DOTTORATO DI RICERCA IN
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
DOTTORATO DI RICERCA IN
Stato e persone negli ordinamenti giuridici – Indirizzo “Diritto civile”
Ciclo XXIV
Settore Concorsuale di afferenza: 12/A1 - DIRITTO PRIVATO Settore Scientifico disciplinare: IUS/01 - DIRITTO PRIVATO
TITOLO TESI
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO INTERNAZIONALE
Presentata da: Xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxx
Coordinatore Dottorato Relatore
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Esame finale anno 2012
INDICE SOMMARIO
CAPITOLO PRIMO
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO INTERNAZIONALE TRA NORME AUTORITATIVE
E AUTONOMIA PRIVATA
1. Interpretazione del contratto, variabilità di metodo e principio di relatività. Il contratto alieno.
2. Delimitazione del campo d’indagine;
3. (segue) l’“internazionalità” del contratto.
4. Le clausole sull’interpretazione: la nozione di “clausola”.
5. La derogabilità delle regole sull’interpretazione.
6. (segue) l’orientamento contrario;
7. (segue) l’orientamento favorevole.
8. Il “contratto alieno” e le clausole c.d. di interpretazione, tra profili ermeneutici e profili di forma del contratto.
9. Interpretazione del contratto e teoria del contrat sans loi: osservazioni critiche.
CAPITOLO SECONDO
LE ENTIRE AGREEMENT CLAUSES
O
CLAUSOLE D’INTERO ACCORDO
1. Origine e funzione delle entire agreement clauses.
2. Le entire agreement clauses e l’ordinamento italiano: il problema della derogabilità dell’art. 1362 c.c.;
3. Le entire agreement clauses non configurano un’ipotesi di deroga all’art. 1362 c.c. Dimostrazione: sulla portata effettiva dell’art. 1362 c.c.;
4. (segue) il brocardo «in claris non fit intepretatio»;
5. (segue) funzione ermeneutica della metodologia legale e funzione di documentazione delle clausole d’intero accordo.
6. Le clausole d’intero accordo e la fattispecie “contratto” da sottoporre ad interpretazione.
7. L’irrilevanza delle clausole d’intero accordo ai fini ermeneutici.
8. Le clausole d’intero accordo come patti sulla prova: la riconducibilità all’art. 2698 c.c.;
9. (segue) critica di tale impostazione: l’applicabilità dell’art. 2725 c.c.;
10. Le clausole d’intero accordo e l’art. 2722 c.c.
11. 14. Forma ad substantiam e forma ad probationem ovvero forma dell’atto e forma della prova dell’atto.
12. Le entire agreement clauses come ipotesi di accordo sulla forma, ex art. 1352 c.c.
13. Prime conclusioni.
14. Le entire agreement clauses e la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili: la derogabilità della Convenzione ai sensi dell’art. 8 e dell’art. 11;
15. (segue) la rilevanza esclusiva dell’art. 11;
16. La derogabilità dell’art. 11 per mezzo di una clausola d’intero accordo.
17. Le clausole d’intero accordo e i Principi Unidroit.
CAPITOLO TERZO
LE CLAUSOLE DI NON MODIFICAZIONE ORALE O
CLAUSOLE NOM (no oral modification)
1. Origine e funzione delle clausole NOM.
2. Profili di continuità con le clausole d’intero accordo (zipper clauses).
3. Le clausole NOM come accordi sulla forma di futuri contratti, ex art. 1352 c.c.
4. Le clausole NOM come clausole sulla forma della prova: la derogabilità dell’art. 2723 c.c.
5. Le clausole NOM e l’ordinamento statunitense: la regola generale di
common law;
6. (segue) le eccezioni legislative;
7. (segue) e i diversi e non coerenti orientamenti di dottrina e giurisprudenza.
CAPITOLO QUARTO
LE CLAUSOLE CONTENENTI DEFINIZIONI E LE PREMESSE (O PREAMBOLI)
1. Funzione e classificazione delle clausole c.d. di definizione.
2. Clausole di definizione e nozione di clausola: dalle clausole enunciative alle clausole - proposizione.
3. Le clausole di definizione e l’art. 1363 c.c.
4. Clausole di definizione, autonomia contrattuale e simulazione.
5. Clausole di definizione, clausole d’intero accordo e la derogabilità dell’art. 1362, comma 2, c.c.
6. Limiti di ammissibilità delle clausole di definizione.
7. Le premesse o preamboli del contratto.
8. La rilevanza del preambolo ai fini ermeneutici.
Indice bibliografico
CAPITOLO PRIMO
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO INTERNAZIONALE
TRA NORME AUTORITATIVE E AUTONOMIA PRIVATA
SOMMARIO: 1. Interpretazione del contratto, variabilità di metodo e principio di relatività. Il contratto alieno. – 2. Delimitazione del campo d’indagine. –
3. (segue) l’“internazionalità” del contratto. – 4. Le clausole sull’interpretazione: la nozione di “clausola”. – 5. La derogabilità delle regole sull’interpretazione. – 6. (segue) l’orientamento contrario; – 7. (segue) l’orientamento favorevole. – 8. Il “contratto alieno” e le clausole
c.d. di interpretazione, tra profili ermeneutici e profili di forma del contratto. – 9. Interpretazione del contratto e teoria del contrat sans loi: osservazioni critiche.
1. Interpretazione del contratto, variabilità di metodo e principio di relatività.
Il presente studio muove da una constatazione di fatto. L’oggetto dell’osservazione sono i contratti internazionali.
E’ un dato osservabile della prassi delle contrattazioni internazionali la tendenza delle parti a definire in modo minuzioso e quanto più possibile completo ed esauriente, il regolamento contrattuale che irreggimenta l’affare dalle stesse concluso, anche e soprattutto in vista di eventuali future controversie.
L’intento manifesto è quello di ovviare alla discontinuità giuridica provocata dai singoli ordinamenti nazionali, la cui normativa risulti di volta in volta applicabile al contratto in virtù dei caratteri di internazionalità dello stesso.
Si tratta di un’evoluzione della prassi che non ha mancato di sollevare anche interrogativi di teoria generale del diritto (1).
(1) Alludo qui al dibattito sviluppatosi, soprattutto nella dottrina francese, intorno alla possibilità di configurare un contratto completamente svincolato dalla disciplina dettata
E si tratta di evoluzione che ha coinvolto anche il tema dell’interpretazione del contratto.
L’osservazione della prassi contrattuale ha infatti permesso di individuare la tendenza delle parti di un contratto ad inserire nel testo dei contratti internazionali specifiche disposizioni, che sembrano indirizzate ad influenzare direttamente l’opera di interpretazione del contratto, per l’ipotesi in cui tale operazione dovesse rendersi necessaria.
L’evoluzione della prassi ha così posto un nuovo interrogativo giuridico, quello di valutare quale incidenza concreta tali pattuizioni possano avere sul procedimento ermeneutico.
Il problema è di metodo.
L’analisi delle norme giuridiche in materia di interpretazione contenute nel codice civile italiano (artt. 1362 – 1371) ha infatti già opportunamente messo in evidenza come tale tipo di norme predisponga una vera e propria metodologia dell’interpretazione, dettando canoni e principi che l’interprete ha il dovere di applicare (2).
Pertanto, l’interpretazione giuridica è un’attività ermeneutica praticata secondo metodi prescritti. Il significato del testo, afferma la migliore dottrina (3), ha un valore procedurale, in quanto rappresenta un risultato conseguito mediante l’applicazione di un metodo (o procedura, che dir si voglia) fissato preventivamente dal legislatore (4).
Se si tiene conto che ogni ordinamento sceglie per sé regole specifiche sull’interpretazione, ne deriva che ogni ordinamento definisce un proprio metodo sull’interpretazione.
È questo il principio di relatività, di cui ha parlato Merkl (5), in base al quale a tanti metodi corrispondono altrettanti significati, vale a dire altrettanti
da fonti eteronome, e soggetto unicamente alle regole predisposte dalle stesse parti contraenti. La dottrina ha saputo coniare anche un’espressione semplificatrice del dibattito, quella di contrat sans loi (oggi toccherebbe dire, contrat sans droit, stante il proliferare delle fonti di regolamentazione dei contratti, specie se internazionali), che rende bene l’idea di un contratto non soggetto a fonti di normazione esterna. L’espressione si deve a LEVEL, Le contrat dit “sans loi”, in Trav. com. fr. d.i.p., 1964-1966. Su tale teoria mi soffermo più ampiamente infra, al par. 9.
(2) Così testualmente IRTI, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, p. 1140.
(3) IRTI, Principi e problemi, cit., p. 1141.
(4) “Il metodo fa l’interpretazione del contratto”, afferma XXXX, Principi e problemi, cit., p. 1157.
(5) Le osservazioni sono riportate nel saggio intitolato Sul problema dell’interpretazione, 1916, ne Il duplice volto del diritto. Il sistema kelseniano e altri saggi, a cura di Xxxxxx, Milano, 1987, p. 271. V. più approfonditamente infra, par. 8.
risultati dell’attività ermeneutica (6) (pur potendo sempre per avventura accadere che a diversi metodi corrisponda un medesimo significato).
Applicando il principio di relatività ai contratti internazionali ne deriva che l’interpretazione (intesa come risultato dell’attività interpretativa (7)) di tale tipo di contratto è destinata con ogni probabilità a variare, a seconda di quale sia la legge applicabile.
E tuttavia questo esito può non essere così scontato, proprio in virtù della presenza di clausole sull’interpretazione del contratto stesso, finalizzate a ridurre il più possibile la variabilità dei risultati, quale dipendente dall’individuazione della legge (o meglio, del diritto) di volta in volta applicabile (8).
I rapporti tra fonte di regolamentazione del contratto internazionale e tecniche redazionali dello stesso è stato oggetto di alcune recenti analisi ad opera della dottrina nostrana.
Un autore (9) ha infatti evidenziato i profili di potenziale contrasto derivanti dall’applicazione di una legge appartenenente ad un sistema di civil law ad un contratto che sia redatto (così come è redatto un contratto
(6) Si esprime in questi termini CARNELUTTI, L’interpretazione dei contratti e il ricorso in Cassazione, in Riv.dir.comm., 1922, I, p. 140 ss., nonché in Studi di diritto processuale, 1925, p. 393 ss., il quale ha modo di affermare quanto segue a p. 404 e 405: “Quando l’atto di volontà rappresenta non già la norma, ma il fatto giuridico, e così non si tratta d legge, ma di negozio, e in ispecie, di contratto, ognuno intende come l'impiego di diverse regole di interpretazione possa reagire sulla stessa conformazione del fatto giuridico. Se il volere opera nel mondo del diritto solo in quanto sia riconoscibile; e se, usando una regola di interpretazione si giunge a riconoscere un volere diverso da quello che si riconosce usandone un’altra, è chiaro che la scelta delle regole di interpretazione ha un valore sostanziale per la stessa definizione del fatto, e così per le conseguenze giuridiche, che ne derivano. Insomma, se la regola muta, pur rimanendo costante il fatto, muta il risultato della interpretazione; … Si riscontra così una certa variabilità di quel fatto giuridico tipicamente importante, che è la dichiarazione di volontà, per effetto della variabilità delle regole di esperienza utilizzate per interpretarlo”.
(7) Sui vari significati che la parola interpretazione può assumere, rinvio a SACCO,
L’interpretazione, in SACCO, DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Xxxxx, Torino, 2004, p. 397 ss.
(8) Come si avrà modo di dimostrare nel corso del presente elaborato, le clausole sull’interpretazione del contratto, nella misura in cui favoriscono l’autoreferenzialità del testo contrattuale, sono infatti volte a salvaguardare il più possibile il testo, e con ciò a favorire la certezza e prevedibilità delle conseguenze giuridiche derivanti dal contratto.
(9) Mi riferisco a DE NOVA, «The Law which ogevrns this Agreement is the Law of
the Republic of Italy»: il contratto alieno, in Riv. dir. priv., 2007, p. 7 ss.; ID., Merger clause
e contratto alieno, ne Il contratto alieno, Torino, 2010, p. 95 ss.
internazionale) in ossequio alla prassi contrattuale propria dei sistemi di
common law.
La condizione di potenziale disagio è stata analizzata anche con riferimento ai profili interpretativi, ed è stata racchiusa entro l’espressione di “contratto alieno”.
Il presente elaborato intende fornire una risposta circa le possibili soluzioni che permettano di superare tale situazione di potenziale contrasto con riferimento al problema dell’interpretazione, individuando quello che può essere il corretto inquadramento normativo allorquando, ad esempio, la legge applicabile ad un contratto internazionale – redatto per l’appunto secondo gli schemi e la tradizione tipici dei paesi di common law – sia quella italiana.
2. Delimitazione del campo d’indagine;
Il presente studio intende verificare se, in che modo, ed entro quali limiti, l’esercizio dell’autonomia contrattuale sia in grado di incidere sull’interpretazione del contratto.
Occorrono a questo punto alcune precisazioni, relative al campo d’indagine.
E’ stato infatti indispensabile fabbricare un “modello” di contratto, con tutto ciò che l’adozione di un modello comporta, anche in termini di inevitabile percentuale di generalizzazione, e relativa parziale astrazione dai dati offerti dalla prassi.
Il presente studio ha ad oggetto, anzitutto, contratti tra imprenditori sofisticati, per i quali si assume, per postulato, la pari forza contrattuale (contratti c.d. B2B), con conseguente esclusione dei contratti con i consumatori.
L’elaborato ha poi ad oggetto, in via esclusiva, i contratti internazionali (10), ed unicamente contratti scritti.
Si è cercato in ogni caso di limitare il grado di astrazione, mantenendo un collegamento costante con i dati provenienti dalla prassi contrattuale: nell’opera di ricognizione delle clausole sull’interpretazione dei contratti mi sono infatti avvalso di contributi, che hanno il merito di riportare clausole
(10) Per l’individuazione della nozione di internazionalità del contratto rinvio al par. successivo.
effettivamente negoziate ed adottate negli scambi del commercio internazionale (11).
Le clausole esaminate possiedono, in ogni caso, un elevato grado di standardizzazione (12): il processo di standardizzazione permette l’individuazione di una tipologia di clausole e, sebbene ciò rimandi ancora una volta all’idea del “modello”, si tratta di una tipizzazione che si è rivelata utile (per non dire indispensabile), al fine di effettuare un confronto delle clausole in esame con le norme in tema di interpretazione del contratto, e poter quindi esprimere una valutazione in termini giuridici.
Trattandosi di contratti internazionali, il formante normativo di riferimento si è presentato inevitabilmente variegato (13).
I contratti internazionali sono infatti necessariamente soggetti al diritto che, per espressa volontà delle parti o in virtù delle regole di d.i.p. applicabili in assenza di tale scelta, risulta allo stesso applicabile.
L’espressione “diritto applicabile”, anziché legge applicabile, mi sembra la più aggiornata: l’esame delle fonti di regolamentazione dei contratti internazionali ha infatti svelato la proliferazione di una molteplicità di fonti normative, che comprendono sia le leggi nazionali, che le convenzioni di diritto materiale uniforme (come ad esempio la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili) che ancora fonti ulteriori come i Principi Unidroit o i Principi di Diritto Europeo dei Contratti (PECL) (14).
La molteplicità delle fonti ha così imposto un minimo di ricerca comparatistica: le clausole sull’interpretazione del contratto sono state infatti analizzate anzitutto alla luce della legge italiana, ma non sono mancate incursioni nel diritto inglese ed in quello statunitense, ed ulteriormente un’analisi delle regole in materia di interpretazione contenute nella
(11) L’opera di maggiore ausilio è rappresentata da XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali a partire dall’analisi delle clausole, Milano, 2008.
(12) Al punto da aver meritato l’appellativo di xxxxxxxx x.x. xxxxxxxxxxx, valido per quelle clausole la cui redazione non è soggetta ad una vera e propria negoziazione tra le parti,
caratteristica quest’ultima tipica delle clausole c.d. tailormade. Sul punto rinvio a XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 134, 183, 198.
(13) Il livello di standardizzazione raggiunto dalle clausole d’intero accordo può essere desunto, sotto il diverso profilo funzionale, anche dall’esame dei Principi Unidroit, che hanno cura di indicare, all’art. 2.1.17, la funzione effettivamente svolta dalle clausole in esame. Sul punto si rinvia alle considerazioni svolte nel cap. 3, par. 20.
(14) Sul tema delle fonti di regolamentazione dei contratti del commercio internazionale mi sia consentito rinviare a VINCI, La «modernizzazione» della Convenzione
di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali: la scelta del diritto applicabile, in Contratto e impresa, 1997, p. 1223 ss.
Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili, al pari di quelle contenute nei Principi Unidroit.
3. (segue) l’“internazionalità” del contratto
Con riferimento alla nozione di “internazionalità” del contratto, è necessaria qualche precisazione.
Com’è ben noto, infatti, non è possibile trovare una definizione universale di contratto internazionale (15). La nozione di internazionalità del contratto, infatti, è destinata inevitabilmente a variare, a seconda di quali siano gli elementi di estraneità considerati giuridicamente significativi dal formante normativo di volta in volta applicabile.
Si possono fare alcuni esempi, a dimostrazione dell’assunto.
La Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (oggi convertita nel Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I)), ad esempio, accoglie una peculiare nozione di internazionalità del contratto (16).
L’art. 3, par. 1, dispone infatti che «Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti ». Ebbene, secondo un determinato orientamento dottrinario, che merita qui di essere richiamato, tale ultima disposizione consentirebbe alle parti, pur in presenza di un contratto privo di collegamenti con altri ordinamenti, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, di scegliere in ogni caso una legge straniera come legge applicabile (17), e per tale via
(15) Xxxxx ed affollato è infatti il panorama di definizioni possibili, complicato al punto tale da risultare arduo rintracciarvi un minimo comun denominatore. Cfr. sul punto XXXXXXX, MARRELLA, Diritto del commercio internazionale, Padova, 2007, p. 279.
(16) Cfr. sul punto, ex multis, MEMMO, Le categorie ordinanti del sistema delle obbligazioni e dei contratti nel nuovo diritto internazionale privato italiano, in Contratto e impresa, 1997, p. 51 ss.; XXXXXXX, La Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, in Dir. Unione europea, 1997, p. 633 ss.; XXXXXX,
Il diritto internazionale privato dei contratti: la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 è entrata in vigore, in Banca, borsa, tit. cred., 1992, p. 36 ss; Verso una disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti, a cura di Xxxxxx, Padova, 1983; SACERDOTI, FRIGO, La Convenzione di Roma sul diritto applicabile ai contratti internazionali, Milano, 1994; XXXXXXX, La Convenzione di Roma sulla legge applicabile ai contratti, Bari, 2001; XXXXXXX, WILDERSPIN, The European Contracts Convention. The Rome Convention on the Choice of Law for Contracts, Xxxxxx, 0000.
(17) Cfr. MEMMO, Le categorie ordinanti, cit., p. 55-56; TREVES, Norme imperative e di applicazione necessaria nella Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, in Verso una
definire la natura dell’accordo, conferendo allo stesso, per l’appunto, il contrassegno dell’internazionalità.
Ed è lo stesso par. 3, dell’art. 3, che ben mette in evidenza questa facoltà concessa alle parti: nel sancire il limite delle norme imperative come limite alla stessa facoltà di scelta, il paragrafo fa infatti espresso riferimento alla situazione in cui le parti abbiano scelto una legge straniera, pur se tutti i dati di fatto si riferiscono ad un unico paese (18).
Si tratta di disposizioni che permettono in tal modo un superamento della distinzione tra contratto interno e contratto internazionale, riguardo al problema della libertà di scelta della legge applicabile al contratto, riconoscendo anche alle parti di un contratto interno tale tipo di autonomia (19).
Ai fini ed entro l’ambito di applicazione della Convenzione (così come del successivo Regolamento), pertanto, il contrassegno dell’internazionalità è dato, quantomeno, dalla scelta della legge applicabile al contratto.
disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti, cit., p. 27 ss.; XXXXXX, Il nuovo diritto internazionale privato dei contratti, cit., p. 45 ss. Contra XXXXXXX, L’azione comunitaria in materia di diritto internazionale privato, in Riv. dir. eur., 1981, p. 396, secondo cui le disposizioni in parola non consentirebbero alle parti di un contratto interno una vera e propria scelta di legge, ma semplicemente una recezione negoziale di una data legge straniera.
(18) Afferma il par. 3, art. 3, Reg. Roma I, che “Qualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente”.
(19) Di conseguenza, per MEMMO, Le categorie ordinanti, cit. p. 56, la lettura di tali disposizioni induce a riflettere «sulla necessità che il civilista introduca, tra le varie
manifestazioni dell’autonomia privata ed in particolare della libertà contrattuale, anche la libertà di determinare la legge applicabile al contratto ». La possibilità per le parti contraenti di un contratto puramente interno di scegliere una legge straniera quale legge applicabile al contratto sembra ammessa, pur non senza qualche contrasto, anche in ordinamenti di common law, come in quello statunitense. Cfr. sul punto, FRIEDLER, Party Autonomy Revisited: A Statutory Solution to a Choice-of-Law Problem, in Univ. Kan. L. Rev., 1989, p. 475; X’XXXX, RIBSTEIN, From Politics to Efficiency in Choice of Law, in Univ. Chi. L. Rev., 2000, p. 1151; XXXXXX, The Virtues of Diversity in European Private Law, in SMITHS (a cura di), The need for a European Contract Law, Gröningen, 2005, p. 14 – 15; XXXX, Party Autonomy in the Private International Law of Contracts: Transatlantic Convergence and Economic Efficiency, in XXXXXXXXXX e altri (a cura di), Conflict of Laws in a Globalized World (Essays in Memory of Xxxxxx X. xxx Xxxxxx), Cambridge, 2007, p. 179; XXXXXXXX, Economics of Law as Choice of Law, in L. & Contemp. Probs., 2008, p. 73.
L’esempio appena riportato ha ad oggetto una convenzione internazionale (e un regolamento) di d.i.p.
La prova dell’esistenza di un margine di variabilità della nozione di internazionalità del contratto è ricavabile se si sposta l’attenzione al campo delle convenzioni internazionali di diritto materiale uniforme.
Valgano anche qui alcuni esempi.
Per la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili del 1980, il carattere internazionale della compravendita è dato dalla circostanza per cui, al momento della conclusione del contratto, venditore e compratore abbiamo la propria sede d’affari in due Stati diversi.
La Convenzione tiene, pertanto, in considerazione unicamente criteri di collegamento soggettivi (20), reputando a questi fini irrilevanti – diversamente da quanto avveniva per le due convenzioni dell’Aja del 1964 (21), considerate predecessori della convenzione in esame – i criteri oggettivi, relativi, cioè, alle caratteristiche proprie dell’operazione economica che le parti intendono realizzare.
Stesso rilievo attribuito ai criteri soggettivi si ritrova nella Convenzione di Ottawa del 1988 sul leasing finanziario internazionale, a norma della quale il contratto è internazionale laddove concedente ed utilizzatore abbiano la loro sede d’affari in Stati diversi (art. 3), senza che assumano rilievo la sede del produttore o quella del fornitore (22).
Per la Convenzione di Ginevra del 1956 sul contratto di trasporto internazionale di merci su strada, invece, il contratto è internazionale quando il luogo di presa in carico della merce e quello della consegna sono situati in Stati diversi (art. 1.1) (23), e quindi in considerazione di criteri unicamente oggettivi.
(20) XXXXXXXX, Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili (1980), in FERRARI (a cura di), Le convenzioni di diritto del commercio internazionale. Codice essenziale con regolamenti comunitari e note introduttive, Milano, 2002, p. 51.
(21) X. XXXXXXXXXX, La vendita internazionale, in Rapporti contrattuali nel diritto internazionale, Milano, 1991, p. 88.
(22) Sul punto rinvio a TORSELLO, Convenzione Unidroit sul factoring internazionale (1988), in Ferrari (a cura di), Le convenzioni di diritto del commercio internazionale, cit., p. 123, ed a FRIGNANI, Il factoring: modelli europei e convenzione di diritto uniforme, in ID.,
Factoring, Leasing, Franchising, Venture Capital, Leveraged buy-out, Hardship Clause, Countertrade, Cash and carry, Merchandising, Torino, 1996, p. 109.
(23) Cfr. sul punto PESCE, Il trasporto internazionale di merci, Torino, 1995, p. 21 ss.
Infine, l’adozione della prospettiva dell’arbitrato internazionale permette di rintracciare il requisito dell’internazionalità del contratto ogniqualvolta lo stesso coinvolga interessi dell’international trade (24).
Tutti gli esempi riportati confermano quanto si diceva in precedenza, e cioè che all’esito di un’analisi normativa non sia possibile rintracciare una definizione universale e generale di contratto internazionale.
Questa constatazione, unita alla consapevolezza del concreto atteggiarsi dell’autonomia contrattuale nel contesto della prassi commerciale internazionale, ha indotto parte della dottrina a suggerire la necessità di un mutamento di prospettiva, accogliendo una nozione di internazionalità del contratto vicina alla realtà della prassi del commercio internazionale.
L’impostazione tradizionalmente adottata, che riflette il punto di vista dei singoli legislatori statali, o tutt’al più internazionali, consiste infatti, come visto, nello scegliere una, o solo alcune note di internazionalità, fra le molteplici possibili e presenti, per conferire alle stesse «dignità normativa», e per farne il presupposto cui ricollegare, semplicemente, l’operatività di un sistema di norme statali piuttosto che un altro.
Ciò può impedire un’adeguata lettura del concreto atteggiarsi di molteplici relazioni contrattuali internazionali, nella misura in cui alcune note di internazionalità, presenti nel caso di specie, non siano giuridicamente rilevanti.
Ne deriva l’invito a porsi in una prospettiva che tenga conto del dato socio-economico, o «fattuale», scoprendo così che nella prassi degli affari è considerato internazionale, in linea generale, l’accordo non destinato ad esaurirsi nell’alveo di un unico ordinamento statuale, in quanto presenta, per l’appunto a livello fattuale, uno o più collegamenti con sfere territoriali appartenenti a diversi paesi; e non rileva, in proposito, il tipo di collegamento, se oggettivo, oppure soggettivo (25).
(24) La puntualizzaione è in FRIGNANI, L’arbitrato commerciale internazionale, in
Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Xxxxxxx, Padova, 2004, p. 16 ss.
(25) Per queste ed altre osservazioni rinvio a CARBONE, LUZZATTO, Il contratto internazionale, Torino, 1994; in senso conforme, BORTOLOTTI, Manuale di diritto del commercio internazionale, Vol. I, Diritto dei contratti internazionali, Padova, 2009, p. 123 ss.; FRIGNANI, TORSELLO, Il contratto internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Xxxxxxx, Padova, 2010, p. 105 e 106.
4. Le clausole sull’interpretazione: la nozione di “clausola”
Il presente studio ha ad oggetto l’analisi di singole clausole sull’interpretazione, valutate alla luce del diritto applicabile al contratto.
Può essere pertanto utile una precisazione sulla nozione di clausola rilevante ai fini del presente elaborato.
Il vocabolo “clausola”, a più riprese impiegato dal legislatore italiano nonché dalla giurisprudenza, è oggetto, anche in tempi risalenti, di analisi variamente articolate da parte della dottrina nostrana.
Non sono mancati a questo proposito contributi che hanno fornito una ricognizione dell’utilizzo legislativo di tale vocabolo, evidenziando come lo stesso abbia assunto una pluralità di significati tale da impedire di ricondurre ad unità la nozione di clausola (26), nella piena consapevolezza dell’assenza di una qualificazione normativa generale di tale termine (27).
Pur nella varietà degli usi, è stato in ogni caso possibile rintracciare un minimo comun denominatore tra le varie definizioni, approdando in tal modo ad alcune classificazioni generali.
Si danno così coppie di classificazioni.
Secondo una prima distinzione, le clausole possono essere distinte tra enunciative e precettive. Le prime sarebbero destinate unicamente ad informare o a chiarire, e quindi a fornire unicamente una rappresentazione del presente o del passato; le seconde, invece, sono destinate a disporre un dover essere per il futuro, vale a dire ad esprimere le regole alle quali le parti affidano la disciplina dei rispettivi e reciproci interessi (28).
Stando ad una diversa classificazione, le clausole possono essere qualificate sia secondo una nozione “formale”, che qualifica come clausola qualsiasi proposizione che compone il testo del contratto (clausola- proposizione), sia secondo una diversa nozione, per così dire, “precettiva”, che intende la clausola come ogni determinazione volitiva inscindibile, come ogni nucleo precettivo minimo del contratto, che in quanto tale non è ulteriormente frazionabile (29).
(26) Mi riferisco qui a TAMPONI, Contributo all’esegesi dell’art. 1419 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 105 ss., che ha cura di riportare una dettagliata elencazione degli articoli di legge che utilizzano il termine “clausola”, evidenziandone le diverse finalità di impiego (l’elencazione è rinvenibile in particolare alle p. 131 ss.).
(27) SICCHIERO, La clausola contrattuale, Padova, 2003, p. 2.
(28) In questi termini, BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960, p.
150 ss.;
(29) Cfr. sul punto ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, p. 458; GRASSETTI, voce
Clausola del negozio, in Enc. dir., Milano, 1960, p. 185; SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in
Le diverse classificazioni prospettate in dottrina sembrerebbero porsi in relazione di perfetta alternatività, o inconciliabilità, e soltanto la nozione di clausola-precetto risulterebbe alla fine accettabile (30).
Una parte della dottrina ha tuttavia avuto modo di evidenziare come le ulteriori classificazioni di clausola-enunciazione e di clausola – proposizione possano in verità manterenere una propria specifica pregnanza, con riferimento a taluni specifici effetti.
La nozione di clausola – proposizione, ad esempio, mantiene una propria rilevanza ai sensi dell’art. 1363 c.c.: come si avrà modo di evidenziare successivamente, infatti, l’articolo in questione, nello stabilire che le clausole del contratto debbano interpretarsi le une per mezzo delle altre, non può ipotizzare alcuna preventiva autonomia del precetto negoziale, alla cui individuazione tale articolo in effetti mira.
L’unica nozione ammissibile al fine di consentire l’operatività del meccanismo indicato dall’articolo in esame è pertanto quella di clausola- proposizione, e quindi di autonomia unicamente sintattica della clausola, potendosi poi procedere all’individuazione dell’autonomia precettiva delle singole clausole contrattuali soltanto all’esito del procedimento ermeneutico (31).
Anche le clausole con valore meramente enunciativo sembrano possedere una propria specifica rilevanza: l’osservazione della prassi permette infatti di rilevare come il contenuto del contratto possa essere distinto tra contenuto squisitamente precettivo e contenuto meramente enunciativo o esplicativo, per cui non sembra possibile eliminare qualunque profilo di rilevanza della clausola con valore dichiarativo (32).
generale, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, diretto da Xxxxxxx, Bologna – Roma, 1970, p. 239; XXXXXXX, Nullità parziale del contratto ed inserimento automatico di clausole, Milano, 1974, p. 18 ss.; DE XXXX XXXXXX, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, p. 218 ss.; XXXXXX, Diritto civile, Il contratto, Milano, 2001, p. 315; SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 11.
(30) Per [BIGLIAZZI] XXXX, Sul significato del termine «clausola» in relazione al II comma dell’art. 1419 c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 683 ss., l’unico significato
possibile del termine clausola, quantomeno ai sensi e per gli effetti dell’art. 1419 c.c., sarebbe infatti quello di determinazione relativa ad un punto qualsiasi del contratto.
(31) Cfr. XXXXXXXXX, cit., p. 185, il quale afferma che l’art. 1363 c.c. individua per l’interpretazione del contratto «quello stesso elemento sistematico che l’art. 12 disp. prel.
suggerisce per l’interpretazione della legge (con riferimento alla “connessione” delle parole)». Sul punto cfr. anche TAMPONI, Contributo, cit., p. 137, nonché SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 17 ss.
(32) Così SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 17.
Si può pensare al caso delle premesse, o preamboli, del contratto, vale a dire a quella parte iniziale del contratto, spesso nettamente separata dalla parte propriamente precettiva o dispositiva, che riporta una breve descrizione delle parti e dell’attività dalle stesse svolta, o che contiene le dichiarazioni delle parti circa le intenzioni o gli obiettivi che le stesse si prefiggono di realizzare mediante la stipula del contratto (33).
