Corte di Cassazione, sentenza n.18884 del 10 luglio 2008
Corte di Cassazione, sentenza n.18884 del 10 luglio 2008
Fatto
Con scrittura 1 luglio 1992 la M.D.I. S.r.l., poi Inc. M.D.D.I. Ine., ha concesso in affitto alla S.K.G., di P.S. & C. S.a.s., poi MCI S.r.l., l'azienda di ristorazione sita in Bolzano piazza (Omissis) fino al 31 dicembre 1992, per un corrispettivo mensile pari al 21% del fatturato lordo.
Hanno convenuto altresì le parti che, se l'affittuaria avesse acquistato le apparecchiature della concedente, l'affitto sarebbe stato esteso fino all'1 ottobre 2006.
In data 15 settembre 1992 l'affittuaria ha acquistato le apparecchiature della concedente. Nonostante l'affitto dovesse durare fino all'1 ottobre 2006, peraltro, l'affittuaria nel 1999 è stata costretta a rilasciare l'immobile aziendale.
Il Comune di Bolzano, infatti, proprietario dell'immobile, aveva dato disdetta per il 31 dicembre 1996 alla conduttrice S.H.C. S.r.l., che, a sua volta, avendo sublocato l'immobile alla M.D., aveva dato a quest'ultima disdetta.
Successivamente lo stesso Comune ha dato in concessione d'uso la porzione di immobile occupata dal fast food alla M.D. per due anni, con decorrenza dall'1 gennaio 1997, aumentando il canone (a 186 milioni di lire, circa).
Prima dello scadere del termine, il Comune - ancora - ha revocato alla M.D. la concessione e imposto a questa coattivamente la restituzione dell'immobile, ottenendo prima una ordinanza di rilascio per il 25 febbraio 1999 e, successivamente, con transazione, la riconsegna di esso per il 10 luglio 1999.
Con citazione notificata il 1 marzo 1999 la MCI S.r.l. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Milano la M.D. chiedendo che fosse dichiarata inadempiente al contratto e condannata, con formula generica, al risarcimento dei danni.
Costituitasi in giudizio la convenuta ha resistito alle avverse pretese, invocando la clausola risolutiva espressa di cui all'art. 14 del contratto e, in via riconvenzionale, ha chiesto - in base all'art. 9 dello stesso contratto - la condanna dell'affittuaria al pagamento di L. 379.374.495, versate al Comune di Bolzano per il godimento dell'immobile dal 31 dicembre 1997 al 31 marzo 1999.
Disposta la trasformazione del rito nelle forme dell'art. 426 c.p.c, svoltasi l'istruttoria del caso, il Tribunale di Milano in composizione monocratica con sentenza in data 13 novembre 2000 n. 12280 in accoglimento della domanda attrice, da un lato, ha dichiarato la convenuta inadempiente al contratto condannandola al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, dall'altro ha rigettato la domanda riconvenzionale della convenuta e condannando quest'ultima al pagamento delle spese di causa.
Ha osservato il Tribunale che erroneamente la M.D. aveva invocato la clausola risolutiva espressa, perchè la condizione era destinata a valere nel caso in cui il diritto della concedente fosse venuto meno per cause diverse dalla mera scadenza del titolo, il che non era nella fattispecie, avendo essa perduto la disponibilità dell'immobile per la scadenza dei successivi titoli in suo favore (prima sublocazione, poi concessione - contratto).
Avendo la M.D. garantito la disponibilità dell'immobile fino al 2006, quando invece aveva titolo solo fino al 1996, e poi al 1999 - ha osservato quel giudice - la stessa si è messa nella condizione di non adempiere e, in ogni caso, non doveva, per non violare il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, prospettare una durata di questo fino al 2006 e indurre l'affittuaria all'acquisto delle apparecchiature aziendali per un rilevante importo, sapendo di non avere titolo fino alla data pattuita.
La M.D. - ha evidenziato ancora la sentenza di primo grado - non ha provato che l'affittuaria sapesse che non aveva titolo per disporre l'immobile fino al 2006 ed anzi la circostanza è stata smentita dalla prova contraria per testi indicati dalla MCI. La prova documentale offerta dalla M.D. all'udienza 25 ottobre 2000 ha, ancora, evidenziato quel giudice, è inammissibile perchè tardiva e comunque irrilevante per la ambiguità delle risultanze e la pretesa della concedente di riversare
sull'affittuaria il costo dei contratti di volta in volta stipulati per garantirsi il godimento dell'immobile è infondata perchè l'art. 9 del contratto va interpretato nel senso che l'affittuaria era obbligata a rimborsare alla concedente solo i canoni correnti all'atto della stipulazione originaria nonchè eventuali "aumenti della pigione dopo la data del presente contratto che risultino in particolare da disposizioni di legge, dall'esecuzione di clausole di indicizzazione di canone".
