originario tale da provocare sensazioni di sgradevolezza o da indurre il consumatore a trasferire sui prodotti del titolare il riflesso negativo suscitato dalla cattiva qualità dei beni sui quali il marchio era stato utilizzato dal terzo52.
il Tribunale aveva rigettato le domande dell‟attore sul presupposto che non era stato provato che, alla data di registrazione di un identico marchio da parte del terzo, il marchio “JPS” aveva conseguito in Italia notorietà anche in settori diversi dal tabacco né che vi fosse l'uso degli imprenditori del settore di associare i propri marchi a prodotti merceologicamente distanti da quelli originari. La Corte d'Appello riformò integralmente la sentenza di primo grado sulla base dell'assunto che il trend della celebrità iniziato nel 1975 si era ulteriormente accentuato nel corso degli anni e che, dunque, non si poteva dubitare che i marchi fossero recepiti dai consumatori come quelli originariamente utilizzati solo per le sigarette anche se rinvenuti apposti su abbigliamento.
50 Trib. Genova, 23 maggio 1984, in Riv. Dir. Ind., 1986, II.
51 Trib. Genova, 15 gennaio 1992, in GADI, 3035.
52 XXXXXXXXXXXX, Il marchio celebre o «de haute renommée», cit., pagg. 282 ss.
4. La tutela dei marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda.
In applicazione del criterio di valutazione dell‟affinità basata non su criteri generali ed astratti ma su circostanze concrete relative all‟attività svolta dall‟imprenditore, la giurisprudenza aveva cominciato a riconoscere una tutela più ampia ai marchi che godono di rinomanza già prima della riforma della legge marchi del 1992. In particolare venne individuata una categoria di marchi celebri caratterizzati dal fatto che i loro titolari, tutti creatori del gusto e della moda, acquistavano la notorietà in un certo settore merceologico ed estendevano poi la propria attività ad altri settori.
Questi marchi vennero appunto chiamati, in ragione dei loro titolari, marchi dei
c.d. creatori del gusto e della moda. Erano tutti marchi che, oltre ad essere celebri, erano utilizzati per prodotti di ambiti merceologici assai diversi, ma, perché legati al settore della moda e del lusso, richiamavano valori di prestigio, eleganza e raffinatezza ed erano quindi relativi a prodotti “connessi con la soddisfazione di un bisogno estetico o di prestigio”53.
Ciò che accomunava i marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda era il carattere di “lusso” ed era questo aspetto che giustificava l'ampliamento del giudizio di affinità, piuttosto che la vera e propria celebrità del xxxxxxx00.
Ad essi la giurisprudenza, nonostante le critiche mosse dalla dottrina55, riservava una protezione merceologica particolare, dando vita ad una categoria a sé stante di marchi celebri in cui la figura del titolare, cioè del creatore, nella maggioranza dei
53 Trib. Milano, 30 maggio 1974, in Riv. Dir. Ind., 1983, II, pagg. 223 ss. (caso Xxxx), in cui si affermava: “non può negarsi che la notorietà indiscussa del marchio Biki per individuare una specie di prodotti di moda caratterizzati dall'apporto personale dell'attrice opera come premessa di fatto per ampliare la tutela fino a vietare l'uso dello stesso marchio come segno distintivo del salotto fabbricato dalla convenuta.”. Fu questo uno dei primi casi in tema di marchio celebre, in cui il Tribunale di Milano affermò che la notorietà del marchio costituiva una premessa di fatto della tutela allargata.
54 SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Xxxxxxx, Milano, 1994, pag. 64.
55 XXXXXXXXXXXXX, Sui marchi d'impresa, Xxxxxxx, Milano, 1988, pagg. 218 ss., in cui l'Autore negava autonomia concettuale ai marchi del gusto e della moda, evidenziando la necessità che marchi dei creatori del gusto e della moda e marchi celebri ricevessero la medesima tutela, fosse essa quella allargata elaborata dalla giurisprudenza o quella derivante da una applicazione rigorosa del principio di specialità.
casi stilista di moda, diveniva l'unico parametro dal quale far discendere l'affinità dei prodotti.
Partendo dalla considerazione che, intorno a questi marchi, nel costume e nell'opinione del pubblico, si veniva a creare un particolare ambito imprenditoriale, considerato in modo omogeneo ed unitario, ma comprensivo di prodotti diversi tutti accomunati dalla destinazione al soddisfacimento di un bisogno estetico di eleganza, di raffinatezza e di prestigio, per i quali la firma del creatore assumeva importanza preponderante, la giurisprudenza arrivava a ritenere affini prodotti, sebbene diversi, sui quali il terzo aveva apposto un marchio identico a quello celebre per approfittare di quell'aura di lusso e di prestigio che circondava il marchio usurpato in base al principio della mera appartenenza allo stesso settore del gusto e della moda del marchio originario.
Si riteneva, dunque, che questi marchi dovessero essere maggiormente tutelati dalle reiterate aggressioni dovute ad “usurpazioni” del segno (e del suo valore strumentale e di avviamento), effettuate da imprenditori operanti in altri contesti rispetto a quelli di impiego del marchio celebre.
In tali casi, non sempre assumeva rilievo la confondibilità dei prodotti del titolare del marchio con quelli del contraffattore e, quindi, non sempre ricorreva il rischio che il consumatore potesse ipotizzare l‟identità di provenienza di quei prodotti da un‟unica impresa. Tuttavia, anche nei casi in cui fosse esclusa la possibilità di confusione con il marchio originale, l‟azione dell‟usurpatore del marchio celebre finiva per danneggiare il titolare di quest‟ultimo, nuocendo al valore dell‟impresa ed all‟immagine di essa.
Per questo motivo fu elaborata la categoria dei marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda, con l‟intento di accordare a tale tipologia di segni una tutela estesa anche a settori di prodotto lontani rispetto a quelli di impiego del marchio.
Così nel caso Vogue56 la tutela del marchio celebre, usato e registrato dal gruppo editoriale Condè Nast, fin dai primi anni del XIX secolo, per contraddistinguere la celebre rivista di moda, fu estesa fino alla produzione e commercializzazione di occhiali da parte della società Luxottica, in quanto, considerato che il consumatore medio del settore era orientato nella propria scelta dall‟apposizione di un marchio
56 Trib. Milano, 18 febbraio 1995, in XXXX, 0000.
evocativo di buon gusto ed eccellenza, il marchio del terzo era apposto su prodotti appartenenti anch'essi ad un settore fortemente dominato dalla moda e dal gusto come quello del marchio originario.
La sentenza fu però riformata in appello57. La Corte di Milano negò la sussistenza della contraffazione tra i due marchi, essendo impensabile che il consumatore della nota rivista di moda, considerato che l'uso del marchio “Vogue” era stato da sempre limitato al settore dell'editoria e la Condè Nast era una società “a vocazione tipicamente «monoproduttiva»”, associasse psicologicamente il marchio celebre al settore dell‟ottica.
In particolare, la Corte contestò il ricorso operato dal Tribunale in primo grado alla tesi dei marchi dei creatori del gusto e della moda, rilevando l'incertezza derivante dal richiamo al gusto ed alla gradevolezza delle griffes per determinare i confini del settore merceologico al fine di individuare l'ambito di tutela del marchio celebre.
Furono considerati appartenenti alla categoria dei marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda e, in funzione di tale riconoscimento, furono ritenuti contraffatti da marchi identici utilizzati da terzi in settori merceologicamente diversi, ad esempio, il marchio “Cartier”58, celebre per gioielli, al quale fu offerta una protezione estesa anche ai prodotti di abbigliamento; il marchio “Rochas”59, famoso per profumi, che vide ampliare la sua protezione ai capi di abbigliamento; e “Krizia”60 in cui nell'ambito di tutela di questo marchio celebre, utilizzato per confezioni per donna, biancheria per la casa, accessori per l'abbigliamento, profumi, pelletteria, piastrelle in ceramica, furono inclusi anche le tappezzerie ed i prodotti murali, in quanto tutti prodotti accomunati dalla destinazione al soddisfacimento di un medesimo bisogno estetico di raffinatezza, prestigio ed eleganza e, per tale motivo, ritenuti affini.
57 App. Milano, 18 luglio 1995, in GADI, 3432.
58 Trib. Milano, 6 novembre 1978, in Riv. Dir. Ind., 1983, II (caso Cartier).
59 Trib. Roma, 26 febbraio 1982, in GADI, 1528 (caso Xxxxxx).
60 Trib. Milano, 14 aprile 1986, in GADI, 2033 (caso Xxxxxx). Al marchio “Krizia” fu invece negata tutela in secondo grado: App. Milano, 6 novembre 1990, ivi, 2574 e con nota di XXXXXX, Il caso «Krizia»: revirement della Corte di Appello di Milano sulla tutela dei marchi celebri dei creatori del gusto e della moda, in Riv. Dir. Ind., 1991, II, pagg. 36 ss. La Corte, ritenendo la nozione di marchi dei creatori del gusto e della moda incerta ai fini della determinazione dell'ambito di tutela del marchio escluse, l'affinità tra mobili d‟arredamento e maniglie per porte e finestre e, conseguentemente, escluse la contraffazione del celebre marchio.
5. Il D.lgs. 480 del 1992 e l’introduzione della disciplina del marchio che gode di rinomanza.
In conseguenza dell'attuazione della Direttiva 89/104/CEE (oggi Direttiva 08/95/CE), effettuata con l'emanazione del D.lgs. 480/1992, fu introdotta nella legge marchi una normativa ad hoc per i marchi celebri, o meglio, per i marchi che godono di rinomanza, normativa che poi è stata trasposta e che oggi è contenuta nel Codice della Proprietà Industriale.
La Direttiva comunitaria fu emanata parallelamente alla prosecuzione dei lavori preparatori per l'emanazione del Regolamento 40/94 (oggi Regolamento 207/2009) sul marchio comunitario e la maggior parte delle sue disposizioni fu desunta proprio dai progetti del Regolamento. Ciò in quanto si cercò di allineare il contenuto della Direttiva con quello del futuro Regolamento in modo da evitare contraddizioni tra i due sistemi e una non corrispondenza tra norme nazionali e norme comunitarie.
Anche la normativa nazionale fu attuata tenendo come punto di riferimento la disciplina del marchio comunitario, proprio al fine di evitare il più possibile discrepanze con la normativa comunitaria, ma anche di evitare che il marchio nazionale fosse disciplinato in modo tale da renderlo meno preferibile a quello comunitario61.
Scopo della Direttiva era quello di rimuovere, attraverso il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, gli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti ed i motivi di alterazione delle condizioni di concorrenza nel mercato comune (primo considerando, oggi secondo considerando della Direttiva 08/95/CE).
Secondo la Direttiva, per raggiungere tale scopo, sarebbe stato sufficiente limitare il ravvicinamento alle disposizioni nazionali con un'incidenza più diretta sul funzionamento del mercato interno (terzo considerando, oggi quarto considerando della Direttiva 08/95/CE).
61 Per questo motivo, ad esempio, fu introdotta nella legge marchi la regola della cessione libera del marchio, prevista nel progetto di Regolamento sul marchio comunitario, ed invece non compresa nella Direttiva.
La Direttiva conteneva dunque, in primo luogo, una serie di norme alle quali gli Stati membri avevano l'obbligo di adeguare la loro disciplina e che riguardavano alcuni principi generali in materia di marchi registrati e precisamente quelli relativi alla loro esistenza, validità e correlativamente nullità e decadenza, nonché al contenuto ed all'ampiezza dei diritti nazionali62.
Accanto a queste disposizioni vincolanti, la Direttiva ne conteneva altre che, viceversa, erano facoltative, limitandosi a prevedere la possibilità per gli Stati membri di tradurne in una legge nazionale il contenuto.
Vi era, infine, anche un terzo ordine di norme: quelle che si riferivano al marchio comunitario, che la Direttiva aveva inserito per allineare le legislazioni nazionali al marchio comunitario, in modo da scongiurare, con la sua entrata in vigore, che gli imprenditori preferissero quest'ultimo a quelli nazionali.
Il legislatore italiano recepì ogni norma vincolante della Direttiva ed anche la maggior parte di quelle facoltative e colse l'occasione, attraverso la tecnica della interpolazione, per modificare in più punti la vecchia legge sui marchi d'impresa del 1942, anche al di fuori delle materie trattate nella Direttiva.
Il cardine su cui muoveva l'intera Direttiva era costituito, coerentemente con l'orientamento consolidatosi in dottrina ed in giurisprudenza, dal riconoscimento della tutela del marchio come tutela volta a garantire “in particolare” la funzione di indicazione d'origine del prodotto da una determinata impresa e dunque dal rischio di confusione tra i segni in conflitto e tra i prodotti ai quali questi erano apposti63.
La prima disposizione della Direttiva che rileva è l'art. 4, che disciplinava gli impedimenti alla registrazione o i motivi di nullità relativi ai conflitti con diritti anteriori.
In particolare, l'art. 4.1 lett. a) prevedeva che un marchio non potesse essere registrato o, se registrato, dovesse essere dichiarato nullo se identico ad un
62 La definizione del marchio (art. 2); i motivi di rifiuto o di nullità dei marchi (artt. 3 e 4); i diritti conferiti dal marchio (art. 5); i loro limiti (art. 6) ed il loro esaurimento (art. 7); le licenze (art. 8); la preclusione per tolleranza (art. 9), l'uso del marchio (art. 10) e le sanzioni per il suo non uso, ivi compresa la decadenza (artt. da 11 a 14); ed i xxxxxx xxxxxxxxxx, di garanzia e di certificazione (art. 15).
63 “considerando che la tutela che è accordata dal marchio d'impresa registrato e che mira in particolare a garantire la funzione d'origine del marchio d'impresa [...]” (decimo considerando, oggi undicesimo considerando della Direttiva 08/95/CE).
marchio d‟impresa anteriore o se i prodotti o i servizi per i quali il marchio era stato richiesto o registrato fossero identici a quelli per il quale il marchio d‟impresa anteriore era tutelato.
Analoga previsione era contenuta nell‟art. 5 relativamente ai diritti conferiti dal marchio. In particolare l‟art. 5.1 lett. a) affermava che il titolare del marchio avesse diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico al marchio d‟impresa per prodotti e servizi identici a quelli per cui era stato registrato64.
La lett. b) dell‟art. 4.1 prevedeva poi che un marchio non potesse essere registrato o dovesse essere dichiarato nullo se l‟identità o la somiglianza di detto marchio d‟impresa con il marchio anteriore e l‟identità o la somiglianza dei prodotti o dei servizi contraddistinti dai due marchi poteva dar luogo ad una confusione per il pubblico comportante anche un rischio di associazione.
Stessa disciplina era prevista dall‟art. 5.1 lett. b) per il divieto di utilizzo del marchio da parte di terzi.
Venne così codificato il principio dell‟estensione della tutela del marchio (e del suo potere invalidante sui marchi successivi) ai prodotti affini, che era stato unanimemente accolto da dottrina e giurisprudenza.
64 Da notare che queste ipotesi non furono introdotte nella legge marchi con la riforma del ‟92, bensì con quella intervenuta nel 1996 in occasione dell‟attuazione degli Accordi TRIPs con D.lgs. 198/1996. All'art. 16 comma 1 dell'Accordo TRIPs si prevedeva: “in caso di un segno identico per prodotti o servizi identici si presume che vi sia un rischio di confusione”. Non si trattava di una presunzione in senso tecnico, ma di una tutela di natura assoluta che prescindeva del tutto dal rischio di confusione. Per tale ragione fu modificato l'art. 1 della legge marchi relativo ai diritti di marchio sdoppiando la lett. a) della formulazione originaria, che si riferiva sia al segno identico che a quello simile per prodotti identici o affini e che subordinava la tutela del titolare in tutti questi casi al rischio di confusione, nella lett. a) dove ci si riferiva all‟uso di marchi identici per prodotti o servizi identici, sempre vietato indipendentemente dal rischio di confusione, e nella lett.
b) dove ci si riferiva all‟utilizzo di marchi identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, vietato solo se a causa dell‟identità o somiglianza tra i segni o dell‟identità o affinità tra i prodotti poteva determinarsi un rischio di confusione tra il pubblico, che poteva consistere anche in un rischio di associazione. Fu necessario separare le due ipotesi, sdoppiando la lett. d) del testo originario nelle lett. d) e e), anche nell'art. 17 della legge marchi che disciplinava il potere invalidante del marchio anteriore rispetto alla successiva registrazione di un marchio uguale per prodotti e servizi identici (lett. d) o di un marchio uguale o simile per prodotti o servizi identici o affini (lett. e).
Oggi queste disposizioni sono contenute nel c.p.i. all‟art. 12 comma 1 lett. c) e d) per quanto riguarda i requisiti di validità del marchio ed all‟art. 20 comma 1 lett. a) e b) con riferimento ai diritti conferiti dalla registrazione.
A livello europeo, la disciplina è oggi definita dagli artt. 8.1 lett. a) e b) e 9.1 lett. a) e b) del Regolamento 207/09 sul marchio comunitario.
Il comportamento era vietato quando l‟uso da parte di un terzo di un segno uguale o simile per prodotti uguali o affini avesse indotto il pubblico a credere che i suoi prodotti provenissero in realtà dall‟impresa titolare del segno.
Tra l'altro, con la previsione del “rischio di associazione”, la Direttiva estese la tutela anche alle ipotesi in cui, pur essendovi la possibilità di distinguere nettamente tra loro le rispettive fonti dei prodotti contrassegnati, in concreto la situazione era tale da indurre i consumatori a ritenere che vi fosse tra queste fonti un collegamento rappresentato da rapporti di gruppo o contrattuali.
Nella legge marchi queste disposizioni furono inserite nell'art. 17 lett. d) e e) circa il requisito di novità e, specularmente, quanto al diritto di esclusiva conferito dal marchio, nell'art. 1 lett. a) e b), ed oggi sono contenute negli artt. 12.1 lett. c) e d) e 20.1 lett. a) e b), rispettivamente, del c.p.i.
I punti più importanti dell'art. 4 della Direttiva erano però indubbiamente il 3 e il 4 che riguardavano il riconoscimento di una tutela ampliata del “marchio che gode di notorietà” sia sul piano comunitario (che doveva essere obbligatoriamente inserito nelle leggi nazionali) sia su quello nazionale (ammesso facoltativamente). La formula adoperata prevedeva la esclusione dalla registrazione o la nullità dei marchi identici o simili ad un marchio d‟impresa comunitario o nazionale anteriore, ancorché si trattasse di marchi registrati per prodotti o servizi “non simili” (ovvero non affini), a condizione che il marchio comunitario o nazionale anteriore godesse di notorietà rispettivamente nella Comunità o nello Stato membro di cui si trattava e se l'uso senza giusto motivo del marchio successivo traeva indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio comunitario o nazionale anteriore o recava pregiudizio agli stessi.
