FRANCO CARINCI
“Perché canti, se stoni? Perché altro non so fare”
Frammento taoista
XXXXXX XXXXXXX
E TU LAVORERAI COME APPRENDISTA
(L’APPRENDISTATO DA CONTRATTO “SPECIALE” A CONTRATTO “QUASI-
UNICO”)*
* Il presente contributo verrà pubblicato sul prossimo numero dei Quaderni di Argomenti di diritto del lavoro.
ANTEPRIMA
Il saggio si è rivelato troppo lungo per essere trattato come un comune articolo e troppo corto per essere considerato un libro, sì da finire per venire ospitato in questo Quaderno, dove, peraltro, pare trovarsi benissimo.
Personalmente non credo esista alcun canone classico circa il numero delle pagine o, meglio, per dirla secondo il linguaggio corrente, delle battute, perché quel che alla fine sembrerebbe importare è farsi leggere: qui, certo, conta la capacità seduttiva dell'autore; ma non meno, anzi di più, la curiosità del lettore.
Ma l'una e l'altra sono drammaticamente scemate: una volta gli autori erano pochi ed i lettori molti; ora gli autori sono molti ed i lettori pochi, tanto che se mai ci sono stati tempi in cui coloro che scrivono lo devono fare prevalentemente per sé, questi sono quelli nei quali viviamo.
Parlo di quanti hanno consegnato ai loro incubi notturni gli esami e i concorsi che ne hanno segnato l'accidentato percorso verso lo scranno universitario, liberati dall'“onere” e restituiti al “piacere” dello scrivere, come ogni altro aperto a tutti, ma apprezzato appieno da pochi. Rimane, però, un debito da onorare nei confronti di chi, comunque, intendesse andar oltre il titolo di questo scritto, per interesse professionale od amatoriale, cioè di anticipargliene il senso ancor prima del contenuto reso dal sommario.
Per quanto mi ricordi, mi sono sempre interessato assai più del “diritto che si fa nel corso del tempo” che del “diritto che si presenta come tale in ogni singolo momento”. Di questo, ieri, ho pagato il costo, trovandomi del tutto fuori del coro, con un flusso legislativo tanto rallentato e relativamente coerente, da favorire l'orgasmo di sistema di una intera generazione condannata a far di necessità virtù, cioè a forzare nell'ordinamento giuridico, coi suoi tardivi contributi degli anni '70 e '80, quella fantasia che aveva auspicato andasse al potere, così come vergato a piene lettere sui muri di Parigi. Da questo, oggi, traggo vantaggio, trovandomi non di rado a far da primo cantore, con un continuum legislativo tanto accelerato ed incoerente - sincronico rispetto ad un cambio di Governo, ogni volta più traumatico del precedente - da permettere solo un faticoso e disagevole intervento esegetico, in grado di restituire un qualche senso ad un testo tirato fuori col forcipe dal grembo del Parlamento.
Quello del lavoro ha vissuto la gloria di una grande storia, di “diritto senza tempo”; vive ora l'umiliazione di una piccola cronaca, “di diritto dell'attimo fuggente”. Ne è testimonianza patetica, nella sua drammaticità, la sorte toccata alla legge regina, lo Statuto dei lavoratori, poderosa basilica a doppia navata, “costituzionale” e “promozionale”, eretta sulla base granitica degli artt. 18 e 19. Ma, come effetto del terremoto referendario del '95, l'art. 19 è, ormai, ridotto a quel troncone spezzato e scheggiato della sua lett. b), del tutto incapace di sopportare il carico costituito dal Titolo III; e, come risultato dello tsunami legislativo programmato per quest'anno, l'art. 18 sarà trasformato in un testo assemblato “alla buona”, con un ginepraio di causali e di sanzioni, destinate a ridimensionare indirettamente ed inevitabilmente il patrimonio garantista di cui ai Xxxxxx I e II, dato che proprio il diritto di reintegra a tutto campo ne costituiva il custode migliore.
Neppure io sono rimasto immune dalla tentazione sistematica, tanto da mettere mano, insieme all'amico Persiani, addirittura ad un Trattato in dieci volumi; ma l'ira degli Dei, qui prosaicamente rappresentati dall'Olimpo del Governo tecnico, Giove- Monti e Minerva-Fornero, ci ha consigliato di evitare la fatica sisifea del fare e disfare senza tregua alcuna. Xxxxxx, con recuperata saggezza, sono tornato a far parlare il passato, per capire qualcosa del presente, come, appunto, con questa storia legislativa di un istituto, che, nato così umile da non meritare se non qualche sguardo distratto, pare prossimo ad assumere volto e ruolo di canale di accesso privilegiato, se non esclusivo, al mondo del lavoro.
Sembrerebbe la tipica avventura all'americana di uno fattosi dal niente. Ma, a ripercorrere passo a passo quel tempo lungo che va dal primo affacciarsi del nostro protagonista sullo scenario giuridico al recente Testo unico, non pare promettere un granché: un codice civile del '42 ed una legge del '55 che lo trattano da contratto “speciale”, destinato a rimanere marginale al di fuori del suo campo elettivo, l'artigianato; una legislazione dell'ultimo quarto del secolo “vecchio” che lo recupera nell'ambito di contratti formativi a chiara connotazione occupazionale; una vicenda, aperta e mai chiusa, di questa prima manciata d'anni del secolo “nuovo”, dalla legge “Biagi” del 2003 al Testo unico del 2011, che lo palleggia fra finalità formativa ed occupazionale, fino a dar esplicitamente la preferenza a quest'ultima.
Un lungo, interminabile, sofferto surplace, rispetto a cui non pare proprio possa
funzionare da colpo sparato dallo starter per dare avvio alla volata finale quanto previsto al riguardo dal disegno di legge governativo. Il problema dell'apprendistato come effettivo strumento formativo non sta nel contratto, ma al di fuori, nel sistema d'istruzione complessivo. Come concreto strumento occupazionale sta sì nel contratto, debitamente supportato da un ricco corredo di sgravi contributivi e normativi, ma solo per creare generazioni di giovani che l'oggi consumerà, lasciandoli senza domani.
Maggio 2012
SOMMARIO: Premessa: 1. Una foto panoramica. – 2. La vicenda raccontata in tre tempi. – Parte I: 3. Dal decennio ‘50 al decennio ‘70. La l. 19 gennaio 1955, n. 25 e la prima giurisprudenza costituzionale. – 4. Segue. l’apprendistato visto al 1980. – 5. Dal decennio ‘70 alla fine del secolo. Premessa. – 6. Segue. le ll. 19 dicembre 1984, n. 863 e 28 febbraio 1987, n. 56. – 7. Segue. le ll. 19 luglio 1994, n. 451 e 24 giugno 1997,
n.196. – 8. Segue. l’apprendistato visto al 1990 ed al 2000. – Parte II: 9. L’ultimo decennio: Il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. – 10. Segue. il lungo intermezzo. – 11. Segue. l’apprendistato visto al 2009/10. – 12. Il T.U. (d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167). L’esercizio della delega ex art. 1, co. 30 e 33, l. n. 247/2007. – 13. Segue. la definizione del contratto. – 14. Segue. la disciplina generale del contratto. – 15. Segue. la triplice tipologia – 16. Segue. la ridistribuzione delle parti fra Regioni e xx.xx. – Parte III: 17. Lo stato di “attuazione” del T.U. – 18. Aspettando Xxxxx/Fornero: l’apprendistato come passaporto per l’uscita dal “precariato”.
PREMESSA
1. Una foto panoramica
Doveva essere la XII o XIII edizione delle Nozioni di diritto del lavoro di Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx quella su cui chi scrive preparò il suo esame nella primavera del 1960, con quelle poche pagine dedicate al tirocinio, che, scorse allora di fretta, sarebbero rimaste a lungo l’unica sua conoscenza al riguardo. Solo da un quinquennio lo scarno regolamento offerto dagli artt. 2130-2134 c.c. era stato integrato da quella l. 19 gennaio 1955, n. 25, destinata a sopravvivere ben oltre la svolta del millennio; ma appariva pur sempre un istituto marginale, che uno studente saltava tranquillamente, non essendo richiesto a fine corso, e che un giovane in carriera non degnava, apparendo privo di quell’appeal sistematico, preteso dallo spirito del tempo.
Un argomento da donna, si sarà pensato e detto in quella rinascita post-bellica della nostra materia tutta recitata al maschile. Di fatto toccherà proprio ad una allieva della scuola bolognese dedicarvi, a mezzo del decennio ‘60, la sua corposa opera
prima1, offrendone una fine ricostruzione, destinata a far da referente alla successiva letteratura sulla. l. n. 25/1955. E quando, a distanza di un quarto di secolo, un altro studioso licenzierà una seconda monografia, la ricostruzione dell’istituto potrà dirsi compiuta2.
Solo che non era più quella sola legge a tenere banco, perché nell’intermezzo temporale fra l’uno e l’altro contributo, l’apprendistato si era visto costretto a fare i conti con un duplice cambio del quadro istituzionale e normativo di riferimento: il passaggio della formazione professionale dallo Stato alle Regioni ed il varo di quel “contratto di formazione e lavoro” (cfl) di cui alla l. 19 dicembre 1984, n. 863, figlio lontano del “contratto di formazione” ex l. 1 giugno 1977, n. 285. Il consuntivo sarebbe risultato in rosso, perché il trasferimento alle Regioni avrebbe dato vita a tanti micro-sistemi, destinati a scontare l’handicap di ripartire da capo, auto-conclusi ma non auto-sufficienti, fortemente differenziati nei rendimenti, peraltro nel complesso inidonei a fornire i necessari supporti per i processi formativi aziendali; e, rispettivamente, il cfl avrebbe portato con sé poca formazione e molto lavoro.
Come quel personaggio di un film di successo, condannato a percorrere a ritroso il ciclo della vita, l’apprendistato nato “vecchio”, si ritroverà “giovane” nell’ultimo scorcio del secolo; ma talmente appesantito dal suo stesso passato, da farne presagire, ma anche auspicare, un decesso precoce a pro del pimpante contratto di formazione e lavoro. Il che, però, non avvenne per l’intervento, sul finire del decennio ‘90, prima, di un “rilancio” dell’apprendistato effettuato dal legislatore nazionale; poi, di una “condanna” del cfl nella versione offertane dalla l. 29 dicembre 1990, n. 407, emanata in sede comunitaria, in quanto promosso ed incentivato in modo contrastante con quel divieto di aiuti di Stato posto al servizio di un “perfetto” mercato concorrenziale.
Mors tua, vita mea, perché il conseguente bando legislativo del ricorso al cfl nel settore privato, avrebbe lasciato campo libero al nostro istituto: uscito dal secondo millennio da “adulto”, dopo aver provato il rischio di un exit prematuro; entrato nel terzo da “giovane”, pronto ad assolvere quel ruolo a tutto campo che gli era stato anticipato dalla l. 24 giugno 1997, n. 196 e che gli sarebbe stato potenziato al massimo
1 X. XXXXX, Il contratto di tirocinio, Milano, 1966.
2 M. SALA CHIRI, Il tirocinio. Artt. 2130-2134, in X. XXXXXXXXXXX (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano, 1992.
dalla c.d. legge Biagi, col trasformarlo in uno e trino, capace di accompagnare l’ingresso nel mondo del lavoro da qualsiasi piano dell’edificio “istruzione”, da quello popolare della scuola dell’obbligo a quello aristocratico della formazione post- universitaria. Tutto questo sembrava farne supporre un decollo a breve, in tutto il potenziale assicuratogli dal suo triplice modulo; ma, more italico solito, il primo decennio del secolo sarebbe trascorso correggendo e ricorreggendo il testo originario licenziato nel 2003, ma con poco fall-out operativo, tanto da lasciarsi dietro uno stato non diverso di quello trovato al suo inizio.