Una diversa interpretazione della clausola nel senso che XXX fosse obbligata a rimborsare qualsiasi canone assunto dalla M.D. - ha sottolineato la sentenza del tribunale - renderebbe la clausola nulla, non potendo l'ammontare dell'obbligazione essere rimesso alla discrezionalità del creditore e in ogni caso appare contraria al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto la pretesa della concedente di riversare sull'affittuaria i maggiori costi cui essa aveva dato causa, essendosi obbligata a far godere l'azienda fino al 2006.
Gravata tale sentenza dalla M.D.D.I. Inc. cui ha resistito la MCI che costituitasi in giudizio ha chiesto il rigetto dalla impugnazione Con sentenza 24 ottobre - 26 novembre 2002 la Corte di appello di Milano ha rigettato l'appello ponendo a carico dell'appellante le spese del grado. Per la cassazione di questa ultima pronunzia, non notificata, ha proposto ricorso, con atto 9 gennaio 2004, affidato a un unico, complesso, motivo, la M.D.D.I. Inc. Resiste, con controricorso la MCI s.r.l.. Il P.G. ha chiesto la trattazione della causa in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 375 c.p.c..
Diritto
1. Giusta la testuale previsione di cui all'art. 390 c.p.c., la parte può rinunciare al ricorso per cassazione xxxxxx non sia cominciata la relazione alla udienza o sia notificata la richiesta del pubblico ministero di cui all'art. 375.
Pacifico quanto precede è palese che è inammissibile una eventuale rinuncia al ricorso nella specie peraltro neppure risultante nelle forme imposte dall'art. 390 c.p.c., comma 2, cui ha fatto riferimento il difensore di parte ricorrente nel corso della odierna discussione.
2. La M.D.D.I. Inc. hanno - in sintesi - evidenziato i giudici del merito, ha concesso in affitto alla MCI s.r.l. "l'azienda comprensiva .. del diritto di occupare i locali secondo i termini e le condizioni del presente contratto".
Avendo le parti convenuto che il termine del contratto di affitto fosse esteso al 1 ottobre 2006, precisa la sentenza impugnata, il diritto di occupare i locali, concesso con uno degli elementi dell'azienda, non poteva avere durata inferiore, si che deve escludersi che "da nessuna delle clausole del contratto inter partes risulta ... che la ricorrente abbia garantito all'affittuaria l'esercizio dell'azienda sino al 2006".
A norma dell'art. 1, comma 7 e art. 14, comma 1, del contratto di affitto, hanno osservato i giudici a quibus la risoluzione del contratto di affitto è prevista quando il diritto del concedente di occupare i locali venga meno per una ragione che non possa essere imputata alla concedente: nella specie, peraltro, la risoluzione del contratto di locazione alla scadenza convenzionalmente stabilita (tra la locatrice S.H.C. S.r.l. e la conduttrice M.D.) per effetto della disdetta data dal locatore, è imputabile alla concedente M.D., secondo i normali principi in tema di causalità giuridica, perchè la concedente, stipulando la conduzione dei locali per un tempo inferiore a quello per i quali ha concesso in affitto la propria azienda, ha posto in essere una condizione necessaria per il verificarsi dell'evento costituito dalla perdita di possesso dell'immobile.
2. Con l'unico motivo la ricorrente censura la riassunta sentenza denunziando "violazione o falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1362, 1363, 1366 e 1367 x.x., xx xxx. 000 x.x.x., x. 0, nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5". Si assume, in particolare, che nel giudizio di merito essa ricorrente aveva sostenuto l'esistenza di un collegamento negoziale, tra il contratto di locazione di immobile (tra la A.E.A. s.p.a. e la G. s.r.l., cui è subentrata la M.D.) e quello di affitto di azienda (inter partes) e che sulla base di tale collegamento essa concludente aveva affermato che il contratto inter partes si era risolto alla scadenza del contratto di locazione e che la Corte d'appello ha ritenuto, invece - incorrendo nella violazioni di legge denunziate - che nessun legame
negoziale intercorresse tra i due rapporti, con la conseguenza, pertanto - ad avviso di quei giudici - che lo spirare del termine del contratto di locazione non determinasse la cessazione anticipata del contratto di affitto di azienda.
