Serena Petrella
Diritto del Lavoro
Il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente nel sistema italiano di contrattazione collettiva
Xxxxxx Xxxxxxxx
041486
XXIII 2010/2011
La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve corrispondere alle necessità fondamentali dell’esistenza
del singolo e della sua famiglia.
Formulazione originaria dell’art. 36 Cost., lavori preparatori dell’art. 36 Cost., Assemblea Costituente
La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare l’esigenza di una esistenza libera e dignitosa
del lavoratore e della sua famiglia.
Emendamento Dossetti-Togliatti alla formulazione originaria dell’art. 36 Cost., prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, seduta
dell’8.10.1946
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa.
Art. 36, co.1, Costituzione italiana, 1948
Indice
Premessa pag. 1
Introduzione………………………………………..pag. 9
Cap. 1: Il principio della giusta retribuzione e la prospettiva costituzionale dettata dall’art. 36
1.1 L’applicazione del principio della giusta retribuzione nel Diritto del lavoro.………………………...pag. 23
1.1.1 L’avvento di un nuovo sistema economico come prerequisito costitutivo della nascita del “moderno” Diritto del lavoro……………………………..pag. 23
1.1.2 Il fondamento etico alla base del Diritto del lavoro: il lavoro non è una merce………………………pag. 25
1.1.2.1 La riflessione filosofica/giuridica sul principio il lavoro non è una merce così come si è storicamente affermata nel Diritto del lavoro…………………………………....pag. 25
1.1.2.2 Il corollario del principio il lavoro non è una merce: l’impossibilità di scindere nella relazione contrattuale di lavoro la persona del lavoratore dalla sua prestazione…………………….pag. 29
1.1.2.3 L’irriducibilità del fattore lavoro alle leggi dell’economia come limite al processo di mercificazione del lavoro stesso…………pag. 34
1.1.3 L’attuazione del criterio di giustizia retributiva nel rapporto di lavoro subordinato pag. 38
1.2 Il principio della giusta retribuzione nelle norme dell’ordinamento internazionale e comunitario…………………………………..pag. 41
1.3 Il diritto costituzionale alla giusta retribuzione nell’ordinamento italiano…………………….pag. 45
1.3.1 I principi costituzionali in materia di lavoro e l’art. 36 Cost……………………………………….pag. 45
1.3.2 La genesi dell’art. 36 Cost.: le premesse teoriche emerse dal dibattito in Assemblea Costituente…………………………………...pag. 46
1.3.3 Il diritto costituzionale alla giusta retribuzione: i criteri di proporzionalità e sufficienza…….....pag. 48
1.3.3.1 Il criterio della sufficienza e la rilevanza delle esigenze personali e familiari del lavoratore………………………………pag. 53
1.4 L’art. 36 Cost. e i poteri determinativi della contrattazione collettiva in materia retributiva…………………………………….pag. 55
1.4.1 Il rapporto tra l’art. 36 e l’art. 39 Cost. e il contratto collettivo quale strumento delegato alla determinazione della retribuzione costituzionale………………………………...pag. 55
1.4.2 Pluralità di contratti collettivi e individuazione del contratto parametro ai fini dell’applicazione dell’art. 36 Cost pag. 62
1.5 La precettività dell’art. 36 Cost. e la necessità dell’intervento giudiziale…………………….pag. 74
1.5.1 L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.: il dibattito in dottrina e in giurisprudenza sul valore orientativo dei contratti collettivi………….....pag. 74
1.5.2 L’art. 36 Cost. e la flessibilità salariale geografica…………………………………….pag. 80
1.5.3 La differenziazione salariale su base territoriale ad opera della contrattazione collettiva autorizzata da interventi legislativi: i contratti di riallineamento retributivo e la contrattazione d’area………...pag. 88
Cap. 2: La contrattazione collettiva e la funzione regolativa delle questioni retributive
2.1 L’evoluzione del sistema di contrattazione collettiva in Italia……………………………………………pag. 97
2.2 La qualificazione dei trattamenti retributivi tra primo e secondo livello contrattuale.…………….........pag. 115
2.2.1 La determinazione dei trattamenti retributivi minimi da parte del contratto collettivo nazionale di categoria…………………………………….pag. 115
2.2.2 I principali istituti retributivi regolati al livello aziendale di contrattazione………………...pag. 119
2.3 La struttura della retribuzione tra primo e secondo livello contrattuale nel Protocollo del 23 luglio del 1993 pag. 123
2.3.1 Il contratto collettivo nazionale di lavoro nel Protocollo del’93: la determinazione dei trattamenti retributivi minimi e il contenimento delle dinamiche inflattive……………………….pag. 127
2.3.2 Il contratto collettivo aziendale: la funzione di incremento dei trattamenti retributivi di base………………………………………..pag. 130
2.3.2.1 La compatibilità tra l’art. 36 Cost. e le forme di retribuzione variabile così come regolamentate dal Protocollo del’93: il dibattito in dottrina e in giurisprudenza…………………………...pag. 133
2.4 La previsione da parte della contrattazione decentrata di deroghe alle clausole normative/retributive del contratto collettivo nazionale………………...pag. 137
2.4.1 I lavori della Commissione di studio per la verifica del Protocollo del 1993……………………..pag. 137
2.4.1.1 La previsione delle clausole d’uscita, accordi temporanei in deroga alle disposizioni del CCNL…………………………………….pag. 141
2.4.2 La disciplina sperimentale delle clausole d’uscita contenuta nel rinnovo contrattuale del CCNL del 2006 del settore chimico-farmaceutico……pag. 144
2.4.3 L’Accordo Quadro del 22 gennaio 2009 e l’Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009: il ridimensionamento della competenza retributiva del CCNL e la flessibilità derogatoria assegnata alla contrattazione decentrata… pag. 149
2.4.3.1 La competenza retributiva del CCNL: il recupero dell’inflazione e la previsione di un elemento di garanzia retributiva per i lavoratori che non beneficiano di erogazioni salariali aziendali…………………………………..pag. 149
2.4.3.2 La possibilità per gli accordi collettivi di secondo livello, in special modo aziendali, di prevedere deroghe ai contenuti economico/normativi del CCNL……………………………………..pag. 164
Cap. 3: La compatibilità di accordi aziendali derogatori in peius della parte economica del CCNL con il diritto costituzionale alla giusta retribuzione
3.1 L’accordo aziendale derogatorio per rispondere a situazioni di crisi o incentivazione dell’occupazione: il dibattito in dottrina e in giurisprudenza sull’ammissibilità, il contenuto e i limiti di operatività della deroga peggiorativa……….pag. 173
3.2 Le questioni giuridiche sollevate dal ricorso allo strumento della contrattazione aziendale derogatoria…………………………………...pag. 186
3.2.1 L’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale derogatorio……………………..pag. 186
Postilla… pag. 203
3.2.2 Il concorso/conflitto tra contratti collettivi di diverso livello……………………………………….pag. 205
Conclusioni………………………………………pag. 217
Bibliografia………………………………………pag. 235
Premessa
Il presente studio si propone di indagare il tema della determinazione dei trattamenti economici dei lavoratori subordinati, alla luce dei principi costituzionali operanti in materia e dei poteri espressamente attribuiti in tal senso dall’ordinamento italiano alla contrattazione collettiva.
In particolare, l’analisi verterà sulle dinamiche che governano la quantificazione e la qualificazione dei trattamenti retributivi, la cui regolazione, stante l’attuale configurazione del sistema, viene affidata in primis alla contrattazione collettiva, nel rispetto dei rinvii operati dalla legge e dell’attuazione dei principi costituzionali, in special modo dell’art. 36 Cost., che fonda il diritto, per ciascun lavoratore subordinato, alla giusta retribuzione o, rectius, alla retribuzione parametrata alla quantità e qualità della prestazione lavorativa svolta e in ogni caso tale da consentire la soddisfazione dei bisogni primari e secondari del cittadino-lavoratore.
Una seria riflessione sul tema della retribuzione o, meglio, sulla definizione dei trattamenti retributivi dei lavoratori subordinati, appare quanto mai urgente oggi, soprattutto se si guarda all’attuale contesto economico e sociale di crisi dell’economia globale e dell’occupazione, il cui effetto è quello di produrre una corrente svalutazione dell’elemento lavoro e della retribuzione ad esso collegata. Tali fattori sono invece ritenuti essenziali nella prospettiva delineata dai Costituenti, il primo, inteso come strumento di sviluppo individuale e di progresso sociale, la seconda, connaturata all’esigenza fondamentale del cittadino- lavoratore di condurre un’esistenza in cui trova spazio la realizzazione delle proprie aspettative di vita, non solo materiali, in tal senso ritenuta da alcuni commentatori come l’elemento essenziale della vita del lavoratore e
della sua famiglia (…) un tratto tipico, questo, non a caso costituzionalizzato nel 1° comma dell’art. 36 della Costituzione1.
L’obiettivo dichiarato della presente ricerca viene perseguito, anzitutto, con la ricostruzione del dibattito filosofico/giuridico sulla fondatezza e sull’applicabilità del principio della giusta retribuzione al Diritto del lavoro; tale dibattito si incentra specificamente sulle riflessioni sul tema dell’equivalenza/eguaglianza, all’interno della relazione di lavoro subordinato, nello scambio tra l’attività lavorativa prestata e la retribuzione percepita.
Sul punto, le scelte elaborate dall’ordinamento italiano si collocano su una linea di continuità con i principi e le disposizioni di cui alle fonti sovranazionali, ma apportano una soluzione originale che si traduce in primis nel dettato dell’art. 36 Cost., norma che sintetizza appieno la visione del Legislatore costituzionale di considerare centrali i temi del lavoro e della retribuzione, a fondamento dello sviluppo della vita individuale e collettiva, la cui difesa e valorizzazione viene delegata essenzialmente alla contrattazione collettiva, ex art. 39 Cost.. Quest’ultima norma prevede un meccanismo ad hoc, al fine di rendere applicabili in concreto le tutele per i lavoratori subordinati. In argomento, di fondamentale rilevanza risulta l’apporto di dottrina e giurisprudenza improntato a delimitare il contenuto e l’ambito di operatività del precetto di cui all’art. 36 Cost.. Il dibattito che ne scaturisce vede centrali, da un lato, le riflessioni sullo stretto legame intercorrente tra quantificazione e qualificazione dei trattamenti
1 X. Xxxxxxxx, I diversi livelli attuali di contrattazione collettiva riguardo alla determinazione dei trattamenti retributivi, Relazione in Atti del Convegno “Il trattamento retributivo dei lavoratori, la contrattazione collettiva e la legge”, Roma, 22-23/04/2010, pag. 1;
economici dei lavoratori subordinati ed i poteri in tal senso attribuiti alla contrattazione collettiva, dall’altro, le interpretazioni circa l’individuazione del contratto collettivo c.d. parametro, quale strumento delegato dalla giurisprudenza all’indicazione del contenuto di cui alla retribuzione costituzionale, e quelle sulla diversa, ma altrettanto interessante tematica, della verifica giudiziale della compatibilità delle clausole collettive in materia retributiva con i criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione stessa, di cui all’art. 36 Cost..
A corollario del dibattito su tale tema si indaga il meccanismo dell’applicazione giurisprudenziale dell’art.
36 Cost., che si sostanzia nell’indagine sul rapporto esistente tra le determinazioni retributive della contrattazione collettiva ed il ruolo e i poteri del giudice rispetto a tali definizioni, che vengono ritenute dalla giurisprudenza prevalente orientative e non vincolanti, legittimando, in alcuni casi, soluzioni giudiziali che si discostano dal contenuto retributivo del parametro collettivo, in ragione di fattori quali le specificità del contesto economico-produttivo. Tali ultime decisioni sono ritenute foriere di possibili, quanto concrete disuguaglianze tra i lavoratori, in quanto incidenti fortemente sulla fissazione del trattamento retributivo stesso.
Con riferimento al tema della definizione dei trattamenti retributivi ad opera della contrattazione collettiva, lo studio della struttura e delle modalità di funzionamento di tale complesso meccanismo induce a ritenere (se si guarda, da un lato, all’evoluzione storica del sistema, alle funzioni e alle competenze specifiche assegnate ai diversi livelli di contrattazione, ai principali istituti retributivi regolati e, dall’altro, al rapporto tra contratti collettivi di diverso livello) che il quadro attuale, caratterizzato dalle recenti
modifiche apportate al sistema di contrattazione dagli Accordi del 2009, mantiene elementi dell’assetto precedente ma al contempo li stravolge. Ad oggi, molte sono infatti le questioni interpretative che possono formularsi circa il funzionamento e la tenuta del sistema stesso con riferimento alla fissazione dei trattamenti economici dei lavoratori ed alla domanda principale che occorre porsi, ovvero se il principio della giusta retribuzione, ex art. 36 Cost., sia suscettibile ancora di valida attuazione da parte della contrattazione collettiva. Innanzitutto, i cambiamenti intervenuti nel sistema predetto (soprattutto se si osserva criticamente la tendenza di prediligere il secondo livello di contrattazione nella definizione dei trattamenti retributivi) rimettono in discussione le convinzioni a cui erano giunte la dottrina e la giurisprudenza in passato circa il ruolo determinante del contratto collettivo di primo livello nella fissazione dei minimi retributivi, come parametro di confronto rispetto al principio di cui all’art. 36 Cost..
La questione che, ad avviso di chi scrive, si pone ora, sempre più insistentemente, è stabilire se ed in che misura il contratto collettivo di secondo livello (ovvero le determinazioni in materia retributiva in esso contenute), possa assurgere al ruolo di parametro collettivo orientativo ugualmente affidabile, rispetto al parametro collettivo di primo livello, in quanto indicatore della determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Ulteriore elemento di riflessione critica è da ravvisarsi nella circostanza che sempre più spesso la contrattazione di secondo livello, in special modo aziendale, prevede clausole retributive che derogano, in situazioni specifiche, ai trattamenti retributivi previsti dal contratto collettivo di categoria, in ragione di fattori esterni, indipendenti dal contenuto della prestazione
lavorativa stessa, quali le criticità del mercato locale, o la necessità di sviluppo di nuova occupazione nel settore preso in considerazione. Tale tendenza risulta manifesta se si analizza il meccanismo di determinazione degli istituti retributivi al primo e secondo livello di contrattazione, l’attuale intreccio di competenze e funzioni, la valorizzazione sempre più crescente della contrattazione di secondo livello, soprattutto aziendale, la previsione da parte di quest’ultima di incentivare e sviluppare, da un lato, le c.d. forme di retribuzione variabile, ovvero il tentativo di ancorare sempre più le dinamiche retributive ad indicatori di produttività e redditività aziendale e, dall’altro, di perseguire una maggiore flessibilità derogatoria nella fissazione dei trattamenti economici spettanti ai lavoratori, rispetto alle previsioni del contratto nazionale di categoria.
Il concorso/conflitto che ne deriva, ossia tra contratti collettivi di diverso livello, che prevedono disposizioni antinomiche (in particolare rispetto alla quantificazione e qualificazione dei trattamenti retributivi), ripropone all’attenzione del dibattito questioni di origine antica. Si tratta del tema della delimitazione degli ambiti di competenza dei vari livelli di contrattazione e di quello dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo (in particolare del contratto collettivo di secondo livello che deroga in peius al contenuto economico/normativo del contratto collettivo di primo livello).
Infine si affronta il tema del dissenso individuale esercitabile dal lavoratore iscritto o non iscritto all’organizzazione sindacale che ha stipulato il contratto collettivo derogatorio o meno, oltre a quello del dissenso manifestabile dalla stessa organizzazione sindacale dissidente.
In conclusione, occorre volgere lo sguardo dall’analisi dei meccanismi di determinazione della retribuzione con specifico riferimento all’area del lavoro subordinato a quelle fattispecie di lavoro autonomo ricomprese nella categoria del c.d. lavoro autonomo debole, per riflettere adeguatamente sull’attuale situazione di inapplicabilità del principio della giusta retribuzione, ex art. 36 Cost., a tali categorie di lavoratori, per le quali è la stessa legge a prevedere tutele differenziate rispetto ai tradizionali lavoratori subordinati. Ciò contribuisce alla crescita di evidenti disuguaglianze che segnano una profonda cesura tra i c.d. lavoratori garantiti e gli altri.
Tale seria presa d’atto deve associarsi alla riflessione e alla prospettazione di nuovi possibili scenari che, con riferimento all’area del c.d. lavoro economicamente dipendente, guardino ad un’estensione delle tutele e, rispetto all’area del tradizionale lavoro subordinato, mirino ad un futuro sistema di contrattazione collettiva, anche in una prospettiva sovranazionale, che non abdichi alle funzioni e al ruolo del contratto collettivo di primo livello. Quest’ultimo deve rimanere centrale nella determinazione dei trattamenti economici dei lavoratori subordinati, rispetto alla tendenza in atto di disarticolazione del livello nazionale a vantaggio dell’estensione di una contrattazione di secondo livello, che opti, con sempre maggiore frequenza, per una flessibilità derogatoria dei trattamenti retributivi.
Confrontarsi sulle possibili soluzioni rispetto ai problemi enucleati significa ragionare concretamente sulla prospettiva di istituire (eventualmente anche nell’ordinamento italiano, al pari di altri paesi europei) una legge sul c.d. salario minimo legale, che possa definirsi concreta attuazione del principio costituzionale di cui all’art. 36 Cost., o ritenere che la scelta (per la storia e la
conformazione del sistema di relazioni industriali nel nostro paese e per gli assetti della contrattazione collettiva che ne sono derivati) debba ricadere ancora una volta nell’individuazione di risposte interne al sistema stesso, a cominciare dalla risoluzione di un importante nodo problematico ancora insoluto, ovvero l’assenza di una normativa ad hoc, nel settore privato, che fissi con certezza i meccanismi di operatività della rappresentanza sindacale (anche se un importante segnale di svolta in tal senso può essere rappresentato dall’accordo del 28 giugno scorso tra le principali Confederazioni sindacali e Confindustria), al fine di realizzare l’effetto dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi stipulati, ex art. 39 Cost., senza la quale, difficilmente, potranno trovare reale applicazione le proposte di miglioramento del funzionamento complessivo del sistema.
Introduzione
Dopo aver definito nelle pagine che precedono il tema oggetto della presente trattazione, si precisano a seguire le questioni in precedenza enucleate, al fine di renderne più completa la ricostruzione ed anticipare in tal modo i nodi tematici della ricerca.
A tale scopo, nel primo capitolo, si inquadrerà anzitutto il contenuto del principio della giusta retribuzione e si indagherà il tema dell’applicabilità di tale principio alla materia del Diritto del Lavoro, in particolare alla fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato, con attenzione alla prospettiva adottata in tal senso dall’art. 36 della Costituzione italiana.
Sul punto, si evidenzierà che il Diritto del lavoro si configura ab origine come strumento di risposta giuridica alla debolezza economica e sociale del lavoratore salariato, figura chiave del sistema salariale c.d. moderno, che individua al suo interno due nuove classi sociali di riferimento ed in contrapposizione tra loro, costituite da soggetti diversi per estrazione sociale e condizioni economiche. Il Diritto del lavoro delle origini reca con sé dei principi essenziali che possono dirsi costituiscano il fondamento etico della materia e che sono sintetizzati nell’espressione il lavoro non è una merce coniata dai primi economisti dell’800. Tali principi, se si guarda specificamente alla relazione di lavoro subordinato, sottintendono la necessità di prestare attenzione alla persona del lavoratore ed ai suoi diritti fondamentali e, tradotti in valori giuridici fortemente condivisi, vengono sintetizzati in norme che affermano il rispetto della persona e dei suoi attributi intrinseci, primo fra tutti quello della sua dignità.