Ebbene, le indicazioni contenute nelle premesse possiedono quantomeno un valore ermeneutico, valendo sicuramente come possibile strumento per l’interpretazione del contratto, la cui utilizzabilità a questi fini è garantita proprio dal canone di cui all’art. 1363 c.c.
L’assunto ha trovato conferme, tanto in dottrina (34) quanto in giurisprudenza (35), e quest’ultima in particolare ha avuto modo di evidenziare come, del resto, le clausole prive di una portata precettiva effettiva (in quanto, ad esempio, nulle e con ciò inefficaci) mantengano in ogni caso una propria funzione, ai fini della ricostruzione del significato e della portata di altre clausole del regolamento che non risultino affette da nullità (36).
Pienamente accettabile è sembrata infine la nozione di clausola- precetto, sulla quale si può registrare un sostanziale consenso generale da parte della dottrina di commento.
(33) All’analisi del preambolo del contratto è dedicata la monografia di FERRO- XXXXX, Del preambolo del contratto. Valore ed efficacia del «premesso che» nel documento negoziale, Milano, 2004. Sul punto rivio alle analisi di cui al cap. 3.
(34) XXXXX, Teoria generale, cit., p. 307 ss.; XXXXX, Principi sulla interpretazione dei negozi giuridici, Napoli, 1952, p. 110 ss.; SACCO, Il contratto, in SACCO, DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1993, p. 378; XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, Comm. Utet, Torino, 1980, p. 276; SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 16 ss., e 201 ss.
(35) Cass. civ., 5 febbraio 2001, n. 1597, in Giur it., 2002, p. 1404; Cass. civ., 6
maggio 1998, n. 4592, in Not. giur. lav., 1998, p. 252; Cass. civ., 16 giugno 1997, n. 5387, in
Xxxxxxxxx, 1998, p. 339; Cass. civ., 4 giugno 1981, n. 3629, in Giust. civ., 1981, p. 2952.
(36) Si esprime in questi termini Cass. civ., 18 gennaio 1978, n. 237, in Mass. Giust. civ., 1978, p. 96; v. pure Cass. civ., 2 ottobre 1998, n. 9790, in Mass. Foro it., 1998, voce
«Notaio», n. 88. Piena adesione a questa lettura hanno manifestato anche XXXXX, Il contratto, cit., p. 393; PASQUINI, L’interpretazione complessiva, in ALPA (a cura di), L’interpretazione del contratto. I – orientamenti e tecniche della giurisprudenza, Milano, 1983, p. 232; FONSI, L’interpretazione del contratto in giurisprudenza e in dottrina (artt. 1362 e 1363 c.c.), in Vita notarile, 1993, p. 1630. Tutto ciò ovviamente non è possibile laddove, sempre in applicazione del canone di cui all’art. 1363 c.c., la clausola nulla risulti anche essenziale, ed in tal modo conduca alla caducazione dell’intero contratto, ex art. 1419, comma 1, c.c., come ha ben modo di evidenziare XXXXXXXXX XXXX, L’interpretazione del contratto, in Commentario del c.c., diretto da Xxxxxxxxxxx, Milano, 1991, p. 164 ss.
L’espressione clausola – precetto, si è già anticipato, starebbe ad indicare quel precetto dell’autonomia privata, isolato o isolabile dal contesto dell’intero contratto, che non è possibile scindere ulteriormente, rappresentando un nucleo minimo di regolamentazione, una componente elementare del contratto (37), non ulteriormente frazionabile (38).
La nozione può dirsi sostanzialmente accolta anche in giurisprudenza
(39).
Tra clausole-precetto e proposizioni si danno ovviamente forme di
relazione, che non sembrano intaccare la nozione appena riportata: ben può darsi che un singolo precetto sia infatti espresso attraverso il ricorso a due o più proposizioni, ma ciò, da un punto di vista giuridico, non ne comprometterebbe l’irriducibilità, laddove invece una medesima proposizione, qualora contenga più precetti, sarebbe scindibile, sempre da un punto di vista giuridico, in più clausole (40).
Resta fermo che, in ogni caso, ciascuna componente precettiva deve essere valutata in modo indipendente, anche ai fini dell’individuazione di eventuali patologie, senza che l’unità sintattica possa comprometterne l’individualità giuridica (41).
Orbene, nel contesto del presente elaborato ci si avvarrà di una nozione variabile di clausola: la nozione di clausola – proposizione si è infatti rivelata indispensabile ai fini dell’art. 1363, non sembrando infatti ammissibile il ricorso ad una nozione più pregnante al fine di consentire l’operatività di tale articolo (il cui riferimento è imprescindibile, come si
(37) Per dirla con XXXXXXXXXX, Sul contenuto del contratto, Milano, 1974, p. 186.
(38) Pur con sensibili sfumature, concordano generalmente con tale definizione di clausola-precetto GRASSETTI, cit., p. 185; CARRESI, Il contratto, in Trattato di dir. civ. e comm. Cicu – Messineo, Milano, 1987, p. 213 – 214; FRAGALI, Clausole, frammenti di clausole, rapporti fra clausole e negozio, in Giust. civ., 1958, p. 312 ss.; XXXXX, Il contratto, cir., p. 459; XXXXXXXX, Sub art. 1469-quinquies c.c., in AA.VV., Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di Xxxx e Patti, Milano, 1997, p. 695 ss.; XXXXXXXXX, La clausola contrattuale, cit., p. 22 ss.; [BIGLIAZZI] XXXX, Sul significato del termine «clausola», cit., p. 688; SARACINI, Xxxxxxx e sostituzione di clausole contrattuali, Milano, 1971, p. 5 ss.
(39) Cass. civ., Sez. un., 16 ottobre 1958, n. 3294, in Foro it., 1958, p. 1603, con nota di XXXXXXXXXX, e su cui v. pure FRAGALI, Clausole, cit., nonché PERA, Computo delle maggioranze per lavoro straordinario per i cottimisti dell’industria metalmeccanica, in Riv. dir. lav., 1958, p. 333. Cfr. anche Cass. civ., 28 aprile 1959, n. 1245, in Foro it., 1959, p. 732, e Cass. civ., 22 giugno 1962, n. 1631, in Riv. dir. comm., 1963, p. 271, con nota di FERRI.
(40) CASELLA, Xxxxxxx xxxxxxxx xxx xxxxxxxxx, xxx., x. 00; DE XXXX XXXXXX, La norma inderogabile, cit., p. 223; XXXXXXX, Contributo, cit., p. 142 ss.; XXXXXXXXX, La clausola
contrattuale, cit., p. 26 ss.
(41) SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 26 ss.
vedrà, nell’analisi delle clausole contenenti definizioni), e ciò nella misura in cui la natura della clausola, se precetiva o meno, non può che essere accertata all’esito del procedimento interpretativo, e quindi soltanto dopo aver fatto applicazione dell’articolo in parola.
Le varie tipologie di clausole analizzate sono invece riconducibili alla nozione di clausola-precetto, che deve qui pertanto ritenersi pienamente accolta (42): tutte le clausole analizzate, infatti, hanno mostrato un’attitudine regolamentativa, e non semplicemente enunciativa o dichiarativa, mostrando in tal modo di possedere un’incidenza (sebbene alle volte soltanto mediata, come nel caso delle clausole d’intero accordo) sulla determinazione e ricostruzione del regolamento contrattuale.
5. La derogabilità delle regole sull’interpretazione
L’analisi delle clausole sull’interpretazione del contratto ha reso necessaria un’incursione nel tema della derogabilità delle norme sull’interpretazione, che siano stabilite da fonte eteronoma (sia essa legge nazionale, convenzione internazionale, o fonte ulteriore).
A taluni infatti è parso che alcune tipologie di clausole siano da porre in collegamento diretto con le norme codicistiche in tema di interpretazione.
Come si avrà modo di evidenziare più oltre, ad esempio, non è mancato chi ha ritenuto di ricollegare le clausole d’intero accordo con l’art. 1362 c.c., ritenendo che le stesse configurino un’ipotesi di deroga, pienamente ammissibile, a tale articolo (43).
Anche le clausole c.d. di definizione (44) si pongono in diretto collegamento con l’art. 1362, e sono idonee a configurare un’ipotesi di deroga al comma 2 di tale articolo.
(42) Si può richiamare, a questo proposito, ed in via definitiva nel contesto del presente lavoro, la nozione di clausola(-precetto), elaborata da SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., il quale ha cura di delineare un ampio concetto di clausola in senso sostanziale, intesa come ogni proposizione completa in tutti gli estremi che integrano una statuizione, laddove per statuizione deve intendersi il comando rivolto a produrre un effetto giuridico, ovvero una conseguenza che la legge riconduce al presupposto costituito dall’esistenza del comando medesimo (p. 45): in altre parole, si ha clausola in senso sostanziale tutte le volte in cui una o più proposizioni siano volte a produrre una mutazione nel mondo giuridico (p. 46), una conseguenza giuridica (p. 47).
(43) Si veda quanto riportato infra al Cap. II, par. 2 ss.
(44) Analizzate al cap. III.
Il potenziale o, in taluni casi, effettivo rilievo delle clausole sull’interpretazione ai sensi della normativa statale in materia di interpretazione del contratto, e l’eventualità che tali clausole configurino un’ipotesi di metodologia negoziale dell’interpretazione del contratto, ha così consentito un percorso di ricerca negli studi che hanno affrontato il problema della natura di tali regole eteronome (soprattutto dell’art. 1362 c.c.), con particolare riguardo alla loro derogabilità.
6. (segue) l’orientamento contrario;
Il tema della derogabilità delle norme legislative sull’interpretazione non è in verità nuovo nell’analisi della dottrina nostrana. La questione è stata infatti analizzata anche in tempi risalenti, e si possono allo stato attuale individuare due filoni interpretativi, uno volto a negare la derogabilità delle regole sull’interpretazione, ed un altro invece favorevole alla prevalenza dell’autonomia privata.
Si è espresso per primo a favore dell’inderogabilità delle regole in esame Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx (45).
L’a. ha tratto argomento a favore dell’inderogabilità da un punto di vista funzionale, analizzando cioè la funzione che l’inderogabilità delle regole sull’interpretazione sarebbe destinata a svolgere.
Nell’argomentazione dell’a., laddove l’interprete fosse libero di scegliere le regole per l’interpretazione del testo, ciò comporterebbe un elevato grado di variabilità degli esiti interpretativi, e quindi un diverso significato, ed una diversa giuridica rilevanza, della dichiarazione di volontà delle parti, a seconda di quale sia il “metodo” interpretativo utilizzato.
Tale variabilità finirebbe così con il minare la stessa certezza del diritto, “la quale richiede che il fatto giuridico sia un dato costante rispetto a tutti coloro, in confronto dei quali deve operare” (46).
(45) Si veda in proposito L’interpretazione dei contratti e il ricorso in Cassazione, in
Riv. dir. comm., 1922, I, p. 140 ss., poi in Studi di diritto processuale, 1925, p. 393 ss.
(46) L’interpretazione dei contratti, cit., in Studi di diritto processuale, cit., p. 405. Il rischio di un margine di variabilità è tuttavia inevitabile in seno ad un contratto internazionale: in tale sede infatti la variabilità dei canoni interpretativi, e con essa quindi la potenziale diversa rilevanza giuridica del testo contrattuale, non può di per sé essere esclusa, dipendendo dalle regole di interpretazione contenute nella legge di volta in volta applicabile (sia essa applicabile per espressa volontà delle parti, o in virtù dei criteri residuali di d.i.p. del foro).
Ne consegue che l’unica soluzione possibile è di escludere “la variabilità delle regole da utilizzare per l’interpretazione e così in quanto si possano fissare le regole stesse”, e pertanto “risalta con chiarezza il profilo funzionale dell’art. 1131 (47) e dei suoi compagni: tra varie regole di esperienza che potrebbe utilizzare l’interprete, la legge prende partito… la funzione di questa assunzione nella legge di alcune regole di esperienza consiste precisamente nel limitare la libertà dell’interprete, e così nell’imporgli anziché nel suggerirgli le regole stesse” (48).
Un altro autore che ha escluso la derogabilità delle norme sull’interpretazione, ed in particolare dell’art. 1362, è Xxxxxx Xxxxxxxxx.
L’a., in aperto dialogo con Xxxxx (49), ha avuto modo di svolgere le proprie argomentazioni con riferimento ad un’ipotesi che sembra assimilabile a quella rappresentata dalle clausole d’intero accordo (ed esemplificata dallo stesso Xxxxx), vale a dire il caso in cui le parti inseriscano una clausola con cui stabiliscono che il contratto debba interpretarsi secondo il senso letterale delle parole.
Tale clausola sarebbe inammissibile, in quanto volta ad escludere la possibilità di ricorrere al canone della comune intenzione, che è canone stabilito da norme poste a tutela di interessi pubblici, e rivolte anche al giudice, in quanto finalizzate alla necessaria disciplina dell’attività di quest’ultimo in sede di interpretazione del contratto.
Con riferimento all’ipotesi in parola l’a. ha pertanto affermato quanto segue: “l'art. 1131 pone un principio di diritto cogente, perché il canone fondamentale «voluntas spectanda» non può essere disconosciuto dalle parti: esse possono sì parlare in un linguaggio di gergo, ma non possono predeterminare un linguaggio tale da escludere il valore della loro comune intenzione, quale risulterebbe dal contratto logicamente, e non solo letteralmente, inteso … l'art. 1131 cod. civ. pone uno dei fini del processo interpretativo, che si risolve nella ricerca della comune volontà in concreto, e quindi sancisce un principio che è fuori della libera disposizione delle parti, perché riguarda materie di interesse pubblico, ed ha per oggetto anche l'attività, e più ancora una determinazione di volontà del giudice” (50).
(47) Articolo presente nel Codice civile del 1865, cui corrisponde, nel Codice civile attualmente vigente, l'art. 1362
(48) L’interpretazione dei contratti, cit., in Studi di diritto processuale, cit., p. 406.
(49) X. xxxxx, xxx. 0.
(50) Cfr. GRASSETTI, Xxxxxxx al principio di gerarchia delle norme di interpretazione, in appendice a L'interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, rist. anagr. 1983, p. 258.
Un altro a. ha di recente mostrato di aderire alle teorie che sostengono l’inderogabilità delle regole sull’interpretazione dei contratti (51).
La tesi negativa discenderebbe dalla considerazione secondo cui, nella misura in cui l'interpretazione è volta all'individuazione delle regole contrattuali e, quindi, degli effetti del contratto, non si può concedere alle parti un potere derogatorio, laddove si consideri che la determinazione degli effetti del contratto è funzione riservata all'ordinamento giuridico.
Inoltre, il riconoscimento di un potere derogatorio in capo alle parti varrebbe a legittimare due ordini di interpretazioni, quella di terzi (tra tutti, il giudice) vincolati all'applicazione delle regole codicistiche, e quella delle parti, legittimate per l'appunto ad apportare deroghe a tali regole (52).
L’a. sembra tuttavia ritenere ammissibili due ordini di ipotesi: la definizione ad opera delle parti di un “vocabolario” per l'interpretazione del contratto, oppure la scelta di un tipo in particolare di regola interpretativa, ad esempio quella che privilegia il senso letterale del testo.
Tali pattuizioni, nell’argomentazione dell’a., sarebbero ammissibili non in quanto idonee ad integrare una forma di deroga al disposto di cui all’art. 1362, bensì in quanto rappresentano un indice utilizzabile dall’interprete al fine di ricavare la comune intenzione delle parti (53).
(51) Mi riferisco in particolare a CATAUDELLA, I contratti. Parte generale, Torino, 2009, p. 149 ss.
(52) XXXXXXXXXX, I contratti, cit., p. 149, nota n. 116. In verità, a ben vedere nel caso in cui le parti fossero ammesse a dettare regole unilaterali di interpretazione, non si
porrebbe il rischio di due esiti interpretativi in quanto il giudice, chiamato ad applicare regole sull'interpretazione, finirebbe pur sempre con l'applicare un unico sistema di norme: quello definito delle parti, se presente, altrimenti quello stabilito dal legislatore.
(53) XXXXXXXXXX, I contratti, cit., p. 149, nota n. 116. A ben vedere, l’a. in questo modo sembra non tenere in debito conto una dovuta distinzione: quella tra la ricerca della
comune intenzione ai fini dell’interpretazione dell’intero regolamento contrattuale, e la ricerca della comune intenzione ai fini della valutazione delle clausole che regolano l’interpretazione del regolamento contrattuale. Come si avrà modo di evidenziare più oltre, infatti, le clausole sull’interpretazione del contratto sono esse stesse, proprio in quanto clausole contrattuali, oggetto di interpretazione, e quindi soggette alla metodologia legale di cui agli artt. 1362 ss. La comune intenzione, pertanto, può essere doppiamente riferita sia alle clausole che definiscono la regolamentazione di interessi voluta dalle parti, sia a quelle che definiscono il modo di interpretare le pattuizioni che individuano tale regolamentazione.
7. (segue) l’orientamento favorevole.
Esiste di converso un diverso orientamento dottrinale, che si è dimostrato favorevole alla derogabilità dell'art. 1362 ad opera delle parti.
Un primo autore che si è espresso in tal senso è Xxxxxxx Xxxx (54).
Per l’a. l'individuazione della volontà concreta delle parti sembra essere l'unico criterio davvero inderogabile del procedimento ermeneutico, e la necessità imprescindibile di salvaguardare tale volontà fa sì che le parti del contratto possano derogare a qualsiasi regola eteronoma relativa all'interpretazione del contratto, tranne, ovviamente, a quella che fa salva la loro volontà.
Oppo stesso afferma quanto segue: “Certo le parti possono escludere l'applicazione dell'uso come possono escludere quella di qualsiasi regola di interpretazione – salvo, per impossibilità logica, di quella regola che tutela appunto la loro volontà – manifestando una volontà contraria: giacché il riconoscimento della volontà concreta domina l'interpretazione e di fronte ad esso ogni altra regola ha funzione subordinata” (55).
In base a quanto precede, le parti sarebbero legittimate ad escludere l'applicazione di qualunque regola legislativa sull'interpretazione: “Infatti escludendo una qualsiasi delle regole legislative di interpretazione, in quanto vogliono efficace tale loro volontà esse chiedono implicitamente la tutela dell'art. 1362 cod. civ.”(56).
Come conseguenza, l'a. afferma la piena validità di una clausola per cui il contratto debba essere interpretato secondo il senso letterale delle parole: “riconoscendone la validità non si disapplica ma proprio si applica l'art. 1362 che vuole efficace la volontà delle parti, il cui intento comune corrisponde evidentemente in tale ipotesi al tenore letterale delle espressioni usate” (57).
Anche per Xxxxx (58) le norme legislative sull'interpretazione appaiono pienamente derogabili.
L'a. muove dalla distinzione tra norme suppletive e norme interpretative, negando a queste ultime la natura di norme suppletive, la cui
(54) Si vedano le osservazioni svolte in Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, p. 88.
(55) Profili dell'interpretazione oggettiva, cit., p. 88.
(56) Profili dell'interpretazione oggettiva, cit., p. 88, nota n. 1.
(57) Profili dell'interpretazione oggettiva, cit., p. 88, nota n. 1.
(58) Errore e responsabilità nei contratti, Padova, 1941, p. 240.
applicazione, cioè, possa dipendere da una mancata espressione di volontà delle parti.
Tuttavia, pur se l'applicazione di tali norme non è condizionata da un comportamento omissivo delle parti, ciononostante queste ultime possono escluderne l'applicabilità.
L'a. infatti afferma espressamente quanto segue: “come la interpretazione può essere evitata dalla espressa determinazione delle conseguenze giuridiche del negozio così la interpretazione può essere eliminata dalla chiara espressione dell'intento”. In virtù di quanto precede, “una clausola secondo la quale il contratto deve essere inteso secondo il senso letterale delle parole dovrebbe avere effetto” (59).
Anche questo a., pertanto, sembra ammettere la validità di una clausola siffatta in base al rilievo per cui, attraverso essa, le parti esprimerebbero il loro intento, e cioè, con linguaggio normativo, la loro comune intenzione.
Più di recente, anche Xxxxxxxx Xxxxx si è espresso a favore della derogabilità delle norme legali sull'interpretazione.
L'a. afferma esplicitamente che “L'interpretazione del contratto è materia disponibile dalle parti”, con ciò implicitamente sostenendo la natura derogabile delle norme legali sull'interpretazione.
Infatti, l'a. prosegue nel modo seguente: “[le parti] possono concordare che la clausola del loro contratto debba interpretarsi secondo un certo significato, anche se l'applicazione delle norme interpretative potrebbe giustificare un significato diverso”.
La prevalenza dell'autonomia contrattuale sulla metodologia legale d'interpretazione è tale da vincolare anche il giudice, quanto agli esiti interpretativi: “se le parti litiganti adducono in causa la medesima interpretazione del contratto, il giudice non può disattenderla in favore di un'altra, da lui ritenuta più conforme agli artt. 1362 ss.” (60).
(59) Errore e responsabilità nei contratti, cit., p. 240, nota n. 5. Val la pena evidenziare come, in verità, un procedimento ermeneutico si riveli in ogni caso necessario, anche in presenza di una chiara espressione dell'intento. Non è possibile, infatti, affermare la chiarezza delle pattuizioni contrattuali se prima non si è proceduta ad un'analisi del testo, la valutazione in termini di chiarezza del testo adottato dalle parti è infatti pur sempre un esito del procedimento interpretativo. Si vedano in proposito le considerazioni espresse da XXXXX, L’interpretazione, in SACCO, DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, cit., p. 397 ss.
(60) I rilievi riportati nel testo sono ne Il contratto, cit., p. 467. Le affermazioni dell'a. a mio modo di vedere recano con sé un necessario postulato: se le parti possono vincolare il giudice ad un determinato “esito” interpretativo (dicendo direttamente quale sia il significato
Un altro autore, infine, si è espresso in favore dell’autonomia contrattuale, sostenendo la piena ammissibilità di clausole di “protezione letterale” del contratto, con le quali le parti stabiliscano preventivamente le regole convenzionali di interpretazione del contratto, anche in deroga alle regole legali, e ciò sul presupposto per cui l’applicabilità delle regole legislative in tema di interpretazione sarebbe fatta salva anche in tal caso, nella misura in cui anche le clausole sull’interpretazione, proprio in quanto clausole, sarebbero soggette a propria volta all’applicazione dei canoni legislativi in tema di interpretazione (61).
L’esame dei due orientamenti appena richiamati consente alcune riflessioni.
Val la pena anzitutto evidenziare come, nonostante in linea generale la contrapposizione appaia netta, tra i due orientamenti si diano in verità forme di comunicazione reciproca.
In entrambi i filoni interpretativi, e quindi anche in quello teso a negare la derogabilità delle norme sull'interpretazione, ritroviamo infatti autori (62) che affermano che la clausola con cui si circoscrive il significato del contratto a quello emergente dal senso letterale delle parole sarebbe pienamente valida ed efficace, e con ciò vincolante per l'interprete.
Xxxxxx, affermare che tale tipo di pattuizione è espressione della comune intenzione dei contraenti, e che pertanto quest’ultima sarebbe ricavabile dal tenore letterale delle espressioni racchiuse nel testo scritto, implica la piena rinunciabilità, ad opera delle parti stesse, del canone di cui al comma 2 dell'art. 1362 c.c. (il quale come visto individua nel comportamento complessivo delle parti lo strumento utile al fine di ricavare tale comune intenzione), e quindi la derogabilità del comma in parola.
Tutto quanto precede dimostra, in ogni caso, la complessità del dibattito sviluppatosi in materia, e come forse, ancora oggi, non possa individuarsi un orientamento che possa dirsi prevalente.
Tuttavia, come si avrà modo di dimostrare nel corso dell’elaborato, nel contesto di una ricerca volta all’analisi delle clausole sull’interpretazione, il problema della derogabilità delle regole eteronome in tema di
di una determinata clausola), le stesse possono, evidentemente, vincolare il giudice anche nell'ipotesi “minore”, e cioè quella in cui, anziché individuare direttamente il “risultato” dell'interpretazione, le parti si limitino ad individuare la metodologia dell'interpretazione, e cioè le regole che l'interprete dovrà seguire per la ricostruzione del regolamento contrattuale.
(61) Le osservazioni sono di XXXXXXXXXX, L’interpretazione, in Trattato del contratto, (a cura di) Roppo, Milano, 2006, p. 299.
(62) Come XXXXXXXXXX, I contratti, cit., p. 149.
interpretazione si può porre solo con riferimento a taluni specifici, e limitati, effetti.
Per un verso, infatti, talune clausole hanno rivelato la natura di patti sulla forma, più che sull’interpretazione, coinvolgendo in tal modo profili diversi da quelli legati alla eventuale creazione di una metodologia negoziale dell’interpretazione.
Per altro verso, la derogabilità delle norme sull’interpretazione deriva alle volte dalla natura intrinseca di norme dispositive, derivante dall’essere state inserite in testi di diritto materiale uniforme a carattere sovranazionale.
Anticipando qui alcuni esiti, si può pertanto già dire come, sebbene qualificate come clausole sull’interpretazione, svariate tipologie di clausole utilizzate nei contratti internazionali coinvolgano in realtà profili diversi da quelli puramente esegetici, o in ogni caso non appaiano idonee a creare problemi di conflitto con le norme eteronome che definiscono la metodologia dell’interpretazione del contratto.
8. Il “contratto alieno” e le clausole c.d. di interpretazione, tra profili ermeneutici e profili di forma del contratto.
La ricerca svolta sulle clausole c.d. di interpretazione del contratto internazionale, ed i risultati cui si è pervenuti, e di cui darà rappresentazione nel contesto del presente elaborato, permettono alcune riflessioni.
Come si avrà modo di evidenziare, tutte le clausole qui analizzate, che rappresentano un dato costante della prassi contrattuale del commercio internazionale, sono state sinora etichettate come clausole sull’interpretazione del contratto.
I (pochi, in verità) contributi in materia hanno infatti accomunato tutte le clausole in parola entro il genere più ampio delle clausole d’interpretazione (63), altre volte poi si è riconosciuta la natura di clausola sull’interpretazione a singole specifche clausole (64).
Ebbene, la ricerca ha rivelato come, in verità, molte delle clausole rinvenute ed analizzate coinvolgano profili legati alla prova del contratto, fino a spingersi ad intercettare questioni di forma dello stesso, e non riguardino invece questioni di esegesi del contratto.
(63) Così è infatti intitolato il capitolo che contiene l’esemplificazione delle clausole qui analizzate contenuto in XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit.
(64) V. il riferimento a XXXXXXXX, Le norme interpretative speciali, cit., di cui al cap.
I, par. 2.
È il caso delle clausole d’intero accordo (65) le quali, lungi dal rappresentare una deroga al canone della comune intenzione, così come delineato dal comma 2 dell’art. 1362 c.c., rappresentano piuttosto una prescrizione destinata ad incidere sulla documentazione del contratto, e più ampiamente sulla forma dello stesso, rivestendo in tal modo la natura di accordo negoziale sulla forma del contratto (ed in quanto patto sulla forma, le stesse sono anche patto sulla forma della prova del contratto).
Analoghe considerazioni possono essere ripetute anche con riferimento alle clausole di non modificazione orale (clausole NOM) (66), che hanno anch’esse rivelato, e con un grado di incidenza effettiva maggiore delle clausole d’intero accordo, la natura di patti sulla forma di futuri contratti, come tali riconducibili all’alveo dell’art. 1352 c.c.
I profili legati all’interpretazione del contratto sembrano venire in rilievo unicamente con riferimento alle premesse contrattuali, ed alle clausole
c.d. di definizione (67), in quanto rappresentano, le une, un ausilio per l’individuazione della comune intenzione delle parti, ed in tal modo strumento concreto nelle mani dell’interprete per consentire allo stesso l’applicazione del canone di cui all’art. 1362 c.c., laddove le altre, invece, attraverso il concreto operare delle regole linguistiche, si dimostrano idonee ad irrigidire il testo, eliminandone l’eventuale polisemia, ed in tal modo impediscono il ricorso al canone della comune intenzione, così configurando un’ipotesi di deroga al disposto di cui al comma 2 dell’art. 1362 c.c.
I risultati cui si è pervenuti dimostrano pertanto l’inesistenza di una vera e propria metodologia negoziale dell’interpretazione del contratto, completa ed esaustiva al punto tale da poter escludere l’incidenza della fonte eteronoma che allo stesso risulta di volta in volta applicabile.
L’operazione di esegesi del testo sembra pertanto irrimediabilmente destinata ad essere influenzata non solo dalle pattuizioni contrattuali, ma anche dalle norme in tema di interpretazione del contratto, contenute nella fonte di diritto di disciplina del contratto.
L’autonomia contrattuale in tema di interpretazione del contratto internazionale è, pertanto, in grado di svolgere un ruolo significativo non solo (e forse, non più di tanto) mediante l’inserimento nel testo di clausole sull’interpretazione, ma anche attraverso l’adozione di una clausola di scelta del diritto applicabile, ed eventualmente anche di scelta del foro competente.
(65) Analizzate al cap. II.
(66) Oggetto di analisi al cap. III.
(67) Per entrambe rinvio al cap. IV.
Il diritto di volta in volta applicabile al contratto continua, pertanto, a possedere un ruolo primario, anche con riferimento al tema dell’interpretazione.
Nonostante l’evoluzione della prassi contrattuale, ed un’espansione dell’autonomia privata, che, sebbene a limitati effetti, tenta di influenzare il procedimento di esegesi del contratto, sembra pertanto ancor oggi pienamente valido il principio di relatività dell’interpretazione, concettualizzato in tempi non recenti da Xxxxx Xxxxx, secondo cui c’è piena corrispondenza tra pluralità dei metodi dell’interpretazione e pluralità degli ordinamenti giuridici: “Col variare dello strumento interpretativo varia anche il risultato dell’interpretazione e si potrebbe, al limite, affermare che vi sono tanti ordinamenti quanti sono i metodi interpretativi” (68).
Un margine di variabilità del metodo interpretativo che sembra portare con sé anche il rischio di variabilità degli esiti interpretativi: “i risultati di uno stesso metodo interpretativo devono essere identici, sicché la causa delle divergenze, purché si prosegua correttamente nel metodo interpretativo intrapreso, è da ricercare nella varia scelta del metodo interpretativo, nella diversità del punto di partenza dell’indagine” (69).
Un rischio che ad oggi non sembra ancora del tutto eliminabile, e rispetto al quale il contratto internazionale costituisce punto di osservazione privilegiato.
Si è già anticipato, infatti, come la recente evoluzione del diritto del commercio internazionale abbia restituito un rinnovato pluralismo delle fonti di regolamentazione dei contratti internazionali (70).
Un simile pluralismo, di per sé solo considerato, potrebbe ampliare il margine di variabilità in questione.
Ma il comparatista (71) avverte della graduale convergenza dei sistemi giudirici (72), in tema di interpretazione del contratto.
Nel dialogo tra civil law e common law occorrerebbe infatti abbandonare l’idea di una netta contrapposizione tra le due tradizioni giudiriche, e quindi la convinzione tralatizia secondo cui la prima sarebbe
(68) MERKL, Sul problema dell’interpretazione, cit., p. 271.
(69) Ancora MERKL, Sul problema dell’interpretazione, cit., p. 271.
(70) Cfr. VINCI, La «modernizzazione» della Convenzione di Roma, cit., p. 1257 ss.
(71) XXXXXXXX, Xxxxxx e modelli di interpretazione del contratto. Prospettive di un dialogo tra common law e civil law, Torino, 2011.
(72) Al tema della progressiva convergenza tra sistemi giudirici è dedicata l’opera di XXXXXXXXXX, The Gradual Convergence: Foreign Ideas, Foreign Influences and English Law on the Eve of the 00xx Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000.
maggiormente tesa a ricercare in concreto la reale volontà delle parti, mentre la seconda sarebbe portavoce di maggiore oggettività ed aderenza al testo scritto.