3. La censura è sotto diversi, concorrenti, profili, inammissibile, per altri manifestamente infondata.
3.1. In merito alla denunziata "violazione o falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c.," sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3, preme evidenziare, in limine, la manifesta inammissibilità della deduzione. In conformità, in particolare, a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde parte ricorrente e che nella specie deve ulteriormente ribadirsi - infatti - il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.
Il ricordato principio comporta - in particolare - tra l'altro che è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un'affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata (Cass. 15 febbraio 2003 n. 2312).
Quindi, quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate - o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina - il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 29 novembre 2005, n. 26048; Cass. 8 novembre 2005, n. 21659; Cass. 18 ottobre
2005, n. 20145; Cass. 2 agosto 2005, n. 16132).
In altri termini, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di cassazione). Viceversa, la allegazione - come prospettate nella specie da parte del ricorrente - di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione).
3.2. Quanto alla deduzione, punto centrale della censura, che erroneamente i giudici del merito avrebbero escluso la esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di locazione dell'immobile (nel quale la odierna ricorrente è conduttrice) e il contratto di affitto (nel quale la stessa ricorrente è concedente) -la deduzione si appalesa per un verso inammissibile, per altro, manifestamente infondata.
3.2.1. Giusta quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice - e da cui totalmente e senza alcuna motivazione prescinde parte ricorrente - nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni non abbiano formato oggetto di gravame o di contestazione nel giudizio di appello (Xxxx. 16 agosto 2004, n. 15950; Cass. 19 marzo 2004, n. 5561).
Contemporaneamente, non può tacersi che ove una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente
che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 5 aprile 2004, n. 6656).
Xxxxxxxx quanto precede si osserva che nella sentenza impugnata non risulta in alcun modo affrontato il problema, specifico, del preteso collegamento negoziale tra i vari contratti indicati in ricorso.
Poichè pur assumendosi, del tutto apoditticamente, che "nel giudizio di merito la ricorrente aveva sostenuto l'esistenza di un collegamento negoziale" non è indicato in quale occasione, nel rispetto delle regole del contraddittorio, la questione specifica è stata trattata in sede di merito è evidente che la deduzione è inammissibile nella parte in cui prospetta, in pratica, una nuova tesi giuridica, totalmente diversa, rispetto a quelle sostenute in sede di merito, al fine di resistere alle avverse pretese.
3.2.2. Anche a prescindere da quanto precede si osserva che, comunque, in termini opposti rispetto a quanto suppone parte ricorrente, - da un lato, che il collegamento negoziale non da luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, in ipotesi siffatte, il collegamento, pur potendo determinare un vincolo di reciproca dipendenza tra i contratti, non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuridica (Cass. 12 luglio 2005, n. 14611), come puntualmente affermato dai giudici del merito allorchè hanno evidenziato che il grave inadempimento, al contratto di affitto, della M.D. che pur garantito la disponibilità dell'immobile fino al 2006, aveva, invece, in forza del diverso contratto di locazione, titolo per disporne solo fino al 1996, e poi al 1999;
- dall'altro, che accertare la natura, l'entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. 12 luglio 2005, n. 14611, cit.; Cass. 18 luglio 2003, n. 11240; Cass. 12 gennaio 2006, n. 415; Cass. 27 aprile 1995, n. 4645, tra le tantissime).
3.3. Quanto alle censure sollevata dal ricorrente sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, si osserva - in termini opposti, rispetto a quanto presuppone la difesa della ricorrente e alla luce di quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non può che ulteriormente ribadirsi - che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.
Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova (Cass. 21 aprile 2006, n. 9368; Cass. 20 aprile 2006, n. 9234; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 20 ottobre
2005, n. 20322).
L'art. 360, n. 5 - infatti - contrariamente a quanto suppone l'attuale ricorrente non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì
solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti.
Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.
Il motivo di ricorso per cassazione non il quale alle sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione, ai sensi dell'art. 360, c.p.c., n. 5, deve essere inteso a far valere - a pena di inammissibilità in difetto di loro specifica indicazione - carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, o ancora, mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi. Non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggetto della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti.