L'eventuale tutela allargata dei marchi nazionali “che godono di notorietà” sotto il profilo del loro potere invalidante rispetto ai marchi successivi trovava una corrispondenza al successivo art. 5.2 nella norma parallela che consentiva al titolare del marchio di vietare ai terzi l‟imitazione per prodotti non affini.
E questo parallelismo fra definizione del potere invalidante del marchio anteriore e limiti della tutela contro violazioni del diritto corrisponde a logica perché nell‟uno e nell‟altro caso si tratta di definire la portata dell‟esclusiva, che può poi esprimersi sia nell‟impedire la valida registrazione del marchio altrui successivo
(cioè con l‟azione di nullità per mancanza di novità), sia con l‟impedirne la utilizzazione (con l‟azione di contraffazione).
Il tipo di tutela accordato dalle norme consisteva dunque in un superamento del principio di specialità o di relatività che fino ad allora aveva caratterizzato la disciplina dei segni distintivi.
Questa normativa fu trasposta negli artt. 1.1 lett. c) e 17.1 lett. g) della legge marchi e negli artt. 8.5 e 9.1 lett. c) del Regolamento 207/09 sul marchio comunitario. Oggi analoghe disposizioni sono contenute nell‟art. 12.1 lett. e) c.p.i. per quanto riguarda la registrazione e nell‟art. 20.1 lett. c) c.p.i. in relazione ai diritti che il marchio conferisce al titolare.
Nella traduzione ufficiale italiana degli artt. 4 e 5 della Direttiva si utilizzava il termine “notorietà”, mentre nella legge marchi fu adottato il termine “rinomanza”.
In fase di attuazione della Direttiva, essendosi deciso di mantenere in vita le norme della legge marchi con essa non incompatibili, l'espressione “notorietà” si era rivelata non utilizzabile, in quanto l'art. 17 l.m. attribuiva al predetto termine un significato diverso e più riduttivo. Nella legge marchi il marchio che godeva di notorietà era infatti quello che formava oggetto di preuso, che era idoneo a togliere la novità al marchio successivamente registrato per prodotti o servizi dello stesso genere. Ci si riferiva al marchio noto come quello che possedeva una notorietà diffusa su tutto il territorio nazionale, quindi generale, e qualificata ossia conseguita mediante un consistente utilizzo del segno attraverso la distribuzione e la pubblicizzazione dei prodotti.
Allo stesso tempo l'espressione “marchio celebre” era stata evitata perché avrebbe potuto indurre ad interpretazioni troppo rigorose ai fini del riconoscimento della tutela ultramerceologica.
Il legislatore italiano decise così di ispirarsi alla versione della Direttiva in altre lingue ed in particolare a quella francese, dove si parlava di marchio che gode di “renommée”, abbracciando così, secondo parte della dottrina, sia l'ipotesi di marchi celebri che di marchi semplicemente noti65.
65 Così Xxxxxxxx aveva inizialmente ritenuto che il legislatore comunitario, scegliendo di designare questa categoria di marchi con l'espressione “marchio che gode di notorietà”, intendesse riferirsi al marchio celebre o di alta rinomanza, seppur intesi nella accezione più ampia e cioè come marchi
Il limite inferiore della categoria dei marchi rinomati ai quali applicare la tutela merceologicamente ampliata era determinato dalla sussistenza dell'indebito vantaggio o del pregiudizio, che erano dunque elementi costitutivi della fattispecie cui la norma attribuiva la tutela al di là del principio di specialità e del pericolo di confusione. Il che si sarebbe verificato, per l‟appunto, soprattutto per i marchi celebri, ma anche per i marchi semplicemente noti, magari in ambiti limitati territorialmente o specialistici.
La legge condizionava la tutela del marchio rinomato altresì al fatto che il terzo ne facesse uso “senza giusto motivo”, requisito la cui importanza, si ritiene, è stata probabilmente talmente sottovalutata, da venire semplicemente ritenuto coincidente con le scriminanti elencate nell'art. 1-bis comma 1 l.m. (oggi art. 21 comma 1 c.p.i. e art. 12 del Regolamento 207/09 sul marchio comunitario).
Ecco che a seguito della riforma del '92 convivevano nella nuova legge due categorie di marchi: il marchio ordinario, segno distintivo della provenienza del prodotto e strumento di protezione dell'avviamento aziendale, governato dal principio della relatività della tutela, e il marchio che gode di rinomanza, bene immateriale che, a causa del suo contenuto simbolico ed evocativo, incorporava un suo potere di vendita, oggetto di protezione di per sé considerato a prescindere dal limite della identità o affinità dei prodotti o servizi.
conosciuti da tutti o che comunque godevano di una vasta notorietà. Ciò in quanto nel progetto di Xxxxxxxxx era stata usata l'espressione “larga notorietà”, poi però modificata a fronte delle resistenze dei rappresentanti del Benelux. XXXXXXXX, Commento alla Direttiva del 21 dicembre 1988 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1989, pagg. 1443-1444. L'Autore cambiò successivamente opinione ritenendo che il riferimento non fosse soltanto al marchio di alta rinomanza bensì ad ogni ipotesi in cui l'appropriazione del marchio poteva determinare un indebito vantaggio per l'usurpatore o un pregiudizio per il titolare, il che poteva verificarsi anche nel caso di marchi semplicemente noti. ID., La nuova legge marchi, Xxxxxxx, Milano, 1993, pagg. 24-25.
CAPITOLO II
LA DISCIPLINA A TUTELA DEL MARCHIO NEL SETTORE DELLA MODA
Sommario: 1. L‟ambito di protezione per il titolare del marchio. – 2. Uso di un segno identico per prodotti o servizi identici. – 3. Uso di segni identici o simili per prodotti o servizi identici o affini: il rischio di confusione e di associazione. – 4. La tutela ultramerceologica per i marchi che godono di rinomanza. – 5. Il concetto di “rinomanza”. – 6. Ambito merceologico della tutela e pubblico di riferimento.
– 7. Il caso Xxxxxxxx e l‟estensione della tutela a prodotti o servizi identici o affini.
– 8. Ambito territoriale nazionale. – 9. Ambito territoriale comunitario: il concetto di “parte sostanziale del territorio della Comunità”. – 10. L‟elaborazione del concetto di “nesso”. – 11.1 Pregiudizio ed indebito vantaggio: criteri di valutazione. – 11.2 Le ipotesi di pregiudizio e di indebito vantaggio. – 12. Il giusto motivo.
1. L’ambito di protezione per il titolare del marchio.
Nel settore della moda il fenomeno contraffattivo non si limita ad una mera riproduzione del prodotto, ma si concentra anche nell‟imitazione dei marchi delle più importanti case di moda, con lo scopo di spingere i clienti ad acquistare prodotti che, grazie all‟apposizione di tali segni, possano risultare riconducibili alle note griffes.
Proprio perché la contraffazione non si manifesta solo con la messa in commercio dei prodotti, ma inizia già nella prima fase del processo produttivo, il legislatore si è prefissato lo scopo di tutelare il marchio con particolare riferimento ai possibili effetti confusori ed allo sfruttamento parassitario dei valori di avviamento commerciale incorporati in esso, che nel settore moda si traducono in un‟identificazione di maggiore qualità, originalità del prodotto, eleganza e
tradizione per i quali il consumatore è disposto a spendere un delta in più del prezzo di acquisto.
Il nuovo sistema del diritto dei marchi risponde ad una ratio di protezione del segno in funzione non tanto distintiva, quanto di attrazione che alcuni marchi possiedono in sé e che, dovuto alla grande notorietà di cui godono, alla massiccia pubblicità ed agli ingenti investimenti di cui sono oggetto, al loro legame con personalità di spicco, si traduce in una elevata capacità di vendita del prodotto che contrassegnano, il c.d. selling power del marchio.
Tale protezione è stata codificata nel nostro ordinamento a seguito dell‟attuazione della Direttiva 89/104/CEE avvenuta ad opera del D.lgs. 480/1992 ed è attualmente prevista all‟interno dell‟art. 20 del Codice di Proprietà Industriale, disposizione che specifica i diritti conferiti al titolare del marchio dalla registrazione e che consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio.
La “facoltà” in questione è poi ampiamente analizzata ma in termini negativi, ossia viene enunciata come possibilità di vietare ai terzi determinati comportamenti.
Vale certamente la pena riportare per intero l‟articolo in questione poiché caratterizzerà, in particolare con il comma 1, tutti gli approfondimenti relativi a questo capitolo:
“1. I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica:
a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.
2. Nei casi menzionati al comma 1 il titolare del marchio può in particolare vietare ai terzi di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni; di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno; di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno stesso; di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità.
3. Il commerciante può apporre il proprio marchio alle merci che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci.”.
Il risultato di questa norma è certamente stato dato dall‟affinamento nel corso degli anni delle interpretazioni dei giudici comunitari dell‟art. 5 della Direttiva 89/104/CEE (oggi art. 5 della Direttiva 08/95/CE).
L‟art. 20 disciplina la sfera esclusiva di cui gode il marchio e dunque l‟ambito di protezione a disposizione del titolare di questo. Di conseguenza, sono utilizzi illeciti del marchio quelli elencati dalla lettera a) alla lettera c) del comma 1.
Tuttavia, si deve trattare di “usi” effettuati “nell’attività economica”. In forza di un‟opinione oramai consolidata ai due termini deve attribuirsi un significato lato. In particolare, alla nozione di uso corrisponde sia l‟utilizzo attuale e concreto sia quello potenziale consistente negli atti idonei e diretti in modo non equivoco a preparare il futuro concreto impiego del marchio (ad esempio, riproduzione del marchio su etichette apposte a campioni dei prodotti, riproduzione del marchio sulla carta per la corrispondenza commerciale, ecc.).
L‟attività economica è da intendersi come qualsiasi attività non diretta alla esclusiva soddisfazione personale dell‟agente e che abbia una valenza patrimoniale. Questo presuppone che i beni sui quali viene apposto il marchio siano destinati alla vendita o comunque prevedano uno scambio in denaro o altre utilità a prescindere dal settore produttivo o dei servizi cui il bene scambiato appartenga, rimanendone escluso invece l‟uso in ambito privato.
Il legislatore riconosce poi al titolare del marchio il diritto di impedire che altri tengano specifici comportamenti ma questo diritto è subordinato all‟assenza di un suo consenso a che questi comportamenti vengano posti in essere.
È evidente che se questo consenso fosse semplicemente inteso come mancanza
del titolare di far valere il suo diritto, ossia come mera accettazione della contraffazione, la norma sarebbe del tutto ovvia. Pertanto, si ritiene che al consenso debba essere attribuito un significato diverso, ossia di un consenso espresso, pur revocabile.
La previsione che il consenso del titolare del marchio possa rendere legittimi comportamenti confusori è la manifestazione più evidente del carattere privatistico che la legge dà al diritto sul marchio, che viene poi confermato dalla possibilità per il suo titolare di cederlo o di concederlo in licenza, ossia in godimento a terzi.
2. Uso di un segno identico per prodotti o servizi identici.
L‟art. 20 al comma 1 lett. a) riconosce al titolare del marchio d‟impresa il diritto di vietare a terzi l‟uso nell‟attività economica di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è registrato.
Scopo di questa norma è quello di rafforzare la tutela del marchio registrato dal momento che si potrà affermare la contraffazione per il solo fatto che l‟imitatore si sia appropriato del marchio altrui in modo identico, apponendolo su prodotti o utilizzandolo per servizi identici, a prescindere dalla confondibilità.
Secondo la giurisprudenza, infatti, la previsione opera anche nel caso in cui possa escludersi un rischio di confusione.
Si dice, ad esempio, che l‟impresa che utilizza un segno identico a quello registrato non è esente da responsabilità neppure inserendo un‟avvertenza che chiarisce ai consumatori che i prodotti non sono ufficiali e non provengono dal titolare del marchio anteriore.
Così è stato affermato nel caso Arsenal66, in cui la società Arsenal Footbal Club chiedeva che fosse impedita la vendita ai sensi dell‟art. 20.1 lett. a) al sig. Xxxx, il quale, in un chiosco vicino lo stadio Highbury, commercializzava magliette, sciarpe ed una serie di prodotti per la tifoseria dei c.d. Gunners sulle quali
66 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2002, C-206/01.
figurava il termine “Arsenal”, marchio registrato dal club di calcio per gli stessi prodotti. La vendita fu vietata nonostante nel suddetto chiosco figurasse un cartello in cui veniva affermato che i loghi contenuti negli articoli in vendita erano utilizzati unicamente allo scopo di decorare il prodotto e non implicavano né esprimevano appartenenza o alcun rapporto con il fabbricante o i distributori originali.
Una protezione così elevata è riservata ai soli casi in cui vi sia un‟identità dei beni e dei segni.
In merito all‟identità di segni, in dottrina vi sono differenti orientamenti: si parla di identità assoluta e sostanziale, riferendosi nel primo caso a due segni che non presentano alcuna differenza; nel secondo a due segni che, seppur diversi per alcuni aspetti, presentano lo stesso carattere distintivo67 o sono percepiti dal pubblico come identici68.
Nella giurisprudenza italiana sembra prevalere l‟orientamento dell‟identità sostanziale, affermandosi l‟identità tra due marchi anche qualora siano stati aggiunti “elementi di differenziazione marginali, irrilevanti e non percepibili dal consumatore medio”.
In forza di questo principio la Corte di Appello di Milano69, nel caso di una società che riproduceva su due modelli di borsa la lettera “H”, lettera usata dalla casa di moda Hermés per identici prodotti, ha rilevato che “il riferimento ai presunti elementi di differenziazione invocati, sono marginali e irrilevanti. Il consumatore medio non riesce a cogliere minime varianti del marchio capaci di differenziare e distinguere le due imprese”.
Nella stessa direzione si è mosso il Tribunale di Bari70 che ha accertato la contraffazione del marchio Adidas ad opera della parte convenuta, la quale apponeva sui propri prodotti di abbigliamento un marchio a quattro strisce parallele, simile al marchio della società attrice, in quanto la diversità dei segni era così lieve tale da essere idonea a confondere il pubblico.
67 XXXXX, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Xxxxxxx, Milano, 1996, pagg. 170-171.
68 SIRONI, in AA.VV, Studi di diritto industriale in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2004, pagg. 1549 ss.
69 App. Milano, 17 settembre 2008, in GADI, 2009, pagg. 515-517.
70 Trib. Bari, 28 giugno 2010, in GADI, 2010, pag. 715.
La stessa Corte di Xxxxxxxxx afferma che “v’è identità fra il segno e il marchio quando il primo riproduce, senza modifiche, né aggiunte, tutti gli elementi che costituiscono il secondo”, ma ammette l‟identità fra i segni se quello del terzo “considerato complessivamente, contiene differenze talmente insignificanti da poter passare inosservate agli occhi del consumatore medio”71.
Allo stesso modo si deve condurre il ragionamento sull‟identità dei prodotti o dei servizi, ossia sulla base della percezione del consumatore medio.
Saranno, quindi, da considerare identici prodotti o servizi che il pubblico non distingue tra loro, mentre fuoriescono dal concetto di identità i beni che il pubblico non ritiene della stessa tipologia anche se appartenenti allo stesso genere merceologico.
3. Uso di segni identici o simili per prodotti o servizi identici o affini: il rischio di confusione e di associazione.
Ai sensi dell‟art. 20 comma 1 lett. b), il titolare ha diritto di vietare a terzi di usare nell‟attività economica un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell‟identità o somiglianza fra i segni e dell‟identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni.
La tutela del marchio contro la confondibilità è volta a proteggere la sua funzione distintiva, nel senso di funzione di indicazione di provenienza del prodotto da un determinato imprenditore consentendo di distinguerlo, senza confusione, da quello che abbia un‟origine diversa.
Viene tutelata anche la funzione di garanzia qualitativa. Il marchio deve, infatti, assicurare che tutti i prodotti che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un‟unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità.
71 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 marzo 2003, C-291/00 (caso LTJ Diffusion S.A. vs Sadas Vertbaudet S.A.).
Rispetto alla funzione distintiva così definita, l‟erroneo convincimento del pubblico circa la medesima origine imprenditoriale dei prodotti rappresenta l‟ipotesi della c.d. confusione in senso stretto, che si verifica laddove il consumatore acquisti il prodotto dal contraffattore credendo che questo provenga dall‟impresa del titolare del marchio; mentre, l‟erroneo convincimento circa la provenienza dei prodotti da imprese tra di loro economicamente collegate costituisce la c.d. confusione in senso lato, che coincide in sostanza con il rischio di associazione. Ciò accade quando il consumatore sia consapevole della provenienza del prodotto dal contraffattore ma ritenga che vi sia un collegamento economico con l‟impresa del titolare rappresentato da rapporti di gruppo o contrattuali, in realtà inesistenti72.
In genere, ci si riferisce al rischio di associazione come ad un rischio di confusione “allargato” che si verifica, appunto, qualora il pubblico riconosca dei legami economici fra titolare e contraffattore.
In questo senso si è orientata anche la giurisprudenza europea che colloca il rischio di associazione all‟interno del rischio di confusione a chiarimento di quest‟ultimo, sin dal noto caso Sabel vs Puma, in cui la Corte di Giustizia ha affermato che “la nozione di rischio di associazione non costituisce un’alternativa al rischio di confusione, bensì serve a precisarne l’estensione”. Pertanto i due termini “escludono che la disposizione possa trovare applicazione se non sussiste nel pubblico un rischio di confusione” 73.
La Corte offre dunque un‟interpretazione del rischio di associazione più in linea con la tradizionale funzione del marchio legata all‟indicazione di origine imprenditoriale.
L‟espressione “rischio di associazione” specifica ed amplia l‟estensione della tradizionale nozione di rischio di confusione, ma non comprende le diverse ipotesi in cui il segno dell‟imitatore richiama alla mente del pubblico l‟altro marchio,
72 SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, 1994, cit., pagg. 139-140; VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 247.
73 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 1997, C-251/95. La Corte era stata adita con ricorso pregiudiziale relativo all‟interpretazione dell‟art. 4.1 lett. b) della Dir. 89/104/CEE nell‟ambito della controversia tra la società olandese Sabel, che aveva richiesto la registrazione in Germania di un marchio riproducente un felino che salta per prodotti di abbigliamento, calzature ed accessori, e la società tedesca Puma, che proponeva opposizione in ragione del rischio di associazione fra segni.
senza che si verifichi alcuna confusione sull‟origine, e, quindi, i casi di agganciamento parassitario non confusorio.
Un motivo di discussione in dottrina e in giurisprudenza, è se la confondibilità debba essere valutata in astratto o in concreto.
Nella prima ipotesi, per accertare il rischio di confusione tra i segni si fa riferimento alle informazioni contenute nella registrazione, cioè la rappresentazione del marchio e la indicazione dei prodotti o dei servizi rivendicati, a prescindere dalle modalità concrete d‟utilizzo del marchio, dal contesto in cui questo avviene e dalle peculiarità del prodotto offerto; in tal modo l‟effetto confusorio viene confermato anche se in realtà non sussiste in concreto74. Tale teoria è stata, tuttavia, da molti criticata e si è dunque privilegiata la seconda ipotesi, ovvero quella della confondibilità in concreto, la quale implica che nella valutazione si debba considerare se le modalità ed il contesto d‟uso interferiscono con la funzione d‟origine, creando un reale e vero rischio di confusione sulla provenienza75.
