Dipartimento di Giurisprudenza Cattedra di Diritto del Lavoro
Dipartimento di Giurisprudenza Cattedra di Diritto del Lavoro
IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
RELATORE
Xxxxx.xx Prof.
Xxxxxxxx Xxxxxxx CANDIDATO
Xxxxxxxx Xxxxxxx
CORRELATORE Matr. 108333
Xxxxx.xx Xxxx.
Xxxxxxx Xxxxx
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO 1
Contratto a tempo indeterminato e licenziamenti: la disciplina alla
vigilia del Jobs Act
1. I principi ispiratori della riforma del mercato del lavoro Fornero 4
2. I contratti di lavoro subordinato e la questione dell’apposizione del termine: inquadramento storico-normativo 6
3. Le modifiche all’impianto sanzionatorio nella disciplina dei licenziamenti illegittimi 13
4. Il licenziamento discriminatorio e le altre ipotesi di nullità 18
5. Il licenziamento disciplinare: le fattispecie e le difficoltà interpretative 22
6. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: le fattispecie e le difficoltà interpretative 30
7. Il licenziamento collettivo 38
CAPITOLO 2
Tutele crescenti nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23
1. Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, dalla legge delega al decreto attuativo 45
3. Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale 52
4. Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa 56
5. Vizi formali e procedurali 64
6. Piccole imprese e organizzazioni di tendenza 66
7. Criteri di calcolo dell’indennità risarcitoria 72
8. Revoca del licenziamento 75
9. Offerta di conciliazione 76
10. Licenziamento collettivo 79
CAPITOLO 3
Ulteriori considerazioni applicative della disciplina
1. Legge di stabilità 2015, misure di incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato 84
2. Abolizione del c.d. rito Fornero per i nuovi assunti 93
3. Gli opposti punti di vista della riforma con uno sguardo al futuro 110
CONCLUSIONI 123
BIBLIOGRAFIA 130
SITOGRAFIA 134
INTRODUZIONE
Il lavoro è una componente fondamentale della vita della persona ed è il motore di qualsiasi società organizzata e sviluppata: esso offre a ciascuno la possibilità di mettere in gioco le proprie capacità e di reperire le risorse economiche necessarie per condurre un’esistenza dignitosa; nello stesso tempo esso permette alla società di crescere, di essere efficiente e di assicurare il benessere ai suoi membri.
Data la loro importanza, le regole che disciplinano e tutelano il lavoro sono costantemente soggette all’attenzione delle istituzioni, che le definiscono, e dei cittadini, che ne sono i destinatari. In particolare, suscitano interesse soprattutto le regole attinenti alla materia dei licenziamenti, dal momento che quest’ultima è investita da temi delicati e molto sentiti nell’opinione pubblica, è storicamente ricca di significati ideologici ed è certamente legata all’esigenza di contemperare gli opposti interessi delle parti che si confrontano quotidianamente nel mercato del lavoro.
La materia risulta ancor più rilevante in un periodo di recessione economica e di crisi dei comparti produttivi come quella che sta colpendo da anni l’Italia, nonché gli altri Stati dell’Eurozona. Le prospettive di crescita si sono progressivamente affievolite e le imprese si trovano ad affrontare i costi della produzione con risorse insufficienti per restare competitive sul mercato. Questo si riverbera sulle iniziative volte ad assumere nuova forza lavoro che subiscono un drastico calo, con conseguenze negative sui redditi di coloro che restano tagliati fuori dalla popolazione attiva.
Nel contesto appena descritto si inserisce la riforma del lavoro varata dal Governo Xxxxx, denominata “Jobs Act”, che interviene in vari ambiti del sistema normativo del diritto del lavoro introducendovi modifiche sostanziali e portatrici di nuovi equilibri nella regolazione dei rapporti di lavoro. La manovra trova la sua sorgente nella legge delega n. 183/2014 che definisce i principi e i criteri direttivi nel rispetto dei quali l’Esecutivo è delegato ad emanare appositi decreti
che ne diano attuazione: uno di questi è il decreto legislativo n. 23/2015, entrato in vigore il 7 marzo 2015, che introduce il nuovo concetto del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Diversamente da quanto si possa pensare, la norma in realtà non aggiunge una nuova tipologia di contratto di lavoro a quelle già esistenti, bensì apporta modifiche consistenti in materia di licenziamenti e di tutele del lavoratore in caso di illegittima risoluzione del rapporto di lavoro da parte del datore. Il richiamo alle “tutele crescenti” si riferisce alla previsione, a carico di quest’ultimo, di una sanzione a carattere indennitario di entità crescente in base all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro ingiustamente licenziato.
Il decreto impone tale regime sanzionatorio come tutela tipica a garanzia dei diritti del lavoratore, con un parallelo ridimensionamento della tutela reintegratoria che viene limitata a specifiche ipotesi individuate dal legislatore. La tendenza a favorire il risarcimento del danno in luogo del ripristino della situazione preesistente al recesso illegittimo, tuttavia, non è nuova: essa ha iniziato ad affermarsi già con l’emanazione della legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”) che per prima ha modificato l’assetto delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il quale era incentrato appunto sull’istituto della reintegrazione.
Il recente decreto ha quindi proseguito lungo il solco tracciato nel 2012, ma nello stesso tempo ha deviato da esso assumendo una propria identità.
Nella presente tesi si intende analizzare il decreto n. 23/2015 e le innovazioni che ha introdotto nel diritto del lavoro in materia di licenziamenti, con uno sguardo volto anche al contesto nel quale esso si è inserito. L’obiettivo è altresì quello di evidenziare e valutare i vantaggi e gli svantaggi di questo intervento riformatore, in relazione agli effetti che ha già prodotto e che potrebbe produrre in futuro.
A tal proposito, appare necessario partire anzitutto con la descrizione del retroterra normativo che ha preceduto la riforma del 2015, costituito dalla riforma Fornero a cui si è accennato poc’anzi, illustrandone i contenuti ma anche
le numerose problematiche che ha suscitato, principalmente a causa della formulazione ambigua e poco precisa delle disposizioni normative da parte del legislatore.
Successivamente, si procede all’analisi del decreto sul contratto a tutele crescenti, con particolare attenzione alla ratio e agli intenti che lo caratterizzano, agli strumenti di rilancio occupazionale che mette in campo e ai punti di incontro e di divergenza rispetto alla disciplina precedente.
Infine, vengono valutate alcune questioni applicative e accessorie della riforma (come gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato introdotti dalla Legge di Stabilità 2015), si sintetizzano le critiche di segno positivo e negativo che essa ha ricevuto dalla dottrina e dagli esperti del settore economico, e si effettuano alcune considerazioni finali sulla tenuta del progetto di riforma, anche alla luce dei primi dati reali riguardanti l’occupazione registrati in questi pochi mesi di operatività del decreto.
CAPITOLO 1
Contratto a tempo indeterminato e licenziamenti: la disciplina alla vigilia del Jobs Act
1. I principi ispiratori della riforma del mercato del lavoro Fornero
Al fine di comprendere la portata innovativa del decreto sul “Contratto a tutele crescenti” incluso nella manovra di riforma del “Jobs Act” varata dal Governo Xxxxx, appare utile illustrare il quadro normativo nel quale esso si è inserito focalizzando l’attenzione sulla legge 28 giugno 2012 n. 92 (c.d. Riforma Fornero) che ha inciso profondamente sugli elementi cruciali della disciplina del contratto di lavoro subordinato e dei licenziamenti, seppur con risultati non esenti da critiche.
Approvata nell’ambito delle misure adottate dal Governo italiano per far fronte alla gravissima crisi economico-finanziaria esplosa nell’estate del 2011, la legge n. 92 è ambiziosamente intitolata «Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» e si apre con una enunciazione di scopo secondo cui il fine da perseguire è la costruzione di un «mercato del lavoro inclusivo e dinamico, capace di assicurare, insieme alla crescita economica e sociale, la creazione quantitativa e qualitativa dell’occupazione e quindi la riduzione permanente del tasso di disoccupazione».
Le finalità macroeconomiche della riforma trovano spunto, in parte, nella filosofia della c.d. Xxxxx Xxxxx (d.lgs. n. 276/2003) che nel rispetto «degli orientamenti comunitari in materia di occupazione e di apprendimento permanente» perseguiva la finalità di «aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e la stabilità del lavoro» attraverso un insieme di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro,
migliorando le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di prima occupazione. Questi intenti si inquadravano in un progetto di “flessibilità regolata” aderente alla flexsecurity comunitaria, che riconosceva come prioritario l’interesse delle imprese verso una domanda di lavoro flessibile, quale veicolo per una maggiore occupazione, in un’ottica di attenuazione delle tutele del lavoratore1.
La riforma del 2012 assume comunque una sua particolare fisionomia in quanto si inserisce in un contesto caratterizzato da situazioni di emergenza come la frammentazione del mercato del lavoro dovuta alla molteplicità delle forme di impiego, che alimenta la precarietà riducendo le prospettive lavorative e le certezze sul piano pensionistico. Infatti la internazionalizzazione dei sistemi produttivi, comportando un rafforzamento del capitale rispetto agli interessi dei lavoratori, ha determinato il c.d. “capitalismo mobile”. Con questo termine si fa riferimento ad un incremento della dinamicità delle scelte imprenditoriali che si traduce in fenomeni diffusi di ristrutturazione dell’impresa attraverso operazioni di espulsione della manodopera, di frazionamento di processi produttivi e delocalizzazione in paesi stranieri alla ricerca della forza lavorativa più economica e sindacalmente meno organizzata, di deindustrializzazione di aree geografiche2. Tali contesti hanno modificato profondamente le condizioni lavorative di ampie masse di lavoratori, minando i caratteri di stabilità e continuità dell’impiego a favore di esperienze mutevoli, instabili e alternate a periodi di inattività.
In questo scenario la riforma Xxxxxxx ha affiancato alle finalità esplicitate nell’enunciazione di apertura prima indicata, una serie di obiettivi selezionati in funzione della loro rilevanza sistemica che secondo la dottrina rappresentano la ragione politico-sociale della legge e quindi un punto di riferimento per la sua lettura e interpretazione.
1 Ghera, Le finalità della riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero, in Xxxxxx (a cura di),
Flessibilità e tutele nel lavoro, Bari, 2013.
2 Xxxxxxx, Un quadro di insieme sulle tipologie contrattuali, in Xxxxxxx-Xxxxxxx-Xxxxxxxx (a cura di),
Il nuovo mercato del lavoro, Torino, 2013.
Alcuni principi sono portatori di finalità specifiche con una funzione di programmazione per la successiva regolamentazione e tra questi si può mettere in evidenza la redistribuzione delle tutele tra flessibilità in entrata e in uscita, che caratterizza la riforma dei rimedi ai licenziamenti illegittimi, di cui in appresso. Altri principi sono già presenti nell’ordinamento del lavoro e qui riaffermati nella loro portata generale: emerge fra tutti il favore verso l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e la qualificazione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come contratto “dominante”. Si consolida così la eccezionalità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro e la contestuale attribuzione a quello a tempo indeterminato di una funzione protettiva poiché garanzia di stabilità del lavoratore e quindi modello legale da privilegiare. Questa scelta legislativa costituisce uno dei più forti segnali di discontinuità rispetto alla su citata legge Xxxxx che assegnava ad una molteplicità di tipologie contrattuali la funzione di promozione dell’occupazione.
2. I contratti di lavoro subordinato e la questione dell’apposizione del termine: inquadramento storico-normativo
Alla luce di quanto appena detto dunque, si ritiene di dover porre l’attenzione sull’istituto del contratto di lavoro a tempo indeterminato, i cui profili normativi e applicativi sono desumibili anche attraverso la complementare analisi del contratto di lavoro a tempo determinato.
Il contratto di lavoro subordinato è la tipologia lavorativa più diffusa e consiste in un accordo fra il lavoratore, che dietro corresponsione di una retribuzione si impegna a prestare la propria attività lavorativa alle dipendenze del datore di lavoro, e quest’ultimo che è titolare di un potere direttivo, organizzativo e disciplinare nei confronti del lavoratore ed è tenuto a versargli la somma prestabilita.
Tale contratto si considera a tempo indeterminato in assenza dell’esplicita indicazione di un termine che limiti nel tempo la durata del rapporto: ciò produce un grande beneficio per il lavoratore in termini di stabilità del posto di lavoro che è potenzialmente resistente per tutta la sua “vita lavorativa”. Tuttavia, il datore di lavoro non sempre è in grado di garantire ai suoi dipendenti la continuità del rapporto a causa di molteplici esigenze che spaziano dalla flessibilità dell’organico in ragione della specificità delle tipologie mansionali, alle caratteristiche organizzative dei processi produttivi, alla gestione delle risorse economico-finanziarie in modo funzionale ai cambiamenti della situazione economica di riferimento. Di conseguenza egli può tentare di orientarsi verso la stipula di fattispecie contrattuali che rispondano ai bisogni e agli obiettivi del momento, con sacrificio della stabilità lavorativa: tra questi modelli un ruolo rilevante è assunto dal contratto a tempo determinato che prevede un termine alla scadenza del quale, in assenza di una volontà contraria delle parti, il rapporto si considera concluso.
La significatività dei due rapporti lavorativi testé enunciati ha subìto nel corso del tempo interpretazioni e modulazioni di segno opposto, legate ai mutamenti nella concezione della natura sociale della prestazione lavorativa e agli sviluppi del contesto economico all’interno del quale essa si svolge.
Questi eventi hanno influenzato il legislatore italiano nei continui processi di riforma della disciplina lavorativa soprattutto con riguardo all’istituto del contratto a tempo determinato, verso il quale egli ha mostrato particolare attenzione con il fine, tra gli altri, di prevenirne l’abuso da parte del datore di lavoro. In linea con questi intenti, la normativa talvolta ha individuato precise limitazioni all’apposizione di un termine al rapporto di lavoro, con ciò restringendo la libertà datoriale di stipulare contratti a tempo determinato ed espandendo parallelamente il ricorso a quello indeterminato. In occasione di interventi attenuanti la rigidità di tali limitazioni, invece, le imprese hanno avuto l’opportunità di propendere per l’instaurazione di rapporti di lavoro di durata prestabilita.
È il caso di delineare brevemente, in questa sede, il percorso degli interventi legislativi più importanti in materia di disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato e delle rationes che ne hanno costituito il fulcro, al fine di sottolineare in maniera complementare il ruolo che ha rivestito nel nostro ordinamento il contratto a tempo indeterminato.
Durante la vigenza del Codice Civile del 1865, espressione della cultura liberale dell’epoca, l’art. 1628 enunciava che «nessuno poteva obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa». Il contratto a tempo determinato, dunque, era l’unica forma di lavoro subordinato consentita laddove l’instaurazione di rapporti contrattuali perpetui era considerata con sfavore poiché assimilabile alla servitù: pertanto era obbligatorio limitare la durata del vincolo ad un tempo prestabilito.
Con il progressivo mutamento della situazione socio-economica del Paese e con il sorgere di nuovi bisogni da parte della classe operaia che conquistava sempre più unità di azione e consapevolezza delle proprie condizioni e dei propri diritti, questo atteggiamento di sfavore verso il lavoro a tempo indeterminato si è gradualmente affievolito. Nuove esigenze quali la stabilità del posto di lavoro e la garanzia di maggiori tutele per il lavoratore, insieme ad una diversa e nuova visione del concetto di subordinazione che travalica l’idea del semplice asservimento al datore di lavoro, hanno determinato un’inversione di tendenza che ha spinto il legislatore ad allargare gli ambiti applicativi del contratto a tempo indeterminato, fino a renderlo il modello “preferibile” per la regolazione dei rapporti di lavoro subordinato.
Infatti, nell’art. 2097 del codice del 1942 il contratto di lavoro si reputava automaticamente a tempo indeterminato se il termine non risultava dalla specialità del rapporto o da atto scritto. Inoltre, dalla prosecuzione della prestazione lavorativa dopo la scadenza del termine conseguiva la conversione del contratto in tempo indeterminato.
Con l’entrata in vigore della legge n. 230/1962, la quale abrogava espressamente l’art. 2097, veniva introdotto all’art. 1, comma 2 un elenco
tassativo di condizioni per la legittima apposizione del termine in assenza delle quali il contratto di lavoro si considerava a tempo indeterminato. Tra esse vi erano: la speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima, l’assunzione per sostituzione di lavoratori assenti aventi diritto alla conservazione del posto, l’assunzione per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo di carattere straordinario e occasionale, la necessità di maestranze specializzate per i processi produttivi a fasi successive. Una tipizzazione così precisa delle possibilità di stipulare un contratto a termine evidenziava un chiaro irrigidimento della disciplina, sintomo del disfavore del legislatore verso l’utilizzo di questo istituto, con la conseguente espansione dell’utilizzo della tipologia a tempo indeterminato, ritenuta ormai come contratto di lavoro subordinato “standard”.
Nel corso del ventennio successivo si è andata delineando una prima apertura verso una maggiore flessibilità del vincolo lavorativo in entrata, di cui è espressione la legge n. 56/1987. Essa all’art. 23 conferiva ai sindacati nazionali o locali appartenenti alle confederazioni maggiormente rappresentative la possibilità di prevedere ipotesi aggiuntive di apposizione del termine rispetto a quelle elencate tassativamente, fissando anche la percentuale di lavoratori assunti a tempo determinato rispetto a quelli impiegati senza alcun termine: in questo modo alla contrattazione collettiva era affidata, di fatto, una delega in bianco per la tipizzazione delle causali, riconoscendole poteri di indubbia e penetrante incisività 3.
Si è giunti ad un nuovo impianto normativo con il d.lgs. n. 368/2001 che ha introdotto il criterio delle “causali elastiche” in attuazione della direttiva comunitaria n. 1999/70/Ce che, mirando a salvaguardare le garanzie offerte ai lavoratori a termine (c.d. clausola di non regresso), imponeva agli Stati membri di migliorare la qualità normativa del lavoro a tempo determinato nel rispetto del
3 Xxxxxxxxx, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 2014.
principio di non discriminazione e al fine di prevenire gli abusi derivanti dalla successione dei contratti a termine.
In base all’art.1 di tale decreto, l’apposizione del termine al contratto era possibile a fronte di ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive, salvo ipotesi tassative di divieto. Non è trascurabile rilevare che se per la normativa precedente il contratto di lavoro si reputava a tempo indeterminato salvo specifiche ipotesi, con il vigore del presente decreto, invece, il termine diventava liberamente apponibile, seppur nell’ambito di legittime esigenze aziendali da indicarsi specificamente e per iscritto: queste, secondo la prevalente giurisprudenza, erano verificabili non nel merito ma in quanto giustificanti la temporaneità della prestazione4. Il legislatore ha continuato così a percorrere la strada della flessibilità del rapporto di lavoro, aprendo a ulteriori limitazioni temporali della prestazione lavorativa e allontanandosi progressivamente dall’idea del contratto a tempo indeterminato come modello “standard” di regolazione del lavoro subordinato.
Tuttavia nel corso degli anni il decreto di cui sopra è stato oggetto di varie rivisitazioni, peraltro di segno opposto, che hanno lasciato il dubbio sulla loro rispondenza ad un percorso progettuale organico e coerente.
In primo luogo va citata la legge n. 247/2007 che ha rimarcato la già vista natura eccezionale del contratto a tempo determinato affermando che «Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato»5 e ha introdotto, sempre in attuazione della direttiva n. 99/70 con le finalità esposte in precedenza, un limite alla durata massima complessiva dei rapporti a termine poiché «qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e xxxxxxx […] il rapporto di lavoro si considera a tempo
4 Cass. 27 aprile 2010, n. 10033; Cass. 21 novembre 2011, n. 24479.
5 Comma 1 dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001, come introdotto dall’art. 1, comma 39, legge n.
247/2007.
indeterminato6». È evidente come la previsione di un limite temporale alla reiterazione del termine rappresenti un ritorno al rigido impianto già inaugurato con la legge n. 230/1962, sebbene quest’ultima agisse attraverso lo strumento della tassatività delle ipotesi di stipula del contratto a termine. Xxxx, il legislatore del 2007, pur mantenendo in vigore il sistema delle causali elastiche, con il dispositivo sulla durata massima di trentasei mesi ha raggiunto un livello di compressione della libertà di utilizzo dell’istituto del tempo determinato ancora maggiore rispetto al passato.
A seguito del d.l. 112/2008, che tornava ad ampliare le esigenze imprenditoriali che legittimano il ricorso al contratto a termine prevedendolo per ragioni «riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro», un’ulteriore modifica all’art. 1 del decreto n. 368 è stata apportata con la legge n. 92/2012.
Questa riforma infatti, in sintonia con lo spirito che la pervade, ha sostituito la semplice prassi che in mancanza dell’apposizione del termine riconduceva alla “ordinaria” figura del contratto a tempo indeterminato, con un’affermazione di principio dai toni ancora più incisivi: «Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». È stata così confermata la relazione di deroga-regola, rispettivamente, tra il lavoro a termine e il lavoro privo di termine, nonché la loro infungibilità. Per quanto attiene alla durata complessiva del rapporto a termine, è stata confermata la durata massima di 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi di cui alla legge n. 247/2007, suffragando la linea del rigoroso divieto reiterativo dei contratti a termine fra le stesse parti.
Tuttavia, nella stessa legge n. 92 il principio del tempo indeterminato come “regola” per il rapporto di subordinazione sembrerebbe in qualche modo frenato dalla possibilità per le parti di stipulare un contratto a termine acausale, cioè privo di ragioni imprenditoriali giustificatrici, qualora si tratti di primo rapporto
6 Comma 4-bis dell’art.5, d.lgs. n. 368, come introdotto dall’art. 1, comma 40, legge n. 247.
lavorativo fra le medesime parti e per qualsiasi tipo di mansione, purché esso abbia una durata massima di dodici mesi7.
La circolare del Ministero del Lavoro n. 18 del 2012 ha tempestivamente fornito chiarimenti in merito, assimilando funzionalmente la prima assunzione a termine priva di causale al patto di prova8 e ponendo dunque la limitata durata dell’impiego in relazione ad esigenze di verifica da parte del datore delle attitudini e delle capacità professionali del lavoratore, in una fase per sua natura temporanea e destinata a condurre verso lo stabile inserimento lavorativo. Queste esigenze cadono in presenza di rapporti già sperimentati, cosicché l’acausalità non rappresenta una contraddizione all’invocata dominanza del contratto a tempo indeterminato, bensì un invito a concluderlo al fine di favorire l’occupazione passando attraverso una giustificata apertura alla flessibilità in entrata.