Tali aspetti del giudizio, infatti, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di legittimità (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087). Certo quanto sopra si osserva che la ricorrente lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, si limita - in buona sostanza per quanto è dato comprendere - a sollecitare una diversa lettura, delle risultanze di causa preclusa in questa sede di legittimità.
3.4. Anche a prescindere da quanto precede si osserva che giusta quanto assolutamente pacifico, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui totalmente prescinde la difesa della parte ricorrente che l'accertamento della volontà dei contraenti è un'indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice del merito e, pertanto, non è censurabile in sede di legittimità se non quando la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito dal giudice del merito, oppure quando questi abbia violato le regole legali di ermeneutica, sempre che in tal caso si specifichi in qual modo egli se ne sia discostato (Cass. 16 luglio 2001, n. 9636).
In tema di interpretazione del contratto, in altri termini il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (Cass. 13 febbraio 2002, n. 2074. Sempre nello stesso senso, altresì, Xxxx. 19 febbraio 2002, n. 2396), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca solo nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto vagliati dal giudice di merito (Cass. 29 novembre 2001, n. 15185).
Pacifico quanto precede si osserva che nella specie parte ricorrente pur denunziando, nella intitolazione del motivo, tra l'altro, la violazione dell'art. 1362 c.c., e ss. si astiene, totalmente, nella parte motiva dello stesso motivo, dall'indicare quali siano i canoni interpretativi (indicati dell'art. 1362 c.c., e segg.) in concreto violati dai giudici del merito, limitandosi - in buona sostanza - a opporre alla ricostruzione della volontà contrattuale come accertata dai giudici del merito, la propria soggettiva, personale, interpretazione delle risultanze di causa ed è di palmare evidenza pertanto, la inammissibilità della deduzione, atteso che non solo la stessa non è conforme al modello fissato, a pena di inammissibilità, dall'art. 366 c.p.c., n. 4. ma si risolve, come anticipato sopra, nella pretesa, contra legem attesi i limiti del giudizio di legittimità che, contrariamente a quanto suppone la difesa del ricorrente, non è un giudizio di merito di terzo grado di una diversa
lettura del contratto inter partes, cioè nella proposta di una diversa interpretazione delle risultanze di causa, inammissibile come tale in sede di legittimità (Cfr., Cass. 15 ottobre 2001, n. 12518; Cass. 28 maggio 2001, n. 7242; Cass. 26 marzo 2001, n. 4342; Cass. 22 marzo 2001, n. 4085;
Cass. 21 febbraio 2001, n. 2478; Cass. 27 settembre 2000, n. 12803, tra le tantissime).
3.5. Quanto ai documenti (contratti tra la M.D.I. e la S.K.G.), che si assume non essere stati tenuti presenti dai giudici del merito si osserva che i giudici primo grado quanto alla prova documentale offerta dalla odierna ricorrente nel corso dell'udienza del 25 ottobre 2000 la hanno puntualmente esaminata, dichiarandola, in limine, inammissibile perchè tardiva.
E' palese, pertanto, che era onere della ricorrente, da un lato, denunziare già con l'atto di appello, la mancata ammissione di tali prove, dimostrandone la tempestività, dall'altro, comunque, denunziare sul punto specifico sia la sentenza di primo grado sia quella di appello, che non aveva affermato la tempestività della produzione.
Certo, per contro, che la questione non risulta in alcun modo prospettata nell'atto di appello e che in sede di ricorso per cassazione nulla si afferma, o si adombra, al fine di dimostrare la tempestiva produzione di tali documenti (come di quelli indicati nel ricorso come documenti del fascicolo di secondo grado) è palese - prima ancora che la manifesta infondatezza della censura nella parte de qua la sua inammissibilità.
Premesso, infatti, che nella specie, a seguito del mutamento di rito ex art. 426 c.p.c., la causa è stata trattata con il rito del lavoro, deve ribadirsi al riguardo, ulteriormente - in termini opposti rispetto a quanto suppone parte ricorrente - che nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare - onere probatorio gravante anche sull'attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 - e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova - fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.
Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della "verità materiale", cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento
- nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Cass. sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. 7 giugno 2005, n. 11786; Cass. 25 novembre 2005, n. 24900; Cass. 8 febbraio 2006, n. 2664; Cass.
14 marzo 2006, n. 5465; Cass. 22 maggio 2006, n. 11922).
4. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità liquidate in Euro 100,00, per spese, Euro 4.000,00, per onorari, e oltre rimborso forfetario delle spese generali e accessori come per legge.