Il c.d. fondamento etico permea di sé l’intera evoluzione del Diritto del lavoro, inteso come diritto che va a regolare un rapporto di potere diseguale qual è il rapporto di lavoro subordinato e rappresenta un punto di partenza per la successiva riflessione sulla impossibile scissione della persona del lavoratore dalla prestazione di lavoro subordinato, poiché l’implicazione della persona del lavoratore all’interno della relazione di lavoro subordinato impone necessariamente il rispetto della stessa e dei suoi diritti irrinunciabili che, in materia retributiva, sono contenuti nel precetto di cui all’art. 36 Cost., che si propone lo scopo di affrancare il lavoratore innanzitutto dal bisogno economico, obiettivo necessario alla realizzazione della dignità dello stesso.
Il fondamento etico nel Diritto del lavoro, tradotto in valori giuridici, impone dunque di considerare il lavoratore non alla stregua di una qualsiasi merce, sottintendendo all’interno della relazione di lavoro subordinato l’esistenza di un criterio di eguaglianza nello scambio (ossia di equivalenza tra il lavoro prestato e la retribuzione percepita), laddove nella definizione di tale equilibrio si individua il valore sociale del lavoro o la sua non completa mercificazione, ovvero il valore della persona implicata nella relazione di lavoro. Tale rapporto di eguaglianza che, ad avviso di chi scrive, deve sussistere necessariamente nella fattispecie di lavoro subordinato, intesa come relazione di scambio lavoro/retribuzione, ben può dirsi enucleato all’art. 36 Cost., che richiama al contempo il concetto di eguaglianza nello scambio, intesa come corrispettività che deve sussistere tra lavoro e retribuzione e quello di giustizia sociale, intesa come sufficienza della retribuzione stessa, a garanzia dei diritti fondamentali della persona.
Con riferimento all’applicazione del principio della giusta retribuzione nel Diritto del lavoro, si evidenzierà come le fonti sovranazionali, internazionali ed europee, sottolineano il necessario legame che deve sussistere tra l’attuazione effettiva di tale principio e la determinazione dei trattamenti retributivi ad opera della contrattazione collettiva, ossia la preferenza accordata alla contrattazione collettiva nel processo di individuazione del giusto salario. Nella prospettiva data dall’ordinamento interno, si specificherà la rilevanza attribuita all’elemento lavoro come strumento di tutela e rispetto dei valori della persona; si procederà poi ad analizzare il contenuto specifico di cui all’art. 36 Cost. e i rispettivi criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione ed infine, il fondamentale rapporto intercorrente tra l’art. 36 e l’art. 39 Cost., ossia il tema della delega quasi esclusiva affidata dai Costituenti alla contrattazione collettiva nella definizione della retribuzione costituzionale. Si illustrerà quindi la relazione esistente tra l’attuazione del principio della giusta retribuzione e la determinazione dei trattamenti retributivi ad opera della contrattazione collettiva, ovvero si esaminerà la questione dell’individuazione del contratto collettivo parametro della retribuzione sufficiente, ex art.
36 Cost., in un sistema qual è quello italiano di inattuazione dell’art. 39 Cost., ossia in assenza di specifici meccanismi legislativi che diano piena garanzia dell’effettiva rappresentatività dei soggetti stipulanti i contratti collettivi. Si darà conto del dibattito presente in dottrina e in giurisprudenza e delle riflessioni sull’opportunità di individuare il c.d. contratto collettivo parametro, ai fini della determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., non più nel contratto nazionale, bensì in quello di livello inferiore, soprattutto aziendale e sull’idoneità di tale ultimo contratto a fungere da relativo
parametro, ex art. 36 Cost.. A tale proposito, si preciserà la necessità, emersa dagli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali prevalenti sul tema, della valutazione giudiziale circa l’effettiva congruità del parametro collettivo, qualunque esso sia, al contenuto retributivo di cui all’art. 36 Cost., soprattutto in una situazione, qual è quella italiana, dove a garanzia del pluralismo sindacale e, dati gli incerti criteri di misurazione della rappresentatività sindacale nel settore privato, è presente la problematica dell’esistenza di una pluralità di contratti collettivi all’interno della stessa categoria o settore merceologico, sottoscritti da rappresentanti di organizzazioni sindacali, talvolta, di dubbia rappresentatività.
Si illustreranno poi i temi che riguardano il contenuto precettivo di cui all’art. 36 Cost., il dibattito in dottrina e in giurisprudenza relativo alla non perfetta coincidenza tra il concetto di retribuzione, ex art. 36 Cost. ed il trattamento retributivo minimo previsto dal contratto collettivo c.d. parametro, a tal punto che la giurisprudenza prevalente ha sposato la tesi della natura orientativa del parametro collettivo, con la possibilità per il giudice di discostarsi, in presenza di fattori che condizionino a livello territoriale/locale la determinazione della retribuzione, dai contenuti retributivi del contratto collettivo stesso. Tale ultimo tema verrà introdotto nel paragrafo in cui si tratterà della c.d. flessibilità salariale geografica o su base territoriale, fenomeno che sottintende l’eventuale possibilità per il giudice di correzione al ribasso del contenuto di cui alle clausole retributive del contratto collettivo parametro, in presenza di specifiche situazioni o condizioni territoriali.
Infine, a conclusione di tale primo capitolo, uno sguardo sarà volto all’approfondimento dei meccanismi di differenziazione salariale su base territoriale ad opera della
contrattazione collettiva, autorizzata da interventi legislativi, di cui i tipici esempi nell’esperienza italiana possono ravvisarsi nei c.d. contratti di riallineamento retributivo e/o nella c.d. contrattazione d’area, fenomeni che incoraggiano l’autonomia collettiva a favorire interventi di flessibilità salariale rispetto ai trattamenti retributivi previsti dagli stessi contratti collettivi nazionali. Si rifletterà sulla compatibilità di tali operazioni con il contenuto di cui all’art. 36 Cost., ovvero sulla relazione esistente tra tali differenziazioni territoriali del trattamento retributivo e l’esigenza di applicazione uniforme del contenuto di cui all’art. 36 Cost., soprattutto in ipotesi di contrasto tra previsioni di contratti collettivi di diverso livello, a cui si aggiunge un’altra problematica questione, ovvero quella della determinazione della rappresentatività effettiva dei soggetti stipulanti tali contratti, al fine di evitare fenomeni legati all’applicazione di c.d. contratti al ribasso o pirata.
Nel secondo capitolo si approfondirà anzitutto il tema della determinazione effettiva dei trattamenti retributivi ad opera della contrattazione collettiva, alla luce della sua evoluzione storica e del cambiamento intervenuto nella struttura complessiva del suo assetto con gli Accordi del 2009, che hanno abrogato il precedente sistema delineato dal Protocollo del 1993. Si ricostruiranno le fasi di tale evoluzione per quel che concerne i livelli di negoziazione, a cui corrispondono i diversi soggetti stipulanti, con particolare attenzione al rapporto tra contrattazione di primo e secondo livello e alla tendenza manifestata dal Legislatore e dagli attori sindacali di evidente favor nei confronti del livello decentrato di contrattazione, soprattutto con riferimento alla determinazione dei trattamenti economici dei lavoratori in situazioni
caratterizzate da specifiche criticità aziendali e/o territoriali.
Sul punto, si evidenzierà che il sistema di contrattazione collettiva si è evoluto da una situazione di rigido centralismo, caratterizzata dalla preminenza degli Accordi Interconfederali dei primi anni’50, a quella della valorizzazione del contratto nazionale di categoria e, successivamente, del secondo livello di contrattazione, salvo brevi ritorni alla centralizzazione del sistema negli anni’80. Sul piano delle competenze affidate ai diversi livelli di contrattazione si chiariranno le funzioni e gli istituti retributivi disciplinati dai vari contratti: il contratto collettivo aziendale dall’originaria funzione residuale otterrà piena legittimazione nel sistema di contrattazione collettiva a partire dalla fine degli anni’50 per la sua funzione di integrazione al contratto nazionale di categoria, in un sistema, qual era allora (ed in certa misura anche adesso), articolato e di comunicazione tra i due livelli di contrattazione, ma impostato su competenze specifiche e dunque strutturalmente gerarchico, incentrato sulla posizione predominante del contratto di categoria che, attraverso il meccanismo delle c.d. clausole di rinvio, determinava gli istituti, le materie e gli ambiti di competenza dei livelli inferiori. Superata la fase più conflittuale, della c.d. contrattazione aziendale anarchica della fine degli anni’60 (un sistema di contrattazione collettiva non più rispettoso delle norme di coordinamento tra i diversi livelli di contrattazione, proprio di un periodo storico quale quello della fine degli anni ’60 ad alto conflitto sociale) si tratterà del ritorno, nel corso degli anni’80, ad un sistema centralistico qual è quello delineato dal Protocollo dell’83, integrato e ripreso successivamente in alcuni suoi elementi essenziali dall’Accordo del’93. Il nuovo assetto della contrattazione collettiva che discende
dall’Intesa del’93 si fonderà nuovamente sui due livelli di contrattazione, con le rispettive competenze assegnate al contratto nazionale (fissazione degli standard di trattamento economico/normativo per i lavoratori subordinati, determinazione del meccanismo di fissazione dei salari con riferimento al tasso di inflazione programmata) ed alla contrattazione di secondo livello (ancoraggio delle retribuzioni ai criteri di produttività e redditività aziendale, con l’erogazione dei c.d. premi di risultato). Si vedrà come lo scopo dichiarato degli attori sindacali e del Legislatore negli ultimi anni sia stato quello di incentivare lo sviluppo della contrattazione aziendale a partecipare sempre di più sul terreno della fissazione complessiva del trattamento retributivo dei lavoratori, obiettivo che continua a suscitare critiche circa la compatibilità di tali operazioni con il rispetto del contenuto di cui all’art. 36 Cost., giacchè in tal modo potrebbe paventarsi il rischio di un’erosione completa delle prerogative del contratto nazionale di categoria, soprattutto con riferimento alla determinazione dei trattamenti retributivi minimi per gli stessi lavoratori subordinati.
Sempre in materia di determinazione dei trattamenti retributivi da parte della contrattazione collettiva si illustrerà l’orientamento dottrinale che distingue all’interno del trattamento economico globalmente considerato una quota fissa ed una quota variabile di retribuzione propriamente intesa, la prima, la sola che soddisfi i requisiti di cui all’art. 36 Cost., la seconda, invece, collegata agli andamenti e ai risultati di profitto dell’impresa. Si analizzerà criticamente la tesi avanzata dall’indirizzo dottrinale prevalente tesa a giustificare ed incentivare l’espansione della seconda quota a svantaggio della prima, ignorando il problema di compatibilità, ex art. 36 Cost., che potrebbe porsi rispetto a tali meccanismi che
prevedono una rilettura del contenuto della struttura della retribuzione.
Successivamente, si approfondiranno le competenze affidate ai diversi livelli di contrattazione, nazionale e aziendale, anche nell’attuale sistema di contrattazione collettiva, così come modificato dagli Accordi del 2009, per esemplificare le principali differenze che caratterizzano l’attuale sistema rispetto ai precedenti, una tra tutte, il c.d. conflitto intersindacale originato dalla sigla non unitaria degli Accordi del 2009, che ha causato una certa disgregazione nel sistema di relazioni industriali, realizzando una forte competizione tra i sindacati di categoria e non solo. Tale rottura si registra se si guarda anche ai principali rinnovi dei contratti di categoria di vari settori produttivi a partire dal 2009.
Nel merito, si evidenzieranno le relative competenze assegnate ai due livelli di contrattazione nel sistema definito dagli Accordi del 2009: in particolare, il meccanismo di adeguamento del salario all’inflazione, competenza propria del contratto collettivo nazionale, negli ultimi anni ha mostrato segnali di cedimento, non riuscendo più a garantire la conservazione del valore reale dei salari, a tal punto che è stato oggi sostituito dall’utilizzo di un indice previsionale dell’inflazione, elaborato sulla base di un indicatore denominato IPCA, depurato dai prezzi dei beni energetici importati, accolto da non poche critiche rispetto alla sua reale idoneità a fungere da parametro in base al quale calcolare gli aumenti salariali e all’effettiva incidenza sugli adeguamenti stessi. Sempre in materia di competenze del contratto collettivo di primo livello si esaminerà come la recente previsione di un elemento di garanzia susciti dubbi circa l’adeguatezza di tale strumento ad incentivare la diffusione della contrattazione aziendale, viste le concrete modalità di
erogazione del beneficio stesso. In materia di contrattazione di secondo livello i nuovi Accordi del 2009 prevedono una competenza più ampia riservata al contratto aziendale/territoriale per tutte quelle materie non regolamentate o regolate solo in parte dal contratto collettivo nazionale e viene rafforzato il legame tra salario e produttività di cui dovrebbe essere principale artefice la contrattazione di secondo livello, in particolare aziendale.
Si approfondirà, inoltre, la questione della possibilità di prevedere, da parte della contrattazione di secondo livello, le c.d. clausole d’uscita, ovvero accordi temporanei in deroga alle previsioni economico/normative del contratto collettivo nazionale di categoria, già proposte al tempo dei lavori della Commissione Giugni di verifica del Protocollo del’93 e introdotte in via sperimentale nel testo di alcuni rinnovi di contratti di categoria quale ad esempio il CCNL del 2006 del settore chimico/farmaceutico. Le perplessità più forti in tal senso riguardano l’ammissibilità di tali clausole ed i limiti all’espansione del loro contenuto, soprattutto per quel che concerne la deroga in peius ai contenuti economici del contratto nazionale di categoria, con riferimento alla compatibilità di tali previsioni con il contenuto di cui all’art. 36 Cost., oltre alla circostanza che in tal modo il contratto collettivo di secondo livello acquista maggiore visibilità, a cui corrisponde specularmente il ridimensionamento del contratto nazionale di categoria.
Nel terzo ed ultimo capitolo si richiameranno, con dettagliata analisi, alcuni temi di approfondimento su specifiche questioni interpretative sollevate dalla struttura e dalle modalità di funzionamento proprie del nuovo assetto di contrattazione collettiva, definito dagli Accordi del 2009. In particolare, si tratterà delle tematiche scaturite dalla firma di accordi nazionali o aziendali separati, a sigla
dunque non unitaria e, dagli accordi soprattutto di secondo livello, che derogano in peius alle clausole normative ed economiche contenute nel contratto nazionale di categoria, con riferimento ai limiti di ammissibilità, contenuto e applicabilità di tali deroghe. Sull’ammissibilità delle stesse ed il possibile contrasto con il precetto di cui all’art. 36 Cost., che per giurisprudenza costante si ritiene indicativamente rispettato dalle previsioni di cui ai trattamenti retributivi minimi stabiliti dallo stesso contratto collettivo di categoria, la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria hanno inizialmente riconosciuto la natura di contratto collettivo anche al contratto aziendale e, in una seconda fase, ne hanno legittimato la competenza a derogare in peius il contenuto delle clausole retributive e normative del contratto di categoria, anche se hanno ammesso tale possibilità entro certi limiti, che riguardano soprattutto l’imposizione di vincoli all’espansione del contenuto della deroga e all’applicabilità del contratto derogatorio anche ai lavoratori iscritti all’organizzazione sindacale che non lo ha stipulato, o ai lavoratori dissenzienti del sindacato stipulante (ossia il tema dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale derogatorio).
Sull’incidenza dei c.d. parametri estrinseci nella determinazione della retribuzione, ovvero sulle causali che interessano le deroghe in peius ai trattamenti retributivi previsti dal contratto nazionale di categoria (quali ad esempio fattori soggettivi, ossia difficoltà economiche della parte datoriale, o oggettivi, quali le condizioni del mercato locale), così come sull’ampiezza del contenuto di tali deroghe, si chiarirà il contrasto in dottrina e in giurisprudenza, non ancora risolto, sulla compatibilità di tali clausole con il contenuto di cui all’art. 36 Cost., soprattutto se si guarda all’ipotesi di un contenuto della
deroga più ampio che vada ad incidere anche sui c.d. trattamenti retributivi minimi previsti dal contratto collettivo di categoria, che qualificherebbero il c.d. nucleo duro del trattamento economico, a cui rinvia il contenuto di cui all’art. 36 Cost.
Si tratterà poi del tema, a questo strettamente collegato, dell’idoneità del contratto collettivo aziendale a fungere da parametro orientativo, in sostituzione del contratto collettivo nazionale di categoria, per la definizione della retribuzione proporzionata e sufficiente, ex art. 36 Cost. e dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale, che preveda discipline peggiorative rispetto a quelle precedentemente predisposte dagli stessi contratti nazionali o aziendali, in ragione di difficoltà economiche o esigenze di sviluppo occupazionale nell’impresa, rispetto al quale le posizioni in dottrina e in giurisprudenza si caratterizzano per la loro disomogeneità e di cui si darà ampio conto, privilegiando gli indirizzi attualmente prevalenti.
Sulla possibilità di esercitare per il lavoratore il dissenso individuale e/o, per l’organizzazione sindacale quello collettivo, in particolare rispetto a contratti collettivi aziendali non condivisi e non stipulati, soprattutto se derogano in peius alle clausole economiche/normative del contratto nazionale di categoria, si vedrà come tale problematica questione assuma contorni di criticità accentuata e di vera e propria attualità, se si guarda agli ultimi episodi di cronaca del sistema di relazioni industriali in Italia. Si chiariranno nel merito le posizioni in dottrina e in giurisprudenza che divergono, da un lato, nel ritenere vincolante il successivo contratto collettivo, dall’altro, nell’ammettere come necessario l’esercizio del dissenso individuale e soprattutto collettivo da parte dei lavoratori o dell’organizzazione sindacale non stipulante l’accordo.
Anche sull’ultimo tema del concorso/conflitto tra contratti collettivi di diverso livello, soprattutto con riferimento all’ipotesi di successione di un contratto aziendale che deroga in peius alle previsioni economico/normative del precedente contratto nazionale di categoria, si passeranno in rassegna i principali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia ed i criteri elaborati per la risoluzione dei possibili contrasti: la giurisprudenza prevalente ricorre al criterio della specialità/competenza, ritenuto il più idoneo a risolvere il contrasto tra contratti collettivi di diverso livello che prevedano disposizioni incompatibili, in un sistema di contrattazione collettiva, qual è quello attuale, caratterizzato da un coordinamento funzionale tra i diversi livelli di contrattazione, che si basa sull’esistenza di regole in ordine alla ripartizione delle competenze contrattuali. Si preciserà, tuttavia, come non infrequenti siano i casi problematici di violazione dei limiti della propria competenza da parte del contratto collettivo di livello inferiore, soprattutto con riferimento al contratto aziendale derogatorio in peius delle clausole economico/normative del contratto collettivo di categoria, per cui la possibilità di esercitare il dissenso da parte dei lavoratori o dell’organizzazione sindacale non aderente all’ipotesi di accordo diventa l’unica vera alternativa alla vincolatività di un regolamento contrattuale non scelto.
Nelle conclusioni si proporranno spunti critici con riferimento all’attuale assetto della contrattazione collettiva italiana e delle competenze in materia retributiva delineate ai vari livelli di contrattazione, stante l’inattuazione dell’art. 39 Cost. e dato atto dell’assenza di una legislazione ad hoc sui meccanismi di misurazione della rappresentatività sindacale nel settore del lavoro privato, anche se la recente intesa tra le Confederazioni sindacali e Confindustria del 28 giugno scorso può
rappresentare un precedente importante per una graduale risoluzione del problema. Si ribadirà, con riferimento specifico alla struttura del sistema di contrattazione collettiva, la precipua funzione ed il ruolo fondamentale del contratto collettivo di categoria, elemento centrale nella determinazione dei trattamenti economici dei lavoratori, rispetto alla prospettiva di disarticolazione del livello nazionale, a vantaggio dell’ampliamento di funzioni del contratto di secondo livello. Si cercherà di tratteggiare possibili prospettive per la risoluzione del problema della non perfetta coincidenza tra il trattamento economico minimo di cui alle previsioni dei contratti collettivi e la nozione di giusta retribuzione di cui all’art. 36 Cost., quale ad esempio quella di istituire anche nell’ordinamento italiano una legge sul c.d. salario minimo legale che possa definirsi concreta attuazione del principio costituzionale di cui all’art. 36 Cost., o di evidenziare se, invece, la soluzione, per la struttura e la conformazione del sistema di contrattazione collettiva attuale, non possa prescindere da una ricerca interna al sistema stesso, migliorandone le eventuali problematiche strutturali e le modalità di funzionamento.