Sarà l’improvviso e drammatico collasso finanziario del 2008, col conseguente impatto sul sistema economico reale, attenuatosi prima, ma riacutizzatosi poi, a costringere Governo e parti sociali all’Intesa del luglio 2011, vera e propria apri-pista del Testo unico sull’apprendistato, punto d’arrivo di quel lungo e tormentato itinerario legislativo aperto dallo stesso codice civile. Divenuto il “precariato” giovanile il problema dei problemi, l’apprendistato, al tempo stesso pluralistico ed universale tenuto a battesimo subito dopo il passaggio del secolo, viene scongelato, ripulito, accreditato all’unisono, con quel fideismo nell’intervento giuridico che non di rado copre il deficit di uno strumentario economico efficace.
Tant’è che, non per niente, quel gruppo di studiosi, giuristi ed economisti, che tengono da tempo banco sui giornali e sugli schermi televisivi col loro mantra del “contratto unico”3, dopo aver cercato di crearlo ex novo in laboratorio, hanno ripiegato su un tipo di cui era stato appena riprogrammato il codice genetico, cioè l’apprendistato del Testo unico; e lo hanno elevato a strumento tendenzialmente esclusivo di accesso dei giovani al lavoro, trovando un orecchiante favorevole nello stesso Ministro del lavoro4.
L’anziano ex professore in pensione si lascia sfuggire un mezzo sorriso allo spettacolo di qualche miscredente ansioso di convertirsi al potere salvifico del diritto; ma, con un rigurgito sentimentale, pure lui simpatizza per la vicenda a lieto fine di un
3 Per un giudizio critico v. il mio “Provaci ancora, Xxx”; ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, in
Riv. it. dir. lav., 2012, I, pag. 3 e segg.
4 Per un primo esame del disegno legislativo in itinere v. il mio “Complimenti, dottor Xxxxxxxxxxxx: Il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro”, Relazione tenuta al Convegno “La riforma del mercato del lavoro”, 13 aprile 2012, Roma, Facoltà di Giurisprudenza, Università Roma Tre, in Lav. Giur., 2012, 5, in corso di pubblicazione.
istituto venuto al mondo come “marginale” e cresciuto ad “unico”, xxxxx tramutato in principe dal bacio della storia. Sì, ma, con un ritorno subitaneo di “cinismo”, si domanda se sia veramente a lieto fine.
2. La vicenda raccontata in tre tempi
Quell’anziano ex professore è ben consapevole del suo personale impulso a cercare nel passato il presente, con qualche giustificato disagio per il lettore che vorrebbe avere bello e pronto il diritto vigente in casu, ma, come ben rende l’apologo della rana e dello scorpione, non gli è proprio possibile andare contro se stesso. Del resto, di bello e pronto qui c’era ben poco, perchè il Testo unico, ancor fresco di stampa, offriva solo un tracciato che, per divenire operante, richiedeva un intervento collettivo complesso ed articolato, entro e non oltre il termine tassativo del 25 aprile, previsto come dead line del precedente regime. Intervento che c’è stato, ma solo parzialmente, sì da lasciare il discorso ancora ben aperto.
Se uno deve scegliere come spendere il proprio tempo, può ben preferire altro al pettegolezzo mediatico su quel che potrebbe ancora uscire dal cappello del nostro ministro, tecnico accreditato, ma, stando al suo curriculum, di trattamento pensionistico, non di mercato di lavoro, così che sarebbe come chiamare un gerontologo a fare il pediatra. Può, cioè, scegliere di rivedere dall’inizio il film dell’apprendistato, ben consapevole che il protagonista è cambiato non poco e che un co-protagonista come il cfl è uscito di scena nel settore privato circa un decennio fa. Non per un piacere qualsiasi, ma per cogliere e seguire quel “vizio genetico” che l’apprendistato si sarebbe portato dietro da quando è stato costretto dal legislatore al di fuori del suo terreno originario, dove, peraltro, appariva invecchiato; e costretto ad occupare un territorio a lui estraneo, col suo doppio elemento, formativo ed occupazionale, in un costante equilibrio instabile, “forzato” in fatto, e “recuperato” in diritto, secondo un crescendo sincopato, divenuto ossessivo col passaggio del secolo.
Il va sans dire che il previsto svolgimento in tre tempi divida quel che di fatto è un continuum; e che quanto offerto sia affetto da un eccesso semplificativo evidente sia nel sistematico scorporo del processo evolutivo dell’apprendistato; sia nello scarsissimo spazio dedicato a quella duplice fonte extra-statale, regionale e collettiva,
qui assai rilevante per competenza loro riconosciuta dalla Costituzione e rispettivamente dalla legislazione ordinaria.
PARTE I
3. Dal decennio ‘50 al decennio ‘70
Sotto il nome rimasto lo stesso, c’era stato un capovolgimento del tirocinio da locatio operis (con ad oggetto esclusivo l’insegnamento del maestro, di cui il lavoro del tirocinante costituiva il “mezzo” elettivo) a locatio operarum (con a contenuto prevalente il lavoro del tirocinante, rispetto a cui l’insegnamento del maestro rappresentava un sia pur importante “accessorio”) nel corso stesso della rivoluzione industriale. Poco distingueva il tirocinante da quell’operaio qualificato che intendeva diventare: con lui condivideva il posto, tanto da essergli “accomunato” nel T.U. “per gli infortuni degli operai sul lavoro” del 19045; e con lui contribuiva, fianco a fianco al processo produttivo, così da essergli sempre più “avvicinato” nel trattamento legislativo e collettivo.
E di questo ingresso nel campo gravitazionale del lavoro subordinato è artefice e testimone il dettagliato regime offertone nel periodo corporativo, secondo un continuum che procedeva coerentemente da alcune “mozioni” emanate da organi corporativi a’ sensi del X.X. 0 luglio 1926, n. 1130, fino al R.D.L. 21 settembre 1938,
n. 1906, con un sostanzioso rinvio al regolamento collettivo. E, a chiudere il cerchio, di lì a qualche anno, l’estensore di quella sez. IV, tit. II, libro V del codice civile (artt. 2130 - 2134), che - con un ritorno al termine più antico e nobile - è dedicata al tirocinio, utilizzerà un apposito articolo, il 2134, per qualificare l’istituto come rapporto di lavoro subordinato speciale, dichiarandovi applicabile quanto dello statuto
5 X. XXXXXXXXXXX, Disegno storico del rapporto di tirocinio in Italia, in Dir. Lav., 1957, pag. 250. Sulla nozione di apprendista nella legge sugli infortuni v. per il periodo pre-corporativo X. XXXXXXXXXX, Gli apprendisti nella legge sugli infortuni, in Riv. Dir. Comm., 1906, I, pag. 309 segg.; e per quello corporativo, X. XXXXXXX, Il concetto di apprendista nei riguardi dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in Riv. lav., 1932, pag. 871 segg.
protettivo previsto dalla sez. III risultasse compatibile6. A rileggerlo questo piccolo pugno di articoli pare dire ben poco, eppure conteneva l’essenziale, tant’è che costituisce a tutt’oggi il paragrafo di apertura del capitolo dedicato all’apprendistato.
Trascorso un quindicennio tutt’altro che tranquillo, con in mezzo un conflitto mondiale drammatico ed un cambio radicale di regime consacrato da un testo costituzionale nuovo di zecca, il legislatore varava un duplice intervento, destinato a durare a lungo: la l. 29 aprile 1949, n. 264, sul collocamento, nei suoi Titoli I-III, consegnava allo Stato il monopolio di un sistema pubblico e, nel suo Titolo IV, regolava i corsi per i disoccupati ed i corsi aziendali di riqualificazione; e, rispettivamente, la l. 19 gennaio 1955, n. 257, sull’apprendistato, presentava la prima disciplina post-costituzionale dell’istituto.
L’art. 2 della l. n. 25/1955 recuperava la definizione di cui al R.D. n. 1906/1938, filtrandola attraverso la formula di cui all’art. 2134 c.c.: “L’apprendistato è uno speciale rapporto di lavoro, in forza del quale l’imprenditore è obbligato ad impartire o a far impartire, nella sua impresa, all’apprendista assunto alle sue dipendenze, l’insegnamento necessario perché possa conseguire la capacità tecnica per diventare
6 Xxxxx “specialità” dell’apprendistato v. per la dottrina precedente al Codice del 1942 v. X. XXXXXXX, Contributo allo studio sulla natura dell'apprendistato, in Dir. Lav., 1936, I, pag. 412 segg; X. XX XXXX, Contratti speciali di lavoro, in X. XXXXX, X. XXXXXXXXX (diretto da), Trattato di Diritto del lavoro, I, 1938, pag. 457 e segg.; X. XXXX XXXXXXXXXXX, (voce) Tirocinio, in Nuovo Dig. It., XII, Torino 1940, pag. 198; X. XXXXX, Il contratto di tirocinio nel nuovo codice civile, Xxxx, 0000. E per la dottrina successiva v. X. XXXXXXXXXX XXXXXXX, La disciplina attuale del tirocinio in Italia, in Dir. Lav., 1957, I, pag. 20 e segg.; L. DE LITALA, Contratti speciali di lavoro, Torino, 1958, pag. 7 e segg.; X. XXXXX, Il rapporto di tirocinio in un recente provvedimento legislativo, in Riv. Inf. Mal. Prof., 1955, I, pag. 200 e segg., X. XXXXX, op. cit., pag. 59 e segg.; X. XXXXXXX, voce Apprendista, in Enc. Dir., 1958, pag. 814 e segg.; X. XXXX XXXXXXXXXXX, Il lavoro nell’impresa, Torino, 1960, pag. 317 e segg.; XXXXXXXXX, Osservazioni in tema di apprendistato, in Riv. It. Dir. Lav., 1963, pag. 383 e segg.; G. D’XXXXXXX, L’addestramento pratico e teorico del lavoratore, in X. XXXX XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Nuovo Trattato di diritto del lavoro, vol. II, Padova, 1971, pag. 30 e segg.; X. XXXXXXXXX, Il tirocinio, in
X. XXXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto privato, Torino, 1986, vol. 15, I, pag. 292 e segg.; X. XXX,
Apprendistato, in Dig. Comm., Torino, 1987, pag. 180 e segg.
Per la prima giurisprudenza, che troverà conferma in quella successiva, v. la rassegna di X. XXXXX, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1962, pag. 1226 e segg.
7 Sul regolamento della legge v. X. XXXXXX, Il D.P.R. 30 dicembre 1956, n. 1168. Sul regolamento di disciplina dell’apprendistato, in Dir. Ec., 1957, pag. 627 e segg.
lavoratore qualificato, utilizzandone l’opera nell’impresa medesima”. Certo, spariva la previsione di una frequenza a corsi contenuta nella nozione precedente; ma solo per riemergere nell’art. 16 e ss., a’ sensi del quale “la formazione professionale dell’apprendista si attua mediante l’addestramento pratico e l’insegnamento complementare”, definiti in termini che sembrano anticipare la distinzione fra formazione specifica e formazione generale poi utilizzata in sede comunitaria per decidere circa la configurabilità di aiuti di Stato vietati. Solo che questo insegnamento complementare per un monte ore determinato a livello collettivo, o in difetto, con decreto ministeriale, era sì ricompreso nell’orario di lavoro e gratuito; ma, mentre l’apprendista era tenuto a frequentare i relativi corsi, il datore poteva, da solo, o consorziandosi, proporre agli UPLMO la loro organizzazione a livello aziendale o interaziendale, niente di più, tanto che l’unico obbligo a suo carico era di permettere all’apprendista di frequentare quelli eventualmente attivati (artt. 30 ss. D.P.R. n. 1668/1956).