Da ultimo, ha segnato un definitivo punto di svolta l’emanazione della legge
n. 78/2014 (c.d. Decreto Poletti), primo tra gli interventi del “Jobs Act”, la quale ha eliminato del tutto l’obbligo di indicazione del motivo che giustifichi l’apposizione del limite temporale al rapporto di lavoro. Un tale intervento ha suscitato prevedibili critiche mosse dal timore che l’introduzione della acausalità del contratto a termine possa tradursi in un aumento della precarietà nel mercato del lavoro. Probabilmente solo l’entità del tasso di trasformazione di questi nuovi contratti a termine in contratti a tempo indeterminato potrà condurre alla piena comprensione della portata della modifica legislativa e alla giusta valutazione della sua incidenza sulle condizioni dei lavoratori.
Per il momento si potrebbe attribuire a questo nuovo assetto normativo la funzione di bilanciare le misure incluse nel d.lgs. 23/2015, dirette ad incentivare il ricorso al contratto a tempo indeterminato, rinominato come “Contratto a tutele crescenti”, di cui si parlerà nei capitoli successivi.
7 Comma 1-bis dell’art. 1, d.lgs. 368/2001, come introdotto dall’art. 1, comma 9, lett. b), legge n.
92/2012.
8 Morone, La nuova disciplina dei contratti a tempo determinato, in Persiani-Xxxxxxx (a cura di),
Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013.
3. Le modifiche all’impianto sanzionatorio nella disciplina dei licenziamenti illegittimi
Come si è accennato nel primo paragrafo del presente lavoro, la riforma Fornero si pone la finalità di redistribuire le tutele tra flessibilità in entrata e in uscita intervenendo in modo deciso anche in materia di licenziamenti illegittimi attraverso un’integrale e profonda revisione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori). Il compito di innovare una norma così fondamentale in quanto decisiva per la regolazione degli equilibri nel rapporto tra lavoratore e datore, si presentava ancor più complesso a causa della pregnanza simbolica della materia, carica di significati ideologici ormai da tempo consolidati.
Nel sistema previgente, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, il giudice procedeva a dichiararlo inefficace e ad ordinare al datore, se questo impiegava più di 15 dipendenti, la reintegrazione nel posto di lavoro. La tutela reale, dunque, rappresentava l’unica sanzione per i licenziamenti ingiustificati, in un assetto normativo ispirato al valore fondamentale che il lavoro rappresenta per lo sviluppo della personalità umana: la reazione dell’ordinamento giuridico di fronte al mancato rispetto di tale valore era la restituzione del “bene” di cui il dipendente era stato ingiustamente privato, ossia il posto di lavoro. Inoltre, l’indagine finalizzata a identificare la ragione dell’illegittimità del recesso datoriale non assumeva particolare rilievo, neanche qualora essa fosse riconducibile ai motivi discriminatori indicati dall’art. 15 dello Statuto dei lavoratori9.
L’unica scriminante nella scelta della tutela da riconoscere al lavoratore danneggiato era costituita dal requisito dimensionale di cui all’art. 18, comma 8 (impiego di più 15 dipendenti), in mancanza del quale il datore era condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria. Tuttavia, in caso di recesso fondato su
9 Xxxxxxx, Il licenziamento ingiustificato tra reintegrazione e indennità risarcitoria onnicomprensiva, in Xxxxxxxx-Perrulli, Il nuovo diritto del lavoro, Torino, 2013.
motivi discriminatori, anche per le piccole imprese era prevista la reintegrazione indipendentemente dal numero di dipendenti impiegati.
L’istituto della reintegrazione, in virtù del favore riconosciutogli dalla legge, è stato largamente applicato per molti anni ai casi di illegittimità del recesso datoriale, caricandosi sempre più del valore simbolico di intangibile strumento per bloccare il potere risolutorio dell’imprenditore10. Va ricordato, però, che la previsione della tutela reale unica era frutto di una precisa scelta del legislatore che, nell’ambito dei rimedi conseguenti alle patologie dell’atto di licenziamento, godeva (e gode tuttora) di una certa discrezionalità nell’introdurre modifiche anche sostanziali all’ordinamento, sulla base di un bilanciamento di interessi e valori contrapposti e variabili nel tempo, in quanto legati alle condizioni economico-sociali presenti nel Paese. Non sembra rintracciabile, come la stessa Corte Costituzionale ha affermato11, alcun principio costituzionale che preveda espressamente l’obbligo di ripristinare automaticamente il vincolo contrattuale tra datore e lavoratore qualora esso sia ingiustamente risolto.
Il legislatore del 2012, dunque, ha ritenuto di dover intervenire sulla materia eliminando il carattere di unicità della sanzione reintegrativa alla luce di nuove considerazioni macroeconomiche legate all’esigenza di favorire la stabilità dell’occupazione. Infatti si è rilevato che una protezione eccessivamente rigida del licenziamento, condizionando pesantemente la facoltà di risolvere i rapporti di lavoro, rappresenta un ostacolo all’instaurazione di nuovi contratti a tempo indeterminato e produce effetti negativi sulle dinamiche occupazionali12. In linea con queste valutazioni di politica economica e con la scelta, già richiamata in precedenza, di favorire la figura del contratto a tempo indeterminato quale “contratto dominante”, la riforma si è sviluppata nel senso di conferire maggiore flessibilità alle regole di uscita dal rapporto di lavoro, sebbene questo intento sia
10 Del Conte-Xxxxxxx, Le premesse alla riforma dell’art. 18 St. lav.: uno sguardo d’insieme, in Persiani-Xxxxxxx (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013.
11 Corte Cost. 6 marzo 1974, n. 55; Xxxxx Xxxx. 00 gennaio 1986, n. 2; Xxxxx Xxxx. 00 febbraio
1996, n. 44; Xxxxx Xxxx. 0 febbraio 2000, n. 46.
12 Ichino, La riforma dei licenziamenti, cit., 3.
stato perseguito con il ricorso a tecniche legislative che hanno generato non pochi dubbi interpretativi e incertezze applicative, come vedremo in seguito.
Le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non hanno intaccato la definizione delle causali del licenziamento. Inoltre alla legge n. 604/1966 continua ad essere affidata anche la disciplina della c.d. tutela obbligatoria, applicabile ai licenziamenti illegittimi intimati dal datore di lavoro che non rientri nei requisiti dimensionali richiesti dal comma 8 dell’art. 18: si tratta del datore, imprenditore o non imprenditore, che occupi alle sue dipendenze non più di quindici lavoratori in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento oppure nell’ambito dello stesso comune anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti13. In questi casi è previsto a suo carico l’obbligo di riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, l’obbligo di risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti.
Ferme restando le previsioni normative appena enunciate, gli interventi riformatori hanno colpito, invece, il regime delle tutele da riconoscere al lavoratore che sia occupato presso imprese a cui si applica l’art. 18 e che sia vittima di un licenziamento ingiustificato.
Le modifiche introdotte hanno comportato un ridimensionamento della reintegra con una maggiore modulazione delle sanzioni, in connessione alla accertata illegittimità delle diverse fattispecie del recesso datoriale e ad una rinnovata graduazione della “gravità” dei fatti e degli altri elementi soggettivi e oggettivi a base del recesso. Il sistema risulta così articolato secondo quattro
13 Lo stesso vale per gli imprenditori agricoli che occupino alle loro dipendenze non più di cinque lavoratori in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento oppure nel medesimo ambito territoriale anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
diverse sanzioni: 1) la reintegrazione con l’integrale risarcimento del danno al lavoratore per il periodo compreso tra il licenziamento e la reintegrazione; 2) la reintegrazione con il risarcimento del danno per un massimo di dodici mensilità;
3) l’indennità onnicomprensiva piena, calcolata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità; 4) l’indennità onnicomprensiva ridotta, calcolata tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità.
Si è realizzato così il superamento del vecchio dualismo tra l’area della tutela obbligatoria e l’area della tutela reale dal momento che quest’ultima subisce un processo di frantumazione e metamorfosi14 e poiché si giunge al tramonto della logica binaria di legittimità/illegittimità legata alla verifica della sussistenza/insussistenza della giustificazione del licenziamento15. Il giudice non è più chiamato ad accertare esclusivamente l’esistenza di una motivazione legislativamente idonea a produrre il recesso ma, laddove ne verifichi la carenza, deve procedere ad un’ulteriore operazione di individuazione del modello di tutela da applicare al caso in questione.
La riforma ha poi introdotto un’importante modifica novellando l’art. 2, comma 2 della legge n. 604/1966, che attualmente riporta: «La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato». Con questa disposizione è stato introdotto espressamente il generalizzato obbligo del datore di lavoro di indicare la motivazione del recesso al momento dell’intimazione scritta al lavoratore, laddove in passato era prevista una mera facoltà di quest’ultimo di richiedere tale indicazione entro un certo termine.
La motivazione riveste un ruolo fondamentale nel nuovo assetto delineato dal legislatore, soprattutto se si considera che l’introduzione di una molteplicità di tutele implica che l’applicazione dell’una o dell’altra è legata ad una serie di variabili connesse anche ai presupposti giustificativi del recesso. Questo non vuol
14 Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. dir. lav., 2012.
15 Xxxxxxxx, I nodi irrisolti del nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT, n. 159/2012, 5.
dire che il datore di lavoro debba comunicare la precisa fattispecie legale di licenziamento di cui si vuole avvalere e neppure che l’applicazione di una delle tutele previste sia da ricondurre alle giustificazioni da lui formalmente addotte e non a quelle sostanziali: ciò rischierebbe di offrire al datore la possibilità di scegliere, già nella lettera di licenziamento, il regime sanzionatorio applicabile; al contrario, si ritiene che attraverso la comunicazione dei motivi il datore debba rendere edotta la controparte circa la propria volontà di recedere dal rapporto, in presenza di determinati presupposti di legittimità previsti dall’ordinamento (presupposti che non costituiscono né la causa né il motivo del negozio). La funzione dell’articolazione delle specie di licenziamento è solo quella di consentire una graduazione dell’apparato sanzionatorio: dunque è alla luce dei motivi indicati che il giudice valuterà, in primo luogo, la loro consistenza e, in secondo luogo, la loro idoneità a giustificare il licenziamento secondo quanto previsto dalla legge16.
Anche se alla motivazione è stata riconosciuta un’importanza tale da renderne obbligatoria l’indicazione in qualsiasi caso di licenziamento, sembra possibile individuare una contraddizione nella legge laddove preveda non una tutela ripristinatoria del rapporto di lavoro in caso di violazione di tale obbligo, bensì solo una tutela indennitaria. Infatti, il novellato art. 18, comma 6, utilizzando erroneamente il termine “inefficace” per definire il licenziamento in violazione del requisito di motivazione17, stabilisce che debba applicarsi, in tal caso, il regime di cui al quinto comma (che prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento) ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Da quanto appena detto consegue un’ulteriore incongruenza della disciplina, in considerazione del fatto che le imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali previsti, sono soggette non all’applicazione dell’art. 18, comma 6
16 Xxxxxxxx, I molti nodi irrisolti del nuovo art. 18 St. lav.; Xxxxxxx, Il licenziamento disciplinare, in Xxxxxxx-Xxxxxxx-Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Torino, 2013.
17 Xxxxxxx, Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare.
ma alle disposizioni dell’art. 2, comma 3, legge n. 604/1966, secondo cui il licenziamento intimato senza la specificazione dei motivi (oltre che in mancanza della forma scritta) è inefficace. Sembra quindi paradossale che le sanzioni per omessa o generica motivazione siano più gravi per le c.d. piccole imprese il cui licenziamento inefficace non produce effetti sulla continuità del rapporto, mentre la tutela dei commi 5 e 6 dell’art. 18 preveda che il giudice «dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento»18.
Alla luce di queste riflessioni e di altre che saranno espresse in seguito, si può affermare che pur essendo generalmente apprezzabili le finalità e gli intenti della riforma in analisi, altrettanto non si possa dire circa le formule utilizzate dal legislatore nel testo della legge, poiché hanno incrementato la discrezionalità applicativa e la complessità di interpretazione del nuovo regime19.
4. Il licenziamento discriminatorio e le altre ipotesi di nullità
Si può procedere ora ad un’analisi del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori mettendo in luce le innovazioni introdotte dalla riforma Fornero, nonché i problemi interpretativi più rilevanti che essa ha sollevato, con l’intento di illustrare l’impianto normativo esistente in materia di licenziamenti illegittimi alla vigilia dell’entrata in vigore della successiva riforma del 2015 che ne ha modificato ulteriormente la disciplina.
Il comma 1 dell’art. 18 individua la prima ipotesi di licenziamento illegittimo, ossia quello discriminatorio, per il quale rinvia all’art. 3 della legge n. 108/1990 che ne ha generalizzato la nullità a prescindere dalla motivazione formalmente addotta e quale che sia il numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. L’art. 3 appena citato a sua volta rinvia, per la definizione dell’entità delle ragioni discriminatorie, all’art. 4 della legge n. 604/1966 che sancisce la
18 Galantino, La riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali illegittimi; Cester,
Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti.
19 Del Conte-Xxxxxxx, Le premesse alla riforma dell’art. 18 St. lav.: uno sguardo d’insieme, in Persiani-Xxxxxxx (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013.
nullità del licenziamento per motivi di credo politico o fede religiosa, di appartenenza ad un sindacato e di partecipazione ad attività sindacali; per lo stesso motivo vi è un ulteriore rinvio all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori che individua con portata più generale tutti gli atti di discriminazione sul lavoro, con una nozione che in origine prendeva in considerazione solo la discriminazione di tipo sindacale, politica o religiosa ma che successivamente è stata allargata alle situazioni relative a razza, lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore.
Una considerazione a parte è necessaria con riferimento ai licenziamenti posti in essere dalle c.d. “organizzazioni di tendenza”, ossia da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto. A tal proposito, l’art. 3, comma 5, d.lgs. n. 216/2003 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), stabilisce che «non costituiscono atti di discriminazione […] le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività».
La riforma del 2012 non ha introdotto alcuna novità circa le conseguenze sanzionatorie del licenziamento discriminatorio, conservando la disciplina già vigente ai sensi della legge n. 108/1990: la dichiarazione di nullità del recesso comporta la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro a prescindere dalle dimensioni dell’impresa, con applicazione estesa anche ai dirigenti. Il giudice con la sentenza dichiarativa della nullità condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, stabilendo un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
sino a quello dell’effettiva reintegrazione e ordinando altresì il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il medesimo periodo. In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità.
Al lavoratore, inoltre, è riconosciuta la facoltà di chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. A questo proposito, la riforma ha chiarito che la richiesta dell’indennità sostitutiva determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
Fermo restando quanto detto, la legge n. 92 ha però aggiunto all’art. 18 un’affermazione secondo la quale dall’indennità risarcitoria deve essere dedotto quanto percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione. In questo modo è stato introdotto un espresso riferimento al c.d. aliunde perceptum, in precedenza ricavato solo in via interpretativa dall’art. 1223 c.c., e sono state così superate le passate incertezze circa la fonte di quanto percepito attraverso l’utilizzo della generica formula «altre attività lavorative».
Proseguendo l’analisi, l’art. 18, comma 1 affianca alla fattispecie del licenziamento discriminatorio altre ipotesi di nullità del recesso.
Ne fanno parte innanzitutto il licenziamento intimato in concomitanza di matrimonio e il licenziamento in violazione dei divieti di licenziamento contenuti nell’art. 54 del d.lgs. n. 151/2001, previsioni normative entrambe ispirate da un obiettivo in parte diverso e ulteriore rispetto a quello della semplice garanzia di non discriminazione. Il legislatore introduce, infatti, un divieto temporaneo di recesso che va a sommarsi al generale divieto di licenziamenti discriminatori, preoccupandosi di evitare che il lavoratore o la lavoratrice possano subire, a causa di esigenze collegate alla maternità/paternità, la risoluzione del rapporto di lavoro alla luce dei costi economici o delle disfunzioni organizzative eventualmente gravanti sul datore e derivanti dal loro status20.
20 Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio, nullo e orale, in Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (a cura di),
Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 2014.
Relativamente al licenziamento in concomitanza di matrimonio, regolato dall’art. 35 del d.lgs. n. 198/2006, è prevista una presunzione di nullità del licenziamento intimato «nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa». È fatta salva la possibilità per il datore di contrastare tale presunzione dimostrando l’esistenza di una delle ipotesi tassativamente indicate dalla legge come legittimo motivo alla base del licenziamento.
Quanto al secondo gruppo di ipotesi di licenziamento nullo, l’art. 18 rinvia al già citato art. 54 del d.lgs. n .151/2001 che sancisce il divieto di licenziamento durante il periodo di gravidanza o di congedo per paternità e fino al compimento di un anno di età del bambino, nonché il divieto di licenziamento in caso di adozione o affidamento, fino a un anno di età dall’ingresso del minore nel nucleo familiare e, infine, il divieto di licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino. In questi casi non opera alcuna presunzione a favore del lavoratore, il quale dovrà provare che al momento del licenziamento esistevano le condizioni che lo vietavano. Di fronte a queste dichiarazioni il datore può difendersi dimostrando che il licenziamento è giustificato da ipotesi legislativamente previste.
Altra fattispecie prevista dall’art. 18, comma 1, della quale è sancita la nullità, è quella del licenziamento generato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., la cui entità può essere individuata attraverso le parole della Cassazione: «esso costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta»21. La disciplina del recesso per motivo illecito si può considerare differente rispetto a quella del licenziamento discriminatorio, quanto alla ratio che le pervade: se la seconda, infatti, è posta a tutela dei caratteri dell’identità personale del lavoratore costituzionalmente protetti ed è deputata a contrastare situazioni di elevata
21 Cass. 11 ottobre 2012, n. 17329.
pericolosità sociale, quella del motivo illecito mira, invece, a contenere decisioni arbitrarie del datore, non facilmente individuabili a priori, che necessitano di un’attenzione casistica in connessione con l’interesse individuale del singolo lavoratore.
Il comma 1 contiene anche una norma di chiusura relativa ai licenziamenti riconducibili ad «altri casi di nullità previsti dalla legge», così estendendo la tutela a qualsiasi altra ipotesi che pur non essendo prevista espressamente dal comma 1, sia comunque meritevole secondo la legge di essere dichiarata nulla. Sicuramente si deve far riferimento ad ipotesi tipizzate dalla legge in via preventiva, non rilevando generiche violazioni di norme imperative di diritto del lavoro, neanche di rango costituzionale22. Possono citarsi a riguardo: lo stato di sieropositività del lavoratore, il rifiuto di svolgere lavoro supplementare non previsto dai contratti collettivi, il rifiuto di trasformare il proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time e viceversa, la partecipazione ad uno sciopero illegittimo nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, il licenziamento in occasione del trasferimento d’azienda, ecc.
In chiusura l’art. 18, comma 1 estende il regime del licenziamento discriminatorio anche a quello intimato in assenza di forma scritta e dunque in violazione dell’art. 2 della legge n. 604/1966, che impone l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare per iscritto il recesso, anche senza particolari formule sacramentali ma purché risalti senza alcuna incertezza la sua volontà di porre fine al rapporto di lavoro.
5. Il licenziamento disciplinare: le fattispecie e le difficoltà interpretative
Come già evidenziato, la riforma del 2012 non ha alterato l’entità delle causali di licenziamento ma è intervenuta sul versante delle sanzioni. Infatti le
22 Xxxxxxxxx, Il licenziamento discriminatorio, nullo e orale, in Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (a cura di),
Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 2014.
nozioni di giustificato motivo soggettivo e giusta causa, entrambe causali del licenziamento disciplinare, continuano a risiedere rispettivamente nella prima parte dell’art. 3, legge n. 604/1966 e nell’art. 2119 c.c.: il giustificato motivo soggettivo consiste in «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore», mentre la giusta causa, di entità più grave, corrisponde ad un qualsiasi atto o fatto, anche non attinente all’esecuzione della prestazione lavorativa, commesso dal lavoratore e idoneo a far venir meno la fiducia del datore di lavoro23.
L’apparato delle sanzioni per i licenziamenti disciplinari illegittimi è illustrato dall’art. 18 ai commi 4 e 5, ciascuno dei quali delinea un diverso grado di tutela la cui applicazione alternativa è affidata ad una valutazione del giudice separata ed ulteriore rispetto a quella circa la legittimità o meno del licenziamento. Con il superamento dell’unicità della sanzione, infatti, è venuto meno il vecchio automatismo tra mancata giustificazione del licenziamento e applicazione della tutela reintegratoria piena.
Sono state dunque elaborate e introdotte dalla legge del 2012 due nuove forme di tutela contro i licenziamenti disciplinari illegittimi, con evidenti innovazioni rispetto alla precedente normativa.
Nello specifico, la prima e più intensa forma di tutela contenuta nel comma 4 dell’art. 18 è quella che interviene in caso di licenziamento illegittimo «per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili». In questi casi il giudice annulla il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e il pagamento a suo favore di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione.
Il legislatore, nell’introdurre una frammentazione della vecchia unicità della tutela reale, ha previsto una sanzione che, da una parte, richiama espressamente
23 Cass. 6 marzo 2003, n. 3379.
la disciplina reintegratoria di cui al comma 1 dell’art. 18 ma che, dall’altra, se ne discosta sul versante della prestazione indennitaria. L’entità di quest’ultima, infatti, è calcolata mediante criteri diversi rispetto a quelli previsti per il recesso discriminatorio: in primo luogo, devono essere dedotti sia l’aliunde perceptum, cioè quanto il lavoratore ha percepito in seguito allo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione (deduzione prevista anche dal comma 1), sia l’aliunde percipiendum, ossia quanto egli avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione; in secondo luogo, l’indennità è in ogni caso più contenuta poiché non può essere superiore a dodici mensilità e non gode del limite minimo di cinque mensilità previsto invece dal comma 1 per i casi di discriminazione.
Secondo la norma il datore è condannato altresì al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il periodo di allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro, maggiorati degli interessi nella misura legale e senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione. Resta ferma la possibilità per il lavoratore di richiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione pari a 15 mensilità.
La seconda forma di tutela, più tenue poiché di tipo indennitario, è stabilita dal comma 5 e si applica alle «altre ipotesi» di recesso privo dei requisiti della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo e quindi al di fuori delle ipotesi previste dal comma 4. In questi casi il rapporto di lavoro si intende risolto con effetto dalla data del licenziamento, ferma restando la sua illegittimità, e il datore di lavoro è condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva di entità calcolata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
La formulazione delle disposizioni appena analizzate ha suscitato numerosi dubbi interpretativi che hanno dato vita ad opinioni divergenti della dottrina e
della giurisprudenza, con riflessi diversi sulla concreta applicazione delle previsioni introdotte dalla riforma.