Si sottolineeranno, infine, le questioni controverse sottese all’inapplicabilità del principio della giusta retribuzione, ex art. 36 Cost., a quelle fattispecie di lavoro autonomo che si collocano al confine tra le tradizionali categorie del lavoro subordinato ed autonomo, dove è la stessa legge a prevedere tutele differenziate e si prospetteranno possibili soluzioni condivise, che tengano conto, da un lato, delle differenziazioni oggi presenti nell’attuale mercato del lavoro, dall’altro, della richiesta sempre più insistente di invocazione di tutele comuni che interessino la generalità dei lavoratori e delle condizioni di lavoro, al di là delle specifiche classificazioni sul piano giuridico, al fine di
restituire centralità e dignità all’elemento lavoro ed ai lavoratori stessi.
1. Il principio della giusta retribuzione e la prospettiva costituzionale dettata dall’art. 36.
1.1 L’applicazione del principio della giusta retribuzione nel Diritto del lavoro
1.1.1 L’avvento di un nuovo sistema economico come prerequisito costitutivo della nascita del “moderno” Diritto del lavoro
Il Diritto del lavoro “moderno” nasce e si sviluppa in una fase storica caratterizzata da una evidente cesura con il sistema di vita economico/sociale e il modello politico di Stato precedenti. La rivoluzione industriale che irrompe sulla scena tra la fine del’700 e la seconda metà dell’800, inizialmente nell’Europa del centro-nord e, successivamente anche in Italia, rappresenta un momento storico cruciale per la nascita delle moderne città metropolitane, poiché causa sempre più frequenti fenomeni di inurbamento che interessano masse di inoccupati nelle prime aree industriali e che seguono alla crisi del modello sociale agricolo/feudale. Tale fase, determinata dall’avvento della grande impresa industriale, genera la creazione di un nuovo sistema economico, il sistema salariale moderno2. Quest’ultimo afferisce all’area dei sistemi economici liberisti3, in cui le modalità del possesso e della distribuzione della proprietà generano, conseguentemente, uno specifico assetto dei rapporti di produzione. Tale sistema è definito moderno4 da una certa
2 X. Xxxx, I salari, Einaudi, 1965, pag. 14 e ss.;
3 Ivi;
4 Ivi;
dottrina economica poiché, a differenza dei precedenti5, risulta caratterizzato da un diverso grado di libertà economica del lavoratore, che non è sottoposta a restrizioni legali, perché affermata dalle Costituzioni moderne e dal Legislatore, ma a restrizioni economiche6i. Ovvero, mentre i diritti di libertà ed eguaglianza della persona vengono proclamati solennemente nelle Dichiarazioni di principio e nelle prime Costituzioni del tempo, le condizioni reali di vita della classe lavoratrice evidenziano l’impossibilità di un’auto-sopravvivenza, causata dall’assenza di un’adeguata disponibilità di strumenti economici per affrancarsi dai bisogni più elementari dell’esistenza. Il sistema salariale moderno risulta dunque fondarsi sulle restrizioni economiche degli appartenenti alla classe lavoratrice in quanto, privi dei mezzi necessari per esercitare la propria indipendenza dal punto di vista economico, mettono a disposizione dei pochi detentori dei mezzi di produzione le proprie energie lavorative, in cambio di un corrispettivo economico. In tale assetto economico/sociale si estrinseca il binomio lavoratore salariato/padrone, ovvero la sussistenza di
5 Ivi, laddove l’Autore precisa che il sistema salariale moderno si differenzia nettamente dai sistemi salariali precedenti, arcaici o protomoderni, perchè costrittivi, ossia costruiti o sulla totale assenza di libertà legali attribuite al lavoratore (è il caso del sistema schiavista in cui il lavoratore era considerato l’oggetto di proprietà del signore-padrone), o sulla parziale attribuzione di libertà legali al lavoratore (nell’ipotesi del sistema di servitù medievale). Tali sistemi si evolveranno nel successivo modello salariale dell’età moderna, quello del lavoratore-artigiano fiero dell’appartenenza alla propria categoria professionale, fondata sull’autonoma organizzazione del lavoro da parte dei propri iscritti e sulla libera realizzazione dei loro prodotti;
6 Ivi;
soggetti diversi per estrazione e condizioni sociali, ossia diversi nel diritto di proprietà e per opportunità economiche.7 Questo margine di libertà economica, inizialmente ridotto per il lavoratore, si accrescerà progressivamente quando all’interno del sistema concorreranno ad alterarne gli equilibri dati una pluralità di fattori tra loro eterogenei quali, in primis, la presenza di un mercato del lavoro meno rigido e monopolistico, la diffusione di una legislazione sociale che possa garantire protezione e tutela alle classi economicamente e socialmente svantaggiate, l’efficace azione di organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori che rendano effettivi i diritti sindacali/previdenziali enunciati a livello di legislazione e che produrranno l’espansione progressiva dello spazio di libertà economica del lavoratore8.
1.1.2 Il fondamento etico alla base del Diritto del lavoro: il lavoro non è una merce
1.1.2.1 La riflessione filosofica/giuridica sul principio il lavoro non è una merce così come si è storicamente affermata nel Diritto del lavoro
Poste le premesse che attengono alla struttura economica e sociale del moderno sistema salariale, occorre ora mettere in luce quel nucleo essenziale di principi che qualifica ab origine il Diritto del lavoro come strumento di risposta giuridica alla debolezza economica e sociale del lavoratore salariato o, rectius, lavoratore subordinato, nella relazione sociale e contrattuale di lavoro. Quel nucleo fondamentale di valori che, può affermarsi, costituisce il fondamento
7 Ivi;
8 Ivi;
etico del Diritto del lavoro, perché ne rappresenta la stessa ragion d’essere, la sua propria essenza originaria.
Il tema del fondamento etico nel Diritto del lavoro o, rectius, nel rapporto di lavoro, è un tema centrale, coessenziale all’esistenza e alla stessa natura di un rapporto giuridico peculiare, ossia un rapporto che implica la persona del lavoratore nello svolgimento della prestazione lavorativa. L’attenzione alla persona del lavoratore e tutte le suggestioni teoriche che tale riflessione richiama sono significativamente racchiuse nell’espressione il lavoro non è una merce, uno dei principi basilari riconosciuti anche dall’ordinamento internazionale in materia di lavoro.
Il primo ad affermare l’esistenza e la rilevanza di tale fondamento nel Diritto del lavoro è stato l’economista irlandese Xxxxxx che formulò, nel 1880, la famosa espressione il lavoro non è una merce9, in occasione di uno dei primi congressi delle associazioni sindacali inglesi a Dublino. Per Xxxxxx la mancata asserzione del fondamento etico nel rapporto di lavoro significherebbe l’inevitabile, negativa regolamentazione dello stesso da parte delle sole ed esclusive leggi del mercato che, per loro intrinseca natura, non hanno un contenuto etico10.
Che una caratteristica irrinunciabile del rapporto di lavoro sia il contenuto etico sintetizzato nel messaggio il lavoro non è una merce è confermata dall’analisi compiuta sulla varietà delle fonti dell’epoca, ora politico/legislative, ora religiose, ora rappresentate dalle istanze dei movimenti
9 J. K. Xxxxxx, in P. O. Xxxxxxx, Il lavoro non è una merce, un contributo irlandese al diritto del lavoro, in DLRI, 1996, pag. 295 e ss.;
10 Ivi;
sociali e di lotta11. Il Diritto del lavoro che nasce e si sviluppa al tempo della rivoluzione industriale e dell’avvento di un moderno sistema salariale accoglie, dunque, al suo interno il fondamento etico del rispetto della persona del prestatore di lavoro e dei suoi diritti fondamentali, perché contraente atipico12 in quanto debole, ossia necessario di protezione dai rischi delle dinamiche del mercato. In tal senso si può pienamente condividere l’affermazione di Xxx allorchè evidenzia come il Diritto del lavoro delle origini cominciò a progettare un processo di liberazione dalle servitù più dolorose, con moti talvolta ondulatori, talvolta sussultori, con accelerazioni e ripensamenti, proponendo, nella sostanza, strumenti idonei a garantire l’esecuzione del lavoro in condizioni e con modalità rispettose della persona, del suo corpo e della sua mente13. Tutta l’evoluzione del Diritto del lavoro immediatamente susseguente può dirsi orientata al perseguimento di tali obiettivi.
Il fondamento etico permea di sé l’intera evoluzione del Diritto del lavoro, rappresentando un punto irrinunciabile di partenza per la successiva riflessione sulle importanti questioni della possibile scissione della persona del lavoratore dalla prestazione di lavoro e della natura del vincolo di subordinazione che caratterizza la posizione del lavoratore salariato14, di cui si tratterà nel prosieguo. Fondamento etico che, se elaborato e tradotto in valori positivi, interiorizzati dalla coscienza collettiva al punto da
11 P. Loi, La sicurezza. Diritto e fondamento dei diritti nel rapporto di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2000, pag. 176;
12 Ivi, pag. 177;
13 X. Xxx, Sul rapporto capitale-lavoro, Parafrasi del preambolo della Dichiarazione di Filadelfia, in Studi in onore di X. Xxxxxx, Cedam, Padova, 2005, vol. II, pag. 1054;
14 Ivi, pag. 1055;
rappresentare quella che Xxxx definisce un’universalità di valori, che si fonda su principi e regole condivise15, deve poi opportunamente estrinsecarsi in principi giuridici, e quindi, in leggi, sovraordinate agli opposti interessi delle parti, quest’ultimi sintetizzati invece, nel rapporto di lavoro, nel contratto di diritto comune, che sancisce una presunta e insoddisfacente parità formale tra i due contraenti, poiché non corrispondente ad un’effettiva eguaglianza sostanziale16. Lungi dal sostenere che il diritto deve necessariamente fondarsi ed essere permeato dall’etica, può affermarsi che, tanto più nell’ambito del Diritto del lavoro, il fondamento etico del rispetto della persona del lavoratore e dei suoi attributi essenziali, primo fra tutti la dignità, tradotto nell’espressione il lavoro non è una merce, debba trasformarsi in valori e principi socialmente condivisi, divenendo strumento di costruzione e di arricchimento del diritto positivo. In particolar modo, nella materia retributiva, l’evoluzione del contenuto etico del rispetto della dignità della persona in un valore socialmente condiviso e poi tradotto in una norma giuridica è rappresentata dall’art. 36 Cost. italiana che, attribuendo al lavoratore il diritto ad una retribuzione tale da garantirgli un’esistenza libera e dignitosa, si propone di realizzare l’affrancamento del lavoratore dal bisogno economico. Proprio la formulazione giuridica del diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata e sufficiente tale da assicurargli la conduzione di un’esistenza libera e dignitosa rappresenta l’applicazione del principio etico, socialmente condiviso, del rispetto della persona e della sua dignità, poichè la liberazione del
15 I. Xxxx, in X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxx, L’idea di giustizia da Xxxxxxx a Xxxxx, Laterza, 1997, pag. 179 e ss.;
16 X. Xxx, op. cit., pag. 1056;
lavoratore dalle restrizioni economiche è elemento coessenziale all’estrinsecazione della dignità dello stesso.
1.1.2.2 Il corollario del principio il lavoro non è una merce: l’impossibilità di scindere nella relazione contrattuale di lavoro la persona del lavoratore dalla sua prestazione
Posto l’assunto di un fondamento etico, che necessariamente plasma le norme del Diritto del lavoro, occorre ora indagare il tema della possibile scissione della persona del lavoratore dalla prestazione di lavoro, ovvero se sia possibile ritenere il lavoro (bene-xxxxxxx00) una variabile indipendente dalla persona del prestatore di lavoro, tema ritenuto comunemente un corollario del principio esplicitato.
Sul punto alcune significative riflessioni in dottrina hanno evidenziato talora un rapporto di interrelazione, in altri casi di indipendenza, tra le due entità del binomio lavoro- lavoratore.
Se si guarda all’affermazione di Xxxxxx, che si è richiamata in precedenza, e dunque al principio del fondamento etico nel Diritto del lavoro come da lui inteso, si può dedurre, nella prospettiva dell’economista irlandese, una concezione non mercantile del lavoro18, che asserisce che il lavoro non possa ritenersi un’entità indipendente e dunque slegata dalla persona del lavoratore, poiché nel rapporto di lavoro vi è una radicale implicazione della persona stessa del lavoratore. Xxxxxx, Xxxxxx afferma che nella relazione contrattuale di lavoro non possa scindersi il
00 X. X. Xxxxxxxxxxx, Xx “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT-99/2010, pag. 2;
18 Ivi, pag. 8;
lavoro della persona, inteso come capacità lavorativa19, che viene messa a disposizione dallo stesso, dal prestatore di lavoro.
Molto diversa appare invece la clausola sociale contenuta nel Trattato di Versailles del 1919 che afferma il lavoro non è solo una merce20, propendendo quindi per la tesi del lavoro come merce21, o c.d. merce pregiata22. Tale seconda concezione ritiene dunque il lavoro un’entità diversa dalla persona del lavoratore, con un proprio ed autonomo valore, che può definirsi non un valore di mercato, ma un valore sociale23, che deve essere stabilito nel rispetto del rapporto di eguaglianza nello scambio lavoro/retribuzione, a tutela della soddisfazione dei bisogni fondamentali del lavoratore, tra cui quello del diritto ad un’esistenza libera e dignitosa.
Delle due significative riflessioni, che hanno caratterizzato il dibattito nella dottrina giuslavoristica, quella che ha avuto maggior seguito è la tesi di Xxxxxx della decisa negazione del valore mercantile del lavoro24 e della stretta interrelazione lavoro/prestatore di lavoro nella relazione contrattuale di lavoro, da cui è scaturita la progressiva riflessione degli studiosi sul tema della persona del lavoratore, con riferimento al suo bagaglio irrinunciabile di
19 Ivi, pag. 13;
20 cfr. Trattato di Versailles, 1919, art. 427: “First. The guiding principle above enunciated that labour should not be regarded merely as a commodity or article of commerce”, in M. V. Ballestrero, Le “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, cit., pag. 7;
21 Ivi;
22 X. Xxx, op. cit., pag. 1068;
23 Idem;
00 X. X. Xxxxxxxxxxx, Xx “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, cit., pag. 8;
diritti fondamentali in quanto persona e come lavoratore. Da ultimo la Dichiarazione di Filadelfia del 1944 recepisce tale assunto il cui contenuto rappresenta un postulato fondamentale di politica protettiva del lavoratore25.
La tesi dell’impossibilità di scindere la persona del prestatore di lavoro dall’entità “lavoro” viene gradualmente recepita anche dalla dottrina giuridica italiana e tale acquisizione di principio influisce significativamente sulla successiva concezione del Diritto del lavoro come diritto speciale rispetto al Diritto civile o diritto dei beni26. Se infatti per il Diritto civile il contratto di lavoro, alla stregua degli altri contratti di diritto comune, è un contratto caratterizzato dall’eguaglianza formale dei contraenti o, rectius, dalla parità apparente degli stessi, la tesi dell’accezione non mercantile del lavoro imprime al contratto di lavoro la qualifica di contratto speciale, basato su una disparità di forza contrattuale, che sottintende una disuguaglianza sostanziale tra lavoratore subordinato e datore di lavoro e, l’implicazione della persona del lavoratore nel rapporto di lavoro, che rimanda ad una caratterizzazione fortemente in chiave personalistica del rapporto di lavoro.
Questa caratterizzazione sarà fortemente accentuata nella prospettiva dettata dalla Carta costituzionale che, all’interno del suo disegno organico di norme, guarda al lavoratore subordinato come al perno di un sistema di garanzie di diritti fondamentali. Le disposizioni costituzionali considerano infatti la prospettiva dell’implicazione della persona del lavoratore nel contratto
25 X. Xxxxxx, Il lavoro non è una merce: una formula da rimeditare, in LD, 1997, pag. 563;
00 X. X. Xxxxxxxxxxx, Xx “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, cit., pag. 9;
di lavoro da un ulteriore punto di vista, oltre a quello della semplice tutela della parte debole del rapporto, ovvero della considerazione del coinvolgimento in esso della sua intera personalità27. Se si guarda all’art. 36 Cost. emerge come la determinazione dell’elemento retributivo debba rispecchiare non solo il carattere della corrispettività, ma anche garantire quel diritto personale e sociale, fondamentale del lavoratore alla conduzione di una vita dignitosa, quel diritto di cittadinanza sociale28, attraverso cui egli possa realizzare compiutamente la sua personalità. L’assunto della inscindibilità nella relazione contrattuale di lavoro della persona del lavoratore dal proprio lavoro è stato prepotentemente posto in discussione e si è imposto nuovamente al centro della riflessione nel dibattito odierno, alla luce delle recenti tendenze evolutive del Diritto del lavoro. La concezione personalistica del rapporto di lavoro ed il modello antropologico di lavoratore29 accolti dalla Carta costituzionale e dalla legislazione successiva fino agli anni ’70 appaiono oggi ridimensionati, a fronte dell’emergere di nuove esigenze sottese alle leggi dell’economia e del libero mercato. Interprete attento e autorevole dell’attuale fase di crisi d’identità del Diritto del lavoro è Xxxxx Xxxxxx00, che propone un ripensamento, all’interno della relazione di lavoro, del rapporto lavoro/persona del lavoratore, in un’ottica di possibile scissione di due entità ritenute autonome e indipendenti. Nella visione di Xxxxxx la
27 X. Xxxxxxxxx, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1967, pag. 173 e ss.;
00 X. Xxxxx, Xxxxxxxxxxxx sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, in LD, 2009, pag. 35 e ss;
00 X. X. Xxxxxxxxxxx, Xx “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, cit., pag. 13;
30 X. Xxxxxx, in ivi;
distinzione tra persona e corpo del lavoratore consente di rimettere al centro del contratto di lavoro il lavoratore- oggetto per portare il lavoratore-soggetto fuori dalla subordinazione, recuperandone la libertà e l’autonomia31, ovvero, in altri termini, Supiot rilegge la correlazione lavoro/persona del lavoratore nella relazione contrattuale di lavoro ritenendo il solo corpo del lavoratore, inteso come corpo fisico, l’oggetto del contratto del lavoro e della conseguente prestazione lavorativa e slegando in tal modo la capacità lavorativa (che coincide con il corpo fisico, poiché è strettamente e univocamente legata alla capacità fisica che il corpo del lavoratore esprime), che il lavoratore mette a disposizione del datore di lavoro, dalla persona dello stesso, con il complesso bagaglio di diritti fondamentali ad essa collegati, che risultano così preservati dall’autonomia e indipendenza del soggetto dal corpo, che diventa il solo oggetto del contratto di lavoro. In tale prospettiva, Xxxxxx sembra accogliere la concezione del lavoro, inteso qui come capacità lavorativa, come forza-lavoro del lavoratore, come entità distinta dalla persona del lavoratore e, dunque, commercializzabile, perchè oggetto di una prestazione contrattuale a sua volta negoziabile. Non a caso l’espressione mercato del lavoro, oggi inflazionata, suggerisce nella sua metafora la visione del lavoro inteso come merce o, rectius, entità commercializzabile e, ancora, potrebbe affermarsi, interpretando provocatoriamente il pensiero di Xxxxxx, che attraverso l’utilizzo della proclamazione solenne il lavoro non è una merce la dottrina giuridica enfatizzi la concezione non mercantile del lavoro, per sublimare la contraddizione insanabile insita nella relazione contrattuale di lavoro tra un’entità, la forza-lavoro, o corpo
31 Ivi, pag. 14;
fisico del lavoratore, commercializzabile al pari di qualsiasi altra merce e la persona del prestatore di lavoro, con i suoi diritti fondamentali indisponibili. In realtà, una più fedele lettura dell’analisi di Xxxxxx porta a ritenere, come precisato poc’anzi, che aver ridato attenzione al lavoratore nella sua dimensione biologica32, ovvero sottolineando la rilevanza della componente fisica del corpo del lavoratore, il solo coinvolto nell’obbligazione, oggetto della prestazione di lavoro e dunque scisso e distinto dalla persona dello stesso, porta a preservare e tutelare quest’ultima, in quanto sintesi ed espressione di diritti fondamentali non negoziabili. La tesi della scissione corpo del lavoratore-persona del lavoratore nella relazione contrattuale di lavoro propugnata da Xxxxxx deve quindi essere letta in un’ottica volta a ribadire l’irriducibilità del Diritto del lavoro alle leggi del mercato e, dunque, la considerazione della capacità lavorativa, intesa come capacità fisica del lavoratore, oggetto del contratto di lavoro al pari di ogni altra merce, non può spingersi sino alla violazione dei diritti fondamentali della persona implicata nel rapporto di lavoro, che si pongono come limite inderogabile al processo di mercificazione del lavoro stesso33.