La giurisprudenza italiana sembra aver superato la dicotomia astratto/concreto, tendendo a valutare la confondibilità sulla base di parametri concreti e, solo per un‟eventuale integrazione, in astratto. Si dice che il giudizio deve essere compiuto esaminando le reali modalità di utilizzo del segno sul mercato e la notorietà da esso acquisita nel tempo presso il pubblico.
È questa, d‟altra parte, l‟opinione che sembra propria della giurisprudenza comunitaria, la quale afferma costantemente che nel giudizio di contraffazione deve farsi riferimento a tutti i “fattori pertinenti al caso concreto”, valutati secondo il punto di vista della “percezione del pubblico”.
Così si è, infatti, pronunciata la Corte di Giustizia nel caso Xxxxxx XXX (Adidas AG e Adidas Benelux vs Marca Mode e altri), in ordine alla controversia promossa dall‟azienda sportswear tedesca che si era rivolta alla magistratura tedesca per impedire ai grandi magazzini Marca Mode, C&A, H&M e Vendex di vendere
74 SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, 2007, cit., pagg. 56 ss.; SENA, Confondibilità fra segni e fra prodotti o servizi nella giurisprudenza comunitaria: alcuni considerazioni pertinenti e impertinenti, in Riv. Dir. Ind., 2004, pagg. 201 ss.; XXXXXXX, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, in AA. VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 229.
75 XXXXX, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, cit., pagg. 113 ss.
articoli sportivi con due strisce verticali invece che tre, noto marchio Adidas76. Quanto poi al fatto che in alcuni casi la confondibilità debba essere in concreto esclusa, come nel caso in cui l‟acquirente sia consapevole di non comprare un prodotto originale per ragioni di prezzo, qualità, canali di distribuzione, ecc. (si pensi alle imitazioni di prodotti di celebri case di moda, quali Gucci o Xxxxx Xxxxxxx, poste in essere da falsari e smerciate per strada), la giurisprudenza generalmente dichiara sussistente la contraffazione.
Si tratta di casi in cui un illecito sussiste, perché da un lato si ricade di solito in ipotesi di marchi che godono di rinomanza, ai quali deve applicarsi la relativa disciplina che prescinde dalla confondibilità, o di casi di uso di marchio identico per prodotti identici, la cui tutela secondo la legge pure prescinde da un rischio di confusione; e di casi nei quali, dall‟altro lato, una parte del pubblico non sarà consapevole dell‟inganno, ossia i terzi che vedono il prodotto-copia e che credono che si tratti dell‟originale: si avrà, dunque, un uso confusorio del marchio, vietato in quanto tale.
Si parla, a questo proposito, di post-sale confusion, che si verifica in un momento successivo all‟acquisto, qualora si riscontri confusione nei terzi circa la reale provenienza del prodotto, nonostante chi lo abbia acquistato conosca l‟effettiva titolarità del marchio.
I due elementi che devono concorrere per dar luogo alla confusione sono l‟identità o somiglianza tra segni e l‟identità o affinità tra prodotti.
Quanto al primo requisito, quando il marchio usato dal terzo sia identico a quello del titolare non si pongono problemi. La esigenza di stabilire dei criteri di valutazione sorge, invece, quando il marchio adottato dal terzo sia soltanto simile a quello del titolare.
I criteri generali da adottarsi nel raffronto per stabilire se tra i due segni sussista confondibilità sono ormai consolidati sia in dottrina che in giurisprudenza.
Si dice che il giudizio va compiuto tenendo conto dell‟impressione d‟insieme che il raffronto fra i due segni può suscitare. In particolare, si ritiene che il giudice debba procedere ad un esame comparativo tra gli stessi non in via analitica, attraverso una particolare disamina ed una separata valutazione di ogni singolo
76 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 aprile 2008, C-102/7.
elemento, ma in via unitaria e sintetica, mediante un apprezzamento complessivo che tenga conto di tutti gli elementi salienti.
Si sostiene poi che per stabilire se i due segni sono confondibili, il giudizio debba essere condotto tenendo presente la normale diligenza ed avvedutezza del pubblico dei consumatori al quale i prodotti contraddistinti sono destinati.
Ciò comporta che la valutazione sia più o meno severa a seconda del tipo di prodotti di cui si tratti, nel senso che in caso di prodotti di consumo più corrente e di prezzo poco elevato, nell‟acquisto dei quali si ritiene meno coinvolta l‟attenzione dell‟acquirente, si affermerà la confondibilità anche in caso di relativa distanza fra i due segni, mentre nel caso di prodotti ad elevato prezzo destinati ad un pubblico altamente qualificato, la confondibilità potrà negarsi anche in ipotesi di notevole vicinanza, ritenendosi che l‟attenzione dell‟acquirente sarà tale da escludere la possibilità che egli realmente si confonda.
Ciononostante la Corte di Cassazione, nel caso Valentino77, pur precisando che i prodotti della celebre società di moda erano destinati ad un pubblico specialistico e qualificato, ha ritenuto che si potesse ugualmente verificare il rischio di confusione, in quanto l‟affinità merceologica dei prodotti rendeva sovrapponibile la fascia dei consumatori medi con quella degli esperti.
Criteri particolari sono affermati in tema di marchi complessi, cioè di marchi che sono costituiti da una pluralità di elementi, denominativi e figurativi. Si dice che questi marchi sono tutelati in ciascuno dei loro elementi, purché si tratti di elementi nuovi e dotati di capacità distintiva78: conseguentemente, si dovrà affermare la confondibilità e la violazione del diritto del titolare anche in caso di appropriazione di uno solo di questi elementi. Per contro, ove alcuni degli elementi del segno siano nuovi ed originali ed altri non lo siano, la tutela sarà limitata ai primi.
Tuttavia, si precisa che il rischio di confusione viene meno nel caso in cui i marchi in questione, pur se coincidenti in qualche elemento, si differenziano con riferimento al loro nucleo ideologico.
Ad esempio, in una nota sentenza79, la Corte di Cassazione ha escluso il rischio di
77 Cass., 10 ottobre 2008, n. 24909, in GADI, 2009, pag. 32.
78 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 248.
79 Cass., 27 febbraio 2004, n. 3984, in Dir. Ind., 2007, pag. 239.
confusione tra i marchi complessi, figurativi e denominativi, entrambi per accessori moda, rilevando che si trattava di segni sufficientemente differenziati, in quanto il primo marchio costituito dal nome “Xxxxx”, sovrapposto al disegno di un‟antilope che salta sullo sfondo di una pezza di cuoio, evocava la dea della caccia, costituendo così un legame con gli animali di cui si lavorano le pelli per la realizzazione degli accessori, mentre il secondo era costituito da una composizione grafica formata da un quadro all‟interno del quale si trovava la sigla stilizzata “DdS” e sotto, in caratteri più piccoli, il patronimico “Xxxxx de Xxxxx”, che indicava semplicemente il nome e cognome di una donna legata alla casa produttrice.
Ma vi sono dei casi in cui, nonostante la somiglianza dei segni, la giurisprudenza esclude che possa sussistere un rischio di confusione.
Un‟ipotesi è quella in cui un segno, seppur simile ad un marchio già registrato, venga usato con funzione decorativa e non distintiva del prodotto. Si dice che in questi casi non si ingenera confusione e non vi è lesione del diritto di marchio altrui, eccetto l‟eventualità che il segno imitato sia riconosciuto come rinomato poiché esso gode di una tutela più ampia.
In questo senso si è espressa la Corte di Giustizia nel già citato caso Xxxxxx XXX00, dove la società Marca Mode, la C&A, la H&M e la Vendex si erano difese affermando che il motivo a due bande che loro apponevano ai capi di abbigliamento sportivo e casual aveva solo fini decorativi.
Nella sentenza si legge che “La percezione da parte del pubblico di un segno come ornamento non può rappresentare un ostacolo alla protezione conferita dall’art. 5.1 lett. b) della Direttiva 89/104, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, allorché, nonostante il carattere decorativo, il segno presenta una somiglianza con il marchio registrato tale che il pubblico interessato può credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o, eventualmente, da imprese collegate economicamente.”. Viceversa, “qualora, secondo una valutazione del giudice nazionale, il pubblico interessato percepisca il segno esclusivamente come decorazione, esso non stabilisce per ipotesi, alcun nesso con un marchio d’impresa registrato. Ciò implica, in tal caso,
80 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 aprile 2008, C-102/7.
che il grado di somiglianza tra il segno ed il marchio d’impresa non è sufficiente affinché si stabilisca un nesso.”.
Di conseguenza, vi sarà contraffazione ai sensi delle norme a tutela dei marchi che godono di notorietà ogniqualvolta il pubblico interessato, nonostante l‟uso ornamentale del secondo segno, istituisca un nesso tra i due marchi finendo per credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o da imprese economicamente collegate e ricorrano i requisiti dell‟indebito vantaggio o del pregiudizio.
Altra ipotesi in cui si esclude il rischio di confusione è quella in cui l‟esistenza di una somiglianza tra due marchi non presupponga che la componente comune agli stessi costituisca l‟elemento dominante dell‟impressione globale prodotta dal marchio richiesto. In taluni casi, infatti, se è vero che nelle ipotesi di marchio complesso, la valutazione di somiglianza visiva, fonetica e di significato tra due segni richiede che si consideri ciascuno degli stessi nella loro interezza, tuttavia non è escluso che nell‟impressione del pubblico di riferimento possano risultare dominanti una o più componenti.
Quando tutte le altre componenti del marchio siano trascurabili si potrà valutare la somiglianza sulla sola base dell‟elemento dominante, cosicché potrà dirsi non generato il rischio di confusione.
In particolare, a questo riguardo, merita richiamare una decisione della Corte di Giustizia81 del 2010 che ha ritenuto inesistente il rischio di confusione tra i segni, nonostante il marchio anteriore godesse di una tutela più ampia in quanto marchio rinomato. Tale sentenza vedeva contrapposte la Xxxxxx Xxxxx Trademark Trust, con marchio “CK” e la Zafra Marroquineros, con marchio “CK Creaciones Kennya”. La Corte, dopo un‟attenta indagine visiva, fonetica e concettuale, ha ritenuto che non sussistesse un rischio di confusione tra tali marchi in quanto nel secondo l‟elemento dominante era “Creaciones Kennya” e “CK” occupava solo una posizione accessoria, non permettendo al pubblico di istaurare alcun collegamento al noto produttore e stilista di articoli di moda Xxxxxx Xxxxx.
Relativamente al secondo requisito, nessuna problematica sussiste nel caso in cui i prodotti siano uguali. Si pone, invece, la necessità di stabilire quando un prodotto
81 Corte di Giustizia UE, 2 settembre 2010, C-254/09.
possa dirsi affine ad un altro.
È opinione del tutto consolidata che non debba attribuirsi alcun rilievo alla classificazione rispetto alla quale un marchio viene registrato. Il marchio può essere, infatti, registrato per una o più classi (pagando tasse commisurate al numero delle classi medesime) e per uno o più prodotti o servizi nell‟ambito di ciascuna classe. La tutela del marchio così depositato, tuttavia, non si estenderà automaticamente a tutti i prodotti della classe in cui sono ricompresi quelli specificatamente rivendicati, dato che alla classificazione in questione si attribuisce un valore puramente fiscale ed amministrativo. Per contro la tutela potrà estendersi anche a prodotti di altre classi, in base al criterio della c.d. affinità fra prodotti o servizi.
Secondo una formula che ha avuto ampio utilizzo in giurisprudenza ed è ancora oggi, talvolta, utilizzata, dovrebbero essere considerati affini tra loro quei prodotti o servizi che, per la loro “intrinseca natura, per la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione degli stessi bisogni” sono ricollegabili al prodotto o al servizio protetto dal marchio.
Così, per esempio, si è detto che può costituire contraffazione l‟utilizzo di marchio simile per settore d‟abbigliamento affine, anche nel caso di due società che producono rispettivamente vestiario per donna e per uomo. Detta confondibilità, infatti, nasce dall‟idoneità del prodotto a soddisfare il medesimo “tipo” di bisogni, così che la clientela, attesa l‟ontologica vicinanza tra i prodotti offerti sul mercato, è indotta, per somiglianza dei due segni, a confondere i produttori.
In linea con questa interpretazione si è espressa la Corte di Cassazione nella controversia insorta tra la società Naman S.r.l. e la società Xxxxxx & Xxxxx S.r.l., entrambe operanti nel settore d‟abbigliamento82. La prima conveniva la seconda per violazione dell‟art. 20.1 lett. b) c.p.i., nonostante i prodotti fossero destinati a consumatori finali diversi ed a mezzo di reti di distribuzione e di vendita distinte. La Corte di Cassazione ha ritenuto che, nonostante gli articoli di abbigliamento fossero rivolti a soggetti diversi, entrambi soddisfacessero uno dei bisogni primari dell‟essere umano.
82 Cass., 20 settembre 2012, n. 15957.
La confondibilità era rafforzata ancor di più dalla somiglianza dei segni: la Corte, rilevando l‟essenzialità della parola “Xxxxx” presente in entrambi i marchi, ha trovato irrilevante il diverso uso che le due società ne facevano: una come patronimico e l‟altra come prenome. Ha inoltre rilevato che i marchi avevano sostanzialmente la stessa lunghezza e che la “&”, inclusa solo nel marchio della convenuta, non era sufficiente a differenziarla.
Tuttavia, la formula prima enunciata è stata criticata in quanto fortemente ambigua. I tre criteri di cui essa si compone, infatti, se considerati in sé e per sé, appaiono vaghi e sfuggenti. Interpretando in modo rigoroso il riferimento alla “intrinseca natura dei prodotti” si potrebbe giungere a richiedere una “sostanziale identità dei prodotti stessi”; e ad identiche conclusioni si potrebbe pervenire in applicazione dei criteri dell‟attitudine a soddisfare i medesimi bisogni e della destinazione alla medesima clientela. D‟altra parte, interpretando in maniera ampia questi indici si potrebbe finire per qualificare affini dei prodotti in realtà lontanissimi.
Pertanto, si è ritenuto che la nozione di affinità andasse ricostruita in base alla funzione distintiva del marchio, ossia alla funzione di indicazione di origine del prodotto. In questa prospettiva, dunque, andranno considerati affini prodotti che, quando siano contrassegnati dallo stesso marchio o da marchi simili, possano indurre il consumatore a pensare che i prodotti provengano dalla medesima impresa. In questo modo i tre indici non appaiono più criteri esclusivi sui quali fondare un giudizio di affinità, ma degli indicatori di un possibile rischio di confusione.
Potranno così considerarsi affini prodotti che non lo sono merceologicamente, ma che si trovino in un rapporto tale da rendere possibile che il pubblico istituisca fra loro un collegamento quanto all‟origine, per lo meno nella forma dell‟associazione.
Il fenomeno è particolarmente evidente con riferimento ai marchi dei c.d. creatori del gusto e della moda.
In applicazione di questa interpretazione si è giunti ha ritenere affini prodotti come l‟abbigliamento da un lato ed i gioielli dall‟altro, che pure non sarebbero tali da un punto di vista strettamente merceologico, ma che, nell‟ambito della moda, il
pubblico è abituato a vedere contrassegnati da uno stesso marchio ed attribuiti ad uno stesso stilista.
Così il marchio Xxxxx Xxxxxxx è accostato ad altri marchi del settore della moda e del lusso quali Gucci, Prada, Hermés, Rolex e Cartier, che producono abbigliamento, gioielli, accessori di pelletteria ed anche orologi.
In definitiva, se anche il marchio Xxxxx Xxxxxxx nel caso di specie sia stato registrato per i gioielli, le considerazioni che precedono, ed in particolare il fatto che si tratti di marchio generale e che borse e pelletteria di lusso debbano essere considerate affini ai gioielli, portano a ritenere che la società titolare possa far valere anche in ordine a tali beni il diritto di vietare a terzi l‟uso di un marchio identico o simile al proprio per sfruttarne il valore suggestivo ed attrattivo nonché la sua notorietà.
Da un concetto di affinità in sé ambiguo e che lasciava spazio a soluzioni arbitrarie, fondato sulla “intrinseca natura dei prodotti” recanti lo stesso marchio o marchi simili, sulla loro “destinazione alla stessa clientela e alla soddisfazione degli stessi bisogni”, si è passati ad un concetto che valorizza la ratio dell‟estensione della tutela del marchio ai prodotti affini, ossia che attribuisce all‟espressione un significato coerente con la funzione di indicazione dell‟origine. In questa prospettiva, per affermare se tra i prodotti vi sia o meno affinità, bisognerà considerare lo specifico contesto sociale e culturale in cui i prodotti vengono a collocarsi, nonché la prassi di mercato attinente a quei settori ed i conseguenti convincimenti che il pubblico ha maturato. Potranno dirsi affini prodotti che si trovano in quello specifico contesto in un rapporto tale da ingenerare nel pubblico un rischio di confusione o di associazione.
Bisogna tuttavia considerare che l‟estensione merceologica della tutela, ossia la misura della affinità tra prodotti e servizi, dovrà comunque tenere conto della forza del marchio al momento della violazione e della sua notorietà, nel senso che tanto più il marchio è noto tanto più dovrà ampliarsi il concetto di affinità così da estenderne la tutela sotto un profilo merceologico.
Si pensi al marchio patronimico, considerato marchio forte al quale deve essere offerta una particolare tutela. Si ritiene che sussista il rischio di confondibilità anche laddove al marchio patronimico venga apposto qualsiasi altro segno, poiché
il consumatore medio, cogliendo per primo il cuore del marchio più famoso, non darà peso all‟ulteriore segno, in tal modo non rilevando la diversità dei rispettivi prodotti e delle rispettive imprese.
Al riguardo, significativa è la sentenza resa dalla Corte di Cassazione nel caso Valentino83. Il noto stilista di alta moda richiedeva che fosse accertato il rischio di confondibilità secondo l‟art. 20.1 lett. b) c.p.i. tra i propri prodotti e quelli della società Florence Fashions Jersey Limited. Tale azienda utilizzava per contrassegnare i propri capi di abbigliamento il marchio “Xxxxxxxx Xxxxxxxxx”. Esso è stato ritenuto dalla Corte idoneo a generare tra il pubblico il rischio di confusione perché lasciava presumere che entrambi i segni distintivi facessero capo alla stessa impresa nell‟ambito della moda o che fossero comunque ad essa collegata. Questo pericolo è stato accertato in base all‟importanza che nel corso degli anni il cognome dello stilista aveva raggiunto: si è detto che questo determinava un risalto talmente evidente tale da “da oscurare la presenza del nome Xxxxxxxx”.