Può apparire una vecchia formula coperta di polvere. Certo, vecchia lo è, anzi ormai defunta, dopo la scadenza prevista dal T.U. n. 167/2011; ma rimane quella originaria, che ha curvato a sua misura tutta la successiva evoluzione.
Il modello socio-economico assunto a referente aveva come settore elettivo, l’artigianato manifatturiero tradizionale, con a suo elemento base il “mestiere”, visto e vissuto come patrimonio professionale dell’operaio qualificato o specializzato, acquisibile sul posto di lavoro ma proiettabile sul mercato; quale protagonista, un giovane di età compresa fra i 15 e i 20 anni; quale copione essenziale, un apprendimento on the job, guidato dallo stesso datore o da un compagno più anziano e sperimentato, completato da un insegnamento complementare; quale risultato perseguito, l’inquadramento di operaio qualificato tramite il superamento di una prova di idoneità, in vista di un possibile ma non garantito ingresso in pianta stabile nell’azienda.
E questo modello era tipizzato, con l’accompagnamento di un regime del rapporto di lavoro curvato a misura dello scopo formativo perseguito, sì da ricomprendere: una peculiare procedura di assunzione (art. 3), peraltro esclusa per l’artigianato (art. 26); una durata stabilita “per categorie professionali” dai contratti collettivi, comunque non superiore ai 5 anni (art. 7); il cumulo dei periodi di
apprendistato prestati presso diversi datori di lavoro, purché riferiti alla stessa attività e non separati da interruzioni superiori all’anno (art. 8); l’orario di lavoro fissato in 8 ore giornaliere e 44 settimanali, comprensive di quelle dedicate all’insegnamento complementare (art. 10); l’osservanza dei contratti collettivi e la corresponsione della retribuzione ivi prevista, che dovrà essere “graduale, anche in rapporto all’anzianità di servizio”, con esclusione di qualsiasi componente “commisurata alla entità della produzione” [art. 11, co. 1, lett. c) e, rispettivamente, art. 13]; l’utilizzazione dell’apprendista in mansioni attinenti “alla lavorazione o al mestiere per il quale è stato assunto” e, comunque, “non retribuite a cottimo, né in genere… a incentivo” [art. 11, lett. d) e, rispettivamente, lett. f)]; una prova di idoneità “all’esercizio del mestiere che ha formato oggetto dell’apprendistato”, al termine della durata prevista, peraltro anticipabile per chi avesse compiuto diciotto anni d’età e due anni di addestramento pratico (art. 18, co. 1 e 2); l’iscrizione della qualifica ottenuta sul libretto individuale di lavoro (art. 18, co. 3); la possibilità di “dare disdetta a norma dell’art. 2118 del codice civile”, al termine del periodo, che, se non sfruttata, comportava la continuazione del rapporto con la qualifica conseguita tramite la prova di idoneità e l’anzianità di servizio calcolata dall’inizio dello stesso periodo di apprendistato (art. 19).
Ora il modello socio-economico così tipizzato restava esposto ad uno snaturamento del suo nocciolo duro, quale costituito dal binomio apprendimento pratico/insegnamento complementare: fenomeno già in atto sul suo stesso terreno originario, ma destinato ad un crescendo accelerato col processo espansivo verso un territorio del tutto estraneo. L’apprendimento pratico (diretto all’acquisto della “richiesta abilità nel lavoro” assegnato) sarebbe risultato sempre più chiuso dentro l’orizzonte ristretto di un posto o processo povero di contenuto professionale tecnico, con l’effetto di rendere eccessivo il termine massimo fissato a livello collettivo e desueto l’esperimento finale; mentre l’insegnamento complementare (finalizzato al possesso delle “nozioni teoriche indispensabili all’acquisizione della piena capacità professionale”) spendibile anche sul mercato esterno, se pur reso più necessario dallo stesso ridimensionamento dell’apprendimento pratico, sarebbe rimasto affidato alla problematica frequenza a corsi di ancor più problematica attuazione.
Di fatto l’apprendistato poteva servire da “schermo” per un rapporto di lavoro subordinato vero e proprio, di cui veniva promosso ed incentivato il ruolo effettivo di
“recupero” dello scarto di un sistema di istruzione, largamente insufficiente come sotto-sistema scolastico e totalmente carente come sotto-sistema formativo. Se ne sarebbe avuto un riflesso nel trend riscontrabile a livello collettivo, di un riallineamento del salario dell’apprendista su quello del lavoratore a tempo indeterminato con la stessa qualifica, sul presupposto che proprio il venir meno del momento formativo testimoniasse il progressivo azzerarsi del differenziale di rendimento.
Non solo, se ne sarebbe avuto un riscontro a contrario a livello legislativo, con l’art. 1, l. 2 aprile 1968, n. 424, intervenuta con qualche misura anti-abusiva, quale l’autorizzazione preventiva da parte dell’Ispettorato del lavoro, la limitazione del numero degli apprendisti occupabili al 100% dei lavoratori qualificati o specializzati in servizio (co. 2 e 3 aggiunti all’art. 2, l. n. 25/1955), la proibizione di adibire l’apprendista a “lavori di manovalanza e di produzione di serie” [lett. l), sostituita nel co. 1, art. 11, della l. n. 25/1955].
Xxxx apprendimento meno carattere speciale, meno carattere speciale meno apprendimento, secondo un circolo vizioso che si sarebbe autoalimentato nel tempo, tanto più a seguito di quell’allargamento a tutto campo realizzato dal D.P.R. 30 dicembre 1956, n. 1668, che, con un eccesso di zelo rispetto alla legge di cui costituiva il regolamento di esecuzione, si preoccupò, al suo art. 1, di rendere generale il ricorso all’apprendistato, a prescindere dal settore interessato, industriale o commerciale o agricolo; dal carattere del soggetto coinvolto, imprenditore o semplice datore di lavoro; dall’inquadramento categoriale del lavoratore assunto, impiegato o operaio.
Tale percorso tendenzialmente dissociato fra diritto e fatto, sarà accompagnato da un vivace confronto dottrinale e giurisprudenziale, concentratosi su un duplice punto di grande rilievo teorico e pratico per l’istituto: la sua ricostruzione come contratto a causa “pura” oppure “mista”8 o “complessa”9, secondo l’espressione
8 Sulla causa “mista” dell’apprendistato v. la stessa dottrina citata alla nota 6, visto che la “specialità” dipende proprio da questa; nonchè da ultimo v. X. XX XXXXX, I rapporti speciali di lavoro, Padova, 2000, pag. 8; X. XXXXXXXX, Subordinazione e contratti di lavoro a contenuto c.d. “formativo” alla luce del d. lgs. 276/2003, in Dir. Merc. Lav., 2005, pag. 420; X. XXX, I nuovi apprendistati, in X. XXXXXXX, P. A. VARESI (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Torino, 2005, pag. 475.
Nella giurisprudenza di legittimità x. Xxxx. 3 maggio 1984, n. 2694, in Rep. Foro It., 1984, voce
adottata dalla giurisprudenza di legittimità e, rispettivamente, la sua qualificazione come contratto a tempo indeterminato o determinato.
A prescindere dalla rispettiva fondatezza giuridica, la scelta non risultava affatto neutra nella sua ricaduta sulla struttura e funzione dell’apprendistato. Non era irrilevante l’opzione circa la causa, perché, classificandola come “pura”, si faceva perdere qualsiasi rilevanza causale alla formazione, così da fare dell’apprendistato un contratto di lavoro “normale”, con in più un obbligo accessorio a carico del datore; mentre qualificandola come “mista”, si conservava tale rilevanza, tanto da mantenere l’apprendistato come contratto di lavoro “speciale”, ma con una forzatura rispetto ad una realtà che restituiva l’immagine di una prestazione lavorativa valutata solo in ragione della sua potenzialità produttiva e di una contro-prestazione datoriale, squilibrata a tutto favore della retribuzione vis-à-vis della formazione. E tantomeno era indifferente la decisione circa la durata, perché scommettere sul contratto a termine significava valorizzare l’istituto come rapporto speciale, nato con un tempo “chiuso”, dipendente dal progetto formativo, sì da non poter essere abbreviato per atto unilaterale, se non per un fatto che ne compromettesse lo svolgimento programmato. Mentre puntare sul contratto sine die, voleva dire ridimensionare l’apprendistato a mero periodo iniziale di un rapporto ordinario, sorto con un tempo “aperto”, autonomo rispetto al progetto formativo, sì da poter essere interrotto se gli si fosse applicato il regime comune, con ricorso al recesso prima ad nutum10 e poi per un qualsiasi
Previdenza sociale, n. 479.
9 In tal senso cfr. ex multis Xxxx. 22 novembre 1978, n. 5479, in Giust. Civ., 1979, I, pag. 226; Cass. 29 giugno 1981, n. 4231, in Rep. Foro It., 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 643; nonché gli ulteriori, copiosi riferimenti giurisprudenziali di X. XXXXXXXXXXX, I contratti con finalità formative. L’apprendistato, in X. XXXXXX (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in X. XXXXXXX (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, Torino, 2007, vol. II, tomo 2, pag. 1857 segg.
10 Come conciliare il peculiare regime del licenziamento di cui all’art. 19, l. n. 25/1955 con il presunto carattere a tempo indeterminato dell’apprendistato ha costituito un problema a tutt’oggi irrisolto: per X. XXXXX, Il contratto di tirocinio, cit., pag. 226, (seguita da X. XXXXXXXX, Sul potere del datore di lavoro di risolvere il rapporto al termine del periodo di apprendistato, in Riv. It. Dir. Lav., 1984, fasc. 2, pag. 205) era un contratto “limitatamente indeterminato” o “limitatamente sine die”; cui si contrapponeva
X. XXXXXXX, Il recesso dal rapporto di tirocinio, in Riv. It. Dir. Lav., 1972, I, pag. 37, che lo considerava a tempo determinato, ravvisando nell’art. 19 solo un mezzo tecnico per evitare che il tirocinio si trasformasse in un rapporto di lavoro ordinario.
giustificato motivo o giusta causa.
La partita della causa sarà conclusa prima di esser giocata, con una prevalenza della tesi favorevole alla sua natura mista o complessa, precoce e massiva, fino a diventare la dottrina ortodossa praticata dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, nonché consacrata dalla manualistica; mentre quella della durata resterà ufficialmente aperta fino ad essere decisa ufficialmente a favore del contratto a tempo indeterminato solo con l’art. 1 del d. lgs. 14 settembre 2011, n. 167 (T.U. sull’apprendistato), ma, a dire il vero, era già stata compromessa da una risalente pronuncia della Corte costituzionale.
Il che permette di introdurre quell’autentico deus ex machina della storia dell’apprendistato rappresentata dalla Corte costituzionale, che già all’inizio, come “giudice dei diritti”, ebbe a pronunciare qualche parola pesante; anche se solo in seguito, come “giudice dei conflitti di attribuzione” sarebbe stata chiamata in causa frequentemente, con una giurisprudenza che finiva inevitabilmente per avere a premessa una definizione e qualificazione dell’apprendistato. E a pesare sarà una serie di pronunce, a cominciare da Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 1011, la quale dichiarava infondata l’eccezione di costituzionalità dell’art. 11, lett. c), l. n. 25/1955 in
In seguito, pare essere divenuta tesi condivisa, proprio per la sua accattivante genericità, quella fatta propria da X. XXXXXXXXX, Il tirocinio, cit., pagg. 293-294, stando al quale l’apprendistato sarebbe un contratto potenzialmente a tempo indeterminato, tale per cui, una volta travalicato il limite massimo, il rapporto non si estingue automaticamente ma “si depura dei suoi contenuti aggiuntivi convertendosi in un contratto di lavoro tout-court ugualmente a tempo indeterminato”. Di recente, però, X. XXXXXXXX, Il contratto di apprendistato, in X. XXXXXXXXX (a cura di), I contratti di lavoro, in X. XXXXXXXX e X. XXXXXXXXX (diretto da), Trattato dei contratti, Torino, 2009, tomo 2, pagg. 1505 ss., spec. pag. 1538, ha recuperato la “soluzione” avanzata, a suo tempo, da X. XXXXX (Il rapporto di tirocinio in un recente provvedimento legislativo, cit., pag. 202 e segg., spec. pag. 213), configurando l’apprendistato come contratto a tempo indeterminato, sottoposto a una doppia condizione, risolutiva potestativa del rapporto di apprendistato e sospensiva del rapporto tipico.