1.1.2.3 L’irriducibilità del fattore lavoro alle leggi dell’economia come limite al processo di mercificazione del lavoro stesso
In tale prospettiva, occorre dunque ribadire la necessaria e totale autonomia del Diritto del lavoro dalle leggi dell’economia, che vorrebbero ridurre il lavoratore alla sua forza lavoro, considerata come merce nel mercato globale.
32 Idem;
33 X. Xxx, op. cit., pag. 1067;
Il Diritto del lavoro, fin dalle sue origini, si è costruito sull’idea del diritto al lavoro, ovvero ha concepito il lavoro come strumento principale di emancipazione, economica, sociale e personale del lavoratore, di sviluppo e promozione della sua personalità morale e professionale. Tale principio è stato infatti successivamente recepito come diritto dalle Costituzioni degli Stati nazionali e proclamato nelle solenni Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo nel ’900. A tale proposito, una parte della dottrina afferma che il termine principio risulta più adatto a configurare un concetto, quello del diritto al lavoro, ritenuto nella pratica incapace di trasformarsi in diritto soggettivo e, dunque, in diritto azionabile34. Tuttavia, anche se nelle vesti di principio di portata generale, il diritto al lavoro come strumento di emancipazione del lavoratore nelle accezioni sopra considerate testimonia come il lavoro e principalmente le condizioni in cui questo si esplica non possano essere completamente subordinate ai valori sottesi alle mere esigenze economiche e di mercato, poiché vanno ad incidere sulla sfera dei diritti fondamentali della persona e, in particolare, sulla dignità del lavoratore stesso, che ha diritto all’affrancamento dal bisogno materiale. In questo senso, il lavoratore ha diritto a percepire una retribuzione tale da garantirgli un’esistenza libera e dignitosa, ossia il soddisfacimento dei suoi bisogni esistenziali. In altri termini il Diritto del lavoro è irriducibile alle leggi dell’economia35, poiché deve preoccuparsi di garantire i diritti sociali fondamentali della persona in quanto lavoratore, ossia livelli minimi di tutela nel rispetto di quei diritti fondamentali, laddove vi sia il serio rischio che questi non vengano rispettati. Il Diritto
34 Ivi, pag. 1059;
35 Ivi, pag. 1060;
del lavoro si compone dunque di una complessa normativa statale, approntata dall’ordinamento in campo sociale, che sappia o intenda attuare delle risposte a tale tipo di bisogni o istanze sociali.
Corollario della tesi appena esplicitata, ovvero del rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore nel rapporto di lavoro, desumibile dall’affermazione dell’irriducibilità del lavoro alle leggi dell’economia, risulta essere la teoria dell’intervento dello Stato per regolare o correggere le leggi del mercato e che in materia retributiva può individuarsi nella fissazione di un salario minimo standard che coincida con il livello minimo di tutela accordato dall’ordinamento a garanzia dei diritti della persona del lavoratore. Occorre però ribadire che in molti casi la libera esplicazione delle regole del mercato conduce a garantire di per sé ai lavoratori condizioni di lavoro dignitose. Tale situazione si realizza in uno Stato pluriclasse, costituzionale e di diritto come il nostro quando l’ordinamento, oltre a riconoscere nella libera estrinsecazione dell’iniziativa economica privata una sfera di controllo esercitata dall’intervento statale, affida a particolari soggetti collettivi, qualificabili ai sensi dell’art. 2 Cost. formazioni sociali che concorrono alla crescita e alla libera estrinsecazione dell’individuo, dotati di forza negoziale che deriva dalla loro capacità rappresentativa, la possibilità di contrattare nella libera esplicazione delle regole del mercato condizioni di lavoro dignitose, a partire da un salario sufficiente idoneo a soddisfare i bisogni del lavoratore, nel rispetto dei diritti sociali fondamentali dell’individuo.
La libertà e la possibilità garantita alla contrattazione collettiva e alle organizzazioni sindacali, che di essa sono gli attori, di regolare il conflitto nel mercato del lavoro è rinvenibile in un’altra norma fondamentale della
Costituzione, l’art. 39. E, in virtù di tale potere conferito all’autonomia collettiva, i livelli salariali minimi fissati nei contratti collettivi sono stati qualificati dalla giurisprudenza parametri orientativi della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost.
Il dibattito sull’intervento statale in economia ritorna però preponderante in tutte quelle situazioni di distorsione del mercato, di dumping sociale, di utilizzo del lavoro nero, in circostanze tanto di apparente solidità del mercato, dove alla crescita economica e alla produttività aziendale non corrisponde un aumento qualitativo del tenore di vita dei lavoratori, quanto e soprattutto di criticità economica, in cui troppo frequentemente le garanzie a tutela dei lavoratori sono poste in discussione. Senza tralasciare che tale garanzie, realizzatesi, potrebbero indurre l’innesto di un circuito virtuoso nello stesso mercato del lavoro, funzionale all’aumento della produttività delle imprese e del mercato, se è vero che nella società dei consumi di massa i lavoratori sono intesi come produttori e consumatori dei prodotti e proprio rafforzando il loro potere d’acquisto, con retribuzioni più alte, si potrebbe ingenerare una maggiore produzione e maggiori consumi. Una parte della dottrina economica propugna non a caso la teoria di un aumento dei salari finalizzato alla crescita dei consumi e funzionale all’aumento della domanda e alla produttività delle imprese36.
A conclusione di tali considerazioni è possibile sostenere, pertanto, che entrambe le teorie, che considerano l’una il lavoro (inteso come entità scissa o interdipendente dalla persona del lavoratore) un elemento diverso da una merce comune, l’altra il lavoro alla stregua di una merce
particolare, avente un valore sociale37, sottintendono la risoluzione del problema di stabilire, o meglio, determinare un criterio di eguaglianza nello scambio, ovvero di equivalenza nel rapporto lavoro prestato/corrispettivo dovuto, perché è nella definizione di tale delicato equilibrio che si individua il valore sociale del lavoro o, rectius, la non completa mercificazione del lavoro stesso, data dal prezzo imposto per esso dal mercato.
E’ questo il tema che si pone ora all’attenzione e che si procederà ad analizzare: quello dell’eguaglianza/equivalenza nello scambio lavoro/retribuzione per garantire il rispetto del valore sociale del lavoro o, della persona del prestatore di lavoro implicata nella relazione contrattuale.
1.1.3 L’attuazione del criterio di giustizia retributiva nel rapporto di lavoro subordinato
Le premesse sulla concezione non mercantile del lavoro o, diversamente, sulla tesi minoritaria dell’individuazione di un valore sociale dello stesso, implicano la successiva riflessione sull’esistenza di un rapporto di eguaglianza, intesa qui come piena equivalenza, che deve sussistere nella relazione contrattuale tra lavoro e retribuzione, ovvero il corrispettivo del lavoro prestato deve essere idoneo a garantire la tutela dei bisogni fondamentali del lavoratore. Infatti è proprio nell’eguaglianza dello scambio lavoro/retribuzione che si realizza la ricomposizione della disparità di forza contrattuale, che attraversa l’intera relazione di lavoro subordinato. Proprio in questa disparità di forza contrattuale è stata riconosciuta l’essenza della relazione di lavoro subordinato, ovvero il vincolo di
subordinazione esistente tra datore di lavoro e lavoratore. Tale vincolo rappresenta una diseguaglianza di fatto, esistente tra le due parti del rapporto di lavoro, che è per l’appunto un rapporto di potere squilibrato38.
L’eguaglianza, che dovrebbe sussistere nel rapporto di lavoro subordinato inteso come rapporto di scambio lavoro/retribuzione, reso in condizioni di subordinazione del lavoratore rispetto al datore di lavoro, rappresenta una delle due situazioni tipiche dell’eguaglianza che Bobbio chiama di giustizia retributiva39, ovvero eguaglianza che si concretizza in un’equivalenza tra cose ritenuta giusta, che richiama il concetto aristotelico di giustizia distributiva40, ovvero di proporzione nel rapporto, equità nel rapporto, con riferimento all’oggetto e ai soggetti del rapporto stesso. La giustizia distributiva è infatti la conformità alla proporzione nel rapporto. Per Bobbio infatti il concetto di eguaglianza, oltre ad individuare un fatto, una relazione formale e fattuale41 tra due o più entità, può assurgere a valore, ideale sociale da perseguire, perché ritenuto giusto. In tale prospettiva, l’eguaglianza assume un significato emotivo positivo42, a cui si tende perché considerato un fine apprezzabile da realizzare, in quanto giusto o, per richiamare un’espressione di Xxxxxxx00 l’eguaglianza è ritenuta giusta se assolve ad un fine di utilità sociale, individuale e collettiva, ovvero al massimo raggiungimento del benessere collettivo. Naturalmente l’eguaglianza come ideale o valore sociale non è un valore
38 X. Xxxxxxxx, Manuale di diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2010, pag. 26;
39 X. Xxxxxx, Eguaglianza e libertà, Einaudi, 2009, pag. 10; 40 Xxxxxxxxxx, in X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxx, op. cit., pag. 47 e ss.; 41 X. Xxxxxx, op. cit., pag. 4;
42 Ivi, pag. 3;
43 X. Xxxxxxx, in X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxx, op. cit., pag. 187 e ss.;
assoluto: è un principio astratto passibile di deroghe nell’applicazione, che però devono essere giustificate.
Nella sua profonda riflessione Bobbio individua una stretta interrelazione sussistente tra l’eguaglianza e la giustizia: al termine eguaglianza è associato quello di giustizia, in quanto viene ritenuto “giusto” un rapporto socialmente desiderabile, perché eguale. Il significato di giustizia per Bobbio è proprio quello dell’eguaglianza socialmente e politicamente rilevante44 e nei rapporti di scambio, che Bobbio cita a proposito dei rapporti sociali che possono instaurarsi tra individui nella società45, quali ad esempio la relazione contrattuale di lavoro, la bilateralità e reciprocità del rapporto sottintende necessariamente la questione dell’equivalenza tra cose46, ovvero il tema della giustizia nello scambio.
La situazione di giustizia che si riscontra nel rapporto di lavoro subordinato è dunque quella che attraversa la relazione mercede e lavoro47, ossia lo scambio retribuzione/lavoro, ovvero il tema della giusta retribuzione enucleato all’art. 36 della Cost. italiana. Vi sono vari modi di ritenere rispettato il rapporto di uguaglianza/equivalenza tra prestazione lavorativa e retribuzione, a seconda dei criteri e delle modalità di retribuzione che si adottano nello specifico.
Nei paragrafi successivi si procederà ad analizzare il tema della giusta retribuzione nell’ordinamento sovranazionale e nazionale; in particolare, la concezione costituzionale della retribuzione nell’ordinamento italiano evidenzia come il criterio di retribuzione, desumibile dall’art. 36
44 X. Xxxxxx, op. cit., pag. 9;
45 Idem;
46 Idem;
47 Ivi, pag. 10;
Cost., prospetti una visione specifica dell’equilibrio nel rapporto eguaglianza/giustizia tra lavoro e retribuzione. L’art. 36 Cost., si anticipa, fa riferimento ad una precisa concezione di giustizia e di ordine sociale, che richiama al tempo stesso il concetto di eguaglianza nello scambio, intesa come corrispettività e di giustizia sociale, intesa come sufficienza della retribuzione, a garanzia del rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali.
1.2 Il principio della giusta retribuzione nelle norme dell’ordinamento internazionale e comunitario
Se si guarda alle norme dei Trattati internazionali e a quelle delle Convenzioni Oil in materia retributiva, occorre precisare anzitutto che queste sono comunemente ritenute dalla dottrina norme di principio, in quanto si limitano a enunciati di carattere generale, che lasciano irrisolti molti nodi interpretativi legati a particolari istituti della materia disciplinati, in modo specifico, dal diritto interno. Si tratta dunque di norme che sottintendono precise scelte e valutazioni di tipo politico e talora rafforzano, riaffermandoli, principi già acquisiti a livello di ordinamento interno dei singoli Stati48.
La dichiarazione solenne del principio della giusta retribuzione si ritrova anzitutto all’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e all’art. 7 del successivo Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali del 1966. Dalla lettura di tali disposizioni possono individuarsi, da un lato, il riferimento al concetto di equità della retribuzione, tale da assicurare il rispetto della dignità e del decoro dei lavoratori, dall’altro, la stretta relazione che emerge tra il principio della giusta
48 X. Xxxxxxx, Diritto del lavoro e globalizzazione, Cedam, Padova, 1999, pag. 11;
retribuzione e quello della libertà sindacale, a suggerire e a suggellare il necessario rapporto con la contrattazione e l’azione collettiva, a garanzia di un’effettiva attuazione di tale principio49. Tale legame imprescindibile tra libertà di organizzazione e azione sindacale e tutela dei diritti dei lavoratori, tra cui vi è il diritto alla giusta retribuzione, si ritrova anche nelle disposizioni delle Convenzioni Oil in materia di salario minimo, in particolare nella Convenzione n. 26 del 1928, ove si dice espressamente che l’equo salario minimo è quello fissato dagli accordi collettivi50. Quest’ultima dichiarazione evidenzia la preminenza accordata alla determinazione negoziale della retribuzione (…), nell’ambito della quale il contratto collettivo riceve una considerazione preferenziale nella scala di efficacia51 e, conseguentemente, il ruolo di subalternità attribuito all’intervento statale nella fissazione dei trattamenti retributivi dei lavoratori, in conformità alla teoria dello Stato liberale, che verte sulla sua neutralità in campo economico, poiché si sostiene che tale intervento non incida positivamente sulla crescita stabile delle retribuzioni, più del livello che può aversi con il libero funzionamento del mercato52. Infatti, all’art. 1 della predetta Convenzione si precisa che lo Stato ha il compito di operare in via subordinata nella regolazione del mercato per fissare i livelli minimi di retribuzione per i lavoratori (saggi minimi di salario), qualora non vi abbia già provveduto la contrattazione collettiva o, laddove i salari
49 X. Xxxxxxx, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 44;
50 cfr. Convenzione Oil n. 26 del 1928;
51 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 48;
52 X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione, in RIDL, 2010, I, pag. 719 e ss.;
siano eccezionalmente bassi53, per rispondere alle esigenze della classe lavoratrice in particolare aree depresse del mercato. Sul punto, una certa dottrina sostiene come la ratio della norma sia attribuire allo Stato il potere e il dovere di intervenire ove, in specifiche situazioni territoriali, livelli retributivi particolarmente bassi dei lavoratori influiscano negativamente sulla determinazione degli stessi trattamenti retributivi minimi fissati dalla contrattazione collettiva, ovvero la Convenzione non impegna gli Stati aderenti a promuovere la crescita generale delle retribuzioni, bensì soltanto a proteggere i lavoratori contro distorsioni marginali che abbiano l’effetto di ridurre il trattamento al di sotto di un livello che possa esser considerato normale54. Tale preferenza per la contrattazione collettiva si trova esplicitata anche all’art.
10 della successiva Convenzione n. 117/1962 e nella Convenzione Oil n. 95 del 1970. Infine, la Convenzione Oil n. 26 del 1928, all’art. 3, enuncia anche l’importante principio dell’inderogabilità in peius dei trattamenti retributivi minimi fissati attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva o della legge, previsti dai singoli Stati nazionali55.
A livello di fonti comunitarie occorre citare le principali disposizioni giuridiche che disciplinano il tema della giusta retribuzione, evidenziando prospettive teoriche comuni a quelle emerse nell’analisi delle norme internazionali: l’art. 4 della Carta sociale europea individua la connessione tra il diritto alla retribuzione sufficiente e l’attuazione di tale garanzia affidata alle
53 cfr. art. 1, Convenzione Oil cit.;
54 X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione, cit., pag. 719 e ss.;
55 cfr. art. 3, co. 3, Convenzione Oil cit.;
convenzioni collettive liberamente concluse56; l’art. 11 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilisce che il diritto alla retribuzione sufficiente deve essere determinato negozialmente in base alle modalità proprie di ciascun paese57, conferendo un ruolo di primo piano ai soggetti sindacali e all’esercizio dell’azione collettiva.
Infine, preme fare cenno alla Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000, che prevede numerose disposizioni a garanzia dei diritti dei lavoratori nello svolgimento dell’attività lavorativa, tra cui risalta l’art. 31.1, che stabilisce il diritto del lavoratore ad ottenere condizioni di lavoro idonee a tutelare la propria salute, sicurezza e dignità, da cui può evincersi il riferimento al principio della giusta retribuzione. L’efficacia giuridica di tale Carta dei diritti fondamentali risulta oggi accresciuta alla luce delle recenti modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.
In sintesi, può dedursi, dall’analisi delle più rilevanti fonti internazionali e comunitarie in materia retributiva, la preferenza accordata da quest’ultime allo strumento della contrattazione collettiva per il processo di determinazione del salario sufficiente. Il nesso tra giusta retribuzione e autonomia collettiva risulta essere presente anche nell’impostazione costituzionale, propria del nostro ordinamento, segno che la tendenza del Legislatore nazionale e sovranazionale sia stata quella di dare piena fiducia all’azione dei soggetti sindacali nella regolazione collettiva dei trattamenti retributivi, ritenuti più di altri idonei garanti di un’effettiva applicazione di tale principio.
56 cfr. art. 4, Carta sociale europea, 1961;
57 cfr. art. 11, Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, 1989;
Infatti il connubio tra il diritto alla giusta retribuzione e i poteri determinativi della contrattazione collettiva emerge dalla lettura degli artt. 36 e 39 Cost., sia pure tenendo nel debito conto alcune specificità proprie del sistema italiano, tema che si approfondirà successivamente.
1.3 Il diritto costituzionale alla giusta retribuzione nell’ordinamento italiano
1.3.1 I principi costituzionali in materia di lavoro e l’art. 36 Cost.
Dalla lettura combinata degli articoli 1 e 2 della Carta fondamentale un’autorevole dottrina rinviene nel lavoro lo strumento principe di realizzazione del progresso sociale, poiché idoneo a conseguire il valore sociale della singola persona58. Conseguenza della rilevanza attribuita all’elemento lavoro è l’attenzione posta dai Costituenti al tema della persona e dei suoi diritti fondamentali nel rapporto di lavoro; molte disposizioni costituzionali infatti mettono il lavoratore subordinato e talora il lavoratore tout court al centro di un sistema di garanzie di diritti fondamentali59. Il riferimento è naturalmente agli articoli 3, co. 2, 4, co. 2 e 41, co. 2. Cost. E ancora, gli artt.1, co. 1,
3, co. 2 e 4, co. 1 Cost. sottintendono il riferimento alla disparità di situazione economico/contrattuale che caratterizza la relazione di lavoro subordinato, in un approccio di riequilibrio della stessa, per cui la realizzazione di tali principi si traduce in un’attenuazione dello stato di subalternità (o congenita debolezza contrattuale) del singolo lavoratore rispetto
58 C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in DL, I, 1954, pag. 150; 00 X. X. Xxxxxxxxxxx, Xx “energie da lavoro” tra soggetto e oggetto, cit., pag. 11;
all’imprenditore60. Gli strumenti individuati dal Legislatore costituente per realizzare il perseguimento di tali finalità sono specificati ai successivi artt. 39 e 40 Cost. che, riconoscendo, da un lato, la libertà di organizzazione sindacale e di azione per la contrattazione collettiva e, dall’altro, il conseguente diritto di sciopero, sanciscono la possibilità per i lavoratori di opporsi al datore di lavoro/imprenditore, attraverso l’esercizio di azioni di autotutela collettiva.