In primo luogo, è controverso il significato dell’espressione “insussistenza del fatto contestato” che risulta decisivo e di fondamentale importanza poiché costituisce uno dei due accertamenti giudiziali, contenuti nel comma 4, dai quali dipende l’applicazione della tutela reintegratoria “tenue” in alternativa alla tutela indennitaria “forte”: infatti, a seconda dell’interpretazione che si rivolge a tale locuzione, si può determinare un allargamento o un ridimensionamento dei casi in cui il lavoratore può ottenere il ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente risolto.
Una parte della dottrina ha ritenuto che oggetto dell’insussistenza sarebbe il fatto inteso esclusivamente nella sua struttura materiale e quindi privo di alcun elemento soggettivo che lo renda idoneo ad integrare un inadempimento. Ciò implica che se il fatto esiste, ancorché non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, al licenziamento intimato dal datore di lavoro non seguirebbe la reintegrazione24.
Secondo questa interpretazione, la norma deve essere intesa partendo dalla necessaria distinzione tra l’evento concreto, da un lato, e la sua antigiuridicità nonché la colpevolezza dell’agente, dall’altro25: ne deriva un contenimento, se non un venir meno, della discrezionalità del giudice nell’accertarne la sussistenza, in quanto «il fatto c’è o non c’è»26.
Il risultato pratico di questa lettura del quarto comma è che la sanzione risarcitoria rappresenterebbe la tutela dominante nel sistema, mentre quella reintegratoria risulterebbe marginalizzata fino a diventare un’eccezione residuale applicabile solo alle situazioni estreme in cui il datore di lavoro motiva il licenziamento sulla base di fatti inesistenti.
24 Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in
Arg. dir. lav., 1, 2013, 3.
25 Tremolada, Il licenziamento disciplinare nell’articolo 18.
26 Xxxxxxx, Il nuovo regime sanzionatorio, cit. 426.
Una prima opposizione a tale linea di pensiero ha avuto espressione nell’ordinanza del Tribunale di Bologna del 15 ottobre 2012, emanata pochi mesi dopo l’entrata in vigore della riforma. In questa sede il giudice ha riconosciuto al lavoratore la tutela reintegratoria pur in presenza della sussistenza materiale del fatto, motivando la decisione sulla base della modestia del peso disciplinare dell’episodio contestato e alla luce della rilevata sproporzione del provvedimento espulsivo del datore di lavoro. In questo frangente, dunque, il concetto di insussistenza è stato esteso oltre la semplice verifica materiale per includervi l’accertamento dell’idoneità del fatto ad integrare un notevole inadempimento del lavoratore o una condotta determinante il venir meno della fiducia del datore di lavoro.
Similmente, un altro orientamento ha dedotto la qualificazione del “fatto” come vero e proprio inadempimento contrattuale dalla circostanza che lo stesso comma 4 ammette la reintegra anche nel caso in cui la condotta rientri tra quelle punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili: poiché questi ultimi tipizzano non fatti nella loro materialità ma inadempimenti connotati da profili soggettivi della condotta, la nozione di “fatto” sarebbe da individuare proprio in questa seconda accezione più ampia27.
A sostegno di questa ipotesi, alcuni hanno affermato che la necessità di tener conto dell’elemento soggettivo è evidente in tutte quelle situazioni in cui il fatto contestato è caratterizzato da una pluralità di condotte da valutarsi complessivamente ai fini dell’accertamento della sussistenza28. Si è considerato il caso del licenziamento per scarso rendimento, ascrivibile alla fattispecie del giustificato motivo soggettivo, per il quale il datore di lavoro non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche dimostrare che la causa di esso derivi da colpevole e
27 Carinci, Il legislatore e il giudice: l’imprevidente innovatore e il prudente conservatore (in occasione di Trib. Bologna, ord. 15 ottobre 2012), in Arg. dir. lav., 2012, 773.
28 Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti.
negligente inadempimento degli obblighi contrattuali29. Infatti, il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra di per sé l’inesatto adempimento, poiché il lavoratore è obbligato ad un facere, non ad un risultato, e la inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell’impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore30. Ciò favorirebbe l’interpretazione del “fatto contestato” come inadempimento del prestatore, la cui “insussistenza” potrebbe derivare anche in difetto del solo elemento soggettivo del dolo o della colpa, nonostante esista una condotta materiale.
Ritenendo valide queste letture della norma contrarie alla separazione del fatto materiale dalla sua qualificazione giuridica, il ricorso alla reintegrazione avrebbe luogo sostanzialmente in tutte le ipotesi di licenziamento disciplinare31, con un risultato che sembra distante dagli obiettivi e dallo spirito della riforma la quale vorrebbe assegnare alla reintegrazione un carattere di sanzione estrema.
Tuttavia, questa visione unitaria del “fatto” sembrerebbe la più apprezzabile poiché, come è stato sottolineato da alcuni autori, non esistono fatti giuridicamente rilevanti che non siano fonti di obbligazioni contrattuali o extracontrattuali. Il fatto che è alla base della contestazione disciplinare o è inadempimento o non è alcunché di giuridicamente rilevante da sottoporre alla valutazione del giudice: così se il datore di lavoro attua il licenziamento motivandolo per un fatto che non è qualificabile come inadempimento, quel fatto non sussiste e deve applicarsi la tutela reintegratoria32.
Proseguendo l’analisi delle problematiche relative all’interpretazione di quanto sancito dal comma 4 dell’art. 18, quest’ultimo stabilisce altresì che il giudice debba applicare la tutela reintegratoria nel caso, già citato, in cui il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
29 Cass. 17 settembre 2009, n. 20050.
30 Cass. 10 novembre 2000, n. 14605.
31 Xxxxxxx, Quer pasticciaccio brutto; Xxxxxxx, Complimenti, dottor Xxxxxxxxxxxx.
32 Speziale, La riforma del licenziamento individuale; Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti.
base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
Secondo un certo orientamento, questa disposizione priverebbe il giudice della possibilità di valutare autonomamente la gravità dell’infrazione, giacché la scelta della sanzione da applicarvi è già stata effettuata dalle parti sociali o dallo stesso datore di lavoro e ha portato all’indicazione espressa di una misura non espulsiva del lavoratore con riguardo alla condotta esaminata. Ne consegue che la sanzione reintegratoria avrebbe la specifica funzione di punire il datore di lavoro per un abuso del suo potere disciplinare che si ritiene essere consapevole, in quanto egli ha proceduto al licenziamento pur sapendo che per quella specifica condotta era già prevista una sanzione conservativa33.
Tuttavia, è stato anche rilevato che le regole presenti nei contratti collettivi e nei codici disciplinari sono talvolta espresse in forma generica e imprecisa34 non consentendo al datore di lavoro, secondo criteri di ordinaria ragionevolezza, di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie astratta indicata e punita con una misura meramente conservativa. Questo è il caso di certe disposizioni che, prevedendo in termini generici il ricorso al licenziamento se l’infrazione è “grave” e alla sanzione conservativa se essa è di “lieve entità”, non possono applicarsi se non sono integrate da una valutazione di proporzionalità effettuata dal giudice35.
A conclusioni simili è pervenuta una seconda corrente interpretativa che richiama una versione del testo della riforma, precedente a quella definitiva, che faceva riferimento alla legge come ulteriore banco di prova circa la preferibilità dell’applicazione di sanzioni non espulsive a determinate condotte. Più precisamente, secondo questa opinione, tale riferimento era effettuato a favore del sindacato giudiziale sulla gravità dell’infrazione, ex art. 2106 c.c., il quale non potrebbe dirsi abrogato dalla legge n. 92/2012, pur essendo stato rimosso dalla lettera del quarto comma: alla luce di questa ricostruzione, il criterio di
33 Vallebona, La riforma del lavoro 2012.
34 Galantino, La riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali illegittimi.
35 Marazza, L’articolo 18, nuovo testo.
proporzionalità continua ad essere connaturato all’esercizio del potere disciplinare36.
Tra gli accertamenti che competono al giudice, quindi, vi sarebbe innanzitutto la verifica dell’esistenza di una sanzione conservativa per il fatto contestato all’interno del contratto collettivo o del codice disciplinare e, solo in assenza di tale previsione, lo svolgimento di un’autonoma valutazione circa la gravità del fatto e la decisione in merito all’applicazione della reintegrazione o del risarcimento. Osservata da questo diverso punto di vista, la disposizione del comma 4 che chiama in gioco l’esistenza di sanzioni conservative rappresenterebbe non tanto una sanzione per il comportamento di mala fede del datore di lavoro, come si è suggerito prima, quanto un criterio di individuazione del trattamento giuridico per la singola fattispecie.
Nel corso della presente tesi si avrà modo di illustrare come il recente d.lgs.
n. 23/2015 abbia specificato con più attenzione la portata delle disposizioni di cui si è discusso, conferendo maggiore chiarezza all’intero sistema (ma non per questo restando scevro da critiche nel merito).
A conclusione di questa trattazione in materia di licenziamenti disciplinari, bisogna rivolgere l’attenzione anche al regime di garanzia del corretto svolgimento delle procedure imposte dalla legge per l’intimazione del licenziamento disciplinare al lavoratore. In particolare, si tratta della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e di quella disposta all’art. 7, legge n. 604/1966.
In caso di violazione di quanto sancito da tali norme, il comma 6 dell’art. 18 prevede una sanzione indennitaria ancora più attenuata rispetto alle precedenti poiché minore è l’entità potenziale del risarcimento: il rapporto di lavoro si risolve con effetto dalla data del licenziamento e il lavoratore ha diritto a un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di
36 Speziale, La riforma del licenziamento individuale.
lavoro. Questo tipo di tutela è il medesimo previsto anche in caso di violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 604/1966, di cui si è parlato in precedenza.
6. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: le fattispecie e le difficoltà interpretative
Novità importanti sono state introdotte anche relativamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo regolato dal comma 7 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Nella prima parte la norma individua due ipotesi di licenziamento, entrambe caratterizzate dalla connessione del recesso a determinate situazioni personali del lavoratore che prescindono da una sua presunta condotta inadempiente.
La prima di queste ipotesi riguarda il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore a svolgere le mansioni assegnategli che determini un’alterazione funzionale del sinallagma contrattuale, incidendo negativamente sull’attività produttiva e sull’organizzazione del lavoro per un periodo di tempo indeterminato o indeterminabile.
In aderenza a quanto sancito dalla legge n. 68/1999, richiamata dallo stesso xxxxx 7, in questi casi il recesso è giustificato solo quando la difficoltà di impiego del lavoratore sia insormontabile, nonostante i tentativi di adattamento dell’organizzazione del lavoro e l’individuazione di differenti modalità di esecuzione della prestazione lavorativa: non è sufficiente dunque una mera complicazione nello svolgimento delle mansioni.
Questa previsione normativa ha seguito la giurisprudenza della Cassazione che ha fornito precisazioni circa il c.d. obbligo di repêchage, affermando che «la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineseguibilità
dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore»37. Si può notare, dunque, il carattere di extrema ratio del licenziamento che può considerarsi legittimo solo se il datore dimostra di aver previamente tentato di assegnare il lavoratore ad altre mansioni equivalenti o addirittura inferiori (e in quest’ultimo caso sarà necessario un vero e proprio accordo di contenuto novativo del rapporto fra le parti, al fine di adeguare il contratto alla nuova situazione di fatto). Il limite entro il quale questo obbligo può agire da presupposto di legittimità del licenziamento è stato definito dalla stessa Cassazione, che ha specificato come al datore non si può chiedere di mantenere il lavoratore alle sue dipendenze a tal punto da imporgli modifiche ingenti alla struttura organizzativa e produttiva dell’impresa che possano comprometterne l’efficienza e il funzionamento.
Si è discusso se, tra gli eventi che provocano l’impossibilità di espletare la propria capacità lavorativa, la legge includa anche i provvedimenti emanati dalle Autorità pubbliche nei confronti del lavoratore come la carcerazione, la mancanza di licenze o autorizzazioni. Secondo quanto disposto dalla Cassazione, queste vicende impeditive possono essere assimilate in via analogica all’inidoneità psicofisica prevista dal comma 7, poiché comunque incidenti sulla possibilità per il lavoratore di eseguire la prestazione38.
La seconda fattispecie di licenziamento per motivi oggettivi relativi alla persona del lavoratore è quella che si verifica in caso di superamento del periodo di comporto, ossia di quel determinato periodo di tempo che l’art. 2110, comma
37 Cass. 7 agosto 1998, n. 7755, cit.; cfr. Cass. 5 marzo 2003, n. 3245; Cass. 29 marzo 2010, n.
7531; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501.
38 Cass. 1° giugno 2009, n. 12721; Cass. 14 aprile 2005, n. 7726; Cass. 19 dicembre 1998, n.
12719.
2 x.x. xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx xx xxxx xx xxxxxxxxxx, xxxxxxxx, gravidanza o puerperio e durante il quale egli ha diritto al mantenimento del posto di lavoro.
Se il periodo di comporto è stato superato, il datore può liberamente recedere dal contratto di lavoro, senza alcun obbligo di provare l’esistenza di un motivo oggettivo o di fornire altre giustificazioni, ma semplicemente intimando il licenziamento nelle forme indicate dall’art. 2118 c.c. (ossia mediante preavviso). Se, invece, il recesso avviene in violazione dell’art. 2110, comma 2 c.c., il datore di lavoro sarà soggetto alla tutela indicata al comma 4 dell’art. 18.
Dunque rispetto alle ipotesi appena descritte, che rappresentano situazioni di particolare debolezza del lavoratore39, in caso di accertata illegittimità del licenziamento la sanzione prevista è quella della reintegrazione del lavoratore e del pagamento a suo favore dell’indennità limitata a dodici mensilità.
È il caso di notare che, prima della riforma del 2012, la violazione dell’art. 2110, comma 2, c.c. in sede di licenziamento era sanzionata con la nullità di quest’ultimo per contrasto con la disposizione codicistica40 e con il conseguente riconoscimento al lavoratore del diritto alla riammissione in servizio e alle retribuzioni non corrisposte dal momento del licenziamento fino alla effettiva riammissione in servizio: dunque senza le limitazioni risarcitorie previste dal riformato comma 4 dell’art. 18. D’altra parte, per tutte le imprese che non raggiungono il requisito dimensionale per l’applicazione dell’art. 18 resta ferma l’efficacia della legge n. 604/1966, la quale continua ad operare attraverso il vecchio e più favorevole regime della nullità. Da queste puntualizzazioni sembra emergere dunque un’incongruenza del sistema sanzionatorio complessivo, poiché riconosce la tutela più forte alle piccole realtà imprenditoriali e quella attenuata alle imprese medio-grandi41.
La disposizione del comma 7 prosegue poi indicando la disciplina del licenziamento per motivo oggettivo “in senso stretto” ovvero, secondo una
39 Marazza, L’articolo 18, nuovo testo.
40 Cass. 8 maggio 2003, n. 7047.
41 Albi, Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, in Xxxxxxx-Xxxxxxx-Mazzotta
differente accezione, per motivi economici. Questa fattispecie è riconducibile alla seconda parte dell’art. 3, legge n. 604/1966, secondo la quale essa è determinata
«da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». La legge utilizza un’espressione molto ampia per definire la portata di queste “ragioni”, da intendersi generalmente come situazioni o eventi che influiscono sulla realtà aziendale nella quale è inserito il lavoratore e che determinano oggettive esigenze del datore di porre fine al rapporto di lavoro.
La giurisprudenza è intervenuta per precisare che tali esigenze devono essere indicate dal datore di lavoro e devono possedere i caratteri dell’effettività e veridicità, nonché della non arbitrarietà, così da assicurare che le circostanze di fatto dalle quali esse scaturiscono non siano state predeterminate in forza di un atto pretestuoso del datore di lavoro. Quest’ultimo è anche chiamato a provare l’esistenza di un nesso di causalità, ossia di una precisa consequenzialità tra la motivazione addotta e la singola scelta di procedere al licenziamento.
Alla luce di questi criteri, possono costituire legittime causali di licenziamento per motivi oggettivi eventi quali la parziale chiusura o riduzione dell’attività di un settore dell’impresa, il riassetto organizzativo in conseguenza di una crisi economico-finanziaria e commerciale o di una grave crisi aziendale che renda concretamente necessario il contenimento dei costi mediante licenziamenti, la cessazione di un appalto42.
La giurisprudenza è inoltre unanime nel ritenere che il datore di lavoro sia tenuto anche al rispetto dell’obbligo di repêchage e che debba provare il carattere di extrema ratio del licenziamento, ossia l’assenza di qualsiasi possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti nell’ambito dell’azienda (intendendosi per essa non solo l’unità produttiva ma anche altre sedi della stessa).
42 Cairoli, Il licenziamento per motivi economici, in X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 2014.
La riforma del 2012 ha introdotto una differenziazione delle sanzioni in funzione della gravità del vizio del recesso per giustificato motivo oggettivo. Il comma 7 stabilisce innanzitutto che il giudice «può» applicare la stessa disciplina reintegratoria di cui al comma 4 «nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»; mentre «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo» egli applica la disciplina di cui al quinto comma che prevede la sanzione indennitaria tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità tenendo conto, oltre ai criteri di tale comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione.
La formulazione letterale di queste disposizioni non è esente da difficoltà interpretative. Materia di discussione è stata in primo luogo la qualificazione della insussistenza del fatto attraverso l’utilizzo dell’aggettivo “manifesta”, termine che la legge ha inserito senza tuttavia individuare criteri oggettivi ai quali ancorarne il significato. L’individuazione di quest’ultimo quindi sembra essere affidata all’interpretazione del giudice, determinandosi in questo modo un ampliamento della sua discrezionalità e una minore predeterminabilità dei rischi e dei costi per il datore di lavoro43.
Al fine di tentare una ricostruzione della reale volontà legislativa che sottende la disciplina in analisi, sembra possibile partire dall’assunto consolidato secondo cui, in base al principio di immodificabilità dei motivi di licenziamento comunicati al dipendente, la sussistenza si riferisca ai fatti esposti dal datore di lavoro in sede di necessaria indicazione della motivazione del recesso contestualmente alla intimazione del licenziamento. Resta comunque l’esigenza di distinguere i casi in cui l’insussistenza sia manifesta dai casi in cui non lo sia.
Secondo una prima interpretazione bisognerebbe separare l’ipotesi della totale assenza del fatto, intesa come scelta aziendale non concretizzatasi effettivamente, da quella del fatto esistente ma ritenuto non idoneo a giustificare
43 Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, 1, 521 ss.; Xxxxxxx, La riforma del mercato del lavoro, intervento in Il dibattito sulla riforma italiana del mercato del lavoro, in xxxxx.xxxxx.xx, 19 aprile 2012.
il recesso44. Nel primo caso si tratterebbe di manifesta insussistenza poiché la ragione aziendale manca del tutto, mentre nel secondo si rientrerebbe nelle “altre ipotesi” previste dalla legge. A conclusioni simili è giunta la dottrina che individua nei caratteri di veridicità, effettività e non arbitrarietà della scelta economico-organizzativa giustificante il recesso, gli elementi la cui mancanza determinerebbe la manifesta insussistenza del fatto45.
Adottando questa lettura si rischierebbe tuttavia di permettere che il datore di lavoro rientri nell’ambito di applicazione della tutela per lui meno gravosa semplicemente indicando come motivazione del licenziamento una qualsiasi scelta aziendale che, pur essendo concreta ed effettiva, non ha alcuna connessione con lo specifico licenziamento intimato46.
Alcuni autori molto critici con le soluzioni adottate dalla riforma hanno poi rilevato come non sarebbe logicamente realizzabile la valutazione di un fatto secondo diverse gradazioni di esistenza, poiché esso sussiste ovvero non sussiste senza possibilità di ulteriori valutazioni di tipo quantitativo47.
Secondo altri, invece, la formula della manifesta insussistenza potrebbe spiegarsi limitando la reintegrazione ai casi in cui si riscontra una evidente e facilmente verificabile assenza di presupposti giustificativi (come l’ipotesi di sostituzione del lavoratore con un macchinario risultato poi inesistente)48.
Quest’ultima teoria porterebbe a ricondurre la manifesta insussistenza a casi residuali, quasi ipotesi di scuola, nelle quali la non veridicità della ragione addotta è palese ovvero facilmente accertabile49; al contrario, laddove sia necessario un giudizio più complesso ed uno sforzo istruttorio maggiore, l’eventuale accertata insussistenza della giustificazione del licenziamento comunque non potrebbe dirsi manifesta, ma rientrerebbe tra le “altre ipotesi”.
44 Xxxxxxx, Il nuovo regime sanzionatorio.
45 Ghera, Diritto del lavoro, Appendice.
46 Xxxxxxx, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi.
47 Persiani, Intervento, in Colloqui, 67-8; Carinci, op. cit.
48 Xxxxxxxx, I nodi irrisolti del nuovo articolo 18.
49 Alleva, Punti critici della riforma del mercato del lavoro in tema di flessibilità in entrata e in uscita. Interventi indispensabili.
È stato sottolineato come questa ricostruzione teorica sposti il focus della discussione dal piano della sussistenza del fatto a quello della sua percezione50, con il rischio che l’individuazione della tutela applicabile al caso possa essere influenzata da fattori del tutto estranei alla fattispecie, come la complessità dell’organizzazione aziendale che renda più difficile l’evidenza della mancata giustificazione ovvero la maggiore o minore abilità tecnica dell’estensore della lettera di motivazione del licenziamento o della memoria difensiva.
Cercando, a questo punto, di offrire una soluzione a queste incertezze interpretative, sembra conveniente adottare come parametri di valutazione i criteri che la giurisprudenza ha elaborato negli anni al fine di verificare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo: si è già detto in precedenza che si tratta dei caratteri di veridicità, effettività e non arbitrarietà delle “ragioni” del datore di lavoro, del nesso causale tra queste e il licenziamento di un determinato lavoratore e, infine, dell’obbligo di repêchage.
È pacifico che una prima situazione riconducibile alla “manifesta insussistenza” è quella in cui il giudice ha accertato la non veridicità della scelta economico-organizzativa indicata dal datore di lavoro a giustificazione di un recesso che risulta del tutto arbitrario.