Ancora alla svolta del secolo, X. XXXXXX, Xxxxxxx e contratti formativi, in, Il lavoro a termine, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., n. 23, Torino, 2000, pag. 57, riteneva che il contratto di formazione e lavoro e l’apprendistato fossero “(quasi) unanimamente ricondotti al genus di contratto a tempo determinato”, ma non sembra che già allora l’affermazione non trovasse conferma nella letteratura e nella giurisprudenza.
11 Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 10, in xxx.xxxxxxxx.xxx, con nota di X. XXXXXXXX, Osservazione (senza titolo) alla sent. n. 10/1957, in Giur. Cost., 1957, pag. 72.
riferimento all’art. 39 Cost., perché da quanto ivi previsto come obbligo “di osservare le norme dei contratti collettivi di lavoro e di retribuire l’apprendista in base ai contratti stessi” non era affatto dato dedurre un’estensione erga omnes dei contratti collettivi. Se questa conclusione, tenuta ferma dalla giurisprudenza successiva, servirà ad escludere che l’osservanza integrale della disciplina collettiva costituisse una pre- condizione per godere della politica di agevolazione contributiva, acquisterà una ben più ampia rilevanza con la delega a tutto campo data dal T.U. alla contrattazione, chiamata a riempire in prima persona la scarna normativa del codice civile, unica sopravvissuta alla vera e propria tabula rasa fatta della precedente legislazione.
Doveva passare quasi un quindicennio, perché la Corte si rifacesse viva con una coppia di decisioni importanti, che dichiaravano illegittimo l’art. 10, l. 15 luglio 1966,
n. 604, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella misura in cui, non contemplando la figura dell’apprendista, la escludeva dall’applicazione della legge: Corte cost. 4 febbraio 1970, n. 1412 con riguardo alla mancata attribuzione del diritto di percepire “in ogni caso” l’indennità di anzianità di cui all’art. 9, che quindi gli spettava a pieno titolo; e Corte cost. 28 novembre 1973, n. 16913 con riferimento alla mancata applicazione del
12 Corte cost. 4 febbraio 1970, n. 14, in Mass. Giur. Lav., 1970, pag. 4, con nota di X. XXXX XXXXXXXXXXX, Xxxx'ordinamento applicabile al rapporto di apprendistato, xxx, pag. 141 segg.; Sulla questione dell’applicabilità della legge n. 604/1966 v. X. XXXXXXX, Il rapporto di apprendistato e la L. 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali, in Riv. Dir. Lav., 1969, I, 164 e segg.; X. XXXXXX, L’apprendistato e la legge sui licenziamenti individuali, in Riv. Dir. Lav., 1971, I, pag. 123 e segg.; X. XXXXXXX, Il recesso dal rapporto di tirocinio, cit., pag. 457 e segg.; X. XXXXX, Ancora in tema di licenziamento degli apprenisti, in Dir. Lav., 1972, I, pag. 116 e segg.
13 Corte cost. 28 novembre 1973, n. 169, in Foro It., 1974, I, c. 16 e in Giust. Civ., 1974, I, pag. 5. Fra la molta giurisprudenza conforme x. Xxxx. 22 novembre 1978, n. 5479, in Mass. Giur. Lav., 1979, pag. 402 con nota favorevole di X. XXXXXXXXXXXX, Recesso dal rapporto di apprendistato e legge sui licenziamenti individuali; Xxxx. 22 novembre 1984, n. 6034, in Mass. Giur. Lav., 1985, pag. 290 con nota favorevole di X. XXXXXXX, Poteri di disdetta ex art. 19 della legge n. 25/1955 ed estinzione del rapporto di apprendistato; Xxxx. 28 marzo 1986, n. 2213, in Dir. Prat. Lav., 1986, pag. 1510 con nota critica di X. XXXXXXXX, Rapporto di apprendistato e licenziamento; Xxxx. 21 ottobre 1986, n. 6180, in Riv. It. Dir. Lav., 1987, II, pag. 486 con nota critica di X. XXXXX, Disdetta al termine di apprendistato e licenziamento dell’apprendista ante tempus per mancato superamento delle prove di idoneità; Xxxx. 28 gennaio 1987, n. 4334, in Giur. It., 1988, I, 1, pag. 202 con nota di X. XXXXX, Natura delle mansioni e recesso nel rapporto di apprendistato; più recente Cass., sez. lav., 21 luglio 2000, n. 9630, in Mass. Giur. Lav., 2000, pag. 1313, con nota di X. XXXXXXXXX.
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo disciplinato dall’art. 1 e ss., che quindi gli era dovuta a pieno diritto. Col dichiarare che non c’era ragione per trattarlo qui diversamente da qualsiasi altro lavoratore, la Corte testimoniava e rafforzava la tendenza attrattiva esercitata dal rapporto di lavoro su quello speciale di apprendistato, con una conseguente espansione della disciplina generale, che pur comprensibile alla luce della condivisione della stessa sede di lavoro e spesso della stessa attività lavorativa, ridimensionava quella speciale ad una sorta di appendice, aggiunta a fine opera.
Riprendendo, ora, da dove si è chiamata in causa la Corte costituzionale, c’è da sottolineare come quella decisione destinata ad influire sulla configurazione dell’apprendistato come contratto a tempo indeterminato fosse proprio Corte cost. n. 169/1973: di per sé solo il fatto che la l. n. 604 si applicasse al contratto a tempo indeterminato non la rendeva tutta ontologicamente incompatibile col contratto a tempo determinato, che avrebbe ben potuto convivere con l’indennità di anzianità riconosciuta all’apprendista dalla precedente Corte cost. n. 14/1970; ma certo una disciplina del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo ex l. n. 604/1966 era inconciliabile col contratto a termine.
4. Segue. l’apprendistato visto al 1980
A fornirci un quadro d’assieme dello sviluppo dell’apprendistato dal 1956 al 1980 è il primo contributo completo di analisi e tabelle facilmente reperibile, cioè un numero dei Quaderni Isfol dedicato all’apprendistato in Italia. Ne risulta un accrescimento costante fino al 1962, con un successivo movimento a singhiozzo, che nel 1979 si assesta su 730.000 unità, pari a percentuali modeste sui totali degli occupati (3,59%) e degli occupati dipendenti (5,01%), ma assai elevate se considerate solo sui totali di coloro in età 14-19 anni, occupati (65,7%) e occupati dipendenti (77,9%). Da questi dati il commento credeva di poter dedurre che, contrariamente all’intento perseguito, la legge del 1955 aveva fornito uno strumento prevalentemente occupazionale, utilizzabile ed utilizzato, prima, per accompagnare il boom economico e, poi, per ammortizzare l’andamento economico ciclico del periodo successivo, facendo ricorso al lavoro di giovani con un passato poco scolarizzato e con un futuro
poco qualificato, sì da potersi già parlare di quel dualismo destinato a divenire un vero e proprio postulato di qualsiasi intervento terapeutico sul nostro mercato del lavoro.
Questo dato strutturale appariva confermato dal contemporaneo XIV rapporto Censis, secondo cui, nello stesso 1979, circa il 75% di coloro in cerca di un lavoro aveva meno di 30 anni, con un livello scolastico più elevato rispetto a quello complessivo, ma pur sempre basso: un buon 16% senza licenza elementare, un 45% con la licenza media e un 39% con un diploma o la laurea. Un deficit scolastico tale da non poter certo essere recuperabile da parte di un sistema di formazione professionale che pur avesse girato al massimo; ma questo era ben lungi dal verificarsi, visto che dal secondo rapporto annuale Isfol risultava per il 1978-79 l’iscrizione ai Centri di formazione professionale di soli 200.000 allievi, con una partecipazione effettiva assai più ridotta, per non parlare della reale utilità.
I numeri ci restituiscono per il 1980 l’identikit di un apprendistato, operaio, concentrato al nord, con un forte insediamento nell’artigianato e nel manifatturiero ed un prevalente carattere maschile, cioè perfettamente speculare alla topografia e tipologia della complessiva domanda di lavoro, di cui finiva per costituire una componente più flessibile.
5. Dal decennio ‘70 alla fine del secolo. Premessa
Continuando nella ricostruzione, si entra in quella età di fine secolo condannata ad inseguire una cronica crisi occupazionale: prima, con una politica di pronto intervento tradotta in decreti legge (qui richiamati nelle loro leggi di conversione), tanto da essere ritenuta figlia della stagione dell’“emergenza”; gestita, poi, con una strategia di allentamento del tasso di rigidità in entrata, sì da essere considerata espressione della stagione della “flessibilità.” Della “terapia” prescelta sarà componente privilegiata una tipologia arricchita dei contratti formativi, che risentirà inevitabilmente della transizione dall’emergenza alla flessibilità, sì da doverne offrire un quadro normativo costruito con riferimento a due tappe distinte, con a mete finali la
l. n. 56/1987 e, rispettivamente, la l. n. 196/1997.
A far la parte del grande assente continuerà ad essere quel sistema integrato scuola/formazione professionale, considerato a ragione il presupposto di un genuino ed
efficace apprendistato. Secondo un approccio logico, il processo riformatore avrebbe dovuto procedere dalla scuola verso la formazione professionale, cosa di per sé già estremamente difficile per la resistenza opposta da una realtà secolare, se anche a farla da protagonista unico fosse rimasto uno Stato a competenza “universale”. Ma, dando attuazione tardiva ed approssimativa ad una costituzione “regionalista”, lo Stato è stato costretto ad un sorta di convivenza da separati in casa con le Regioni che, spesso a ragione, lo hanno martellato con quell’actio finium regundorum destinata a trovare una sua area privilegiata proprio su quella formazione coperta dall’esplicita riserva costituzionale di cui all’art. 117 Cost.: prima, nel “vecchio” testo, per mezzo della formula soft di una competenza concorrente in tema di “istruzione artigiana e professionale”; poi nel “nuovo”, tramite la formula hard di una competenza esclusiva in materia di “istruzione e … formazione professionale”. Ne seguì una ricaduta negativa, dato che a prevalere fu una logica conflittuale, capace di alimentare una crescente chiamata in causa di una Corte “centralista”, poco disposta a concedere troppa fiducia ad una platea regionale, la quale, una volta acquisita la rivendicata competenza, dava mostra di esercitarla di regola poco e male.
Il decennio ‘70 partorirà la prima “regionalizzazione”, con la ripartizione Stato/Regioni delle competenze sulla “istruzione artigiana o professionale”, tramite i
D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 10 e 24 luglio 1977, n. 616, cui farà seguito la legge quadro 21 dicembre 1978, n. 84514, che recupererà e valorizzerà, a fronte della formazione iniziale cui è finalizzata la tipologia dei contratti formativi, quella continua, enfatizzata in sede europea, ma destinata a rimanere in Italia una sorta di Cenerentola. La normativa risulterà di discreta fattura tecnica, ma di scarsa fortuna, se pur con la diversità territoriale tipica di questa nostra Italia, sì da restituire alla prova dei fatti una formazione professionale non troppo diversa da quella trovata: priva di relazione strutturale con la scuola; sprovvista di una chiara linea di confine Stato/Regioni, con in più la partita aperta costituita dalla conservazione degli Istituti professionali statali; deficitaria nella gestione delle risorse comunitarie; carente nell’offerta quantitativa e qualitativa dei corsi, peraltro spesso gonfiata ad arte.