In definitiva, da tutte queste considerazioni emerge che il giudizio di confondibilità debba essere svolto in via globale, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti, ovvero il carattere distintivo e la notorietà del marchio utilizzato, la somiglianza tra i marchi e l‟affinità tra i prodotti, il pubblico di riferimento, e la connessione fra questi fattori.
4. La tutela ultramerceologica per i marchi che godono di rinomanza.
La tutela del marchio che gode di rinomanza è oggi contenuta nell‟art. 20 comma 1 lett. c) c.p.i. per quanto riguarda il marchio nazionale e nell‟art. 9 comma 1 lett.
c) del Regolamento 207/09 per il marchio comunitario.
La previsione della tutela del marchio che gode di rinomanza è frutto della riforma del '92 avvenuta per dare attuazione alla Direttiva 89/104/CEE (oggi Direttiva 08/95/CE).
83 Cass., 10 ottobre 2008, n. 24909, in GADI, 2009, pagg. 30 ss.
Con l'introduzione di questa disciplina nel nostro ordinamento sono state apportate modifiche talmente rilevanti al sistema dei marchi da dare vita ad una serie di questioni interpretative attorno alle quali ancora oggi si discute sia in dottrina che in giurisprudenza.
La prima modifica, dalla quale poi sono sostanzialmente derivate tutte le altre, è consistita nel riconoscimento della funzione suggestiva del marchio come altra funzione giuridicamente protetta, oltre a quella distintiva sull'origine dei prodotti. Questo mutamento così radicale relativamente alla funzione del marchio è oggi pacificamente ammesso sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria84.
Dall'espresso riconoscimento del potere evocativo e simbolico del marchio è derivato il superamento del principio di specialità e, quindi, la previsione di una tutela del marchio famoso svincolata dal rischio di confusione sull'origine e dal giudizio di affinità ed operante nelle ipotesi in cui si configurano situazioni di agganciamento parassitario al marchio che gode di rinomanza o di pregiudizio a quest'ultimo.
Il marchio celebre gode, dunque, di una tutela c.d. ultramerceologica, che prescinde dal rischio di confusione e si estende (anche) ai prodotti non affini.
Perché un marchio possa beneficiare di questa tutela allargata è necessaria la sussistenza di una serie di presupposti, alcuni dei quali sono previsti
84 In dottrina si richiama nuovamente su tutti XXXXX, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, cit., che, alle pagg. 150-151, afferma: “Nel sistema della nuova legge il marchio viene dunque in considerazione non più (soltanto) nella sua funzione di indicatore di provenienza, ma in quella (eventualmente comprensiva della prima) di strumento di comunicazione, di «messaggero»: ossia viene in considerazione non solo per l'informazione che esso fornisce al pubblico sulla provenienza dei prodotti o servizi contrassegnati […], ma per tutte le componenti, informative o suggestive, del messaggio di cui il marchio è portatore che come tale ricollega ai prodotti o servizi per i quali viene usato.”.
Tra le tante sentenze nazionali, successive alla riforma del '92, nelle quali si ammette che la funzione suggestiva è una delle funzioni del marchio, unitamente a quella distintiva di indicazione di provenienza si possono ricordare le sentenze del Trib. Roma, 3 marzo 2006, in GADI, 5005/4 (caso Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx); Trib. Milano, 10 giugno 2010, in GADI, 5647/1 (caso Puma); Trib. Milano, 1° dicembre 2010, in GADI, 5587/4 (caso Panerai); Trib. Roma, 22 dicembre 2010, in GADI, 5669/4 (caso Pitti Immagine); Trib. Milano, 14 febbraio 2011, in GADI, 5690/1 (caso Max Mara).
Quanto alla giurisprudenza comunitaria si rinvia alle seguenti decisioni: Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 aprile 2008, C-102/07 (Caso Adidas); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2009, C-487/07 (caso L'Oréal); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 luglio 2009, cause riunite da C-202/08 a 208/08 (caso American Clothing); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 luglio 2011, C-324/09 (caso L'Oréal/Ebay); Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 aprile 2013, C-12/12 (caso Levi's).
espressamente dalle norme, mentre altri sono stati elaborati dalla giurisprudenza, soprattutto comunitaria, in materia.
L‟art. 20 comma 1 lett. c) prevede che il titolare possa vietare a terzi di utilizzare un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l‟uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.
Pertanto i requisiti, per i quali l'onere della prova incombe sul titolare del marchio che invoca la tutela ultramerceologica, sono in primo luogo la rinomanza (la cui sussistenza deve essere valutata sia con riferimento al pubblico interessato sia a livello territoriale) e poi l'appropriazione da parte del terzo che possa determinare alternativamente o un indebito vantaggio per l‟usurpatore o un pregiudizio per il titolare del marchio.
Il “giusto motivo” è invece l'esimente che può essere invocata dal presunto contraffattore per escludere la violazione.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra poi avere aggiunto un altro requisito a quelli desunti dalle norme sopra richiamate, ovvero il c.d. “nesso”, sul cui ruolo nella configurazione della fattispecie illecita si discute tuttora.
Ciò premesso si procederà ad esaminare i predetti requisiti al fine di stabilire l‟ampiezza ed i limiti della tutela del marchio rinomato alla luce della giurisprudenza che si è andata formandosi a livello nazionale ed europeo nel settore della moda.
5. Il concetto di “rinomanza”.
Il primo requisito che il marchio deve possedere perché il suo titolare possa invocare la tutela extramerceologica è la “rinomanza”.
Perché si possa avere rinomanza occorre che il marchio sia stato utilizzato, altrimenti non potrebbe essere noto al consumatore.
L‟estensione della sfera di rilevanza del marchio al di là del principio di specialità
presuppone, dunque, una fattispecie complessa composta dai seguenti elementi: registrazione, uso ed acquisto di una certa rinomanza distinta dalla ordinaria fattispecie costitutiva del diritto sul marchio, consistente nella sola registrazione85. Tuttavia né la Direttiva 08/95/CE né le norme nazionali contengono una definizione rispettivamente di “marchio che gode di notorietà” e di “marchio che gode di rinomanza”, che quindi è stata ricercata altrove.
Subito dopo la riforma del '92, in dottrina, si assistette ad un forte dibattito relativamente a cosa rientrasse nella espressione “marchio che gode di rinomanza” scelta dal legislatore nazionale (ed ancora prima in quella di “marchio che gode di notorietà” adottata in sede comunitaria).
La principale ragione che indusse il legislatore ad adottare questa particolare espressione, anziché quella di “marchio che gode di notorietà” derivante dalla traduzione italiana del testo della Direttiva, fu quella di evitare confusione con i marchi preusati previsti dall'art. 17 della vecchia legge marchi (oggi art. 12 c.p.i.). Allo stesso tempo l'espressione “marchio celebre” fu evitata dal legislatore italiano per scongiurare interpretazioni troppo rigorose della normativa ai fini della tutela ultramerceologica.
Ma a prescindere dalle ragioni alla base della scelta terminologica operata dal legislatore, ciò di cui si discuteva era sostanzialmente il contenuto di questa espressione. Accanto ad autori che ritenevano che la nozione coincidesse con quella di marchio celebre, dandone dunque una interpretazione restrittiva86, ve ne erano altri che propendevano per un nozione ampia, che andava ad abbracciare sia i marchi celebri sia i marchi semplicemente noti, magari in ambiti limitati territorialmente o specialistici87.
Per questi giuristi risultava difficile asserire che i marchi che godono di rinomanza costituissero una categoria chiusa e dai confini ben stabiliti. Ed ancora più difficile era sostenere che si potesse individuare una soglia percentuale (ad es.: marchio conosciuto dal 70% della popolazione) cui ricollegare la qualifica di
85 SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, 1994, cit., pagg. 65 ss.
86 FLORIDIA, La nuova legge marchi, in Corr. Giur., 1993, pagg. 269-270.
87 BASTIAN, Il marchio celebre nel diritto europeo dei marchi e nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea, in AA. VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxx, cit., Tomo I, pag. 122; XXXXX, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, cit., pagg. 211-212; VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 262.
marchio celebre. Al contrario, bisognava qualificare questa come una categoria aperta, i cui confini oscillano tra un massimo ed un minimo di rinomanza.
Al polo estremo dello spettro si trovano quelli che la giurisprudenza in passato definiva come marchi celebri: tali sono quei segni noti a pressoché tutta la popolazione, ivi compresi quei soggetti che mai abbiano consumato o usato il bene contraddistinto da quel segno.
Ma l'indebito vantaggio o pregiudizio si possono verificare anche in relazione a marchi che non abbiano raggiunto lo stesso tasso di notorietà: all'estremo inferiore dello spettro vi possono essere, quindi, marchi largamente accreditati solo presso alcuni segmenti della popolazione.
Dunque, la dottrina favorevole all'interpretazione ampia della espressione “marchio che gode di rinomanza” sosteneva che gli elementi costitutivi della fattispecie, e dunque della tutela ultramerceologica, fossero in realtà l'indebito vantaggio ed il pregiudizio, e che, se ne sussisteva (almeno) uno, il marchio doveva ritenersi rinomato. Questa impostazione non solo consentiva di applicare la tutela allargata anche a marchi semplicemente noti, magari in un ambito specifico, ma faceva venire meno la necessità di graduare di volta in volta la celebrità.
Si osservava che un'interpretazione sistematica delle norme che disciplinano i segni distintivi imponeva che ogni volta che si determinasse un approfittamento o un pregiudizio il marchio doveva ritenersi rinomato, essendo la rinomanza “l'attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull'origine”88.
Questa soluzione è sempre stata quella prevalente in dottrina ed ha trovato riscontro ed accoglimento nella giurisprudenza comunitaria ed in particolare nella notissima sentenza General Motors89, con la quale la Corte di Giustizia ha fornito
88 XXXXX, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, cit., pag. 212.
89 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97. La controversia oggetto del giudizio vedeva contrapposta la General Motors Corporation, titolare del marchio “Chevy” per autoveicoli del tipo van, alla società belga Yplon in merito all'uso da parte di quest'ultima di un marchio identico per contraddistinguere detersivi e prodotti di pulizia.
È interessante notare che, prima di arrivare a definire il grado di conoscenza necessario ai fini della tutela nei confronti di prodotti o servizi non simili (punto 26 della decisione), la Corte ha svolto una serie di considerazioni relativamente alla traduzione nelle diverse lingue europee dell'espressione “gode di notorietà”, rilevando come nella versione tedesca, olandese e svedese sia stato utilizzato un termine che indica che il marchio deve essere “conosciuto”, senza precisare
per la prima volta una definizione di “marchio che gode di notorietà” (rectius di “marchio che gode di rinomanza”).
La Corte di Giustizia, nell'interpretare l'art. 5.2 della Direttiva 89/104/CEE, ha affermato che affinché un marchio possa beneficiare di una tutela estesa a prodotti
o servizi non affini “deve essere conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”, senza che sia necessario che il marchio “sia riconosciuto da una percentuale del pubblico così definito”.
La giurisprudenza nazionale ha generalmente accolto la definizione ampia di marchio che gode di rinomanza data dalla Corte di Giustizia.
Ciò non significa che determinare in concreto quando un marchio sia rinomato secondo la nozione datane dalla Corte europea sia agevole.
Nella decisione sono indicati una serie di parametri che il giudice nazionale deve prendere in considerazione per stabilire se un marchio si possa ritenere conosciuto secondo la definizione offerta dalla stessa Corte, quali, in particolare, “la quota di mercato coperta dal marchio, l'intensità, l'ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall'impresa per promuoverlo”.
Come si è detto, la Corte ha chiarito che l'art. 5.2 della Direttiva non richiede che il marchio raggiunga una percentuale predeterminata di conoscenza presso il pubblico di riferimento per essere ritenuto rinomato.
Ciò non significa che non possa essere comunque utile, né la Corte lo esclude, provare quanto un marchio sia noto al pubblico ricorrendo ad indagini statistiche sull‟opinione pubblica, che sono uno strumento utilizzato spesso nella prassi per questi fini.
Si richiama in particolare un caso inedito deciso dal Tribunale di Milano90, nel quale le risultanze di una indagine demoscopica sul marchio “10 Corso Como” furono utilizzate ai fini della decisione della controversia. In questo caso fu esclusa la rinomanza del marchio “10 Corso Como” di titolarità della Xxxxx
l'estensione della conoscenza richiesta, mentre le altre versioni linguistiche hanno utilizzato il termine “notorio” o espressioni che implicano comunque, sul piano quantitativo, un certo grado di conoscenza fra il pubblico.
La Corte ha concluso il ragionamento affermando la necessità “di una soglia di conoscenza che, nell'ambito di una interpretazione uniforme del diritto comunitario, discende da una comparazione fra tutte le versioni linguistiche della Direttiva”.
90 Trib. Milano, 18 luglio 2008, n. 9578.
Sozzani Editore S.r.l., utilizzato per contraddistinguere varie tipologie di prodotti (abbigliamento, profumi, cosmetici, scarpe, ecc.) venduti nell'omonimo concept store sito in Milano, in quanto su 1000 soggetti intervistati su tutto il territorio nazionale il predetto marchio risultò essere conosciuto solo da una percentuale compresa tra lo 0,7 e il 2,1% degli italiani. Il Tribunale evidenziò che “celebrità, rinomanza e notorietà sono connotati che ricorrono in un marchio solo ove questo sia conosciuto da una percentuale altissima di consumatori, tanto da costituire un elemento di richiamo per gli stessi o rappresenti un’attrattiva, o resti fissato nella coscienza sociale attraverso l’uso e la pubblicità tanto da assumere valore simbolico”.
Conseguentemente, le domande di nullità e di contraffazione rivolte nei confronti di due agenti immobiliari, che avevano registrato un identico marchio per contraddistinguere la propria attività di intermediazione immobiliare sita in Como, furono respinte.
Il fatto che la definizione provenga dalla Corte di Giustizia non significa né che non vi siano state decisioni discordanti con questa interpretazione o comunque in contrasto con l'opinione prevalente secondo cui al concetto di marchio che gode di rinomanza sono riconducibili sia i marchi celebri che quelli semplicemente noti, né che non siano state mosse critiche nei suoi confronti da parte della dottrina91.
Così il Tribunale di Napoli92 ha rigettato il ricorso presentato dalla società Freddy per contraffazione dell'omonimo marchio utilizzato per contraddistinguere abbigliamento e calzature da danza nei confronti della Giò Style, che aveva lanciato sul mercato un nuovo prodotto da campeggio (un frigorifero portatile) denominato anch'esso “Freddy”, in quanto la società ricorrente non aveva provato che, pur essendo il proprio marchio “di notevole prestigio e di una certa notorietà” nel settore della moda, lo stesso potesse dirsi altrettanto rinomato anche nel settore merceologico in cui operava la resistente.
Secondo il Tribunale, infatti, la nozione di rinomanza era applicabile soltanto a
91 XXXXXXX, «Marchio che gode di notorietà»: una discutibile pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Riv. Dir. Ind., II, 2000, pagg. 255 ss.; ID., Marchio che gode di
«rinomanza»: brevi osservazioni alla luce della recente giurisprudenza comunitaria e nazionale, in AA. VV., Xxxxx e forme distintive. La nuova disciplina, Xxxxxxx, Milano, 2001, pag. 309, ove definisce la sentenza General Motors "deludente" o "farisaica".
92 Trib. Napoli, 30 marzo 2006, in GADI, 5014/1.
quei marchi che avevano acquisito la notorietà “presso una larga parte dei consumatori, anche non interessati ai prodotti contrassegnati con il marchio rinomato”.
A differenza dell‟interpretazione restrittiva di marchio celebre accolta nel nostro ordinamento anteriormente alla riforma del „92, la lettura della nozione di rinomanza che dà la Corte è dunque ampia. Comprende sia marchi molto famosi che marchi semplicemente noti anche in un solo settore.
6. Ambito merceologico della tutela e pubblico di riferimento.
Per quanto riguarda l'ambito merceologico della tutela, la nozione di marchio che gode di rinomanza fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria influisce sulla determinazione della sua estensione.
Come si è affermato precedentemente, possono beneficiare della tutela ampliata sia i marchi celebri o di alta rinomanza che i marchi semplicemente noti, qualora l'uso di marchi identici o simili determini un indebito vantaggio per il terzo o un pregiudizio per il titolare.
Il grado e l'intensità della rinomanza influiscono sull'estensione merceologica della tutela del marchio che gode di rinomanza. Più il marchio è noto più la tutela viene estesa ad ambiti merceologicamente sempre meno affini, fino a ricomprendere prodotti molto distanti in caso di marchi particolarmente famosi.
Infatti, la giurisprudenza maggioritaria sostiene che l‟ambito della protezione debba essere proporzionato al livello di notorietà raggiunto dal marchio. L'affinità è graduata fino a coincidere con la vera affinità merceologica in presenza di marchi a bassa notorietà.
Ciò comporta che non corrisponde propriamente al vero l'affermazione secondo la quale la tutela del marchio che gode di rinomanza vada oltre il principio di specialità e prescinda dal giudizio di affinità. Un giudizio di affinità viene comunque compiuto, seppur in termini differenti da quelli antecedenti alla riforma del '92.
Lo scavalcamento del limite del principio di relatività della tutela non è, dunque, integrale perché qualcosa di esso permane nel condizionare la tutela medesima alla sussistenza dell'indebito vantaggio ovvero del pregiudizio. Nel senso che la tutela sarà tanto più ampia fino ad estendersi a prodotti merceologicamente lontanissimi, quanto più il marchio sia celebre, e correlativamente, in caso di notorietà ridotta, la tutela si limiterà a prodotti meno lontani, che sono i soli in relazione ai quali possa in concreto determinarsi il pregiudizio o alternativamente l'indebito vantaggio93.
Infatti, il danno per il titolare o il beneficio per il contraffattore potrà aversi quale che sia la distanza merceologica fra i prodotti quando si tratti di un marchio veramente ad alta rinomanza; nel caso, viceversa, che si tratti di marchi meno noti, tanto più sarà probabile che venga determinato un pregiudizio o procurato un danno quanto più i prodotti sono tra loro vicini.
Bisogna, comunque, prendere atto che parte della giurisprudenza ritiene che il diritto di esclusiva su un marchio famoso determini una protezione illimitata, estesa a qualsiasi genere di prodotti o servizi e dunque svincolata dal criterio della affinità e dal pericolo di confusione94.
Allo stesso tempo, la maggiore o minore affinità tra i prodotti o servizi influisce sulla probabilità di sussistenza dell'indebito vantaggio o del pregiudizio. Più i prodotti o servizi saranno merceologicamente vicini più potranno facilmente ricorrere i requisiti dell'indebito vantaggio o del pregiudizio, che invece potranno essere esclusi per prodotti tra loro molto distanti, nonostante la celebrità del marchio.
Così come affermato dal Tribunale di Bologna nel caso Chanel95 “L'ambito della tutela merceologicamente ampliata offerta ai marchi dotati di rinomanza è delimitato dalla sussistenza alternativa dei presupposti dell'indebito vantaggio o del pregiudizio.”.