Appare tuttavia necessario non fermarsi a considerare solo queste limitate situazioni, ma collegare alla “manifesta insussistenza” anche i casi di mancanza del nesso di causalità tra il licenziamento intimato al lavoratore e la ragione aziendale che ne costituisce il fondamento, anche se questa fosse esistente51. Ciò sembra avvalorato dalla lettera della legge che fa riferimento alla insussistenza del «fatto posto alla base del licenziamento», locuzione che evidenzia la stretta relazione consequenziale tra la valutazione organizzativo-produttiva del datore e l’intimazione del licenziamento52; anche volendo ricorrere ad un semplice ragionamento logico, sarebbe incoerente ritenere che una ragione aziendale
50 Carinci, Complimenti, dottor Xxxxxxxxxxxx.
51 Xxxxxxx-Gramano, La nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento illegittimo: il licenziamento per ragioni oggettive, in Persiani-Xxxxxxx (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013.
52 Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Diritto dei lavori, Torino, 2013; Marazza, L’articolo 18, nuovo testo.
esistente ma estranea alla posizione del lavoratore licenziato non costituisca una manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso.
Una certa dottrina sostiene che anche la violazione dell’obbligo di repêchage concorra a determinare la “manifesta insussistenza” del fatto poiché esso è una componente strutturale della nozione di giustificato motivo oggettivo ed è per questo inscindibile da essa53.
Secondo una diversa interpretazione, invece, fermo restando il carattere di extrema ratio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non sarebbe possibile individuare quelle “altre ipotesi” alle quali il comma 7 collega la tutela più tenue, se non considerando proprio l’obbligo di repêchage come elemento a sé stante, non ricompreso tra i parametri che determinano la manifesta insussistenza del fatto.
Si sostiene, pertanto, che laddove il datore di lavoro non abbia fornito prova di essersi adoperato a sufficienza per mantenere il lavoratore alle sue dipendenze, ma abbia compiutamente dimostrato l’esistenza delle ragioni aziendali e la loro connessione causale con il licenziamento del lavoratore medesimo, questa situazione sia riconducibile ad un’insussistenza del fatto, tuttavia non manifesta54. Dunque l’obbligo di subordinare il licenziamento alla prova della sua inevitabilità è comunque vigente, ma qualora fosse violato porterebbe all’applicazione della sola tutela indennitaria, non essendo idoneo a invalidare il licenziamento55.
A rendere più complesso questo incerto quadro normativo, il legislatore sembra aver introdotto una facoltà di scelta per il giudice che, in caso di manifesta insussistenza del fatto, «può» applicare la tutela reintegratoria in luogo di quella risarcitoria. È evidente come ciò amplifichi in maniera sensibile la discrezionalità del giudice già di per sé estesa a causa del significato ambiguo della “manifesta insussistenza”.
53 Xxxxxxx, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi.
54 Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in
Arg. dir. lav., 2013, 1, 18.
55 Meucci, La nuova disciplina dei licenziamenti.
La conclusione che sembra ricavarsi da tali previsioni normative è che la tutela della reintegra abbia ormai assunto un carattere di eccezionalità nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dato che la sua applicazione non è automatica neanche nel caso di manifesta insussistenza del fatto. Di contro, la tutela indennitaria sembra ricoprire il ruolo di regola sanzionatoria prevalente nel sistema.
A modificare ulteriormente l’assetto delle tutele è giunta la recente riforma del 2015 che ha definito esplicitamente e con formulazioni meno ambigue l’estensione applicativa di ciascuna delle sanzioni per i licenziamenti illegittimi.
7. Il licenziamento collettivo
La disciplina dei licenziamenti collettivi è regolata dalla legge n. 223/1991 che prevede due fattispecie: quella del licenziamento collettivo per messa in mobilità e quella del licenziamento collettivo per riduzione del personale, rispettivamente disciplinate dagli artt. 4 e 24 di tale norma e rimaste invariate anche dopo l’entrata in vigore dalla legge n. 92/2012 (con la sola eliminazione del riferimento alla “messa in mobilità” in vista della soppressione dell’indennità di mobilità e della sua sostituzione con altre forme di ammortizzatori sociali).
La prima delle due ipotesi riguarda le imprese con più di quindici dipendenti che, ammesse al trattamento straordinario di integrazione salariale in forza di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione aziendale o di superamento della crisi economico-produttiva, ritengano di non poter garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi, né di poter ricorrere a misure alternative idonee ad evitare gli esuberi: in tali contesti le imprese hanno facoltà di avviare la procedura per attuare la c.d. mobilità dei dipendenti.
La fattispecie disciplinata dall’art. 24, invece, riguarda i datori di lavoro imprenditori e non, che occupino più di 15 dipendenti anche in sedi distinte e che, dovendo ricorrere ad una riduzione o trasformazione di attività, intendano
effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio della stessa provincia.
Il requisito dimensionale richiesto per entrambe le fattispecie deve essere determinato con riguardo all’occupazione media del semestre antecedente all’avvio della procedura e con esclusione dei dirigenti, tutelati con le modalità stabilite dalla contrattazione collettiva56.
Va sottolineato, ai fini dell’applicazione della disciplina del licenziamento collettivo, il dibattito sorto intorno alla rilevanza del contrasto fra l’intenzione del datore di lavoro di effettuare il numero minimo di licenziamenti previsto dall’art. 24 e il concreto esperimento di un numero inferiore di essi alla conclusione del procedimento di gestione. Inizialmente la giurisprudenza ha ritenuto che i licenziamenti effettuati per volontà del datore di lavoro in numero inferiore rispetto a quelli programmati si dovessero ricondurre alla fattispecie dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo57. Più recentemente, con un diverso orientamento anche alla luce della riforma del sistema sanzionatorio della legge Fornero, la giurisprudenza ha giudicato irrilevante il problema e ha sostenuto comunque l’applicabilità dell’art. 24 con la conseguenza che il numero degli esuberi può essere ridotto a meno di 5, se oggetto di trattativa sindacale e successiva formalizzazione nell’accordo58.
Le due fattispecie di licenziamento collettivo sono accomunate dall’esperimento di uno stesso iter procedurale che è rimasto invariato anche alla luce delle modifiche della legge n. 92/2012.
La procedura si apre con una comunicazione obbligatoria scritta del datore di lavoro alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (in mancanza delle rappresentanze, i destinatari della comunicazione sono le associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale): questi soggetti infatti sono titolari di un
56 Cass. 1° dicembre 2010, n. 24340, in Mass. Giust. civ., 2010, 12, 1545.
57 Cass. 2 gennaio 2001, n. 5; Cass. 1° febbraio 2003, n. 1526.
58 Cass. 2 agosto 0000, x. 00000.
diritto di informazione e consultazione la cui violazione da parte del datore costituisce una condotta antisindacale. La comunicazione deve rendere noti l’intenzione di procedere al licenziamento di una pluralità di risorse, i motivi che determinano la situazione di eccedenza, i motivi tecnici, organizzativi, produttivi per i quali non è possibile adottare misure idonee ad evitare in tutto o in parte il licenziamento collettivo, il numero, la collocazione aziendale e le qualificazioni professionali del personale eccedente, i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale e delle misure per fronteggiare le conseguenze sociali di tale programma. Queste indicazioni devono essere veritiere e ispirate da correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. per consentire ai sindacati e alle rappresentanze dei lavoratori di essere messe al corrente della concreta situazione aziendale.
Alla luce della comunicazione ricevuta, le rappresentanze sindacali dispongono della facoltà di proporre un confronto leale e trasparente con il datore di lavoro per una verifica consapevole delle cause di eccedenza del personale e del programma aziendale di riduzione, con il fine di raggiungere un accordo per evitare o quanto meno contenere i licenziamenti programmati. Poiché è indubbio che tali decisioni comportino un impatto significativo sul contesto sociale e territoriale, è affidata dunque al controllo sindacale la tutela degli interessi collettivi e dei lavoratori per garantire la corretta applicazione dell’iter stabilito dalla legge. Se a seguito di questa procedura sindacale non si raggiunge l’accordo fra le parti, l’esame prosegue davanti alla Direzione territoriale del lavoro che propone soluzioni alternative con la stessa finalità di pervenire ad un accordo (ad esempio attraverso il ricorso all’integrazione salariale o ai contratti di solidarietà).
La disciplina in esame, sebbene favorisca la conclusione di un accordo fra le parti, non la impone tassativamente: infatti, anche in mancanza di essa il datore di lavoro può comunque collocare in mobilità (e cioè licenziare) i lavoratori eccedenti, con esclusione dei dirigenti.
L’art. 5 della legge n. 223/1991 stabilisce che l’individuazione di questi lavoratori deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, secondo criteri differenti legati all’esito delle procedure di consultazione precedentemente esposte: infatti in presenza dell’accordo, i criteri di scelta sono fissati dalle parti stipulanti, mentre in mancanza sono stabiliti dalla legge in concorso tra loro (carichi di famiglia, anzianità di servizio, esigenze tecnico-produttive ed organizzative).
Esaurita la procedura di mobilità, l’impresa può comunicare il recesso, per iscritto e nel rispetto dei termini di preavviso, a ciascuno dei lavoratori interessati trasmettendo alla Direzione regionale del lavoro e alle associazioni di categoria l’elenco dei lavoratori in mobilità, con puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta al fine di consentire ai sindacati il controllo delle scelte aziendali del datore.
Sul versante delle sanzioni previste per i licenziamenti collettivi illegittimi, la disciplina di riferimento ha subìto importanti modifiche in seguito all’entrata in vigore della legge n. 92/2012 e alla conseguente introduzione del nuovo testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
In primo luogo, è da analizzare l’ipotesi dell’esistenza di vizi della comunicazione di avvio della procedura che il datore di lavoro è tenuto ad inviare alle rappresentanze sindacali. La ratio che sottende tale obbligo è insita nella propedeuticità della comunicazione stessa rispetto ai provvedimenti di licenziamento, la quale si giustifica con la necessità di assicurare ai sindacati una maggiore possibilità di controllo delle strategie risolutive della crisi aziendale, di favorire il confronto dialettico fra le parti e di valutare l’interesse pubblico connesso ai costi della mobilità e alla conservazione dell’occupazione59.
In ragione di questa logica e nel silenzio della legge, parte della giurisprudenza riteneva che la mancata indicazione degli elementi richiesti per tale comunicazione fosse meritevole di sanzione poiché inficiava in maniera
59 Cass. 12 agosto 2009, n. 18253; Cass. 5 aprile 2011, n.7744; Cass. 6 aprile 2012, n.5582.
irreversibile la legittimità dei xxxxxxx00: in tal modo si attribuiva alle irregolarità valore assorbente al punto da rendere inefficaci accordi o successivi chiarimenti e informazioni da parte del datore di lavoro61. La stessa giurisprudenza attribuiva al singolo lavoratore la legittimità a contestare la genericità o incompletezza della comunicazione e il conseguente vizio del licenziamento.
Un’altra giurisprudenza, invece, era orientata a dare valore sanante all’accordo sindacale, la cui stipulazione renderebbe non più significativi i vizi della comunicazione, a meno che fosse dimostrata la loro efficacia fuorviante o diretta ad eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali62. Questo diverso orientamento riteneva, dunque, che si potesse formare una sorta di presunzione relativa di regolarità superabile solo attraverso la produzione, da parte del lavoratore, di una prova dell’illegittimità della procedura per insufficienza ed inadeguatezza della comunicazione.
Recependo la linea di pensiero di quest’ultima giurisprudenza, la legge n. 92/2012, in particolare l’art. 1, comma 45, ha introdotto una modifica dell’art. 4, comma 12 della legge del 1991. La norma ora stabilisce che eventuali vizi nella fase di informazione sindacale si considerano sanati nel momento in cui intervenga l’accordo di esito della procedura di licenziamento.
La disposizione in esame, tuttavia, ha suscitato forti dubbi interpretativi in quanto non è specificata quale tipologia di accordo possa produrre tale efficacia sanante, anche in relazione alla natura gestionale dell’accordo, ossia alla sua applicabilità a tutti i lavoratori a prescindere dall’iscrizione ad uno dei sindacati stipulanti.
La norma sembra presupporre comunque la presenza di una comunicazione, seppur viziata, e dunque in caso di sua totale assenza la sanatoria sarebbe impossibile, nonostante l’eventuale comunicazione successiva. Inoltre, il mancato invio della comunicazione ad alcune delle rappresentanze sindacali legittimate a ricevere le informazioni ostacolerebbe l’efficacia sanante
60 Cass. 2 marzo 2009, n. 5034.
61 Cass. 21 settembre 2011, n. 19233.
62 Cass. 12 agosto 2009, n. 18253; Cass. 24 ottobre 0000, x. 00000.
dell’accordo stipulato con le restanti associazioni, in quanto favorirebbe di fatto il datore di lavoro permettendogli di scegliere i soggetti con i quali trattare sin da subito e, di contro, quelli con i quali risolvere a posteriori gli eventuali vizi procedurali63.
La lettera della norma stabilisce che la comunicazione avvenga
«nell’ambito» della procedura e sembra quindi portare a ritenere che l’accordo sindacale per raggiungere l’effetto sanante debba contenere l’espressa e consapevole dichiarazione delle parti di voler usufruire della sanatoria, nonché l’indicazione dei vizi della comunicazione iniziale e una rettifica o integrazione di quanto erroneamente o solo parzialmente indicato, al fine di soddisfare il requisito della veridicità dell’informazione. In difetto di quanto sopra, l’accordo non potrebbe esplicare i suoi effetti riparatori, consentendo al prestatore di agire per far valere i vizi incidenti sui contenuti dell’accordo64.
Tornando alla trattazione delle sanzioni per i licenziamenti collettivi illegittimi, in secondo luogo va esaminata l’ipotesi del recesso intimato senza la forma scritta. L’art. 5, comma 3, legge n. 223/1991, novellato dalla Riforma Fornero, mantiene il previgente regime sanzionatorio confermando l’applicazione della reintegrazione del lavoratore unitamente all’integrale diritto al risarcimento del danno ex art. 18, comma 1 dello Statuto dei lavoratori, con ciò accomunando l’ipotesi in analisi a quella del licenziamento viziato sotto il profilo discriminatorio.
Qualora, invece, sia stata violata la procedura prevista dall’art. 4, lo stesso art. 5 modificato dalla legge n. 92/2012, prevede non più la tutela reintegratoria, bensì la risoluzione del rapporto di lavoro e la condanna del datore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura calcolata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Nei vizi procedurali in esame devono ricomprendersi tutti i possibili vizi
63 Xxxxxxxxx, I licenziamenti collettivi per riduzione del personale, Guida alla Riforma Fornero, xxx.xxxxxxxxxx.xx, 2012.
64 Marazza-De Feo, I licenziamenti collettivi, in Persiani-Xxxxxxx (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013.
che attengono alla fase di consultazione sindacale ed amministrativa nei loro passaggi logico-temporali, fino alla comunicazione finale. Resta ferma la possibilità per il sindacato che sia ostacolato nella sua funzione di controllo sulle scelte datoriali, di esperire il procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28, Statuto dei lavoratori.
Se infine il datore di lavoro ha selezionato i lavoratori da licenziare senza attenersi ai criteri esposti in precedenza, si applica il regime della reintegrazione con risarcimento del danno che non può superare le dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Solo in questo caso, inoltre, è consentito all’impresa di effettuare licenziamenti in numero pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dover esperire una nuova procedura ma fermo restando il rispetto dei criteri di scelta stabiliti in via contrattuale o in base alla legge65.
La disciplina di quest’ultima ipotesi di illegittimità dei licenziamenti collettivi dà adito ad una riflessione finale. Da una parte, la procedura di consultazione che segue l’invio della comunicazione iniziale è sottratta al sindacato di merito ex post del giudice sulle scelte datoriali sottostanti il licenziamento collettivo, in quanto esse appartengono ad un’area di discrezionalità garantita dal principio costituzionale di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.); pertanto, il potere di recesso del datore di lavoro non è vincolato nel “se” ma nel “come”, mediante l’attribuzione del controllo ex ante sull’iniziativa imprenditoriale alle organizzazioni sindacali in forza del loro diritto di informazione e consultazione all’avvio della procedura. Dall’altra, nel caso di violazione dei criteri di scelta, è il giudice ad essere chiamato a verificarne la corretta attuazione poiché, essendo tassativamente predeterminati in modo oggettivo dalla legge o dall’eventuale accordo sindacale, si pongono quale limite all’esercizio del potere di recesso datoriale a tutela degli interessi dei singoli lavoratori.
65 Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Diritto dei lavori, Torino, 2013.
CAPITOLO 2
Tutele crescenti nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23
1. Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, dalla legge delega al decreto attuativo
A distanza di circa due anni dall’incisiva riforma promossa dal ministro Xxxxxxx, il sistema lavoristico italiano vive una nuova fase di regolazione dei rapporti di lavoro subordinati che se, da un lato, raccoglie e mantiene certi meccanismi ereditati dalla legge del 2012, dall’altro sembra ispirato da una diversa concezione della tutela del lavoratore e della stabilità delle prestazioni lavorative, in netto contrasto rispetto al passato. Questa manovra legislativa prende il nome di “Jobs Act” e si compone di una serie di interventi, alcuni già operativi e altri ancora in fase di definizione, ciascuno dei quali è orientato ad innovare specifiche aree o materie del diritto del lavoro.
Il percorso di riforma prende il via a partire dalla legge delega n. 183, promulgata il 10 dicembre 2014 a seguito di un iter parlamentare svoltosi in un clima di contestazioni e aspre critiche al Governo Xxxxx che ne è stato il promotore. La legge definisce i principi e i criteri direttivi nel rispetto dei quali l’Esecutivo è delegato ad emanare appositi decreti legislativi attutativi «in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro».
Al momento in cui si scrive il presente lavoro, le modifiche all’ordinamento apportate dal legislatore delegato hanno interessato l’impianto delle tutele riconosciute al lavoratore contro i licenziamenti illegittimi e la materia degli ammortizzatori sociali con l’introduzione della Naspi. Sono però in dirittura
d’arrivo ulteriori interventi che confluiranno in un unitario programma di riordino del sistema contrattualistico e di revisione degli strumenti a sostegno della disoccupazione involontaria nonché di quelli a tutela del lavoratore sia in costanza che al termine de rapporto di lavoro.
Ai fini della presente analisi incentrata sulle nuove norme relative ai licenziamenti, è rilevante l’art. 1, comma 7 della legge delega nel quale è contenuta un’affermazione di scopo: l’emanazione dei successivi decreti di attuazione deve essere indirizzata a «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione». Nella lettera c) dello stesso comma 7 la legge procede nel dettare le linee di azione invitando l’Esecutivo ad introdurre nella nuova disciplina la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».
Una lettura congiunta di queste disposizioni poteva condurre alla conclusione che il rafforzamento delle opportunità di ingresso nel mondo del lavoro fosse affidato alla creazione di una nuova tipologia contrattuale. In realtà si è presto riconosciuto che tale previsione non va ad incidere sulle caratteristiche proprie dell’istituto del contratto a tempo indeterminato, ma si riferisce ad una nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi.
Ciò è coerente anche con il criterio di cui alla lettera b) del comma 7 la quale dispone che gli interventi attuativi debbano promuovere il contratto a tempo indeterminato «come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Si può individuare in questa chiara espressione di intenti del legislatore la piena conferma dei propositi già enunciati nella riforma del 2012 che già qualificava il contratto a tempo indeterminato come “forma comune” di regolazione del rapporto di lavoro.
La legge delega del 2014, tuttavia, si spinge oltre la semplice ripetizione di vecchie formule e si mostra ancora più favorevole alla promozione del contratto a tempo indeterminato, chiedendo che esso sia reso “più conveniente”. Si vedrà,
nel successivo capitolo, come il legislatore abbia progettato un bonus economico per le assunzioni a tempo indeterminato prevedendo nella Legge di stabilità 2015 due incentivi a favore del datore di lavoro del settore privato, imprenditore e non: un esonero contributivo triennale per i neoassunti in corso d’anno e la eliminazione permanente del costo del lavoro sostenuto per la totalità dei lavoratori assunti a tempo indeterminato dalla base imponibile Irap.
La nuova disciplina è dunque volta a convogliare le assunzioni di nuova forza lavoro verso l’utilizzo di uno strumento contrattuale che sia più allettante per i datori di lavoro e nello stesso tempo più vantaggioso per i lavoratori, in termini di continuità dell’occupazione, di formazione e di competenza.
La stessa legge delega, inoltre, delinea i principi guida per la definizione strutturale del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, indicandone le caratteristiche principali. Nella lettera c) del comma 7 sono indicati, in primo luogo, i destinatari del “nuovo” modello contrattuale che deve trovare applicazione solo «per le nuove assunzioni», con la conseguente permanenza in vigore delle regole finora seguite in materia di licenziamenti per i lavoratori che siano già in servizio alla data di entrata in vigore del decreto attuativo. In secondo luogo, la norma anticipa in maniera sintetica le principali innovazioni da apportare al regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi: essa fa esplicito riferimento ai licenziamenti economici per i quali esclude la possibilità della reintegrazione del lavoratore; parallelamente limita quest’ultima ai licenziamenti nulli e discriminatori e a «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato»; infine, prevede un «indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio», sottratto dunque alla discrezionalità del giudice.
Alla luce di questi primi indirizzi normativi, la nuova disciplina sembra esprimere una precisa intenzione del legislatore dettata dall’idea che il rafforzamento dell’occupazione, in una logica di promozione delle assunzioni a tempo indeterminato, possa realizzarsi attraverso una tutela del posto di lavoro che risulti meno rigida di quella sancita dalle disposizioni dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori e che garantisca maggiori certezze nella determinazione dei costi derivanti dal licenziamento.
Si tratta dunque di una presa d’atto dell’inadeguatezza della norma statutaria rispetto al mutato contesto economico globale, alla quale il legislatore reagisce abbandonando la disciplina ispirata all’idea di job property e accogliendo un nuovo modello incentrato sulla flexsecurity. Questa è intesa come possibilità dell’azienda di avvalersi della necessaria flessibilità in uscita al fine di assecondare i cicli economici e produttivi ma senza che questo si trasformi in precarietà per il lavoratore: il legislatore punta sulla promozione del c.d. workforce management, ossia della gestione delle competenze dei lavoratori diretta a facilitarne l’impiego senza soluzione di continuità presso diverse aziende e a potenziarne il “capitale umano”. Nelle intenzioni del legislatore, ciò porterà anche ad un rafforzamento della employability intesa come capacità del lavoratore, grazie alle conoscenze acquisite e alla formazione continua, di risultare occupabile senza interruzioni durante l’arco della vita professionale, di rendersi più facilmente impiegabile nel caso di perdita del posto di lavoro e di acquisire maggiore sicurezza e forza contrattuale66.