Risulta infatti osservabile un progressivo ravvicinamento tra i due sistemi, dato, quanto al primo, dalla ridotta considerazione del materiale ermeneutico extratestuale, nonostante la diversa lettera del dettato legislativo (su tutti, l’art. 1362 c.c. italiano), e, quanto al secondo, dalla presenza di primi segni di apertura verso l’utilizzazione di tale materiale estrinseco, a fronte della tradizionale e secolare predilezione esclusiva verso il dato letterale (73).
E tuttavia, un margine di differenza sembra ancora sussistere, e tale margine è dato dal livello di tollerabilità entro il quale è consentito il ricorso ad elementi extratestuali, nella misura in cui i sistemi di common law sembrano tuttora indirizzati ad escludere, in particolare, l’utilizzabilità del materiale afferente alla fase delle negoziazioni, utilizzo invece ufficialmente ammesso (ed entro certi limiti praticato) entro i sistemi di civil law (74).
Perdura, pertanto, un margine di differenza tra ordinamenti, quanto al metodo esegetico: una differenza che conferma l’esistenza, ancora oggi, di un margine di variabilità, anche degli esiti interpretativi, oltre che della metodologia normativa in sé considerata.
Un margine di variabilità che avvalora la conclusione già riportata, per cui l’autonomia contrattuale può giocare un ruolo fondamentale, nel cercare di influire sull’interpretazione del contratto, anche (se non forse, soprattutto) attraverso la predisposizione di un’apposita clausola di scelta del diritto applicabile al contratto.
9. Interpretazione del contratto e teoria del contrat sans loi: osservazioni critiche
L’analisi delle clausole c.d. di interpretazione del contratto internazionale consente, infine, di sviluppare qualche considerazione di teoria generale del diritto.
Come si è avuto modo di anticipare, la formulazione e l’adozione di clausole che sembrano orientate anche a definire in via preventiva il procedimento di esegesi del contratto si inserisce in quella più ampia
(73)XXXXXXXX, Xxxxxx e modelli di interpretazione del contratto, cit., p. 203 ss.
(74) Ancora XXXXXXXX, Xxxxxx e modelli di interpretazione del contratto, cit., p. 263.
tendenza delle parti di un contratto internazionale a predisporre un testo quanto più possibile completo e particolareggiato.
La tendenza alla potenziale esaustività del testo contrattuale trae origine dalla tradizione dei paesi di common law (75), e segnatamente da quella anglosassone (76).
E si tratta di tendenza che non ha mancato di sollevare interrogativi di teoria generale del diritto.
Non sono mancati infatti contributi che, proprio sulla scorta dell’eccezionale minuziosità e completezza dei testi dei contratti internazionali, hanno teorizzato la possibilità che un singolo contratto possa bastare a se stesso, che possa, cioè, essere talmente completo ed esauriente, da non necessitare di alcuna integrazione da parte di una fonte eteronoma, contenendo in sé la disciplina di qualunque eventualità ed aspetto possibili.
L’argomento va sotto il nome di teoria del contrat sans loi (77).
La formulazione della teoria è legata agli studi in materia di lex mercatoria, il cui recente sviluppo e riaffermazione ha comportato l’ampliamento delle fonti di regolamentazione dei contratti, e la possibilità di configurare, accanto alle leggi nazionali, ed alle convenzioni internazionali, una fonte che potremmo definire di diritto a-statuale, o transnazionale.
Tale proliferazione delle fonti di regolamentazione ha comportato, in alcuni casi, talune modifiche lessicali nella legislazione statale in materia di arbitrato, nella misura in cui si è ritenuto di dover dar conto di ulteriori
(75) Al punto che nella letteratura inglese ed in quella americana sembra affermarsi un nuovo genere, consistente nella predisposizione di manuali di ausilio alla redazione dei contratti, spesso contenenti suggerimenti che traggono origine dalle regole giudiziali in materia di interpretazione del contratto. Si possono citare a questo proposito: JACK, English Xxx & Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxx, 0000; XXXX, Legal Usage in Drafting Corporate Agreements, Westport, 2001; ID., A manual of Style for Contract-Drafting, Xxxxxxx, 0000; XXXX, The Modern Rules of Xxxxx, Xxxxxxx, 0000; XXXXXX, The Redbook: A Manual on Legal Style, St. Xxxx, 2006; ID., Legal Writing in Plain English, Xxxxxxx-Xxxxxx, 0000; XXXXX, The Elements of Contract Drafting with Questions and Clauses for Consideration, St. Xxxx, 2006; XXXXX, Negotiating and Drafting Contract Boilerplate, New York, 2003; XXXXXXX, TAHAM, Successful Legal Writing, London, 2006; XXXXXXXXX, The Fundamentals of Legal Drafting, Boston-Toronto, 1986; FOX, Working with Contracts, New York, 2008.
(76) Non è ben chiaro, riferisce XXXXXXXX, Xxxxxx e modelli di interpretazione del contratto, cit., p. 211, se la minuziosità e lunghezza tipica dei contratti di matrice anglosassone sia la causa oppure l’effetto di un metodo interpretativo ancorato alla lettera del
contratto. Di sicuro c’è che una tale forma di redazione del contratto è frutto di un’elevato, e risalente nel tempo, grado di standardizzazione e tipizzazione dei contratti, diversamente da quanto accade nei paesi di civil law.
(77) LEVEL, Le contrat dit “sans loi”, cit.
“fonti” o “regole di diritto”, e quindi non più semplicemente di leggi o convenzioni, applicabili in tale contesto.
La redazione di un contratto all’apparenza autosufficiente testimonierebbe per l’appunto la presenza di un contratto contenente “regole di diritto”, proprio in quanto non abbisognevole di regole poste da fonte eteronome, ed in quanto, per l’appunto, le regole giuridiche tout court non sarebbero più appannaggio esclusivo del potere normativo statuale, potendo invece essere rintracciate anche in un fenomeno normativo che prescinde dall’internvento del legislatore nazionale (o, tutt’al più sovranazionale), come per l’appunto la lex mercatoria.
Sebbene la teoria del contrat sans loi xxxxxx xxxxx trovato riconoscimento ed applicazione in qualche sentenza arbitrale (78), si tratta di teoria che è stata, a ragione, fortemente osteggiata e criticata, dalla dottrina italiana, come da quella inglese, francese e tedesca (79), in quanto con ogni evidenza contiene un equivoco di fondo, dato dal confondere una delle fonti interne di sviluppo ed evoluzione della lex mercatoria, la prassi contrattuale per l’appunto, con la lex mercatoria considerata nel suo complesso, quale fenonemo normativo che, in quanto tale, è necessariamente fenomeno collettivo, che trascende la singola negoziazione.
L’equivoco, e l’errore, risiede allora nel ridurre tale fenomeno collettivo a fenomeno estemporaneo, coincidente con il singolo contratto di volta in volta stipulato (80).
La teoria, a ben vedere, non ha poi retto alla valutazione delle corti nazionali (81).
(78) Cfr. Lodo CCI n. 2583 (1976), in Clunet, 1977, p. 951; Lodo CCI n. 2152 (1972), in Clunet, 1974, p. 888; lodo CCI n. 2730 (1984), in Clunet, 1984, p. 915.
(79) Si vedano sul punto GOLDMAN, Les conflits de lois dans l’arbitrage international de droit privé, in RCADI, 1963, p. 350 ss.; LALIVE, Problèmes rélatives à l’arbitrage international commercial, in RCADI, 1967, p. 649; XXXXXXX, XXXXXXX, Grenzen
der lex mercatoria in der internationalen Schiedsgerichtsbarkeit, in RIW, 1988, p. 246; XXXXXX, The Enigma of the Lex Mercatoria, in Tul. L. Rev., 1989, p. 613; MARRELLA, La nuova Lex mercatoria : principi Unidroit ed usi dei contratti del commercio internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Xxxxxxx, Padova, 2003, p. 183 ss.
(80) Tant’è che, secondo NYGH, Autonomy in International Contracts, Oxford, 1999, potrebbe tutt’al più parlarsi di teoria del contrat sans droit étatique, vale a dire di contratto non sottoposto a norme di derivazione statale.
(81) Il rifiuto è netto nella giurisprudenza inglese: Xxxx Xxxxxxx Shipping Corp. v.
Kuwait Insurance Co., in Lloyd’s Rep., 1983, p. 365 ss.; Star Shipping A.S. v. China National Foreign Trade Transportation Corporation, in Lloyd’s Rep., 1993, p. 445.
Ebbene, l’analisi delle clausole c.d. di interpretazione dei contratti internazionali fornisce, a mio modo di vedere, un solido argomento di rigetto della teoria del contrat sans loi.
Si è appena evidenziato, infatti, e si cercherà di darne idonea dimostrazione nel corso dell’elaborato, che, sebbene a prima vista tali clausole, anch’esse inserite nella generale tendenza alla disciplina minuziosa ed esaustiva, sembrino finalizzate a fornire una metodologia negoziale dell’interpretazione, le stesse si rivelino in realtà legate spesso a profili di documentazione e forma del contratto, più che di interpretazione dello stesso.
La circostanza non permette pertanto di escludere l’inevitabile incidenza del formante normativo eteronomo sul procedimento di interpretazione del contratto, con l’inevitabile margine di variabilità che si è appena evidenziato.
Il necessario ricorso ad una fonte di diritto esterna al contratto restituisce quel margine di imprescindibilità, che è proprio del diritto in quanto fenomeno collettivo, e consente pertanto di rigettare la teoria della pretesa autosufficienza del contratto anche sul terreno, più circoscritto ma già immediatamente più concreto, dell’interpretazione del contratto (82).
(82) Sul punto rinvio anche alle osservazioni di XXXXXXX-XXXX, Conclusion: the self-sufficient contract, uniformly interpreted on the basis of its own terms: an illusion, but not fully useless, in XXXXXXX-XXXX (Eds.), Boilerplate Clauses, International Commercial Contracts and the Applicable Law, Cambridge, 2011, p. 344 ss.
CAPITOLO SECONDO
LE ENTIRE AGREEMENT CLAUSES
O
CLAUSOLE D’INTERO ACCORDO
SOMMARIO: 1. Origine e funzione delle entire agreement clauses. – 2. Le entire agreement clauses e l’ordinamento italiano: il problema della derogabilità dell’art. 1362 c.c.; – 3. Le entire agreement clauses non configurano un’ipotesi di deroga all’art. 1362 c.c. Dimostrazione: sulla portata effettiva dell’art. 1362 c.c.; – 4. (segue) il brocardo «in claris non fit intepretatio»; – 5. (segue) funzione ermeneutica della metodologia legale e funzione di documentazione delle clausole d’intero accordo. – 6. Le clausole d’intero accordo e la fattispecie “contratto” da sottoporre ad interpretazione. – 7. L’irrilevanza delle clausole d’intero accordo ai fini ermeneutici. – 8. Le clausole d’intero accordo come patti sulla prova: la riconducibilità all’art. 2698 c.c.; – 9. (segue) critica di tale impostazione: l’applicabilità dell’art. 2725 c.c.; – 10. Le clausole d’intero accordo e l’art. 2722 c.c. – 11. Forma ad substantiam e forma ad probationem ovvero forma dell’atto e forma della prova dell’atto. – 12. Le entire agreement clauses come ipotesi di accordo sulla forma, ex art. 1352 c.c. –
13. Prime conclusioni. – 14. Le entire agreement clauses e la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili: la derogabilità della Convenzione ai sensi dell’art. 8 e dell’art. 11; – 15. (segue) la rilevanza esclusiva dell’art. 11; – 16. La derogabilità dell’art. 11 per mezzo di una clausola d’intero accordo. – 17. Le clausole d’intero accordo e i Principi Unidroit.
1. Origine e funzione delle entire agreement clauses
Un tipo di clausola che merita un’analisi approfondita è rappresentato dalle clausole d’intero accordo, o entire agreement clauses (si danno anche le denominazioni equivalenti di integration clauses, entire contract clauses, merger clauses, whole agreement clauses).
Si tratta di clausole con le quali le parti intendono circoscrivere l'intero accordo dalle stesse concluso a quanto emerge dal testo scritto del
contratto, escludendo in tal modo la possibilità di ricorrere a materiale estrinseco formatosi nella fase antecedente la conclusione dell’accordo (quali, ad esempio, i documenti formati nel corso delle negoziazioni).
La portata esatta delle clausole d'intero accordo dipende ovviamente dalla loro formulazione in concreto, in ogni caso tali clausole conoscono un elevato livello di standardizzazione (83), e sono generalmente formulate nel modo che segue:
“This contract, including all the schedules attached hereto which represent an integral part hereof and have been signed by the parties, constitutes the entire agreement beween the parties”;
“Entire Contract. This contract contains the final and entire agreement between Seller and Xxxxx and any prior or contemporaneous understandigs or agreements, oral or written, are merged herein”;
“Entire Agreement; Modification
This Agreement and any Exhibits hereto constitute the entire Agreement between the parties concerning the subject matter hereof. It supersedes any proposal or prior agreement, oral or written, and any other communication and may only be modified in a writing signed by the parties” (84).
(83) Al punto che la formulazione del tipo di clausola in esame sembra essere sempre meno oggetto di vera a propria contrattazione tra le parti (clausole c.d. Boilerplate). Conferma la natura di clausole boilerplate, XXXX XXXXXXX (ed), Encyclopaedia of Forms and Precedents, 5th ed., 2001, London, Volume 4, parte 3, Boilerplates and Commercial Clauses, cap. n. 26. La natura di boilerplate delle entire agreement clauses sembra confermata anche da XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 183, 198, anche se tale natura sembra ascrivibile un po’ a tutte le clausole sull’interpretazione (v. p. 134).
(84) Per ulteriori esempi di clausole d’intero accordo, v., XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 169 ss. È significativo come un fondamentale dizionario come il Black’s Law Dictionary, St. Xxxx, 2009, p. 880, che fornisce un’adeguata rappresentazione dell’influenza che l’evoluzione normativa (in gran parte di matrice anglosassone) è in grado di esercitare sulla terminologia giuridica utilizzata anche nella
xxxxxx, contenga al proprio interno una definizione delle clausole d’intero accordo, descritte come “a contractual provision stating that the contract represents the parties’ complete and final agreement and supersedes all informal understandings and oral agreements relating to the subject matter of the contract”.
Le clausole d’intero accordo traggono la loro origine dalla prassi contrattuale anglo-americana (85), dove vengono spesso utilizzate nelle transazioni che comportano negoziazioni lunghe e complesse.
Al fine di individuare la portata esatta delle clausole in esame, si rende pertanto necessario ripercorrere brevemente la relativa genesi, e la funzione che tali clausole svolgono negli ordinamenti da cui traggono origine.
Le clausole d’intero accordo rappresentano uno strumento adottato nella pratica delle contrattazioni per rendere effettiva l’operatività della parol evidence rule.
Quest’ultima è regola tipica del diritto anglo-americano, in base alla quale, laddove il contratto scritto costituisca l’espressione finale dei termini dell’accordo, è esclusa la possibilità di far ricorso alla fase pre-contrattuale, ed al materiale ermeneutico proprio di tale fase (si tratti ad esempio di dichiarazioni orali o di documenti scritti), ai fini della ricostruzione del regolamento contrattuale.
La ratio della regola risiede nel garantire rilievo giuridico all’intenzione delle parti di rendere il contratto scritto l’espressione finale dell’accordo tra le stesse raggiunto (86).
In questi casi il contratto è detto “integrated”, e sia il diritto americano che il diritto inglese conoscono un’ulteriore distinzione: nel caso in cui il testo scritto rappresenti l’espressione finale dell’accordo delle parti, con riguardo ai termini in esso contenuti, ma non anche l’espressione completa di tale accordo, il contratto è detto partially integrated; nella misura in cui il contratto rappresenta l’espressione non solo finale, ma anche completa dell’accordo raggiunto dalle parti, lo stesso è definito “completely integrated” (87).
La distinzione ovviamente non è priva di conseguenze giuridiche: nel caso in cui il contratto sia soltanto partially integrated, è ammesso il ricorso al materiale estrinesco, ma solo laddove stesso sia idoneo ad integrare il
(85) Per una conferma x. XXXXX, Interpretation clauses in international contracts, in Les grandes clauses des contrats inernationaux, Paris/Bruxelles, 2005, p. 52. V. pure GUEST, The Terms of the Contract, in Chitty on Contracts, London, 2004, p. 758, nota n. 441, che riferisce come, con ogni probabilità, le clausole d’intero accordo siano state formulate per la prima volta entro l’ordinamento statunitense.
(86) In questi termini, XXXXXXXXXX, Contracts, New York, 2004, p. 418.
(87) La distinzione è presente in testi normativi: v. il Restatement Second of the Law of the Contracts statunitense, che al § 210 afferma: “(1) A completely integrated agreement is an integrated agreement adopted by the parties as a complete and exclusive statement of the terms of the agreement. (2) A partially integrated agreement is an integrated agreement other than a completely integrated agreement”.
regolamento contrattuale, e quindi ad individuare patti aggiunti al complesso delle disposizioni risultanti dal testo, e non se invece preveda termini in contraddizione con quanto affermato nel testo scritto; nel caso in cui, invece, il contratto sia completely integrated, non è ammesso il ricorso a tale materiale estrinseco nemmeno in funzione integrativa (88).
Il problema che spesso si pone negli ordinamenti di common law, all’atto di esaminare, ed interpretare, il testo di un contratto, è allora quello di verificare se, ed in base a quali parametri, lo stesso possa dirsi l’espressione “finale e completa” dell’accordo raggiunto dalle parti.
Ed è proprio a questi fini che nella prassi delle contrattazioni è invalso l’uso di ricorrere alle clausole d’intero accordo, o entire agreement clauses.
La funzione generale e tipica (89) di tali clausole consiste per l’appunto nel qualificare il contratto scritto come l’espressione finale e completa dell’accordo raggiunto dalle parti, con ciò escludendo conseguentemente la possibilità di ricorrere al materiale ed alle risultanze appartenenti alla fase delle negoziazioni (90).
E ciò, evidentemente, anche al fine di evitare che una delle parti, in un momento successivo alla stipulazione del contratto, possa poi fraudolentemente tentare di avanzare nuove pretese, non ricollegabili al testo del contratto, facendo riferimento ad osservazioni o dichiarazioni, o tracce di altro tipo, di incerta affidabilità, magari molto risalenti nel tempo o che, in
(88) Tutto quanto precede trova conferma ancora una volta in testi normativi: il Restatement Second, al § 215, afferma che “where there is a binding agreement, either completely or partially integrated, evidence of prior or contemporaneous agreements or negotiations is not admissible in evidence to contradict a term of the writing”, ed al § 216 è poi stabilito che “Evidence of a consistent additional term is admissible to supplement an integrated agreement unless the court finds that the agreement was completely integrated”. L’Uniform Commercial Code statunitense, al § 2-202 a propria volta stabilisce che “Terms with respect to which the confirmatory records of the parties agree or which are otherwise set forth in a record intended by the parties as a final expression of their agreement with respect to such terms as are included therein may not be contradicted by evidence of any prior agreement or of a contemporaneous oral agreement”.
(89) Sebbene non l’unica, come hanno cura di evidenziare XXXXXXXX, DE LY, La redazione, cit., p. 171, che hanno individuato almeno 6 funzioni possibili delle clausole in
esame, vale a dire: 1) esclusione della simulazione; 2) esclusione dei contratti anteriori; 3) esclusione dei documenti precontrattuali; 4) esclusione delle allegazioni scritte o orali; 5) esclusione delle condizioni generali; 6) esclusione dei contratti futuri.
(90) X. XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 423-424.
ogni caso, le parti hanno successivamente ritenuto prive di concreta rilevanza negoziale (91).
Si impone a questo punto una precisazione: tanto nell’ordinamento inglese (92) quanto in quello americano (93), le clausole d’intero accordo servono unicamente ad escludere l’utilizzabilità del materiale ermeneutico ulteriore che sia in contraddizione con le pattuizioni contenute nel regolamento contrattuale, oppure che contenga disposizioni poi non riportate nel testo definitivo del contratto (94).
Le clausole d’intero accordo, invece, non impediscono l’uso del materiale estrinseco al fine di confermare, o chiarire, il senso di una o più pattuizioni, risolvendo in tal modo le ambiguità del testo, o colmandone eventuali lacune (95). D'altronde, l’operatività della stessa regola della parol
(91) La circostanza è messa in evidenza nella sentenza v. Inntrepreneur Pub Co v East Crown Ltd, in Lloyd’s Rep., p. 611, 2000, laddove si è affermato che “The purpose of an entire agreement clause is to preclude a party to a written agreement from thrashing through the undergrowth and finding, in the course of negotiations, some (chance) remark or statement (often long-forgotten or difficult to recall or explain) upon which to found a claim, such as the present, to the existence of a collateral warranty… Such a clause constitutes a binding agreement between the parties that the full contractual terms are to be found in the document containing the clause and not elsewhere, and that, accordingly, any promises, or assurances made in the course of negotiations (which, in the absence of such a clause, might have effect as collateral warranty) shall have no contractual force, save in so far as they are rflected and given effect in that document”. Per un commento alla sentenza v. MCMEEL, The Construction of Contracts. Interpretation, Implication and Rectification, Oxford, 2007, p. 507 ss.
(92) In relazione al quale rimando a XXXXXX, The Construction, cit., p. 497 ss.
(93) V., per tutti, XXXXXXXXXX, The interpretation of International Contracts and the Use of Preambles, in Rev.droit des aff. int/Int. Bus. Law Journal, 2002, p. 271 ss.
(94) Per una sentenza che fornisce un'ampia definizione della funzione svolta dalle
entire agreement clauses, si veda ancora la sentenza Inntrepreneur Pub Co v East Crown Ltd, in Lloyd’s Rep., cit. in nota n. 9.
(95) Un caso esemplificativo di tale limite alla sfera di applicazione delle entire agreement clauses è dato da Proforce v. Rugby Group, citato MCMEEL, The Construction,
cit., p. 512 ss. Nel caso di specie si trattava di interpretare l’espressione “preferred supplier status”, contenuta nel contratto di fornitura di personale addetto ai servizi di pulizia, stipulato tra le due società Proforce e Rugby Group. Nel contratto era stata inserita la seguente clausola d’intero accordo “This agreement supersedes all prior representations, agreements, negotiations or understandings”. La società Proforce era stata indicata nel contratto per l’appunto quale avente lo status di “preferred supplier”, senza però che tale espressione fosse stata ulteriormente specificata nel testo. Nel corso dell'esecuzione del contratto, tuttavia, la società Rugby si era rivolta anche ad altre agenzie per la fornitura del medesimo servizio, e Proforce aveva di conseguenza lamentato l’inadempimento della controparte alle prescrizioni contrattuali. Nel corso del giudizio di primo grado, la Proforce aveva richiesto prova
evidence rule non preclude l’utilizzabilità del materiale ermeneutico estrinseco al fine di interpretare il linguaggio del testo scritto (96).
2. Le entire agreement clauses e l’ordinamento italiano: il problema della derogabilità dell’art. 1362 c.c.
Una volta individuata la funzione originaria delle clausole d'intero accordo occorre verificare se le stesse possano dirsi compatibili con il nostro ordinamento, per il caso in cui la legge applicabile al contratto sia, per l’appunto, quella italiana.
Le clausole d’intero accordo vengono sovente ricondotte al novero delle clausole sull’interpretazione del contratto (97), ed in tale veste sono state analizzate alla luce delle regole codicistiche in materia di interpretazione del contratto.
La questione è stata così affrontata dalla dottrina nostrana alla luce del disposto di cui all’art. 1362 c.c.
Tale articolo, come noto, introduce un primo criterio generale di interpretazione del contratto, stabilendo la necessità di non fermarsi al senso letterale delle parole, ma di individuare anche quale sia stata la comune intenzione dei contraenti (comma 1), da ricavarsi attraverso il comportamento complessivo dalle parti, anche successivo alla conclusione del contratto (comma 2).
Le clausole d’intero accordo sembrano pertanto sollevare problemi di compatibilità con l’articolo in esame, nella misura in cui le stesse, come visto, escludono la possibilità di ricorrere al materiale afferente alla fase delle negoziazioni, laddove invece il comma 2 dell’art. 1362 impone di utilizzare
testimoniale volta a stabilire l’esatta portata dell’espressione “preferred supplier status”. Il giudice di prime cure aveva tuttavia negato ingresso a tale prova, sostenendo come il ricorso a dichiarazioni orali, esterne in quanto tali al documento contrattuale, fosse impedito proprio dalla presenza di una clausola d’intero accordo. Di diverso avviso si è invece dimostrata la Corte d’appello, la quale ha ritenuto fondata l’eccezione di parte appellante Proforce, che aveva sostenuto in giudizio come non si trattasse di dare ingresso ad una pattuizione contrattuale ulteriore ed accessoria a quella già contenuta nel testo del contratto, ma semplicemente di utilizzare un elemento extratestuale al fine di chiarire il senso di un’espressione contenuta nel testo. Per un ulteriore riferimento giurisprudenziale, x. Xxxxxx
v. Relinc. Corp., 559 P2d 279, citato da XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 462, nota 3.
(96) Cfr. XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 426, nota n. 55.
(97) X. XXXXXXXX, DE LY, La redazione, cit., p. 158.
anche tale materiale nel corso del procedimento ermeneutico, e quindi sembrano configurare un’ipotesi di deroga al comma in parola.
A questo proposito, un autore (98) ha affermato la sicura compatibilità delle entire agreement clauses con l’art. 1362, sul presupposto della piena derogabilità di tale articolo, e della conseguente prevalenza dell’autonomia contrattuale (99).
Le clausole in oggetto sembrano pertanto sollevare il problema della derogabilità delle norme legislative in materia di interpretazione del contratto, problema che, come visto in apertura (100), non ha ricevuto univoca soluzione nel panorama dottrinario nostrano.
3. Le entire agreement clauses non configurano un’ipotesi di deroga all’art. 1362 c.c. Dimostrazione: sulla portata effettiva dell’art. 1362 c.c.;
A mio modo di vedere, le clausole d’intero accordo non sollevano in realtà il problema della derogabilità dell’art. 1362 c.c., con la conseguente necessità di valutare l’ammissibilità di una deroga siffatta, ma si pongono invece in linea con tale disposizione, valendo più che altro ad agevolare la concreta operatività della metodologia indicata da tale articolo.
E’ utile a questo proposito qualche valutazione sull’effettivo ambito di applicazione dell’art. 1362.
La migliore dottrina di commento all’art. 1362 ha avuto modo di chiarire, anzitutto, cosa debba intendersi per “comune intenzione” (101).
L’espressione è idonea ad indicare gli scopi perseguiti dalle parti, vale a dire i risultati che le stesse si propongono di conseguire attraverso la stipulazione del contratto. Il risultato perseguito da una parte è, con ogni probabilità, diverso dal risultato perseguito dall’altra, e tuttavia si può parlare di scopi comuni (oppure, con linguaggio normativo, di comune intenzione),
(98) Mi riferisco a XXXXXXXX, Le norme interpretative speciali, cit., p. 24 ss.
(99) V. in particolare quanto affermato a p. 29, nota n. 61. L’a. in verità non fornisce una vera a propria motivazione a sostegno delle proprie conclusioni, avendo più che altro cura di evidenziare la ratio del ricorso sempre più esteso a clausole come quella in esame, che rappresentano un utile rimedio volto ad evitare le lungaggini e i costi che la valutazione del materiale ermeneutico extratestuale comporterebbe in sede di controversia giudiziale.
(100) V. supra, cap. I, parr. 4, 5 e 6.
(101) Il riferimento va qui ad IRTI, Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 codice civile, Padova, 1996, p. 25 ss.
laddove il risultato perseguito da una parte è noto e condiviso dall’altra, ed in questo senso comune ad entrambe (102).
Una volta precisata la nozione di comune intenzione, l’a. ha poi modo di chiarire la rilevanza che tale canone assume nel contesto del procedimento ermeneutico delineato dal legislatore.
Lungi dall’essere oggetto di interpretazione, la comune intenzione rappresenta unicamente uno strumento per l’interpretazione del contratto; detto altrimenti, la fattispecie contrattuale non è idonea a ricomprendere anche tale aspetto, che serve unicamente al fine di chiarire il contenuto e la portata del testo. Nelle parole stesse dell’a.: “il problema sta nella prevalenza della comune intenzione o dell'unico senso delle parole. La prevalenza della prima richiederebbe questa motivazione: che l'art. 1362, da un lato, risolva il contratto nel comportamento complessivo; e, dall'altro, subordini il senso delle parole alla comune intenzione delle parti. La dilatazione della fattispecie contrattuale – cancellando la distinzione tra testo da interpretare e materiale per interpretare – porrebbe sul medesimo piano comune intenzione e senso delle parole, e permetterebbe di attribuire all'una la prevalenza sull'altro. La relazione di prevalenza implica una necessaria omogeneità di termini. Ma […] l'art. 1362 obbedisce ad una logica diversa: di distribuire il contegno delle parti in tre segmenti, distinguendo l'anteriore ed il posteriore alla
«conclusione del contratto»; di valutare il contegno del primo e del terzo, al fine di trarne la comune intenzione; di mettere quest'ultima a confronto con il senso letterale delle parole. Il dovere di non limitarsi al senso letterale delle
(102) Val la pena riportare le parole usate dall’a., Xxxxx e contesto, cit. p. 25 ss.: “L’intenzione «comune» è, non già accordo, ma scopo condiviso, che appartiene a tutti i contraenti, e perciò comune. Attraverso i comportamenti anteriori, i soggetti esprimono le attese, che si propongono di soddisfare con la futura conclusione del contratto; attraverso i comportamenti posteriori, esprimono gli scopi, che reputano di aver raggiunto e conseguito. Intenzione non sta per volontà che mira ad uno scopo, ma per scopo perseguito dalla volontà […] L’intenzione comune non designa identità dei risultati, perseguiti dalle parti, ma ciò, che il risultato, atteso dall’una e necessariamente diverso dal risultato atteso dall’altra, è tuttavia condiviso da quest’ultima, e perciò comune ad ambedue […] Muovendo da punti di vista unilaterali, cioè da intenzioni parziali, i soggetti pervengono ad una intenzione comune, destinata a tradursi nell’adozione di un testo linguistico (detto o scritto) […] l’intenzione comune non riguarda il tipo di contratto, né le classi di effetti a ciascuno rannodati dalla legge, ma il singolo e determinato contratto nella concretezza del suo contenuto e delle sue modalità” (corsivi dell’a.). Nello stesso senso individuato da Xxxx si era d’altronde espresso BETTI, Interpretazione del negozio giuridico, in Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994, Rist. II edizione, p. 347, che al riguardo ha affermato che “la «comune intenzione» dei contraenti è la concorde determinazione causale, il concorde intento pratico delle parti”.
parole non esclude il dovere di interpretare il senso verbale, ossia il dovere di garantire la compatibilità fra comune intenzione e senso delle parole” (corsivi dell’a.) (103).
La comune intenzione, e prima ancora l’analisi del contegno complessivo delle parti, rappresentano, pertanto, unicamente uno strumento ermeneutico, utilizzabile al fine di far chiarezza sul significato del testo, vero ed unico oggetto di interpretazione.
La conclusione discende direttamente dalla lettera dell’art. 1362 c.c., che impone di indagare quale sia stata la comune intenzione dei contraenti, senza fermarsi al senso letterale delle parole.
Il senso letterale cui fa riferimento l’art. 1362 è il senso letterale primario, vale a dire il senso letterale derivante dall’uso del codice linguistico generale e diffuso. A tale senso primario si affiancano il, o i, sensi letterali secondari, derivanti dall’applicazione di questo o quel codice linguistico particolare. In caso di discordanza tra senso primario e comune intenzione, quest’ultima “permette di sciogliere la polisemia e di identificare il sottocodice linguistico, di cui le parti si sono servite” (104).
In ogni caso, sebbene in queste ipotesi “il senso primario è un limite da oltrepassare”, il senso secondario è “un limite da rispettare” (105), nel senso che, in ogni caso, la comune intenzione non può mai portare ad individuare un senso letterale che non rientri tra le potenzialità espressive del testo.
Naturalmente, il confronto tra la comune intenzione delle parti e il testo dell’accordo intanto è possibile in quanto il contegno delle parti (da cui si desume la comune intenzione), e di conseguenza la comune intenzione,
(103) IRTI, Testo e contesto, cit., p. 50 – 51.