Quanto al pubblico di riferimento, la Corte di Giustizia nella sentenza General Motors ha chiarito che “Il pubblico per il quale il marchio d'impresa precedente
93 VANZETTI, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 263.
94 SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, 1994, cit., pagg. 66-67 e 112, dove si parla di sfondamento del principio di specialità.
95 Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in GADI, 5366/2.
deve avere acquisito una notorietà è quello interessato a tale marchio d'impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale.”96.
Pertanto, se i prodotti ed i servizi tutelati dal marchio sono beni di consumo, il pubblico di riferimento sarà il grande pubblico, mentre se i prodotti contraddistinti hanno un‟applicazione molto specifica ovvero sono destinati esclusivamente ad un uso professionale od industriale, il pubblico di riferimento sarà limitato agli specifici acquirenti dei prodotti in questione.
Oltre agli acquirenti effettivi, la nozione di pubblico interessato si estende anche agli acquirenti potenziali dei beni di cui trattasi, nonché a quelle parti di pubblico che vengono solo indirettamente in contatto con il marchio, nei limiti in cui i prodotti si rivolgano anche a questi gruppi di consumatori.
Ciò significa che la soglia per accedere alla tutela extramerceologica è particolarmente bassa, atteso che è sufficiente che il marchio sia conosciuto in uno specifico settore per essere considerato notorio (rectius rinomato) ai sensi dell‟art.
5.2 della Direttiva 89/104/CEE (oggi art. 5.2 della Direttiva 08/95/CE) e dell‟art. 20 c.p.i.
Questa interpretazione è totalmente opposta a quella vigente nel nostro ordinamento anteriormente alla riforma del 1992, quando, limitando la tutela ampliata ai soli marchi celebri, la dottrina prevalente e la giurisprudenza ritenevano che fossero esclusi dalla protezione i marchi monoprodotto o comunque noti in uno specifico settore, con riferimento ai quali era difficilmente ipotizzabile un rischio di confusione.
L'interpretazione del concetto di “pubblico interessato” fornita dalla Corte di Giustizia è stata ribadita anche successivamente sia dalla giurisprudenza comunitaria che da quella nazionale.
Così il Tribunale di primo Grado CE97, nella controversia relativa all‟opposizione ad opera della società El Corte Inglés, titolare del marchio “Xxxxxx Xxxxx” usato per articoli di abbigliamento, calzature ed accessori, alla richiesta di registrazione come marchio comunitario del segno distintivo “Xxxxxx Xxxxx” da parte del noto
96 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97.
97 Trib. I Grado CE, 13 dicembre 2004, T-8/03.
stilista fiorentino, ha affermato che “Secondo una giurisprudenza ormai consolidata costituisce un rischio di confusione la possibilità che il pubblico possa credere che i prodotti o i servizi in questione provengano dalla stessa impresa o eventualmente da imprese economicamente collegate tra loro. Il rischio di confusione deve essere valutato secondo la percezione che il pubblico di riferimento ha dei segni e dei prodotti di cui trattasi.[…]L’acquisto di un carattere distintivo superiore al normale, in ragione della conoscenza di un marchio sul mercato, presuppone necessariamente che tale marchio sia conosciuto almeno da una parte significativa del pubblico interessato.”.
Analoga interpretazione è stata offerta dal Tribunale di Roma nel caso Pollini98, dove si è ribadito che “Il pubblico a cui fare riferimento per accertare la notorietà del marchio rinomato è il pubblico interessato ai prodotti o ai servizi contraddistinti da tale marchio e non quindi il pubblico coincidente con la generalità dei consumatori.”.
In dottrina si è osservato come vi sia un pieno parallelismo tra la conoscenza del marchio da parte di una frazione significativa del pubblico ed i parametri da considerare per stabilire la notorietà del marchio indicati dalla giurisprudenza comunitaria in un giudizio di contraffazione ed il grado di conoscenza ed i fattori indicati sempre a livello europeo per l'acquisto della capacità distintiva attraverso l'uso.
In entrambi i casi, infatti, ciò che rileva è un identico dato sostanziale di conoscenza del marchio da parte dei consumatori: in relazione alla notorietà esso serve a stabilire la soglia a partire dalla quale l‟uso del segno da parte del terzo possa determinare un pregiudizio o un indebito vantaggio; in relazione al carattere distintivo esso consente di verificare se il marchio è divenuto idoneo ad identificare il prodotto contrassegnato come proveniente da un‟impresa determinata.
A ciò si aggiunga che capacità distintiva e rinomanza sono così strettamente connesse, tanto che nella sentenza General Motors si è affermato che “più il
98 Trib. Bologna, 6 febbraio 2009, in GADI, 5404/3, pag. 711. Il Tribunale, una volta accertata la presenza dei requisiti necessari per affermare la notorietà del marchio della società Pollini Retail S.p.a., operante nel settore calzature, pelletteria ed accessori, ha vietato alla convenuta Pollinitrax S.r.l., operante nel settore automobilistico, di usare il dominio xxx.xxxxxxx.xx.
carattere distintivo e la notorietà … saranno rilevanti, più sarà facilmente ammessa l'esistenza di un pregiudizio”99.
7. Il caso Xxxxxxxx e l’estensione della tutela a prodotti o servizi identici o affini.
Il problema dell'estensione merceologica del marchio che gode di rinomanza deve essere esaminato anche sotto un diverso profilo.
L'art. 20.1 lett. c) prevede che la tutela allargata si estenda “anche ai prodotti non affini”.
Ciò significa che oggi la tutela prevista per i marchi rinomati, ricorrendo gli altri presupposti previsti dalla norma, si applica, nonostante non vi sia un pericolo di confusione, sia nei casi di prodotti o servizi identici o affini sia nei casi di prodotti o servizi non affini.
Anteriormente all'emanazione del Codice della Proprietà Industriale l'applicazione della normativa sui marchi che godono di rinomanza ai prodotti o servizi affini non era pacificamente ammessa in quanto non era normativamente prevista. Né l‟art. 5.2 della Direttiva 89/104/CEE (oggi Direttiva 08/95/CE) né l‟art. 9.1 lett. c) del Regolamento 40/94 sul marchio comunitario (oggi Regolamento 207/09), né la legge marchi riformata all‟art. 17.1 lett. g) contengono infatti la parola “anche”, che è stata aggiunta solo nel 2005 con l'emanazione del Codice della Proprietà Industriale per aderire ad un (discusso) orientamento della giurisprudenza comunitaria.
Come giustamente osservato da Xxxxx, il problema non tanto si poneva in caso di uso di segno identico utilizzato dall‟imitatore per prodotti o servizi identici, poiché in questo caso avrebbe trovato applicazione l‟art. 1.1 lett. a) l.m. che prescinde da qualsiasi rischio di confusione. Le ipotesi problematiche erano quelle
99 Di parallelismo tra i criteri dettati per determinare, da un lato, il grado di capacità distintiva di un segno e, dall'altro, se il suo grado di conoscenza sia tale da consentirgli di beneficiare della tutela accordata ai marchi che godono di rinomanza parla anche XXXXXXX, La capacità distintiva come concetto dinamico, in Dir. Ind., 2007, n. 1, pagg. 22-23.
in cui i marchi erano simili ed i prodotti erano identici o affini e quelle in cui i marchi erano identici ma i prodotti erano soltanto affini100.
Fin dall'emanazione della Direttiva 89/104/CEE e la sua attuazione in Italia con il D.lgs. 480/92, la dottrina maggioritaria ha comunque sempre sostenuto l'applicabilità della tutela anche alle ipotesi in cui i prodotti o i servizi contraddistinti dal segno contraffattorio siano identici o affini a quelli del titolare del marchio rinomato101.
Non sono mancate, tuttavia, decisioni nelle quali fu privilegiata una interpretazione letterale e restrittiva delle norme e fu esclusa l'applicazione della tutela allargata prevista per i marchi rinomati nei casi di uso di marchi identici o simili per prodotti identici o affini, richiedendo dunque la sussistenza di un rischio di confusione tra i prodotti o i servizi nel caso in cui i marchi di rinomanza fossero apposti su prodotti tra loro identici o affini.
Uno dei casi più eclatanti nel quale fu espressamente negata l'applicazione della disciplina dei marchi che godono di rinomanza, perché l'ambito merceologico era il medesimo, ha riguardato il famoso marchio costituito dal coccodrillo Lacoste102, la cui raffigurazione “ironica e giocosa” era stata utilizzata da un terzo per prodotti identici a quelli per cui il marchio “Lacoste” era registrato.
Il Tribunale di Milano non ha ravvisato alcuna somiglianza tra i segni né alcun rischio di confusione e di associazione per il pubblico dal momento che il celebre marchio francese consisteva nella raffigurazione dell‟animale in maniera naturalistica e senza elementi di fantasia, mentre l‟altro segno si componeva delle parole “Croco Kids” e della rappresentazione fumettistica di un coccodrillo, in posizione eretta, con le zampe incrociate e vestito come un bambino con maglietta a righe e calzoncini corti.
I giudici hanno poi negato che nel caso di specie potesse trovare applicazione l'art.
1.1 lett. c) l.m. in quanto “tale previsione deve ritenersi rivolta alla speciale tutela
100 XXXXX, La protezione del marchio oltre il limite del pericolo di confusione, in AA. VV., Xxxxx e forme distintive. La nuova disciplina, cit., pag. 31.
101 RONCAGLIA, Nozione di confondibilità e tutela della funzione suggestiva del marchio, in AA.VV., Segni e forme distintive. La nuova disciplina, cit., pagg. 376-377, secondo il quale “sarebbe assurdo che il sistema dei marchi, riformato proprio per concedere tutela alla funzione evocativa svolta dai marchi che godono di rinomanza, finisse poi per lasciarli senza protezione nei confronti delle attività parassitarie che, per avere ad oggetto i medesimi prodotti o servizi, sono nella pratica le più frequenti e dannose”.
102 Trib. Milano, 12 luglio 1999, in GADI, 4017/4.
del marchio di rinomanza al di là del principio di relatività … nel caso di specie non ravvisabile per l'identità dei settori merceologici di riferimento dei marchi in questione. […] La disciplina relativa alla speciale tutela del marchio di rinomanza al di là del principio di specialità vigente per gli altri marchi non è applicabile quando i marchi in conflitto si collocano in un identico settore merceologico.”.
Una siffatta interpretazione portava inevitabilmente a creare disparità di trattamento tra situazioni in cui era ugualmente evidente l'approfittamento parassitario dell'altrui marchio.
La Corte di Giustizia nella sentenza General Motors103 aveva lasciato aperta la questione se la protezione dei marchi rinomati oltre il pericolo di confusione potesse operare esclusivamente nel caso in cui l'uso del segno altrui avveniva in relazione a prodotti o servizi non affini a quelli contraddistinti dal marchio imitato, o se invece questa protezione potesse venire invocata in tutte le ipotesi in cui si verificavano comunque l'indebito vantaggio o il pregiudizio previsti dalla norma, anche se il marchio dell'imitatore era usato per prodotti o servizi identici o affini.
A favore di un superamento del dato testuale si era in realtà già espressa la Corte di Giustizia in una massima contenuta nelle precedente sentenza resa nella causa Sabel vs Puma104, laddove parlando delle norme a tutela dei marchi che godono di notorietà, aveva affermato che queste consentono al titolare “di inibire l'uso senza giusti motivi di contrassegni identici o simili al proprio marchio, senza necessità che risulti accertato un rischio di confusione, anche quando i prodotti di cui trattasi non siano simili”.
La Corte, dunque, utilizzando l‟espressione “anche”105 aveva evidenziato come ai marchi notori doveva essere offerta protezione allorché i prodotti fossero affini, senza compiere alcun giudizio sulla confondibilità.
D‟altronde non avrebbe avuto senso che il marchio rinomato fosse protetto solo nei confronti dei generi merceologici più distanti e non verso quelli più prossimi
103 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97.
104 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 1997, C-251/95. Vedi nota 68.
105 Il testo inglese della sentenza era ancora più forte perché usava l'espressione “even (persino)
where there is no similarity between the goods in question”.
al bene contrassegnato, generando una vera e propria contraddizione in termini.
Il problema fu sollevato nelle sue conclusioni dall'Avvocato generale Xxxxxx nel caso Adidas I106, che sottolineò come la questione era rimandata a quando un Tribunale nazionale avesse riferito espressamente alla Corte di Giustizia sul problema dell'ambito di applicazione dell'art. 5.2 della Direttiva. L‟Avvocato generale aveva affermato che “Il problema se l'art. 5.2 debba ritenersi applicabile, come stabilisce la sua formulazione letterale, esclusivamente quando i prodotti in questione sono dissimili, o se debba essere interpretato più estensivamente, è una questione che ha suscitato, e continua a suscitare, notevole interesse accademico. È certamente una questione che dovrà trovare al momento opportuno una risposta da parte della Corte.”.
La Corte si era rifiutata di esprimersi sul punto in quanto non vi era stata una rimessione espressa della questione, che era stata sollevata soltanto da una delle parti private (la Adidas).
È stato solo con la sentenza Xxxxxxxx000 che la Corte di Giustizia ha preso per la prima volta chiaramente posizione circa l'applicabilità della disciplina del marchio che gode di rinomanza anche quando i prodotti siano identici o affini.
Nel caso di specie, la Davidoff, azienda svizzera titolare del marchio rinomato “Davidoff” per sigari, sigarette, pipe, cosmetici da uomo, cravatte, montature per occhiali e pelletteria, si era opposta alla registrazione ed all'uso in Germania da parte della società Xxxxxx del marchio “Durffee”, simile graficamente e per beni identici e simili ovvero articoli di lusso (portacenere, oggettistica in metalli preziosi, articoli di gioielleria ed orologi). La Corte Suprema tedesca aveva chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione se, pur essendo il marchio “Davidoff” marchio che gode di rinomanza, trattandosi di prodotti identici, il conflitto tra i segni dovesse essere valutato in base alle regole ordinarie, e dunque accertando la sussistenza del rischio di confusione, o se invece fossero applicabili i criteri dell'indebito vantaggio o del pregiudizio.
106 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2000, C-425/98 (caso Adidas AG e Adidas Benelux vs Marca Mode). La controversia era insorta perché la Marca Mode aveva messo in vendita nel proprio stabilimento di Breda (Paesi Bassi) una collezione di indumenti sportivi alcuni dei quali recavano sui lati, in tutta la loro lunghezza, due strisce parallele, nonché una polo con tre strisce nere parallele collocate nella parte anteriore. La società Adidas aveva convenuto in giudizio la Marca Mode affermando la violazione del suo noto marchio figurativo a tre strisce.
107 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 0 gennaio 2003, C-292/00.
I giudici comunitari hanno precisato che l'art. 5.2 della Direttiva, nonostante si riferisca espressamente soltanto all‟uso di un segno per prodotti o servizi non simili, “non deve essere interpretato esclusivamente alla luce del suo testo, ma anche in considerazione dell'economia generale e degli obbiettivi del sistema del quale fa parte”. Pertanto, “non si può dare del detto articolo un'interpretazione la quale comporti una tutela dei marchi notori minore in caso di uso di un segno per prodotti o servizi identici o simili rispetto al caso di uso di un segno per prodotti o servizi non simili”.
La Corte ha poi sottolineato di non essere stata interpellata in merito alla questione se il marchio che gode di notorietà debba godere della stessa tutela allargata prevista in caso di uso per prodotti o servizi non simili anche quando si tratti di prodotti o servizi identici o affini, ma solo sulla questione se un marchio notorio possa essere tutelato contro l'uso per prodotti identici o simili in base all'art. 5.1 della Direttiva oppure se la tutela debba essere ricercata nell'art. 5.2.
Dato atto di essersi già espressa nel caso Sabel vs Puma in senso contrario ad una interpretazione della nozione di rischio di confusione tale da farvi rientrare un qualsiasi rischio di associazione, ha proseguito nel proprio ragionamento statuendo che il titolare di un marchio rinomato non può avvalersi dell'art. 5.1 lett.
b) della Direttiva per tutelarsi in caso di uso del marchio rinomato da parte del terzo per prodotti o servizi simili senza che vi sia un pericolo di confusione.
La Corte è quindi arrivata alla conclusione che l‟art. 5.2 della Direttiva deve essere interpretato nel senso di autorizzare gli Stati membri a prevedere “una tutela specifica a favore di un marchio registrato che gode di notorietà quando il marchio o il segno successivo, identico o simile a tale marchio registrato, è destinato ad essere usato o è usato per prodotti o servizi identici o simili a quelli da esso contraddistinti”. La Corte ha, pertanto, chiarito che la tutela dei marchi rinomati possa aver luogo ai sensi dell‟art. 5.2 anche nel caso in cui essi vengano utilizzati per prodotti o servizi simili ed in circostanze tali da escludere un pericolo di confusione.
La posizione assunta dalla Corte di Giustizia sul tema della protezione dei marchi notori nei confronti del loro uso per merci identiche o affini ha raggiunto successivamente il suo completamento con la sentenza Adidas Xxxxxxx e Adidas
Benelux vs Fitnessworld108.
La controversia riguardava la commercializzazione nei Paesi Bassi di indumenti sportivi da parte della società inglese Fitnessworld recanti un motivo a due strisce parallele interferente con il celebre marchio costituito da un motivo a tre strisce parallele di titolarità della Adidas.
In questo caso la Corte Suprema dei Paesi Bassi aveva sottoposto alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale riguardante espressamente l'applicabilità dell'art. 5.2 della Direttiva anche al caso di uso di marchio identico o simile a quello notorio per prodotti o servizi identici o simili.
La Corte ha statuito che: “Uno Stato membro, laddove eserciti l'opzione offerta dall'art. 5, n. 2, della prima Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, ha l'obbligo di accordare la tutela specifica di cui trattasi in caso di uso da parte di un terzo di un marchio d'impresa o di un segno successivo, identico o simile al marchio notorio registrato, sia per prodotti o servizi non simili, sia per prodotti o servizi identici o simili a quelli contraddistinti da quest'ultimo.”.
Con i principi enunciati in questa massima la Corte ha chiarito che gli Stati membri sono liberi di esercitare o meno l'opzione prevista dall‟art. 5.2 della Direttiva per istituire una protezione speciale dei marchi celebri che prescinda dal rischio di confusione e che si fondi esclusivamente sui requisiti dell‟indebito vantaggio o del pregiudizio, ma che una volta esercitata sono obbligati a riferirla sia ai prodotti o servizi non affini che a quelli identici o affini.
La giurisprudenza nazionale ha sostanzialmente aderito a questa tesi, anche anteriormente al suo inserimento nel Codice della Proprietà Industriale, quando la legge marchi all'art. 1.1 lett. c) faceva espresso riferimento solo a “prodotti o servizi non affini”109.
108 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 ottobre 2003, C-408/01 (caso Xxxxxx XX).