L’indirizzo riformatorio così impostato dalla legge delega ha trovato attuazione, dopo circa tre mesi dalla sua entrata in vigore, nel decreto legislativo del 4 marzo 2015 n. 23, intitolato “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” ed entrato in vigore il successivo 7 marzo.
2. Campo di applicazione
La nuova disciplina introdotta dal decreto n. 23 produce una netta separazione delle tutele tra i lavoratori assunti prima della sua entrata in vigore e
66 Colli-Lanzi, Employability, flexicurity: le parole d’ordine per ripartire, in De Cesari-Pizzin- Prioschi (a cura di), Jobs Act: Il contratto a tutele crescenti, inserto allegato a Il Sole 24 Ore, Milano, 2015.
quelli assunti successivamente sulla base di un contratto a tempo indeterminato. Solo questi ultimi sono i destinatari della riforma e tra essi sono inclusi anche coloro i quali abbiano risolto un precedente rapporto di lavoro (in seguito a dimissioni o licenziamento) e stipulino un nuovo contratto a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori che in tale data risultino già assunti, invece, continuerà ad applicarsi la normativa precedente, che non viene abrogata.
La disciplina interessa le categorie degli operai, impiegati e quadri non solo in caso di assunzione a tempo indeterminato, ma anche qualora vi sia stata conversione, sempre successiva all’entrata in vigore del decreto, del contratto a tempo determinato o del contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
Inoltre, per non scoraggiare la crescita delle piccole imprese (e per favorire ulteriormente il ricorso al tempo indeterminato), sono stati ricompresi nel campo di applicazione del decreto tutti i dipendenti delle imprese che, in seguito ad assunzioni a tempo indeterminato successive al 7 marzo 2015, superano la soglia dei 15 dipendenti fissata dall’art. 18, commi 8 e 9 dello Statuto dei lavoratori come criterio distintivo tra piccole e grandi imprese. In queste ipotesi non rileva più la differenza fra “vecchi” e “nuovi” assunti e si verifica una parificazione dei trattamenti dell’intero organico aziendale.
La legge non contempla, tuttavia, l’ipotesi in cui, dopo il superamento della soglia dimensionale, l’impresa veda diminuire il suo personale ritornando al di sotto della soglia stessa. A voler compiere un’interpretazione logica si dovrebbe affermare che ai vecchi assunti torni ad essere applicabile la disciplina dell’art. 8 della legge n. 604/1966 come se il requisito dimensionale non fosse mai stato soddisfatto67.
Le nuove regole non si applicano ai dirigenti, anche se neoassunti, per i quali continua ad applicarsi l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, e neppure ai lavoratori parasubordinati e autonomi.
67 Xxxxx, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, in Pessi- Xxxxxx-Xxxxx-Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
Già a partire dal dicembre 2014, quando era stata predisposta la prima bozza del decreto sul contratto a tutele crescenti per l’invio alle Camere, si era posta la questione dell’applicabilità delle nuove regole sui licenziamenti ai dipendenti del settore pubblico, data l’assenza di un’esplicita disposizione normativa che escludesse tale categoria di lavoratori dal campo di applicazione del decreto. In molti hanno affermato che la soluzione a tale dubbio debba essere positiva e che quindi la riforma abbia operato una parificazione delle discipline tra impiego pubblico e privato.
Tale interpretazione trova fondamento attraverso il riferimento all’art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 165/2001 (Testo unico per il pubblico impiego), il quale stabilisce che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni codicistiche e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato privati, salvo che vi sia una specifica disciplina della materia per il settore pubblico. Dunque, non essendoci alcun limite espresso all’estensione della norma alla PA, si propende per la soluzione che appare più coerente dal punto di vista sistematico.
Sempre a favore di questa teoria, si è sottolineato come già nella legge n. 92/2012 fosse prevista un’apertura all’armonizzazione della disciplina tra settore pubblico e settore privato attraverso l’inclusione nella legge medesima di
«principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» (art. 7) la cui attuazione era affidata al Ministro per la pubblica amministrazione (art. 8). Nonostante questa previsione sia rimasta lettera morta, la normativa sui licenziamenti del riformato art. 18 è stata comunque ritenuta direttamente applicabile anche al settore pubblico in virtù del rinvio mobile operato dall’art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165/200168.
Di contro, una diversa lettura della riforma attenta anche agli obiettivi cui essa si ispira, trova proprio in questi ultimi un argomento a favore dell’esclusione dell’applicabilità al lavoro pubblico: all’art. 7, comma 1 della legge delega, come già visto, è sancita una delle principali finalità del nuovo regime dei
68 Trib. Perugia 9 novembre 2012; Trib. Ancona 31 gennaio 2013.
licenziamenti, ossia quella di ridurre la disoccupazione incentivando le assunzioni a tempo indeterminato; si argomenta dunque che se la nuova disciplina è stata emanata con un preciso scopo rispetto al quale la Pubblica Amministrazione è estranea - poiché la sua propensione all’assunzione non dipende da alcun tipo di incentivi occupazionali, bensì solo dall’esigenza di perseguire l’interesse pubblico - risulta più logico affermare che il legislatore omettendo il riferimento all’impiego pubblico abbia voluto effettivamente escluderlo dall’applicazione della norma69.
A conclusioni analoghe perviene chi sottolinea che la norma inquadra i suoi destinatari nelle categorie tipiche del settore privato (operai, impiegati, quadri) che non trovano riscontro nelle amministrazioni pubbliche70.
A porre fine alle questioni interpretative, ma non anche alle critiche sull’opportunità delle scelte legislative, è intervenuto il Ministro della Funzione Pubblica che nel marzo 2015 ha dichiarato l’effettiva esclusione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni dal campo di applicazione soggettiva del decreto sul contratto a tutele crescenti.
Tornando alla disciplina normativa, la conseguenza più significativa della prevista divisione della popolazione attiva in vecchi e nuovi assunti è rappresentata, com’è facile intuire, dalla coesistenza di due diversi regimi di tutela nel mercato del lavoro e soprattutto all’interno della medesima azienda. Ciò potrebbe condurre a risultati apparentemente anche poco comprensibili vista la non remota possibilità che lavoratori appartenenti alle due diverse categorie possano esser soggetti ad un diverso trattamento pur essendo responsabili per la medesima condotta, con conseguenze rilevanti anche dal punto di vista processuale.
69 Pisani, Il nuovo regime di tutele per il licenziamento ingiustificato, in Pessi-Xxxxxx-Xxxxx- Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
70 Rausei, Contratto a tutele crescenti: nuove regole per i licenziamenti, xxx.xxxxx.xx.
3. Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale
Procedendo con l’analisi del decreto n. 23/2015 ed entrando nel cuore della riforma dei licenziamenti, è necessario soffermare l’attenzione sull’art. 2 dedicato ai licenziamenti discriminatori, nulli e privi di comunicazione scritta. Esso stabilisce che in caso di dichiarata nullità del licenziamento poiché discriminatorio o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, il giudice deve ordinare la reintegrazione del lavoratore, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
La disposizione ricalca il contenuto dell’art. 18, comma 1 dello Statuto dei lavoratori e, coerentemente con quanto indicato dalle norme di indirizzo della legge delega, conferma l’applicazione della tutela reale ai licenziamenti la cui illegittimità deriva dalla violazione di diritti che risultano meritevoli di forti garanzie. Rispetto alla sua controparte statutaria, tuttavia, la nuova norma presenta alcune variazioni stilistiche e terminologiche e si nota l’assenza degli specifici rinvii alle singole fattispecie che rientrano nella sfera di applicazione della reintegrazione.
Nel testo del decreto manca l’espresso richiamo all’art. 3, legge n. 108/1990, che ha introdotto il regime di tutela reale per il licenziamento discriminatorio indipendentemente dal requisito dimensionale del datore di lavoro, così come sono assenti i rinvii alle fattispecie di licenziamento intimato in concomitanza di matrimonio ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n.198/2006, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54 del d.lgs. n. 151/2001. Questi riferimenti sono sostituiti con l’unico richiamo all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e ciò sembra restringere le ipotesi di applicazione della tutela reintegratoria.
In realtà, tale diversa formulazione letterale della norma non comporterebbe nessuna conseguenza sostanziale nell’assetto delle tutele concrete per il lavoratore, in ragione della sempre più diffusa concezione del carattere discriminatorio del licenziamento come non necessariamente legato ad una
prescrizione legale tassativa, bensì risultante dalla complessiva evoluzione della disciplina in materia al fine di assicurarne una più stretta aderenza alla realtà sociale effettiva ed una maggiore efficacia71. Inoltre, le fattispecie non più menzionate dalla disciplina dei licenziamenti discriminatori devono ritenersi comunque riconducibili all’applicazione della relativa tutela reale in quanto sono in ogni caso affette da nullità e quindi ricomprese tra gli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge».
Dunque continuano ad essere sanzionati i licenziamenti per motivi politici, religiosi o sindacali, per discriminazione razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età ovvero basati sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. Rientra nella disciplina anche il licenziamento in concomitanza di matrimonio e a causa di maternità/paternità, come illustrati nel primo capitolo. Si può dire che il decreto abbia rimodellato la normativa snellendone la forma ma mantenendone i contenuti, coerentemente con la nuova e più ampia concezione dell’elemento discriminatorio.
È sempre applicabile anche l’art. 1345, in quanto norma generale dell’ordinamento, che stabilisce l’illiceità del contratto quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Si riconducono alla categoria del licenziamento discriminatorio, quindi, i motivi di licenziamento contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, nonché i licenziamenti intimati per motivi di ritorsione o rappresaglia che costituiscono un’arbitraria reazione del datore di lavoro di fronte ad un comportamento giustificato o a rivendicazioni legittime posti in essere dal lavoratore72.
Quanto alla ripartizione dell’onere della prova, la giurisprudenza ha precisato che l’asserita esistenza di una delle ragioni discriminatorie, di per sé, non determina l’illegittimità del licenziamento, poiché la legge «non fonda (su quelle ragioni) alcuna presunzione né assoluta né relativa di licenziamento
71 Fondazione Studi, circolare n.1 del 7 gennaio 2015.
72 Cass. 18 marzo 2011, n. 6282.
discriminatorio»73. È dunque compito del lavoratore dimostrare che tali ragioni costituiscano effettivamente il motivo che ha spinto il datore di lavoro a ricorrere al licenziamento. Peraltro, con riguardo alle fattispecie di licenziamento ritorsivo la Cassazione ha affermato che sussiste a carico del lavoratore l’onere di provare altresì che il motivo illecito ha avuto un ruolo determinante ed esclusivo per il licenziamento, anche rispetto ad altri eventuali fatti idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto di lavoro74.
Nella parte finale il comma 1 dell’art. 2 del decreto n. 23/2015 estende gli effetti del regime di nullità al licenziamento inefficace poiché intimato in forma orale, come già stabilito dall’art. 18 al comma 1. È così ribadita l’obbligatorietà della comunicazione in forma scritta che rappresenta il requisito minimo di validità del recesso che, in caso di violazione, rende il licenziamento improduttivo di effetti a prescindere da qualsiasi altra valutazione di merito.
L’art. 2, in chiusura, prevede l’applicazione della tutela reale anche alle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68. La sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle mansioni costituisce legittimo motivo di licenziamento del lavoratore qualora non sussista la possibilità di assegnarlo a mansioni equivalenti (o in mancanza, inferiori) senza mutare l’organizzazione aziendale.
Il decreto attuativo, a differenza dell’art. 18 dello Statuto, non prevede espressamente l’applicabilità della disciplina dell’art. 2 ai dirigenti, ma ciò non comporta alcuna modifica in termini di tutele: le fattispecie incluse in tale articolo sono sanzionate con la nullità prima di tutto in base alle norme dell’ordinamento a cui si è accennato prima e solo successivamente sono riprese dal decreto stesso; dunque esse sono improduttive di effetti giuridici e, in ogni caso, non sono idonee a risolvere il rapporto di lavoro, neppure se si tratta di un
73 Cass. 23 gennaio 2012, n. 854.
74 Cass. 13 febbraio 2012, n. 2010.
dirigente. A quest’ultimo sarà consentita la riammissione a seguito della declaratoria giudiziale di nullità del licenziamento.
Prendendo ora in considerazione il regime sanzionatorio in caso di licenziamento nullo, discriminatorio o intimato in forma orale, come già detto il decreto attuativo ha confermato la disciplina applicata in passato. Questa scelta legislativa è motivata dalla forte lesione dei diritti della persona che deriva da un licenziamento per il quale l’ordinamento prevede una sanzione grave come la nullità: appare quindi necessario il ristoro integrale della posizione giuridica lesa dal provvedimento espulsivo ingiustificato.
Se il giudice accerta la nullità del licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente e al risarcimento del danno in suo favore per il periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito dal lavoratore durante il periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum). Il datore deve altresì versare i contributi previdenziali e assistenziali relativi al medesimo periodo. Il risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità «dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» a differenza di quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che invece fa riferimento all’ultima retribuzione globale di fatto. Di quest’ultima differenza, che risulta estesa a tutto il decreto, si parlerà in seguito.
Infine, permane nel decreto la stessa disposizione dell’art. 18 che riconosce al lavoratore la facoltà di richiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, la corresponsione di un’indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la quale va ad aggiungersi alla somma già liquidata dal giudice a titolo di risarcimento e la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. La legge stabilisce espressamente che la richiesta deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione, e che tale indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale (recependo in tal modo
l’orientamento assunto dall’INPS sulla natura non retributiva bensì risarcitoria della somma corrisposta in sostituzione della reintegra).
4. Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa
Gli ambiti nei quali è maggiormente visibile l’intervento riformatore del legislatore del 2015 sono quelli del giustificato motivo soggettivo e giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare) e del giustificato motivo oggettivo (c.d. licenziamento economico). La differenza rispetto alla precedente disciplina contenuta nell’art. 18, così come riformato dalla riforma Fornero e ancora vigente solo per i “vecchi assunti”, è innanzitutto sistematica: se lo Statuto dei lavoratori tratta separatamente della fattispecie dei motivi disciplinari nei commi 4-5 e di quella dei motivi oggettivi nel comma 7, il decreto n. 23/2015 invece riunisce le discipline nell’unico art. 3 rubricato come «Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa».
Questa scelta legislativa, apparentemente solo formale, è accompagnata da una modifica significativa del regime sanzionatorio applicabile ai licenziamenti, con evidente discontinuità rispetto al precedente apparato normativo.
La disciplina introdotta dalla riforma del 2012 subordina l’individuazione della tutela del lavoratore all’accertamento giudiziale di alcune ipotesi indicate espressamente nella norma, con la conseguente applicazione della reintegrazione in caso di sussistenza di tali ipotesi e della sanzione risarcitoria in caso contrario.
Nel precedente capitolo è stato analizzato questo meccanismo e sono state evidenziate le notevoli incertezze che esso ha suscitato in dottrina e in giurisprudenza a causa di un’infelice scelta terminologica del legislatore nella formulazione della norma, probabilmente condizionata dalla ricerca del compromesso tra le diverse forze politiche in campo durante il difficile periodo storico in cui essa è stata scritta. I riferimenti alla “insussistenza del fatto contestato”, alla circostanza che il fatto rientra fra le “condotte punibili con una
sanzione conservativa”, alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e alle contrapposte “altre ipotesi” non meglio specificate, hanno reso complessa la lettura della norma lasciando al giudice il delicato compito di valutare i singoli casi di licenziamento e di applicare l’una o l’altra sanzione. È evidente che, data la sostanziale diversità tra le due alternative di tutela previste in questi casi, la scelta, laddove operata in base ad un’interpretazione non pienamente oggettiva della legge poiché non ancorata ad un chiaro riferimento normativo, non solo incide negativamente sulla certezza del diritto ma si traduce anche in una disparità di trattamento.
La riforma del 2015 dunque ha inteso fornire un quadro normativo meno aperto ad interpretazioni contrapposte limitando l’applicazione della tutela reale a casi specifici e predeterminati dalla legge e, contemporaneamente, individuando come regime tipico applicabile alla generalità dei licenziamenti illegittimi (salvo quelli discriminatori) la tutela risarcitoria di importo automaticamente determinato e quindi sottratto alla discrezionalità del giudice.
Infatti, il primo comma dell’art. 3 del decreto attuativo stabilisce che nei casi in cui sia accertata l’illegittimità del recesso per assenza degli estremi che configurano il giustificato motivo oggettivo ovvero il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento ordinando al datore di lavoro il pagamento di un’indennità. Essa non è soggetta a contribuzione previdenziale ed è di importo certo e crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore: due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
È evidente il diverso tenore della novella rispetto alla formulazione contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori la quale ha conferito alla tutela economica un carattere quasi residuale in quanto confina la sua applicazione alle “altre ipotesi” di mancata giustificazione del recesso che non comportino anche la “(manifesta) insussistenza del fatto”; ciò soprattutto nel caso in cui, com’è
molto spesso accaduto, si attribuisce a quest’ultima espressione un significato ampio e non limitato alla sola materialità della condotta contestata.
La nuova disciplina introdotta dal comma 2 dell’art. 3 assegna, invece, il carattere della residualità alla tutela reale che si applica «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
In primo luogo è evidente la totale esclusione delle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dal campo di applicazione della tutela reintegratoria, in netta divergenza rispetto alla disciplina precedente. Tutti i licenziamenti per ragioni estranee alla condotta del lavoratore e inerenti all’organizzazione del lavoro, all’attività produttiva e al regolare funzionamento di essa non possono più essere sanzionati con la reintegrazione ma solo con la sanzione di natura economica, salvo il caso in cui il lavoratore riesca a dimostrare che il motivo oggettivo in realtà nasconde motivazioni discriminatorie o le altre ipotesi di nullità del recesso. Il requisito della “manifesta insussistenza del fatto”, il cui riscontro applicativo aveva diviso dottrina e giurisprudenza, resta dunque fermo nei confini dell’art. 18 applicabile solo ai lavoratori già impiegati alla data di entrata in vigore del decreto attuativo mentre scompare nella nuova disciplina, comportando sia un vistoso ridimensionamento dell’area della tutela reale sia un’indubbia semplificazione dell’assetto normativo.
Quanto ai licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e giusta causa, il nuovo assetto normativo si muove nel solco di quel meccanismo inaugurato dalla riforma del 2012 che àncora la tutela reintegratoria all’accertamento di ipotesi specificamente indicate. Il legislatore, tuttavia, ha revisionato le componenti di tale meccanismo poiché, da una parte, ha del tutto rimosso il requisito dell’accertamento del fatto rientrante fra le condotte punibili con una sanzione conservativa e, dall’altra, ha introdotto un elemento qualificativo del “fatto contestato” frutto di una scelta legislativa chiaramente mossa dall’esigenza di
superare le incertezze interpretative suscitate dall’infelice formulazione dell’art. 18, comma 4.
L’intenzione di fare chiarezza sul punto ha iniziato a rendersi esplicita quando la Cassazione è intervenuta con la sentenza 6 novembre 2014, n. 23669 proponendo un’interpretazione più fedele alla lettera del novellato art. 18 e alla ratio che lo sottende: essa ha distinto nettamente l’accertamento del fatto materiale, la cui insussistenza comporta l’applicazione della tutela reale come stabilito dal comma 4, dall’elemento della qualificazione del fatto in termini di sproporzione tra quest’ultimo e la sanzione espulsiva, che dà luogo alla sola indennità di cui al comma 5.
Il decreto attuativo ha recepito questa autorevole interpretazione e le ha conferito forza di legge inserendola nell’art. 3, comma 2 che definisce espressamente il fatto contestato al lavoratore e costituente il motivo del licenziamento come «fatto materiale» il cui accertamento è avulso da qualsiasi valutazione sulla qualificazione giuridica del medesimo, sulla esistenza di profili soggettivi giuridicamente rilevanti o sulla inesatta corrispondenza fra la contestazione disciplinare e il fatto. La tutela reale dunque potrà intervenire solo laddove il fatto materiale contestato al lavoratore non si sia in realtà verificato. Ciò è confermato dall’ulteriore puntualizzazione introdotta dal legislatore secondo la quale dall’accertamento dell’insussistenza del fatto materiale «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
Tale affermazione sembra porsi proprio in risposta a quella corrente interpretativa che leggeva nel concetto di insussistenza del fatto un significato più ampio di quello voluto dal legislatore. È questo il caso, ad esempio, dell’ordinanza 15 ottobre 2012 del Tribunale di Bologna, già trattata nel capitolo precedente, che si è distinta non solo per essere stata la prima pronuncia giudiziale a fare uso della (allora) nuova disciplina introdotta dalla riforma Fornero, ma anche per il ragionamento logico-giuridico dal quale essa è scaturita. In tale frangente, pur in presenza di un fatto realmente concretizzatosi, il giudice ha riconosciuto al lavoratore la tutela reintegratoria motivando la decisione sulla
base della modestia del peso disciplinare dell’episodio contestato e in seguito alla rilevata sproporzione del provvedimento espulsivo del datore di lavoro.
Questo tipo di decisione, la cui correttezza era già messa in discussione al tempo della sua emanazione poiché appariva innaturale rispetto alla lettera e al tenore della delle modifiche apportate dalla riforma del 2012, sarebbe oggi palesemente in contrasto con il recente decreto e ormai rappresenta una strada non più percorribile ai fini dell’applicazione della reintegra. Pertanto il giudice, in casi analoghi a questo, dovrà limitarsi a dare applicazione alla disciplina sanzionatoria di natura meramente economica.
La diposizione normativa dell’art. 3, comma 2 del decreto n. 23/2015 merita di essere analizzata anche nella parte in cui prevede che l’insussistenza del fatto contestato sia «direttamente dimostrata in giudizio».
Alcuni affermano che con questa disposizione il legislatore ha voluto trasferire sul lavoratore l’onere di dimostrare quanto da lui affermato in sede di impugnazione del licenziamento, in deroga dunque al principio generale codificato all’art. 5, legge n. 604/1966 che invece affida tale onere probatorio al datore di lavoro. La norma, chiedendo che sia data una prova piena e diretta di una circostanza, a tutti gli effetti, sfavorevole per il datore di lavoro e di esclusivo interesse del lavoratore, sembra aver disposto un’inversione dell’onere della prova: il lavoratore dovrà preoccuparsi della “dimostrazione diretta” in sede processuale della non sussistenza del fatto addebitatogli al fine di poter ottenere la reintegrazione75.