Il decennio ‘90, auspice il Patto per l’occupazione del settembre 1996 ed il Patto
14 M. NAPOLI, Commento a l. 21 dicembre 1978, n. 845 (legge quadro in tema di formazione professionale), in Nuove Leggi Civ. Comm., 1979, fasc. 5, pag. 908 e segg.
di Natale del dicembre 199815, darà la vita alla seconda “regionalizzazione” tramite i dd.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469 e 31 marzo 1998, n. 112, con una ridistribuzione più aperta ed avanzata delle competenze Stato/Regioni che non resterà isolata: collocata significativamente fra l’art. 16, co. 2, l. 24 giugno 1997, n. 196 sul “nuovo” apprendistato, che condizionava l’agevolazione contributiva prevista per l’apprendista alla partecipazione alla formazione esterna; e l’art. 68, l. 17 maggio 1999, n. 144, sull’innalzamento dell’obbligo formativo a 18 anni, assolvibile alternativamente nella scuola o nella formazione professionale o nell’apprendistato, con il conseguimento di crediti professionali utilizzabili per passare da un sistema all’altro.
Nel corso di quello stesso decennio si accentuerà quella forza attrattiva del rapporto di lavoro sul rapporto di apprendistato, già percepibile nella giurisprudenza costituzionale del primo decennio ‘70, con conseguente estensione di una disciplina generale; qui, però, perché risulterà rafforzata in misura tale da poter assorbire la maggior tutela già accordata all’apprendista in ragione della sua stessa età: per la tutela della salute (d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626); per la regolamentazione dell’orario di lavoro (art. 13, l. 24 giugno 1997, n. 196) e del lavoro notturno (d.lgs. 26 novembre 1999, n. 532); per la riforma della capacità di lavoro (d.lgs. 4 agosto 1999, n. 345); per la normativa in tema di sanzioni e di depenalizzazione (d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507)16.
Sul finire del decennio si verificherà un duplice fatto, destinato a condizionare l’inizio del secolo successivo, con il definitivo successo dell’apprendistato sul cfl. Mentre il ruolo dell’apprendistato veniva rilanciato dall’art. 16 della l. 24 giugno 1997, n.196, il cfl era “stoppato” a livello comunitario dalla decisione della Commissione Europea dell’11 maggio 199917, poi confermata dalla sentenza CGCE 7 marzo 2002 (Causa C-310/99)18, che giudicava in contrasto col divieto comunitario di aiuti di Stato
15 Cfr. X. XXXXXXXXX, La formazione dei lavoratori dalla Concertazione triangolare al “Pacchetto Treu”, in Lav. Giur., 1998, pag. 13 segg.
16 X. XXXXXXXX, La disciplina (speciale) dell’apprendistato: il difficile raccordo con la normativa generale, in Riv. Giur. Lav., 2001, I, pag. 241.
17 Pubblicata in G.U.C.E. 15 febbraio 2000, L042, 1-18.
18 Su cui v. X. XXXXXXXXX, Contratto di formazione e lavoro: riduzione dell’obbligo contributivo e divieto comunitario degli aiuti di Stato, in Mass. Giur. Lav., 2002, pag. 461; X. XXXXXXX, I contratti di formazione e lavoro nella disciplina comunitaria, in M. RUSCIANO (a cura di), Problemi giuridici del
quel beneficio contributivo previsto dalla l. 29 dicembre 1990, n. 407, perché non più uniforme come per la l. 19 dicembre 1984, n. 863, ma diversificato a seconda del territorio coinvolto.
La Commissione partiva dall’opinione che in Italia esistesse “una disoccupazione strutturale”, non affrontabile e tantomeno risolubile tramite una “estensione del limite d’età per la definizione della categoria giovani”; e di conseguenza, concludeva per una incentivazione dei cfl piuttosto restrittiva, cioè non superiore al 25%, a meno che non comportasse la creazione netta di posti di lavoro o non favorisse l’assunzione di lavoratori di difficile inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, cioè i giovani con meno di 25 anni, i laureati fino a 29 anni compresi, i disoccupati di lunga durata (da almeno un anno). Sulla base di questa regola, il vecchio cfl vedeva ridursi la finestra d’età “conveniente” a non più di 25 anni, corrispondente a quella “legale” dell’apprendistato, attestata sul limite dei 24/26 anni; e lasciava di fatto libera quella prima riservatagli interamente, cioè al di sopra dei 25, presto coperta, in sua vece, dall’art. 7, l. 23 dicembre 2000, n. 388, con un credito d’imposta per l’impiego di ultraventicinquenni tramite un contratto a tempo indeterminato privo di qualsiasi contenuto formativo. Non solo, perché, a questo punto, lo stesso cfl doveva certo pagare più di qualcosa alla progressiva liberalizzazione del contratto a termine, iniziata dall’art. 23, l. 28 febbraio 1987, n. 56 e realizzata dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 36819.
Per quasi cinquant’anni, l’apprendistato era stato lasciato a se stesso, esposto continuamente al rischio di veder tradito il suo scopo professionalizzante, che certo non poteva essere garantito, di per sé solo, da un regime giuridico per quanto rigido; e per circa un quindicennio, il cfl, con un fine formativo attenuato ma pur sempre presente, era andato incontro allo stesso destino. Ora, giunto al cambio di millennio, il
mercato del lavoro, Napoli, pag. 111 segg.
Per una ricostruzione dello scenario europeo sul tema v. X. XXXXXXXX, Tutela della concorrenza e diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in X. XXXXXXXX (a cura di), La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro, Torino, 1997; nonché X. XXXXXXXX, Formazione e lavoro tra diritto e contratto: l’occupabilità, Bari, 2004, pag. 356.
19 Sul contratto a termine v. da ultimo X. XXXXXXXX, L’apposizione del termine, in X. XXXXXXX (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione. Contratto e rapporto di lavoro, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. IV, t. 1, Padova, 2012, pag. 212.
“nuovo” apprendistato sembrava poter contare su un cambio radicale dell’intero scenario, tale da permettergli di recitare al meglio quel ruolo di contratto formativo par excellence che di lì a poco la c.d. legge Biagi gli avrebbe riconosciuto.
6. Segue. le ll. 19 dicembre 1984, n. 863 e 28 febbraio 1987, n. 56
Tanto deserto il quadro precedente, quanto popolato questo. Mentre, sullo sfondo, l’“addestramento professionale” di cui al Tit. IV della l. n. 264/1949 verrà travolto da un imponente flusso normativo, destinato a rivoluzionare l’intero sistema; sul proscenio, l’apprendistato di cui alla l. n. 25/1955, rischierà di essere declassato a co-protagonista di un copione legislativo scritto sotto l’influsso del problema occupazionale.
Un giudizio, questo, destinato a confrontarsi col processo legislativo aperto dalla
l. 1 giugno 1977, n. 28520, tramite il varo di quel “contratto di formazione”, rivelatosi subito così male assortito, da essere proposto e riproposto, con diverso nome e contenuto, ma con un uguale insuccesso. Dopo un settennio, speso secondo il motto dell’Accademia del Cimento, provando e riprovando, la l. n. 863/198421, battezzava il “contratto di formazione e lavoro” destinato a tener banco per circa un quindicennio, con un confronto ravvicinato con quel compagno di strada più anziano costituito dall’apprendistato.
Quel lungo e faticoso periodo di gestazione non lasciava dubbio alcuno circa lo
20 X. XXXXXXX, X. XXXX, Commento al Titolo I "Norme generali" del testo coordinato l. 1 giugno 1977, n. 285 d.l. 30 settembre 1977, n. 706 l. 29 novembre 1977, n. 864 (provvedimenti per l' occupazione giovanile), in Nuove Leggi Civ. Comm., 1978, fasc. 2, pag. 507 segg.; M.G. XXXXXXXX, Il contratto di formazione: una prospettiva da valorizzare, in AA.VV., I giovani e il lavoro, Bari, 1978; X. XXXXXXX, Occupazione, addestramento, formazione professionale nella condizione giovanile: il contratto di formazione, in Dir. Lav., 1979, pag. 374 e segg..
21 X. XXXXXXX, Ritorno del contratto di formazione e lavoro?, in Giust. Civ, 1984, fasc. 9, pag. 342 segg.; X. XXXXXXX, Il contratto a termine per la formazione dei giovani, in Riv. It. Dir. Lav., 1984, pag. 465 segg.; X. XXXXXXXXXX, Il contratto di formazione e lavoro nella l. 19 dicembre 1984, n. 863, in Riv. It. Dir. Lav., 1985, fasc. 3, pag. 307 segg.; M. NAPOLI (a cura di), Commento alla legge 19.12.1984, n. 863, in Nuove leggi Civ. Comm., 1985, pag. 832 e segg.; da ultimo v. X. XXXXXXXXX, Contratto di formazione e lavoro, in X. XXXXXX (a cura di), Il mercato del lavoro, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. VI, Padova, in corso di pubblicazione.
scopo perseguito, cioè affrontare il crescendo drammatico della disoccupazione giovanile, come ben testimonia la l. n. 285/1977, fin dalla sua rubrica. E pare evidente che il legislatore non ritenesse l’apprendistato idoneo a risolverlo, essendo ormai stabilizzato su un numero insufficiente di posti offerti, come effetto negativo del suo difficile accreditamento al di fuori dell’artigianato e dell’impresa piccola e media; ma, soprattutto, risultando tipizzato secondo un itinerario formativo post-scolare, percorribile non oltre i 20 anni, sì da non poter essere utilizzato per fronteggiare il fenomeno di un universo giovanile che, pur con uno scarso passato scolare/formativo, rivelava un crescente ritardo nell’accesso sul mercato del lavoro. E nel cercarne un succedaneo, è possibile sia stato tentato dal creare un contratto di mero inserimento, come pure farà in seguito in un diverso contesto; ma, cammin facendo, deve essersi convinto di dar vita ad un contratto costruito per contrastare quel fenomeno, con un contenuto formativo minore, ma con excursus anagrafico maggiore rispetto all’apprendistato.
Se anche l’intento fosse stato quello di coprire coi due contratti, apprendistato e cfl, distinti bacini occupazionali, senza metterli in concorrenza fra loro; certo il confronto fra il regime assicurato al primo dalla vecchia legge n. 25/1955 e quello garantito al secondo dalla l. n. 863/1984, rivelava un vantaggio competitivo a tutto favore del nuovo arrivato, di per se tale da poter essere fatto valere nella fascia d’età condivisa, cioè quella fra i 15 ed i 20 anni.