109 Trib. Roma, 9 gennaio 2004, in GADI, 4702/1 (caso Adidas); Trib. Firenze, 29 giugno 2004, in GADI, 4755/1 (caso Xxxxx Xxxxxxx). Successivamente all'entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale, Trib. Milano, 16 gennaio 2007, in GADI, 5129/1 (caso L'Oréal); Trib. Torino, 26 novembre 2007, in GADI, 5253/7 (caso Xxxxx Xxxxxxx); Trib. Firenze, 27 novembre 2007, in GADI, 5254/2 (caso Xxxxx Xxxxxxx); Trib. Milano, 1° dicembre 2010, in GADI, 5587/4 (caso Panerai).
Si è altresì affermato che la definizione ampia dei marchi che godono di rinomanza data dalla giurisprudenza comunitaria, comprensiva sia dei marchi celebri sia dei marchi semplicemente noti, consente di superare la questione inerente il significato da attribuire alla nozione di “rischio di associazione” di cui all'art. 20 comma 1 lett. b) c.p.i. ed, in particolare, la sua estensione oltre il rischio di confusione, rendendo la disciplina applicabile a tutti i casi di associazione non confusoria da cui deriva un agganciamento parassitario all'altrui marchio o un pregiudizio per quest'ultimo.
Il bisogno di una tutela ulteriore che vada oltre il semplice rischio di confusione si può, infatti, configurare solo per i marchi che hanno una particolare forza attrattiva della quale possono beneficiare il prodotto o il servizio contrassegnati dal marchio identico o simile, anche in ipotesi in cui i consumatori non si confondono, cioè non attribuiscono tale prodotto o servizio alla stessa impresa titolare del marchio originale o ad una fonte ad essa collegata.
8. Ambito territoriale nazionale.
Perché il marchio venga considerato rinomato e dunque sia tutelato, ricorrendo gli altri presupposti previsti dalla legge, in caso di uso per prodotti o servizi (anche) non affini, la rinomanza deve sussistere anche dal punto di vista territoriale.
L‟art. 5.2 della Direttiva prevede che il marchio deve godere di notorietà “nello Stato membro”, mentre l‟art. 20.1 lett. c) c.p.i. parla di marchio che deve godere di rinomanza “nello Stato”.
La Corte di Giustizia, nella sentenza General Motors110, ha precisato che a livello territoriale il requisito della notorietà (rectius rinomanza) è soddisfatto se il marchio gode di notorietà “in una parte sostanziale” dello Stato membro, non essendo necessario che la notorietà esista su tutto il territorio dello Stato membro (punto 28 della decisione).
Nel caso esaminato dalla Corte sia il marchio “Chevy”, di titolarità della General
110 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97.
Motors, che l'omonimo marchio della Yplon erano stati registrati presso l'ufficio brevetti e marchi del Benelux ed erano utilizzati in Belgio.
Il giudice belga che aveva adito la Corte di Giustizia aveva sottoposto alla Corte anche la questione se il presupposto della notorietà dovesse sussistere con riferimento all'intero territorio del Benelux oppure se potesse essere circoscritto anche solo ad una sua parte.
La Corte, dopo avere chiarito che il territorio del Benelux può essere assimilato al territorio di uno Stato membro, applicando il principio affermato al precedente punto 28 della decisione, ha concluso il proprio ragionamento sul punto, affermando che un marchio registrato in Benelux può essere considerato notorio ai sensi dell'art. 5.2 della Direttiva se la notorietà sussiste in una parte sostanziale del territorio del Benelux, che può corrispondere anche ad una parte di uno degli Stati del Benelux.
L'interpretazione del requisito dell'estensione territoriale della rinomanza fornita dalla Corte di Giustizia in questa decisione, pacificamente accolta anche dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale successiva, contribuisce a rafforzare la nozione ampia di marchio che gode di rinomanza data dalla stessa. Per ritenere soddisfatto il requisito della rinomanza sotto il profilo territoriale non sarà, infatti, necessario che la notorietà sia stata acquisita su tutto il territorio dello Stato.
In assenza di una definizione più dettagliata, nel valutare se la parte del territorio di cui trattasi sia una “parte sostanziale”, si dovrà tenere conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata sia della quota di popolazione complessiva che vi abita, poiché entrambi questi criteri possono influire sulla rilevanza complessiva di un determinato territorio.
9. Ambito territoriale comunitario: il concetto di “parte sostanziale del territorio della Comunità”.
Rispetto al marchio nazionale la valutazione della rinomanza comporta sotto il profilo territoriale delle problematiche diverse ed ulteriori quando si tratta di
marchio comunitario, in parte dovute alla sua caratteristica di titolo efficace sull'intero territorio della Comunità111.
Infatti, in base al principio della territorialità, i marchi nazionali sono protetti entro i confini nazionali. Poiché, invece, il marchio comunitario è protetto unitariamente all‟interno di tutta l‟Unione Europea, il principio della territorialità va riferito appunto a questo spazio come unico territorio sovranazionale.
L'art. 8 del Regolamento 207/09 sul marchio comunitario, che disciplina gli impedimenti relativi alla registrazione, al n. 5 precisa che il marchio anteriore, se nazionale, deve godere di notorietà “nello Stato membro” in cui è registrato e, se comunitario, deve godere di notorietà “nella Comunità”. L'art. 9.1 lett. c) del Regolamento 207/09 prevede che affinché la tutela possa estendersi anche ai prodotti o servizi non affini, il marchio comunitario deve godere di notorietà “nella Comunità”.
In dottrina ci si è chiesti fino a che punto si dovesse estendere la notorietà del marchio rispetto alla Comunità, considerato che il numero dei marchi che godono di notorietà nell'intero territorio della Comunità o comunque in più Stati membri sono pochi.
Nei primi progetti del Regolamento sul marchio comunitario la disposizione utilizzava l‟espressione “celebrità nell’intera Comunità”, poi espunta e modificata, a seguito delle proteste degli Stati membri, in “notorietà nella Comunità”. I redattori della norma si erano, infatti, avveduti che se non avessero ridotto il requisito di tipo geografico dalla celebrità alla notorietà, le imprese avrebbero preferito la registrazione nazionale anziché quella comunitaria.
La sentenza General Motors112 ha, come si è visto, affermato, seppur relativamente ai marchi nazionali, che sul piano territoriale è sufficiente che la notorietà sussista “in una parte sostanziale” del territorio di uno Stato membro.
Con riferimento al marchio comunitario, la questione su quando una parte della Comunità si può ritenere “sostanziale” ai fini dell'accertamento della notorietà è rimasta aperta a lungo.
111 Art. 1.2 del Regolamento 207/09 sul marchio comunitario che recita: “Il marchio comunitario ha carattere unitario. Esso produce gli stessi effetti in tutta la Comunità: può essere registrato, trasferito, formare oggetto di rinuncia, di decisione di decadenza dei diritti del titolare o di nullità e il suo uso può essere vietato soltanto per l'intera Comunità.”.
112 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97.
La Corte di Giustizia si è espressa sul problema dell‟estensione geografica trasponendo per analogia i principi enunciati dalla sentenza General Motors con riferimento al marchio nazionale ed ha affermato che per poter godere della protezione dei marchi che godono di notorietà un marchio comunitario deve “essere conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l'intero territorio di uno Stato membro può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”.
I principi espressi dalla Corte sono stati in più occasioni richiamati dalla giurisprudenza comunitaria ed anche dall‟Ufficio per l‟Armonizzazione del Mercato Interno (UAMI), presso il quale vanno depositate le domande di marchio comunitario.
A questo proposito merita ricordare la decisione della Divisione di Opposizione dell‟Ufficio113 in ordine alla contestazione da parte della società fiorentina Il Ponte Pelletteria S.p.a., titolare del noto marchio “The Bridge” ed impegnata nella produzione di borse ed accessori in cuoio, alla richiesta di registrazione del marchio “Messina Bridge” per analoghi prodotti da parte di un‟azienda romana. La notorietà in Italia del marchio “The Bridge” è stata ritenuta sufficiente, sotto il profilo geografico, per beneficiare della tutela del marchio che gode di rinomanza e, dunque, per accogliere l‟opposizione in ragione sia del rischio di confusione che si sarebbe potuto generare presso il pubblico sia dell‟indebito vantaggio derivante dallo sfruttamento del prestigio e del potere di attrazione che il marchio fiorentino aveva acquisito in Europa e soprattutto in Italia.
Si è detto che “La prova della rinomanza può essere data con riferimento a qualsiasi parte sostanziale dell’Unione […] e quindi non necessariamente con riferimento a tutti i Paesi dell’Unione.”.
Si tratta di un‟interpretazione che rafforza ulteriormente la tutela del marchio comunitario, che deve essere concessa anche in assenza di un‟interferenza nel territorio di uno Stato quando il segno goda di notorietà in un altro Paese della
113 Divisione di Opposizione dell‟UAMI, 25 settembre 2008, B 841 777.
Comunità, che si collega al carattere unitario del marchio comunitario ed alla sua protezione tendenzialmente uniforme nell‟Unione Europea.
10. L’elaborazione del concetto di “nesso”.
Per potere beneficiare della tutela allargata è necessario che il marchio rinomato ed il marchio usato dal terzo siano identici o simili.
Sia le norme relative ai marchi che godono di rinomanza che quelle relative ai marchi ordinari parlano di identità o somiglianza tra i marchi. L‟art. 20.1 lett. b) e
c) c.p.i., l‟art. 5.1 lett. b) e 5.2 della Direttiva e l‟art. 9.1 lett. b) e lett. c) del Regolamento, che tutelano i marchi nazionali e comunitari, ordinari e che godono di notorietà, contro l'uso di segni posteriori che danno vita a contraffazione, richiedono l'identità o la somiglianza tra i marchi in conflitto.
In dottrina ci si è quindi chiesti se i parametri utilizzati per i marchi ordinari per determinare se ricorra una somiglianza tra segni sufficiente a dare vita ad un rischio di confusione siano i medesimi che devono essere utilizzati per accertare se la somiglianza del marchio utilizzato dall‟imitatore ed il marchio che gode di rinomanza comporta il conseguimento di un indebito vantaggio tratto dalla capacità distintiva o dalla notorietà o la produzione di un pregiudizio agli stessi.
La giurisprudenza europea ritiene che il grado di somiglianza fra marchi postulato dalle norme relative ai marchi ordinari sia diverso da quello richiesto dalle norme relative ai marchi rinomati.
Già nel caso Adidas Xxxxxxx e Adidas Benelux vs Fitnessworld114 la Corte di Giustizia aveva ricordato che, diversamente all‟art. 5.1 lett. b) della Direttiva, che è destinato ad applicarsi solo quando vi sia un rischio di confusione per il pubblico, l‟art. 5.2 introduce a favore dei marchi notori una tutela che non è
114 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 ottobre 2003, C-408/01 (caso Xxxxxx XX). Si precisa che, oltre alla questione pregiudiziale riguardante l'applicabilità della tutela dei marchi che godono di notorietà prevista dalla Direttiva anche in caso di uso di marchio identico o simile a quello notorio per prodotti o servizi identici o simili, la Corte Suprema dei Paesi Bassi aveva sottoposto alla Corte di Giustizia la questione se la tutela prevista dall'art. 5.2 della Direttiva fosse subordinata alla valutazione della sussistenza tra il marchio notorio ed il marchio successivo di un grado di somiglianza tale da generare nel pubblico interessato un rischio di confusione tra gli stessi.
subordinata all‟esistenza di un simile rischio. Infatti, questa disposizione si applica in ipotesi in cui la condizione specifica della tutela è rappresentata da un uso non giustificato del segno che consente di trarre in modo indebito un vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà di quest‟ultimo oppure arreca un pregiudizio agli stessi.
La Corte aveva proseguito affermando che “I pregiudizi di cui all’art. 5.2 della Direttiva, laddove si verifichino, sono la conseguenza di un certo grado di somiglianza tra il marchio d’impresa e il segno, a causa del quale il pubblico interessato effettua un confronto tra il segno ed il marchio, vale a dire istituisce un nesso tra gli stessi. […] Occorre pertanto risolvere la questione nel senso che la tutela prevista dall’art. 5.2 della Direttiva non è subordinata alla constatazione di un grado di somiglianza tra il marchio notorio ed il segno tale da generare, nel pubblico interessato, un rischio di confusione tra gli stessi. È sufficiente che il grado di somiglianza con il marchio notorio ed il segno abbia come effetto che il pubblico interessato stabilisca un nesso tra il segno ed il marchio d’impresa.”.
È dunque con questa sentenza che la Corte di Giustizia ha introdotto il concetto di “nesso”, che è quell'ulteriore elemento costitutivo, di fonte esclusivamente giurisprudenziale, che si è andato ad aggiungere agli altri presupposti previsti dalle norme sui marchi che godono di rinomanza perché al marchio possa essere applicata la tutela ultramerceologica115.
Vi è chi, in dottrina, ha ravvisato nel concetto di “nesso” introdotto da questa sentenza, consistente in sostanza nell'accostamento non confusorio che il pubblico di riferimento effettua tra il marchio dell'imitatore ed il marchio notorio e dal quale derivano l'indebito approfittamento o il pregiudizio, un parallelismo con la nozione di pre-sale confusion, coniata dalla dottrina e dalla giurisprudenza statunitense, consistente nella capacità di un marchio notorio di richiamare l'attenzione del consumatore in forza di associazioni mentali con un altro marchio
115 Di “nesso” nella dottrina italiana aveva già parlato, anteriormente a questa sentenza, Xxxxx, che aveva osservato che “ai fini della protezione allargata non bastano da un lato la rinomanza del marchio tutelato e dall'altro l'identità o la somiglianza con esso del segno imitante (il che darebbe luogo ad una tutela «assoluta» del marchio), ma si richiede anche – implicitamente ma inequivocabilmente – che l'uso dell'imitatore sia in grado di istituire un collegamento (naturalmente nell'opinione del pubblico) tra il suo segno e questo marchio, collegamento in mancanza del quale non sarebbero concepibili né l'indebito vantaggio né il pregiudizio [...]”. XXXXX, La protezione del marchio oltre il limite del pericolo di confusione, cit., pagg. 35-36.
anche in assenza di pericolo di confusione. Ci si riferisce a quelle teorie secondo cui l‟utilizzo di un segno simile ad un marchio noto ha come effetto quello di attrarre il consumatore verso il prodotto contrassegnato e lo induce inizialmente a ritenere di trovarsi di fronte ad un originale, rendendosi poi conto, prima dell‟acquisto, di essere caduto in errore.
In questo caso risulta evidente come il concetto di “nesso” serva a proteggere non tanto la funzione del marchio di indicazione dell‟origine imprenditoriale, quanto quella di comunicazione e di attrazione.
Il consumatore è, infatti consapevole di acquistare un prodotto contraffatto, ma lo compra egualmente perchè subisce il richiamo e le suggestioni legate al marchio originale.
Le sentenze emesse successivamente dai giudici comunitari, sia che si trattasse dell‟art. 5 della Direttiva che dell‟art. 9 del Regolamento, e dunque di marchi nazionali o di marchi comunitari, non hanno fatto altro che confermare questa impostazione.
Così nel caso Adidas III116 si è detto che i pregiudizi di cui parla la norma sono la conseguenza di un certo grado di somiglianza tra il marchio ed il segno, a causa del quale “il pubblico interessato mette in relazione il segno e il marchio, vale a dire stabilisce un nesso tra gli stessi, pur non confondendoli”.
La Corte ha poi precisato che, perché si abbia il grado di somiglianza richiesto dalle norme a tutela dei marchi che godono di notorietà, debba essere valutata “l'esistenza di elementi di analogia visiva, uditiva o concettuale”, con ciò richiamando i medesimi criteri impiegati dalla giurisprudenza sia comunitaria che nazionale per accertare la somiglianza tra segni nell'ambito del giudizio di confusione sull'origine relativamente ai marchi ordinari117.
Ha proseguito rilevando che “L'esistenza del nesso deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie.”.
116 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 aprile 2008, C-102/7 (caso Adidas AG e Adidas Benelux vs Marca Mode e altri).
117 Sui parametri applicati per accertare la somiglianza tra segni, nella giurisprudenza comunitaria, vedi Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 1997, C-291/95 (caso Sabel vs Puma) dove si dice che “Tale valutazione globale deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi sull’impressione complessiva prodotta dai marchi…”.
In particolare, bisognerà considerare la somiglianza tra i segni, la notorietà del marchio, le categorie di consumatori ed i rispettivi settori di mercato al fine di stabilire se i marchi possano venire associati.
Anche in questo i giudici si sono riferiti ad un principio comunemente utilizzato per determinare il rischio di confusione relativamente ai marchi ordinari118.
I livelli ed il metodo del confronto che la Corte ha indicato per accertare il grado di somiglianza tra marchi nel caso in cui il segno anteriore già goda di notorietà non sono, dunque, diversi da quelli impiegati quando il marchio anteriore sia ordinario.
Per questo motivo, in dottrina, si è sottolineato come dal punto di vista pratico la distinzione tra i due “tipi” di somiglianza, l'una tale da comportare un rischio di confusione e l'altra da istituire un nesso tra i marchi, sia problematica e la distanza tenda inevitabilmente a ridursi.
La definizione del concetto di “nesso” tra il marchio dell'imitatore ed il marchio anteriore che gode di rinomanza è stata data dalla Corte di Giustizia successivamente nell'importante sentenza Intel119, in cui ha affermato che il “nesso” esiste quando “il marchio posteriore evochi il marchio anteriore notorio nella mente del consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”.
La Corte, prima di indicare i parametri utilizzabili per determinare la sussistenza del “nesso”, ha ribadito che “l'esistenza di un nesso […] tra il marchio anteriore
118 Su tutti, Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 1997, C-291/95 (caso Sabel vs Puma) dove si dichiara che “Il rischio di confusione deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie.”.
119 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2008, C-252/07. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia era avvenuto nell'ambito di un procedimento promosso dalla Intel Corporation nei confronti della CPM United Kingdom per ottenere l'annullamento della registrazione del marchio “Intelmark” per servizi di marketing e telemarketing di titolarità di quest'ultima in quanto ritenuto confliggente con l'anteriore marchio rinomato “Intel” registrato per computer e per servizi informatici. Dopo che il ricorso presentato dalla Intel Corporation era stato respinto sia dal United Kingdom Trademark Registry che dalla High Court of Justice of England & Wales, la Court of Appeal of England & Wales, rilevato che “Intel” è un termine di fantasia privo di significato autonomo rispetto ai prodotti contraddistinti, è unico, nel senso che non è utilizzato da altri per contraddistinguere altri prodotti o servizi ma solo dalla Intel Corporation per i suoi prodotti, che gode di amplissima notorietà nel Regno Unito, che i marchi “Intel” e “Intelmark” sono simili, anche se “Intelmark” non è idoneo ad istituire un “nesso” con la Intel Corporation e che i prodotti e servizi contraddistinti dai due marchi non sono simili, ha chiesto alla Corte di Giustizia di indicare i criteri per valutare la sussistenza del “nesso”, come definito nella sentenza Adidas Xxxxxxx e Adidas Benelux vs Fitnessworld, tra il marchio notorio anteriore ed il marchio posteriore ai fini dell'applicazione dell'art. 4.4 lett. a) della Direttiva.
notorio e il marchio posteriore deve essere valutata globalmente, tenendo conto di tutti i fattori pertinenti del caso di specie”.