Una certa dottrina perviene a conclusioni affini sostenendo che la nuova disposizione preveda a favore del datore di lavoro una sorta di presunzione che necessiti di prova contraria del lavoratore76. Altri hanno anche sostenuto il venir meno del principio dell’onere della prova di modo che, qualora il giudice non dovesse pienamente convincersi dell’insussistenza del fatto, dovrebbe respingere
75 De Xxxx-Xxxxxxxxx, Licenziamento per giustificato motivo e per giusta causa, in Xxxxxxx (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Xxxx, 0000.
76 Carinci, Un contratto alla ricerca di una sua identità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; Xxxxxxxx, Jobs Act: le novità del decreto attuativo sul contratto a tutele crescenti, in Guida al lav., 2015, n. 2.
l’impugnazione del lavoratore e la relativa richiesta di essere reintegrato nel posto di lavoro77.
Di parere opposto è chi afferma che l’avverbio “direttamente” non si possa ritenere sufficiente a ribaltare la norma generale sul riparto dell’onere della prova. Il datore di lavoro è comunque chiamato a produrre tutti gli elementi necessari a sostenere le sue ragioni e a provare che il fatto contestato al lavoratore si sia materialmente verificato. Ciò non toglie che in questa fase è pur sempre rimessa al lavoratore la facoltà di addurre prove a suo favore ma è da escludere che la sua eventuale inerzia possa decretare effetti che vadano ad intaccare le sue richieste. Pertanto una volta terminata l’istruttoria, se il giudice non è in possesso di elementi sufficienti per ritenere accertata appieno la sussistenza del fatto, dovrà decretare la soccombenza della parte sulla quale incombe l’onere della prova, ossia il datore di lavoro, ai sensi di quanto stabilito dalla legge ormai da tempo. Appare quindi più ragionevole che il legislatore, lungi dal voler intervenire sulla regola del riparto dell’onere della prova come sancito dalla legge n. 604/1966, abbia introdotto una semplice variazione terminologica senza ricollegarvi particolari significati innovativi. In effetti, se il legislatore avesse voluto introdurre una modifica così ingente al riparto degli oneri probatori, avrebbe fatto uso di espressioni normative molto più esplicite e incisive del semplice ricorso ad un avverbio. Tuttavia così facendo si sarebbe spinto oltre quei criteri e principi espressi dalla legge n. 183/2014, determinando così un eccesso di delega78.
Passando ad illustrare l’impianto delle tutele di cui all’art. 3 del decreto attuativo, il comma 1 prevede che, nei casi in cui sia accertata l’illegittimità del recesso per assenza degli estremi che configurano il giustificato motivo oggettivo ovvero il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento ordinando al datore di
77 Ichino, News letter 19 gennaio 2015.
78 Xxxxxx, Il nuovo regime di tutele per il licenziamento ingiustificato, in Pessi-Xxxxxx-Xxxxx- Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
lavoro il pagamento di un’indennità di importo certo e crescente in proporzione all’anzianità di servizio.
In base al criterio di legge, l’indennizzo è pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Il legislatore ha previsto che la misura del risarcimento non possa in ogni caso essere inferiore a quattro mensilità, al fine di assicurare una tutela minima nel caso di rapporti lavorativi di breve durata, e che invece il tetto massimo sia fissato in ventiquattro mensilità. La legge inoltre prevede espressamente che la somma corrisposta a titolo di indennità risarcitoria non sia soggetta a imposizione contributiva.
Al contrario, nei casi in cui si applica la sanzione residuale della reintegrazione, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro anche al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
È previsto un tetto massimo per tale indennità che non potrà essere superiore a dodici mensilità. Questa sanzione riprende l’apparato sanzionatorio introdotto nella nuova formulazione dell’art. 18 ad opera della riforma del 2012 per tutti i licenziamenti disciplinari illegittimi per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
In ogni caso, dalla somma che spetta la lavoratore a titolo di indennità devono essere sottratti tutti i redditi che, nel periodo tra la data del licenziamento e quella della reintegrazione, il lavoratore ha effettivamente percepito da altri datori di lavoro e committenti (c.d. aliunde perceptum), così come quelle somme che avrebbe eventualmente potuto percepire in virtù di ulteriori attività lavorative (c.d. aliunde percipiendum).
A proposito di quest’ultimo caso, va sottolineato che nelle ipotesi in cui si applica la reintegrazione come disciplinata dallo Statuto dei lavoratori, le
possibilità che vi siano somme da poter porre in detrazione risultano più ampie: il comma 4 dell’art. 18 infatti contiene un riferimento alle somme che «il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione», mentre nel nuovo assetto normativo gli importi da detrarre sono limitati a quelli esclusivamente derivanti da un’eventuale offerta di lavoro che possa definirsi «congrua» ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera c) del decreto n. 181/2000 e successive modificazioni. In sostanza deve trattarsi di un’offerta di lavoro a tempo pieno e indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge n. 196/1997 e munita dei requisiti di bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici stabiliti dalle Regioni, il cui rifiuto senza giustificato motivo comporta per il lavoratore la perdita dello stato di disoccupazione.
Il decreto inoltre dispone che, in aggiunta alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria, il datore deve essere condannato a regolarizzare la posizione previdenziale e assistenziale del lavoratore, versando in suo favore i contributi relativi all’intero periodo di estromissione. Non sono invece applicabili le sanzioni per omissione contributiva.
Nel caso in cui il lavoratore ottenga un provvedimento di reintegrazione, egli ha la facoltà di optare, in alternativa, per una prestazione di natura esclusivamente pecuniaria. L’art. 3, comma 2 del decreto attuativo richiama l’art. 2, comma 3 del medesimo decreto che a sua volta ricalca pressoché integralmente il comma 3 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, stabilendo che entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio il lavoratore ha diritto a chiedere al datore di lavoro un’indennità sostitutiva della reintegrazione, la cui entità è pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Tale indennità non è soggetta ad alcun prelievo contributivo e, analogamente al quadro delineato dallo Statuto dei lavoratori, non fa venir meno il diritto del lavoratore alle somme che gli spettano a titolo di
risarcimento del danno in aggiunta alla reintegrazione (ormai sostituita). Allo stesso modo che in passato la richiesta risulta incompatibile con la prosecuzione del rapporto di lavoro poiché ne determina la risoluzione.
5. Vizi formali e procedurali
Il decreto attuativo indica anche le conseguenze che scaturiscono dai vizi dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, riprendendo quanto delineato dall’art. 18, comma 6 dello Statuto dei lavoratori tuttora vigente per i lavoratori già assunti alla data di entrata in vigore del decreto n. 23/2015. Quest’ultimo all’art. 4 del decreto contempla due tipologie di vizi, formali e procedurali, rispettivamente collegati alla violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 604/1966 e alla violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto concerne il primo tipo di vizi, è punita la violazione della su citata norma di legge la quale dispone che «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato».
La regola è certamente applicabile a tutte le categorie di licenziamento in quanto principio generale che pervade l’intero assetto normativo, tuttavia il decreto contiene anche un’espressione di favore per le tutele di cui agli artt. 2 e 3 del decreto medesimo, in presenza di determinate situazioni. Infatti, in caso di richiesta da parte del lavoratore nella stessa sede in cui è contestato il vizio del recesso, il giudice è chiamato ad accertare altresì che il licenziamento sia privo di giustificazione e cioè sia stato intimato in assenza delle fattispecie di giusta causa o giustificato motivo soggettivo o oggettivo. Se tale accertamento risulta positivo, il decreto conferisce priorità alle tutele connesse alle ipotesi di licenziamenti ingiustificati, più ampie rispetto a quella tipica del vizio formale di motivazione.
Per descrivere il vizio di motivazione la disciplina del 2015 ha mantenuto l’espressione «violazione del requisito di motivazione» già adottata dal comma 6 dell’art. 18, Statuto dei lavoratori. Tale locuzione, però, data l’assenza di ulteriori specificazioni, rende labile il confine fra difetto di giustificazione e difetto di motivazione, così determinando la possibile insorgenza di problemi interpretativi e applicativi della fattispecie. A titolo di esempio, non è chiaro se l’insufficienza del requisito di motivazione debba essere considerata come mancanza dello stesso fatto contestato e quindi tale da integrare il difetto di giustificazione e non quello di motivazione.
Il secondo vizio sanzionato dall’art. 4 del decreto è di tipo procedurale e si concretizza in seguito alla violazione della procedura di licenziamento disciplinare prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori che regola anche le modalità di esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro.
Anche con riguardo a questo secondo vizio del recesso vale la già illustrata “preferenza” accordata dal legislatore alla tutela in caso di licenziamenti ingiustificati, qualora il lavoratore ne richieda l’accertamento. Nel momento in cui, unitamente al vizio formale, il lavoratore dovesse contestare il recesso per ragioni sostanziali e il giudice accerti la presenza di una discriminazione o il difetto del giustificato motivo o della giusta causa, verranno applicate le maggiori e più gravi sanzioni previste a riguardo dal decreto.
La mancata soddisfazione del requisito di motivazione e la violazione del procedimento disciplinare portano alla dichiarazione giudiziale di estinzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e alla contestuale condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale. Essa è calcolata in un importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.
La sanzione risarcitoria prevista dal decreto in analisi per i casi di licenziamento affetto da vizi formali o procedurali risulta ridimensionata e
riformulata rispetto a quella contemplata dall’art. 18, comma 6 dello Statuto dei lavoratori. Infatti nella nuova disciplina l’indennità non è più onnicomprensiva e la sua entità, che nel regime ancora applicabile ai vecchi assunti è compresa tra 6 e 12 mensilità in relazione alla gravità della violazione formale o processuale commessa dal datore, per i nuovi assunti si riduce invece ad una sola mensilità per ogni anno di servizio tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità.
Questa modifica nella regolazione della sanzione induce quindi una riflessione: se è vero che l’indennità non è più oggetto di quella discrezionalità propria dell’impianto statutario poiché è sicura e certa nella sua determinazione, è altresì evidente che la determinazione in ragione dell’anzianità di servizio attribuisca ad essa connotati di rigidità e una sensibile riduzione nell’ammontare: basti pensare che per raggiungere lo stesso ammontare minimo e massimo previsto dall’art. 18 è necessaria un’anzianità di servizio rispettivamente pari a 6 e 12 anni.
È possibile, infine, rilevare un’ulteriore differenza rispetto al contenuto dell’art. 18, sesto comma, nell’esclusione della procedura preventiva di cui all’art. 7 della legge n. 604/1966 che non si applica ai licenziamenti di lavoratori con contratto a tutele crescenti (art. 3, comma 3 del decreto attuativo).
6. Piccole imprese e organizzazioni di tendenza
Il decreto attuativo della legge delega n. 183/2014 introduce nuovi criteri diretti a differenziare le tutele in caso di licenziamento tra piccole e grandi imprese, nel quadro di una strutturazione più organica della materia.
Riguardo alle piccole imprese il riferimento normativo che le qualifica è tuttora quello rintracciabile nell’art. 18, commi 8 e 9 dello Statuto dei lavoratori: si tratta dei datori di lavoro che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, o nell’ambito dello stesso comune non occupano più di 15 dipendenti (5 se si tratta di imprese agricole) e che, in aggiunta, sul territorio
nazionale non impiegano più di 60 dipendenti. Non rientrano nel computo quei lavoratori che per espressa previsione di legge sono esclusi dall’organico, come i dirigenti, gli apprendisti, i somministrati.
Come già precisato, il decreto n. 23/2015 interessa solo i “nuovi assunti” a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore della riforma nonché i lavoratori con contratto a termine o di apprendistato nel caso di conversione del loro rapporto a tempo indeterminato. È dunque di particolare rilievo la previsione di un’eccezione a tale limitazione applicativa della nuova disciplina. Infatti l’art. 1, comma 3 stabilisce che, qualora per effetto di nuove assunzioni intervenute dopo la data di entrata in vigore del decreto l’organico aumenti oltre la soglia dei 15 lavoratori per unità produttiva (o comunque dei 60 a livello nazionale), così determinando il raggiungimento del requisito occupazionale di cui all’art. 18, commi 8 e 9 dello Statuto dei lavoratori, l’applicazione delle tutele crescenti si estende a tutti i dipendenti dell’impresa, a prescindere dal fatto che siano stati assunti prima o dopo l’entrata in vigore del decreto.
È questo l’unico caso di applicazione, per così dire, retroattiva delle nuove disposizioni che ha paventato un possibile eccesso di delega da parte del Governo rispetto al bacino dei destinatari così come circoscritto dalla legge delega 183/2014. Una tale scelta legislativa è di non poco conto se si pensa che il regime normativo precedente la riforma del 2015, tuttora vigente per i vecchi assunti, collega alle dimensioni dell’impresa regimi di tutela molto diversi tra loro: tranne nelle ipotesi di licenziamenti discriminatori o nulli, infatti, la reintegrazione del lavoratore si applica solo alle imprese occupanti più di 15 dipendenti; in caso contrario è prevista esclusivamente la tutela obbligatoria che permette al datore di lavoro di optare, in luogo della riassunzione, per il pagamento di un’indennità tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione (si tratta di un ammontare inferiore rispetto alle indennità previste per e grandi imprese). Ciò implica un effetto dissuasivo verso nuove assunzioni per il datore di lavoro della piccola impresa, il quale potrebbe volutamente scegliere di mantenere un
organico che non superi la soglia dei 15 dipendenti al fine di restare fuori dal campo di applicazione delle tutele maggiori.
L’estensione delle tutele crescenti anche ai vecchi assunti delle aziende che subentrano nella categoria delle grandi imprese, invece, rimuove tale effetto dissuasivo in quanto, come si è visto, vi è stata una generale riduzione delle sanzioni rispetto all’art. 18 (basti pensare che per i licenziamenti economici non è più prevista la reintegrazione in nessun caso) con conseguente minore divario fra i regimi di tutela tra piccole e grandi imprese. Si nota qui la corretta attuazione, da parte del legislatore delegato, di quel principio xxxxxxx nella legge delega all’art. 1, comma 7, lettera b) finalizzato alla promozione del contratto a tempo indeterminato attraverso una disciplina che lo rendesse “più conveniente”.
Nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma verbale, nonché in caso di licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, si applicano nei confronti delle piccole imprese le medesime tutele previste dalla normativa statutaria per le aziende che superano i requisiti dimensionali. Per le piccole imprese questi sono gli unici casi in cui al licenziamento illegittimo consegue la reintegrazione del dipendente (o, su sua richiesta, l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità) e il pagamento a suo favore dell’indennità risarcitoria di entità non inferiore alle 5 mensilità.
L’art. 9 del decreto attuativo, infatti, stabilisce espressamente che «ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'articolo 3, comma 2» che riconosce alle grandi imprese la tutela reale anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa qualora sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. Pertanto nel caso di licenziamento disciplinare illegittimo le imprese che non superano la soglia dimensionale statutaria sono condannate al pagamento di un’indennità risarcitoria con rapporto di lavoro dichiarato estinto alla data del licenziamento.
Si conferma dunque il carattere di regola generale accordato dal legislatore alla tutela che prevede il pagamento al lavoratore di una somma a titolo di indennità in proporzione all’anzianità d servizio.
Per le piccole imprese l’art. 9 del decreto stabilisce che «l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, dall’articolo 4, comma 1 e dall’articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità». Questa disposizione è molto importante, non tanto per la flessione del regime sanzionatorio applicabile alle piccole imprese rispetto alla disciplina attuale, quanto per il suo significato programmatico nel senso della tendenziale unificazione della disciplina del contratto a tutele crescenti per le imprese di dimensioni anche diverse.
Dunque le misure indennitarie sono ridotte della metà e il tetto massimo di risarcimento è espressamente fissato nella misura di 6 mensilità indipendentemente dal motivo di illegittimità del licenziamento, mentre l’entità minima e la base indennitaria variano in base alla ragione del recesso.
Infatti, qualora sia dimostrata in giudizio l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, il lavoratore avrà diritto ad un’indennità predeterminata, non soggetta a contribuzione previdenziale, pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, a partire da un minimo di 2 mensilità. Si noti come il limite minimo dell’indennità in questi casi risulti ridotto rispetto a quello previsto dal regime precedente, pari a 2,5 mensilità.
Nel caso di licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, invece, l’indennità corrisponderà a mezza mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 1 mensilità.
Anche con riferimento alla offerta di conciliazione prevista dall’art. 6 del decreto legislativo, di cui si dirà appresso, per le piccole imprese la misura dell’importo da offrire al lavoratore è dimezzata ed è pari a mezza mensilità della
retribuzione di riferimento per il TFR per ogni anno di anzianità aziendale, con il minimo di una e il massimo di sei mensilità.
Resta ferma la disciplina preesistente per i lavoratori delle piccole imprese assunti in data anteriore al 7 marzo 2015: per costoro il licenziamento discriminatorio e le ulteriori ipotesi previste dal comma 1 dell’art. 18 dello Statuto saranno soggetti al regime della tutela reale (alla pari di quanto stabilito nella riforma del 2015 con l’aggiunta del licenziamento per disabilità psico-fisica del lavoratore); negli altri casi di recesso invece ad essi sarà applicabile la tutela di cui all’art. 8, legge n. 604/1966 in base al quale l’indennità è calcolata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità, in relazione al numero dei dipendenti, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del lavoratore, al comportamento e alla condizione delle parti; è sempre salvo il diritto del datore di lavoro di optare per la riassunzione del lavoratore. Inoltre l’indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni: queste maggiorazioni sono state abolite dalla nuova disciplina poiché, come si è visto, la legge stabilisce espressamente il tetto massimo dell’indennità pari a 6 mensilità.
Lo stesso art. 9 del decreto, al secondo comma, estende la nuova disciplina delle tutele crescenti ai «datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto», le c.d. organizzazioni di tendenza. Questi soggetti svolgono un’attività che non consiste nella produzione o nello scambio di beni e servizi e che è priva dei caratteri di professionalità, organizzazione e natura economica.
In passato la legge n. 108/1990 prevedeva per tali organizzazioni un regime di favore che prevedeva l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 18 alle stesse. La giurisprudenza, di fronte all’espandersi di queste nuove formazioni, ne ha colto il significato sociale adattando le regole sul licenziamento discriminatorio e introducendo la figura del “licenziamento ideologico”, ossia quello irrogato per
ragioni connesse con la tutela della tendenza o dell’ideologia fondante l’organizzazione, nei confronti del lavoratore che non aderisca più alle finalità dell’organizzazione stessa. Anche la Cassazione si è pronunciata sulla liceità di questo tipo di licenziamento nelle ipotesi in cui l’adesione ideologica costituisca elemento caratterizzante della prestazione79.
Questa lettura del fenomeno è stata ripresa e bilanciata da successive pronunce giurisprudenziali che, al fine di ridurre la portata della deroga concessa dalle norme vigenti in ragione della peculiarità della materia, hanno distinto due categorie di prestatori alle dipendenze dei datori di tendenza: i lavoratori c.d. portatori di tendenza80, le cui mansioni e attività sono funzionali e strettamente connesse agli scopi dell’organizzazione nella quale operano, e i lavoratori c.d. neutri, adibiti a mansioni e compiti non caratterizzati da alcuna affinità con la natura culturale, politica o religiosa del datore (ad esempio, gli impiegati amministrativi). Si è quindi precisato che l’art. 18 riguarda solamente la prima tipologia di prestatori di lavoro e, inoltre, che non tutti i datori di lavoro collegati alle organizzazioni di tendenza hanno diritto all’esclusione della tutela reale del medesimo articolo81.
Il decreto attuativo del 2015, confermando anche in questo contesto l’attitudine del legislatore, più volte rilevata, a superare vecchi dualismi in funzione di una normazione lavoristica coerente e organica ha sancito, limitatamente ai nuovi rapporti di lavoro, l’applicazione ai partiti, ai sindacati e alle altre organizzazioni di tendenza della disciplina delle tutele crescenti prevista per gli altri datori di lavoro.
79 Cass. 16 giugno 1994, n. 5832.
80 Cass. 6 novembre 2001, n. 13721.
81 Cass. 20 novembre 2007, n. 24043.
7. Criteri di calcolo dell’indennità risarcitoria
Dall’analisi svolta finora si può constatare una significativa modifica dei parametri di calcolo dell’indennità risarcitoria applicabile alle fattispecie di licenziamento contemplate dal recente decreto. A tal proposito, in tutti i casi in cui è previsto che il giudice debba condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno sofferto dal lavoratore, la norma ne indica l’ammontare con riguardo
«all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto», locuzione ben diversa da quella utilizzata dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che, invece, fa riferimento «all’ultima retribuzione globale di fatto».
Al fine di far emergere i risvolti concreti che derivano da questa nuova formulazione legislativa, è utile riportare in questa sede il lavoro ricostruttivo ed interpretativo svolto dai consulenti del lavoro della Fondazione Studi, contenuto nella circolare n. 6 dell’11 marzo 2015. La ricostruzione prende il via da una raccolta di pronunce giurisprudenziali finalizzata ad illustrare le interpretazioni più rilevanti che nel tempo hanno dato definizione al concetto di “retribuzione globale di fatto” prima dell’entrata in vigore del decreto n. 23/2015.
La prima analisi interpretativa riguardo il concetto di “retribuzione globale di fatto” è stata effettuata dalla giurisprudenza in riferimento alla legge n. 108/1990 che ha novellato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Si è evidenziato che tale espressione, alla quale la norma ricollega l’entità del risarcimento del danno, si deve intendere come «coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purché non occasionale» in dipendenza del rapporto di lavoro e relativamente ai contenuti e alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Secondo questa lettura il risarcimento corrisponderebbe al
regolare trattamento economico che sarebbe stato effettivamente goduto dal lavoratore se non si fosse verificato il recesso82.
In secondo luogo, un’altra giurisprudenza ritiene che la retribuzione globale di fatto «non può ricomprendere i ratei e/o l’indennità di ferie non godute, attesa la natura risarcitoria di quest’ultima voce» di carattere prettamente compensativo83. Al contrario, sono da includere nella base di riferimento per l’indennità «le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, ma continuative»84.