(104) IRTI, Testo e contesto, cit., p. 48 (corsivi dell’a.). CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 80, e 89 ss., fa riferimento al concetto di “sfera linguistica”, e mi sembra concetto compatibile con quello di codice linguistico adotttato da Xxxx, trattandosi infatti della medesima realtà, qui colta sotto la diversa prospettiva dell’individuazione dei soggetti che adottano un determinato linguaggio, e non del linguaggio in sé: “costituisce una sfera linguistica sia la comunità delle persone che parlano una medesima lingua nel senso glottologico del termine, sia una cerchia più ristretta di individui, una categoria di commercianti o professionisti, per esempio, nell’ambito della quale prevvalga la consuetudine di manifestare un certo pensiero per mezzo di espressioni particolari” (p. 89). L’osservazione per cui la valutazione del contesto in cui è inserito il testo scritto serva, nell’interpretazione in generale, a sciogliere la polisemia del testo è anche in MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 10 – 11, il quale afferma a chiare lettere come “alla polisemia delle parole è correlativo il ruolo selettivo dei contesti nel cui ambito sono usate”.
(105) IRTI, Testo e contesto, cit., p. 43 (corsivi dell’a.).
siano tradotti dall’interprete in segni linguistici, ed in particolare in parole dotate di un certo significato. Una volta individuato il “testo linguistico” espressione della comune intenzione delle parti, si procederà poi a confrontare tale testo con quello dell’accordo contrattuale (106).
Il rapporto tra comune intenzione e testo può variamente atteggiarsi, a seconda che il testo sia rivelatore di un unico senso possibile (monosemia), oppure di una molteplicità di significati (polisemia) (107).
In caso di monosemia, laddove il senso ricavabile dalla comune intenzione urti con quello letterale del testo, la comune intenzione deve necessariamente cedere il passo al significato scaturente dal testo, non potendo la stessa superare e prevalere sulle possibilità espressive del documento scritto (108). Oggetto di interpretazione è pur sempre, ed unicamente, il testo contrattuale, e la comune intenzione non rappresenta altro che uno strumento che si aggiunge al senso letterale, il quale tuttavia resta sempre momento imprescindibile e primario del procedimento ermeneutico. In caso di monosemia, pertanto, la comune intenzione diviene canone non necessario, e perciò rinunciabile.
Valga unicamente una piccola precisazione: anche l’accertamento della monosemia può comportare, in ogni caso, la considerazione di elementi non prettamente testuali, come la qualità delle parti, nella misura in cui tale qualità può essere utile ad identificare il sottocodice linguistico di riferimento (nel caso in cui le parti appartengano ad una “sfera linguistica” particolare (109)).
La comune intenzione, pertanto, si rivela canone concretamente utilizzabile soltanto in caso di polisemia del testo, laddove la comune
(106) Ancora IRTI, Testo e contesto, cit., p. 30 ss.
(107) CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 78, parla, in modo equivalente, di “espressione univoca” ed “espressione plurivoca”: “Per espressione univoca intendo un’espression che in una determinata sfera linguistica possiede un solo significato, cioè è rappresentativa di un solo contenuto concettuale, per lo meno in relazione alla materia alla quale appare riferirsi la dichiarazione di cui trattasi… Per manifestazione plurivoca di volontà, invece, intendo quella manifestazione che, sempre nell’ambito di una certa sfera linguistica e sempre in relazione alla materia cui la dichiarazione appare rapportarsi, può essere usata come rappresentativa di contenuti concettuali diversi”.
(108) IRTI, Xxxxx e contesto, cit., p. 52, afferma quanto segue: “In caso di monosemia, se l'intenzione comune urta nel senso delle parole (nell'unico ed esclusivo senso), quest'ultimo ha da prevalere, poiché è il senso dell'accordo contrattuale. Qui, non il senso letterale delle parole, ma l'unico senso, prevale sulla comune intenzione” (corsivi dell’a.).
(109) Traggo l’ulteriore deduzione dalle osservazioni svolte da CIAN, Forma solenne
e interpretazione del negozio, cit., p. 89, in tema di sfera linguistica, ed a cui devo necessariamente rinviare.
intenzione permette di selezionare uno dei significati possibili (110)(111), e, ovviamente, sempre a meno che non vi sia completa dissonanza tra i significati che compongono la polisemia del testo, ed i significati evincibili dalla ricerca della comune intenzione (112).
4. (segue) il brocardo «in claris non fit intepretatio»;
I rilievi che precedono permettono di ridurre la distanza che via via è maturata tra il formante dottrinale e quello giurisprudenziale, circa le possibilità di ricorso al canone della comune intenzione ai fini dell’interpretazione del contratto.
Com’è ben noto, infatti, la giurisprudenza maggioritaria propende per la tesi secondo cui, laddove la lettera del contratto si riveli chiara ed univoca, e non dia adito ad ambiguità o dubbi di sorta, l’interpretazione letterale del testo deve ritenersi sufficiente, ed il ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici
(110) “Né può dirsi che il conflitto tra comune intenzione ed unico senso delle parole determini il dubbio o l'ambiguità o l'oscurità, che trovano risposta in altre norme del medesimo capo. Il senso delle parole, ancorché discordante dalla comune intenzione, è l'esclusivo senso del testo contrattuale: il dubbio e l'ambiguità implicano la polisemia, e quindi la necessità di scegliere uno dei sensi oggettivamente possibili”: così IRTI, Xxxxx e contesto, cit., p. 52 (corsivi dell’a.).
(111) Non sono mancate in proposito corrispondenze di metodo con altri ordinamenti giuridici: nell’ordinamento inglese, ad esempio, che è ordinamento maggiormente legato al
criterio di interpretazione letterale rispetto a quello italiano, si può ciononostante rintracciare una pronuncia come Pantenreedrei Xxxxx Xxxxxxx c. Scarsdale Shipping Co. Ltd., [1976] 2 Lloyd’s Rep. EWHC (comm) 708, 712 (Eng.), dove si afferma quanto segue: “If a contract contains words which, in their context, are fairly capable of bearing more than one meaning, and if it is alleged that the parties have in effect negotiated on an agreed basis that the words bore only one of the two possible meanings, then it is permissible for the court to examine the extrinsic evidence relied upon to see whether the parties have in fact used the words in question in one sense only”.
(112) Nelle parole di XXXX, Xxxxx e contesto, cit., p. 175 ss.: “si aprono varie ipotesi …
c) che si riveli un'assoluta dissonanza tra la comune intenzione ed i significati della parola: allora l'indagine esterna, svolta sul contegno delle parti, si mostra al tutto infruttuosa; il testo si rinchiude in se stesso; e l'interprete può muoversi soltanto entro il cerchio verbale. L'insuccesso dell'indagine extratestuale, la vana consultazione del contegno delle parti, l'indisponibilità ermeneutica degli scopi costringono l'interprete a interrogare esclusivamente la tavola linguistica dell'accordo … L'insuccesso del metodo soggettivo vincola l'interprete al contesto verbale … Se il ricorso all'intenzione è precluso od inutile, rimane la totalità della frase e del contratto … Il dovere di non limitarsi al senso letterale delle parole diviene ora, dopo l'insuccesso della ricerca esterna, dovere di limitarsi ai potenziali significati, che la parola riceve dal sistema” (corsivi dell'a.).
delineati dal legislatore, tra cui per primo il canone della comune intenzione, deve ritenersi precluso (113).
Si tratta di un principio che viene periodicamente ribadito dalla giurisprudenza, anche in tempi recenti (114), e che, a torto, viene considerato moderna perpetuazione dell’antico brocardo «in claris non fit intepretatio» (115).
Accanto all’orientamento maggioritario, non è mancato in ogni caso un diverso filone interpretativo (116) – cui chi scrive ritiene di aderire – che, in
(113) Cfr. Cass. civ., 12 giugno 2007, n. 13777, ne I contratti, 2007, p. 990 ss.; Cass. civ., 12 gennaio 2006, n. 415, in Xxxxxxxxx, 2006, p. 250 ss.; Cass. civ., 22 dicembre 2005, n. 28479, in Obbl. e contr., 2006, p. 553 ss., con nota di GENNARI; Cass. civ., 4 maggio 2005, n. 9284, in Guida dir., 2005, p. 43 ss.; Cass. civ., 9 giugno 2004, n. 10968, in Corr. giur., 2004,
p. 1145 ss.; Cass. civ., 24 febbraio 2004, n. 3633, in Guida dir., 2004, p. 53 ss.; Cass. civ., 5 febbraio 2004, n. 2216, in Corr. giur., 2004, p. 1327 ss., con nota di GENOVESI, Interpretazione del contratto ed elementi extratestuali; Cass. civ., 19 maggio 2003, n. 7847, in Arch. civ., 2004, p. 390 ss.; Cass. civ., 21 marzo 2003, n. 4129, ne I Contratti, 2003, p. 783 ss.; Cass. civ., 20 agosto 2002, n. 12268, in Arch. civ., 2003, p. 668 ss.; Cass. civ., 7 agosto 2002, n. 11885, in Giur. it., 2003, p. 657 ss.; Cass. civ., 16 luglio 2001, n. 9636, ne I Contratti, 2002, p. 444 ss., con nota di BESOZZI, Preliminare di vendita ed azione di esatto adempimento.
(114) In aggiunta alla giurisprudenza citata al punto che precede, v. infatti Xxxx. civ.,
13 maggio 2009, n. 11142, in Guida dir., 2009, 29, p. 28 ss.; Cass. civ., 29 ottobre 2008, n.
25999, in Guida dir., 2008, 48, p. 51 ss.
(115) L’errore è percepibile in prospettiva storica. TARELLO, L'interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 33 ss., riporta la vera origine del brocardo: per i giuristi di diritto comune l’espressione in claris non fit intepretatio aveva infatti un significato del tutto diverso da quello che oggi normalmente gli si attribuisce; per interpretatio, infatti, si intendeva il prodotto dell'attività di commento dei dottori e dell'attività di decisione dei tribunali, cui veniva riconosciuta autorità di diritto (oggettivo) in tutte le materie non direttamente disciplinate dalla lex, mentre per xxx si intendeva il corpo del diritto romano- giustinianeo; onde il principio in claris non fit interpretatio era principio di gerarchia delle fonti, per mezzo del quale veniva escluso il ricorso alla specifica fonte del diritto rappresentata dalla interpretatio in tutti i casi direttamente disciplinati dalla diversa fonte del diritto che era la lex. Il travisamento del significato dell’antico brocardo è segnalato anche da GRASSETTI, L’interpretazione, cit., p. 96, nota 7. Sul punto v. pure FONSI, La clausole interpretative dei negozi giuridici, in Vita notarile, 1992, p. 1374, nota n. 1
(116) Esemplificato da Cass. civ., 28 marzo 2006, n. 7083, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. civ., 11 gennaio 0000, x. 000 xx I Contratti, 2006, p. 894 ss.; Cass. civ., 9 giugno 2005,
n. 12120, in Mass. Giust. civ., 2005; Cass. civ., 5 aprile 2004, n. 6641, ne I Contratti, 2005,
p. 136 ss., con nota di GAETA, L’interpretazione coordinata della contrattazione collettiva e l’eliminazione dei residui di incertezza; Cass. civ., 10 ottobre 2003, n. 15150, in Mass. Giust. civ., 2003; Cass. civ., 13 agosto 2001, n. 11089 in Mass. Giust. civ., 2001.
maggiore aderenza al dettato legislativo ed alla dottrina di commento (117), ha ritenuto in ogni caso indispensabile il ricorso ai criteri ermeneutici ulteriori individuati dal legislatore, e tra essi per primo il canone della comune intenzione, affermando la necessità della valutazione del comportamento complessivo delle parti anche in presenza di un testo contrattuale a prima vista chiaro e perfettamente comprensibile.
Tutto ciò, anche in considerazione del dato evidente per cui la necessaria applicazione della metodologia legale può portare, a seguito della considerazione del contegno delle parti, all’individuazione di un contratto dotato di una complessità di valutazione maggiore di quanto non potesse apparire a prima vista dal senso letterale del testo (118).
Le osservazioni svolte da Irti in merito alle possibilità espressive del testo, ed alla unicità (monosemia) o pluralità (polisemia) di significati ricavabili dallo stesso, possiedono il merito di intercettare il concreto operare delle regole linguistiche (119), e pertanto sono utili al fine di definire anche il concreto operare della regola legislativa sull’interpretazione, e le possibilità materiali di ricorso al canone della comune intenzione (120).
(117) XXXXXXXXX, L’interpretazione, cit., p. 96, nota n. 7; XXXXXX, Interpretazione del contratto e comportamento complessivo delle parti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, p. 969 ss.; XXXX, La sintassi delle clausole, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, p. 421 ss.; XXXXXXX, Trattato di diritto civile, Vol. II, Padova, 2010, p. 450 ss.; XXX, Il comportamento complessivo delle parti come canone di interpretazione contrattuale, in Rass. dir. civ., 2000,
p. 604 ss.
(118) Per la dottrina su tale brocardo x. XXXXXXXXXX, La determinazione del regolamento, in Trattato del contratto, cit., p. 310 ss.; XXXXXXX, In tema di in claris non fit interpretatio, in Riv. dir. comm., 1997, I, p. 319; XXXXXXXX, Osservazioni sul principio in claris non fit interpretatio e sul criterio interpretativo del “comportamento complessivo”, in Giust. civ., 1996, I, p. 1452; XXXXXX, Priorità dell’elemento letterale del contratto come canone ermeneutico: contrasto tra giurisprudenza e dottrina, in Giust. civ., 1994, p. 1383; XXXXXXX, Interpretazione letterale del contratto e criteri ermeneutici sussidiari, in Giust. civ., 1992, I, 1, p. 1543.
(119) Xxxxxxxx qui quanto avrò modo di evidenziare più oltre. Gli studi di
ermeneutica contrattuale pongono problemi di metodologia nella ricerca giuridica, imponendo il ricorso ad un metodo composito. Ne sono un esempio proprio le considerazioni svolte da Irti, e riportate nel testo, che svelano la necessità di tener conto anche del concreto operare delle regole linguistiche, in sede di ermeneutica giuridica. Una necessità che è stata già segnalata a suo tempo, proprio sotto il profilo metodologico, da XXXXXXXXX, L’interpretazione. Premesse alla teoria dell’interpretazione giuridica, in AA. VV., Società norme e valori. Studi in onore di X. Xxxxxx, Milano, 1984, p. 139 ss.
(120) L’impossibilità di ricorrere alla valutazione del complesso delle circostanzze in cui si inserisce la dichiarazione da interpretare, in caso di espressione univoca, è segnalata anche da CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 80.
La possibilità concreta di ricorrere alla valutazione del comportamento complessivo delle parti, soltanto in caso di polisemia di un testo non confliggente con i significati ricavabili dalla ricerca della comune intenzione, amplia le possibilità di comprensione dei limiti di metodo dimostrati dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario, e colma in parte la distanza tra i due formanti dottrinale e giurisprudenziale (121).
5. (segue) funzione ermeneutica della metodologia legale e funzione di documentazione delle clausole d’intero accordo;
Orbene, in base ai rilievi che precedono, può a mio avviso affermarsi la piena compatibilità delle clausole d’intero accordo con l’ordinamento nostrano, ed in particolare con il canone di cui all’art. 1362, comma 2, c.c.
Si è evidenziato, infatti, come la funzione delle entire agreement clauses risieda nell’escludere la possibilità di ricorrere al materiale ermeneutico estrinseco (122), nella misura in cui quest'ultimo porti ad individuare patti aggiunti o contrari a quelli ricavabili dal testo contrattuale. Tali clausole non escludono, invece, la possibilità di ricorrere a tale materiale al fine di eliminare dubbi ed ambiguità.
Funzione equivalente è attribuibile anche al canone della comune intenzione il quale, come visto, rappresenta un momento del procedimento ermeneutico, che ha inizio con l’analisi del senso letterale delle espressioni usate, per poi “allargarsi” alla valutazione del contegno complessivo delle parti, sia successivo che, per quel che interessa in questa sede, anteriore alla conclusione del contratto.
Nel procedimento circolare tracciato dalla dottrina di commento (123), la comune intenzione permette di ritornare al testo, in modo da per dettar maggiore chiarezza sulle disposizioni ivi contenute, ma non certamente per
(121) Lo stesso XXXX, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 78, avverte che, in caso di monosemia, o espressione univoca, possa ben affermarsi che in claris non fit interpretatio.
(122) L’espressione materiale ermeneutico estrinseco vale qui ad individuare il materiale, distinto dal testo del contratto, utilizzabile ai fini dell’interpretazione, ed è usata in chiara funzione di economia e sinteticità di linguaggio. Quanto a mezzi interpretativi, la dottrina ha usato espressioni che possono dirsi tra loro equivalenti, come “mezzi esegetici”,
“materiale interpretativo”. Cfr. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 62; IRTI, Xxxxx e contesto, cit., p. 50 ss.; PIAZZA, L’identificazione del soggetto nel negozio giuridico, Napoli, 1968, p. 175.
(123) Ancora IRTI, Testo e contesto, cit., p. 180.
integrarne il regolamento contrattuale.
La funzione unicamente ermeneutica, e non invece integrativa, del canone della comune intenzione (così come dell’intero procedimento ermeneutico individuato dal legislatore) è colta del resto dalla stessa giurisprudenza.
Non sono infatti mancate sentenze in cui si è espressamente affermato come l’attività di interpretazione, condotta alla stregua dei canoni legali, implica l’adozione di canoni di esegesi utilizzabili unicamente al fine di far chiarezza circa il contenuto definitivo del regolamento contrattuale, e non anche al fine di aggiungere patti che in esso non sono ricompresi (124).
Non si ravvisa, pertanto, contraddizione tra le clausole d’intero accordo ed i canoni di ermeneutica legale, ma piena convergenza, e le clausole in oggetto saranno pertanto pienamente utilizzabili sia in caso di testo polisemico (laddove la comune intenzione è utilizzabile per sciogliere dubbi ed ambiguità, entro il limite della contrarietà ai significati che fondano la polisemia del testo), sia, a maggior ragione, in caso di testo monosemico
(ipotesi in cui il ricorso alla comune intenzione risulta, come visto, escluso) (125).
(124) Si veda, ad esempio, Cass. civ., 12 aprile 2006, n. 8619, in Obbligazioni e contratti, 2007, p. 121 ss, nota di XXXXX, Interpretazione ed integrazione del contratto: come opera la buona fede, che, con riferimento all’attività ermeneutica in generale, ha stabilito che “l’attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata. Essa è conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali. Queste, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto; piuttosto, sono strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto, e, quindi, della sostanza dell’accordo, senza che la volontà pattizia possa essere integrata con elementi ad essa estranei”. Con specifico riferimento al comportamento complessivo delle parti, Cass. civ., 26 marzo 2004, n. 6053, in Mass. Giust. civ., 2004, ha affermato che “i comportamenti complessivi delle parti, anche posteriori alla conclusione del contratto, hanno funzione ermeneutica, non integrativa del patto. Nel senso che per il loro tramite l’interprete, senza limitarsi al senso letterale delle parole, giunge a determinare la comune intenzione delle parti al momento della stipula e, quindi, la sostanza stessa del sinallagma, ma non integra la volontà pattizia con elementi estranei ad essa”.
(125) La compatibilità delle clausole d’intero accordo con la metodologia legale
d’interpretazione del contratto sembra valere anche per l’ordinamento anglosassone, dove, pur in presenza di un’entire agreement clause, il giudice è in ogni caso autorizzato ad utilizzare il materiale estrinseco, proprio delle negoziazioni, al fine di chiarire il significato delle disposizioni del testo. Sul punto x. XXXXX, Interpretation clauses, cit., p. 53.
6. Le clausole d’intero accordo e la fattispecie “contratto” da sottoporre ad interpretazione.
La compatibilità delle clausole d’intero accordo con le norme legislative sull’interpretazione del contratto è ricavabile anche analizzando la problematica da un differente angolo visuale.
Un problema che si è posto sia in dottrina che in giurisprudenza è rappresentato dall'individuazione della fattispecie “contratto” da sottoporre ad interpretazione: vale a dire, se per contratto debba intendersi soltanto il testo scritto, in cui si condensano le dichiarazioni finali delle parti, oppure debba intendersi una fattispecie più ampia e complessa, comprendente anche il materiale ermeneutico afferente alla fase delle trattative.
In tale ultimo caso le trattative concorrerebbero a definire la fattispecie contrattuale, mentre nella prima ipotesi finirebbero con il rappresentare unicamente un “mezzo” per l'interpretazione del testo.
Secondo un primo orientamento dottrinale, il materiale afferente alla fase delle negoziazioni sarebbe utilizzabile, unicamente, in chiave ermeneutica, al fine di chiarire il senso del testo scritto, ma quest’ultimo resterebbe l’unico vero oggetto di interpretazione, idoneo in quanto tale ad individuare la fattispecie contrattuale cui fa riferimento la disposizione menzionata (126).
Non sono mancati, per altro verso, contributi che hanno invece accolto una nozione per così dire “estesa” di contratto, affermando come lo stesso sia individuabile con riferimento non solo al testo scritto, ma anche al materiale relativo alla fase delle negoziazioni. La fattispecie contrattuale rappresenterebbe, infatti, un tutto unitario, da interpretare nella sua interezza: un tutto, fra le singole parti del quale, preliminare e conclusiva, in linea generale non sarebbe ammissibile una separazione netta (127).
(126) Aderiscono a questo orientamento PIETROBON, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, p. 264 ss.; MAIORCA, Il contratto. Profili della disciplina generale. Lezioni di diritto privato, Torino, 1984, p. 240, nota n. 9.
(127) Si esprime in questi termini BETTI, Interpretazione del negozio giuridico, cit., p.
325. Per GRASSETTI, Noviss. dig. it., VIII, voce Interpretazione dei negozi giuridici “inter vivos”, p. 904 “Per interpretazione del negozio, in definitiva, noi intendiamo la determinazione della fattispecie: determinazione in senso ampio, o meglio la costruzione (o ricostruzione) del materiale di fatto dal quale l’interprete deve desumere gli intenti perseguiti dai dichiaranti. Determinazione della fattispecie, va avvertito, che non riguarda solo la formula finale, perché la dichiarazione è contenuta, per regola, nella fattispecie totale del negozio. Onde non soltanto la formula finale, ma l’intero materiale negoziale deve essere sottoposto all’interpretazione: la dichiarazione forma una massa uniforme tra le cui parti –
Ritengo di poter ricondurre a tale secondo orientamento anche il contributo di chi, analizzando la problematica da una diversa prospettiva, ha avuto modo di affermare come la mera presenza del documento scritto in generale non valga, di per sé, ad affermare neppure una presuzione di completezza del regolamento contrattuale ivi contenuto (128).
La giurisprudenza, dal canto proprio, ha avuto modo di confermare l’orientamento secondo cui la regolamentazione da sottoporre ad interpretazione andrebbe desunta unicamente dalle dichiarazioni finali delle parti, dimodoché al materiale proprio della fase delle trattative andrebbe riconosciuta la funzione unica di strumento ermeneutico.
Non sono infatti mancate pronunce che hanno evidenziato come la libertà contrattuale consenta alle parti di ridefinire, in sede di conclusione del contratto, il contenuto e l’estensione di ciascuna singola pattuizione, non essendo le stesse in alcun modo vincolate a quanto espresso in sede di negoziazione (129).
trattative preliminari ed atto finale – non si può, per regola e salvo eccezioni, distinguere”. Nello stesso senso MESSINEO, in Enc. dir., IX, voce Contratto, p. 950, il quale ritiene pienamente ammissibile il ricorso al materiale delle trattative in funzione integrativa delle dichiarazioni finali delle parti: “il comportamento anteriore alla conclusione del contratto serve, invece, a chiarire il procedimento e il modo in cui si è giunti a tale conclusione, integrando quello che, in quanto risulta dalle mere dichiarazioni, è soltanto il perfezionamento formale del contratto” (corsivi dell’a.). Favorevole ad una funzione integrativa del materiale afferente alla fase delle negoziazioni si è mostrato anche OSTI, Noviss. dig. it., IV, voce Contratto, p. 522.
(128) Il riferimento va qui a GENOVESE, Le forme volontarie nella teoria dei contratti, Padova, 1949, p. 164 ss., in particolare p. 166, nota n. 34. Lo stesso a., in ogni caso, alle p. 167 e 168, ha modo di osservare come, laddove si prendano in considerazione patti ulteriori afferenti alla fase delle trattative, e poi non riprodotti nel testo del contratto, è lecito
presumere la completezza del documento, vale a dire che le parti abbiano volontariamente abbandonato tali ulteriori pattuizioni, che pertanto non rientrerebbero nell’assetto negoziale definitivo voluto dai contraenti. L’a. si spinge sino al limite di formulare una vera e propria regola interpretativa, affermando che, nel caso in cui, anche all’esito di eventuale istruzione probatoria, dovessero permanere dubbi, si deve accordare prevalenza all’assunto della completezza del documento contrattuale.
(129) Traggo l’argomento da Cass. civ., 15 ottobre 1976, n. 3480, in Rep. Foro it., 1976, voce Contratto in genere, n. 192. In senso favorevole alla funzione unicamente ermeneutica del materiale afferente alla fase delle trattative, v. ulteriormente Cass. civ., 14 ottobre 1972 (Giust. civ., Rep. 1973, voce Obbligazioni e contratti, n. 184); Cass. civ., 11 maggio 1962 (Giust. civ., 1962, I, n. 1936); Xxxx. xxx., 00 xxxxxx 0000 (Xxxx xx., Rep. 1959,
voce Obbligazioni e contratti, n. 167); Cass. civ., 9 novembre 1957 (Giust. civ., Rep. 1957, voce Obbligazioni e contratti, n. 405); Cass. civ., 29 ottobre 1956 (Foro it., Rep. 1957, voce Obbligazioni e contratti, n. 207); Cass. civ., 20 febbraio 1942 (Foro it., Rep. 1942, voce Obbligazioni e contratti, n. 180).
Ebbene, le clausole d’intero accordo si pongono in linea con tale ultimo orientamento.
Si è già avuto modo di evidenziare come tali clausole si muovano in una duplice direzione: per un verso, le stesse escludono l’applicabilità del materiale afferente alla fase delle trattative, consentendone l’utilizzabilità soltanto in chiave ermeneutica, e per altro verso, e contemporaneamente, tali clausole stabiliscono che il regolamento contrattuale, in cui le stesse sono inserite, rappresenta la versione definitiva dell’accordo raggiunto dalle parti.
Con riferimento a tale ultima funzione, può a mio avviso affermarsi che le clausole d’intero accordo, quale espressione dell’autonomia contrattuale garantita dall’ordinamento giuridico, servano a concretizzare, ed identificare, la fattispecie “contratto” da sottoporre ad interpretazione, ed a cui fa riferimento l’art. 1362, comma 1, c.c., circoscrivendo la fattispecie a quella ricavabile dal testo scritto finale (130)(131).
La conclusione si pone in linea, del resto, anche con l’orientamento che ha accolto la nozione estesa di contratto: anche in seno a tale orientamento, infatti, si è finito con il sostenere la possibilità di una separazione netta tra testo scritto e materiale proprio delle trattative, laddove si sia in presenza di una clausola con cui le parti affermino espressamente che il documento scritto è destinato ad assorbire il materiale afferente alle trattative intercorse tra le parti (132).
7. L’irrilevanza delle clausole d’intero accordo ai fini ermeneutici
La piena convergenza delle clausole d’intero accordo e delle regole legali sull’interpretazione del contratto (133) rende tali clausole, in seno
(130) In tal modo corroborando la presunzione di completezza del documento contrattuale di cui ha parlato GENOVESE, Le forme volontarie, cit., p. 167 e 168.
(131) Ed in questo senso la funzione svolta dalle clausole d’intero accordo nell’ordinamento italiano sembra la medesima di quella svolta negli ordinamenti di common
law. Cfr. supra sub par. 1.
(132) Il riferimento è ancora a BETTI, Interpretazione del negozio giuridico, cit., pp.
325 – 326, il quale afferma che “Una netta scissione fra dichiarazione conclusiva e preliminari è giustificata … colà dove, per accordo delle parti, la dichiarazione conclusiva, redatta in un documento (art. 2722), sia destinata ad assorbire le trattative precorse”.
(133) Per cui, di conseguenza, non si pone il problema di valutare se tali clausole integrino o meno una deroga all’art. 1362 c.c. Secondo DE NOVA, Merger clause e contratto alieno, cit., p. 98 e 99, laddove una clausola d’intero accordo venisse interpretata come una
all’ordinamento italiano, irrilevanti ai fini propriamente ermeneutici, ed è questa una conseguenza che, in verità, non deve sorprendere.
Le clausole d’intero accordo, a ben vedere, non riguardano l’attività di interpretazione, intesa come individuazione del significato del testo del contratto, bensì l’attività di documentazione del regolamento contrattuale (134)(135), e quindi, ragionando in termini normativi, di individuazione della fattispecie contrattuale da sottoporre ad esegesi.
Tali clausole, pertanto, sembrano possedere un rilievo più propriamente processuale che sostanziale, ed in questo senso si comprende l’assenza di contrasti con le norme legislative in tema di interpretazione,
deroga all’art. 1362 cod. civ., la stessa sarebbe nulla, e tale interpretazione sarebbe contraria ai principi che garantiscono la conservazione del contratto o di sue singole pattuizioni.
(134) Il rilievo è colto da MUTHORST, Contract Interpretation under the German BGB
and under the DCFR, in HEIDERHOOF, XXXX (eds.), Interpretation in Polish, German and Xxxxxxx Private Law, Münich, 2011, p. 57, che ha modo di affermare quanto segue: “Each merger clause raises the question of whether prior conduct, not documented in the contract, is excluded from being part of the contract or not. For this purpose the merger clause is to be interpreted, but originally this is not a question of interpretation”. La distinzione tra ricostruzione del regolamento contrattuale ed interpretazione del contratto è presente anche nelle opere di teoria generale del diritto di altri paesi, ad esempio in quelle norvegesi: xxx. XXXXXXXXX, Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, Xxxx, 0000, p. 109.
(135) Sebbene si tratti di distinzione che, in verità, tende a sfumare sul piano pratico, laddove possono essere difficilmente separabili e distinguibili le due attività di ricostruzione del regolamento e di individuazione del significato dello stesso, come ha modo di evidenziare CARRESI, Dell’interpretazione del contratto. Art. 1362 – 1371, in Commentario del Codice
civile Scialoja – Branca, diretto da Xxxxxxx, Bologna – Roma, 1992, p. 25 ss., si tratta in ogni caso di distinzione che, per completezza concettuale, merita in ogni caso un riconoscimento in via teorica. Si tratta di distinzione che non è sfuggita anche ad altri autori: afferma la necessità di manetere distinta l’attività di documentazione da quella di interpretazione CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 44, che ha affermato che “L’attività interpretativa, in quanto mira alla determinazione del significato giuridico di una manifestazione di volontà, si distingue pure dall’accertamento della fattispecie dichiarativa, il quale temporalmente e logicamente deve precederela, se è vero che l’interpretazione serve appunto a chiarire ils enso di tale fattispecie e non è mera percezione di accadimenti” (v. pure gli ulteriori riferimenti alle p. 62 ss.); DE NOVA, Merger clause e contratto alieno, cit., p. 100, il quale ha modo di affermare che “La distinzione tra inidoneità degli accordi anteriori alla conclusione del contratto a fondare ulteriori obbligazioni rispetto a quelle previste nel contratto da un lato, e rilevanza di tali accordi ai fini interpretativi del contratto dall’altro trova conforto nell’interpretazione che viene data alle norme del codice civile che limitano la prova per testi in caso di contratto scritto”.
atteso che, come autorevole dottrina ha avuto modo di porre in evidenza, l’attività di interpretazione non è attività “di sapore probatorio” (136).
E’ sintomatico, del resto, che l’ammissibilità delle clausole d’intero accordo sia stata sostenuta, nella dottrina nostrana, in opere dedicate non all’interpretazione del contratto, ma al formalismo negoziale (137).
Il problema che le clausole d’intero accordo sollevano, pertanto, è quello dell’ammissibilità di una restrizione convenzionale del materiale utilizzabile al fine di documentare il regolamento contrattuale.