Comune è il presupposto, costituito dal mancato riconoscimento di un obbligo formativo quale effetto naturale del contratto di lavoro subordinato22, che, quindi, richiede un tipo negoziale ad hoc; comune è, altresì, il tradizionale svolgimento sequenziale scuola/formazione/lavoro, il cui “periodo”, però, cresce dai 15/20 anni dell’apprendistato ai 15/29 anni del cfl, per tener conto di un crescente ritardo nell’ingresso sul mercato del lavoro. Si è discusso se anche quest’ultimo potesse
22 Questa è la tesi ancora prevalente in dottrina, v. per tutti M. NAPOLI, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, in Riv. Giur. Lav., 1997, I, pag. 263 e segg. (spec. pag. 269). C’è, però, una corrente minoritaria, la quale ritiene che il “paradigma formativo” sarebbe ormai entrato nello schema causale del contratto: così X. XXXXXXXXXX, Trasformazioni organizzative e rapporto di lavoro, Napoli, 2000, pagg. 55, 75 e 222; X. XXXXXXXXX, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, in Dir. Rel. Ind., 1998, pag. 317 e segg.; X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, Milano, 2004.
considerarsi a causa mista e dotato di specialità; qui è sufficiente prendere atto dell’indirizzo prevalente, favorevole ad un responso positivo, tenuto conto della attribuzione di specialità effettuata dall’art.16, co. 5, l. n. 196/1997, nei confronti sia dell’apprendistato, sia del cfl.23. Attribuzione comune, ma con una significativa differenza nella “deviazione quantitativa” riscontrabile nell’uno e nell’altro rapporto: la disciplina del rapporto di lavoro subordinato era applicabile all’apprendistato, solo se compatibile e non derogata da qualche legge speciale (art. 2134 c.c.); mentre lo era al cfl, se ed in quanto non derogata dalla stessa legge (art. 5, l. n. 863/1984).
Ciò risultava coerente con la diversità nella “deviazione funzionale” a monte, che, sempre a stare alla legge, risultava più accentuata per l’apprendistato rispetto al cfl: là una formazione pratica/teorica era dotata di una precisa finalità formativa, far conseguire “la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato” ed era affidata all’azione convergente e coordinata di un “addestramento pratico … mediante graduale applicazione al lavoro” cui doveva essere avviato, spalmato sull’intera durata, e di un “insegnamento complementare”, realizzato tramite la frequenza “obbligatoria e gratuita” a corsi di insegnamento, interni o esterni all’azienda; qui una formazione pratica era priva di una specifica finalità formativa e rimessa ad un “progetto formativo” concentrabile in una singola fase temporale o attività lavorativa, da realizzarsi tutto all’interno dell’azienda. Diversità, questa, che restituiva un apprendistato più selettivo, quindi più limitato, nei suoi ambiti di applicazione e più impegnativo nei suoi modi di utilizzazione rispetto al cfl, escludendosi in partenza un
23 Secondo Corte cost. 8 aprile 1993, n. 149 (in Foro It., 1993, I, c. 1337), che va oltre la precedente Corte cost. 25 maggio 1987, n. 190 (in Lav. Prev. Oggi, 1987, pag. 1599), pure il cfl è caratterizzato da una causa mista e complessa.
Per la dottrina che ha seguito l’evoluzione legislativa del cfl v. X. XXXX, Il quadro normativo ed istituzionale a sostegno della creazione di occupazione e di nuove imprese, in Riv. It. Dir. Lav., 1987, I, pag. 333 e segg.; X. XXXXXXXX, Il contratto di formazione e le nuove istituzioni del mercato del lavoro: difficoltà e possibilità di una rinascita, in AA.VV., Studi in memoria di Xxxxxx Xxxxxxx, Padova, 1988, spec. pagg. 374-375; X. XXXXX, Il contratto di formazione e lavoro, in X. X’XXXXXX, X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Il diritto del lavoro negli anni ’80, Napoli, 1988, vol. I, pag. 95 e segg.; X. XXX, Il contratto di formazione e lavoro, in AA.VV., Il diritto del lavoro dopo l’«emergenza», Milano, 1988, spec. pag. 105 e segg.; X. XXXXXXXXX, La flessibilità del lavoro ed i suoi antidoti. Un’analisi comparata, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1993, 2, pag. 235 e segg,, spec. pag. 266; X. XXXXXXXXX, Il contratto di formazione e lavoro: disciplina legale e contrattuale, Bari, 1994.
effetto concorrenziale; ma, com’è noto, il legislatore “propone” ed il mercato “dispone”.
Certo per l’apprendistato era sufficiente un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, mentre per il cfl era necessaria l’approvazione del progetto, scegliendo fra una via “amministrativa” ed una “negoziale”. Poi, a rigor di logica, avrebbero dovuto condividere il fatto di essere a termine, come elemento non accidentale ma essenziale, perché di per sé un processo formativo deve avere un suo svolgimento programmato su un tempo preciso, congruo rispetto all’accrescimento professionale posto come obbiettivo; tant’è che, proprio per questo loro carattere peculiare, apprendistato e cfl verranno esplicitamente esclusi dall’ambito coperto dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (art. 10, co. 1).
“Elementare, Xxxxxx”. Non proprio, perché è vero che, con formula tendenzialmente coincidente, l’art. 7 della l. n. 25/1955 e l’art. 3, co. 1 della l. n. 863/1984 si limitavano a fissare le durate massime, cioè non superiori, per l’apprendistato, a quelle stabilite “per categorie professionali dai contratti collettivi di lavoro” e, comunque a cinque anni, e, rispettivamente, per il cfl, a “ventiquattro mesi e non rinnovabile”; ma è anche vero che quanto la legge sembrava unire, la giurisprudenza e la dottrina provvederanno a dividere. Come visto, l’apprendistato era stato implicitamente accreditato come contratto a tempo indeterminato dal Giudice delle leggi, peraltro con un regolamento “bastardo” del recesso datoriale: esercitabile, a rapporto in svolgimento, come licenziamento “giustificato”, a’ sensi della l. 15 luglio 1966, n. 604; esperibile, a rapporto concluso per esaurimento della durata, come licenziamento ex art. 2118 c.c., a’ sensi della l. n. 25/1955; mentre, in seguito, il cfl nascerà come contratto a termine24.
Il controllo esercitato dalla Commissione regionale per l’impiego per licenziare il progetto formativo del cfl era sulla carta più incisivo di quello esperito dall’Ispettorato del lavoro per autorizzare l’assunzione di un apprendista; ma la Commissione diede prova di effettuarlo privilegiandone il ritorno occupazionale. E,
24 Secondo l’opinione dominante il cfl rappresenterebbe una species del genus contratto di lavoro a tempo determinato, con conseguente applicazione del relativo regime se non esplicitamente derogato: v.
X. XXXXXXXX, Formazione e lavoro tra diritto e contratto: l’occupabilità, cit., pag. 234 e segg., con riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
comunque, il cfl veniva dotato di un consistente patrimonio promozionale, tramite ricorso, prima, al modello “tradizionale” degli incentivi economici già in uso per l’apprendistato, introducendo sgravi contributivi e sconti salariali; poi, al modello “innovativo” degli incentivi normativi, rendendo inapplicabili in casu certi regimi visti e vissuti come rigidi. Secondo il modello “tradizionale”, la contribuzione di favore, nell’apprendistato ormai vecchia di una trentina di anni, era estesa al cfl (art. 3, co. 6); e la formula del “salario d’ingresso”25, nell’apprendistato imposta dalla l. n. 25/1955 (con ricorso al criterio percentuale), sarà di lì a poco prevista nell’accordo interconfederale Cgil-Cisl-Uil/Confindustria del maggio 1986 sul cfl, anche se solo l’art. 16, co. 3, l. 19 luglio 1994, n. 451 (di conversione con modificazioni del d.l. 16 maggio 1994, n. 299) la rimetterà esplicitamente alla scelta della contrattazione collettiva (con utilizzo del criterio del sotto-inquadramento).
Poco, rispetto a quello assicurato in più dal modello “innovativo” degli incentivi normativi: la richiesta nominativa che, nell’apprendistato, restava limitata alle imprese con non più di 10 dipendenti e se, con più di 10, ad una percentuale del 25% degli apprendisti da assumersi, diventava qui regola (art. 3, co. 1, l. n. 863/1984; ma v. anche l’art. 3, co. 12); l’esclusione “dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti” che, nell’apprendistato, restava ristretta a qualche ipotesi, era qui resa generale (art. 3, co. 10); la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato “in caso di inosservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi del contratto di formazione e lavoro”, intesi come quelli formativi, che, nell’apprendistato, rimaneva affidata solo ad una giurisprudenza favorevole, era qui ratificata dalla legge (art. 3, co. 9).
Nel mentre, la dottrina e la giurisprudenza, con l’autorevole avallo della Corte costituzionale, formulavano una sorta di graduatoria in base al contenuto formativo, che, condotta solo sulle buone intenzioni dei legislatori, a prescindere dalle dure e crude smentite dei fatti, vedeva primeggiare l’apprendistato, con largo vantaggio sul cfl; di fatto e di diritto l’apprendistato si ritrovava doppiamente penalizzato: per il deterioramento subito come strumento di crescita professionale e per lo svantaggio competitivo creato a suo danno come mezzo di promozione occupazionale. L’uso e
25 Su cui cfr., anche per i profili inerenti l’applicabilità dell’art. 36 Cost., X. XXXXXXXX, Il contratto di apprendistato, cit., pag. 1545 e segg. (ed ivi nota n. 132 per ulteriori riferimenti bibliografici).
l’abuso del cfl come strumento esclusivamente occupazionale appare a volto scoperto nel “Piano straordinario per l’occupazione giovanile” per gli anni 1986/87, di cui alla l. 11 aprile 1986, n. 113: ne costituiva l’oggetto un contributo mensile particolarmente generoso per il Sud, corrisposto a chi avesse assunto tramite cfl giovani tra i 18 e i 29 anni che fossero risultati iscritti da almeno 12 mesi nella prima e seconda classe delle liste di collocamento di cui alla l. 29 aprile 1949, n. 264; ne rappresentava il soggetto attivo, unico ed esclusivo, un Ministro del lavoro dotato del potere di dare l’imprimatur ai progetti formativi, avvalendosi dello schermo di un Comitato tecnico composto secondo il solito modello, da alti burocrati e da esperti di parte, con una sostanziale marginalizzazione delle organizzazioni sindacali ed una rapsodica attività di controllo affidata ad interventi a comando dall’alto dell’Ispettorato del lavoro.
Solo che questo cfl è stato un contratto che il movimento sindacale confederale ha gratificato di un occhio particolare, anticipando e condizionando il legislatore con più di un accordo interconfederale, quello già citato del maggio 1986 e quello successivo del 18 dicembre 1988 – 21 gennaio 1989, inteso a contenere e a correggere il suo uso distorto26. Ciò farà da prologo alla l. 28 febbraio 1987, n. 56, frutto del convincimento ormai largamente condiviso, per cui presupposto di qualsiasi ulteriore intervento sul mercato del lavoro era un deciso aggiornamento del sistema di collocamento; ma tradotto nel testo legislativo poco e male, tanto da restituirci quel sistema ancora gravemente attardato su un monopolio pubblico a tasso eccessivo di centralismo, solo addolcito dalla rivalutazione delle Commissioni regionali per l’impiego e dalla costituzione delle Agenzie per l’impiego.
La legge rappresentava un’occasione per ritornare su due istituti “caldi”, l’apprendistato ed il contratto a termine. L’art. 21 sull’apprendistato27 tendeva a farsi carico dell’abuso che se ne faceva in tema di durata (prolungandola oltre alla bisogna e differenziandola in ragione della data di nascita), col rinviare per la fissazione di quella massima alla contrattazione collettiva categoriale, peraltro da effettuarsi “con
00 Xxx. X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Xx contratto di formazione e lavoro tra legge di riforma ed accordo interconfederale, in Dir. Lav., 1990, I, pag. 237.