Tra i criteri a cui ricorrere per valutare il “nesso” la Corte ha annoverato il grado di somiglianza tra i marchi in conflitto e tra i prodotti o i servizi per i quali i marchi sono registrati, avendo riguardo anche alla natura di quei prodotti o servizi ed al pubblico interessato, il livello di notorietà e la capacità distintiva, iniziale o acquisita in forza del suo uso, del marchio anteriore e l'esistenza di un rischio di confusione.
La Corte ha poi, nella giurisprudenza successiva, definito questi parametri, precisandone contenuti e limiti.
Quanto al livello di somiglianza tra i marchi, ha sottolineato che sebbene l'identità o la somiglianza tra i segni non siano di per sé sufficienti a determinare la sussistenza del “nesso”, maggiore è la somiglianza, maggiore sarà la possibilità che il marchio posteriore evochi quello anteriore nella mente del consumatore.
Relativamente al pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio notorio anteriore ha rilevato che esso può non coincidere con quello interessato ai prodotti contraddistinti da quello posteriore, ma se coincidenti, la diversa natura dei prodotti o servizi per i quali i marchi sono utilizzati può comunque escludere che il pubblico di riferimento istituisca un collegamento tra i due segni.
Circa la notorietà, ha affermato che verificare se il marchio anteriore sia noto solo al pubblico interessato o se invece sia conosciuto anche al di fuori di quella cerchia di soggetti può essere utile per stabilire se esiste il “nesso”, così come più il livello di capacità distintiva sarà elevato più aumenterà la possibilità che il pubblico interessato davanti al marchio posteriore si ricordi di quello anteriore.
Infine ha dichiarato che, benché il rischio di confusione non sia necessario ai fini della esistenza del “nesso”, la sua sussistenza determina necessariamente anche quella di un collegamento tra i marchi.
I principi affermati dalla Corte in questa sentenza sono ormai ampiamente consolidati in giurisprudenza. Un‟applicazione ne è stata data dal Tribunale di primo Grado UE nel caso Pepequillo vs Xxxx e Xxxx Xxxxx000, in cui i giudici
120 Trib. I Grado UE, 19 maggio 2011, T-580/08.
hanno annullato la decisione raggiunta in sede di Commissione di Ricorso dell‟UAMI, impedendo la registrazione a livello comunitario del marchio “Pepequillo” per vestiario, scarpe, cappelleria e borse, rilevando un possibile rischio di confusione con i marchi “Pepe” e “Pepe Jeans”, registrati anteriormente sia in Spagna che in ambito europeo, da parte del noto brand di abbigliamento e jeanseria londinese.
Dopo aver effettuato un confronto visivo, fonetico e concettuale tra i due segni ed aver rilevato la notorietà dei due marchi anteriori, quantomeno per la parte spagnola del pubblico di riferimento, il Tribunale ha dichiarato che “Il consumatore acquisterà un prodotto del marchio PEPEQUILLO non soltanto perché desidera acquistare un paio di jeans o una borsa, ma perché tale prodotto reca detto marchio, che somiglia ai marchi notori anteriori XXXX e PEPEJEANS. Orbene, i prodotti contrassegnati dal marchio richiesto sono simili. Di conseguenza, considerata la somiglianza dei segni in questione, i consumatori spagnoli possono stabilire un nesso tra i marchi anteriori PEPE e PEPE JEANS e il marchio richiesto.”.
È opportuno rilevare come l‟esistenza del “nesso” non può essere considerata implicita per il solo fatto che si è in presenza di un marchio che gode di rinomanza. L‟esistenza del “nesso” deve, pertanto, essere provata, utilizzando a tal fine i criteri di valutazione indicati dalla Corte di Giustizia.
Inoltre, una volta dimostrata, ciò non comporta necessariamente l‟esistenza di un indebito vantaggio o di un pregiudizio, che devono essere oggetto di un separato esame. Infatti, la Corte ha dichiarato che “Se manca tale nesso nella mente del pubblico, l'uso del marchio posteriore non è idoneo a trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o ad arrecare loro pregiudizio. Per contro, un tale nesso da solo non è sufficiente per concludere che ricorre una delle violazioni di cui all'art. 4, n. 4, lett. a), della Direttiva, le quali costituiscono […] la condizione specifica per la tutela dei marchi notori prevista da tale disposizione.”.
La valutazione del “nesso” nei termini prospettati dalla Corte di Giustizia si va poi a collocare su un piano diverso da quello della somiglianza dei segni, considerata dalla Corte solo un fattore per la sua determinazione. Al punto 45 della sentenza
Intel121, infatti, si è affermato che “l'identità tra i marchi in conflitto e, a fortiori, la loro mera somiglianza non sono sufficienti a concludere per l'esistenza di un nesso tra di loro”.
11. 1 Pregiudizio ed indebito vantaggio: criteri di valutazione.
L'ultimo requisito che il titolare del marchio che gode di rinomanza deve provare per beneficiare della tutela ultramerceologica è costituito dalla sussistenza dei presupposti, alternativi, dell'indebito vantaggio tratto dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del marchio o del pregiudizio agli stessi.
Come si è detto nel paragrafo precedente, la lesione deve essere oggetto di prova specifica. Incombe sull‟opponente l‟onere di provare che l‟uso effettivo o futuro del segno da parte del terzo cagiona o può cagionare un pregiudizio al carattere distintivo o alla notorietà del suo marchio, o che trae o può trarre indebitamente vantaggio dai medesimi.
Nell‟ottemperare a tale onere il titolare del marchio non può limitarsi ad affermare che il pregiudizio o l‟indebito vantaggio sarebbero una conseguenza necessaria ed automatica dell‟uso del segno da parte dell‟imitatore, alla luce della grande notorietà del proprio marchio. Anche in caso di elevata rinomanza del marchio, l‟indebito vantaggio o il pregiudizio sofferto devono essere adeguatamente dimostrati, posto che altrimenti i marchi che godono di notorietà verrebbero a fruire di una protezione in bianco contro i segni identici o simili in relazione a qualsiasi tipo di prodotto. Ciò sarebbe apertamente incompatibile con la lettera e la ratio dell‟art. 20.1 lett. c), giacché in tal caso la rinomanza verrebbe ad essere l‟unico presupposto per la sua applicazione anziché essere uno solo dei requisiti da soddisfare previsti da tale disposizione.
D‟altra parte, il pregiudizio o l‟indebito vantaggio neppure possono farsi discendere automaticamente dal “nesso” istaurato dal consumatore tra i marchi in conflitto. L‟esistenza di un collegamento tra i segni non esonera, dunque, il
121 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2008, C-252/07.
titolare del marchio dal fornire la prova di una violazione effettiva ed attuale del suo segno o di un rischio serio che una tale violazione si produca in futuro.
Tuttavia, è evidente che tanto più l‟evocazione del marchio rinomato ad opera del marchio imitante è immediata e forte, tanto più aumenta il rischio che l‟uso attuale o futuro del segno da parte del terzo determini per questo un vantaggio illegittimo
o rechi un pregiudizio al carattere distintivo e alla notorietà del marchio celebre. In forza dell‟onere probatorio che grava sull‟opponente ne consegue che asserzioni generiche non sono sufficienti a dimostrare il pregiudizio sofferto o che si verificherà o il vantaggio indebitamente tratto o potenziale.
Tuttavia, dato che la prova di questi fatti risulta particolarmente gravosa, sarà comunque possibile per il titolare del marchio contraffatto basare le proprie argomentazioni su presunzioni giuridiche, ossia su supposizioni logiche o deduzioni risultanti dall‟applicazione delle regole di probabilità ai fatti del caso concreto.
Una di tali presunzioni è stata menzionata dalla Corte di Giustizia, che ha statuito che “più il carattere distintivo e la notorietà del marchio anteriore saranno rilevanti, più sarà facilmente ammessa l’esistenza del pregiudizio”122.
Questi concetti hanno trovato conferma nella giurisprudenza comunitaria, la quale afferma che la disciplina del marchio che gode di rinomanza è applicabile solo quando ricorrono cumulativamente tutte e tre le condizioni della somiglianza dei marchi, e dunque del “nesso”, della notorietà del segno e del rischio che l'uso senza giusto motivo del marchio tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o rechi pregiudizio agli stessi.
La giurisprudenza comunitaria tende poi a scomporre l'ultima di queste condizioni in tre tipi di rischi, consistenti in primo luogo nel pregiudizio al carattere distintivo del marchio anteriore, in secondo luogo nel pregiudizio alla rinomanza o, in terzo luogo, nel vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio anteriore, precisando che “è sufficiente che sussista uno solo di questi tre tipi di rischio” per l'applicazione della normativa relativa ai marchi notori.
Da questo principio deriva poi l'ulteriore corollario consistente nel fatto che non è
122 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 settembre 1999, C-375/97 (caso General Motors).
necessaria la dimostrazione dell'esistenza di una lesione effettiva ed attuale del marchio rinomato.
Ai fini della prova dell'indebito vantaggio o del pregiudizio la giurisprudenza comunitaria è infatti unanimemente orientata nel senso di ritenere sufficiente la dimostrazione da parte del titolare del marchio anteriore dell'esistenza di “elementi che permettono di concludere prima facie nel senso di un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”123.
La parola “rischio” sta a significare che è sufficiente una potenzialità lesiva, l'aggettivo “futuro” si spiega con la circostanza che la valutazione può essere effettuata ex ante senza tenere conto di un eventuale uso del segno. Infine, le parole “non ipotetico” escludono che dal rischio futuro possano assumere rilievo circostanze eventuali, come una possibile qualità scadente dei prodotti contraddistinti dal marchio.
Nel caso in cui il pregiudizio o l‟indebito vantaggio siano solo potenziali, l‟argomentazione dovrà essere di natura alquanto speculativa, dato che la verifica dell‟effetto pregiudizievole o del beneficio avviene ex ante. Pertanto, il titolare del marchio rinomato dovrà addurre una serie di argomentazioni plausibili che dimostrino in che cosa consistano il pregiudizio o l‟indebito vantaggio e come si possano verificare, così da potersi giungere ad una prima conclusione che si tratta di fatti probabili nel corso normale degli eventi.
Bisogna tuttavia ricordare che, secondo autorevole dottrina, la valutazione dell'approfittamento o del danno deve essere, invece, esclusivamente compiuta “in concreto”, posto che le norme non parlano in termini di rischio o di possibilità, ma li individuano in una situazione “reale” conseguente all'uso del segno dell'imitatore e che la tutela ultramerceologica è legata alla notorietà del marchio ed al messaggio di cui in concreto esso è portatore.
123 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2008, C-252/07 (caso Intel), dove al punto 38 della decisione si chiarisce che “il titolare del marchio anteriore non è tenuto a dimostrare l'esistenza di una violazione effettiva e attuale del suo marchio” poiché “quando, infatti, è prevedibile che dall'uso che il titolare del marchio posteriore ha fatto del proprio marchio deriverà una tale violazione, il titolare del marchio anteriore non deve essere obbligato ad attendere che questa si avveri per poter far vietare detto uso”, ma “deve tuttavia dimostrare l'esistenza di elementi che permettano di concludere per un rischio serio che la violazione abbia luogo in futuro”; Trib. I Grado UE, 19 maggio 2011, T-580/08, punto 115 della decisione (caso Xxxxxxxxxx vs Xxxx e Pepe Jeans).
Così Xxxx ritiene che il giudizio di confondibilità tra marchi, sia con riferimento alla registrazione che alla contraffazione, debba essere condotto in astratto, cioè attraverso un raffronto fra segni, prescindendo dalle modalità concrete di utilizzazione. L'Autore, nel prendere atto del fatto che la disciplina del marchio che gode di rinomanza presuppone l'utilizzazione del segno sia da parte del titolare che del terzo, ammette, tuttavia, che l'accertamento dell'indebito vantaggio e del pregiudizio debba essere necessariamente condotto in concreto e come ciò costituisca “un evidente punto di rottura del sistema”124.
Altro elemento da prendere in considerazione per valutare se sussistono l‟indebito vantaggio o il pregiudizio è il pubblico di riferimento, che varia in funzione del tipo di violazione fatta valere dal titolare del marchio rinomato. In particolare, come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Intel125, "la sussistenza delle violazioni costituite dal pregiudizio arrecato al carattere distintivo o alla notorietà del marchio anteriore deve essere valutata facendo riferimento al consumatore medio dei prodotti o dei servizi per i quali tale marchio è stato registrato, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”, mentre “quanto alla violazione costituita dal vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore, nella misura in cui ciò che è vietato è il vantaggio che il titolare del marchio posteriore potrebbe trarre dal marchio anteriore, detta violazione deve essere verificata avendo riguardo al consumatore medio dei prodotti o dei servizi per i quali il marchio posteriore è stato registrato, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”.
11. 2 Le ipotesi di pregiudizio e di indebito vantaggio.
Passiamo ora ad analizzare i singoli tipi di rischio individuati dalla giurisprudenza, partendo dalle definizioni adottate dalla Corte di Giustizia e dal Tribunale di primo Grado.
124 SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, 2007, cit., pagg. 152-153.
125 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2008, C-252/07.
L‟art. 5.2 della Direttiva e l‟art. 20.1 lett. c) c.p.i. trovano applicazione se una delle seguenti condizioni alternative sia soddisfatta, ossia in particolare se l‟uso del marchio da parte del terzo possa:
- arrecare un pregiudizio al carattere distintivo del marchio rinomato;
- arrecare un pregiudizio alla sua notorietà;
- trarre indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo;
- trarre indebitamente vantaggio dalla sua notorietà.
Quanto al pregiudizio alla capacità distintiva, esso è detto anche “diluizione” o “corrosione” e si verifica quando risulta indebolita la capacità del marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato.
L‟uso del marchio identico o simile da parte del terzo fa disperdere l‟identità del marchio notorio e dell‟impresa corrispondente che si è creata nella mente del pubblico.
Il carattere distintivo viene pregiudicato quando i consumatori cessano di associarlo con una determinata gamma di prodotti provenienti da un‟unica impresa e cominciano ad associarlo con vari prodotti aventi origini distinte126.
Tale situazione, comunemente nota come “svilimento del marchio dovuto all’uso indistinto” (“diluition by blurring”), si ha allorché il segno perda la sua attitudine ad evocare nella mente del pubblico un‟associazione immediata con i prodotti che esso contraddistingue. Tale attitudine può essere ridotta o cancellata dal fatto che persone diverse dal titolare del marchio utilizzano lo stesso segno o un segno simile per prodotti diversi da quelli tutelati dalla registrazione.
Ciò comporta come conseguenza un‟erosione del carattere distintivo, causata dalla proliferazione di marchi parassiti, i quali, pur non snaturando il marchio originale, sono così numerosi da poterlo privare del suo carattere distintivo e, quindi, della sua capacità di attrazione.
In dottrina si dice che il pregiudizio alla capacità distintiva del marchio si identifica sostanzialmente con la perdita di unicità del segno127.
126 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2009, C-487/07 (caso L'Oréal); Trib. I Grado UE, 7 luglio 2010, T-124/09 (caso Xxxxx Xxxxxxx vs RV Xxxxxxx e Xxxxxxx). In giurisprudenza nazionale, nello stesso senso Trib. Bologna 12 febbraio 2008, in GADI, 5366/3 (caso Chanel); Trib. Bologna, 6 febbraio 2009, in GADI, 5404/3 (caso Xxxxxxx); Trib. Milano, 23 ottobre 2009, in GADI, 5463/2 (caso La Perla).
Vi è, però, anche chi ritiene che il venire meno dell'unicità del marchio non sia sufficiente a determinare un pregiudizio per il suo titolare, dovendo sussistere “conseguenze ulteriori in grado di incidere negativamente sulla capacità distintiva del segno; ovvero, in alternativa, che dalla medesima situazione derivi un pregiudizio anche per la rinomanza”128.
Nella già più volte citata sentenza Intel129, con la terza questione pregiudiziale il giudice del rinvio aveva chiesto alla Corte di indicare i parametri da utilizzare per stabilire quando l'uso del marchio posteriore rechi o possa recare pregiudizio al carattere distintivo del marchio notorio anteriore.
Relativamente a tale quesito la Corte di Giustizia ha, in primo luogo, chiarito che non è necessario che il marchio notorio anteriore, senz'altro dotato di capacità distintiva, sia unico, ovvero abbia carattere esclusivo, anche se, qualora lo sia, ciò accrescerà le probabilità che l'uso di un marchio successivo identico o simile possa indebolirne il carattere distintivo.
Ha poi evidenziato che già un primo uso del marchio posteriore può essere sufficiente a pregiudicare il carattere distintivo del marchio celebre anteriore.
Dopo avere ritenuto la circostanza che il titolare del marchio posteriore tragga o meno un effettivo vantaggio commerciale dal carattere distintivo del marchio anteriore non rilevante, la Corte ha concluso la propria analisi fornendo una interpretazione rigorosa del requisito del pregiudizio al carattere distintivo prevedendo che il titolare debba fornire la prova di “una modifica del comportamento economico del consumatore medio dei prodotti o dei servizi per i quali il marchio anteriore è registrato dovuta all'uso del marchio posteriore o un rischio serio che una tale modifica si produca in futuro”.
127 XXXXX, Rinomanza del marchio e tutela oltre il limite del pericolo di confusione, in Dir. Ind., 2007, n. 1, pag. 91; XXXXXXXX, DI XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, cit., pag. 263, dove si definisce il pregiudizio alla capacità distintiva semplicemente come un “indebolimento del carattere distintivo del marchio del titolare a causa del venire meno della sua unicità sul mercato”.
128 XXXXXXXX, Verso il superamento del principio di specialità nella tutela dei marchi d’impresa?, in Giust. Civ., 1984, I, pag. 35, che sottolinea come una lettura diversa della norma trasformerebbe la privativa concessa al titolare del marchio rinomato in un monopolio assoluto azionabile nei confronti di chiunque utilizzi il segno senza il suo consenso.
Della stessa opinione è DI XXXXXXX, I segni distintivi, cit., pag. 111, che sostiene che il pregiudizio si ravvisi nelle sole ipotesi di “annacquamento” o “infangamento”, e dunque di uso del marchio da parte del terzo per prodotti scadenti o incompatibili, e che non esista invece pregiudizio per il solo fatto della perdita di unicità del segno, che non è in sé fonte di danno.
129 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 novembre 2008, C-252/07.