8. Le clausole d’intero accordo come patti sulla prova: la riconducibilità all’art. 2698 c.c.;
A ben vedere, attraverso le clausole in esame le parti, affermando che l’intero regolamento contrattuale è contenuto nel documento scritto in cui è inserita la clausola d’intero accordo, stabiliscono implicitamente due ordini di regole:
1) che il contratto è documentabile unicamente in forma scritta, e così le parti sembrano introdurre un requisito di forma del contratto, manifestando la propria preferenza verso il documento, considerato nella propria funzione rappresentativa;
2) che l'intero regolamento contrattuale è contenuto nel singolo e specifico documento in cui è altresì contenuta la clausola d'intero accordo, ed in tal modo le parti evidenziano la rilevanza del documento nella propria materialità, ed individualità, empirica.
In base ai rilievi che precedono, la clausola di cui si discute si rivela di conseguenza idonea a configurare un’ipotesi di deroga convenzionale, volta
(136) Il riferimento è a XXXXXXXXXXX, Interpretazione del contratto e principio dispositivo, in Temi – Rivista di giurisprudenza italiana, 1963, p. 1142, il quale ha escluso che l’attività di interpretazione, stricto sensu intesa, possa rilevare in ambito probatorio: “poiché ogni dichiarazione consiste in un comportamento volto ad attribuire rilievo sociale ad un « testo », ad un « discorso », soltanto alla ricostruzione di quel comportamento e di quel testo possono applicarsi le normali regole che presiedono alla cognizione giudiziale degli alligata a partibus: per quanto attiene, invece, alla determinazione del « significato », del « valore », di quel testo così ricostruito, non è ammissibile ricorrere ad argomenti e criteri di sapore probatorio” (corsivi dell’a.).
(137) Alludo a GENOVESE, Le forme volontarie, cit., che a p. 166 ammette esplicitamente (pur senza adoperare l’espressione entire agreement clauses o clausole
d’intero accordo) la validità degli accordi con cui le parti convengano che i patti non rivestiti della stessa forma del contratto non siano validi.
ad escludere la possibilità di ricorrere a mezzi di prova del regolamento contrattuale (quali, ad esempio, le prove orali), diversi ed ulteriori rispetto al singolo documento scritto.
Una verifica di compatibilità delle clausole d’intero accordo con l’ordinamento italiano, a mio parere va pertanto condotta anzitutto alla stregua delle regole legislative in tema di prova.
In linea generale, gli accordi in tema di prova sono considerati validi ed efficaci nel nostro ordinamento: l'ammissibilità di tali accordi è generalmente fatta discendere dall'art. 2698 c.c. (138) che, come noto, ammette la validità dei patti con cui si inverte, o modifica, l'onere della prova, nel rispetto dei limiti stabiliti dallo stesso articolo.
Autorevole dottrina ha avuto modo di porre in evidenza come la disposizione in oggetto sia espressione del favor legislativo verso gli accordi, con cui le parti decidano una diversa, ed autonoma, allocazione del « rischio per la mancata prova » di un determinato accadimento (139).
Con l’espressione «rischio per la mancata prova» si intendono gli effetti pregiudizievoli derivanti dal mancato raggiungimento della prova di un fatto, che vengono subiti dalla parte che avrebbe invece tratto vantaggio dalla dimostrazione di quel determinato accadimento (140).
Un rischio che, si badi, sussiste a prescindere da quali siano le regole giuridiche che disciplinano l’attività delle parti e del giudice, in tema di poteri probatori e soprattutto di ripartizione dell’onere della prova (141).
(138) Cfr. anzitutto Cass. civ., 26 ottobre 1961, n. 2418, in Foro it., Rep., 1961, voce Prova in genere in materia civile, n. 14, 15; ma x. xxxx Xxxx. xxx., 00 xxxxxxx 0000, x. 000, xx Xxxx xx., 1983, I, p. 1996; App. Torino, 26 marzo 1986, in Riv. it. leasing, 1987, p. 205; Trib. Napoli, 4 luglio 1985, in Banca, borsa, tit. credito, 1986, p. 305; Trib. Milano, 16 febbraio 1989, in Banca, borsa, tit. credito, 1989, p. 614; Trib. Milano, 22 settembre 1986, in Banca, borsa, tit. credito, 1987, p. 331; App. Milano, 13 ottobre 1995, in Banca, borsa, tit. credito, 1996, p. 415.
(139) Il riferimento è a SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 412, nota n. 45. Che l’allocazione del rischio
sia tra le funzioni del contratto non è seriamente contestabile: sul tema rinvio a XXXXXXXXX, The Apportionment of Business Risks Through Legal Devices, in Columbia Law Review, 1924, p. 335 ss.
(140) XXXXX, Presunzione, cit., p. 402, afferma infatti che “Il concetto di « rischio per la mancata prova » comporta una subbiettivizzazione del pregiudizio derivante dal non raggiungimento della dimostrazione del fatto.
(141) Ben si può distinguere, infatti, tra ripartizione dell’onere della prova tra le parti, ed individuazione dei mezzi di prova concretamete utilizzabili: “Il concetto tradizionale di «
onere della prova » comporterebbe, accanto alla subbiettivizzazione del pregiudizio di cui sopra, anche la presenza di una norma, che riservi in modo esclusivo, al soggetto designato
Altra dottrina ha fatto riferimento al concetto, speculare a quello di
«rischio per la mancata prova», di «rischio della prova» (142), confermando come il fine che le parti si propongono di realizzare attraverso gli accordi in esame sia proprio quello di disciplinare in anticipo i rischi connessi alla prova di un dato accadimento (143).
Ebbene, nella misura in cui il « rischio per la mancata prova » (o « rischio della prova ») incombe esclusivamente sulle parti coinvolte in giudizio, ed in particolare sulla parte che sarebbe interessata a fornire la prova di un determinato fatto, si tratta di rischio che, in quanto tale, attiene esclusivamente alla sfera degli interessi privati delle parti (144).
È, pertanto, rischio liberamente modulabile dalle parti (145), sempre, ovviamente, che si verta in tema di diritti disponibili (146).
del pregiudizio sopra accennato, il potere di procurare materiale probatorio”, SACCO,
Presunzione, cit., p. 402 (corsivi dell’a.).
(142) Mi sembra evidente, infatti, che, riguardo ad un medesimo accadimento, il rischio per la mancata prova (ossia il rischio che non si riesca a fornire la prova di un fatto) che incombe su una parte, rappresenta, contemporaneamente, il rischio della prova (e cioè il rischio che si raggiunga la prova di un dato fatto) per l'altra.
(143) Mi riferisco qui a DE STEFANO, Studi sugli accordi processuali, Milano, 1959, pp. 33, 50, 51, 53. Si veda quanto dall’a. affermato a p. 35: “Il postulato logico del negozio probatorio è […] l’incertezza giuridica di una relazione intercedente tra le parti: questa incertezza il patto tende ad eliminare, ponendosi quale più acconcio instrumento per un
accertamento che dovrà seguire in un processo futuro, i cui risultati risultano ancora ipotetici. Il negozio probatorio tende ad eliminare l’incertezza, ma ciò opera soltanto in via indiretta ed eventuale: non già l’elimina senz’altro”. L’a. qualifica variamente gli accordi di cui si discute, come “accordi sulla condotta della prova” (p. 40), o “patto probatorio” (p. 53), e infine “patti sulla prova”: quest’ultima espressione è descritta in modo esteso, dovendosi intendere per patto sulla prova “un atto giuridico, di carattere negoziale, avente come causa o la inversione dell’onere della prova, ossia del rischio della prova mancata, o la scelta fra i vari mezzi di prova (o tra le varie specificazioni legali di un mezzo di prova) legalmente ammissibili in ordine ad un fatto o ad una serie di fatti giuridicamente rilevanti” (p. 115).
(144) Cfr. XXXXX, Prove. Disposizioni generali. Art. 2697-2698, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, diretto da Xxxxxxx, Bologna – Roma, 1987, p. 185, il quale, in
sede di commento alla disciplina legislativa in tema di onere della prova, afferma che la regola sull'onere della prova risulta diretta a tutelare l'interesse della parte che sfugge al “rischio della prova”: l’a. sembra pertanto individuare l’interesse di parte, speculare a quello sottostante al “rischio della mancata prova”, a sottrarsi alla prova di un dato accadimento, anziché a fornire, o a che comunque venga raggiunta, la prova dello stesso. È, anche questo, interesse esclusivamente privato, e come tale ampiamente rinunciabile dalla parte che ne è portatrice.
(145) “Il nuovo codice civile riconosce però la validità dei patti di inversione (art. 2698 c.c.), e ne risulta dimostrato che i principi del rischio per la mancata prova sanciscono semplici conseguenze giuridiche delle iniziative della parti e del giudice in tema di prove;
Quanto all'esame della disposizione codicistica, la stessa fa riferimento a ben vedere a due distinte ipotesi: l’art. 2698 richiama infatti sia i patti con cui è invertito l’onere della prova, sia quelli con cui tale onere è semplicemente modificato.
Interessano in questa sede i patti con cui “è modificato l’onere della prova”: l’espressione è infatti generalmente intesa quale riferimento agli accordi con cui le parti indicano i mezzi di prova dalle stesse ritenuti ammissibili ai fini della dimostrazione di un dato accadimento, escludendo esplicitamente taluni mezzi di prova, specificamente individuati, oppure
imponendo in via convenzionale solo alcuni tra i mezzi previsti dal legislatore (147).
E' questo il significato attribuito a tale espressione dalla dottrina (148), che ha avuto modo di ricomprendere tali patti tra quelli con cui è modificato il rischio della prova (149).
La dottrina maggioritaria si è espressa a favore dell’ammissibilità degli accordi di cui si discute (150).
ossia, dispongono di situazioni giuridiche poste a vantaggio delle parti, e non dell’attività del giudice”, SACCO, Presunzione, cit., p. 402, nota n. 45. Si è espresso in senso favorevole al potere dispositivo delle parti in tema di prova, sempre sul presupposto della natura privatistica, e non pubblicistica, degli interessi sottostanti all’istituto della prova, anche DE XXXXXXX, Studi sugli accordi processuali, cit., p. 90.
(146) Cfr. XXXXXXX, Il regime convenzionale delle prove, Milano, 2009, p. 221.
(147) Per una casistica relativa alla clausola in oggetto (sebbene un po’ risalente nel tempo), x. XXXXXXXX, Xxxxxxxx probatorie nella pratica commerciale e civile, in Riv. dir. proc. civ., 1938, p. 15 ss.
(148) Così è in PATTI, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 184; ID., Della prova testimoniale. Delle presunzioni, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, diretto da Xxxxxxx, Bologna – Roma, 2001, p. 69; XXXXXXXX, in Novissim. Dig. it., vol. XIV, voce Prova (Diritto processuale civile), p. 589; XXXXXXXXX XXXX, XXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXX,
Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 920 ss.; LA SALA, nota a Cass. civ., 1 febbraio 2000, n. 1088 ed a App. Milano, 6 agosto, 1999, in Banca, borsa, tit. credito, 2001, p. 429; D’ONOFRIO, in Commentario al c.c. – Libro sulla tutela dei diritti, diretto da X’Xxxxxx, Firenze, 1943, p. 367; GENTILE, La prova civile. Commentario agli artt. 1697 – 2739 c.c., Roma, 1960, p. 87. A favore dell’ammissibilità di tali patti sembra esprimersi anche XXXXXXX, in Enc. dir., XIII, voce Documentazione e documento (teoria generale), p. 589.
(149) All’analisi dei patti di cui si discute, ed al relativo effetto di modifica del rischio della prova, è dedicata l’opera di DE XXXXXXX, cit.
(150) In aggiunta agli autori citati nella nota n. 66, v. anche XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p. 298 ss.; cfr. anche PATTI, La
disponibilità delle prove, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, p. 94, il quale individua come limiti all’ammissibilità degli accordi in esame, le norme imperative, l’odrine pubblico ed il buon costume. Nono sono mancate opinioni di segno contrario, cfr. XXXXXXX, Onere della prova, Padova, 1966, p. 244.
La ricerca casistica ha inoltre permesso di rintracciare il favor anche della giurisprudenza verso gli accordi in esame, e la presenza di sentenze che hanno confermato, in via applicativa, come per accordi di modifica della prova si intendano gli accordi con cui le parti ammettono in via convenzionale un determinato mezzo di prova tra quelli ammessi dalla legge, o escludono un mezzo che la stessa ammette in via normale o in casi particolari (151).
Non sono altresì mancate sentenze che, più o meno esplicitamente, hanno ricondotto i patti di cui si discute all’autonomia contrattuale ed al disposto di cui all’art. 1322 c.c., riconoscendo quale meritevole di tutela l’interesse delle parti volto a prevenire potenziali contestazioni scaturenti dal contratto dalle stesse concluso, interesse che viene perseguito, per l’appunto, mediante la conclusione di un accordo sulla forma della prova di una determinata circostanza (152).
Il riferimento all’art. 1322 c.c. possiede una propria ragion d’essere, nella misura in cui l’articolo, come noto, richiama la nozione di interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (153), e l’ammissibilità dei patti con cui si modifica l’onere della prova, stabilita come visto dallo stesso legislatore all’art. 2698, vale in tal modo a rendere giuridicamente
(151) Si è espressa in questi termini Cass. civ., 13 luglio 1959, n. 2254, in Giust. civ., 1959, p. 1918. In senso conforme, v. anche App. Napoli, 9 luglio 1958, in Banca, borsa e tit. cred., 1958, p. 564.
(152) La sentenza è Cass. civ., 2 febbraio 1994, n. 1070, in Foro it., Rep., 1994, voce
Xxxxx xxxxxx xx xxxxxx, x. 00.
(153) La sentenza citata alla nota che precede in verità non contiene un esplicito riferimento al comma 2 dell’art. 1322, ed al criterio dell’interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ivi menzionato, ma si limita ad un generico richiamo all’articolo in parola. Il riferimento è comunque tra le righe, la Corte ha infatti riconosciuto l’ammissibilità degli accordi con cui le parti limitano i mezzi di prova utilizzabili alla sola prova documentale, soltanto nell’ipotesi in cui si ravvisi un interesse che le parti possono legittimamente perseguire, e tale interesse è ravvisato, per l’appunto, nel fine di prevenire eventuali future contestazioni in merito alla prova di un determinato accadimento. E’ utile riportare le parole stesse della Corte (val la pena evidenziare, per inciso, come non sia stato possibile rinvenire il testo integrale della sentenza in formato cartaceo, e sia stato possibile rintracciarlo unicamente nella banca dati elettronica De Jure, curata da Xxxxxxx): “allorché le parti convengano che una determinata circostanza debba essere provata in un modo predeterminato – e ciò corrisponda all’interesse che le parti possono tutelare nell’ambito dell’autonomia contrattuale, si sensi dell’art. 1322 c.c.: e nella specie, come si è rilevato più sopra, l’interesse consisteva nel prevenire contestazioni sul punto – non è ammesso il ricorso a prove diverse – testimoniali o presuntive – che non siano equipollenti a quella pattuita”
rilevante l’interesse delle parti ad eliminare le difficoltà, o meglio i rischi, relativi alla prova di un determinato accadimento (154).
Tutto quanto precede consentirebbe pertanto di giungere ad una conclusione: nella misura in cui le clausole d’intero accordo configurano un’espressione dei patti di modifica dell’onere probatorio, le stesse sarebbero con ciò valide ed efficaci allorquando la legge applicabile al contratto sia quella italiana, in quanto si tratta di clausole volte al perseguimento di un interesse – la preventiva disciplina del rischio della prova – ritenuto meritevole di tutela giuridica secondo l’ordinamento giuridico.
Tali clausole incontrano tuttavia un duplice limite, stabilito dall’art. 2698 c.c.: le stesse sarebbero infatti valide finché non vertano su diritti indisponibili, o non abbiano l’effetto di rendere ad una delle parti eccessivamente oneroso l’esercizio di un determinato diritto (155).
9. (segue) critica di tale impostazione: l’applicabilità dell’art. 2725 c.c.;
Il percorso appena delineato mi sembra sia condivisibile quanto al risultato cui perviene (ammissibilità dei patti di scelta dei mezzi di prova entro l’ordinamento italiano), ma si espone a mio modo di vedere ad una critica quanto all’argomentazione scelta ai fini della dimostrazione di tale risultato.
Si rende a questo punto necessaria una precisazione: un’autrice (156), ha sostenuto come gli accordi sui mezzi di prova non vadano in realtà ricollegati al disposto di cui all’art. 2698 c.c.
L’affermazione riposa sulla distinzione concettuale, alla quale chi scrive ritiene di aderire, tra onere della prova (e relativa ripartizione tra le parti, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio), ed individuazione dei mezzi utilizzabili ai fini dell’assolvimento di tale onere (157); in altre
(154) Per dirla con XX XXXXXXX, Studi sugli accordi processuali, cit., p. 51.
(155) Cfr. XXXXXXXX, voce Prova (Diritto processuale civile), cit., p. 589. Per la giurisprudenza, x. Xxxx. xxx., 00 xxxxxxx 0000, x. 0000, xx Xxxx xx., Rep., 1961, voce Prova in genere in materia civile, nn. 14 e 15.
(156) Mi riferisco a PEZZANI, Il regime convenzionale, cit., p. 131 ss.
(157) XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 136 che afferma quanto segue “Pare indiscutibile infatti che la disciplina attinente all’onere di provare ciò che si afferma e il sistema relativo alle modalità di prova siano due ambiti concettuali e sistematici differenti”. Cfr. anche XXXXXXXX, Della tutela dei diritti: trascrizione, prove, in XXXXXX, XXXXXXXX, Commentario del codice civile, Torino, 1971, p. 288, secondo cui i patti sui mezzi di prova sono, in verità, soltanto indirettamente collegati al tema dell'onere della prova; nello stesso
parole, tra il “chi” ed il “che cosa” si deve provare, da un lato, ed il “come” provare, dall’altro (158).
A tale distinzione concettuale consegue una duplicità di accordi sul piano pratico: da un lato troviamo gli accordi con cui le parti invertono/modificano l’onere della prova, e dall’altro i diversi accordi con cui le stesse individuano i mezzi di prova ritenuti ammissibili.
La necessità di tenere distinte le due ipotesi è tale da escludere la possibilità di ricondurre all’art. 2698 c.c. anche gli accordi del secondo tipo: la norma fa infatti espresso ed esclusivo riferimento agli accordi con cui si modifica l’onere della prova, e non anche a quelli con cui si scelgono i mezzi di prova. Ne consegue l’impossibilità di ricondurre a tale disposizione, nemmeno in via di interpretazione estensiva oppure in via di interpretazione analogica, anche i patti con cui le parti selezionano i mezzi di prova utilizzabili (159).
Il fondamento normativo dell’ammissibilità dei patti sui mezzi di prova va pertanto ricercato altrove, anche se è possibile, in ogni caso, individuare un minimo comun denominatore tra tali accordi e quelli di modifica/inversione dell’onere probatorio, e cioè il limite dato dall’indisponibilità dei diritti cui gli accordi di cui si discute eventualmente si riferiscano (160).
Inoltre, dal momento che gli accordi sui mezzi di prova rappresentano un insieme alquanto eterogeneo, la valutazione di ammissibilità andrà
senso sembra essersi espresso anche DE XXXXXXX, Le prove civili, diretto da Xxxxx, Torino, 1976, vol. I, p. 319.
(158) Con riferimento, rispettivamente, agli accordi con cui si inverte/modifica
l’onere della prova, ed a quelli con cui si indicano i mezzi prova ammissibili, x. XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 139, che afferma che “mentre i primi modificano gli assetti del rapporto giuridico fondamentale dedotto e poi di conseguenza sul piano processuale identificano il “se” ed il “chi” deve provare, i secondi incidono più direttamente sull’ambito procedimentale e sui poteri del giudice, modificando direttamente il “come” si dovrà provare”.
(159) Xxxxxx XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 139 ss.
(160) “ci sia consentito aggiungere però, che comunque pare possibile tenere fermo il divieto a che i patti probatori riguardino diritti indisponibili, non tanto, appunto, per l’esistenza dell’art. 2698 secondo comma c.c., ma per il più generale principio secondo cui i privati non possono porre in essere negozi giuridici con cui dispongano, direttamente o indirettamente, di diritti che l’ordinamento giuridico sottrae all’autonomia privata. Infatti … modificare gli assetti e le norme previsti dalla legge in materia di prova incide direttamente, in melius o in peius, sul potere di esercitare il diritto”: così PEZZANI, Il regime convenzionale, cit., p. 142 (corsivi dell’a.).
condotta caso per caso, con riferimento a ciascun tipo di accordo probatorio (161).
Per quanto riguarda i patti con cui le parti restringono il novero dei mezzi di prova utilizzabili, escludendo uno o più mezzi che sarebbero astrattamente ammissibili, si tratta di accordi che risultano legittimi in base non all’art. 2698 c.c., ma al disposto dell’art. 2725, primo comma, c.c., che, come noto, consente che la prova di un contratto possa essere fornita unicamente attraverso un documento scritto, sia per espressa volontà legislativa, che in virtù dell’accordo delle parti (162).
10. Le clausole d’intero accordo e l’art. 2722 c.c.
La possibilità di ricollegare le clausole d’intero accordo alle norme in tema di prova permette in verità di coglierne un profilo di rilevanza ancora più circoscritto.
Nella misura in cui, per mezzo delle clausole in esame, le parti circoscrivono l’intero regolamento contrattuale a quello che emerge dal documento in cui la clausola è inserita, le stesse, come visto, escludono la possibilità di avvalersi di eventuali patti ulteriori, aggiunti o contrari al regolamento documentato, di cui si assume la stipulazione in fase antecedente alla formazione del documento, o che siano stati perfezionati in concomitanza alla conclusione del contratto, ma che tuttavia non siano poi confluiti nel testo in cui è racchiusa la clausola in esame.
La funzione svolta in tal modo dalla clausola d’intero accordo, a ben vedere, riprende il dettato di una norma giuridica che è già presente nel nostro ordinamento.
L’art. 2722 c.c., infatti, già esclude la possibilità di provare, in via testimoniale, xxxxx aggiunti o contrari al contenuto di un documento, di cui si assuma la stipulazione antecedente o contestuale alla formazione del documento stesso.
La giurisprudenza ha avuto modo di specificare ulteriormente la portata della norma in esame, affermando che la prova testimoniale di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento è inammissibile tutte le
(161) XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 156.
(162) Riconduce gli accordi in esame all’art. 2725 c.c., XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 217. Si è espresso a favore degli accordi in esame anche PATTI, La disponibilità delle prove, cit., p. 94, sempre che tali accordi vertano in tema di diritti disponibili.
volte in cui il documento stesso, nelle intenzioni dei contraenti, sia idoneo per il suo contenuto a rivelare (163) ed a racchiudere (164) la convenzione dedotta in giudizio.
Ciò vale sia nel caso in cui il documento sia sottoscritto da entrambe le parti, sia nel caso in cui sia stato sottoscritto da una sola di esse, ma sia stato poi confermato anche dall’altra parte – la quale, ad esempio, attraverso il proprio comportamento processuale, non abbia rinnegato l’attribuibilità anche a se stessa del documento (165) – e sia ancora nel caso in cui il documento sia un atto unilaterale proveniente da una delle parti (166).
Da quanto precede consegue l’irrilevanza delle clausole d’intero accordo per l’ordinamento italiano, nella misura in cui l’esclusione della possibilità di utilizzare la prova testimoniale al fine di ricostruire il regolamento contrattuale è già stabilita per legge. L’unica funzione che le clausole d’intero accordo sono idonee pertanto a svolgere è quella di escludere la possibilità di utilizzare, sempre a questi fini, prove documentali antecedenti o contestuali, il cui contenuto sia in contrasto con quello del documento che possiamo definire finale, o che abbiano l’effetto di ampliare il regolamento contrattuale da quest’ultimo ricavabile.
Pare opportuna una precisazione: le sentenze che hanno fatto applicazione della norma di cui all’art. 2722 c.c. sembrano ricavare la completezza del regolamento dal semplice ricorso delle parti alla forma documentale: sembra, cioè, che la sola presenza di un documento sia idonea a rivelare la completezza dell’accordo, purché tale documento sia ovviamente riferibile a tutte le parti interessate dal rapporto contrattuale.
Il valore così attribuito al documento non è altro, in fondo, che la presa d’atto di ciò che avviene nella pratica degli affari, per cui per prassi costante è preoccupazione delle parti ribadire nel documento scritto gli
(163) Cass. civ., 2 febbraio 1996, n. 897, in Foro it., Rep., 1996, voce Prova testimoniale, n. 8, in massima, e nella banca dati De Jure, edita da Xxxxxxx, per esteso.
(164) Cass. civ., 4 febbraio 1966, n. 376, in Foro it., 1966, p. 1558.
(165) Nel caso in cui si tratti invece di una scrittura privata unicamente sottoscritta da una delle parti, ed il cui contenuto sia in conflito con quello del documento, la giurisprudenza è solita negare l’operatività del limite stabilito dall’articolo in esame. Cfr. Cass. civ., 19 dicembre 1999, n. 12826, in Xxxx xx., Xxx., 0000, xxxx Xxxxx xxxxxxxxxxxx, x. 0; Cass. civ., 9 marzo 1995, n. 2747, in Giur. it., 1995, p. 235 ss., con nota di XXXXX, Testimonianza e documento unilaterale tra regole ed eccezioni; Cass. civ., 26 agosto 1993, n. 9021, in Xxxx xx., Xxx., 0000, xxxx Xxxxx xxxxxxxxxxxx, x. 0; Cass. civ., 1 giugno 1968, n. 1663, in Giur. it., 1969, p. 1803, con nota di XXXXXXXXXXXX, Sul limite di ammissibilità della prova testimoniale stabilito dall’art. 2722 cod. civ.
(166) Cass. civ., 26 agosto 1993, n. 9021, in Mass. Giust. civ., 1993.
accordi precedenti, eventualmente stipulati in forma verbale, ed inserire anche quelli raggiunti in sede di redazione del documento. La prova testimoniale è pertanto considerata con minor favore, così dal legislatore come dalla giurisprudenza, in quanto avente ad oggetto circostanze contrarie al normale comportamento delle parti contraenti, e pertanto idonea a configurare un mezzo di prova che offre minori garanzie di quelle che è idonea a fornire la prova documentale (167).
Le considerazioni che precedono finirebbero con l’attribuire alle clausole d’intero accordo, se possibile, ancora minore rilevanza.
E tuttavia, non sono mancati casi in cui la giurisprudenza ha subordinato il giudizio di prevalenza della prova documentale (e la conseguente esclusione della prova testimoniale), alla verifica in concreto della idoneità del documento a racchiudere l’intero regolamento contrattuale, verifica condotta analizzando quale fosse stata la comune intenzione dei contraenti a tal riguardo (168).
L’applicazione concreta della norma codicistica sembra pertanto far salvo un profilo di rilievo delle clausole d’intero accordo: le stesse si rivelano, infatti, idonee a svelare al completezza dell’accordo risultante dal documento, e quindi a consentire la piena operatività del canone di cui all’art. 2722 c.c. (al pari di come le stesse, come visto in precedenza, si rivelano idonee ad individuare il “contratto” da sottoporre ad interpretazione, di cui all’art. 1362 c.c.).
11. Forma ad substantiam e forma ad probationem ovvero forma dell’atto e forma della prova dell’atto
Vale la pena aggiungere qualche considerazione ulteriore, al fine di individuare con maggiore precisione quello che risulta essere – sia consentita l’espressione – lo statuto normativo complessivo delle clausole d’intero accordo.
(167) Il rilievo non è sfuggito ad accorta dottrina: sul punto v. XXXXX, Xxxxx prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 36 e 38; per la giurisprudenza, x. Xxxx. Xxxxxxx, 00 luglio 1966, in Dir. e giur. agr. e ambiente, 1999, p. 243.
(168) Mi riferisco qui a Cass. civ., 4 febbraio 1966, n. 376, cit. La Corte ha espressamente affermato che “secondo l’art. 2722 cod. civ., la prova testimoniale di patti
aggiunti o contrari è preclusa da qualsiasi documento contrattuale, che risulti formato con la partecipazione dell’uno e dell’altro contraente, anche se tale documento risulti firmato dalla sola parte che di detti patti intende avvalersi, quando nelle intenzioni dei contraenti esso era, però, destinato a racchiudere la convenzione”.
E’ opportuno in questa sede richiamare le osservazioni di Xxxxxxxx Xxxx in tema di forma dei contratti, ed in particolare di forma documentale.
L’autore ha infatti avuto modo in più occasioni (169) di porre in evidenza come la forma dell’atto sia cosa diversa dalla prova dello stesso. La forma attraverso cui le parti esprimono il consenso contrattuale può essere la più varia (il muto gesto, il parlare, lo scrivere), ed a tale diversità di estrinsecazione del consenso si affianca una molteplicità di mezzi per la prova del consenso (testimonianza, confessione, giuramento, documento).
Si tratta di distinzione che vale ovviamente anche quando il consenso venga espresso per iscritto: anche in tale caso, infatti, lo scrivere è la forma del consenso, e il documento scritto è la prova dello scrivere (o meglio, dell’aver scritto) (170).
Nella misura in cui ogni materiale estrinsecazione di consenso riveste inevitabilmente una determinata forma (sia essa il comportamento concludente, la dichirazione verbale, o quella redatta per iscritto), è la forma stessa ad essere successivamente oggetto di prova (171).
Tra le varie forme di espressione del consenso quella scritta possiede una particolarità: nell’atto dello scrivere si genera, contemporaneamente, sia la forma dell’atto (lo scrivere, per l’appunto), sia la prova di tale forma, che è il documento sui cui vengono apposti i segni dello scrivere.
Soltanto il documento scritto possiede tale capacità, di essere esso stesso prova della propria genesi; le dichiarazioni verbali, o i comportamenti muti, necessitano di una prova (ad esempio, la testimonianza di chi ha assitito alle dichiarazioni delle parti), che è al di fuori, distinta e separata dall’atto nel suo materiale estrinsercarsi, e non è causata da quest’ultimo (172).
(169) XXXX, Il contratto tra faciendum e factum (problemi di forma e di prova), in Rass. dir. civ., 1984, p. 938 ss., nonché in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, p. 95 ss.
(170) “La prova”, afferma efficacemente IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., p. 946, “è strumento di controllo di un giudizio narrativo. La parte racconta ‘come le cose sono andate’; ed ha l’onere di indicare le fonti di prova dei singoli fatti. Il passato non può ricostruirsi che mediante prove”.
(171) X. XXXX, Il contratto tra faciendum e factum, cit.: “Le forme (mi riferisco,
insieme, alle semplici esternazioni ed ai vincoli solenni stabiliti dalla legge) non sono strumenti di indagine storiografica e fonti di prova, ma oggetto di prova: non ciò con cui si prova, ma ciò che si prova” (corsivi dell’a.) (p. 946); “La forma non può, come tale, assolvere alcuna funzione probatoria: essa (coincidendo con la realtà fisica del negozio) è tema di prova, frammento del passato che in giudizio viene dissepolto e ricostruito. La prova sta invece nel nostro presente, come «materiale per il lavoro storico» (p. 949).
(172) “Lo scrivere (in che risiede la forma del negozio) determina la nascita dello scritto, ossia di una cosa fornita di capacità rappresentativa e, quindi, idonea a provare lo
Quanto precede permette pertanto di affermare come forma e prova siano due entità, non solo concettuali ma anche empiriche, da tenere distinte.
La conseguenza è che la categoria della forma ad probationem risulta, con ciò stesso, inammissibile (173). Possiamo forse dire, in accordo con altra dottrina (174), che l’espressione è più che altro imprecisa. Più che parlare di forma per la prova, si dovrebbe infatti parlare di forma della prova (ovviamente la prima affermazione mantiene tutta la propria consistenza, se si accetta il postulato per cui la parola “forma” è tecnicamente riferibile unicamente alla manifestazione del consenso contrattuale, e non anche alla prova dello stesso) (175).
Si può di conseguenza distinguere tra forma dell’atto e forma della prova, ed affermare che, laddove si parli di forma ad probationem, si vuole intendere ‘forma della prova dell’atto’, e laddove invece si parli di forma ad substantiam, si voglia intendere ‘forma dell’atto’ (richiesta, come noto, per la validità dello stesso) (176).