Si è affermato altresì che la liquidazione dell’indennità risarcitoria deve effettuarsi tenendo conto della «media dei compensi corrisposti di fatto nell'ultimo periodo prima del licenziamento, anche se tale procedimento può comportare una discrepanza rispetto a quanto sarebbe dovuto in base agli elementi fissi e continuativi della retribuzione»85 e che l’onere della prova in merito all’entità e alla composizione della retribuzione globale di fatto goduta al momento del recesso incombe sul lavoratore86.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 92/2012, che ha incluso l’aggettivo “ultima” alla retribuzione che costituisce la base di calcolo del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, si è verificato che le parti hanno depositato l’ultimo cedolino paga al momento della costituzione in giudizio e che il giudice ha fondato la propria decisione circa l’entità dell’indennizzo su quanto indicato nell’ultima busta paga del rapporto, ove non contestata.
Descritta la situazione previgente, i consulenti del lavoro della Fondazione Studi hanno poi indagato le diversità risultanti dalla formulazione della nuova disciplina per mezzo di un ragionamento che si muove lungo due profili di analisi: il primo mira all’individuazione degli elementi che compongono la retribuzione a cui deve farsi riferimento; il secondo riguarda l’ambito temporale rilevante per la definizione di tale retribuzione.
82 Cass. 24 agosto 2006, n. 18441.
83 Trib. Forlì, 1 giugno 2011.
84 Cass. 7 febbraio 2008, n. 2872.
85 Cass. 22 settembre 2011, n. 19285.
86 Cass. 27 novembre 2014, n. 25244.
Con riferimento al primo profilo, si sostiene che il legislatore abbia effettuato un implicito rinvio alla disciplina di cui all’articolo 2120, comma 4,
c.c. in cui è stabilito che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua per il calcolo del trattamento di fine rapporto comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Quanto all’ambito temporale di rifermento ai fini della determinazione delle mensilità dell’indennità risarcitoria, il decreto si riferisce “all’ultima” retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR e a sua volta l’articolo 2120 c.c. disciplina la “retribuzione annua”. Dal combinato disposto delle due norme si ricaverebbe che la retribuzione da considerare è quella dell’ultimo anno, o frazione di anno, che spetta al lavoratore.
In conclusione, mettendo a confronto la precedente definizione di “ultima retribuzione globale di fatto” con quella attuale di “retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto”, i consulenti del lavoro rilevano una possibile diminuzione dell’importo della prestazione indennitaria prevista a favore del dipendente in caso di licenziamento illegittimo: la Cassazione infatti, definendo l’insieme degli elementi per il computo del TFR, ne ha escluso le voci collegate a ragioni del tutto imprevedibili, accidentali e fortuite rispetto al normale svolgimento dell’attività lavorativa, quali ad esempio il lavoro straordinario occasionale e non continuativo, l’indennità di trasferta, ecc.
Il Ministero del lavoro nel marzo 2015 ha confermato l’interpretazione contenuta nella circolare dei consulenti del lavoro a cui si è appena fatto riferimento87.
87 Xxxxxxxx Xxxxxxx, Jobs Act, licenziamento illegittimo: indennità risarcitoria ridotta, su xxx.xxxxx.xx.
8. Revoca del licenziamento
All’art. 5 del decreto attuativo della legge n. 183/2014 è disciplinato l’istituto della revoca del licenziamento, il quale è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al regime previsto dall’art. 18, comma 10, come modificato dalla riforma Fornero.
È consentito al datore di lavoro di revocare il licenziamento pagando solo le retribuzioni maturate nel periodo precedente alla revoca ed evitando così di incorrere in sanzioni ed ulteriori costi. Questa previsione dunque riconosce al datore la possibilità di annullare la scelta che lo ha condotto all’adozione del provvedimento espulsivo nei confronti del lavoratore e di ricostituire il rapporto di lavoro senza soluzione di continuità.
In seguito alla comunicazione in forma scritta dell’impugnazione del licenziamento effettuata dal lavoratore (il quale dispone di 60 giorni dall’intimazione, a pena di decadenza), il datore entro 15 giorni può revocare il provvedimento di recesso. La giurisprudenza ha affermato88 che l’impugnazione del licenziamento formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro a mezzo del servizio postale, deve ritenersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato, facendo fede la data del timbro postale di invio.
Il corretto esperimento della revoca produce un effetto ripristinatorio del rapporto di lavoro che prosegue come se non si fosse mai verificata alcuna interruzione. La norma favorisce il “ripensamento” da parte del datore di lavoro in merito alle proprie scelte con vantaggi per entrambe le parti: da un lato, il lavoratore ottiene una tutela tempestiva attraverso la ricostituzione del rapporto
88 Cass. SS. UU., 14 aprile 2010, n. 8830.
di lavoro e la percezione della retribuzione maturata nel periodo compreso tra il licenziamento e la revoca; dall’altro, il datore di lavoro resta al riparo dall’applicazione del regime sanzionatorio e da qualsiasi ulteriore pretesa risarcitoria del dipendente. D’altra parte il ripristino del rapporto di lavoro implica l’obbligo del lavoratore a riprendere immediatamente servizio presso il datore. Dunque il rifiuto o anche il semplice ritardo nel riprendere l’attività lavorativa integra un inadempimento contrattuale che può esporre il dipendente al rischio di sanzioni disciplinari.
9. Offerta di conciliazione
La riforma ha introdotto un nuovo meccanismo deflattivo del contenzioso, di carattere facoltativo, con lo scopo di favorire la risoluzione stragiudiziale delle controversie sul licenziamento consentendo alle parti di ricorrere o meno a tale soluzione in base alle loro esigenze e a seconda delle circostanze specifiche nelle quali si è verificato il recesso.
L’art. 6, comma 1 del decreto n. 23/2015 prevede la possibilità, per il datore di lavoro che ha licenziato un proprio dipendente assunto con il contratto a tutele crescenti, di offrire al medesimo una somma di importo pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di anzianità aziendale, con un limite minimo di due e un tetto massimo di diciotto mensilità. Si prevede espressamente che la somma è esente da contribuzione e non costituisce reddito soggetto a imposizione fiscale ai fini dell’Irpef.
L’offerta è proponibile, senza distinzioni, in occasione del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, nonché del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Essa deve accompagnarsi alla consegna di un assegno circolare nelle mani del dipendente licenziato, la cui accettazione determina l’estinzione del rapporto di lavoro alla data dell’intervenuto
licenziamento e comporta la rinuncia ad impugnare il provvedimento risolutivo, a prescindere dal fatto che il lavoratore l’abbia o meno presentato. Fra i chiarimenti forniti nella relazione illustrativa del decreto legislativo si è poi affermata la inidoneità del bonifico bancario a perfezionare l’offerta conciliativa sul presupposto che esso non consente di soddisfare l’esigenza della contestualità fra il versamento dell’importo e l’accettazione del lavoratore.
Quanto ai tempi per la presentazione della proposta, il citato art. 6 fa riferimento all’intervallo temporale assegnato al lavoratore per l’impugnazione stragiudiziale del recesso, pari a 60 giorni dalla comunicazione di quest’ultimo.
L’offerta di conciliazione deve essere presentata dal datore di lavoro in una delle sedi “protette” indicate dall’art. 2113, comma 4, c.c. e dall’art. 76, d.lgs. n. 276/2003, che richiamano la disciplina sulla risoluzione stragiudiziale delle controversie: dunque la proposta può intervenire presso associazioni sindacali, Direzioni territoriali del lavoro, collegi di conciliazione e arbitrato, commissioni di certificazione.
Si tratta, in realtà, di ambiti in cui le rinunce e le transazioni esperite possono avere ad oggetto qualsiasi diritto e obbligazione afferente il rapporto di lavoro in tutte le sue fasi, da quella iniziale di costituzione del vincolo contrattuale a quella intermedia di svolgimento del rapporto, fino a quella finale di risoluzione del rapporto medesimo. Ma il nuovo strumento conciliativo riguarda i diritti e gli obblighi derivanti esclusivamente dalla risoluzione del rapporto di lavoro, essendo espressamente previsto che l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore risolve e definisce ogni situazione pendente.
Durante i lavori preparatori al testo del decreto attuativo, in riferimento alla offerta di conciliazione sono emersi quesiti riguardo la possibilità per le parti di raggiungere soluzioni transattive con la finalità di comporre altre vicende o rivendicazioni inerenti al medesimo rapporto di lavoro. Del resto, se è vero che l’offerta di un assegno graduato sugli anni di servizio maturati dal lavoratore elimina la materia del contendere con riferimento all’impugnazione del recesso, è altresì plausibile che essa possa lasciare sospese ulteriori questioni rivendicabili
con riferimento all’intercorso rapporto di lavoro. Si pensi alle pretese del lavoratore in merito a differenze retributive, a un inquadramento contrattuale superiore, a richieste risarcitorie legate a danni alla salute o alla professionalità, ma anche alle domande del datore di lavoro per la restituzione di somme indebitamente percepite dal lavoratore o per violazione di un vincolo di esclusiva89.
Al fine di dirimere la questione, l’art. 6, comma 1 reca un capoverso finale secondo cui «le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro, sono soggette al regime fiscale ordinario». Dunque, le parti possono estendere la conciliazione ad altri aspetti del rapporto di lavoro prevedendo rinunce e transazioni al fine di risolvere ogni possibile contestazione tra loro, con effetto definitivo.
In ogni caso, l’esenzione contributiva e fiscale rimane limitata all’importo offerto dal datore di lavoro determinato con il meccanismo di calcolo dell’indennità in funzione dell’anzianità di servizio. Si ritiene che tale limitazione sia riferibile anche alle eventuali offerte economiche formulate dal datore di lavoro in misura superiore all’importo predeterminato dalla legge: pertanto la somma eccedente l’importo calcolato in base all’anzianità di servizio deve considerarsi soggetto a imposizione fiscale.
Con riferimento alla determinazione di offerte di entità diversa rispetto a quella prevista dal legislatore, se da un lato è possibile, come si è visto, che le parti si accordino per l’erogazione di importo superiore, dall’altro vi sono dubbi circa la legittimità della proposta di un importo inferiore. Una risposta potrebbe giungere considerando che probabilmente la ratio legis non si collega esclusivamente a prospettive di deflazione del contenzioso bensì anche alla garanzia di un indennizzo economico che risulti congruo per il lavoratore: ciò
89 Bulgarini d’Elci, Con la conciliazione l’indennità è al netto, in De Cesari-Pizzin-Prioschi (a cura di), Jobs Act: Il contratto a tutele crescenti, inserto allegato a Il Sole 24 Ore, Milano, 2015.
significherebbe che l’ammontare dell’offerta, come calcolata in base ai criteri di legge, rappresenti la base minima consentita e sia perciò irriducibile90.
Il tentativo di conciliazione facoltativa per i contratti di lavoro a tutele crescenti porta con sé per il datore di lavoro un nuovo obbligo che si aggiunge alla comunicazione da trasmettere al centro per l’impiego entro 5 giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro: si tratta dell’invio al medesimo centro per l’impiego, entro 65 giorni dall’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro, di una comunicazione telematica con l’indicazione della intervenuta o meno conciliazione.
Come precisato all’inizio di questo paragrafo, la nuova disciplina sull’offerta di conciliazione si applica ai soli lavoratori con contratto a tutele crescenti, laddove per i contratti già posti in essere all’entrata in vigore del decreto si continuano ad applicare gli strumenti transattivi vigenti e non viene esteso il beneficio dell’esenzione fiscale.
10. Licenziamento collettivo
La riforma del 2015 interviene anche nel campo delle tutele previste in materia di licenziamenti collettivi lasciandone immutati i presupposti e la relativa procedura e modificando la disciplina delle sanzioni.
L’art. 10 del decreto attuativo invero non tocca le norme fondamentali dell’istituto contenute nella legge n. 223/1991. È confermata la nozione di licenziamento collettivo che ricorre quando l’impresa sta beneficiando di strumenti di integrazione salariale come la Cassa Integrazione e ritiene di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi e di non potere utilizzare misure alternative ovvero quando, in vista della cessazione dell’attività o di una ristrutturazione della produzione, decide di effettuare una
90 Xxxxx, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, in Pessi- Xxxxxx-Xxxxx-Vallebona, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
importante riduzione del personale nel senso di licenziare almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni.
Anche con riferimento alle norme procedurali che il datore di lavoro è tenuto a seguire in sede di intimazione del licenziamento collettivo il decreto non ha introdotto alcuna modifica. Continuano dunque ad applicarsi le disposizioni della legge n. 223/1991 che riguardano in primis la fase di comunicazione di avvio della procedura da parte del datore di lavoro alle rappresentanze sindacali presenti in azienda e ai sindacati maggiormente rappresentativi con la specifica dei motivi e delle misure che intende mettere in atto per eliminare o ridurre l’impatto sociale che deriva dai provvedimenti recessivi; successivamente l’esperimento dell’esame congiunto del datore di lavoro con le controparti sindacali e con la Direzione del lavoro, il relativo accordo eventualmente raggiunto dalle parti al fine di contemperare gli interessi delle medesime e contenere gli effetti negativi dei licenziamenti, nonché la disciplina in merito ai criteri di scelta che il datore è tenuto a seguire nell’individuare i lavoratori da licenziare.
Proprio riguardo ai criteri di scelta da rispettare per la selezione dei lavoratori, il decreto attuativo conferma la disciplina precedente. L’impresa infatti deve attenersi ai criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva e, in mancanza, ai criteri generali indicati dalla legge n. 223/1991 che considera i carichi di famiglia (ovverosia l’impatto che un eventuale licenziamento può avere in relazione alla presenza di un coniuge a carico e al numero dei figli), l’anzianità del lavoratore (tenendo conto del principio per il quale un lavoratore molto anziano trova maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro) e le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa. All’interno degli accordi tra impresa e sindacati raggiunti al termine del procedimento di cui sopra, però, è possibile che le parti stabiliscano dei criteri diversi da quelli di legge ma rispondenti comunque ai principi di non discriminazione (sindacale, religiosa, politica, sessuale, linguistica, ecc.) e di razionalità (cioè coerenti con le ragioni aziendali che sono alla base della richiesta di mobilità).
Il decreto attuativo ha inciso principalmente sull’apparato sanzionatorio dei licenziamenti collettivi illegittimi, introducendo alcune novità stabilite all’art. 10. In caso di licenziamento collettivo intimato senza forma scritta è fatto espresso rinvio all’art. 2 del decreto medesimo con la conseguente applicazione della reintegrazione del lavoratore o, su sua richiesta, dell’indennità di 15 mensilità, oltre al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni che egli avrebbe percepito dalla data della perdita del lavoro sino a quella dell’effettiva riammissione in servizio (e comunque in misura non inferiore a 5 mensilità),
oltre al versamento dei contributi previdenziali.
Invece nelle ipotesi di violazione delle procedure stabilite dalla legge n. 223/1991 oppure di mancata osservanza dei criteri di scelta legali o contrattuali è fatto espresso rinvio alla tutela dell’art. 3, comma 1 prevista per i licenziamenti individuali motivati da giustificato motivo oggettivo: quindi al lavoratore è garantita non più la tutela reale ma il pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 2 mensilità di retribuzione per ciascun anno di lavoro, in misura compresa tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità. Questa scelta legislativa volta ad accomunare il regime dei licenziamenti economici individuali e quello dei licenziamenti collettivi ha incontrato numerose opposizioni. Tuttavia, le ragioni sottese alla decisione aziendale in entrambe le fattispecie sono facilmente sovrapponibili e questo giustificherebbe una parità di trattamento sanzionatorio.
Nei confronti dei vecchi assunti coinvolti nelle procedure di licenziamento collettivo continua a valere il regime sanzionatorio statutario così come modificato dalla riforma Fornero. È dunque possibile che, nell’ambito della medesima procedura attivata dalle imprese la cui componente lavoratrice sia costituita da prestatori assunti a tempo indeterminato sia prima che dopo il 7 marzo 2015, coesista un doppio binario di assetti normativi con un conseguente trattamento sanzionatorio differenziato.
Più volte, in precedenza si è ribadito che il decreto legislativo n. 23/2015 sulle tutele crescenti non si applica ai lavoratori che hanno la qualifica di dirigenti. Tuttavia, in seguito al recepimento della sentenza della Corte di
giustizia europea del 13 febbraio 2014 mediante l’art. 16 della legge n. 161/2014, che ha modificato gli artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991, i dirigenti vengono ad essere inquadrati a pieno titolo nelle procedure di licenziamento collettivo relative agli altri lavoratori. Infatti con tale pronuncia è stata dichiarata l’illegittimità della legge del 1991, nella parte in cui escludeva l’obbligo di rispettare le procedure di riduzione del personale nei confronti dei dipendenti con qualifica dirigenziale.
La nuova normativa ha invece precisato che i dirigenti coinvolti dalla procedura di mobilità devono essere inclusi nell’organico aziendale utile sia al fine del superamento della soglia dei 15 dipendenti sia ai fini del computo dei 5 lavoratori per i quali l’impresa intende procedere al licenziamento nell’arco di 120 giorni. Essi inoltre sono soggetti alle stesse regole procedurali previste per i licenziamenti collettivi ordinari: tuttavia l’esame congiunto del datore di lavoro con le controparti sindacali a seguito della comunicazione di avvio della procedura di mobilità, può svilupparsi anche in separata sede rispetto agli altri lavoratori, dato che la legge prevede che si debbano tenere “appositi incontri” a tal fine.
La novella del 2014 ha esteso ai dirigenti anche la disciplina relativa alle modalità di applicazione dei criteri di scelta come prima indicati.
Se per i dirigenti, come appena illustrato, le norme riguardanti le procedure da attivare in caso di licenziamento collettivo sono le medesime, altrettanto non può dirsi per il regime sanzionatorio. La legge n. 223/1991, infatti, nelle ipotesi di violazione delle procedure previste dalla legge o dei criteri di scelta, prevede il diritto del dirigente ad ottenere il pagamento di un’indennità di importo compreso tra un limite minimo di 12 e un tetto massimo di 24 mensilità della retribuzione globale di fatto il cui concreto ammontare è valutato dal giudice tenendo conto della natura e della gravità della violazione. Sono comunque fatte salve le diverse previsioni sulla misura di tale indennità eventualmente contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro dirigenziale
le quali possono fare riferimento a criteri già collaudati in materia di licenziamento individuale come ad esempio l’anzianità di servizio.
CAPITOLO 3
Ulteriori considerazioni applicative della disciplina
1. Legge di stabilità 2015, misure di incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato
A seguito dell’analisi giuridica del decreto n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti e delle innovazioni che esso ha apportato in materia di tutele contro i licenziamenti illegittimi, è possibile ora procedere all’esame di alcune questioni applicative ed accessorie della nuova disciplina.
Come già illustrato nel capitolo precedente, la legge delega n 183/2014, madre dei successivi decreti delegati emanati (e da emanare) in attuazione dei principi in essa compresi, riporta tra gli obiettivi della riforma del mercato del lavoro quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come “forma comune” di contratto di lavoro e di renderlo “più conveniente” rispetto alle altre tipologie contrattuali presenti nell’ordinamento.
Questo intento è stato perseguito dal legislatore delegato secondo due direttrici, principalmente: la prima consiste nell’intervento di riforma del regime dei licenziamenti ispirato, come si è visto, a una maggiore flessibilità in uscita della forza lavoro e, in parallelo, dalla nuova idea di stabilità intesa con riferimento non al posto di lavoro, bensì all’impiego duraturo del prestatore durante la sua vita lavorativa, anche presso datori di lavoro diversi; in secondo luogo, un altro terreno sul quale il legislatore ha giocato al fine di promuovere e rendere più convenienti le nuove assunzioni a tempo indeterminato è rappresentato dagli incentivi economici.
A quest’ultimo proposito, infatti, con l’entrata in vigore della legge n. 190/2014 (c.d. Legge di Stabilità 2015) è stato introdotto un esonero contributivo triennale per le aziende che procedono a nuove assunzioni attraverso la stipula di
nuovi contratti a tempo indeterminato nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2015. Si tratta di uno strumento il cui scopo, sancito all’art. 1, comma 118 della legge, è quello di «promuovere forme di occupazione stabile» attraverso un meccanismo di riduzione del carico contributivo per i datori di lavoro privati, indipendentemente dal settore di appartenenza (compreso il settore agricolo, seppur con alcune limitazioni di cui si parlerà in seguito).
La legge, al comma 118, fa riferimento ai “datori di lavoro” richiamando così nel campo di applicazione della disciplina anche i soggetti non imprenditori come gli studi professionali, anche se organizzati in forma associata91. Inoltre, devono considerarsi inclusi tra i destinatari del provvedimento gli organismi pubblici interessati da processi di privatizzazione nonché gli enti pubblici economici. Per approfondire i requisiti da verificare in capo a questi ultimi92, si può far riferimento alla circolare INPS n. 40/1996 secondo la quale è necessario che l’attività esercitata sia finalizzata all’ottenimento di entrate superiori ai costi di produzione: è sufficiente la tendenziale idoneità a ricavare dalla cessione di beni e servizi prodotti quanto occorra per compensare i fattori produttivi impiegati, perseguendo il pareggio di bilancio.
Come accennato, gli incentivi sono predisposti a favore dei datori di lavoro che pongono in essere nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, ad eccezione di quelle effettuate con contratti di apprendistato, di lavoro domestico o intermittente. Sono incluse nel beneficio anche le conversioni dei contratti a termine. La norma prevede che le assunzioni interessate sono quelle «decorrenti dal 1º gennaio 2015 con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2015» in relazione alle quali è concesso l’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, con l’eccezione dei premi e contributi dovuti all’INAIL, per un periodo non superiore a 36 mesi ed entro un importo massimo di 8.060 euro su base annua per ciascun lavoratore.
91 Circolare INPS n. 17/2015.
92 Rota Porta, Bonus per le assunzioni a tempo indeterminato, in Xxxxxxx (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Xxxx, 0000.
Poiché la norma si riferisce inizialmente ai contributi “complessivi” e successivamente li qualifica come “previdenziali” (e non anche assistenziali), si pone il quesito sulla natura dei contributi oggetto di esonero: la soluzione preferibile sembra essere quella che attribuisce maggior peso all’aggettivo “complessivi” includendo dunque nel computo anche i contributi assistenziali93.
La circolare INPS n. 17 del 29 gennaio 2015 sottolinea che l’importo massimo previsto dalla legge debba essere riproporzionato in base all’orario di lavoro specificamente indicato nel contratto individuale di lavoro rispetto al normale orario previsto dalla legge o dal contratto collettivo. Ad esempio, in caso di stipulazione di un contratto part-time in cui è previsto un orario settimanale pari al 50%, l’importo massimo del bonus va ridotto della metà. Questa regola si applica allo stesso modo anche in caso di contratto di lavoro ripartito, sulla base della durata effettiva delle prestazioni rispetto a quella normale.