È evidente che la previsione del criterio della modifica del comportamento economico del consumatore, considerato che la perdita di unicità del segno sul mercato non configura da sola come un danno economico sufficientemente apprezzabile per giustificare la tutela extramerceologica, abbia di fatto reso la configurazione della violazione meno agevole, favorendo invece chi si trovi a resistere ad una pretesa “diluition” del marchio anteriore, e ciò a discapito della tutela del carattere distintivo del marchio che gode di notorietà130.
Ciò risulta ancora più evidente nel fatto che la Corte non qualifica questo criterio come una condizione di natura soggettiva, che può essere desunto dalla mera percezione dei consumatori e dal fatto che questi notino la presenza di un nuovo segno simile al marchio anteriore, bensì come una condizione di natura oggettiva. La giurisprudenza nazionale ha condiviso questa interpretazione offerta in ambito comunitario.
Così, nel caso La Perla131, il Tribunale di Milano, allineandosi all‟orientamento della Corte di Giustizia ha richiesto la dimostrazione della modifica del comportamento economico del consumatore medio dei prodotti per effetto dell'uso del marchio posteriore o del serio rischio che questo si verifichi quale condizione per poter garantire tutela al marchio “La Perla” della nota casa produttrice di biancheria intima di lusso, in quanto “(S)enza fornire la prova che una tale condizione sia soddisfatta non può essere constatato il pregiudizio o il rischio di pregiudizio al carattere distintivo del marchio anteriore.”.
Viceversa, parte della dottrina italiana si è espressa in modo contrario alla posizione assunta dalla Corte di Giustizia osservando che il mutamento nei comportamenti dei consumatori “non è conditio sine qua non della tutela”132.
Il pregiudizio o il rischio di pregiudizio alla notorietà del marchio anteriore, detto anche “annacquamento” o “degradazione”, si verifica, invece, “quando i prodotti e i servizi contrassegnati dal marchio richiesto possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere di attrazione del marchio ne risulti compromesso” e “può scaturire, in particolare dalla circostanza che i prodotti o i
130 DE SANTIIS, Corte di Giustizia – Il caso Intel: la protezione del marchio notorio e la prova di una modifica del comportamento economico del consumatore, in AIPPI Newsletter, 2009, n. 1, pag. 9.
131 Trib. Milano, 23 ottobre 2009, in GADI, 5463/2.
132 XXXXX, Commento all'art. 20 c.p.i., cit., pag. 312.
servizi offerti dal terzo possiedano una caratteristica o una qualità tali da esercitare un'influenza negativa sull'immagine del marchio”. Così si è espressa la Corte di Giustizia nella sentenza L’Oréal relativa all‟uso del famoso marchio di profumi da parte di produttori di fragranze a minor prezzo su scatole e flaconi anch‟essi simili133.
Vi sarà, quindi, pregiudizio alla rinomanza del marchio quando il terzo utilizzi il segno con modalità o per prodotti o servizi che, per qualsiasi motivo, nocciono all'immagine ed alla reputazione del marchio.
Si parla di “svilimento del marchio dovuto al suo offuscamento” (“diluition by tamishing”) per riferirsi a situazioni in cui l‟uso del segno imitante svaluti il credito ed il prestigio che un marchio che gode di notorietà ha acquisito presso il pubblico.
La celebrità può essere inficiata o snaturata in tal modo perché il marchio viene riprodotto in un contesto osceno, degradante od inappropriato oppure in un contesto che non sia intrinsecamente sgradevole, ma che risulti incompatibile con una particolare immagine che il marchio anteriore ha acquisito agli occhi dei consumatori, grazie agli sforzi compiuti dal suo titolare per promuoverla.
La dottrina tende a ricondurre la nozione di pregiudizio alla rinomanza ai casi in cui il segno riproduce il marchio notorio in modo tale da modificare od alterare i suoi elementi figurativi o verbali in modo negativo od offensivo; oppure quando il segno è usato in connessione con prodotti offensivi o riguardanti beni che evochino associazioni mentali negative o sgradevoli, in contrasto con l‟immagine che il marchio celebre ha acquisito sul mercato; infine nelle ipotesi in cui il segno è utilizzato per prodotti vili o di scarsa qualità od incompatibili con un‟immagine o una qualità particolare associata al marchio rinomato.
L'esempio di pregiudizio alla notorietà che tutti comunemente richiamano in dottrina è costituito da un famoso caso giurisprudenziale tedesco nel quale il titolare del celebre marchio “4711”, registrato ed usato per contraddistinguere un'acqua di Colonia, aveva agito nei confronti del titolare di un'impresa di spurgo di fognature che utilizzava lo stesso numero 4711, che era quello del suo telefono, come marchio di servizio sulla fiancata dei suoi maleodoranti camion.
133 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2009, C-487/07.
La nozione di vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo ricorre quando il terzo approfitta della capacità di attrazione del marchio anteriore contrassegnando i propri prodotti con un segno ampiamente conosciuto sul mercato, appropriandosi così abusivamente dei suoi poteri di attrattiva e del suo valore pubblicitario.
Tale prassi può condurre a situazioni inaccettabili di parassitismo commerciale, nelle quali il terzo si arroga la facoltà di “usare gratuitamente” l‟investimento del titolare per promuovere e costruire l‟avviamento del proprio marchio, in modo da incentivare le vendite dei propri prodotti in una misura sproporzionata rispetto all‟entità degli investimenti promozionali in concreto effettuati.
Questa appropriazione abusiva del carattere distintivo del marchio notorio presuppone che venga compiuta un‟associazione tra i rispettivi marchi, la quale renda possibile il trasferimento della capacità di attrazione al segno del terzo.
Un‟associazione di questo tipo si avrà con maggiore probabilità quando il marchio anteriore possieda un elevatissimo carattere distintivo, perché in tal caso non solo sarà più conveniente per il terzo approfittare del suo valore, ma anche più facile associarlo con il proprio segno, identico o simile a quello rinomato, trattandosi di un marchio che viene riconosciuto in quasi ogni contesto proprio per la sua straordinaria distintività.
Ma un‟associazione sarà più frequente anche quando esista un particolare collegamento tra i prodotti, che induca i consumatori ad attribuire alcune delle qualità dei prodotti del titolare del marchio rinomato a quelli del terzo. Tale ipotesi si verifica, segnatamente, in caso di mercati contigui, nei quali un‟estensione del marchio potrebbe sembrare più naturale, come nel caso di capi di abbigliamento, le cui caratteristiche in termini di manifattura e di qualità dei materiali utilizzati potrebbero essere trasferite ai gioielli.
Per vantaggio indebitamente tratto dalla notorietà ci si riferisce, invece, a situazioni nelle quali il segno del terzo può approfittare della rinomanza del marchio sfruttando indebitamente il prestigio di questa.
La differenza con il vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo è che questo tipo di appropriazione abusiva s‟incentra maggiormente sull‟immagine di qualità del marchio e meno sulla sua capacità di attrazione.
Tale rischio è particolarmente alto quando il marchio anteriore abbia acquisito non solo un elevato grado di conoscenza tra i consumatori, ma anche una notorietà “buona” e “particolare”, nel senso che da esso traspaia un‟immagine di eccellenza, affidabilità e qualità, o qualsiasi altro messaggio positivo, che possa influire favorevolmente sulle scelte dei consumatori per quanto riguarda i prodotti dell‟altro fabbricante.
Il terzo può approfittare degli aspetti qualitativi della notorietà senza di fatto danneggiare l‟immagine del marchio rinomato. Pertanto, contrariamente a quanto accade nel caso dello svilimento del marchio dovuto al suo offuscamento, non è necessario che i prodotti del terzo siano di scarsa qualità o che abbiano natura offensiva. Se, ad, esempio, il marchio rinomato è sinonimo di qualità eccellente, anche l‟uso del marchio da parte del terzo in relazione a prodotti di qualità ordinaria potrebbe trarre indebitamente vantaggio dalla sua notorietà, sempreché il rapporto tra i prodotti sia tale da consentire la possibilità di associare i due segni. La Corte di Giustizia si è espressa sui requisiti dell‟indebito vantaggio nel caso L’Oréal134. Il rinvio pregiudiziale alla Corte era avvenuto nell‟ambito della controversia insorta tra tre società del gruppo L‟Oréal, la L‟Oréal SA, la Lancôme parfums e la Laboratoires Garnier, che produce e commercializza profumi di lusso, e le aziende Malaika e Starion, che distribuivano nel Regno Unito imitazioni di fragranze della L‟Oréal, in particolare del profumo Trésor, prodotte dalla Bellure. I flaconi e le scatole utilizzati per commercializzare dette imitazioni presentavano una notevole somiglianza con quelli di cui si serve la L‟Oréal, i quali sono protetti da marchi denominativi e figurativi. La L‟Oréal e le altre avevano, quindi, intentato dinnanzi alla High Court of Justice of England & Wales un‟azione di contraffazione e nel corso del procedimento il giudice nazionale aveva adito la Corte di Giustizia affinché precisasse l‟interpretazione dell‟art. 5.2 della Direttiva 89/104.
I giudici comunitari hanno affermato che “Quanto alla nozione di «vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio», detto anche «parassitismo» e «free-riding», tale nozione non si ricollega al pregiudizio subito dal marchio, quanto piuttosto al vantaggio tratto dal terzo dall'uso del
134 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, 00 giugno 2009, C-487/07.
segno identico o simile.”. Essa comprende, in particolare, il caso in cui, “grazie ad un trasferimento dell'immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussiste un palese sfruttamento parassitario nel tentativo di infilarsi nella scia del marchio notorio.”.
Ne deriva che l‟esistenza di un vantaggio indebito non presuppone né l‟esistenza di un rischio di confusione, né quella di un rischio di un pregiudizio arrecato al titolare del marchio.
Al fine di determinare se l‟uso di un segno tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, la Corte ha considerato necessario effettuare una valutazione complessiva, che tenga conto, in particolare, “dell’intensità della notorietà e del grado di carattere distintivo del marchio, del grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché della natura e del grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati”.
Nella fattispecie in esame, la Corte ha osservato che la Malaika e la Stairon traevano un vantaggio commerciale dall‟utilizzo, per commercializzare le loro imitazioni di “scarsa qualità”, di scatole e flaconi simili a quelli utilizzati dalla L‟Oréal per i propri profumi di lusso.
Peraltro, la somiglianza era stata scientemente cercata per realizzare un‟associazione nella mente del pubblico, con lo scopo di agevolare la commercializzazione dei prodotti. I giudici hanno, quindi, dichiarato che in tale contesto bisognava tenere conto del fatto che l‟utilizzo di scatole e di flaconi simili a quelli dei profumi imitati fosse diretto a sfruttare, a scopi pubblicitari, il carattere distintivo e la notorietà dei marchi con cui detti profumi sono commercializzati.
La Corte ha concluso affermando che “Quando un terzo tenta, con l’uso di un segno simile al marchio notorio, di porsi nel solco tracciato da quest’ultimo, al fine di beneficiare del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, così come di sfruttare, senza qualsivoglia corrispettivo economico e senza dover operare sforzi propri a tale scopo, lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio notorio per creare e mantenere l’immagine di detto marchio, si deve considerare il vantaggio derivante da siffatto uso come
indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio in parola.”.
Anche la giurisprudenza nazionale usa diverse definizioni dell'indebito vantaggio, tutte comunque pressoché conformi con l'interpretazione datane dalla giurisprudenza comunitaria sopra richiamata135.
Si dice generalmente che le ipotesi di indebito vantaggio ricorrono quando il terzo, attraverso l‟uso di un marchio identico o simile a quello rinomato, si aggancia parassitariamente alla sua notorietà o alla sua distintività, ottenendo dei benefici, che nella maggioranza dei casi consistono in un risparmio sia dei costi per l‟affermazione del proprio prodotto sul mercato, sia di costi pubblicitari.
In definitiva, questo requisito consente di offrire ai marchi che godono di rinomanza una protezione molto estesa e funge da vera e propria “norma di chiusura”136, considerando che ogni volta che un soggetto utilizza un marchio famoso altrui mira a profittare del valore di tale marchio, e quindi mira ad un indebito vantaggio.
12. Il giusto motivo.
L'ultimo requisito previsto dalle norme sul marchio che gode di rinomanza è costituito dal “giusto motivo”, l'esimente che può essere invocata dal titolare del marchio posteriore a quello rinomato per scriminare la sua condotta potenzialmente illecita.
Quando il titolare del marchio anteriore è riuscito a provare l'esistenza dell'indebito vantaggio o del pregiudizio, o quantomeno del rischio di indebito vantaggio o pregiudizio, spetterà, infatti, al titolare del marchio successivo
135 Trib. Milano, 6 giugno 2002, in GADI, 4442/5 (caso Xxxxxxxx), secondo cui l'adozione come domain name di un marchio famoso “determina un effetto di agganciamento al marchio famoso che amplifica enormemente le potenzialità di visita, con ciò stesso offrendo un vantaggio di natura parassitaria, indipendentemente dalla prova della acquisizione effettiva di clienti”; Trib. Bologna 12 febbraio 2008, in GADI, 5366/3 (caso Chanel); Trib. Bologna, 23 maggio 2008, in GADI, 5295/1 (caso Xxxxx Xxxxxxx); Trib. Bologna 6 febbraio 2009, in GADI, 5404/6 (caso Pollini); Trib. Milano, 10 giugno 2010, in GADI, 5647/4 (caso Puma).
136 DI XXXXXXX, I segni distintivi, cit., pag. 111.
dimostrare l‟esistenza di un giusto motivo ad utilizzare un marchio identico o simile a quello rinomato.
Gli artt. 5 della Direttiva, 9 del Regolamento e 20 c.p.i. subordinano tutti la tutela del marchio che gode di rinomanza alla condizione che dall'uso “senza giusto motivo” di un marchio identico o simile a quello rinomato il terzo abbia tratto un indebito vantaggio dalla rinomanza o dalla capacità distintiva del marchio anteriore o abbia arrecato pregiudizio agli stessi.
Ciò significa che trarre vantaggio o arrecare pregiudizio al segno altrui non è un evento in sé sempre illecito, ma lo diventa se chi utilizza l'altrui marchio rinomato lo fa senza una giustificazione137.
Nonostante l'importanza rivestita da questa esimente nell'ambito della tutela del marchio che gode di rinomanza, non esiste però una definizione certa di “giusto motivo”, per la determinazione del cui contenuto ci si deve necessariamente affidare all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Il limite del “giusto motivo” è prevalentemente considerato una clausola di carattere generale138.
Parte della dottrina, come La Villa, ritiene che il “giusto motivo” ricorra in ipotesi marginali, quali l'uso da parte del terzo risalente ad un periodo anteriore a quello in cui il marchio di cui si invoca la tutela ha acquisito la rinomanza. Si dice che se un marchio è diventato celebre sul mercato solo molto tempo dopo la sua registrazione, non sarebbe corretto impedire a chi ha precedentemente registrato o
137 DI XXXXXXX, Xxxxxxx e xxxxxxxx. Non nominare il marchio altrui invano, in Giur. Comm., 2010, VI, pagg. 984 ss., che sottolinea come il limite del “giusto motivo” sia sempre stato sostanzialmente, ed a torto, ignorato dai giudici comunitari e italiani, che hanno sottovaluto l'importanza di questa formula “che consente (anzi, impone) di ritenere che l'uso del marchio che gode di rinomanza da parte del terzo, può essere giustificato da una norma, e quindi può essere ritenuto lecito, anche se sussistono tutti i presupposti di protezione previsti dalle norme vigenti”, e ne auspica la rivalorizzazione.
138 LA VILLA, Commento alla nuova legge marchi, in Riv. Dir. Ind., 1993, II, pagg. 290-291, che sottolinea come non sia possibile definire a priori il limite del “giusto motivo”, “che costituisce una di quelle clausole generali di riserva che consentono all'interprete di calibrare nel caso concreto, esercitando una adeguata valutazione degli interessi in gioco, il giudizio di contraffazione.”. Secondo l'Autore, il giusto motivo può consistere “in una situazione relativa ai soggetti in contrasto o alla situazione di mercato”, oppure può derivare da esigenze di legittima difesa della propria impresa o da rapporti contrattuali o precontrattuali tra le parti o da provvedimenti amministrativi che consentono od impongono l'uso del segno. MENESINI, Introduzione al diritto industriale, Giappichelli, Torino, 1995, pag. 37, che considera il “giusto motivo” “una dizione volutamente generica impiegata dal legislatore, che non ha un significato tecnico apparentemente precostituito, ma che può funzionare da esimente generale in varie ipotesi”.
usato un segno identico o simile di continuare ad utilizzare quel segno, soltanto perché nel frattempo il primo ha acquisito notorietà139.
Secondo Xxxxxxxx, il “giusto motivo” ricorre, oltre che nel caso precedentemente indicato, anche in quello di conflitto tra due marchi entrambi divenuti celebri, ma in settori merceologici diversi, allorché il titolare del marchio che vanta una rinomanza più risalente chieda che al secondo venga inibito l'uso dello stesso segno per distinguere i prodotti che lo hanno reso famoso nel proprio settore di origine140.
Secondo l‟Autore, inoltre, oltre che nelle ipotesi predette, l‟esimente in questione ricorre anche nei casi di esaurimento, ossia una volta che i prodotti contrassegnati sono stati immessi nel commercio dal titolare del marchio o con il suo consenso all‟interno dello Stato141.
Un'altra ipotesi, seppur ancora residuale, individuata dalla dottrina riguarda l'uso del marchio altrui nell'ambito di una pubblicità comparativa che rispetti le condizioni dettate dalla normativa in materia. Sarti rileva come “il riferimento all’uso immotivato non sembra avere in realtà uno spazio di applicazione autonomo rispetto alla disciplina della pubblicità comparativa”, posto che “non può giustificare comparazioni pubblicitarie che sfruttino la notorietà del marchio altrui al di là di quanto necessario per istituire un confronto fra le caratteristiche obiettive dei prodotti e servizi”142.
Xxx Xxxxxxx nel “giusto motivo” sono ricompresi il caso di una tolleranza che sia durata più di cinque anni, un preuso non generale da parte del soggetto cui venga contestato l'uso dello stesso marchio, successivamente registrato e divenuto celebre ad opera di un altro soggetto e l‟ipotesi dell'uso dell'altrui marchio celebre in settori merceologici ai quali la celebrità non è xxxxxx000.
139 LA VILLA, Commento alla nuova legge marchi, cit., pag. 290.
140 XXXXXXXX, Verso il superamento del principio di specialità nella tutela dei marchi d’impresa?, cit., pagg. 33-34.
141 Il principio dell‟esaurimento comunitario è oggi enunciato nell‟art. 5 c.p.i. dove al comma 1 si dice che i diritti del titolare del marchio “si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità Europea o dello Spazio Economico Europeo”.
142 SARTI, Diritti esclusivi e circolazione dei beni, Xxxxxxx, Milano, 1996, pagg. 73-74.
143 FAZZINI, Prime riflessioni sulla riforma della disciplina dei marchi, in Riv. Dir. Ind., 1993, I, pag. 162.