Derivazione diretta dell’impostazione costituzionale in materia di lavoro e di garanzie azionabili dal prestatore di lavoro è l’art. 36 Cost. in materia di giusta retribuzione, poichè evidenzia l’abbandono della concezione puramente scambistica della retribuzione quando all’elemento della proporzionalità affianca immediatamente quello della sufficienza61. Esiste dunque un’interrelazione specifica tra i principi costituzionali in materia di lavoro, gli strumenti di autotutela collettiva idonei a perseguire tale diritto e la concezione costituzionale della retribuzione, ex art. 36.
1.3.2 La genesi dell’art. 36 Cost.: le premesse teoriche emerse dal dibattito in Assemblea Costituente
La formulazione originaria della norma62 proposta alla discussione in Assemblea Costituente63 accoglieva la
60 M. S. Xxxxxxxx, Rilevanza costituzionale del lavoro, in RGL, 1949, I, pag. 7;
61 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 26;
62 cfr. art. 36 Cost., formulazione originaria: “La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve corrispondere alle necessità fondamentali dell’esistenza del singolo e della sua famiglia”, in X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione, cit., pag. 719 e ss.;
63 cfr. Atti della Commissione per la Costituzione-Prima Sottocommissione, seduta dell’8/10/1946, in La Costituzione
concezione non interventista dello Stato nel regolare il funzionamento del mercato del lavoro, salvo la possibilità di operare per fissare parametri retributivi minimi, che dovessero garantire il lavoratore per il soddisfacimento dei bisogni essenziali, necessari al suo sostentamento e a quello della sua famiglia64. Un’attenta dottrina ritrova in tale formulazione una corrispondenza con la definizione di “saggio minimo di salario” contenuta nella Convenzione Oil del 192865. Il successivo emendamento di modifica al testo originario della norma66 è però l’intervento che definisce l’imprinting fondamentale al contenuto dell’art. 36 Cost., radicandolo fortemente al concetto di sufficienza della retribuzione, ancorato a sua volta a quello del rispetto della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali. In tale accezione la retribuzione del lavoratore, oltre che parametro vitale, perché necessario al soddisfacimento dei suoi bisogni essenziali di vita, diventa strumento di elevazione personale, sociale e culturale dello stesso, attraverso l’elemento lavoro, che assurge a perno centrale della struttura economica e sociale dello Stato. In questa prospettiva un orientamento dottrinale ravvisa la specificità dell’art. 36 della Costituzione italiana rispetto alla normativa di fonte Oil che si è richiamata in precedenza, affermando che in questo qualche cosa in più della nozione di “giusta retribuzione” rispetto a quella di
italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, a cura del Segretariato Generale della Camera dei Deputati, Roma, 1970, vol. VI, pag. 499 e ss., in X. Xxxxxx, in X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 26;
64 X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione, cit., pag. 719 e ss.;
65 Ivi;
66 cfr. art. 36 Cost. emendato: “La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare l’esigenza di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia”, in ivi;
“saggio minimo di salario” sembra potersi individuare un significato pratico non irrilevante dello stesso art. 1 della Carta67.
1.3.3 Il diritto costituzionale alla giusta retribuzione: i criteri di proporzionalità e sufficienza
L’analisi sulla rilevanza degli specifici contenuti dei due criteri caratterizzanti la retribuzione ex art. 36 Cost. non può prescindere dall’indagine sull’interpretazione del rapporto intercorrente tra gli stessi. Sul punto, un orientamento dottrinale seguita a leggere i due elementi della proporzionalità e della sufficienza in concorso tra loro e dunque autonomi e distinti l’uno dall’altro, anziché rappresentare un’endiadi68. Tale dottrina infatti tende a scomporre la nozione giuridica di retribuzione in due diverse e speculari accezioni: la retribuzione intesa come obbligazione-corrispettivo, richiamata dal principio della proporzionalità e la retribuzione quale obbligazione- sociale, aderente a quello della sufficienza69. In questa prospettiva per una parte della dottrina70 assume rilevanza prioritaria il principio della proporzionalità della retribuzione, atto ad individuare il valore di mercato della corrispondente prestazione lavorativa. Il processo di determinazione del carattere della proporzionalità, sulla base anche dell’interpretazione di una costante dottrina e
67 X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione, cit., in ivi;
68 X. Xxxxxxx. op. cit., pag. 68;
69 X. Xxxxxxx, L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva, in X. Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxxxxx, La retribuzione. Struttura e regime giuridico, Jovene, Napoli, 1994, vol. I, pag. 91 e ss.;
70 X. Xxxx’Xxxx, Retribuzione, quantità e qualità del lavoro, qualità di vita, in ADL, 1995, pag. 9;
giurisprudenza, è stato affidato alla contrattazione collettiva, in virtù dei poteri e degli ambiti decisionali che l’impianto costituzionale le riserva. E’ indubbio infatti che la tariffa collettiva interpreta il valore di mercato di una data prestazione lavorativa in un dato momento storico71. Al principio della sufficienza viene assegnata una mera funzione correttiva in termini di soglia minima72 73 del trattamento economico da rispettare. In tal senso il criterio della sufficienza agisce in via residuale, rappresentando un limite per quelle determinazioni retributive che si pongono al di sotto delle necessità esistenziali del prestatore di lavoro74. Per la dottrina contraria la tesi del ridimensionamento della rilevanza di tale principio, a vantaggio di quello della proporzionalità, conduce al paradosso di negare la possibilità di correggere in melius il trattamento retributivo previsto dal contatto collettivo di riferimento, corrispondente sì al principio di proporzionalità, ma non a quello di sufficienza ex art. 36 Cost., giacchè la valutazione della sufficienza della retribuzione opererebbe solo con riferimento ai trattamenti retributivi più bassi previsti dai contratti collettivi, ossia ai trattamenti retributivi minimi previsti per il livello di inquadramento più basso, posto che, normalmente, la retribuzione proporzionata finirebbe per superare (e,
71 X. Xxxxxx, Alcuni appunti per una rilettura del comma 1 dell’art. 36 della Costituzione, in RGL, 2002, IV, pag. 707;
72 X. Xxxx’Xxxx, Retribuzione, quantità e qualità del lavoro, qualità di vita, cit., pag. 9;
73 cfr. al riguardo la contrapposta opinione di X. Xxxx che individua nel principio di proporzionalità la funzione universalistica dei trattamenti minimi (…) la soglia minima oggettiva invalicabile verso il basso, in G. Roma, Le funzioni della retribuzione, Cacucci, Bari, 1997, pag. 74;
74 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 68;
quindi, “per assorbire”) la retribuzione sufficiente75. In tale ipotesi inoltre il criterio della sufficienza della retribuzione sarebbe soggetto al rischio di una tendenziale standardizzazione, perché verrebbe ricondotto a valori standard come avviene per il criterio di proporzionalità, che attinge da parametri di mercato76.
Tale impostazione è attualmente seguita da quella parte della giurisprudenza77 che privilegia l’ottica scambistica nella dimensione retributiva, accogliendo preminentemente il giudizio di proporzionalità del trattamento retributivo rispetto alla valutazione della sufficienza della stesso. Questa visione è stata criticata da quell’orientamento dottrinale che, invece, enfatizzando la rilevanza del principio della sufficienza della retribuzione, la ritenevano in contrasto con la concezione del salario progressivo78 previsto dalla Costituzione, ovvero l’ottica di una retribuzione sufficiente finalizzata a soddisfare non solo i bisogni primari del prestatore di lavoro, intesi come necessità di mero sostentamento, ma soprattutto gli obiettivi esistenziali di più ampio respiro dello stesso.
75 Ivi, pag. 77;
76 cfr. al riguardo M. L. De Xxxxxxxxxx che afferma il salario sufficiente non va tanto riguardato come salario giusto caso per caso, quanto piuttosto come uno standard, cioè come un salario sufficiente medio in relazione alle condizioni ambientali e storiche, tale da garantire un decoroso tenore di esistenza in corrispondenza a un livello comune, medio, di pari dignità sociale, in Ancora in tema di salario sufficiente, in RTDPC, 1971, I, pag. 1497;
77 cfr. tra le altre Cass., n. 4088 del 1993, in FI, 1994, I, pag. 1117 e Cass., n. 4895 del 1982, in GC, 1983, I, pag. 475;
78 G. D’Xxxxxxx, Le situazioni soggettive del lavoratore dipendente, Xxxxxxx, Milano, 1958, pag. 38;
Infatti, come asserito da un’altra giurisprudenza79, non sempre le determinazioni della contrattazione collettiva possono dirsi integralmente rispettose anche del principio della sufficienza. Il carattere della sufficienza della retribuzione opererebbe, dunque, nel senso che il trattamento retributivo della prestazione lavorativa non si identifica con la retribuzione minima prevista dalla contrattazione collettiva, atta a soddisfare solo le esigenze di mero sostentamento del lavoratore, poichè l’applicazione del principio di giustizia retributiva, ancorato al fondamento etico nel rapporto di lavoro, conduce a ritenere che il principio della sufficienza della retribuzione debba garantire il lavoratore anche per l’ottenimento di quei beni funzionali alla realizzazione della piena personalità dello stesso, ovvero quel complesso di beni immateriali che garantiscano la libertà dal bisogno rimuovendo anche gli ostacoli che non permettono il pieno sviluppo della persona umana80. Per tale dottrina è proprio il principio della sufficienza quello che conferisce alla norma una portata ed un’incisività inedite81, poiché assegna rilevanza al valore intrinseco che deve attribuirsi, sul piano della realtà socio-economica, all’esplicazione di attività lavorativa alle altrui dipendenze82, ovvero la valutazione della sufficienza del trattamento economico deve fare riferimento di volta in volta alla specifica
79 cfr. Cass., n. 2810 del 15/12/1961, in RDL, 1962, II, pag. 385 e ss.;
80 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxx, Percorsi di diritto del lavoro, Xxxxxxx, Bari, 2006, pag. 428;
81 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 73;
82 X. Xxxxxxxxxxxx, Il lavoro nella Costituzione italiana, in X. Xxxxxxxxxxxx, Il lavoro nella giurisprudenza costituzionale, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 1978, pag. 79;
situazione in cui versa il lavoratore, riconducibile all’individuazione di quelle che sono le aspettative esistenziali del lavoratore, le aspirazioni di quest’ultimo in termini di maturazione culturale, oltre che di elevazione del tenore di vita materiale83; tale elemento diventa in sostanza un fattore promozionale del pieno sviluppo del soggetto lavoratore, fonte di un diritto alla differenza84 costituzionalmente riconosciuto, che non può esaurirsi nella determinazione integrale della retribuzione rimessa all’autonomia collettiva. Sempre per tale dottrina l’utilizzo del criterio della sufficienza appare così finalizzato ad individuare una retribuzione specifica per ogni lavoratore, in relazione alla sua specifica situazione, secondo una visione personalistica della norma costituzionale, affermando che il principio di sufficienza implica la differenziazione dei trattamenti affinchè gli stessi siano maggiormente aderenti alle esigenze individuali e familiari del lavoratore stesso85. Un altro orientamento dottrinale, pur non riconoscendosi in tale ultima definizione della funzione del principio di sufficienza, ritiene in ogni caso che quest’ulteriore qualità della retribuzione minima imposta dalla Costituzione costituisce un’ulteriore specificazione della funzione economico- sociale del contratto di lavoro subordinato, ovvero l’attenzione al valore sociale del lavoro86.
La tesi del giudizio autonomo sui due criteri distinti di proporzionalità e sufficienza rimanda, nell’un caso o nell’altro, al rischio che il processo di valutazione del
83 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 78;
84 G. Roma, Le funzioni della retribuzione, Cacucci, Bari, 1997, pag. 57 e ss.;
85 Ivi, pag. 70;
86 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 80;
rispetto del primo assorba anche quello sul secondo o viceversa. In tale ottica l’orientamento più recente in dottrina tende a rileggere il rapporto tra i due elementi della retribuzione, ex art. 36 Cost., in una visione di connessione tra due criteri non separabili, che operano in maniera congiunta, contestuale e simultanea, cosicchè la giusta retribuzione ex art. 36 non può non essere quella che contemporaneamente e in ogni caso soddisfi entrambi i requisiti 87. Condividendo tale impostazione preme qui ribadire che, dunque, i due criteri, di proporzionalità e sufficienza, non debbano leggersi quali autonomi ed indipendenti, pena il ritenere il principio di sufficienza privo di un rilievo e di un contenuto autenticamente originali, riducendosi ad una semplice superfetazione del principio di corrispettività88, o viceversa.
1.3.3.1 Il criterio della sufficienza e la rilevanza delle esigenze personali e familiari del lavoratore
Quella parte della dottrina che propende, al fine dell’individuazione del trattamento economico ex art. 36 Cost., per la rilevanza del giudizio sulla sufficienza della retribuzione rispetto a quello di proporzionalità, afferma che la valutazione del criterio della sufficienza comporta una necessaria attenzione alla specifica situazione in cui versa il lavoratore e alle esigenze personali e patrimoniali dello stesso, inteso sia come singolo, sia come soggetto partecipante al proprio nucleo familiare89. Sulla base di tale orientamento anche la giurisprudenza prevalente90
87 Ivi, pag. 79;
88 Idem;
89 Ivi, pag. 75;
90 cfr. Cass., Sez. Un., n. 6030 del 29/05/1993 e Cass., n. 1681 del 24/02/1997, in banca dati Juris Data;
ancora al concetto della sufficienza della retribuzione un nuovo contenuto dell’art. 36 Cost., che individua il c.d. salario familiare91, ampliando così la nozione di retribuzione intesa non solo come corrispettivo rispetto al lavoro svolto, ma anche quale compenso che deve essere sufficientemente adeguato alle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, arrivando ad includere nel trattamento retributivo una delle tipiche erogazioni previdenziali a carico dell’ordinamento, gli assegni familiari. Fortemente critico resta però l’atteggiamento di una parte della dottrina92 sull’opportunità di operare un collegamento tra i principi di cui all’art. 36, co.1, Cost. e quelli previsti all’art. 38, co. 2, Cost., ovvero in merito ad un’equiparazione tra erogazioni di fonte datoriale ed indennità concesse dagli enti previdenziali93.
Infine, da una parte della giurisprudenza94 l’incidenza del carico familiare nella determinazione del trattamento retributivo per il lavoratore, ex art. 36 Cost., è vista come elemento che assume rilevanza esclusivamente in rapporto alle erogazioni aggiuntive introdotte dall’autonomia collettiva (c.d. maggiorazioni di famiglia) che siano esplicitamente ricollegabili ad esso, dunque in melius, e non come un elemento che di per sé possa giustificare eventuali scostamenti peggiorativi rispetto ai compensi normalmente corrisposti dall’imprenditore95.
91 G. Roma, Le funzioni della retribuzione cit., pag. 75;
92 X. Xxxxxx, voce Retribuzione, in Enc. dir., 1989, pag. 43;
93 X. Xxxxxxx, in op. cit., pag. 122;
94 cfr. Cass., n. 4057 del 1982, in GC, 1983, I, pag. 919 e Cass., n.
1567 del 8/03/1986, in NGL, 1986, pag. 486;
95 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 76;
1.4 L’art. 36 Cost. e i poteri determinativi della contrattazione collettiva in materia retributiva
1.4.1 Il rapporto tra l’art. 36 e l’art. 39 Cost. e il contratto collettivo quale strumento delegato alla determinazione della retribuzione costituzionale
Il rapporto evidente tra le due norme, così come concepito dal Legislatore costituente, sta a dimostrare come, nella vicenda della determinazione del trattamento retributivo proporzionato e sufficiente dei lavoratori subordinati, fondamentale sia il ruolo della contrattazione collettiva, a cui la legge affida in primis la qualificazione e quantificazione dei suddetti trattamenti.
Occorre ora approfondire in che termini di efficacia la contrattazione collettiva abbia ottemperato al dettato dell’art. 36 Cost. e, dunque, alla determinazione della giusta retribuzione. Questo tema, che ha caratterizzato il dibattito in dottrina e in giurisprudenza per lungo tempo, si è intrecciato strettamente con quello sulla natura programmatica o precettiva dell’art. 36 Cost., la cui risoluzione ha facilitato l’individuazione del ruolo della contrattazione collettiva nella definizione dei trattamenti retributivi.
Una parte della dottrina e della giurisprudenza, accogliendo la tesi della natura programmatica della norma e, dunque, della non diretta applicabilità dell’art. 36, co. 1, Cost., riteneva che il diritto costituzionale alla giusta retribuzione potesse ritenersi attuato, da un lato, solo con un intervento legislativo statale vincolante anche le parti collettive96 97, dall’altro, l’applicazione dell’art 36 Cost.
96 D. Napoletano, Natura ed efficacia della norma di cui all’art. 36, 1°comma, della Costituzione e la sua rilevanza sui contratti individuali di lavoro, in MGL, 1951, pag. 217 e ss.;
avrebbe potuto realizzarsi con una piena operatività dello strumento dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, di cui all’art. 39, co. 4, Cost., mai applicato98 99. Tale tesi della natura programmatica dell’art. 36 Cost. è stata sottoposta a rilevanti critiche da parte di quell’orientamento dottrinale che sosteneva come l’ipotesi che un ipotetico provvedimento legislativo di attuazione dell’art. 36 potesse sovrapporsi anche alla valutazione operata dai soggetti sindacali legittimati ai sensi dell’art. 39, 4° comma, Cost., avrebbe potuto determinare un’insuperabile antinomia tra le due norme costituzionali, interferendo non solo con l’efficacia incondizionatamente obbligatoria dei contratti collettivi estesi erga omnes, ma anche con lo stesso principio di libertà sindacale100. Inoltre, in tale prospettiva, un’altra parte della dottrina riteneva non percorribile la strada dell’intervento legislativo, a vantaggio di un unico metodo ammissibile, ovvero la valutazione del giudice legata al caso concreto, per un’applicazione effettiva dell’art. 36 Cost.101.
La tesi della natura programmatica della norma, accolta con favore dalla dottrina e dalla giurisprudenza negli anni’50, è stata dunque abbandonata circa un decennio dopo, anche grazie ai frequenti ed incisivi interventi sul punto della Corte di Cassazione102. La dottrina successiva, pur sostenendo la precettività dell’art. 36 Cost., ha da sempre sottolineato come la mancata attuazione dell’art.
97 cfr. Trib. Mi. del 6/08/1951, in MGL, 1951, pag. 216;
00 X. Xxxx, Xx xxxxxx retribuzione dell’art. 36 della Costituzione, in DL, 1953, I, pag. 99 e ss.;
99 cfr. Trib. Parma del 3/06/1952, in MGL, 1952, pag. 130;
100 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 36;
101 X. Xxxxxxx, L’invalidità del contratto di lavoro per violazione dell’art. 36/1 della Costituzione, in DL, 1951, II, pag. 197 e ss.;
102 cfr. Cass., n. 461 del 21/02/1952, in MGL, 1952, pag. 128;
39, co. 4, Cost., in materia di efficacia erga omnes dei contratti collettivi abbia condizionato tutti gli sviluppi successivi del rapporto tra contrattazione collettiva con efficacia soggettiva limitata e attuazione del principio di cui all’art. 36 Cost. Tuttavia, una certezza appare desumibile dalla lettura delle due norme costituzionali, ovvero il ruolo centrale che i Costituenti affidano alla contrattazione collettiva nella determinazione dei trattamenti retributivi, o rectius, la visione della contrattazione collettiva come sede elettiva di produzione di norme e parametri salariali103.