La seconda espressione in realtà racchiude, come noto, anche la prima: la forma ad substantiam è infatti la forma scritta dell’atto, e pertanto, in base alle considerazioni appena viste, nella misura in cui, all’atto dello scrivere, si segue una forma dell’atto e contemporaneamente si crea la prova di tale forma (il documento, per l’appunto), ne consegue che assolvere l’obbligo di forma scritta dell’atto implica, contemporaneamente ed in modo imprescindibile, anche l’assolvimento della forma scritta della prova (177).
Nella misura in cui, quando si parla di forma ad probationem, ci si riferisce alla forma della prova dell’atto, la disciplina che risulta applicabile
stesso atto della propria genesi … Soltanto la forma scritta ha questa straordinaria capacità generatrice. Non il gesto, non il parlare. I segni mimici non lasciano tracce rappresentative del loro accadere: possono essere solo visti”, così IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., p. 949 e 950 (corsivi dell’a.)
(173) IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., p. 951: “la forma non assolve mai funzione di prova, sicché la categoria delle formae ad probationem è logicamente inammissibile”.
(174) Il riferimento va a SACCO, Il contratto, Tomo I, in Trattato di diritto civile,
(diretto da) Sacco, Torino, 2004, p. 713.
(175) La distinzione tra forma dell’atto e forma della prova, sebbene in termini leggermente più approssimativi, non è sfuggita a DE XXXXXXX, Studi sugli accordi processuali, cit., p. 46, che ne trae argomento dalla lettera dell’art. 2725 c.c.
(176) SACCO, Il contratto, cit., p. 713.
(177) In modo assai efficace SACCO, Il contratto, cit., p. 714: “Quando si parla di forma necessaria per la validità si menziona la parte per il tutto. Si dovrebbe parlare di forma doppiamente necessaria per la validità e per la prova”.
in tali casi si sostanzia in un complesso di norme che regolano fenomeni di natura processuale (178).
A questo proposito, non è mancato chi (179) ha messo in chiara evidenza come la ‘forma ad probationem’ rappresenti più che altro un’espressione riassuntiva, che indica una disciplina della prova più restrittiva di quella ammessa in via generale, dove non viene richiesta alcuna forma specifica della prova dell’atto.
Laddove sia imposto tale requisito di forma, infatti, alle parti è lasciata una scelta discrezionale: munirsi dello scritto, e quindi assolvere l’onere di forma della prova, oppure non munirsene, e pertanto sottostare ad una restrizione delle (tipologie, o forme di) prove costituende, da poter utilizzare per la prova del contratto (180).
L’espressione forma ad probationem è pertanto destinata, a mio modo di vedere, ad assolvere più una funzione di economia di linguaggio, che non una funzione descrittiva di una realtà normativa.
Nel caso in cui si verta in tema di forma ad substantiam, stante il duplice rilievo del requisito della forma, che, come visto, è sia forma dell’atto che forma della prova, la relativa mancanza opera sia con riferimento diretto all’atto (causandone l’invalidità), sia con riferimento alla prova (soggetta all’ulteriore restrizione data dall’impossibilità di avvalersi del giuramento, ex art. 2739, comma 1, c.c.
12. Le entire agreement clauses come ipotesi di accordo sulla forma, ex
art. 1352 c.c.
Si può a questo punto fare un passo ulteriore.
A me sembra che la portata normativa esatta delle clausole d’intero accordo vada oltre quella di semplici accordi sulla forma della prova: nella misura in cui le parti affidano al testo scritto l’intero regolamento contrattuale, le stesse infatti stabiliscono non solo che il singolo documento, cui la clausola accede, è l’unica forma di prova utilizzabile, ma anche,
(178) Così XXXXX, Il contratto, cit., p. 716.
(179) Ancora IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., p. 951 e 952.
(180) Ex artt. 2725, comma 1, e 2724, n. 3, c.c., infatti, in tali casi la prova testimoniale risulterebbe ammissibile solo in caso di perdita incolpevole del documento, ed allo stesso limite sarebbero soggette sia la confessione stragiudiziale, ex art. 2735, comma 2 c.c., che la prova presuntiva, come evidenziato da Cass. civ., 13 luglio 1998, n. 6825, in Mass. Giust. civ., 1998.
implicitamente, che soltanto il consenso contrattuale, che rivesta la forma scritta, possa avere valore negoziale.
Pertanto, la pattuizione, più che un semplice accordo sulla prova, si rivela più ampiamente un accordo sulla forma (181), ed è come tale ammissibile ai sensi dell’art. 1352 c.c.
Gli studi condotti in materia di accordi sulla forma hanno già permesso di mettere in luce un dato rilevante: la funzione degli accordi sulla forma risiede nell’individuare, tra i futuri contegni delle parti, quelli cui le parti stesse attribuiscono valore di dichiarazione negoziale, degradando gli altri comportamenti a contegni unicamente prodromici alla conclusione del contratto. Attraverso tale tipo di pattuizione, pertanto, le parti intendono individuare le dichiarazioni cui le stesse attribuisono natura definitiva, ai fini del perfezionamento dell’accordo (182).
L’unica peculiarità del caso risiede in ciò che il requisito di forma è soddisfatto nel momento stesso in cui è posto, e ciò altro non è, con ogni evidenza, se non una conseguenza dell’unità documentale della pattuizione sull’interezza dell’accordo e le pattuizioni specifiche che compongono il resto del regolamento contrattuale (183).
13. Prime conclusioni
Tutti i rilievi svolti sinora consentono di individuare quale sia l’incidenza effettiva delle clausole d’intero accordo nell’ordinamento nostrano o, specularmente, laddove la legge applicabile al contratto sia quella italiana.
(181) Torna utile un riferimento a PATTI, Prove. Disposizioni generali, cit., p. 193 e 194, che afferma che “una clausola la quale stabilisse che un contratto non possa essere
«provato» se non per iscritto (art. 2725) riguarderebbe solo in apparenza la prova. In realtà escludere ogni prova diversa da quella documentale equivale ad escludere che il neogzio stipulato in forma diversa possa essere fatto valere in giudizio, e quindi escludere che esso sia idoneo a porre in essere un nuovo regolamento di interessi, munito di tutela giuridica. Il patto riguardante la prova finisce quindi per acquistare la rilevanza di una forma convenzionale”.
(182) Tutte le osservazioni che precedono sono in DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma e accordi sulla “documentazione” del futuro negozio, ne La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Napoli, 1988, p. 98.
(183) La rilevanza concreta della qualificazione come accordi sulla forma ex art. 1352
c.c. è pertanto limitata. Considerazioni più approfondite si sono invece rese necessarie con riferimento alle clausole di non modificazione orale, di cui al successivo cap. 4, par. 3, a cui rimando anche per maggiori riferimenti all’art. 1352.
Le entire agreement clauses non introducono una metodologia d’interpretazione, diversa ed autonoma rispetto a quella stabilita dal legislatore, ed in tal modo le stesse non sembrano pertanto rappresentare ipotesi di deroga della metodologia legale.
Piuttosto, tali clausole svolgono una funzione ermeneutica in chiave esclusivamente pratica, consentendo di individuare la fattispecie “contratto”, fornendo in tal modo un ausilio per l’applicazione sia delle regole codicistiche in tema di interpretazione, sia delle regole in tema di prova, valide ai fini della diversa operazione di ricostruzione del regolamento contrattuale.
Inoltre, nella misura in cui tali clausole, in quanto accordi sulla forma, sono volte ad individuare le dichiarazioni di consenso contrattuale cui le parti attribuiscono valenza negoziale definitiva, si tratta di clausole nel nostro ordinamento che assolvono la medesima funzione svolta entro gli ordinamenti di common law, vale a dire individuare la completa e definitiva espressione dell’assetto negoziale voluto dalle parti, a disciplina dei reciproci interessi (ciò che, nei paesi di common law, verrebbe definito, come visto, contratto completely integrated).
14. Le entire agreement clauses e la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili: la derogabilità della Convenzione ai sensi dell’art. 8 e dell’art. 11;
E’ necessario proseguire l’indagine sull’ambito di validità ed efficacia delle clausole d’intero accordo, valutandone i profili di ammissibilità con riguardo alla disciplina contenuta nelle convenzioni di diritto materiale uniforme.
L’indagine deve essere condotta alla luce della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili del 1980, che ormai, grazie all’enorme diffusione, può ben dirsi il paradigma delle convenzioni di diritto materiale uniforme (184).
L’analisi e la dimostrazione dei profili di compatibilità delle clausole in esame con la normativa convenzionale può proficuamente essere condotta passando per la parallela analisi dei profili di compatibilità della parol evidence rule con tale normativa, e ciò, con ogni evidenza, in quanto le
(184) Ad oggi infatti la Convenzione di Vienna è stata ratificata da ben 77 Stati.
clausole d’intero accordo costituiscono, come visto, un’estrapolazione attuata dalla prassi di tale regola di diritto.
Numerose opere di commento alla Convenzione di Vienna hanno istituito un collegamento diretto tra la parol evidence rule e l’art. 8 della Convenzione, che ha ad oggetto la materia dell’interpretazione (185).
I primi due commi dell’articolo stabiliscono la regola per cui, nell’interpretare le dichiarazioni o i comportamenti di una parte (186), occorre aver riguardo alla “intenzione” che soggiace alla relativa formulazione o adozione, che è anzitutto l’intenzione della parte che ha formulato la dichiarazione o ha posto in essere il comportamento, in quanto la stessa sia nota o conoscibile dalla controparte (comma 1), oppure, nel caso in cui tale intenzione non sia rinvenibile o non sia nota o conoscibile alla controparte, è il senso che una persona ragionevole, di medesima qualità dell’altra parte, posta nella medesima situazione, avrebbe dato a tale dichiarazione o comportamento (comma 2) (187).
(185) In quanto normativa a carattere speciale, la Convenzione di Vienna è destinata a sostituirsi alla regolamentazione di diritto interno, anche in tema di interpretazione dei contratti. Una prevalenza che, del resto, è essenziale al fine di assicurare l’uniformità applicativa della normativa di diritto uniforme, stabilita dallo stesso testo della Convenzione (art. 7, comma 1). Cfr. FERRARI, Interpretation of statements: Article 8, in The Draft UNCITRAL Digest and Beyond: Cases, Analysis and Unresolved Issues in the U.N. Sales Convention, Ferrari/Xxxxxxxxx/Brand (eds.), Xxxxxxx-Xxxxxx, 0000, p. 173; XXXXXXX- XXXXXX, Article 8, in Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods (CISG), Schlechtriem/Xxxxxxxxx (eds.), Oxford, 2005, p. 113. Per una conferma giurisprudenziale della prevalenza delle regole stabilite dalla Convenzione di Vienna, su quelle previste dal diritto interno in tema di interpretazione del contratto, x. Xxxxxxxxxxx Xxxxxxx, 00 settembre 1990, in Recht der Internationalen Wirtschaft, 1990, p. 1015 ss
(186) Sebbene l’art. 8 faccia riferimento a “dichiarazioni e comportamenti di una
parte” non sussistono dubbi fondati sul fatto che l’articolo riguardi anche l’interpretazione dei contratti. Cfr. SCHLECHTRIEM, XXXXXX, UN Law on International Sales. The UN Convention on the International Sale of Goods, Berlin-Heidelberg, 2009, p. 56; XXXXX- XXXXX, La interpretación del contrato en la Convención de Viena sobre compraventa internacional de mercaderías, in Revista de derecho mercantil, 1997, p. 1209 ss.; XXXXXXX- XXXXXX, Article 8, cit., p. 113.
(187) Per un commento all’articolo rinvio a FERRARI, Vendita internazionale di beni mobili. Art. 1 – 13, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, a cura di Xxxxxxx, Bologna – Roma, 1994, p. 165 ss.; ID., Interpretation of statements: Article 8, cit., p. 172 ss.; ID., Article 8, in The Draft UNCITRAL Digest and Beyond, cit., p. 545 ss.; SCHLECHTRIEM, XXXXXX, UN Law on International Sales, cit., p. 55 ss.; XXXXX, Article 8, in UN Convention
on Contracts for the International Sale of Goods (CISG), Kröll/Xxxxxxxx/Viscasillas (eds.), Xxxxxxx, 0000, p. 142 ss.; XXXXX-XXXXX, La interpretación del contrato, cit., p. 1207 ss.; XXXXXXXXXX, Art. 8, in Le nuove leggi civ. comm., 1989, p. 28 ss.; BRIDGE, Article 8, in The Draft UNCITRAL Digest and Beyond, cit., p. 254; XXXXXXX-XXXXXX, Article 8, cit., p. 111
La “metodologia” dell’interpretazione è stabilita dal comma 3, che afferma che al fine di stabilire l’intenzione di una parte, oppure ciò che avrebbe inteso una persona ragionevole, occorre tener conto di tutte le circostanze rilevanti, ivi comprese le negoziazioni, le consuetudini eventualmente stabilitesi tra le parti, gli usi, ed ogni comportamento successivo delle stesse.
Ebbene, la regola di diritto contenuta nel comma 3 è stata in più occasioni valutata come chiaro impedimento all’applicabilità della parol evidence rule nel contesto della Convenzione di Vienna.
Diversi commentatori hanno infatti affermato che, nella misura in cui tale comma consente sempre e comunque il ricorso al materiale proprio della fase delle negoziazioni, al fine di desumere l’intenzione, o il senso attribuibile ad una dichiarazione negoziale, si tratta di norma perfettamente incompatibile con la diversa regola che vorrebbe escludere la possibilità di ricorrere a tale materiale (188).
C’è pertanto chi, in seno a tale orientamento, ha conseguentemente sostenuto come, al fine di escludere l’incidenza del materiale ermeneutico afferente alla fase delle trattative, si possa per l’appunto ricorrere ad una clausola d’intero accordo, la cui adozione in tal modo integrerebbe un’ipotesi di deroga al comma 3 dell’art. 8 (189), in esercizio del potere dispositivo concesso alle parti dall’art. 6 della Convenzione (190).
ss.; XXXXXXX, Uniform Law for International Sales under the 1980 united Nations Convention, Alphen aan den Rijn, 2009, p. 153 ss.; AUDIT, La vente internationale de merchandise. Convention des Nations-Unies du 11 avril 1980, Paris, 1990, p. 41 ss.; XXXXXXXXXX, Article 8, in BIANCA, BONELL, Commentary on the International Sales Law. The 1980 Vienna Sales Convention, Milano, 1987, p. 95 ss.; XXXXXXX, Contracts for the Sale of Goods. A Comparison of X.X. xxx Xxxxxxxxxxxxx Xxx, Xxx Xxxx, 0000, p. 66 ss.
(188) Il diretto collegamento tra la parol evidence rule ed il comma 3 dell’art. 8, è rinvenibile in FERRARI, Interpretation of statements: Article 8, cit., p. 185; AUDIT, La vente internationale de merchandise, cit., p. 43, nota n. 3; XXXXXXXXX, Understanding the CISG. A
compact Guide to the 1980 United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods, Alphen aan den Rijn, 2008, p. 74 ss.; e sembra anche da ZUPPI, Article 8, cit.,
p. 150 – 151, da XXXXXXX-XXXXXX, Article 8, cit., p. 125, e da XXXXXXX, Contracts for the Sale of Goods, cit., p. 67 (spec. nota n. 347).
(189) XXXXXXX-XXXXXX, Article 8, cit., p. 126.
(190) Non è mancato in ogni caso chi, come ZUPPI, Article 8, cit., p. 143 (spec. nota
n. 4), ha escluso la possibilità di una deroga all’art. 8, ed alle ulteriori norme in materia di interpretazione contenute nella Convenzione (artt. 7 e 9) – deroga che non sarebbe giustificabile nemmeno alla luce dell’art. 6 –, e ciò in quanto un simile potere derogatorio finirebbe con il consentire un’inammissibile metodologia pattizia dell’interpretazione.
Un altro orientamento interpretativo ha fornito un diverso inquadramento normativo del problema.
Secondo alcuni autori (191), infatti, la parol evidence rule va esaminata alla luce non tanto, o quantomeno non solo, dell’art. 8, ma anche e soprattutto dell’art. 11 della Convenzione di Vienna.
Tale articolo, come noto, elimina senza consentire eccezioni si sorta la necessità di ricorrere a forme specifiche, sia per l’atto che per la prova dello stesso, stabilendo che il contratto di vendita non deve essere né concluso né provato per iscritto, né è necessario che sia sottoposto ad alcun requisito formale, e proseguendo con l’affermare che il contratto può essere provato con qualsiasi mezzo, ivi compresi i testimoni.
In questo modo al documento scritto non viene riconosciuto alcuno statuto privilegiato, nel sistema tracciato dalla convenzione, rispetto ai comportamenti delle parti ed alle dichiarazioni verbali (se si eccettua ovviamente una maggiore credibilità e quindi affidabilità pratica del documento rispetto, ad esempio, alla prova testimoniale (192)).
La perfetta equivalenza normativa tra il testo scritto e tali ulteriori evidenze impedisce di attribuire alle pattuizioni rinvenibili nel testo, maggiore rilevanza negoziale rispetto a quelle ricavabili dalle dichiarazioni verbali o dai comportamenti, e permette pertanto di escludere qualsivoglia presunzione di completezza del documento contrattuale (193).
In seno all’orientamento appena tracciato è stato possibile rinvenire commenti maggiormente approfonditi, che hanno proposto una più complessa dimostrazione del perché la parol evidence rule non sia ammissibile nel contesto della Convenzione di Vienna.
Si è evidenziato, anzitutto, come la normativa uniforme non contenga alcuna regola equivalente alla parol evidence rule, e si tratta di normativa che, avendo carattere speciale, è destinata a sostituirsi alla normativa di diritto
(191) Mi riferisco qui a XXXXXXX, Uniform Law for International Sales, cit., p. 74 – 75; XXXXXXXXX, The U.N. Sales Convention (CISG) and MCC-Marble ceramic Center, Inc.
v. Ceramica Nuova D’Xxxxxxxx, S.p.A.: The Eleventh Circuit Weighs in on Interpretation, Subjective Intent, Procedural Limits to the Convention’s Scope, and the Parol Evidence Rule, in http:/www.cisg,xxx.xxxx.xxx/xxxx/xxxxxx/xxxxxxxxx0.xxxx; CISG ADVISORY COUNCIL Opinion n. 3, 23 ottobre 2004, Parol Evidence Rule, Plain Meaning Rule, Contractual Merger Clause and the Cisg, in xxxx://xxx.xxxx.xxx.xxxx.xxx/xxxx/XXXX-XX-xx0.xxxx;
(192) La circostanza non sfugge a XXXXXXXXX, The U.N. Sales Convention (CISG),
cit.
(193) Cfr. XXXXXXXXX, The U.N. Sales Convention (CISG), cit.
interno, allorquando si tratti di vendita internazionale e siano rispettati i criteri di applicabilità della Convenzione (194).
Si è altresì sostenuto come il ricorso ad una regola interna come la parol evidece rule, operante unicamente nei sistemi di common law, si porrebbe in chiaro contrasto con l’internazionalità della convenzione e la necessità di un’applicazione uniforme della stessa, come richiesto dall’art. 7, comma 1 (195).
Si è infine affrontata un’ulteriore obiezione ipotizzabile, rappresentata dalla possibilità che la Convenzione di Vienna contenga sul punto una vera e propria lacuna, e che pertanto si debba far ricorso alla normativa di diritto interno, con la conseguente possibilità di applicare la parol evidence rule.
L’obiezione potrebbe essere superata considerando che, in applicazione dell’art. 7, comma 2, le materie non espressamente regolate dalla Convenzione vanno valutate alla luce dei principi generali che informano la normativa uniforme. L’equivalenza del testo scritto rispetto alle dichiarazioni verbali ed ai comportamenti si evince anche dall’art. 8, comma 3, seppure sotto il diverso profilo dell’individuazione del materiale utilizzabile a fini ermeneutici. La complessiva considerazione dell’art. 11 e dell’art. 8, comma 3, permetterebbe pertanto di classificare tale equivalenza tra forme come “principio generale” della Convenzione, idoneo in quanto tale ad opporsi all’applicabilità della parol evidence rule, che invece presuppone il primato normativo del testo scritto rispetto a diverse risultanze, verbali o fattuali (196).
Non sono mancate anche sentenze che hanno fatto ricorso sia all’art. 11 sia (ma forse occorrerebbe dire, soprattutto) all’art. 8, comma 3, al fine di giustificare l’inapplicabilità della parol evidence rule in seno alla Convenzione di Vienna (197), pur se non è mancata una decisione di segno contrario (198) ed un commento in piena adesione a tale decisione (199).
(194) Il riferimento è qui a XXXXXXXXX, The U.N. Sales Convention (CISG), cit.
(195) L’argomento è in XXXXXXXXX, More U.S. Decisions on the U.N. Sales Convention: Scope, Parol Evidence, “Validity” and Reduction of Price under Article 50, rinvenibile in xxxx://xxx.xxxx.xxxx.xxx.xxx/xxxx/xxxxxx/xxxxxxxxx.xxxx, nonché in Journal of Law and Commerce, 1995, p. 153 ss.
(196) L’argomentazione compiuta è in XXXXXXXXX, The U.N. Sales Convention (CISG), cit.; piena adesione è manifestata nel CISG ADVISORY COUNCIL Opinion n. 3, cit.
(197) Il leading case è rappresentato da MCC-Marble Ceramic Center, Inc. v. Ceramica Nuova D’Xxxxxxxx, S.p.A., 144 F.rd 1384 (1tth Cir. 1998), 67 U.S.L.W. 3652 (U.S.
Apr. 26, 1999) (no. 98-1253), nel quale la corte ha motivato l’assenza di una regola quale quella della parol evidence rule nel contesto nella Convenzione di Vienna in base all’art. 11, che come visto ammette la piena libertà di forme, ed ha individuato un netto contrasto tra tale regola e la convenzione in base all’art. 8, comma 3. Concordano con tale decisione, anche in
15. (segue) la rilevanza esclusiva dell’art. 11;
Entrambi gli orientamenti riportati a mio parere colgono nel segno quanto ai risultati, e cioè nella misura in cui stabiliscono l’inapplicabilità della parol evidence rule nel sistema tracciato dalla Convenzione.
Mi sembra ciononostante necessaria qualche nota critica con riferimento al percorso seguito per giungere a tali risultati.
Ritengo, infatti, che la dimostrazione del secondo indirizzo intepretativo sia più precisa, ed in maggiore aderenza al testo della Convenzione, e tuttavia anche con riferimento a tale dimostrazione mi sembra sia necessaria una piccola precisazione.
A mio modo di vedere il ricorso all’art. 8, comma 3, oltre che errato – nella misura in cui si ritiene che sia proprio tale comma ad impedire l’ingresso della parol evidence rule – si rivela non realmente necessario, allorquando si intenda affiancare a tale disposizione l’art. 11, sempre al fine di dimostrare l’inapplicabilità della regola in esame.
L’esclusione della parol evidence rule dal complesso normativo di cui si compone la Convenzione di Vienna può essere infatti dimostrata facendo ricorso unicamente all’art. 11 della Convenzione (200).
Al fine della dimostrazione, mi posso avvalere delle categorie normative e concettuali operanti nell’ordinamento italiano.
merito al rilievo da attribuirsi all’art. 8, comma 3, al fine di escludere l’applicabilità della parole vidence rule, ulteriori sentenze come Xxxxxxx, S.p.A. v. Chilewich International Corp., 789 F. Supp. 1229 (S.D.N.Y. 1992), 984 F. 2d 58 (2nd Cir. 1993); Xxxxxxxx Aircraft Spares, Inc. v. European Aircraft Service AB, 23 F. Supp. 2d 915, 919-21 (N.D. Ill. 1998); Calzaturifico Xxxxxxx s.n.c. v. Xxxxxxxx Footwear Ltd., 1998 WL 164824 (S.D.N.Y.).
(198) L’applicabilità della parol evidence rule sembra infatti essere stata affermata in Beijing Metals & Minerals Import/Export Corp. v. American Business Center, Inc., 993 F. 2d 1178, 1183 n. 9 (5th Cir. 1993). L’incidenza effettiva di tale pronuncia non va in ogni caso sopravvalutata, alla luce dell’insufficiente motivazione posta a sostegno della tesi favorevole
all’applicabilità della regola in esame, e ciò tanto più se si considera che la valutazione positiva è altresì espressa per semplice obiter dictum. Per un commento critico a tale decisione rinvio a XXXXXXXXX, More U.S. Decisions on the U.N. Sales Convention, cit.
(199) Mi riferiscio qui a XXXXX, The Parol Evidence Rule and the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods: Justifying Beijing Metals and Minerals Import/Export Corp. v. American Business Center, Inc., in
xxxx://xxx.xxxx.xxx.xxxx.xxx/xxxx/xxxxxx/xxxxxxx.xxxx, nonché in Xxxxxxx Xxxxx University Law Review, 1995, p. 1347 ss.
(200) Una menzione di tale collegamento diretto è in SCHLECHTRIEM, XXXXXX, UN Law on International Sales, cit., p. 62.
È necessario avvalersi anzitutto, della distinzione tra forma dell’atto e forma della prova, di cui hanno parlato Xxxxxxxx Xxxx e Xxxxxxx Xxxxx (201).
Occorre poi considerare le norme in materia di testimonianza: come ho avuto modo di anticipare, l’art. 2722 impedisce il ricorso alla prova testimoniale avente ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, se tali patti sono precedenti o contestuali all’adozione del documento.
La norma mi sembra introdurre una gerachia tra forme della prova: se è scelta, quale forma dell’atto, la forma scritta, la stessa vale anche, come visto (202), come forma della prova (documento), ed è forma destinata a prevalere sulla prova testimoniale, nell’ipotesi specifica in cui si controverta in tema di patti aggiunti o contrari, precedenti o contestuali allo scritto.
La scelta dello scritto, in altre parole, per valutazione normativa, porta con sé una riduzione delle forme (o tipologie) di prove utilizzabili per la ricostruzione del regolamento contrattuale: varrà unicamente la forma (o tipo) “documento”, con esclusione della forma (o tipo) “prove orali”.
La soluzione adottata dalla Convenzione di Vienna è diversa.
La seconda frase dell’art. 11, secondo cui il contratto può sempre essere provato con qualsiasi mezzo, ivi inclusa la testimonianza, esclude qualunque ipotesi di gerarchia o prevalenza (203), ed anzi istituisce una relazione di perfetta equivalenza tra le varie tipologia di prova.
Un’equivalenza che vale come regola generale, che non ammette eccezioni (nemmeno laddove si verta in tema di forma dell’atto (204)), e che pertanto non consente una distinzione tra le varie fattispecie che in concreto si possono porre, ma anzi assimila tutte le varie ipotesi possibili.
(201) La distinzione concettuale sembra in ogni caso applicabile anche oltre i confini nazionali. V. le osservazioni compiute infra con riferimento all’art. 11 della Convenzione di Vienna.
(202) V. supra, par. 14.
(203) Conferma in XXXXXXX, Contracts for the Sale of Goods, cit., p. 69.
(204) La prima frase dell’art. 11 afferma infatti che il contratto non deve essere né concluso né constatato per iscritto né sottoposto ad alcun’altra condizione formale. L’intera formulazione dell’articolo in esame permette pertanto di concludere come la distinzione tra forma dell’atto e forma della prova rappresenti un distinguo valido ed operante anche in seno alla Convenzione di Vienna. Cfr. sul punto XXXXXXX XXXXXXXXXXX, Article 11, in UN
Convention on Contracts for the International Sale of Goods (CISG), Kröll/Xxxxxxxx/Viscasillas (eds.), cit., p. 184; FERRARI, Writing requirements: Article 11 – 13, in The Draft UNCITRAL Digest, cit. p. 211; XXXXXXXX, Libertà di forma e libertà di prova nella compravendita internazionale di merci, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, p. 788.
Pertanto, nella singola ipotesi della (pretesa) esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, si tratti di patti contestuali o precedenti alla formazione del documento stesso, il documento non possiede alcuna connotazione normativa peculiare e diversa.
Il principio stabilito dall’art. 11, nella misura in cui, come visto, la Convenzione di Vienna, in quanto normativa a carattere speciale, è destinata a sostituirsi alla normativa di diritto interno, impedisce pertanto l’applicabilità della diversa regola che va sotto il nome di parol evidence rule, che invece, nell’ipotesi esemplificata, imporrebbe una gerarchia tra forme della prova, favorendo la forma documentale.
Tutto ciò non è d’ostacolo, ovviamente, a che in sede di controversia giudiziale possa essere riconosciuta al documento scritto una maggiore credibilità ed affidabilità concreta, e quindi in sede di decisione la prova documentale possa avere un peso maggiore di quella testimoniale.
La vera differenza risiede nel dato per cui la massima di esperienza, in base alla quale i contraenti che stipulano patti aggiunti o contrari a quelli che risultano dal documento, di solito si preoccupano di redigere in forma scritta anche tali ulteriori accordi (adottando una forma che, in quanto connotata da maggior certezza (205), presenta indubbiamente maggiori garanzie per le parti contraenti (206)), nel contesto della Convenzione di Vienna non è oggetto di riconoscimento normativo, differentemente da quanto avviene, come visto, nell’ordinamento italiano (207), o negli ordinamenti di common law attraverso l’elaborazione della regola che va sotto il nome di parol evidence rule (208).
La conseguenza che si trae dalle osservazioni che precedono è che, nella misura in cui le clausole d’intero accordo escludono l’utilizzabilità del materiale ermeneutico della fase prenegoziale, le stesse con ciò escludono, come anticipato, la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale, ai fini dell’individuazione del contratto.
Tali clausole integrano, pertanto, gli estremi di una deroga all’art. 11 della Convenzione di Vienna.
(205) CANDIAN, Documentazione e documento, cit., p. 589.
(206) CARNELUTTI, Documento e negozio giuridico, in Studi di diritto processuale, II, Padova, 1925 – 1939, p. 111 ss.; SCARDACCIONE, Le prove, in Giurisprudenza sistematica di dirito civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1971, p. 255 ss.
(207) Cfr. ancora PATTI, Della prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 35 –36.
(208) La svalutazione del peso attribuibile alla forma scritta, nel contesto della Convenzione di Vienna, è ricavabile anche nell’ipotesi di forma convenzionale, nel qual caso si presume si tratti di forma voluta per la prova del contratto, e non per la validità dello stesso, al contrario quindi di quanto avviene nell’ordinamento italiano. Sul punto v. XXXXXXX XXXXXXXXXXX, Article 11, cit. p. 191 – 192.
L’art. 8.3 non viene di conseguenza in gioco con riguardo alle clausole d’intero accordo (209).
L’inapplicabilità dell’art. 8, comma 3, allorquando si controverta in tema di parol evidence rule non dovrebbe sorprendere.
La parol evidence rule non ha ad oggetto, propriamente, l’interpretazione del contratto, come attribuzione di significato alle pattuizioni che compongono il regolamento contrattuale, ma riguarda unicamente la ricostruzione di tale regolamento. Per quanto si tratti di distinzione che può dar adito a difficoltà applicative, è distinzione che possiede una propria dignità concettuale (210).
Tutto ciò ovviamente non esclude che nel caso concreto, pur non essendo operante la parol evidence rule, ed anche al di là della presenza di una clausola d’intero accordo, si possa far ricorso al metodo stabilito dall’art. 8, per individuare e dimostrare l’eventuale intenzione delle parti di escludere la possibilità di ricorrere al materiale ermeneutico della fase delle negoziazioni (211).
16. La derogabilità dell’art. 11 per mezzo di una clausola d’intero accordo
Il punto è allora quello di verificare se l’articolo 11 sia derogabile per volontà delle parti.
E’ bene premettere come l’ammissibilità di una deroga alla disciplina convenzionale, attuata per mezzo di una clausola d’intero accordo, è ammessa pacificamente dalla dottrina di commento (212).