27 X. XXX, L’apprendistato, Sub art. 21, in X. XXXX, X. XXXX, X. XXXXXX (a cura di), Commento alla legge 28.2.1987, n. 56 (Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro), in Nuove leggi Civ. Comm., 1987, 742; M. NAPOLI, La regolamentazione dell’apprendistato fra Stato, regioni e autonomia collettiva (nota a C. Cost. 23 giugno 1988, n. 691), in Le Regioni, 1989, fasc. 3, pag. 902 e segg.;
esclusivo riferimento al periodo ritenuto necessario all’apprendimento, senza distinzioni basate sull’età del lavoratore”, sempre nell’ambito di 5 anni. Ma, soprattutto, si preoccupava di renderlo più appetibile sotto diversi aspetti: a) ampliando l’ambito di utilizzo (attenzione per le micro imprese, senza o con meno di tre lavoratori qualificati o specializzati, col permettere loro di assumere fino a tre apprendisti; comprensione per le imprese con attività stagionali, col concedere ai loro contratti collettivi di categoria di “prevedere specifiche modalità di svolgimento”); e, soprattutto b) eliminando il vantaggio competitivo creato a favore del contratto di formazione e lavoro dalla l. n. 863/1984, xxxx’estendere all’apprendistato quel plus di patrimonio promozionale già assicurato al cfl: richiesta nominativa; non computabilità28; conservazione della contribuzione di favore per tutto l’anno successivo alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.
Un intervento di mero recupero di un apprendistato lasciato sostanzialmente com’era, tanto da uscire ridimensionato dal confronto con quell’autentico atto rivoluzionario compiuto dal successivo art. 23, col permettere alla contrattazione collettiva l’introduzione di ipotesi di legittima apposizione del termine, diverse ed ulteriori rispetto a quelle elencate tassativamente dalla l. 18 aprile 1962, n. 230 e successive modificazioni29.
7. Segue. le ll. 19 luglio 1994, n. 451 e 24 giugno 1997, n.196
Per l’intero decennio successivo il legislatore cercherà di adattare il contratto di cfl alla peculiarità di una disoccupazione giovanile caratterizzata da un’età sempre più avanzata e da una diffusione territoriale sempre più squilibrata; e lo farà con quella politica costituita dall’ingrandire la finestra anagrafica prevista per l’assunzione e dal rendere selettiva la contribuzione di favore, destinata ad esporlo alla condanna della Comunità Europea. Senza, però, allentarne la disciplina anti-abusiva, come prova l’art.
28 V. in particolare M. SALA CHIRI, Costituzionalità "allo stato" dell'esclusione degli apprendisti ai fini dell'applicazione di particolari normative? (Nota a Corte. cost. 12 aprile 1989, n. 181), in Dir. Lav., 1989, fasc. 3-4, pag. 211 e segg.
29 Sull’art. 23 della legge n. 56/1987 M. D’XXXXXX, I contratti a termine, in AA.VV.,
Occupazione flessibile e nuove tipologie del rapporto di lavoro, Napoli, 1988, pag. 111 e segg.
8, l. 29 dicembre 1990, n. 407, che, in attesa dell’“entrata in vigore della legge di riforma dei contratti di formazione e lavoro”, accompagnava una rivisitazione della politica contributiva con riguardo ai datori di determinati territori, settori, dimensioni aziendali, con una sostanziosa dote “garantista”: forma scritta, pena la conversione in contratto a tempo indeterminato; esclusione delle “professionalità elementari”, connotate da compiti generici e ripetitivi; pre-condizione per ulteriori assunzioni costituita dalla conservazione in servizio di almeno il 50% di coloro cui siano scaduti i contratti nei 24 mesi precedenti (co. 5, 6 e 7). Ma, fatto degno di nota, quasi a fare da pendant, quegli stessi datori potevano ricorrere ad una sorta di prototipo del contratto di reinserimento, poi varato dall’art. 20 della l. n. 223/1991, cioè ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con un costo contributivo ridotto del 50%, riservato a lavoratori sospesi o disoccupati da almeno 24 mesi (co. 9)30.
Certo la sanzione prevista da quell’art. 8 per l’“inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi inerenti alla formazione del lavoratore”, costituita dalla revoca, previa diffida di determinati benefici contributivi (co. 8) riusciva assai meno severa di quella conversione in contratto a tempo indeterminato, introdotta dalla l. n. 863/1984. Ma, a prescindere dalla relativa problematica giuridica, c’è da dire che la conversione risulta una sanzione radicale, che lascia completamente insoddisfatta la domanda di formazione incorporata nella stessa causa del contratto di formazione e lavoro, sicché dovrebbe essere utilizzata come misura estrema, a fronte di una situazione fraudolenta o, comunque, irrecuperabile.
Xxxxxx facendo, però, entrambi i contratti formativi, apprendistato e cfl, perdevano l’incentivo della richiesta nominativa, resa generale dalla l. n. 223/1991 ed eliminata a favore della chiamata diretta, con mera comunicazione successiva, dalla l. 28 novembre 1996, n. 608. Mentre il solo il cfl veniva privato dell’incentivo del non computo che gli era stato assicurato dalla l. n. 863/1984, se pur limitatamente all’art. 18 St. lav., come previsto dal suo co. 2, così come modificato dall’art. 1 della l. 11 maggio 1990, n. 108.
A distanza di neanche sei mesi dalla l. n. 407/1990, l’art. 9, l. 1 giugno 1991, n. 169 interverrà a correggere l’art. 3, l. 863/84, con un co. 1 bis, che portava a 32 anni
30 In proposito cfr. P. XXXXXXXXXXX, Commento all’art. 20, l. n. 223/1991, in X. XXXXXX, X. XXXX (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2001, pag. 1398.
l’età massima per l’assunzione nelle aree del Mezzogiorno e nelle zone svantaggiate del centro-nord, e con un nuovo co. 3, che rendeva più semplice e spedita la conclusione di un cfl, coll’escludere la necessità di un’approvazione preventiva del suo progetto formativo da parte della Commissione regionale per l’impiego, sempreché questo fosse stato predisposto in conformità “alle regolamentazioni … concordate tra le organizzazioni nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative”, senza far conto su alcun finanziamento pubblico.
Fin qui, però, il legislatore non era riuscito a sciogliere il nodo gordiano di un contratto che, contrariamente al suo nome di battesimo, faceva fatica a conciliare formazione e lavoro, sì da sacrificare la prima a vantaggio del secondo. Ma, all’indomani del Protocollo del luglio ‘9331, ecco decidersi a tagliarlo di netto con l’art. 16, l. n. 451/199432, che prevedeva la possibilità di assumere “soggetti” fra i 16 ed i 32 anni, secondo due tipologie di cfl: la prima, c.d. forte, diretta a far acquisire professionalità intermedie o elevate, con una durata massima di 24 mesi e una dote oraria da dedicare alla formazione fra le 80 e le 130; la seconda, c.d. leggera, finalizzata “ad agevolare l’inserimento professionale mediante un’esperienza lavorativa che consenta un adeguamento delle capacità professionali al contesto produttivo ed organizzativo”, con una durata massima di dodici mesi e una dote oraria di 20 ore di base relative alla disciplina del rapporto, all’organizzazione del lavoro, alla prevenzione (co. 1, 2, 4 e 5).
Il che faceva fare al cfl un autentico “salto” nel suo obbiettivo formativo, quale risultante dalla duplice tipologia prevista, estendendolo dall’acquisto di professionalità elevate al mero adeguamento alla concreta realtà lavorativa. Ciò con un distinguo interno riecheggiante, alla lontana, la differenza fra una formazione “generale” facilmente spendibile sul mercato del lavoro, essendo suo scopo quello di fornire professionalità medio/alte; ed una “speciale”, difficilmente trasferibile all’esterno, essendo suo fine quello di adattare capacità professionali preesistenti, presunte
31 Sul Protocollo del luglio del 1993 v. i saggi di X. XXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXX, in
Riv. Giur. Lav., 1993, I, pag. 215 e segg. e, in particolare, per gli aspetti relativi al mercato del lavoro, P.
A. VARESI, Efficienza e solidarietà nel mercato del lavoro, in Dir. Prat. Lav., 1993, pag. 2873 e segg.
32 Un commento in X. XXX XXXXX, X xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx x xxxxxx, xx Xxx. Xx. Dir. Lav., 1995, I, pag. 231.
implicitamente come basse, ma non elementari, alla attività svolta in quella singola impresa. E, coerentemente - pur nell’ambito di un favor esteso ad entrambe le ipotesi con l’allargamento della platea dei potenziali utilizzatori (co. 1, ma v. anche il co. 10) e l’alleggerimento della procedura di approvazione (co. 7 e 8) - le premiava con una riduzione contributiva diversificata, in conformità alla finalità loro attribuita: mantenuta identica, per la prima tipologia, quasi comportasse una “obbligazione di mezzi”, verificabile in corso d’opera; resa subordinata alla trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato di durata pari a quella del contratto trasformato, per la seconda tipologia, come se incorporasse una “obbligazione di risultato”.
Il che trovava riscontro nella differente formula richiesta per l’accreditamento della formazione ricevuta che, per la prima tipologia, era dato da un certificato del datore, trasmesso all’ufficio competente ed esposto al controllo regionale, sì da acquisire un rilievo “oggettivo”; mentre, per la seconda, era costituito da un attestato rilasciato dal datore al lavoratore, sì da conservare un rilievo “soggettivo”.
Questo art. 16 della l n. 451/1994 avrebbe segnato una svolta, sempre più percepibile ed apprezzabile col crescere della distanza temporale. La disciplina relativa al cfl raggiungeva la fase terminale della sua evoluzione, con la introduzione di quella tipologia “forte” tale da sovrapporsi all’apprendistato in quella fascia d’età che di lì a poco sarebbe stata estesa per l’apprendistato dall’art. 16 l. 24 giugno 1997, n. 19633, cioè a 16-24/26 anni: una fase, questa, che risulterà essere al tempo stesso quella finale di crescita e quella iniziale di discesa, tanto lenta l’una quanto rapida l’altra. Una volta formalizzata la dissociazione fra tipologia “forte” e “debole” in ragione della finalità perseguita, cioè di fornire una vera professionalità o di favorire una mera adattabilità, la stessa unità del contratto era destinata ad entrare in crisi, come se si rivelasse una
33 X. XXXXXXXXX, La legge n. 196 del 1997 e gli aspetti innovativi della formazione professionale, Relazione alle giornate di studio sul tema "Il lavoro che cambia (pacchetto Treu e dintorni)", Palermo, 28-29 novembre 1997, in Dir. lav., 1998, fasc. 3, pag. 121 segg.; X. XXXXXXXX, L’apprendistato, in X. XXXXXX (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in X. XXXXXXX (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, Torino, 1998, pag. 109 segg.; X. XXX, “Il pacchetto Treu”. Sub art. 16, l. 24.6.1997, n. 196, in Nuove Leggi Civ. Comm., 1998, pag. 1338 e segg.; M. SALA CHIRI, La formazione ed il lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2000, fasc. 2, pag. 303 e segg. Ancora attuali le osservazioni di
X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Legge 24 giugno 1997, n. 196, in Dir. Prat. Lav., 1997, n. 30, pagg. 2069- 2070.
sede inidonea ad ospitare una doppia partita richiedente una ben diversa capienza: extra-casalinga, l’una, tale da doversi proiettare fuori dell’impresa, per una necessaria integrazione con il sistema di formazione professionale; casalinga, l’altra, tale da potersi esaurire tutta all’interno dell’impresa.
Una conferma che qualcosa di stava muovendo, verrà dalla l. n. 196/1997, nota come “pacchetto Treu”, che sotto l’ormai usuale dedica alla promozione dell’occupazione, dava l’impressione di essere quasi spaccata in due. Apriva con una politica innovativa, di natura strutturale, quale offerta da una più ricca ed articolata tipologia degli accessi: sottoponeva al battesimo del fuoco il lavoro interinale, pudicamente reso come “fornitura di lavoro temporaneo”; rimetteva in corsa il part- time in un contesto di orario di lavoro ridotto e modulato; ammorbidiva ulteriormente l’originario carattere rigido del contratto a termine. Xxxxxxxx, però, con una politica tradizionale, di portata congiunturale, quale dettata in materia di lavori socialmente utili e di interventi a favore di giovani inoccupati nel Mezzogiorno.