La mancata attuazione dello strumento dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, unita al tema dell’inesistenza, come molte pronunce della Corte Costituzionale confermano104, di una riserva di competenza esclusiva della contrattazione collettiva in materia retributiva105, hanno condotto una parte della dottrina a sostenere che sia ammissibile tanto l’intervento legislativo che incida sulla volontà negoziale per soddisfare la realizzazione di interessi di carattere generale o obiettivi di politica economica, qualora avvenga su singoli istituti e non sulla quantificazione complessiva del trattamento retributivo106, quanto la verifica giudiziale dell’effettiva congruità del parametro collettivo al contenuto di cui all’art. 36, co. 1, Cost., anche
103 M. D’Xxxxxx, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in RGL, 1986, I, pag. 3;
104 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 000 del 19/12/1962, in FI, 1963, I, pag. 17;
105 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 39;
106 X. Xxxxxxxxx, Limiti legali all’autonomia collettiva per il contenimento del costo del lavoro: profili di costituzionalità, in DL, 1984, I, pag. 130;
nel caso in cui la validità di tali parametri sia stata espressamente riconosciuta dalla legge107.
Sul punto, occorre ripercorrere gli interventi più significativi della Corte Costituzionale sul tema del rapporto esistente tra legge e contrattazione collettiva, al fine di ribadire innanzitutto la distinzione concettuale tra “giusta retribuzione” e “retribuzione sindacale”108, solo in apparenza coincidenti all’atto pratico della valutazione giudiziale nel caso concreto. Infatti, come evidenziato anche dalla dottrina, il contenuto del diritto alla giusta retribuzione, ex art. 36 Cost., si specifica nell’individuazione di un trattamento economico, che solo in parte può dirsi compatibile con quello previsto dai contratti collettivi efficaci erga omnes, ex art. 39 Cost., co. 4, mai attuato109. La garanzia sottesa all’art. 36 Cost. è quella dell’individuazione di una remunerazione minima della prestazione lavorativa, che costituisce pertanto un indispensabile presupposto di legittimità per ogni contratto di lavoro subordinato110. Il giudice dunque, nell’ipotesi di incompatibilità tra il trattamento percepito dal lavoratore e la nozione di giusta retribuzione, ex art. 36 Cost., potrà opportunamente valutare nella determinazione del trattamento economico proporzionato e sufficiente di prescindere dalle clausole retributive collettive, stante però l’ovvia difficoltà di reperire altri parametri oggettivi altrettanto efficienti rispetto al contratto collettivo, giacchè solo quest’ultimo risulta avere la naturale attitudine a rappresentare il modello di disciplina del rapporto di
107 cfr. infra il paragrafo sui contratti di riallineamento e la contrattazione d’area;
108 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 103;
109 Ivi, pag. 54;
110 X. Xxxxxxxxxx, Sul contenuto del contratto, Xxxxxxx, Milano, 1966, pag. 308 e ss.;
lavoro (…) che meglio soddisfa l’esigenza sottostante alla norma costituzionale111.
Nel merito, la Corte Costituzionale, fin dai suoi primi interventi degli anni ’60, ha negato decisamente il ruolo esclusivo della contrattazione collettiva nel processo di determinazione dei trattamenti retributivi, aderendo alla tesi di quella parte della dottrina che valorizzava fortemente il momento della valutazione giudiziale rispetto alle clausole retributive previste dai contratti collettivi di riferimento. Nelle sentenze successive112 all’intervento del 1962 la Corte Costituzionale affronta nuovamente il tema del rapporto tra il contenuto del precetto costituzionale, determinazioni retributive dell’autonomia collettiva e valutazione giudiziale, con un approccio che da una certa dottrina viene qualificato ambivalente113, dal momento che mentre da un lato afferma il ruolo irrinunciabile attribuito alla contrattazione collettiva dal Legislatore costituente in materia di individuazione del trattamento economico dei lavoratori, ex art. 36 Cost., dall’altro sottolinea l’imprescindibilità della valutazione giudiziale con riferimento alle stesse previsioni retributive dei contratti collettivi, ovvero rispetto alla commisurazione della retribuzione sufficiente114. Per una certa dottrina tale atteggiamento della Corte evidenzia l’accoglimento della tesi del valore orientativo del contratto collettivo in una fase storica in cui era perdurante lo stato di inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., nonostante la Corte
111 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 104;
112 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 000 del 13/07/1963 e Xxxxx Xxxx., x. 000 del 6/07/1971, in banca dati Juris Data;
113 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 105;
114 X. Xxxxxxx, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in Lavoro-la giurisprudenza costituzionale, 1956, vol. I, pag. 49;
condivida pienamente la prospettiva iniziale del Legislatore costituente, ovvero l’attribuzione alla contrattazione collettiva della competenza naturale dell’autonomia collettiva nella determinazione della retribuzione115. Nel xxxxx xxxxx xxxx’00 xx Xxxxx xx pronuncia ancora sul tema, con altri decisivi interventi in materia di verifica della legittimità costituzionale di leggi disciplinanti il trattamento economico dei lavoratori nella direzione di un evidente contenimento del costo del lavoro. Nella pronuncia n. 43 del 1980116 il Giudice delle leggi dichiara legittimo l’intervento del Legislatore volto a limitare l’allora rilevante strumento dell’indennità di contingenza117 in ragione della possibilità di scegliere, rientrante nella competenza dello stesso, gli strumenti più idonei alla determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost. quali nel caso specifico adeguare la retribuzione alle variazioni del costo della vita con interventi adottati di volta in volta senza essere vincolato all’adozione di meccanismi automatici118; tali strumenti, la cui legittimità costituzionale è riconosciuta dalla Corte, non incidono dunque sulla possibilità da parte dell’autonomia collettiva di procedere alle opportune compensazioni attraverso rivendicazioni migliorative di altri istituti contrattuali 119, anche se, in argomento, un’altra parte della dottrina dubita della compatibilità costituzionale di tali limiti imposti per
115 X. Xxxxx, Autonomia collettiva e giustizia costituzionale, Xxxxxxx, Bari, 1999, pag. 314;
116 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 00 del 14/04/1980, in RGL, 1980, II, pag. 543 e vedi anche Xxxxx Xxxx., x. 000 del 30/07/1980, in FI, 1980, I, pag. 2641;
117 cfr. l. n. 797 del 10/12/1976 e l. n. 91 del 31/03/1977;
118 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 00 del 14/04/1980 cit.;
119 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 106;
xxx xxxxxxxxx xxxx xxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxxxx000. Da tali ultime pronunce appena richiamate si desume come la stessa Corte manifesti la propensione per la non rigida separazione e, quindi, interrelazione tra le sfere di competenza della legge e della contrattazione collettiva in materia di determinazione del trattamento economico dei lavoratori121, lasciando impregiudicato il riconoscimento evidente della liceità dell’intervento del giudice ex art. 2099 c.c. nel determinare la retribuzione sufficiente ex art.
36 Cost., qualora la quantificazione del trattamento retributivo operato per vie legali in senso restrittivo e di contenimento rispetto alla previsione della clausola collettiva possa prospettare dubbi di compatibilità con il precetto costituzionale. Una certa dottrina accoglie tale prospettiva ravvisando la legittimità dell’intervento limitativo del Legislatore ai soli casi di eccezionalità e contingenza per motivi dei interesse generale122, tesi che la stessa Corte Costituzionale ribadirà successivamente, quando verrà chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, rectius, compatibilità del mantenimento in vigore di normative limitative delle determinazioni collettive del trattamento retributivo con il precetto costituzionale di cui all’art. 36 Cost.123 ed esprimerà con forza inequivocabile nella successiva sentenza n. 124 del 1991124, laddove la Corte dichiarerà apertamente il contrasto tra l’art. 36 Cost. e i vincoli legali permanenti alla contrattazione collettiva
120 X. Xxxxxxxxx, Costo del lavoro e autonomia collettiva, in XX, 0000, I, pag. 359 e ss.;
121 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 00 del 7/02/1985, in FI, 1985, I, pag. 975;
122 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 107;
123 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 000 del 23/06/1988, in MGL, 1988, pag. 445;
124 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 000 del 26/03/1991, in FI, 1991, I, pag. 1333;
nell’individuazione del trattamento retributivo del quale la contrattazione collettiva, secondo un’interpretazione costituzionale consolidata, è lo strumento di attuazione125. L’analisi compiuta, seppur per brevi cenni, dei principali interventi della Corte Costituzionale sul tema della necessaria interrelazione, nel rispetto dei propri ambiti di competenza, dell’attività del Legislatore, dell’autonomia collettiva e dell’irrinunciabile intervento giudiziale nella determinazione della retribuzione, consente di affermare che tale approccio sarà seguito anche nei successivi interventi dalla giurisprudenza ordinaria in materia e ad esso si conformeranno i nuovi assetti del sistema di contrattazione collettiva in Italia nei decenni a seguire, a cominciare dal modello delineato nel Protocollo del 1993, oggi abrogato dagli Accordi del 2009, di cui si tratterà approfonditamente nel capitolo a seguire.
1.4.2 Pluralità di contratti collettivi e individuazione del contratto parametro ai fini dell’applicazione dell’art. 36 Cost.
Richiamando le argomentazioni esposte in precedenza si intende qui aderire all’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale maggioritario, che ha individuato nelle clausole retributive inserite nei contratti collettivi lo strumento storicamente predisposto dai Costituenti a sede elettiva per la determinazione del trattamento economico proporzionato e sufficiente, ex art. 36 Cost. La soluzione preferita appare, però, foriera di ulteriori problematiche, se si pensa che il sistema sindacale italiano, con riferimento ai soggetti e all’oggetto della contrattazione collettiva, presenta alcune specificità che derivano in particolare dalla mancata attuazione dell’art. 39, co. 2-4 Cost.
125 cfr. Xxxxx Xxxx., x. 000 del 26/03/1991, cit.;
Dal riconoscimento del principio di libertà sindacale, ex art. 39, co.1 Cost., discende anzitutto un sistema di relazioni industriali basato sul c.d. pluralismo sindacale, ovvero la presenza di più associazioni sindacali, in astratto possibili attori della contrattazione collettiva e, conseguentemente, la libertà di scelta del contratto collettivo applicabile allo specifico rapporto di lavoro, potendosi inoltre verificare l’evenienza della coesistenza di più contratti collettivi astrattamente riferibili ad imprese e lavoratori impegnati nelle medesime attività economiche126. Tale tema si pone oggi all’attenzione degli studiosi con una forza inedita, soprattutto con riferimento alle vicende dei c.d. contratti collettivi pirata, ovvero gli accordi collettivi stipulati da organizzazioni sindacali di dubbia rappresentatività e alla stipulazione di più contratti collettivi nelle specifiche categorie, ossia i c.d. accordi separati, generati dalle sempre più frequenti divisioni all’interno delle associazioni rappresentative dei lavoratori, di cui la cronaca sindacale più recente abbonda.
Per una parte della dottrina, che tralascia l’aspetto patologico rappresentato dalle ultime vicende richiamate e ne evidenzia invece la natura fisiologica, derivante dal principio del pluralismo sindacale, questa situazione peculiare del sistema italiano di relazioni indutriali è stata sempre connotata dalla caratteristica per cui all’individuazione di una determinata categoria merceologica fa riscontro tradizionalmente una segmentazione della contrattazione collettiva per distinti ambiti di riferimento, normalmente condotta in base alle caratteristiche ed alle dimensioni del datore di lavoro127. Rebus sic stantibus, la dottrina e la giurisprudenza, nel
126 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 196;
127 Idem;
lungo dibattito caratterizzato dalla ricerca di soluzioni a tale annosa questione, hanno provato ad elaborare dei criteri, che consentissero di individuare il contratto collettivo da ritenere in concreto il parametro di riferimento (tertium paragonis), per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost..
Sul punto, una certa dottrina ha affermato che l’unica soluzione al problema non potesse non tradursi in una oggettivizzazione della disciplina negoziale di riferimento destinata ad essere utilizzata come termine di paragone nel giudizio individuale128, ovvero la scelta del contratto collettivo parametro ai fini di una corretta applicazione dell’art. 36, co.1, Cost. dovesse basarsi necessariamente sull’elaborazione di criteri selettivi oggettivi, che permettano di verificare l’effettiva attitudine parametrica dei contratti collettivi (…) e, dunque, il parametro maggiormente adeguato nell’ambito di più discipline collettive129. L’elaborazione giurisprudenziale, per lungo tempo, ha richiamato il criterio dell’attività effettiva, ex art. 2070 c.c., per la determinazione della categoria merceologica cui appartiene l’impresa130, ma tale impostazione è stata presto disattesa da quanti in dottrina evidenziavano un forte stridore della concezione ontologica della categoria131, ex art. 2070 c.c., con la natura di associazioni di diritto privato delle organizzazioni sindacali nell’ordinamento post-corporativo e dell’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo
128 X. Xxxxxxxx, L’adeguatezza della retribuzione di fronte ai contratti collettivi di diritto comune e al comma 1 dell’art. 36 della Cost., in MGL, 1952, pag. 128;
129 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 198;
130 cfr. Xxxx., n. 11554 del 1995, in RIDL, 1996, II, pag. 475;
131 X. Xxxxxxxx, La retribuzione tra legge, autonomia collettiva e determinazione giudiziale, in QADL, n. 2, 1998, pag. 38;
di diritto comune, stante l’inattuazione dell’art. 39, co. 4, Cost.. La conseguenza immediata e diretta dell’obiezione sollevata da una certa dottrina è stata la relativizzazione del concetto di categoria di appartenenza del datore di lavoro come criterio per la determinazione dei trattamenti spettanti ai lavoratori132, anche se l’invalso utilizzo del termine categoria conferma ancora oggi l’importanza del concetto nel nostro ordinamento ed ha imposto la necessità di una rilettura della concezione di categoria, ex art. 2070 c.c., alla luce dell’attuale sistema di contrattazione collettiva, nel senso di attribuire rilevanza alle concrete determinazioni delle parti sociali in merito alla definizione della c.d. area contrattuale, piuttosto che all’astratta natura dell’attività esercitata dall’imprenditore133. Tale impostazione, che qui si intende condividere, è stata caldeggiata dalla dottrina più attenta e successivamente avvalorata dalla giurisprudenza più recente134, che ha ribadito l’inapplicabilità dell’art. 2070 c.c. al sistema di contrattazione collettiva attuale e la libertà delle rispettive parti di rinviare ad un contratto collettivo diverso da quello corrispondente all’effettiva attività svolta dal datore di lavoro, salvo che tale contratto liberamente richiamato dalle stesse parti preveda, con riferimento al principio della giusta retribuzione ex art. 36 Cost., un trattamento economico in contrasto con i requisiti di proporzionalità e sufficienza, rispettati invece dal contratto collettivo di categoria ipoteticamente non scelto. In tal caso la verifica giudiziale sarà idonea a valutare quale contratto rispetti in
132 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 200;
133 P. Xxxxxxxxxxx, Area contrattuale e autonomia collettiva, in GDLRI, 1999, pag. 298 e ss.;
134 cfr. Cass., Sez. Un., n. 2665 del 1997, in RFI, 1997, voce Lavoro (contratto), pag. 1275;
concreto l’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost., operazione resa ancora più complessa qualora il datore di lavoro non applichi alcun contratto collettivo o il contratto collettivo non risponda alle caratteristiche del’impresa, ex art. 2070 c.c..
Una fattispecie tipica della richiamata ipotesi dell’esistenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili ad un medesimo rapporto di lavoro è rappresentata dai c.d. contratti collettivi pirata, ovvero, contratti collettivi stipulati da soggetti negoziali di dubbia rappresentatività rispetto alle tradizionali organizzazioni sindacali, caratterizzate dal requisito della maggiore rappresentatività comparativa, che contengono clausole retributive peggiorative rispetto ai normali livelli retributivi previsti per i lavoratori. A parere di una certa dottrina il fenomeno sembra caratterizzarsi per l’incontro sempre più frequente tra l’interesse di particolari categorie di piccole imprese in aree del terziario in cui è particolarmente importante contenere il più possibile il costo del lavoro e quello di sindacati minori in cerca di riconoscimento per rafforzare la propria posizione sullo scenario delle relazioni industriali135.
L’esperienza storica dei primi contratti collettivi pirata risale al 1992, quando fu stipulato per il settore del turismo un contratto collettivo tra l’associazione imprenditoriale Ucict (Unione cristiana italiana commercio e turismo), presente solo in alcune province dell’Xxxxxx Xxxxxxx, e l’organizzazione sindacale Fenasalc (Federazione nazionale sindacati autonomi lavoratori commercio) aderente alla confederazione Cisal. Nel caso di specie
135 I. Regalia, X. Xxxxxxx, X. Xxxxxx, Osservazioni sulle relazioni industriali nei casi di contrattazione separata, in RGL, 2010, I, pag. 21;
l’accordo collettivo così formalizzato tra tali organizzazioni sindacali presentava tra le altre una particolarità, che qui preme sottolineare, come annotata da un’autorevole dottrina136, ovvero la previsione di trattamenti retributivi nettamente inferiori a quelli indicati nel contratto collettivo stipulato per la categoria dai sindacati confederali.
I problemi giuridici a cui tale fenomeno rimanda sono a dir poco rilevanti, se si guarda da un lato all’aspetto della possibilità per i lavoratori di rivendicare il migliore trattamento retributivo previsto dal contratto confederale comune e, dall’altro, alla facoltà per i lavoratori di invocare, sempre sul piano retributivo, un trattamento più elevato, ex art. 36 Cost..
Il dibattito in dottrina continua a caratterizzarsi per la forte divergenza di opinioni tra quanti negano la stessa natura sindacale di queste organizzazioni, in quanto prive del requisito dell’effettività sul piano fattuale137 e altri, invece, che pur ammettendone realisticamente l’esistenza, evidenziano la carenza di genuinità dell’attività rappresentativa svolta da queste associazioni, che potrebbe giustificare una presa di distanza del giudice dalle clausole retributive da esse pattuite138. A tale ultima tesi risponde, in contrapposizione, quella parte della dottrina che fa discendere dal principio di libertà sindacale, ex art. 39 Cost., la conseguenza per cui l’attività giurisdizionale non può arrogarsi il potere di attribuire a priori patenti di autenticità o genuinità al di fuori
136 X. Xxxx, Note sui contratti collettivi “pirata”, in RIDL, 1997, I, pag. 382;
137 X. Xxxxxxxxxx, Pluralità di contratti collettivi nazionali alla medesima categoria, in LD, 1997, pag. 269 e ss.;
138 X. Xxxx, Autonomia collettiva e occupazione, in GDLRI, 1998, II, pag. 220 e ss.;
dell’eccezionale fattispecie alla quale si riferisce l’art. 17 della l. n. 300/1970139, ovvero a meno che non si tratti di organizzazioni sindacali di comodo. Tale dottrina, dunque, ammette la possibilità di stipulare contratti collettivi meno vantaggiosi per i lavoratori, applicati dal datore di lavoro iscritto all’organizzazione che li ha stipulati, sostenendo l’impossibilità per il giudice di sindacare i livelli retributivi in essi previsti, al fine di riconoscere ai lavoratori un trattamento retributivo eventualmente più elevato.