(209) Sul punto x. XXXXXXXXXX, Article 8, cit., p. 102, che, con riferimento alle entire agreement clauses, ed alla funzione dalle stesse svolta, confema a chiare lettere come “Whether such a clause is effective for this purpose does not appear to be governed by the Convention. Although Article 6 allows the parties to vary the rules of the Convention, that article does not apply where, as here, the Convention is silent”. Nello stesso senso, BRAND, XXXXXXXXX, Arbitration and Contract Formation: First Interpretations of the U.N. Sales Convention, in xxxx://xxx.xxxx.xxx.xxxx.xxx/xxxx/xxxx/xx/xxxxxxxx/xxxxxxx0.xxxx, e in Journal of Law and Commerce, 1993, p. 239 ss.; XXXXXX, The UNIDROIT Principles and CISG – Sources of Inspiration for English Courts?, in Pace International Law Review, 2007, p. 18.
(210) Concorde BONELL, The UNIDROIT Principles and CISG, cit., p. 8, nota n. 32.
(211) Cfr. CISG ADVISORY COUNCIL Opinion n. 3, cit.; XXXXXXX, Uniform Law for International Sales, cit., p. 75; BRAND, XXXXXXXXX, Arbitration and Contract Formation, cit.
(212) X. XXXXXXX, Guide to practical applications of the United Nations convention on contracts for the international sale of goods, Deventer, 1989, p. 125; WINSHIP, Domesticating International Commercial Law: Revising U.C.C. Article 2 in Light of the
Ed anche in giurisprudenza non sono mancate pronunce che hanno suggerito l’opportunità di inserire una clausola del tipo di quella in esame, al fine di evitare il ricorso al materiale estrinseco proprio della fase negoziale (213).
Tuttavia, la maggior parte dei commenti, in conseguenza della premessa secondo cui esisterebbe, come visto, un diretto collegamento tra la parol evidence rule e l’art. 8, fa discendere l’ammissibilità delle clausole d’intero accordo dalla derogabilità del comma 3 di tale articolo (214).
Il diverso orientamento – cui chi scrive ritiene di poter aderire, seppure con le precisazioni formulate nel testo – che ricollega la regola in esame all’art. 11, impone tuttavia di valutare la circostanza alla luce proprio di quest’ultimo articolo (215).
Si tratta, in ogni caso, di semplice diversità di metodo: anche l’art. 11 è da considerarsi norma a carattere dispositivo, e perciò pienamente derogabile. L’appiglio normativo è fornito dall’art. 6 della Convenzione, che afferma che, oltre a poter escludere l’applicazione di tutta la normativa convenzionale, le parti possono anche derogare a singole disposizioni contenute nella Convenzione (216).
United Nations Sales Convention, in Loyola Law Review, 1991 – 1992, p. 43 ss., nonché in xxxx://xxx.xxxx.xxx.xxx.xxx/xxxx/xxxxxx/xxxxxxx0.xxxx.
(213) L’indicazione è presente in MCC-Marble Ceramic Center, Inc. v. Ceramica Nuova D’Xxxxxxxx, S.p.A.,
(214) In aggiunta agli autori citati nelle note precedenti, x. XXXXXXX-XXXXXX, Article
8, cit., p. 126; AUDIT, La vente internationale de merchandise, cit., p. 43, nota n. 3.
(215) Evidenzia come l’ammissibilità di una clausola d’intero accordo non vada in realtà valutata alla luce dell’art. 8 anche XXXXXXXXXX, Article 8, cit., p. 102.
(216) Cfr. XXXXXX, Article 11, in Xxxxxx, Xxxxxx, Commentary on the International
Sales Law, cit., p. 123; SCHLECHTRIEM, XXXXXXX-XXXXXX, Article 11, in Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods (CISG), Schlechtriem/Xxxxxxxxx (eds.), cit., p. 212; DEL DUCA, Implementation of Contract Formation Statute of Frauds, Parol Evidence, and Battle of Forms CISG Provisions in Civil and Common Law Countries, in Journal of Law and Commerce, 2005, p. 137, rinvenibile anche in xxxx://xxx.xxxx.xxx.xxxx.xxx/xxxx/xxxxxx/xxxxxxx0.xxxx; SCHLECHTRIEM, XXXXXX, UN Law on International Xxxxx, xxx., x. 00; FERRARI, Writing requirements: Article 11 – 13, in The Draft UNCITRAL Digest, cit. p. 211; BONELL, La formazione del contratto, in La vendita internazionale: la convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980: atti del convegno di X. Xxxxxxxxxx Xxxxxx (26-28 settembre 1980), Milano, 1981, p. 123 ss.; XXXXXX, CZERWENKA, Internationales Kaufrecht: Kommentar zu dem Übereinkommen der Vereiten Nationen vom 11 April 1980 über Verträge über den Xxxxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, p. 67; KAROLLUS, UN-Kaufrecht. Eine systematische Darstellung für Studium und Praxis, New York, 1991, p. 107 ss.; WEY, Der Vertragsabschluss beim Internationalen Warenkauf nach UNCITRAL und schweizerischem Recht, Basel, 1984, p. 423.
Deve pertanto fornirsi risposta affermativa al quesito in esame, e ritenere che le entire agreement clauses integrino gli estremi di una valida deroga alla disciplina convenzionale, anche allorché si reputi applicabile l’art. 11 (217).
17. Le clausole d’intero accordo e i Principi Unidroit
Un esplicito riconoscimento normativo delle entire agreement clauses
è contenuto nei Principi Unidroit.
In particolare, l’art. 2.1.17 stabilisce espressamente che “Un contratto scritto contenente una clausola che indica che il documento comprende interamente tutte le condizioni dell’accordo non può essere contraddetto o integrato attraverso la prova di precedenti dichiarazioni o accordi. Tuttavia, tali dichiarazioni o accordi possono essere usati per interpretare il testo scritto” (218).
La formulazione dell’articolo conferma con immediata evidenza la funzione svolta da tali clausole nel contesto del commercio internazionale, vale a dire quella di escludere la possibilità di ricorrere al materiale ermeneutico antecedente alla conclusione del contratto, al fine di individuare patti aggiunti o contrari al contenuto del documento, e la piena utilizzabilità invece di tale materiale a fini ermeneutici.
La menzione appare significativa, se si considera che i Principi Unidroit, tra le molteplici funzioni che si prestano a svolgere, rappresentano anche uno strumento di ricognizione della prassi contrattuale e degli usi del commercio internazionale (219).
Il riferimento alle clausole d’intero accordo conferma pertanto l’ampio margine di diffusione di tali clausole, nonché il significativo livello di standardizzazione, quanto alla funzione che le stesse si prestano a svolgere.
(217) Xxxxxx inserirsi in questo filone interpretativo anche XXXXXXX, Uniform Law for International Sales, cit., p. 165.
(218) La rubrica della versione italiana dell’articolo in esame parla di “Clausole di completezza del documento”. La versione inglese parla, esplicitamente, di “Merger clauses”.
(219) Come evidenziato in dottrina, MARRELLA, La nuova lex mercatria, principi Unidroit ed usi del commercio internazionale, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto
da Xxxxxxx, Padova, 2003, p. 276 ss., e rilevato in diverse pronunce arbitrali: cfr., ad es., Lodo CCI, del novembre 1996, n. 8502, in xxxx://xxx.xxxxxx.xxxx/xxxx.xxx?xxx000; Corte Arbitrale Internazionale della Camera del Commercio e dell’industria della Federazione Russa, 5 giugno 1997, n. 229/1996, xxxx://xxx.xxxxxx.xxxx/xxxx. cfm?id=669;
CAPITOLO TERZO
LE CLAUSOLE DI NON MODIFICAZIONE ORALE O
clausole NOM (no oral modification)
SOMMARIO: 1. Origine e funzione delle clausole NOM. – 2. Profili di continuità con le clausole d’intero accordo (zipper clauses). – 3. Le clausole NOM come accordi sulla forma di futuri contratti, ex art. 1352 c.c. – 4. Le clausole NOM come clausole sulla forma della prova: la derogabilità dell’art. 2723 c.c. – 5. Le clausole NOM e l’ordinamento statunitense: la regola generale di common law; – 6. (segue) le eccezioni legislative; – 7. (segue) e i diversi e non coerenti orientamenti di dottrina e giurisprudenza.
1. Origine e funzione delle clausole NOM
Un altro tipo di clausola che viene in rilievo è la clausole NOM, o clausola di non modificazione orale (no-oral modification clause, all’inglese (220); la prassi contrattuale ha rivelato l’utilizzo anche di espressioni equivalenti come no oral amendment clause, written modification clause, no oral variations clause).
Si tratta di clausole per mezzo delle quali le parti, a fronte dell’eventualità in cui, a seguito della stipulazione del contratto, si avverta l’esigenza di modificare, od ampliare, il contenuto dello stesso, stabiliscono che tutti gli eventuali emendamenti possano apportati soltanto per mezzo di accordi scritti.
Eccone alcuni esempi:
(220) L’espressione è presente anche nel Black’s Law Dictionary, che definisce la no- oral modification clause come “A contractual provision stating that the parties cannot make any oral modifications or alterations to the agreement”.
“Amendements
No amendment or other variation of the Contract shall be effective unless it is in writing, is dated, expressly refers to the Contract, and is signed by a duly authorized representative of each party hereto”
“Modifications
Toute modification de la présente Convention et de tout autre document s’y rattachant devra faire l’objet d’un accord écrit des parties” (221)
Si è visto in precedenza come le clausole d’intero accordo valgano ad escludere unicamente l’incidenza del materiale afferente alla fase delle negoziazioni, mentre le stesse nulla dicono in merito a futuri comportamenti o dichiarazioni, successivi alla stipulazione del contratto (222).
A questi fini intervengono le clausole NOM, le quali mirano a ridurre il più possibile l’incidenza di fatti o atti ascrivibili ad un momento successivo alla conclusione dell’accordo, subordinando l’ammissibilità di accordi di
modifica, od integrazione del testo, al rispetto del requisito della forma scritta (223).
Anche le clausole NOM derivano dalla tradizione giuridica dei paesi di common law, ed in particolare dalla prassi negoziale di matrice statunitense.
L’indagine ha rivelato come in origine l’adozione delle clausole di non modificazione orale si sia resa necessaria al fine di garantire una maggiore tenuta del testo scritto, proteggendolo dal rischio di comportamenti successivi, come il ricorso a false o erronee testimonianze, in grado di incidere sul testo del contratto, alterandolo o ampliandone il contenuto (224).
(221) Traggo gli esempi da XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 211, 212, ed in nota n. 121. Nella dottrina nostrana, dà atto della prassi di inserire nel contratto clausole con cui le parti richiedono la forma scritta per eventuali futuri accordi di modifica od integrazione del testo, PATTI, Della prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 36.
(222) X. XXXXX, Interpretation clauses, cit., p. 55.
(223) Xxx XXXXX, Interpretation clauses, cit., p. 56, le clausole NOM servono a soddisfare una duplice esigenza, vale a dire a) poter tenere sotto controllo e registrare future modifiche al contratto, e b) limitare il rischio che comportamenti successivi delle parti possano inavvertitamente configurare una modifica del regolamento contrattuale.
(224) Riferisce dell’origine delle clausole di non modificazione orale XXXXXX, Xxxxxx on Contracts, One Volume Edition, 0000, Xx. Xxxx, 1966, p. 1065 – 1066: “The purpose of such a provision as this is to give added protection against fraudolent or mistaken oral
2. Profili di continuità con le clausole d’intero accordo (zipper clauses)
Le clausole di non modificazione orale rispondono a ben vedere ad un’esigenza non diversa da quella che le clausole d’intero accordo mirano a soddisfare, vale a dire la necessità di far coincidere il più possibile l’intera disciplina dell’accordo con il regolamento ricavabile dal testo contrattuale, rendendo in tal modo il contratto tendenzialmente autonomo ed autoreferenziale (225).
Il rapporto di continuità tra i due tipi di clausola è del resto confermato dalla stessa prassi contrattuale, che rivela la presenza di clausole in cui i due tipi di pattuizioni sono menzionati congiuntamente. Eccone qualche esempio:
“This Agreement contains the entire agreement between the parties and cannot be altered or amended unless by mutual consent and in writing. Any alterations or amendments agreed
testimony as to transactions subsequent to the written contract and affecting the rights of the parties that are created by it”. L’a. ha modo di evidenziare la linea di continuità esistente tra le clausole di non modificazione orale e lo Statute of Frauds inglese del 1677. L’adozione dello Statute of Frauds è derivata storicamente dalla necessità di prevenire il rischio di false testimonianze relative a contratti verbali, di cui una parte poteva assumere in giudizio l’avvenuta stipulazione. Di conseguenza, lo Statute introduceva disposizioni che prevedevano il necessario ricorso alla forma scritta per una serie di contratti, espressamente indicati. La norma legislativa, tuttavia, il più delle volte non risultava applicabile ai casi in cui una parte assumesse l’avvenuta stipulazione orale di accordi successivi, aventi ad oggetto la modifica di un contratto concluso in precedenza. Di qui la prassi di inserire nei contratti scritti clausole che in qualche modo estendessero l’ambito di applicazione dello Statute of Frauds anche a tali accordi successivi, richiedendo l’adozione della forma scritta per qualunque futura modificazione del regolamento contrattuale. Si comprende pertanto come, in tal modo, le clausole di non modificazione orale siano state definite come un esempio di private statute of frauds, come riferisce XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 437. Eco dell’origine e funzione delle clausole in esame è rinvenibile anche in alcune sentenze statunitensi: si veda in proposito Wisconsin Knife Works v. National Metal Crafters (analizzata più in dettaglio infra), dove il giudice Xxxxxxxxxxx, nella redazione della sua dissenting opinion, ha avuto modo di evidenziare che la principale funzione delle clausole di non modificazione orale è di “make it easier for businesses to protect their agreement against casual subsequent remarks and manufactured assertions of alteration”. E di private statute of frauds parla anche il giudice Xxxxxxxx in Green Construction Co. v. First Indem. of Am. Ins. Co., 735 F. Supp. 1259 (1990), nonché, in dottrina, XXXXXX, Modification of Sales Contracts Under the Uniform Commercial Code: Section 2-209 Reconsidered, in Tenn. Law Rev., 1990, p. 412.
(225) Cfr. XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 210 –
211.
upon between the parties shall stipulate the date as from which they become effective” (226)
“This Agreement, including its Schedules, sets out the entire agreement between the Parties [relating to its subject matter].
It supersedes all prior oral or written agreements, arrangements or understandings between them [relating to such subject matter]
The Parties acknowledge that they are not relying on any representation, agreement, term or condition which is not set out in this Agreement.
To be legally binding, any amendment to this Agreement must be in writing signed by authorised representatives of the Parties” (227)
Le considerazioni svolte in merito alle clausole d’intero accordo (228), per cui le stesse si configurano come pattuizioni sulla forma dell’accordo, e non semplicemente sulla forma della prova, possono essere ribadite anche con riferimento alle clausole di non modificazione orale.
Anche le clausole in esame, infatti, stabiliscono un requisito di forma degli accordi di modifica od integrazione del testo scritto (che per l’appunto saranno validamente conclusi solo se espressi in forma scritta).
Nella misura in cui le clausole NOM subordinano la modifica od integrazione del contratto ad un futuro accordo tra le parti, prescrivendo la forma di tale futuro accordo, le stesse sono pertanto riconducibili all’art. 1352 c.c., che come noto riconosce la validità dei patti con cui le parti convengono l’adozione della forma scritta per la conclusione di futuri accordi (229).
(226) Ancora XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p.
212. Si tratta di un tipo di pattuizione che, con espressione assai suggestiva, è stata definita “zipper clause”: ne riferisce XXXXXXXXXX, The Interpretation of International, cit., p. 275, che evidenzia come l’espressione si giustifichi in quanto si tratta di pattuizione che, nella misura in cui contiene sia una clausola d’intero accordo che una clausola di non modificazione orale, tenta di assicurare l’integrità del testo, escludendo materiale estrinseco sia precedente che successivo al perfezionamento dell’accordo; l’espressione è presente anche nella giurisprudenza statunitense, come riferisce lo stesso XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 436, nota n. 5.
(227) Quest’ulteriore esempio è in XXXXXXXX, Drafting and Negotiating Commercial Contracts, London/Edinburgh/Dublin, 1997, p. 86.
(228) X. xxxxx, xxx. 0, xxx. 12.
(229) Sul tema rinvio in generale al testo di XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit.; ma
v. pure DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma e accordi sulla “documentazione”, cit., p. 91 ss.; XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale. Disposizioni preliminari – Dei requisiti del
La dottrina di commento all’articolo non ha mancato di evidenziare le finalità che soggiacciono all’adozione del patto sulla forma di futuri accordi.
Nella misura infatti in cui le parti intendono individuare il regolamento contrattuale, circoscrivendolo a quello che risulterà dal testo scritto, anzitutto le parti intanto ciò fanno in quanto, attraverso tale tipo di pattuizione, le stesse intendono individuare in anticipo un criterio per la soluzione di eventuali future controversie che tra le stesse dovessero insorgere (230).
La pattuizione sulla forma di futuri accordi sembra inoltre possedere specifico rilievo anche prima, ed indipendentemente, da un’effettiva lite giudiziaria.
Non è mancato infatti chi ha evidenziato come, introducendo un requisito di forma, le parti intendano assicurare, nella misura più ampia possibile, la certezza dei rapporti giuridici (231) e scoraggiare così il più possibile l’adozione di comportamenti fraudolenti, successivi alla conclusione del contratto, con cui una delle parti intenda dimostrare l’esistenza di pattuizioni ulteriori, non ricavabili in realtà da alcun testo scritto adottato da entrambe le parti. Gli accordi sulla forma volontaria sono volti pertanto anche a ridurre il rischio di liti giudiziarie in merito all’esatta individuazione delle reciproche obbligazioni contrattuali (232).
contratto. Art. 1321 – 1352, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, diretto da Xxxxxxx, Bologna – Roma, 1970, p. 449 ss.; SACCO, Il contratto, Tomo I, in Trattato di Diritto civile, cit., p. 713 ss.; MOSCATI, La forma del contratto, ne Il contratto in generale, Vol. III, tomo II, diretto da Lipari e Xxxxxxxx, Milano, 2009, p. 376 ss.; XXXXXXXXXXX, Questioni irrisolte intorno ai patti sulla forma di futuri contratti, in Riv. dir. civ., 2004, p. 241 ss.; XXXXXXXXXXX, Spunti sul vecchio e nuovo formalismo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 421 ss.; XXXXXXX, Sulla riduttiva considerazione della forma convenzionale ex art. 1352 c.c., in Giust. civ., 1999, p. 175 ss.; XXXXXXXX, Le forme negoziali fra tradizione civilistica e nuove prospettive, in Studium iuris, 2009, p. 762 ss.; IRTI, Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997; PERLINGIERI, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Camerino-Napoli, 1987, p. 137 ss.
(230) Tant’è che, con riferimento agli accordi sulla forma, GENOVESE, Le forme
volontarie, cit., p. 10 ss., afferma che “la facoltà di scelta attribuita ai singoli … soddisfa la funzione di disciplinare, attraverso la forma, i conflitti di interesse insorti fra i contraenti … il formalismo volontario serve a comporre gli interessi particolari dei soggetti, integrando quella che è la vera e propria disciplina negoziale, conciliatrice degli interessi concreti, opposti o paralleli”.
(231) L’osservazione è presente, ad es., in DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., p.
98.
(232) E’ utile riportare a questo proposito quanto affermato da XXXXXXXX, Le forme
volontarie, cit., p. 71 e 72: “il privato…quando si decide a stipulare un contratto, pur prevedendo, da uomo esperto, la possibilità di future contestazioni giudiziarie…crede che il
In quanto esempio di accordi sulla forma dell’atto, anche le clausole di non modificazione orale si dimostrano finalizzate a perseguire le finalità appena riferite, entro l’ordinamento italiano (233).
3. Le clausole NOM come accordi sulla forma di futuri contratti, ex art. 1352 c.c.
Un problema che le clausole NOM hanno sollevato nell’ordinamento statunitense (ordinamento d’origine della clausola (234)) è rappresentato dalla necessità di fornire un corretto inquadramento normativo, individuandone le conseguenze sul piano giuridico, dell’eventualità in cui le parti decidano di concludere l’accordo, cui il patto sulla forma si riferisce, in modalità diverse da quella scritta.
La giurisprudenza italiana maggioritaria (235) ha interpretato il successivo comportamento, non conforme alle prescrizioni sulla forma (236), come “revoca” tacita del patto sulla forma (ciò che dovrebbe forse più precisamente definirsi come rinuncia consensuale o mutuo dissenso (237)), ed
contratto avrà buon fine e che la controparte farà onore alla propria firma. Nel momento della conclusione, la eventualità di liti future è remota dall’animo dei paciscenti, mentre molto più prossima è la convinzione che l’esecuzione avverrà senza coazione e spontaneamente. Ma anche la buona volontà va aiutata: ed ecco che il documento rappresentando durevolmente e in modo preciso i termini della pattuizione, si rivela uno strumento prezioso di sicurezza e tranquillità. Pertanto, agli occhi del privato…la funzione extraprocessuale della prova assume rilievo maggiore, poiché, se la prova in giudizio salva il diritto, la prova stessa, prima del processo, salva il privato dalle liti…lo scopo ultimo del contraente, quando predispone convenzionalmente una forma probatoria, è quello di ottenere entrambi i benefici descritti”.
(233) Le clausole NOM in tal modo svolgono nel nostro ordinamento la medesima funzione svolta nell’ordinamento statunitense, ordinamento come visto da cui le stesse
traggono d’origine: su punto v. infra.
(234) V. infra.
(235) Cass. civ., 9 febbraio 1982, n. 766, in Mass. Giust. civ., 1982; Cass. civ., 6 novembre 1982, n. 5839, in Mass. Giust. civ., 1982; Cass. civ., 22 gennaio 1988, n. 499, in Mass. Giust. civ., 1988; Cass. civ., 24 giugno 1997, n. 5639, in Giur. it., 1998, p. 426; Cass. civ., 5 ottobre 2000, n. 13277, in Nuova giur. civ. comm., 2001, p. 163; Cass. civ., 22 agosto 2003, n. 12344, in Mass. Giust. civ., 2003.
(236) Ciò che XXXXX, Il contratto, cit., p. 720, chiama “contratto amorfo”.
(237) Dal momento che la revoca ha natura di atto unilaterale, come avverte XXXXXXXX, Le forme negoziali, cit., p. 771, che sul punto richiama anche XXXXXXXX, voce Revoca, in Dig. disc. priv., XVII, Torino, p. 443. L’espressione corretta è presente in Cass. civ., 14 aprile 2000, n. 4861, in Contratti, 2000, p. 873 ss., con nota di NATALE, La rinunzia alla forma convenzionale.
attraverso l’adozione di tale tipo di soluzione ha stabilito l’ammissibilità di comportamenti idonei ad integrare gli estremi di una modifica, pur se non preceduti, o sostenuti, da una corrispondente dichiarazione consensuale in forma scritta (238).
Si tratta di sentenze che individuano nel comportamento difforme una rinuncia implicita al requisito della forma scritta, e confermano quanto sostenuto da quell’orientamento dottrinario, secondo cui gli accordi sulla forma non rappresentano una rinuncia vincolante all’autonomia contrattuale, e quindi un impedimento per entrambe le parti all’eventuale modifica successiva dello stesso patto sulla forma, ma rappresentano unicamente un limite alla possibilità di modifica unilaterale del contratto ad opera di una sola delle parti (239).
Non sono mancate, in ogni caso, pronunce di segno diverso: in un caso (240) si è ad esempio sostenuta la necessità che il patto abrogativo del requisito della forma abbia, anch’esso, forma scritta, con ciò pertanto sostenendo l’estensione del vincolo di forma anche ai patti che implicano al rinuncia all’accordo sulla forma scritta per gli accordi futuri.
La pronuncia si pone in linea con quell’autorevole orientamento dottrinario (241) che ha affermato la necessità che anche il patto abrogativo sia stipulato in forma scritta.
Il fondamento dell’opinione risiede nella considerazione per cui, laddove si dovesse ammettere la possibilità di una rinuncia per fatti concludenti, si dovrebbe di conseguenza ammettere l’ammissibilità in giudizio di prove, diverse dalla prova documentale (ad esempio, la testimonianza) che, indispensabili per la prova di contegni non verbali, rappresentano al tempo stesso proprio quei mezzi di prova che le parti intendevano escludere, per mezzo della clausola sulla forma del futuro accordo (242).
(238) E’ necessaria e sufficiente la presenza di atti di per sé inconciliabili con la volontà di mantenere in vita la clausola sulla forma, come afferma ad esempio Cass. civ., 5 ottobre 2000, n. 13277, cit.
(239) Il riferimento va qui a GENOVESE, Le forme volontarie, cit., p. 13, 154, 155, 158, 175.
(240) Mi riferisco a Cass. civ., 14 aprile 2000, n. 4861, cit.
(241) XXXXX, Il contratto, cit., p. 720. Sembra manifestare la propria adesione a tale orientamento, PARENTI, Sulla riduttiva considerazione della forma convenzionale, cit., p. 184.
(242) A mio modo di vedere, l’orientamento riportato intercetta una parte delle
questioni che in concreto si possono porre, con riferimento all’ammissibilità di una rinuncia al patto per fatti concludenti. Volendo tralasciare il rilievo già più squisitamente normativo,
La dottrina maggioritaria, forse a fronte della difficoltà di individuare una sicura configurazione giuridica delle conseguenze derivanti dal mancato ossequio della forma convenzionale (243)(244), ha dimostrato maggior disarmonia rispetto al formante giurisprudenziale.
In aggiunta all’orientamento appena riportato, è infatti da menzionare la diversa opinione, per così dire mediana, di chi ha ritenuto ammissibile le revoca tacita, purché risulti provata la consapevolezza delle parti della rinuncia al requisito formale, pena il rischio di non poter distinguere la configurazione di un nuovo accordo dall’inadempimento del precedente patto sulla forma (245).
per cui un tale tipo di teoria finisce con l’introdurre una riduzione, forse non del tutto giustificata, dell’autonomia contrattuale, per cui le parti resterebbero vincolate agli obblighi di forma precedentemente adottati, vale il rilievo secondo cui, ammettendo la vincolatività definitiva del patto sulla forma, si introdurrebbe un diverso rischio, consistente nella possibilità per ciascuna delle parti di accordare modifiche contrattuali, senza riportale per iscritto, per poi, in sede di controversia, trincerarsi dietro il patto sulla forma, per negare qualunque eventuale pretesa avversaria basata sulle modifiche acconsentite. Si tratta di un rischio concreto, che è stato ben individuato dalla giurisprudenza statunitense, e che è tale da giustificare presso l’ordinamento statunitense la piena modificabilità degli accordi sulla forma, forse in maniera ancora più incisiva di quanto non sia in grado di fare il necessario ossequio al principio dell’autonomia contrattuale, anch’esso pienamente rispettato presso tale ordinamento, e richiamato nel case-law di riferimento. Sul punto rinvio a quanto riportato infra, nonché a WESTLY, No Oral Amendments Clauses, cit. infra.
(243) L’osservazione è di PARENTI, Sulla riduttiva considerazione della forma convenzionale, cit., p. 182.
(244) Il termine “validità”, che l’art. 1352 utilizza per indicare la funzione che il requisito di forma scritta si presta ad assolvere con riferimento all’accordo futuro, ha infatti
dato adito ad un esteso dibattito circa le conseguenze del mancato rispetto del vincolo di forma: vi è chi ha ritenuto acconcia la sanzione della nullità, come MESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1968,
p. 154; FRAGALI, Dei requisiti del contratto, in Commentario del codice civile, a cura di D’Xxxxxx e Xxxxx, Firenze, 1948, p. 417. C’è chi, come GIORGIANNI, Forma degli atti, in Enc. dir., X-VII, Milano, 1968, p. 1003, pur aderendo alla tesi della nullità, ha ritenuto configurabile una nullità relativa, reclamabile soltanto dalla parte interessata. Non è mancato chi, invece, ha parlato di annullabilità: PROSPERI, Forme complementari e atto recettizio, in Riv. dir. comm., 1976, p. 208 ss. O ancora chi ha parlato di semplice inefficacia: BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1984, p. 306 ss. – Verif.
(245) Cfr. CARIOTA FERRARA, La forma dei contratti ed i contratti sulle forme, in Riv.
not., 1948, p. 19 ss., p. 21 ss.; TEDESCHI, Forme volontarie nei contratti, in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxx pubblicati per il XLII anno del suo insegnamento, Messina, 1931, p. 213; CANDIAN, Documento e negozio giuridico, Xxxxx, 0000, p. 135. A questo orientamento sembra anche riconducibile SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, cit., p. 459 e 460.
Accanto a tali orientamenti, va poi collocato il diverso pensiero di chi ha ritenuto implicita la rinuncia nel successivo comportamento difforme di entrambe le parti, abdicando conseguentemente alla necessità della prova ulteriore di una qualche forma di consapevolezza delle parti circa tale rinuncia (246).
L’opinione che richiede il rispetto della forma scritta anche per l’accordo di rinuncia al patto sulla forma individua già la tipologia (unica) di comportamenti idonei a configurare una valida rinuncia.
L’adesione ad uno dei due ulteriori e differenti orientamenti riportati
(247) impone invece anche la verifica di quali comportamenti concreti siano idonei a configurare siffatta valida rinuncia.
Quanto alle modalità della rinuncia consensuale al requisito della forma scritta, in dottrina si è ammessa la piena libertà di forme, e quindi si è ritenuta pienamente ammissibile una rinuncia che avvenga in forma scritta oppure in forma orale, o ancora in forma tacita, vale a dire per fatti concludenti (248).
Quanto alla tipologia dei comportamenti concludenti che siano idonei ad integrare gli estremi di un accordo di modifica, non sembrano esserci dubbi che una difforme esecuzione delle prestazioni ad opera di entrambe le parti valga a questi fini, al pari dell’esecuzione difforme ad opera di una sola delle parti, che venga accettata senza riserve ad opera della controparte (249).
Viene da chiedersi se l’esecuzione di una prestazione in modo difforme, che sia semplicemente tollerata dalla controparte, sia idonea ad integrare gli estremi di un accordo di modifica.
Chi ha da vicino, ed a più riprese, analizzato il tema ha fornito risposta negativa (250).
(246) X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., p. 161 ss.; MOSSA, La documentazione del contenuto contrattuale, in Riv. dir. comm., 1919, p. 435 ss.
(247) Le considerazioni espresse in precedenza impongono a chi scrive di aderire al diverso orientamento che ammette la deroga per fatti concludenti: in particolare, all’orientamento secondo cui, a fronte di comportamenti difformi, occorre effettuare una
verifica caso per caso, ed accertare la presenza di un consapevole, anche se “muto”, abbandono del requisito formale ad opera delle parti. Mi sembra, infatti, che un metodo siffatto dia meglio conto della realtà della prassi, e consenta di salvaguardare l’autonomia contrattuale, da un lato, e dall’altro introduce un criterio che consente di distinguere i casi di inadempimento all’obbligo contrattuale originario da quelli di modifica consensuale.
(248) XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., p. 163.
(249) Cfr. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., p. 163.
(250) Mi riferisco a PATTI, voce Tolleranza, in Enc. dir., XLIV, p. 701 ss.; ID., Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978; ID., Della prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 50; v. pure SICCHIERO, voce Tolleranza, in Dig. disc. priv., p. 373 ss.
E’ necessaria una distinzione terminologica: il termine tolleranza è giuridicamente ricollegato alla mancata reazione del creditore, di fronte all’inadempimento, o inesatto adempimento, della controparte alle proprie obbligazioni contrattuali (251).
Si tratta di atteggiamento di “sopportazione” che tuttavia non vale ad integrare gli estremi di una dichiarazione di consenso contrattuale, idonea ad integrare gli estremi di un accordo di modifica.
In tale ultimo caso si parla infatti di acquiescenza (252), o rinunzia tacita (253), che si verifica ogniqualvolta l’atteggiamento passivo del creditore implichi anche la volontà di accettare l’imperfetta, o mancata, esecuzione della prestazione da parte del debitore.
La tolleranza si risolve invece in un atteggiamento passivo che non implica alcuna accettazione, ma che cionondimeno è in grado di ingenerare nella controparte un affidamento meritevole di tutela.