Nel documento sono altresì chiarite le modalità applicative del massimale annuo che, nel silenzio della norma, si riteneva utilizzabile liberamente nel corso dell’anno fino a raggiungere l’importo massimo previsto. L’INPS ha invece imposto una rideterminazione del massimale su base mensile: il tetto annuo di
8.060 euro è diviso nei 12 mesi, per cui il limite massimo di bonus mensile fruibile è pari a 671,66 euro. Questo implica che qualora il contributo mensile che il datore di lavoro è tenuto a versare sia superiore all’importo massimo del bonus mensile concesso, la parte eccedente non potrà essere coperta dal bonus, neanche se il limite annuo non sia stato raggiunto, ma dovrà essere versata interamente dal datore di lavoro. Viceversa, qualora il massimale mensile non sia fruito completamente, la parte restante potrà essere utilizzata nei mesi successivi.
Non è stata fornita nessuna indicazione, invece, per l’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia versato la contribuzione eccedente per un mese ma non fruisca dell’intero bonus nel mese successivo. Poiché si tratta di un massimale annuo, tuttavia, sembra possibile richiedere e ottenere la restituzione delle somme tramite conguaglio al termine dell’anno. In ogni caso la porzione di bonus non
93 Fondazione Studi, Approfondimento del 21 gennaio 2015.
utilizzato nell’arco di un anno non sembra sia utilizzabile per i contributi degli anni successivi94.
Infine, nel caso di assunzione e successiva cessazione del rapporto nel corso del mese, è necessario ricalcolare l’importo su base giornaliera, che risulta pari a 22,08 euro.
L’ottenimento del bonus richiede la presenza di alcune condizioni: infatti, l’esonero non può attivarsi in caso di assunzioni relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro, nonché in caso di assunzioni di lavoratori per i quali il beneficio sia già stato usufruito in relazione ad una precedente assunzione a tempo indeterminato. L’esonero è escluso anche qualora, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della Legge di stabilità, il lavoratore assunto abbia intrattenuto rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il datore di lavoro richiedente l’incentivo ovvero con società da questi controllate o a questi collegate, nonché facenti capo, anche per interposta persona, al datore di lavoro medesimo: ciò «allo scopo di ridurre il rischio di precostituzione artificiosa dei presupposti per l’applicazione del beneficio non conformi all’obiettivo della norma»95. In ogni caso l’accesso alla fruizione non è riconosciuto quando l’assunzione viola un diritto di precedenza sussistente in capo ad un lavoratore licenziato nell’ambito di un rapporto a tempo indeterminato oppure cessato da un rapporto a termine.
In presenza delle condizioni illustrate, l’esonero è attivabile anche in occasione di assunzioni a tempo indeterminato in attuazione dell’obbligo di cui all’art. 5, comma 4-quater del d.lgs. n. 368/2001, ossia quando il datore di lavoro assuma a tempo indeterminato il lavoratore con il quale, nel corso dei dodici mesi precedenti, ha avuto uno o più rapporti di lavoro a termine per un periodo complessivo di attività lavorativa superiore a sei mesi ovvero in caso di
94 Xxxxxxxx Xxxxxxx, Sgravio contributivo triennale su base mensile e conguaglio annuo, su xxx.xxxxx.xx.
95 Circolare INPS n. 17/2015.
trasformazione di un rapporto di lavoro a termine in un rapporto a tempo indeterminato.
È possibile la fruizione dell’esonero anche relativamente a rapporti di somministrazione che conducono alla successiva assunzione a tempo indeterminato del lavoratore, a condizione che il lavoratore non sia stato occupato a tempo indeterminato nel corso dei 6 mesi precedenti presso alcun datore di lavoro. Inoltre, devono essere detratti dal periodo massimo triennale di concessione dei benefici i mesi in relazione ai quali il lavoratore abbia già fatto maturare parte dell’incentivo.
Allo stesso modo è riconosciuto l’esonero anche in caso di assunzione di dirigenti, seppur svincolato dall’applicazione delle tutele crescenti in quanto per tale categoria di lavoratori si applica una specifica disciplina legislativa.
L’INPS ha inoltre evidenziato alcuni aspetti operativi riguardo l’utilizzo di questo strumento di sostegno alle imprese che decidano di procedere ad un allargamento del proprio organico attraverso assunzioni stabili.
In primo luogo, il beneficio che deriva dalla sua fruizione è di carattere generalizzato, in quanto potenzialmente rivolto a tutti i datori di lavoro privati operanti nei diversi settori economici e su tutto il territorio nazionale, e non contrasta con il principio sancito nell’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nel quale si legge che sono incompatibili con il libero mercato, salvo deroghe dei trattati, gli aiuti concessi dagli Stati membri, o comunque mediante risorse statali, che, favorendo alcune imprese o produzioni, falsano o minaccino di falsare la concorrenza.
L’incentivo, inoltre, non implica alcuna riduzione della misura del trattamento previdenziale, in quanto l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche resta fissa ai livelli ordinari, ossia pari, per la generalità dei lavoratori subordinati, al 33% della retribuzione lorda imponibile; parimenti, non sono alterati gli istituti e gli interventi previdenziali spettanti ai lavoratori sulla base del settore produttivo in cui sono impiegati.
Il bonus non è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, mentre è riconosciuta la sua compatibilità con misure di natura economica come quelle di incentivo all’assunzione dei lavoratori disabili di cui all’art. 13 della legge n. 68/1999, dei beneficiari del trattamento Aspi o mobilità, di giovani operai agricoli, e altri.
Il bonus economico è previsto anche per il settore agricolo ma con stanziamenti limitati, come indicati dal comma 120 dell’art. 1 della Legge di Stabilità, e con esclusione dei lavoratori che nell'anno 2014 siano risultati occupati a tempo indeterminato ovvero a tempo determinato per un numero di giornate di lavoro non inferiore a 250 giornate.
Inoltre, per tale settore la legge introduce un sistema di fruizione che prevede la presentazione di apposita domanda all’INPS da parte del datore di lavoro: in primo luogo, egli dovrà richiedere la prenotazione delle somme a titolo di esonero e, in caso di ricevuta conferma delle medesime, dovrà formulare la domanda definitiva di ammissione al beneficio entro 14 giorni lavorativi96. La concessione dell’incentivo economico è valutata in base all’ordine cronologico di presentazione delle istanze, fino ad esaurimento dei fondi stanziati, dopodiché l’INPS non prenderà in considerazione ulteriori domande, fornendo immediata comunicazione anche attraverso il proprio sito internet.
Per quanto concerne gli effetti iniziali delle nuove misure di agevolazione contributiva introdotte dalla legge di Stabilità, nei primi due mesi del 2015 vi è stato un riscontro generalmente positivo: l’INPS ha affermato che 76.000 imprese hanno richiesto il codice di autorizzazione per l’accesso al beneficio contributivo triennale a fronte di assunzioni a tempo indeterminato. Inoltre, stando alle rilevazioni effettuate in riferimento a tale periodo, emerge un quadro complessivo delle valutazioni effettuate dai datori di lavoro rispetto al nuovo esonero:
96 Rota Porta, Bonus per le assunzioni a tempo indeterminato, in Xxxxxxx (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Xxxx, 0000.
il 36% degli imprenditori italiani pensa di assumere nel corso dell’anno uno o più dipendenti a tempo indeterminato approfittando dei nuovi sgravi;
il 21% che pensa di orientarsi, nonostante la decontribuzione, sui contratti a tempo determinato;
la maggioranza degli imprenditori, pari al 43%, si dichiara ancora indecisa.
Successivamente, a conferma di quanto affermato dall’INPS, la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro ha pubblicato i propri dati relativi ai primi due mesi del 2015, evidenziando che circa 275.000 lavoratori sono stati assunti a tempo indeterminato in tale periodo. Tuttavia, prosegue la Fondazione, di questi nuovi rapporti a tempo indeterminato l’80% è in realtà rappresentato da stabilizzazioni di rapporti di lavoro precedentemente regolati mediante collaborazioni a progetto, contratti a termine, partite IVA, mentre solo il 20% è costituito da nuove assunzioni e dunque ha prodotto un concreto aumento dell’occupazione97.
Nel settembre 2015 l’osservatorio dell’INPS ha evidenziato segnali nettamente più positivi: nei primi sette mesi dell’anno 786.000 rapporti di lavoro hanno beneficiato dell’esonero contributivo introdotto dalla Legge di Stabilità; di questi 567.000 riguardano assunzioni a tempo indeterminato e 219.000 sono stabilizzazioni di contratti a termine. Tra gennaio e luglio, rispetto al 2014, è aumentato di 286.000 unità il numero di assunzioni con contratto a tempo indeterminato (+35,4%), mentre si sono ridotte le assunzioni in apprendistato. La percentuale di nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato sul totale dei rapporti è pari al 40,2%, contro il 32,8% del 2014 e il 37% del 201398. Si tratta di cifre importanti che sembrano dar ragione ai provvedimenti adottati.
La legge di Stabilità 2015 ha poi introdotto un altro strumento di incentivo alle assunzioni mediante contratto a tempo indeterminato, con la prospettiva di
97 Vinciarelli, Assunzioni agevolate in 76mila imprese e Assunzioni agevolate 2015: 80% stabilizzazioni, su xxx.xxx.xx.
98 Xxxxxxxxx, In 7 mesi 786mila assunti con decontribuzione, articolo de Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2015, pag. 6.
un incremento dell’occupazione e di un contenimento dei costi per le imprese. Si tratta della previsione di una deduzione da applicarsi alla base imponibile ai fini IRAP, di carattere aggiuntivo rispetto alle deduzioni già previste dall’articolo 11 del d.lgs. n. 446/1997.
Quest’ultimo stabilisce, in primo luogo, la deducibilità del premio sostenuto per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, se tale onere costituisce parte integrante della base imponibile IRAP. Inoltre, sono previste ulteriori deduzioni, a partire dal periodo di imposta 2014, suddivise in due gruppi, tra loro alternativi.
Il primo di essi include alcune deduzioni, come segue:
7.500 euro per ciascun dipendente a tempo indeterminato (13.500 se di sesso femminile), con esclusione delle imprese che operano in concessione e a tariffa in particolari settori (energia, acqua, trasporti, infrastrutture, ecc.);
15.000 euro (21.000 se il dipendente è di sesso femminile, ovvero di età inferiore a 35 anni) per ciascun dipendente impiegato nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia;
l’intero importo dei contributi assistenziali e previdenziali dei lavoratori a tempo indeterminato.
Il secondo gruppo di deduzioni comprende invece:
l’intero importo delle spese relative ad apprendisti e disabili;
l’intero importo dei costi sostenuti per il personale addetto alla ricerca e sviluppo;
deduzione pari a 1.850 a dipendente.
Per i soli autotrasportatori di merci è infine deducibile l’indennità di trasferta per la quota che non concorre a formare il reddito del dipendente ai sensi del TUIR.
All’art. 11 appena citato è aggiunto il comma 4-octies, introdotto dall’art. 1, comma 20 della legge n. 190/2014, che pone in deduzione dal valore della produzione ai fini dell’IRAP la differenza tra le deduzioni precedentemente
esaminate e il costo sostenuto dall’impresa in relazione ai contratti di lavoro a tempo indeterminato a prescindere dall’orario di lavoro svolto (i lavoratori part- time sono dunque inclusi).
Con la circolare n. 22/E del 9 giugno 2015 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che le imprese possono applicare la deduzione della base imponibile IRAP anche relativamente al personale soggetto a contratti di somministrazione. Ciò è possibile solo nel caso in cui il rapporto contrattuale tra Agenzia per il lavoro (somministratrice) e dipendente sia a tempo indeterminato, mentre la tipologia contrattuale intercorrente tra impresa e Agenzia per il lavoro può essere a termine oppure a tempo indeterminato.
Inoltre, con riferimento agli imprenditori agricoli la legge estende la deduzione anche ai contratti a tempo determinato di durata almeno triennale, se nei singoli periodi di imposta il lavoratore ha eseguito le prestazioni lavorative per almeno 150 giornate.
La decorrenza del nuovo beneficio fiscale è fissata a partire «dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014» che generalmente è quello del 2015 eccetto per i soggetti con esercizio diverso dall’anno solare (per l’Agenzia delle Entrate è il periodo tra il 1° gennaio e il 31 dicembre). Dunque il concreto beneficio per le aziende sarà disponibile solo nel 2016 quando saranno effettuati i calcoli necessari per l’individuazione dell’IRAP dovuta in sede di dichiarazione.
Dal punto di vista dell’applicazione soggettiva della nuova norma, a differenza dell’esonero contributivo di cui si è parlato prima, essa non ha carattere generalizzato bensì è limitata a determinati soggetti che la legge individua in quelli che «determinano il valore della produzione netta ai sensi degli articoli da 5 a 9» del d.lgs. n. 446/1997. Si tratta, dunque, di società di capitali ed enti commerciali, società di persone e quelle ad esse equiparate, imprese individuali esercenti attività commerciali, esercenti arti e professioni, sia in forma individuale, che in forma associata, banche, società finanziarie ed altri enti di cui all'art. 1 del d.lgs. 87/1992, imprese di assicurazione.
La precisa entità della deduzione è stabilita dall’art. 1, comma 20 della legge di Stabilità in un ammontare pari alla «differenza tra il costo complessivo per il personale dipendente con contratto a tempo indeterminato e le deduzioni spettanti ai sensi dei commi 1, lettera a), 1-bis, 4-bis.1 e 4-quater» del d.lgs. n. 446/1997. La corretta quantificazione della deduzione è da effettuarsi a partire dal calcolo del costo del lavoro della totalità dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato, tenendo conto di tutte le caratteristiche che compongono i singoli rapporti di lavoro. Dal valore così ottenuto è poi necessario sottrarre l’ammontare di tutte le deduzioni previste dalle disposizioni legislative appena citate, così ottenendo la precisa entità delle deduzioni da apportare alla base imponibile IRAP.
Dalle modalità di calcolo appena descritte emerge una particolare conseguenza in termini di efficacia della deduzione in analisi: il beneficio economico sarà più consistente per quelle imprese che in base al d.lgs. n. 446/1997 usufruiscono di minori deduzioni, poiché dopo la decurtazione delle relative somme dal valore del costo del lavoro, esse incidono in maniera più contenuta sull’ammontare finale della deduzione rispetto ai casi in cui le deduzioni previste fossero più ingenti99.
2. Abolizione del c.d. rito Fornero per i nuovi assunti
Il decreto attuativo n. 23/2015, oltre ad introdurre la disciplina del contratto a tempo determinato a tutele crescenti, ne modifica anche gli aspetti processuali superando, in particolare, lo speciale rito abbreviato previsto nell’ambito della legge Fornero.
Infatti la disciplina introdotta dalla legge n. 92/2012 per le controversie relative all’impugnazione dei licenziamenti sottoposti al regime di tutela dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla medesima legge, non può
99 Fondazione Studi, circolare n. 1 del 07 gennaio 2015.
essere utilizzata per i recessi datoriali che rientrano nell’ambito del nuovo contratto a tempo indeterminato: l’art. 11 del decreto, infatti, prevede espressamente che all’impugnazione di tali licenziamenti «non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell'articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n.
92».
La ragione fondante di questa esclusione, come è stato chiarito nella relazione illustrativa al decreto, risiede nel fatto che il nuovo regime sanzionatorio per i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti supera l’apparato delle tutele previsto dall’art. 18 che, invece, costituisce la norma di riferimento sulla quale è stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.
Il regime processuale abbreviato continua dunque ad applicarsi alle controversie relative ai rapporti di lavoro già esistenti alla data del 7 marzo 2015, pertanto è opportuno illustrarne le modalità applicative e i punti di maggiore interesse.
La legge n. 92/2012 ha introdotto il rito abbreviato con lo scopo di costituire una corsia preferenziale per la risoluzione delle controversie sui licenziamenti rientranti nell’area ex art. 18, partendo dal presupposto che la durata molto spesso lunga del processo ordinario finisce per pregiudicare l’interesse delle parti ad una sollecita definizione delle liti, causando per l’impresa disagi organizzativi e danni economici legati ai costi provenienti da decisioni giudiziali sfavorevoli tardive, e per il lavoratore situazioni di incertezza economica e di precarietà sociale. Dunque la specialità del procedimento si individua nella finalità di perseguire, oltre agli interessi del lavoratore e del datore di lavoro, quelli generali connessi alla tutela dei principi costituzionali della ragionevole durata del processo, attraverso la snellezza dei procedimenti giudiziali e della stabilità e certezza nella definizione dei conflitti giudiziari in materia di licenziamento100.
100 Curzio, Il nuovo rito per i licenziamenti, in Working Papers; Bulgarini d’Elci, Solo per le tutele crescenti non c’è più il rito abbreviato, in De Cesari-Pizzin-Prioschi, Jobs Xxx 0000, instant book allegato al Sole 24 Ore, e Cancellazione del rito Fornero, in xxx.xxxxxx00xxx.xx.
Fin dalla sua prima applicazione, tuttavia, il rito Fornero si è prestato a interpretazioni di segno contrario rispetto ad una serie composita di questioni e tematiche procedimentali le quali hanno, nella sostanza, rallentato un iter processuale che nelle intenzioni avrebbe dovuto, al contrario, velocizzare la risoluzione delle controversie: ciò con il risultato di rendere più gravoso il lavoro cui sono chiamati gli attori, in primis avvocati e magistrati, impegnati sul fronte delle cause lavorative. Gli orientamenti difformi maturati in seno ai singoli Tribunali hanno in molti casi spinto i Presidenti dei medesimi ad emettere dei veri e propri “prontuari” con le linee guida sull'applicazione del nuovo processo101.
Una prima questione ha investito l’obbligatorietà o meno del nuovo rito. E’ opinione della prevalente dottrina e giurisprudenza che il rito Fornero, disciplinato ai sensi dei commi da 48 a 68 dell’art. 1 della L. n. 92/2012, sia stato previsto come “obbligatorio” per ottenere in sede giurisdizionale le tutele di cui al novellato art. 18 dello Statuto. Infatti il comma 48 stabilisce che nell’ambito applicativo del nuovo rito, la domanda “si propone” con ricorso, non che “si può proporre”: il dato testuale appare prescrittivo e dunque non prevede la mera facoltatività del rito la cui applicazione non potrebbe pertanto essere rimessa alla possibile volontà di rinuncia da parte del lavoratore illegittimamente licenziato e magari anche del datore di lavoro.
Questa interpretazione fonda il carattere impositivo del rito, al di là dell’argomento letterale, sulla specialità che lo pervade e quindi si pone in perfetta sintonia con la ratio che permea tutta la revisione della disciplina
101 Liti sui licenziamenti: sul doppio giudice si scatena il fai da te, il Sole 24 Ore, p. 9, rassegna stampa Csm del 19 novembre 2012; De Ceglie, Gli orientamenti della sezione lavoro del Tribunale di Bari in ordine alla riforma Fornero, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx; Orientamenti della giurisprudenza milanese sul nuovo rito, in xxxxxxxx.xxxxx.xx; conclusioni interpretative del Tribunale Monza del 30 ottobre 2012; Prime indicazioni operative rito Fornero Tribunale di Rieti, in xxxxxxxxxxxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx; Tribunale di Venezia sezione lavoro: 12 dicembre 2012, Aspetti
processuali ed organizzativi nel rito speciale dell’art. 1 l. n.92 del 2012 ( c.d. legge Fornero), in Riv. It. Dir. Lav., 2012, II, 1116; Tribunale di Firenze sezione lavoro: Verbale del 17/10/2012, Opzioni interpretative in ordine al c.d. Rito Fornero, in Riv. It. Dir.Lav., 2012, II, 1110; Xxxxx, Brevi osservazioni sulla giurisprudenza post riforma Fornero, intervento programmato al Convegno “Le tre grandi riforme del lavoro: Treu/Biagi/Fornero“ del 22 novembre 2013, Università e Campus, Novedrate.
processuale in materia di licenziamenti, come prima indicata: il nuovo impianto processuale trascende gli interessi delle parti per porsi a tutela di esigenze superiori di carattere pubblicistico ad ottenere decisioni in tempi brevi rispetto alle quali la facoltatività del mezzo operativo è difficilmente sostenibile102.
Pertanto non si ritiene estensibile al procedimento previsto dai commi 47 e segg. della legge Fornero l’orientamento affermatosi con riguardo al procedimento ex art. 28, legge n. 300/1970 per la repressione della condotta antisindacale, di carattere alternativo all’azione ordinaria davanti al giudice del lavoro, poiché legittimati ad attivarlo sono solo gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, laddove le disposizioni di cui ai commi 47 e segg., l. n. 92/2012 non prevedono alcuna legittimazione aggiuntiva103.
L’obbligatorietà del rito Fornero, tuttavia, è parsa foriera di dubbi ed implicazioni problematiche che non consentono di escludere del tutto che tale procedimento possa considerarsi alternativo e concorrente col rito ordinario del lavoro. Rispetto a quest’ultimo, infatti, esso potrebbe porsi come “preferenziale”, rimettendo così alla volontà della parte che intraprende l’impugnativa di licenziamento la valutazione se, nel caso concreto, sia più utile procedere con il rito previsto dalla riforma o se sia più confacente ai suoi interessi un ricorso ex art. 414, c.p.c.
Coloro che accolgono questa interpretazione evidenziano come il legislatore non ha indicato che la domanda vada proposta a pena di inammissibilità e considerano applicabile al rito abbreviato l’orientamento giurisprudenziale in tema di procedimenti ex art. 28 dello Statuto a favore della possibilità per il
102 Xxxx, Il “rito speciale” per l’impugnazione dei licenziamenti in giurisprudenza italiana, in xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
103 Riverso, Indicazioni operative sul rito Fornero (con una divagazione minima finale), su xxxxxx.xxx, 2012; Tribunale Roma, ordinanza 12 novembre 2012; Tribunale Roma, ordinanza. 31 gennaio 2013; Tribunale Bari, Sezione lavoro, ordinanza 22 marzo 2013; Xxxxxxx, Il nuovo processo per
l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso; Xxxxx Xxxxxxxxxxxx, Le controversie di licenziamento nella riforma Fornero, in “Il punto” de Il Sole 24 ore - Guida al lavoro; Xxxxxxxx, Il rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx; conclusioni interpretative del Tribunale Monza, 30 ottobre 2012; Tribunale Taranto, ordinanza 30 novembre 2012, in Foro It., 2013, I, 673; Tribunale Milano, ordinanza 25 ottobre 2012, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, II, 1086.