Sul punto, una recente sentenza della giurisprudenza di merito condivide tale impostazione laddove afferma che se alcuni sindacati riescono per la loro forza a spuntare condizioni migliori, ciò non vuol dire automaticamente che un altro CCNL sia di per sé contrario ai parametri costituzionali dell’art. 36140, ovvero il giudice non può essere posto nella condizione di preferire un sindacato rispetto ad un altro quando questo non violi il principio di libertà sindacale. Per un’altra parte della dottrina, dal principio di libertà sindacale, ex art. 39 Cost. discende la possibilità per le organizzazioni non maggiormente rappresentative di stipulare ulteriori contratti rispetto al contratto stipulato, da ambedue i lati, dalle organizzazioni nel complesso maggioritarie nella categoria, ma in tale ipotesi questo contratto varrà nei confronti delle parti del singolo rapporto di lavoro, se ed in quanto il diritto privato comune lo consenta e nei limiti in cui un contratto di diritto comune può aver corso, data l’esistenza di un
139 X. Xxxxx, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, dissenso, Xxxxxxx, Milano, 1994, pag. 95; vedi anche X. Xxxxxxxxx, Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in GDLRI, 1997, III, pag. 413;
140 cfr. Corte App. Genova del 01/06/2005, in Lav. nella Giur., 2005, XI, pag. 1061;
contratto generalmente obbligatorio e di massima inderogabile141. Nell’eventualità quindi che i lavoratori invochino l’applicazione delle clausole del contratto collettivo comune, sulla base dell’inadeguatezza della retribuzione, prevista nel contratto contestato, all’art. 36 Cost., tale pretesa, secondo questo orientamento dottrinale, sarebbe legittima ed il giudice, nel caso di specie, potrà determinare la misura della giusta retribuzione con riferimento alle clausole del contratto collettivo comune individuato come parametro di confronto.
Nel merito, una recentissima sentenza del Tribunale di Torino142 conferma tale impostazione dottrinale laddove ritiene parametro di riferimento, nell’ipotesi di una pluralità di contratti collettivi applicabili ad uno stesso settore merceologico, il contratto collettivo che prevede il trattamento retributivo più compatibile ex art. 36 Cost.. Nel caso di specie, ovvero quello del socio lavoratore di una cooperativa che rivendicava l’applicazione del CCNL di settore ed il trattamento retributivo in esso previsto o comunque di un trattamento più favorevole, ex art. 36 Cost., rispetto alla consistente differenza di trattamento economico stabilita dal CCNL Unci, applicato dalla controparte datoriale, il giudice accoglie la tesi maggioritaria in dottrina dell’identificazione tra il trattamento retributivo previsto nel contratto collettivo comune e il minimo retributivo inderogabile, ex art. 36 Cost., ovvero del contratt(o) collettiv(o) che forni(sce)più garanzie ai lavoratori di ottenere una retribuzione proporzionata143, in ottemperanza a quanto prescritto dall’art. 3 della legge 142/01 sulla disciplina delle
141 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 386;
142 cfr. Trib. To., n. 3818 del 2010, in banca dati Juris Data;
143 Ivi;
cooperative, specificando che vista la pluralità di contratti collettivi oggi in vigore, disciplinanti anche lo stesso settore, il giudice non può acriticamente accettare ogni indicazione contenuta in tali contratti come rispettosa dei canoni dell’art. 36 Costituzione, ma deve procedere ad un raffronto tra gli stessi per valutare se vi sia una lesione dell’intangibile diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata al lavoro svolto, come espressamente previsto dal citato art. 36 Cost. (…)144.
Per quanto concerne l’annoso tema della rappresentatività sindacale, correlato alla sottoscrizione di tali ipotesi di accordi collettivi, il giudice si limita a precisare che (…) non si vuole sostenere che soltanto le sigle sindacali con maggiore rappresentatività possono legittimamente stipulare contratti collettivi e definire trattamenti retributivi: l’art. 39 della Costituzione garantisce la piena libertà sindacale, ma è ovvio che ciò non può avvenire in contrasto con il diritto del singolo, intangibile da qualunque organizzazione sindacale, di percepire la giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.145.
Il tema dei contratti collettivi pirata impone dunque all’attenzione del dibattito attuale, in primis, il problema dell’effettiva rappresentatività dell’organizzazione sindacale che stipula il contratto collettivo ad efficacia soggettiva limitata, ex art. 39 Cost. e, in secondo luogo, la diversa questione, ad esso collegata, dell’eventuale verifica giudiziale della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost. rispetto al parametro collettivo così individuato.
Il Legislatore del 1995 è intervenuto con la legge 549 nel proporre un criterio selettivo dell’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali e
144 Ivi;
145 Ivi;
dell’individuazione del contratto collettivo parametro ai fini dell’applicazione dell’art. 36 Cost., rintracciandolo nell’elemento della maggiore rappresentatività comparata146. Sulla base del disposto normativo così richiamato, posto che la norma ha la chiara finalità di individuare l’entità del contributo previdenziale e assistenziale, la dottrina più recente si è orientata nel ritenere che, in presenza di più contratti collettivi astrattamente applicabili nel medesimo ambito territoriale e categoriale, qualora il giudice fosse chiamato a scegliere il trattamento economico più idoneo ai sensi dell’art. 36 Cost., potrebbe essere seguito lo stesso criterio di preferenza per il contratto stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi previsto dal Legislatore ai fini della retribuzione imponibile previdenziale147.
Tale impostazione sconta necessariamente l’annoso problema dell’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo, stante la perdurante inapplicazione dell’art. 39 Cost., co. 2-4; inoltre, secondo le argomentazioni di una parte della dottrina il criterio della maggiore rappresentatività comparata non incide di per sé sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, ma opera solo ai fini della determinazione dei minimi retributivi148,
146 Cfr. art. 2, co. 25, l. n. 549/1995 in base al quale in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria;
147 X. Xxxxxxxxx, Istituzioni di diritto del lavoro, Cedam, Pavia, 2005, vol. II, pag. 191;
148 X. Xxxx, Note sui contratti collettivi “pirata” cit., pag. 386 e ss.;
in un’ottica di perequazione delle retribuzioni ex art. 36 Cost., ovvero nel rispondere all’esigenza di assicurare ai lavoratori, al di là del pluralismo sindacale, un trattamento retributivo proporzionato e sufficiente. Questa tesi è osteggiata da quanti ritengono il criterio suddetto in possibile contrasto proprio con il principio del pluralismo sindacale, ex art. 39 co. 1 Cost., senza tralasciare le questioni legate alla determinazione effettiva di tale requisito, in presenza di una non perfetta coincidenza tra i diversi ambiti categoriali come determinati dai diversi sindacati firmatari149. In tali vicende un’altra parte della dottrina propone la soluzione di rinunciare alla comparazione ogni qual volta non si registri una perfetta sovrapposizione tra ambiti categoriali di riferimento150. Di diverso avviso sono coloro che invece sostengono che la comparazione possa comunque desumersi, anche nel caso in cui le categorie di riferimento siano distinte151.
In conclusione, si intende qui aderire a quell’indirizzo dottrinale che individua la scelta del contratto parametro nel contratto collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero la tesi che va nella direzione di privilegiare quei soggetti capaci di ottenere il più elevato grado di consenso entro l’ambito più ampio tra quelli individuabili nelle ripartizioni categoriali tracciate dall’autonomia collettiva152, ossia i sindacati comparativamente più rappresentativi sono visti, in quanto tali, idonei a garantire l’adeguatezza delle previsioni del contratto collettivo stipulato a fungere da
149 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 213;
150 X. Xxxxxxxxxx, Rappresentatività sindacale: fattispecie ed effetti, Xxxxxxx, Milano, 2000, pag. 171;
151 X. Xxxx, Note sui contratti collettivi “pirata” cit., pag. 387;
152 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 214;
parametro per la determinazione della retribuzione, ex art. 36 Cost..
Una certa dottrina evidenzia infine come, sulla base dell’analisi delle peculiarità del mercato del lavoro attuale e delle sue dinamiche interne, l’idoneità di un contratto collettivo ad essere assunto come parametro per la determinazione in sede giudiziale della retribuzione dipende essenzialmente dalla rappresentatività effettiva delle associazioni sindacali stipulanti non solo dei lavoratori occupati, stabili regolari ma anche dei precari, dei disoccupati, degli irregolari153, ovvero dal consenso effettivo dei soggetti nei confronti dei quali il contratto trova applicazione e, dunque, il contratto parametro è quello che, all’interno della categoria di riferimento, ha una maggiore diffusione tra tutti i lavoratori, tenendo conto sia degli insiders sia degli outsiders nel mercato del lavoro. In alcuni casi la stessa giurisprudenza ha individuato il contratto collettivo parametro corrispondente al contenuto della retribuzione ex art. 36 Cost. quale contratto stipulato dai sindacati con un certo grado di rappresentatività154, prospettando dunque una soluzione al problema dell’effettiva rappresentatività dell’organizzazione sindacale che stipula il contratto, stante l’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo di diritto comune, anche nell’ipotesi di una pluralità di contratti collettivi astrattamente applicabili all’interno di una medesima categoria.
153 X. Xxxxxx, La nozione di “giusta retribuzione” nell’articolo 36 della Costituzione cit., pag. 719 e ss.;
154 cfr. Cass., n. 997 del 1990, in RFI, 1990, voce Lavoro (rapporto), n. 1043;
1.5 La precettività dell’art. 36 Cost. e la necessità dell’intervento giudiziale
1.5.1 L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.: il dibattito in dottrina e in giurisprudenza sul valore orientativo dei contratti collettivi
L’individuazione del contratto parametro, come illustrata nel paragrafo precedente, rappresenta il precedente logico/argomentativo dell’analisi che si va ora ad effettuare, incentrata sul tema della verifica giudiziale dell’adeguatezza della retribuzione, ex art. 36 Cost., rispetto al parametro contrattuale così identificato.
Si è già sottolineato come la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, a far data dalla risalente sentenza della Corte di Cassazione, n. 461 del 1952, siano oggi concordi nell’affermare la natura precettiva dell’art. 36 Cost. e in particolare il diritto alla giusta retribuzione del singolo lavoratore come un diritto di credito, più che un diritto della personalità155.
La risoluzione dei problemi intimamente connessi all’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost., che ha segnato il dibattito giuridico in questi lunghi anni, non ha potuto prescindere dalla presa d’atto dell’inattuazione dell’art. 39 co. 2-4 Cost., ovvero della dissociazione tra l’immediata precettività del diritto alla giusta retribuzione e la questione dell’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo156. Da tale presa d’atto discende anzitutto l’impossibilità di sovrapporre perfettamente il concetto di retribuzione, ex art. 36 Cost., rispetto a quello di trattamento economico previsto dai contratti collettivi efficaci erga omnes, secondo la previsione inattuata
155 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 52;
156 Ivi, pag. 53;
dell’art. 39, co. 4 Cost. e, dunque, la constatazione che la norma sulla giusta retribuzione persegue un obiettivo compatibile, ma non del tutto collimante con la seconda parte dell’art. 39157, ossia può affermarsi la presenza di un significato autonomo del concetto di retribuzione, che non esaurisce quello di trattamento economico stabilito dal contratto collettivo, ma ne costituisce il fondamento, il punto di partenza. Per dottrina unanime infatti tale retribuzione non ostacola la possibilità di erogare trattamenti economici aggiuntivi da parte della contrattazione collettiva. Una parte della dottrina sottolinea poi come tale distinzione di contenuti tra il significato di retribuzione proporzionata e sufficiente, ex art. 36 Cost. e quello di trattamento economico previsto dai contratti collettivi erga omnes, ex art. 39 Cost. inattuato, è sottesa ad una diversità di obiettivi che le due norme si pongono: quello insito nell’art. 36 Cost. si esprime nel garantire ad ogni lavoratore una remunerazione minima della prestazione lavorativa158.
La mancata attuazione dell’art. 39, co. 4, Cost. e, dunque, l’inapplicabilità erga omnes del trattamento economico stabilito dal contratto collettivo di riferimento ha indotto la giurisprudenza ad elaborare soluzioni alternative per realizzare in concreto il disposto precettivo dell’art. 36 Cost. Xxxx xxxxxxxx, accolto dalla prevalente giurisprudenza, è stato quello di valorizzare il potere determinativo del giudice sulla base del ricorso all’art. 2099 c.c.. Anche una parte della dottrina legittima, in forza del ricorso a tale operazione logico/interpretativa, l’intervento correttivo159 del giudice, ovvero
157 Ivi, pag. 54;
158 X. Xxxxxxxxxx, Sul contenuto del contratto cit., pag. 308 e ss.;
159 G. Roma, Le funzioni della retribuzione cit., pag. 41;
l’ammissibilità di una determinazione giudiziale della retribuzione proporzionata e sufficiente, qualora nel caso di specie il trattamento economico stabilito nel contratto non corrisponda ai parametri dell’art. 36 Cost.. Altra parte della dottrina ha sollevato dubbi sull’impostazione seguita da tale indirizzo giurisprudenziale, soprattutto con riferimento alla questione problematica della non vincolatività, come questa tesi sembrerebbe far sottintendere, della previsione del parametro collettivo rispetto alla determinazione giudiziale della retribuzione proporzionata e sufficiente. In tal senso questa dottrina sottolinea come il precetto costituzionale pare aver smarrito ogni connotazione di oggettività contenutistica per dissolversi all’interno dei pronunciamenti giudiziali, il cui più vistoso elemento di dissonanza è proprio rappresentato dal mutevole livello di attendibilità e vincolatività riconosciuto alle fonti collettive160.
Dalla lettura combinata delle due norme, art. 36 Cost. e art. 2099 c.c. e, dalle divergenti interpretazioni applicative che ne sono seguite, gli orientamenti giurisprudenziali si sono polarizzati nell’affermare la vincolatività o meno del parametro economico contrattuale e il suo diverso grado di efficacia costrittiva, rispetto al processo di determinazione giudiziale della retribuzione ex art. 36 Cost.. Si sono così distinti, fra gli altri, un indirizzo che teorizza la sostanziale corrispondenza tra il trattamento retributivo costituzionalmente garantito e i minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva, con la conseguente impossibilità per il giudice di operare l’operazione correttiva161; tale tesi è stata sostenuta in dottrina da quanti
160 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 56;
161 cfr. tra le altre Pret. Mi. del 21/12/1992, in OGL, 1993, pag. 110 e vedi anche Cass., n. 2049 del 1982, in RIDL, 1982, II, pag. 60;
hanno ritenuto le determinazioni retributive della contrattazione collettiva l’espressione del più equo contemperamento tra le esigenze dei lavoratori e dei datori di lavoro (…) tale da realizzare un’estensione in forma indiretta dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, sia pure limitatamente alle clausole retributive, anche in favore del lavoratore non iscritto all’organizzazione stipulante l’accordo collettivo162; un altro indirizzo giurisprudenziale, invece, valorizza fortemente il momento della valutazione giudiziale nella comparazione dei parametri collettivi con altri indicatori163, ritenendo il rinvio ai trattamenti retributivi minimi del contratto collettivo puramente facoltativo. Da ultimo, un orientamento in dottrina avvalora l’ipotesi del rinvio formalmente non recettizio ma sostanzialmente acritico164 alle clausole del contratto collettivo, ad evidenziare la disomogeneità di posizioni sul ruolo dell’intervento giudiziale circa le previsioni del parametro collettivo, funzionalizzato all’applicazione del precetto costituzionale, ex art. 36 Cost..
E’ opportuno ora specificare che quantitativamente è prevalsa la tesi della semplice natura orientativa del parametro collettivo165. E sempre nella giurisprudenza maggioritaria tali parametri collettivi, seppur solo orientativi, devono essere tuttavia privilegiati dal giudice
162L. Xxx Xxxxxxx, Retribuzione sufficiente e condizioni territoriali: gli orientamenti della giurisprudenza, in ADL, 2003, I, pag. 317 e ss.;
163 cfr. Cass., n. 10260 del 2001, in RIDL, 2002, II, pag. 299 ed anche in RGL, 2002, II, pag. 693;
164 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 57;
165 cfr. tra le altre Cass., Sez. Un., n. 6492 del 1979, in MGL, 1981, pag. 210; vedi anche Cass., n. 2022 del 1999, in FI, 2000, I, pag. 1648 e Trib. Bn. del 30/03/2009, in MR, 2009;
nel processo di determinazione della retribuzione, ex art. 36 Cost., in quanto appaiono in linea di principio come le più adeguate chiavi di lettura delle reali condizioni del mercato del lavoro166. Sul punto, si distinguono in giurisprudenza due orientamenti sulla presunzione di adeguatezza della clausola collettiva all’art. 36 Cost: un primo che insiste sulla natura di presunzione relativa del parametro collettivo, con il conseguente obbligo di motivazione per il giudice che intenda discostarsi da esso167; un’altro che invece sottolinea la natura di mera presunzione semplice o di fatto, che permette una più libera valutazione giudiziale del rispetto dell’art. 36 Cost., con riferimento al parametro collettivo168.
Xxxxx indirizzi testè richiamati emerge evidentemente una diversità di atteggiamento della giurisprudenza che, nel fare riferimento ai trattamenti retributivi indicati nel contratto collettivo parametro, li identifica, in alcuni casi, con la giusta retribuzione ex art. 36 Cost., in altri, propone una lettura delle clausole collettive elevandole a luogo privilegiato, ma non esclusivo, per la definizione del contenuto del precetto costituzionale. A tale proposito un’autorevole dottrina afferma che (…) traspare la percezione dell’avvenuto spostamento, del centro di gravità della tutela garantita ai lavoratori dall’ordinamento giuridico, non più imperniata sulla
166 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 58;
167 cfr. Cass., n. 1332 del 1981, in RFI, 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 1114 e vedi anche Cass., n. 1903 del 1994, in RGL, 1994, II, pag. 408 ed anche in ADL, 1995, I, pag. 361;
168 cfr. Cass., n. 9954 del 1991, in RFI, 1991, voce Lavoro (rapporto), n. 1008 e vedi anche Xxxx., n.163 del 1984, in NGL, 1986, pag. 501;
legislazione statale bensì sull’autonomia collettiva169, con le rilevanti implicazioni che tale tematica comporta, prima fra tutte, la questione dell’uniforme applicazione dell’art. 36 Cost. da parte del giudice, come nell’ipotesi specifica, di cui si tratterà nel prosieguo, della determinazione dei minimi salariali nelle aree socio-economiche depresse. Sul punto un’attenta dottrina ha sollevato il rischio di un evidente soggettivismo decisionale, che non rispecchia né le esigenze di certezza del diritto e dei rapporti economici, né quelle di un’economia di massa, dove il salario tende nelle sue grandi linee verso valori standard, che realizzano anche un valore di parità di trattamento170.
Stando alle conclusioni, rintracciabili nell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario, il parametro collettivo ha la valenza di un parametro orientativo e il giudice può, in attuazione dell’art. 2099 c.c. operare in modo correttivo sulle clausole retributive del contratto collettivo, in applicazione dell’art. 36 Cost., al fine di determinare la retribuzione proporzionata e sufficiente. L’analisi delle decisioni giurisprudenziali individua un modus operandi per il giudice, che consiste da un lato nell’eventuale scelta di un contratto collettivo parametro diverso da quello applicato o voluto dal datore di lavoro, richiamando non tanto l’impostazione della concezione ontologica di categoria ex art. 2070 c.c. sopra citata, quanto l’area contrattuale così identificata dall’autonomia collettiva stessa171; dall’altro lato, l’intervento correttivo del giudice si realizza in una deroga in melius o in peius
169 X. Xxxxxxx, La partecipazione del sindacato al potere politico dello Stato, in Riv. delle socieà, 1971, I, pag. 8;
170 X. Xxxxxx, Prefazione a M. L. De Cristofaro, L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 co. 1 della Costituzione, in La giusta retribuzione, Bologna, 1971, pag. 11;
171 cfr. tra le altre Cass., n. 12490 del 1992, in DPL, 1993, pag. 214;
rispetto alla clausola retributiva del contratto collettivo, motivata dalla peculiarità del caso specifico172. In particolare, per quel che concerne le determinazioni giudiziali della retribuzione in misura inferiore alle previsioni collettive, si ritrovano tra i criteri scelti a fondamento della motivazione giudiziale, in primis, le condizioni socio-economiche del territorio nel quale il lavoratore presta la propria opera, il numero dei dipendenti e il volume d’affari dell’impresa, il carico familiare, il minor costo della vita173.
Orbene, in dottrina le principali posizioni rispecchiano altresì quelle individuate dalla giurisprudenza, ovvero la tesi, ormai marginale, della vincolatività del parametro collettivo per il giudice174 e la visione che le determinazioni della contrattazione collettiva rappresentano uno strumento privilegiato, ma facoltativo di confronto, finanche nel caso dell’esistenza di un contratto collettivo applicabile al rapporto di xxxxxx000.