La necessaria valutazione dei comportamenti delle parti alla stregua del canone di buona fede e correttezza (di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.) impedisce allora al creditore di avanzare una pretesa (ad esempio, risarcitoria) che contrasti con la propria precedente tolleranza, e con l’affidamento in tal modo ingenerato in capo al debitore.
Sul tema la giurisprudenza ha fornito indicazioni non sempre univoche.
Diverse sentenze in materia di adempimento tardivo hanno infatti ritenuto che la tolleranza abituale sia idonea a configurare gli estremi di una vera e propria modifica del regolamento contrattuale, con riferimento ad esempio ai casi di mancato rispetto del termine in precedenza stabilito per l’adempimento (254).
Non sono mancate, in ogni caso, sentenze che hanno fornito una qualificazione della tolleranza in adesione all’orientamento dottrinale richiamato, affermando come la singola tolleranza non sia in grado di
(251) PATTI, voce Tolleranza, cit. p. 706.
(252) Xx xxx XXXXX, voce Acquiescenza, I): Diritto civile, in Enc. giur. 1988.
(253) PATTI, Profili della tolleranza, cit., p. 51 ss.
(254) Cass. civ., 7 aprile 1972, n. 1035, in Foro it., 1972, p. 2863 ss., nonché in Giur. it., 1975, p. 795 ss., con nota di XXXXXXXX, Scadenza del termine, tolleranza e dilazione da parte del creditore: «mora debendi» ed eccezione di inadempimento; Trib. Milano, 11 marzo 1976, in Giur. it., 1976, p. 497 ss.
configurare gli estremi di una modifica contrattuale (255), ed impedisca ulteriormente anche il ricorso alla clausola risolutiva espressa (256).
4. Le clausole NOM come clausole sulla forma della prova: la derogabilità dell’art. 2723 c.c.
Le clausole di non modificazione orale rappresentano, come visto, un esempio di accordo sulla forma di futuri accordi: la qualificazione trascina allora con sé tutte le osservazioni già proposte con riferimento alle clausole d’intero accordo ed alla forma dei contratti.
Anche per mezzo delle clausole in esame le parti individuano un requisito di forma del consenso circa futuri eventuali accordi di modifica, od integrazione, del testo.
In quanto accordi sulla forma dell’atto, le stesse configurano pertanto anche un esempio di accordo sulla forma della prova.
Per il caso in cui il diritto applicabile al contratto sia rappresentato dalla legge italiana, le clausole NOM si pongono in diretta correlazione con l’art. 2723 c.c.
Come noto, l’articolo consente l’ammissibilità della prova testimoniale avente ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, qualora appaia verosimile, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni circostanza, che, successivamente alla formazione del documento, siano state fatte aggiunte o modifiche verbali.
Differentemente dall’ipotesi presa in considerazione dall’art. 2722 c.c., in questo caso il legislatore ha ammesso la possibilità della prova testimoniale, in quanto l’eventualità di accordi orali successivi, di modifica od integrazione del contratto, appare meno lontana dalla realtà, rispetto a quella di accordi contestuali o antecedenti alla formazione del documento contrattuale (257).
Per patti aggiunti al contenuto di un documento devono intendersi i patti che ampliano il contenuto di un documento, introducendo elementi ulteriori non ricavabili dal testo, laddove invece per patti contrari al contenuto di un documento si intendono le pattuizioni che si pongono in relazione di
(255) X. Xxxx. civ., 21 ottobre 1954, n. 3975, in Giur. it., 1956, p. 174 ss., con nota di XXXXX, In tema di «patientia» del creditore.
(256) Cfr. Cass. civ., 24 luglio 1971, n. 2460, in Rep. Giur. it., 1971, voce
Obbligazioni e contratti.
(257) Cfr. XXXXX, Xxxxx prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 49.
contraddittorietà con il contenuto del documento, mirando a modificare o eludere una o più clausole risultanti dal documento contrattuale (258).
Ebbene, nella misura in cui le clausole NOM limitano le prove utilizzabili, circoscrivendole unicamente a quella documentale, le stesse escludono di conseguenza la possibilità di far ricorso a prove costituende come, per l’appunto, la prova testimoniale.
Le clausole in esame, pertanto, configurano un’ipotesi di deroga al disposto di cui all’art. 2723 c.c.
La piena derogabilità della norma in parola ha trovato conforto nella dottrina nostrana, che ha posto in evidenza come la norma sia, in ogni caso, posta a salvaguardia di interessi privati, e come tale dalle parti private pienamente derogabile (259).
Anche sotto tale profilo, pertanto, le clausole NOM risultano valide ed efficaci, nel caso in cui al contratto risulti applicabile la legge italiana.
5. Le clausole NOM e l’ordinamento statunitense: la regola generale di
common law;
Si è avuto modo di evidenziare come l’origine delle clausole NOM vada ricercata, al pari di molte altre clausole sull’interpretazione, negli ordinamenti di common law: l’efficacia di tale pattuizione deve pertanto essere esaminata, in particolare e prima di tutto, alla luce dell’ordinamento statunitense (260).
Il margine di efficacia di una clausola di non modificazione orale in tale ordinamento sembra in verità alquanto limitato: vale infatti la regola generale di common law, secondo cui le parti, nell’esercizio dell’autonomia
(258) In questi termini, XXXXX, Della prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 39, e giurisprudenza ivi citata alla nota n. 3.
(259) Cfr. XXXXXXX, Il regime convenzionale, cit., p. 178. Cfr. anche XXXXX, Della prova testimoniale. Delle presunzioni, cit., p. 49, il quale, con riferimento agli accordi di parte, prende in considerazione gli accordi imitativi dei mezzi di prova, che sarebbero validi nei limiti di ammissibilità sanciti dall’art. 2698 c.c.
(260) Anche l’origine delle clausole di non modificazione orale, al pari delle clausole d’intero accordo, sembra infatti rinvenibile nell’ordinamento statunitense, come riferisce
WESTLY, No Oral Amendments Clauses, p. 4, rinvenibile al seguente indirizzo internet: xxxx://xxx.xxx.xxx.xx/xxx/xxxxxxx/xxxxxxxx/xxxxxxxx/xxxxx/xxxxxx/xxxxxx_xxxxxxxx.xxx .
contrattuale, sono pienamente libere di modificare il contratto, anche in un momento successivo alla stipulazione dello stesso (261).
Ed anche la dottrina non ha mancato di evidenziare come il limite di efficacia delle clausole di non modificazione orale risieda proprio nell’irrinunciabilità dell’autonomia contrattuale riconosciuta alle parti private (262).
La piena modificabilità dell’accordo si estende pertanto con riferimento a qualsiasi pattuizione contrattuale, e quindi anche con riferimento alle clausole del contratto che stabiliscano la non modificabilità orale del testo scritto (263).
Una disamina della casistica giurisprudenziale permette di identificare i casi in cui, per diritto statunitense, può parlarsi di valida modificazione del contratto: 1) modifica espressa, sia essa verbale o scritta (264); 2) modifica per fatti concludenti, ovverosia contegno di entrambe le parti che si riveli idoneo ad integrare gli estremi di una modifica contrattuale (265); 3) esecuzione del contratto ad opera di una delle parti in maniera difforme da quanto originariamente previsto, cui l’altra parte presti la propria acquiescenza (266).
(261) In Xxxxxx x. Xxxxxxxx, 136 A 2d 82, 83-84 (Pa. 1957), il giudice Xxxxxxxx ha affermato che “There is nothing sacrosant about a written agreement. Granted that writing makes for specifity and clarity, reduces the chances for errors, and allows for constant reference as to what was agreed upon, it nevertheless holds no superior position over an oral compact in the realm of authoritative utternaces, except where the Statute of Frauds intervenes or is invoked. The most ironclad written contract can always be cut into by the acetylene torch of parol modification supported by adequate proof…Even where the contract specifically states that no written modification will be recognized, the parties may yet alter their agreement by parol negotiation. The hand that pens a writing may not gag the mouths of the assenting parties”.
(262) Mi riferisco qui a XXXXXX, Xxxxxx on Contracts, cit., p. 1066, che afferma significativamente che “Two contractors cannot by mutual agreement limit their power to
control their legal relations by future mutual agreement”.
(263) Cfr. Xxxxxx x. Xxxxxxxxxx Exploration Co., 122 N.E. 378 (N.Y. 1919), dove il giudice Xxxxxxx ha espressamente affermato che “The clause which forbids a change, may be changed like any other”. Sul punto, cfr. anche Autotrol Corp. c. Continental Water Sys. Corp., 918 F. 2d 689 (7th Cir. 1990).
(264) In re Xxxxxx Shoes Mfg. Co., Inc., 00 X.X. 000, XXX 000 (Xxxxx. X.X. Xx. 1982); June X. Xxxxxx Interiors x. Xxxxx Carpet Corp., 142 Ill. App. 3d 100, 96 Ill. Dec. 306, 491 N. E. 2d 120, 2 UCC 2d, 74 (1986); Bone Int’l., Inc. x. Xxxxxxx, 74 N. C. App. 703, 329 S. E. 2d 714, 41 UCC 29 (1985).
(265) J. W. Xxxxxxxxx & Son x. Xxxxx, 283 Pa. Super. 148, 423 A. 2d 1032, 31 UCC 845 (1980).
(266) T. J. Xxxxxxxxx & Co., Inc., c. 81, 193 Bags of Flour, 629 F. 2d 338, 30 UCC 865 (5th Cir. 1980).
Il novero dei comportamenti idonei ad integrare gli estremi della modifica contrattuale nell’ordinamento statunitense sembra pertanto non ricomprendere anche l’ipotesi della mera tolleranza dell’altrui imperfetta, o mancata, esecuzione della prestazione, e non sembra pertanto discostarsi da quanto avviene nell’ordinamento italiano (se si eccettuano talune oscillazioni in tema di tolleranza abituale (267)).
La regola della piena modificabilità della clausola di non modificazione orale conosce tuttavia un temperamento: la migliore dottrina di commento ha infatti evidenziato come, in ogni caso, l’efficacia del successivo accordo verbale di modifica è condizionata dall’operatività del principio dell’affidamento, per cui tale modifica della clausola di non modificazione orale in tanto è valida ed efficace, in quanto le parti abbiano fatto affidamento sulla concreta operatività di tale modifica successiva (268).
6. (segue) le eccezioni legislative;
Lo statuto normativo delle clausole di non modificazione orale entro l’ordinamento statunitense si rivela, in ogni caso, non omogeneo: l’Uniform Commercial Code, alla sezione 2-209, par. 2, ha infatti codificato la prassi contrattuale che ha dato origine alle clausole NOM, riconoscendo espressamente la validità e l’efficacia di tali clausole, al punto che, in presenza delle stesse, qualunque modifica successiva al contratto risulta vincolata al rispetto della forma scritta (269).
Gli estensori del codice, tuttavia, hanno dimostrato consapevolezza della regola generale di common law (270), secondo cui, come visto, la successiva modifica verbale è in ogni caso efficace nel caso in cui le parti facciano concreto affidamento su tale modifica successiva, ed hanno pertanto introdotto un lieve temperamento alla piena operatività della clausola di non
(267) V. supra, sub par. 3.
(268) Il riferimento va a XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 437, che ha modo di evidenziare come “The cases that have proclaimed the ineffectiveness of no-oral- modification clauses…, without regard to reliance, fall short of holding that absent reliance an oral modification is enforceable in the face of such a clause, and are contradicted by sound authority”.
(269) La disposizione recita come segue: “An agreement in a signed record which
excludes modification or rescission except by a signed record may not be otherwise modified or rescinded, but except as between merchants such a requirement in a form supplied by the merchant must be separately signed by the other party”.
(270) L’osservazione è di XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 438.
modificazione orale: il par. 4 della sezione 2-209 ammette infatti la possibilità che il contegno successivo alla stipulazione del contratto, pur se non idoneo ad integrare gli estremi di una vera e propria modifica consensuale, possa ciononostante valere come rinuncia (waiver) alla clausola di non modificazione orale (271).
Al fine di una corretta comprensione dell’estensione del temperamento di cui si parla, val la pena evidenziare, come ha fatto la dottrina di commento (272), come in ogni caso il termine waiver indichi esclusivamente la rinuncia ad una condizione sospensiva di una prestazione contrattuale, condizione che sia posta a favore della parte che esprime la rinuncia, e non vale invece come rinuncia alla prestazione prevista dal contratto (273).
E’ pertanto entro tale limite che va apprezzata la deroga alla piena efficacia delle clausola di non modificazione orale, ovverosia, è solo con riferimento ad una rinuncia unilaterale ad una condizione sospensiva che il requisito della forma scritta può non essere rispettato.
7. (segue) e i diversi e non coerenti orientamenti di dottrina e giurisprudenza
E’ bene notare, ad ogni modo, come la successiva applicazione giurisprudenziale della regola appena vista non abbia condotto, sinora, a risultati univoci.
Già nel leading case Wisconsin Knife Works c. National Metal Crafters (274) si possono cogliere i primi segni della difformità applicativa della disposizione in esame.
(271) Il comma stabilisce infatti che “an attempt at modification or … may operate as a waiver”.
(272) Ancora XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 438 e 439.
(273) La distinzione tra le due ipotesi, nel diritto statunitense, è descritta rispettivamente come excuse of a condition e discharge of a duty. Cfr. XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 438, 439 e 523 ss. Sulla distinzione tra waiver e modification, v. pure XXXXXX, The law of contract and the concept of change: public and private attempts to regulate modification, waiver, and estoppel, in Wisconsin Law Review, 1999, p. 624 ss., che afferma che “A “waiver” results from a unilateral act dispensing with a contractual condition”.
(274) 781 F. 2d 1280,1287 (7th Cir. 1986).
La sentenza contiene un’analisi approfondita della sezione 2-209 UCC, ed in particolare dei paragrafi 2 e 4, e dei rispettivi ambiti di applicazione.
Nel valutare l’estensione effettiva di entrambi i commi, il giudice Xxxxxx (275) ha evidenziato come, sebbene il par. 2 riconosca piena operatività al divieto pattizio di modifica orale, nella misura in cui il par. 4 fa salva, in ogni caso, la possibilità di una successiva rinuncia unilaterale, esisterebbe il concreto rischio (paventato forse a fronte dell’eventualità di un ossequio meccanico alla tradizionale regola di common law di piena modificabilità del contratto) di un ricorso indiscriminato all’istituto del waiver, che potrebbe essere invocato in qualunque ipotesi di tentativo di modifica orale, ciò che condurrebbe ad una disapplicazione di fatto della regola di cui al par. 2.
Di conseguenza, nella misura in cui il comma 4 introduce un mero criterio discrezionale (il comma afferma infatti che un diverso tentativo di modificazione orale “may operate as a waiver”), lo stesso stabilisce la necessità di una valutazione da farsi caso per caso, ed il metro decisionale, pur se non espressamente codificato, andrebbe ricercato nel principio dell’affidamento.
Pertanto, solo nel caso in cui la controparte abbia fatto affidamento sulla rinuncia orale, si tratterebbe di rinuncia in grado di determinare una valida modifica al testo contrattuale, pur in presenza di una clausola NOM (276).
La sentenza reca, in ogni caso, la dissenting opinion del giudice Xxxxxxxxxxx (cui chi scrive ritiene di poter aderire), il quale ha avuto modo di contestare l’impostazione seguita dal giudice Xxxxxx (277).
(275) La cui opinione è poi risultata maggioritaria, avendo alla stessa aderito anche il giudice Xxxxxxxx, ed ha quindi visto il sostegno di due dei tre giudici componenti la corte.
(276) Nelle parole del giudice Xxxxxx “If section 2-209 (4), which we said provides that an attempted modification which does not comply with subsection (2) can nevertheless operate as a “waiver”, is interpreted so broadly that any oral modification is effective as a
waiver notwithstanding section 2-209 (2), both provision becom superfluous and we are back in the common law… The path of reconciliation with subsection (4) its found by attending its precise wording. It does not say that an attempted modification “is” a waiver; it says that “it can operate as a waiver”. It does not say in what circumstances it can operate as a waiver; but if an attempted modification is effective as a waiver only if there is reliance, then both sections 2-209(2) and 2-209(4) can be given effect”.
(277) Impostazione criticata anche da XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 438 e 439, il quale ha avuto modo di evidenziare come, in tal modo, il giudice abbia aggiunto una
condizione di operatività del waiver non necessaria e soprattutto non prevista dalla norma in esame, né altrimenti ricavabile dal testo della legge,
Nel ragionamento seguito da quest’ultimo giudice, l’impostazione seguita dalla maggioranza dei giudici della corte avrebbe infatti portato ad individuare un requisito di applicabilità della rinuncia successiva che in realtà non è previsto dalla norma, né dalla stessa è ricavabile, e si tratterebbe, inoltre, di requisito non necessario.
Più che dipendere dalla ricorrenza di un requisito non espresso, il disposto di cui al par. 4 dipenderebbe dall’individuazione esatta del concetto di waiver, che il giudice Xxxxxxxxxxx definisce come rinuncia ad un diritto di cui si è titolari (278), rinuncia che è eventualmente individuabile nel contesto di una non perfezionata modifica consensuale del contratto (279).
La disposizione che riconosce piena validità agli accordi di non modificazione orale sarebbe finalizzata unicamente ad impedire iniziative fraudolente, volte alla dimostrazione artificiosa di modifiche verbali.
Si tratterebbe, in ogni caso, di una disposizione non finalizzata ad escludere ogni rilievo dei comportamenti successivi, ed a questo proposito il par. 4 fa salva proprio l’eventualità di una condotta successiva, che sia idonea a configurare una rinuncia unilaterale ad una disposizione del regolamento contrattuale (280).
Queste ultime osservazioni hanno trovato eco in alcune sentenze successive (281).
Tuttavia, come anticipato, il panorama giurisprudenziale statunitense non è in ogni caso riconducibile ad unità: vi sono infatti sentenze che, ad esempio, hanno fornito indicazioni ulteriori circa i mezzi di prova utilizzabili ai fini della dimostrazione dell’avvenuta rinuncia, circoscrivendo il novero dei mezzi di prova utilizzabili, e ritenendo in particolare non sufficiente, in
(278) Il giudice parla espressamente di “relinquishment of a known right”.
(279) “‘waiver’ is some sort of subset of failed effort to modify”.
(280) “Subsection (4) is intended, despite the provisions of subsections (2) and (3), to prevent contractual provisions excluding modification except by a signed writing from limiting in other respects the legal effect of the parties’ later conduct”.
(281) Mi riferisco in particolare a Indussa Corp. v. Reliable Stainless Steel Supply Co., 369 F. Supp. 976, 978-79 (E.D. Pa. 1974), nonché a Green Construction Co. v. First Indem. of Am. Ins. Co., cit. supra, dove il giudice Xxxxxxxx ha fatto salva l’applicazione della clausola di non modificazione orale, ritenendo non sussistenti riscontri sufficienti,
xxxxxx a dimostrare l’effettiva rinuncia verbale successiva. Una conferma dell’ammissibilità di una rinuncia orale successiva è anche in West-Point Xxxxxxxxx Inc., x. Xxxxxxxx, 377 F. Supp. 154 (M.D. Ala. 1974), nonché in C.I.T. Corp. x. Xxxxxx, 1965 WL 8370, 3 UCC 321
(Pa.C.P.1965), aff’d, 419 Pa. 435, 214 A. 2d 620, 3 UCC 968 (1965).
via di approssimazione generale, la prova testimoniale ai fini della dimostrazione del waiver (282).
Altre sentenze hanno invece confermato la validità ed efficacia della clausola NOM, senza fare alcuna applicazione della sezione 2-209 UCC (283). Altrove si è invece impedito il ricorso alla clausola in esame in applicazione della regola dell’estoppel (284), oppure si è semplicemente ignorato la presenza di una clausola NOM al fine di dirimere la controversia
(285).
Anche la dottrina non pare aver espresso un orientamento univoco.
Alcuni commentatori hanno rigettato l’assunto secondo cui l’operatività della rinuncia sarebbe condizionata dal principio dell’affidamento (286), mentre altri autori hanno invece espresso il proprio consenso verso tale impostazione (287). Non è mancato inoltre chi ha espresso una posizione mediana, accreditando un parziale fondamento ad entrambi gli orientamenti interpretativi (288).
(282) Il riferimento va ancora a Green Construction Co. C. First Indem. of Am. Ins. Co., cit. supra, dove il giudice Xxxxxxxx ha altresì stabilito l’insufficienza, in linea generale, della prova testimoniale diretta dell’avvenuta rinuncia, occorrendo riscontri ulteriori, aventi ad oggetto i comportamenti delle parti in sede di esecuzione del contratto, dai quali possa desumersi l’avvenuta rinuncia. Va tenuto conto, in ogni caso, come la sentenza in parola non sembri in verità stabilire un giudizio di generale inadeguatezza della prova testimoniale, laddove si tenga conto che, in ogni caso, il giudice ha ritenuto insufficiente tale prova dal momento che la parte interessata alla piena operatività della clausola NOM era stata in grado di fornire riscontri documentali, dai quali al contrario poteva desumersi l’assenza di rinuncia verbale. La sentenza, pertanto, sembra quantomeno stabilire una relazione di priorità tra mezzi di prova, concedendo il primato alle prove precostituite.
(283) E’ questo il caso ad esempio di Pavco Indust. Inc and Timsco Inc., c. First Nat. Bank of Mobile Inc., 534 So. 2d 572, 576 (Ala. 1988).
(284) Xxxxxxx Shipbuilding Corp. C. Xxxxx Xxxxxx. Corp., 6 U.C.C. Rep. Serv.
(CBC) 323 (N.Y. Sup. Ct. 1969).
(285) V. In Re Estate of Xxxxxxxx, 466 S.W. 2d 886, 889-90 (Tenn. Ct. App. 1970).
(286) Il riferimento va ancora una volta a XXXXXXXXXX, Contracts, cit., p. 438 e 439.
(287) Così WHITE, SUMMERS, Uniform Commercial Code. Practitioners treatise series, St. Xxxx, 1995, p. 34 ss., e p. 43. Oltre al principio dell’affidamento, gli a. individuano nel principio di buona fede un ulteriore limite all’ammissibilità delle modificazioni orali, che sarebbero invalide ogni qualvolta siano il frutto del comportamento in mala fede di una delle parti a svantaggio dell’altra, in applicazione della sezione 1-203 dell’UCC.
(288) Xxx XXXXXX, Modification of Sales Contracts, cit., p. 434 e 435, l’opinione del
giudice Xxxxxxxxxxx è corretta sotto il profilo dell’interpretazione letterale della disposizione, mentre l’opinione del giudice Xxxxxx si pone in linea con l’evoluzione normativa del sistema americano di common law, e come tale secondo l’a. (forse in applicazione di un non espresso, ma ritenuto necessario, principio di coerenza sistematica dell’ordinamento) preferibile.
Quanto precede descrive il margine di variabilità riscontrato negli esiti applicativi ed interpretativi della sezione 2-209.
Il formante dottrinario e quello giurisprudenziale hanno così dimostrato sino ad oggi di allontanarsi dal formante legislativo, che predica invece l’uniformità di applicazione (289).
(289) Una delle finalità dell’Uniform Commercial Code consiste infatti nel creare un diritto uniforme tra i vari stati federali: la sezione 1-103, par. a), stabilisce infatti che il codice “must be liberally construed and applied to promote its underlying purposes and policies, which are: … 3) to make uniform the law among the various jurisdictions”.
CAPITOLO QUARTO
Le clausole contenenti definizioni e le premesse (o preamboli)
SOMMARIO: 1. Funzione e classificazione delle clausole c.d. di definizione – 2. Clausole di definizione e nozione di clausola: dalle clausole enunciative alle clausole - proposizione. – 3. Le clausole di definizione e l’art. 1363
c.c. – 4. Clausole di definizione, autonomia contrattuale e simulazione. –
5. Clausole di definizione, clausole d’intero accordo e la derogabilità dell’art. 1362, comma 2, c.c. – 6. Limiti di ammissibilità delle clausole di definizione. – 7. Le premesse o preamboli del contratto. – 8. La rilevanza del preambolo ai fini ermeneutici.
1. Funzione e classificazione delle clausole c.d. di definizione
L’osservazione della prassi ha permesso di rintracciare anche clausole
c.d. di definizione.
Si tratta di clausole per mezzo delle quali le parti mirano a definire un concetto, costruendo in tal modo un linguaggio convenzionale. La funzione delle clausole in esame è pertanto quella di individuare un significato comune ad entrambe le parti contraenti, tali clausole si rivelano in tal modo uno strumento finalizzato a prevenire il rischio – che è alla base dei problemi legati all’ermeneutica giuridica, e che si verifica in caso di espressioni plurivoche – che il significato attribuito ad un’espressione ad opera di una parte possa divergere da quello attribuito dalla controparte (290).
Ciò nella misura in cui la coincidenza letterale delle espressioni usate garantisce coincidenza giuridica delle dichiarazioni (291).
E’ stato possibile rinvenire almeno due tipologie di clausole di definizione: a) clausole di definizione dei concetti grammaticali, come ad esempio:
(290) Il problema è colto da autorevole dottrina: cfr. CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 53 – 54.
(291) Ancora CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 61.
“Gender/Number. Whenever the context of this Agreement so requires, references of the masculine gender shall include the feminine or neuter gender and corporate or other such entities, the singular number shall include the plural and vice versa, and reference to one or more parties hereto shall include all assignees of that party”
“Interpretations 1.3 Words importing persons or parties shall include firms and corportations and any organisation having legal capacity” (292);
b) clausole attraverso cui le parti stabiliscono concetti ad hoc, specifici per il singolo contratto:
“Definitions. Throughout this Agreement, the following terms shall have the following meanings: …”
“Definitions 1.1 In the Contract (as hereinafter defined) the following words and expressions shall have the meanings hereby assigned to them: …” (293).
2. Clausole di definizione e nozione di clausola: dalle clausole enunciative alle clausole - proposizione
Come risulta già ad una prima lettura, l’operatività concreta delle clausole di definizione si connota per il gioco di rimandi: le definizioni consentono infatti quell’economia di linguaggio che ad esse è connaturata, proprio in virtù della presenza, nel testo del contratto, della parola, o dell’espressione, cui è associato un determinato enunciato esplicativo.
La funzione delle clausole in esame sembra pertanto rimandare ad una distinzione, già menzionata in precedenza (294), tra dichiarazioni contrattuali a carattere “dispositivo” e dichiarazioni contrattuali a carattere “enunciativo”, vale a dire tra dichiarazioni che riportano ciò che le parti stabiliscono nel testo contrattuale, stabilendone il regolamento vero e proprio,
(292) Ricavo entrambi gli esempi da XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p. 203.
(293) Xxxxxx XXXXXXXX, DE LY, La redazione dei contratti internazionali, cit., p.
204.
(294) X. xx xxxxxxxxxxxx xxxxxxxx xx xxx. 0, xxx. 3.
e dichiarazioni che invece hanno funzione per lo più esplicativa, e che in quanto tali costituirebbero unicamente mezzi per l’interpretazione del primo tipo di dichiarazione (295).
Ebbene, ad una prima occhiata le clausole contenenti definizioni, nella misura in cui non contengono una regola specifica, che contribuisca alla definizione dell’assetto di interessi voluto dalle parti, e sembrano invece avere una portata unicamente escplicativa, valendo a definire un determinato concetto, parrebbero da ricondurre alla nozione di clausola enunciativa.
Tuttavia, a ben vedere, le definizioni, nell’economia complessiva del contratto, non esauriscono la propria funzione nell’individuare un determinato concetto, ma si pongono come complemento necessario delle ulteriori clausole che contengono la regola, la specifica pattuizione a carattere dispositivo, la cui portata esatta non è individuabile, se non facendo ricorso all’ulteriore e diversa clausola, contenente la definizione di riferimento.
Le clausole contenenti definizioni, pertanto, si pongono come parte di (quantomeno) un unico precetto, che tuttavia è individuabile attraverso il ricorso ad almeno due proposizioni.
La circostanza rimanda allora alla distinzione, già evidenziata, tra clausola – proposizione e clausola – precetto.
Si è già detto infatti (296) come, nell’economia del presente elaborato, si sia reso necessario adottare una nozione poliedrica di clausola, che ricomprende non solo le ipotesi di clausola – precetto, vale a dire quelle determinazioni volitive del contratto che si sostanzano in un nucleo essenziale e non ulteriormente frazionabile di disciplina negoziale, ma anche le ipotesi di clausola – proposizione, vale a dire di clausola intesa come unità sintattica semplice, dotata di autonomia.
Ebbene, il riferimento al termine “clausola”, nel discorso relativo alle definizioni contrattuali, necessita di un riferimento ad entrambe le nozioni appena riportate.
Se, infatti, da un punto di vista meramente sintattico – grammaticale, le singole definizioni rappresentano un’unità compiuta di senso, un costrutto grammaticale non ulteriormente scindibile, e pertanto un’ipotesi di clausola –
(295) Oltre a BETTI, Teoria generale, cit., p. 150 ss., già citato nel cap. 1, v. pure CERQUETTI, Le regole dell’interpretazione tra forma e contenuto del contratto, Perugia, 2008, p. 16 ss., e XXXXXXXXXX, La determinazione del regolamento, cit., p. 213 ss.; per la giurisprudenza, x. Xxxx. civ., 17 maggio 1977, n. 2008, in Rep. Giust. civ., 1977, voce “Obbligazioni e contratti”, n. 186.
(296) X. xxx. 0, par. 3.
proposizione, lo stesso non può dirsi per quanto riguarda il contenuto propriamente dispositivo delle definizioni.
Le definizioni contrattuali non contengono infatti un nucleo di disciplina autonomo, ma a questi specifici effetti necessitano della imprescindibile correlazione con le ulteriori clausole – proposizione, inserite in una diversa parte del testo, che contengono la parola, il lemma, l’espressione cui la definizione fa riferimento.
Solo dal combinato operare di queste due clausole – proposizione, pertanto, è possibile ricavare una clausola – precetto, e cioè una disposizione perfettamente autonoma ed indivisibile (297).
3. Le clausole di definizione e l’art. 1363 c.c.
L’esame della concreta operatività delle clausole di definizione individua un meccanismo operativo che rimanda, con ogni evidenza, al percorso ermeneutico tracciato dal legislatore all’art. 1363 c.c. (298).
Le clausole che introducono definizioni, idonee in quanto tali a creare la “sfera linguistica” (299) entro cui valutare le potenzialità espressive del testo, si rivelano infatti anch’esse “mezzi” per l’interpretazione del contratto (300).
(297) L’ipotesi pertanto avvalora la puntualizzazione teorica di chi ha già osservato come ad un’unica clausola – precetto, ad un unico comando, possano corrispondere due o più proposizioni, così come, viceversa, un’unica proposizione possa contenere due o più precetti. Cfr. sul punto MESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato Cicu – Messineo, Milano, 1973,
p. 88; XXXXX, Il contratto, cit., p. 458; XXXXXXXXXX, I contratti. Parte generale, Torino, 2000, p. 110; SICCHIERO, La clausola contrattuale, cit., p. 25 ss.
(298) Per un commento all’articolo si vedano, in generale, BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica, Milano, 1971, p. 279 ss.; XXXXXXXXX, Dei contratti in generale. Artt. 1321 – 1469, Torino, 1980, p. 280; XXXXXXX, Il contratto e l’interpretazione, Milano, 1961, p. 202; PERLINGIERI, Appunti di «teoria
dell’interpretazione», Camerino, 1970, p. 75; XXXXXXXX, Le norme interpretative speciali, cit., p. 27 ss.; XXXXXX, Diritto civile, Il contratto, cit., p. 402 ss.; CARRESI, Il contratto, cit., p. 526 ss.; XXXXX, Principi sull’interpretazione dei negozi giudirici, cit., p. 109 ss.
(299) Così CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 126.
(300) Ancora CIAN, Forma solenne e interpretazione del negozio, cit., p. 128, il quale, a p. 126, ha modo di individuare, quale unico limite di ammissibilità delle clausole in parola, così come di qualunque strumento ermeneutico scelto dalla parte, l’idoneità degli strumenti espressivi adottati a comunicare al destinatario il pensiero del dichiarante. L’a. ritiene che un linguaggio convenzionale sia parimenti ammissibile, sempre entro il limite appena indicato, anche nei casi di forma adottata volontariamente dalle parti (p. 185), e