1.5.2 L’art. 36 Cost. e la flessibilità salariale geografica La differenziazione salariale su base territoriale è un argomento che ha trovato sempre spazio nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, fin dai tempi meno recenti, quando la contrattazione collettiva176 procedeva a determinare le retribuzioni in ragione di una previa
172 cfr. Cass., n. 2723 del 1978, in MGL, 1979, pag. 472;
173 cfr. tra le altre Pret. Vallo della Lucania del 16/10/1987, in LPO, 1988, I; Pret. Napoli del 15/04/1977, in RGL, II, pag. 1021; Corte App. Bo del 22/04/1960, in RDL, 1960, II, pag. 377; Pret. Ispica del 22/06/1987, in DL, 1989, II, pag. 292;
174 A. Vallebona, Autonomia collettiva e occupazione cit., pag. 413;
175 G. Roma, Le funzioni della retribuzione cit., pag. 45;
176 cfr. Accordo 18 marzo del 1969, in RGL, 1969, I, pag. 112 e ss.;
individuazione di zone salariali, sulla base di un diverso costo della vita. Negli ultimi anni tale tema è stato riproposto con sollecitudine da quanti hanno intravisto, nel ricorso al suo utilizzo, conseguenze positive in termini di occupazione e di aumento della produttività delle imprese operanti in aree critiche, seppur con effetti negativi sulle retribuzioni dei lavoratori di quei territori.
La dottrina, da sempre attenta al fenomeno, ne ha individuato due piani di operatività, ovvero quello altrimenti detto della determinazione equitativa della retribuzione ex art. 36 Cost. (…) e quello dell’autonomia collettiva, cioè con riguardo alla funzione svolta dalle parti sociali nel dar rilievo alle condizioni territoriali in cui viene prestata l’attività lavorativa177. Per alcuni autori il fenomeno coincide, dal punto di vista pratico-fattuale, nel realizzare un adeguamento delle retribuzioni alle concrete condizioni socio economiche dell’ambiente in cui viene prestata l’attività lavorativa (…), ossia comprende una pluralità di ipotesi tutte accomunate dalle particolari condizioni del territorio in cui viene effettuata la prestazione di lavoro178.
E’ necessario ora richiamare il dibattito giurisprudenziale che ne è seguito, ovvero quella che da una certa dottrina viene evidenziata come l’inclinazione della giurisprudenza (…) verso l’associazione tra l’art. 36 Cost. ed il livello di sviluppo economico delle diverse aree geografiche della penisola179. Basti qui ricordare che l’intervento della giurisprudenza si è reso indispensabile anche per supplire,
177 X. Xxx Xxxxxxx, Retribuzione sufficiente e condizioni territoriali cit., pag. 317 e ss.;
178 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali cit., pag. 423;
179 C. De Marchis, Retribuzione sufficiente, zone depresse e il chiaro “no” della Cassazione, in RGL, 1994, II, pag. 409;
da un lato, alla mancanza di una legislazione attuativa dell’art. 39 Cost. e, dall’altro lato, all’inesistenza di una legislazione sui minimi salariali, caldeggiata da alcuni studiosi in dottrina180.
Xxxxx indirizzi giurisprudenziali analizzati emerge da subito il contrasto sul tema dei minimi salariali nelle aree socio-economiche depresse. Le decisioni giurisprudenziali che optano per una correzione al ribasso dei parametri retributivi collettivi motivano spesso la scelta sulla base di particolari situazioni del mercato del lavoro in quella zona, con riguardo anche alle ridotte dimensioni del datore di lavoro e della sua capacità economica181. Sul punto, un indirizzo giurisprudenziale fa espressamente riferimento alla determinazione della giusta retribuzione rapportata al costo della vita, ovvero all’incidenza della situazione del mercato del lavoro e al valore delle retribuzioni del luogo dove il lavoratore svolge la propria prestazione, rispetto alle motivazioni del giudice a sostegno di una flessibilizzazione della retribuzione per aree geografiche; il giudice però potrà discostarsi dai minimi collettivi a condizione che utilizzi dati statistici ufficiali o, generalmente riconosciuti, sul potere di acquisto della moneta182.
Una parte della dottrina è apparsa da subito fortemente critica sulle differenziazioni retributive motivate dalle condizioni territoriali, ovvero da elementi esterni alla
180 X. Xxxxxxx, Il lavoro nel Sud. Profili giuridici, Giappichelli, Torino, 1997, pag. 45, secondo il quale la retribuzione minima avrebbe l’importante compito di svolgere un’essenziale funzione protettiva specialmente in quella fascia del mercato del lavoro non coperta in parte, o totalmente, dalla contrattazione collettiva;
181 cfr. tra le altre Cass., n. 5233 del 1987, in RFI, 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 1310;
182 cfr. Cass., n. 10260 del 2001, cit.;
relazione contrattuale di xxxxxx000. Una giurisprudenza più recente184, in senso adesivo a tale orientamento dottrinale, ha affermato l’incompatibilità tra il contenuto previsto all’art. 36 Cost. e la determinazione al ribasso della retribuzione in funzione delle specifiche condizioni economico-ambientali in cui viene resa l’attività lavorativa. In particolare, è opportuno ricordare un passaggio fortemente significativo dell’orientamento manifestato dalla Cassazione su tale questione: in una interessante pronuncia la Suprema Corte ribadisce che il precetto costituzionale è appunto rivolto ad impedire ogni forma di sfruttamento del dipendente, qualunque sia la ragione che tale sfruttamento rende possibile e, quindi, anche quando, secondo l’id quod plerumque accidit, esso trovi radice nella situazione socio-economica del mercato del lavoro185. Una certa giurisprudenza, invece, in adesione alla tesi sostenuta da una parte della dottrina della natura meramente orientativa del contratto parametro e, conseguentemente, della legittimità dell’intervento correttivo del giudice in melius o in peius, ha sostenuto la piena libertà del giudice di discostarsi in senso peggiorativo dal parametro collettivo, con il solo obbligo di motivazione186. L’indirizzo giurisprudenziale a sostegno della natura di mero parametro orientativo delle retribuzioni minime richiamate nel contratto collettivo sottolinea infatti che quand’anche il giudice intenda
183 X. Xxxxx, La retribuzione equa e sufficiente nelle aree socio- economicamente depresse: la visione “socialmente avanzata” della Cassazione, in LD, III, pag. 536;
184 cfr. Xxxx., n. 1903 del 1994, cit.; Cass., n. 14211 del 2001, in
ADL, 2003, pag. 379; Cass., n. 10260 del 2001, cit.;
185 cfr. Cass., n. 1903 del 1994, cit.;
186 cfr. tra le altre Cass., n. 10260 del 2001, cit.; vedi anche Cass., n. 7528 del 29/03/2010, in GI, 2010, pag. 11;
discostarsi dai minimi contrattuali può farlo solo con riferimento a profili oggettivi187. Tale ultimo indirizzo giurisprudenziale fa leva anche sul criterio della dimensione dell’impresa ai fini della determinazione della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., sottolineando come il giudice che adotti come parametro orientativo le tariffe minime indicate nella contrattazione collettiva può anche procedere alla riduzione delle stesse in ragione delle modeste dimensioni dell’impresa188, ben potendosi affermare che la prestazione venga apprezzata diversamente in relazione alle esigenze ed alle capacità economiche di chi la utilizza189, ritenendo così che le capacità economiche del datore di lavoro, legate allo sviluppo dimensionale dell’impresa, possano giustificare la riduzione del trattamento minimo stabilito dal contratto collettivo di categoria190. A tale proposito, una dottrina, fortemente critica sulla rilevanza dello sviluppo dimensionale dell’impresa ai fini dello scostamento giudiziale verso il basso delle tariffe indicate nei contratti collettivi di categoria, evidenzia come la dimensione organizzativa di un’impresa, tuttavia, è difficilmente definibile perché non esiste un suo parametro sicuramente rappresentativo191, dal momento che il concetto dimensionale, infatti, è definibile attraverso dei parametri economici, tecnici, patrimoniali ed organizzativi, che afferiscono sia ad elementi tangibili dell’organizzazione
187 cfr. Cass., n. 14211 del 2001, cit.;
188 cfr. tra le altre Cass., 29/05/1978, in MGI, 1978, pag. 621; contra vedi Cass., n. 896 del 17/01/2011, in Lav. nella Giur., 2011, IV, pag. 412;
189 cfr. Cass., n. 14211 del 2001, cit.;
190L. Del Vecchio, Retribuzione sufficiente e condizioni territoriali, cit., pag. 317 e ss.;
191 Ivi;
(addetti, impianti, capitale) sia ad indici di risultato dell’attività aziendale (fatturato, produzione, valore aggiunto)192. Tali aspetti di criticità sono affermati anche da quanti, in giurisprudenza, ritengono che nella determinazione del minimo retributivo non debba tenersi conto della situazione economico-finanziaria dell’impresa193.
Procedendo ad una sintesi dei principali orientamenti in dottrina, è necessario ribadire l’esistenza di un indirizzo dottrinale perfettamente adesivo a quello giurisprudenziale che ripropone la legittimità del tema delle differenziazioni economiche su base territoriale con il riferimento alle c.d. zone salariali, individuate dalla contrattazione collettiva, come una presa d’atto non soltanto delle differenze di costo della vita nelle diverse zone del paese, ma anche delle differenti condizioni dei mercati del lavoro locali194. In netta antitesi con l’impostazione precedente è invece un’altra parte della dottrina che afferma come il contenuto dell’art. 36 Cost. non sembra consentire affatto una differenziazione astratta della retribuzione (…) in ragione del luogo geografico in cui viene prestato il lavoro195. E ancora, tale intervento correttivo del giudice è visto in contrasto con il contenuto di cui all’art. 36 Cost. e all’applicazione uniforme di tale norma su tutto il territorio nazionale, laddove presuppone che un elemento esterno al rapporto (il luogo della prestazione) possa determinare una diversa quantificazione della controprestazione
192 X. Xxxxxxxxx, Economia e gestione dell’impresa, Cedam, Padova, 1997, pag. 14 e ss.;
193 cfr. Cass., n. 3184 del 2000, in DPL, 2000, XXVIII, pag. 2015;
194 X. Xxxxxx, Il lavoro subordinato: definizione e inquadramento, Xxxxxxx, Milano, 1992, pag. 239;
195 X. Xxxxxxx, L’art. 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva cit., pag. 132;
retributiva (…), dal momento che da tale norma costituzionale non è possibile dedurre alcun riferimento ad un criterio territoriale incidente sulla determinazione della retribuzione196. Condividendo tale assunto, altri autori sottolineano come soltanto le modalità di svolgimento della prestazione dovrebbero influire sulle determinazioni retributive della stessa, mentre dovrebbe risultare del tutto ininfluente il luogo dove la prestazione viene resa che, per ciò stesso non è, di per sé, indice di una diversa qualità e quantità di lavoro, né può essere influente sulla determinazione della stessa retribuzione proporzionale197. Ragionando in altri termini, si potrebbero ammettere come legittime differenziazioni territoriali ispirate a criteri di convenienza (la salvaguardia dell’occupazione, la crescita dei livelli occupazionali (…)) e secondo logiche che muovono dall’arretratezza o dalla depressione delle aree interessate per determinare un prezzo locale della forza lavoro198. La stessa dottrina sostiene inoltre come le differenze salariali basate sul dato territoriale rappresentino di fatto una disuguaglianza sostanziale tra lavoratori che si trovano casualmente ad eseguire la prestazione lavorativa in aree geografiche diverse e variamente sviluppate del paese, dal momento che scaricano sulla componente economica del rapporto di lavoro i difetti derivanti da carenze infrastrutturali199.
Il tema delle differenziazioni salariali su base territoriale si interseca con un’altra questione teorica parimenti
196 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali cit., pag. 424;
197 X. Xxxxxxx, L’articolo 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva cit., pag. 93 e ss.;
198 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali cit., pag. 429;
199 Idem;
problematica, di cui si tratterà successivamente, ovvero quella riguardante il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello nella determinazione del trattamento retributivo, ex art. 36 Cost., nel caso in cui contratti collettivi di livello inferiore prevedano trattamenti retributivi che si discostano in peius dalle previsioni del contratto collettivo nazionale. Qui basta richiamare tale tema, anticipando solo che la maggior parte della giurisprudenza ha ammesso la possibilità per il contratto collettivo di livello inferiore (aziendale o territoriale) di assurgere a parametro per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., anche nel caso in cui preveda un trattamento retributivo peggiorativo rispetto alla disciplina contenuta nel contratto collettivo nazionale200.
In conclusione, l’accoglimento della tesi della natura solo orientativa del parametro collettivo comporta un’evidente valorizzazione del ruolo della scelta del giudice che implica inevitabilmente l’accettazione delle infinite combinazioni e varianti di fattori sociologici, economici, geografici, ambientali che concorrono alla formazione del convincimento individuale201. Questa soluzione non è condivisa da quanti in dottrina assegnano ancora un ruolo centrale alle manifestazioni dell’autonomia collettiva, nei vari livelli in cui essa si articola, per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost.202. Parte della dottrina sembra accogliere invero una tesi mediana tra le due tesi opposte (quella di assumere il contratto collettivo nazionale come il solo parametro di riferimento per il
200 cfr. Cass., n. 2955 del 1997, in NGL, 1997, pag. 344; contra Trib. Bn. dell’11/10/2010, in MR, 2010;
201 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 180;
202 I. Xxxxxxxxx, Equità e diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1997, pag. 154 e ss.;
giudice e quella di riconoscere la modificabilità del parametro collettivo nazionale anche da parametri collettivi di diverso livello e quindi anche dal giudice), ossia quella di ritenere attendibile la valutazione giudiziale della giusta retribuzione, in quanto conferisce un crisma di accettabilità sociale a clausole retributive suscettibili di applicazione indifferenziata e contemporaneamente è conforme alle indicazioni della Costituzione203. Una certa dottrina sembra infine manifestare inquietudine rispetto al tema della differenziazione salariale su base territoriale, poiché legge tale meccanismo di determinazione dei trattamenti economici dei lavoratori come l’espressione del sovraccarico di funzioni assegnate ad una diversa regolazione delle dinamiche salariali, dove sullo sfondo si intravede la disarticolazione del livello nazionale di determinazione e la diffusione di livelli differenziati in ragione delle specificità territoriali o settoriali204.
1.5.3 La differenziazione salariale su base territoriale ad opera della contrattazione collettiva autorizzata da interventi legislativi: i contratti di riallineamento retributivo e la contrattazione d’area
Si intende ora fare riferimento a specifiche soluzioni adottate in materia di determinazione dei trattamenti retributivi dalla contrattazione collettiva, in risposta a specifiche situazioni che caratterizzano l’attuale mercato del lavoro, che sollevano problemi in merito alla sostanziale attuazione del contenuto precettivo dell’art. 36 Cost., nel senso di una sua applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale.
203 X. Xxxxxxx, op. cit., pag.182;
204 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali cit., pag. 424;
I contratti di riallineamento retributivo, noti anche come contratti di emersione del lavoro nero, rinvengono fondamentalmente la loro disciplina nella legge n. 608 del 1996, art. 5 e, in ulteriori normative successive di modifica, di cui la più recente è rappresentata dalla legge
n. 383 del 2001, art. 1. Per una parte della dottrina sono l’evidente dimostrazione di un’efficace collaborazione tra il Legislatore statale e i rappresentanti della contrattazione collettiva nel prevedere interventi di flessibilità salariale, ovvero la tendenza dell’autonomia collettiva, assecondata o quanto meno non ignorata dal Legislatore, verso l’articolazione dei trattamenti retributivi collegata al conseguimento di specifici obiettivi occupazionali205. In altri termini tali contratti sono concepiti come strumenti di flessibilizzazione salariale, che si sostanzia nel prevedere un programma di adeguamento graduale delle previsioni dello specifico contratto collettivo al contenuto del contratto nazionale di categoria, soprattutto con riferimento alla determinazione dei trattamenti retributivi. Rappresentano uno strumento di differenziazione della retribuzione in ragione delle diverse condizioni ambientali nelle quali il lavoratore presta la propria prestazione lavorativa.
Anche per i contratti di riallineamento il Legislatore è intervenuto a precisare che gli accordi provinciali devono necessariamente prevedere un allineamento ai livelli retributivi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni ed organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 45, co. 20, l. 144 del 1999).
L’esperienza dei contratti di riallineamento ha trovato origine nelle normative in materia di fiscalizzazione degli
205 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 184;
oneri sociali e degli sgravi contributivi, rispetto ai quali le imprese potevano usufruire delle agevolazioni di legge qualora avessero applicato i trattamenti previsti dai contratti collettivi del settore di appartenenza. Tale situazione è stata vista in senso favorevole da parte di quella dottrina che leggeva positivamente il progressivo adeguamento dei salari ai livelli previsti dal contratto collettivo nazionale. Sul punto si ritiene, invece, condivisibile l’obiezione che una certa dottrina solleva circa le perplessità sulla compatibilità di tale strumento con il contenuto dell’art. 36 Cost., ritenendo che l’autonomia collettiva non ha alcun potere di operare una differenziazione territoriale del trattamento retributivo, dal momento che l’obbligazione retributiva, scissa in obbligazione sociale, oltre che in obbligazione corrispettivo, garantirebbe un effetto minimo inderogabile del contratto di lavoro, costituito da un nucleo sociale sottratto a valutazioni discrezionali di merito206. Questa dottrina evidenzia inoltre che la stipulazione di accordi collettivi provinciali inizialmente modificativi in peius della parte salariale dei contratti nazionali di riferimento, sia pure nella prospettiva di un graduale adeguamento a questi ultimi, inserisce infatti un’ulteriore tessera nel complesso mosaico dei principi legali e giurisprudenziali in materia di giusta retribuzione, (…) perché gli accordi provinciali sinora stipulati prevedono normalmente l’integrale applicazione della c.d. parte normativa del contratto collettivo nazionale di riferimento207. Un’altra parte della dottrina è concorde invece nel ritenere tali accordi compatibili con il principio della giusta
206 X. Xxxxxxx, L’articolo 36 della Costituzione e l’obbligazione retributiva cit., pag. 131 e ss.;
207 X. Xxxxxxx, op. cit., pag. 185;
retribuzione ex art. 36 Cost., in quanto lo scostamento dai minimi retributivi previsti dai contratti nazionali è medio tempore e non agisce sul lungo periodo e, richiama, le giustificazioni in materia di tutela dell’occupazione. In realtà, qui appare doveroso concordare con la prima delle tesi citate, in quanto il contenuto della retribuzione costituzionale, ex art. 36, dovrebbe essere suscettibile di applicazione uniforme sull’intero territorio nazionale e non ammettere deroghe in ragione della flessibilità dei trattamenti. Vi è infatti chi fa leva sul requisito della sufficienza della retribuzione ex art. 36 Cost., per ammetterne l’impossibilità di deroga, anche rispetto ad una finalità nobile di promozione dell’occupazione208. Una certa dottrina arriva persino ad aggiungere provocatoriamente che pur in presenza di una fonte legale che ha riconosciuto l’opportunità di un meccanismo che consenta la progressiva emersione dei sottosalari, non può disconoscersi che la misura della retribuzione fissata dai contratti di riallineamento, considerata indice della situazione di mercato a livello territoriale, è pur sempre insufficiente, tanto che la legge incentiva l’adeguamento della stessa in cambio delle agevolazioni209. Certo è vero che tali strumenti indubbiamente perseguono la finalità di creare nuova occupazione e in tal senso di inserire nel mercato del lavoro lavoratori altrimenti esclusi. Xxxxxxx autore a sostegno di tali argomentazioni, parla apertamente di bilanciamento tra costi della temporanea diminuzione
208 X. Xxxx, op. cit., pag. 236;
209 G. Roma, Sufficienza della retribuzione e differenziazioni territoriali cit., pag. 431;