Ma dal punto di vista qui coltivato il meglio stava “in mezzo”, posizione di cui si vorrebbe dare una lettura non solo “topografica”, ma “programmatica”, come attribuzione di una nuova centralità della formazione come misura da privilegiare per una gestione della problematica occupazionale a medio-lungo termine. L’art. 1734 affidava ad una successiva regolamentazione - di cui fissava i principi ed i criteri generali, cadenzandola nei tempi e nei costi - “l’integrazione del sistema di formazione professionale con il sistema scolastico e con il mondo del lavoro” e la emanazione di “una disciplina organica della materia, anche con riferimento ai profili formativi di speciali rapporti di lavoro quali l’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro”. Cosa, quest’ultima, che riecheggiava il precedente art. 16, co. 5, con la sua previsione di una disciplina organica qui limitata alla sola materia di quei rapporti, con una attenzione particolare all’attività di controllo “sulla effettività dell’addestramento e sul reale rapporto tra attività lavorativa e attività formativa”.
Vi era sottesa una nuova consapevolezza circa la precondizione costituita da un sistema integrato scuola-formazione professionale, quella stessa condivisa da tutta la
34 Sull’intento razionalizzatore e la valenza sistemica dell’art. 17 della legge n. 196/1997 v. il commento di P. A. XXXXXX, Il riordino della formazione professionale, in M. NAPOLI (a cura di), Commento alla legge n. 196/1997, in Nuove Leggi Civ. Comm., 1998, pag. 1349 e segg.
legislazione di fine secolo. I due, cfl ed apprendistato, sembravano qui posti sullo stesso piano e trattati nello stesso modo, con a far da terzo incomodo quei tirocini formativi e di orientamento introdotti dall’art. 18, come “non costituenti rapporti di lavoro”. Sembravano, ma non lo erano, perché, a fronte del “ritocco” effettuato dall’art. 15 alla l. n. 451/1994 sul cfl, c’era il significativo “aggiornamento” realizzato dall’art. 16 della l. n. 196/1997 sull’apprendistato: ne era prolungato verso l’alto l’excursus anagrafico entro cui era possibile utilizzarlo, portandolo a 16-24/26 anni; e ne veniva prefissata ex novo una durata minima di 18 mesi, nonché ridotta quella massima a 4 anni.
A colpo d’occhio pareva esserci più di un tratto in comune fra la tipologia “forte” introdotta dalla l. n. 451/1994 per il cfl e questo apprendistato riformato; ma ad uno sguardo più attento riusciva evidente che il confronto condotto con riguardo al contenuto formativo era a tutto a favore del secondo: il monte ore che là oscillava fra le 80 e le 130 ore complessive per le professionalità intermedie e, rispettivamente elevate, qui risultava di 120 ore medie annue, con la partecipazione alle iniziative di formazione esterna, previste dalla contrattazione collettiva e proposte formalmente all’impresa dall’amministrazione pubblica competente, elevata a condizione di applicabilità delle agevolazioni contributive.
Solo che la regolamentazione varata in attuazione della l. n. 196/1997 si sarebbe rivelata insufficiente; e, comunque, a breve, l’intera disciplina della tipologia dei contratti formativi sarebbe stata rivoluzionata dalla c.d. legge Biagi35.
8. Segue. l’apprendistato visto al 1990 ed al 2000
Il Rapporto Isfol 1990 presentava un bilancio del cfl, a sei anni dalla l. n. 863/1984, assai positivo, cioè di 1,8 milioni di giovani assunti, per gran parte confermati a tempo indeterminato, sì da fargli concludere che cfl e apprendistato “costituiscono il modo prevalente di assunzione per gran parte dei giovani”, con
35 Per un quadro di fine secolo v. P.A. XXXXXX, I contratti di lavoro con finalità formative, Milano, 2001; nonché X. XXXXXXXX, Formazione e lavoro tra diritto e contratto, cit., che, mentre per l’apprendistato tiene conto anche della legge Biagi, per il c.f.l., destinato a sopravvivere solo nel settore del pubblico impiego privatizzato offre il più articolato e dettagliato compendio.
quell’elemento differenziale insito nel loro rispettivo genoma, cioè l’età: il primo, prevaleva nella fascia al di sopra dei 20, mentre il secondo nella fascia al di sotto dei
20 anni, con dei totali complessivi che nel 1991 erano intorno a 320.000 e, rispettivamente, 520.000.
Sarebbe parso che il contratto introdotto dalla l. n. 863/1984 non avesse rubato spazio a quello varato dalla l. n. 25/1955, arruolando giovani fra i 15 ed i 20 anni; ma ne avesse conquistato uno nuovo, reclutando lavoratori fra i 20 ed i 29. Sicché ne sarebbe risultato, più che un conflitto in termini di concorrenza sullo stesso “mercato d’età”, un rapporto complementare su uno distinto e differenziato dall’essere al di sopra o al di sotto dei 20 anni, tale da permettere così di coprirlo interamente col massimo ritorno utile.
Ma, dietro l’apparente carattere complementare di questi contratti formativi, c’era un elemento differenziale di fatto assai forte, quale dato dal tipo di imprenditore che ricorreva all’uno o all’altro, in ragione del rispettivo contenuto formativo. Se si confrontava l’identikit dell’apprendista, dedotto a suo tempo dal Quaderno Isfol del 1980, con quello del contrattista deducibile dal Rapporto del 1990, si vedeva come questo secondo ricalcasse il primo, nel suo essere operaio, prevalentemente maschio, incardinato al nord, concentrato nel settore industriale; e se ne distaccasse soprattutto per quel che ne costituiva il luogo privilegiato d’insediamento, artigianato per l’apprendista e piccola impresa per il contrattista. Sicché, veniva da osservare come, qualunque fosse stato l’intento del legislatore, di fatto il raddoppio dei contratti formativi era stato utilizzato per pareggiare i conti, con un continuo riallineamento degli incentivi “contributivi” e “normativi”, fra i due loro maggiori fruitori: l’artigianato che, con l’apprendistato, aveva potuto arruolare a prezzo scontato giovani liberatisi da poco dall’obbligo scolastico; la piccola impresa che, con il cfl, aveva potuto assumere a costo ridotto giovani usciti da tempo dal sistema scolastico, poco istruiti e qualificati.
A distanza di un decennio, il più completo ed accurato Rapporto Isfol 2000 ricostruiva l’andamento dei due contratti formativi dal 1991 al 1999: per l’apprendistato il trend negativo s’invertiva nel 1997, fino a risalire un biennio dopo ad un numero di assunti intorno ai 440.000, caratterizzati da una crescita della scolarizzazione post-obbligo; mentre per il cfl il trend negativo era continuo, se pur
altalenante, fino a scendere nell’ultimo anno ad un numero di contrattisti intorno ai 220.000, peraltro segnati sempre dal prevalere di un’età elevata (circa il 54% oltre i 25 anni) e da una scolarizzazione limitata all’obbligo (circa 64 %). Il gap crescente fra l’uno e l’altro contratto sembrerebbe spiegabile in ragione del vento sfavorevole spirante a livello comunitario contro il cfl, ma anche del varo di quell’art. 16 l. n. 196/1997 che rilanciava l’apprendistato, fra l’altro portandone la forcella d’età a 16/24-26 anni: proprio in quel 1997 il trend dell’apprendistato cambiava segno, da negativo a positivo; mentre ricominciava a scendere il contratto di formazione e lavoro, con una chiara propensione a spostarsi dalla fascia d’età 19/24 a quella superiore 25 ed oltre.
É interessante notare come, rispecchiando un mutamento profondo nel sistema economico del nostro Paese, usciva ridimensionato il peso dell’artigianato, con un rapporto fra apprendisti occupati dentro e fuori dal settore che s’invertiva nel corso degli anni 1995-1999: era 225.000 a 000.000 (xxxxxx); diventava 165.000 a 243.000 (fuori); e, pur restando del tutto prevalente il peso del manifatturiero, cresceva quello del terziario, con il commercio, il turismo ed i servizi pubblici già da soli al di sopra delle 100.000 unità nel 1999.
PARTE II
9. L’ultimo decennio: Il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276
Se si vuole ricostruire la scena che fa da sfondo alla rivisitazione dell’apprendistato delineata dalla l. delega 14 febbraio 2003, n. 3036 e realizzata dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 27637, bisogna tener conto di una duplice riforma: quella
36 Cfr. M.G. XXXXXXXX, La legge delega sul mercato del lavoro: prime osservazioni, in Riv. Giur.
Lav., 2003, I, pag. 359 e segg.
37 Per una ricostruzione generale della legge v. X. XXXXXXX, Una svolta fra ideologia e tecnica: comtinuità e discomtinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, in X. XXXXXXXX, X. XXXXX (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, in X. XXXXXXX (coordinato da), Commentario al D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Milano, 2004, pag. XXIX e segg.
Riguardo alla riforma dei contratti formativi v. X. XXXXX, I contratti a contenuto formativo,
della scuola, attuata con la l. 28 marzo 2003, n. 53, la c.d riforma Xxxxxxx; e quella della parte II, tit. V della Costituzione, realizzata con la l. cost. 18 ottobre 2001, n. 338. Si possa o meno interpretare quest’ultima in chiave federalista, certo ne riecheggia la norma fondamentale di una distribuzione delle competenze tale per cui lo Stato ha quelle e quelle sole che gli sono esplicitamente attribuite in via esclusiva o concorrente, mentre le Regioni conservano a sé stesse tutte le altre; riecheggia e niente più, perché in base alla stessa elencazione delle materie riservate al solo Stato ed al concorso Stato/Regioni, così come interpretata da una Corte costituzionale preoccupata dell’unità del sistema, quelle residue lasciate alle sole Regioni sono poche e, comunque, non praticabili in solitaria. Tant’è che la stessa “istruzione” e “formazione professionale”, che a’ sensi dei co. 2 e 3 dell’art. 117 novellato sarebbero
continuato da X. XXXXXXXXXX, in ID., Istituzioni di diritto del lavoro, 3ª ed., Milano, 2004, pag. 184 e segg.; X. XXXXXXX, Contratto di apprendistato, in ID., Tipologie di lavoro flessibile, 2ª ed., Torino, 2004, pag. 119 e segg.; X. XXXXXXXX, Commento all’art. 47. Le tre tipologie di contratto di apprendistato, i limiti di utilizzo ed il rinvio dell’entrata in vigore della nuova disciplina, in M. BROLLO, M.G. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Contratti di lavoro flessibile e contratti formativi, in X. XXXXXXX (coordinato da), Commentario al D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Milano, 2004, pag. 194; X. XXXXXXXXXX, Apprendistato, in X. XXXXXX (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, Roma, 2004, pag. 271; P.A. VARESI, Principi, criteri e linee guida per la costruzione del nuovo apprendistato, in AA.VV., Come cambia il mercato del lavoro, Milano, 2004, pag. 371; X. XXXXXXX, La riforma dei contratti con finalità formative, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Mercato del lavoro: riforma e vincoli di sistema, Napoli, 2004, pag. 541 e segg.; M. X’XXXXXX, I contratti a finalità formativa: apprendistato e contratto di inserimento, in P. XXXXXX (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo n. 276/2003, Bari, 2004, pag. 271 e segg.; X. XXX, I nuovi apprendistati, in X. XXXXXXX, P. A. VARESI (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, cit., pag. 474 e segg.; X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, Le fattispecie contrattuali della riforma Biagi: alcune considerazioni di carattere giuridico, economico e pragmatico, in Riv. It. Dir. lav., 2006, I, pag. 21 e segg.
38 Nella dottrina giuslavoristica v. X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro italiano nel federalismo, in Lav. Dir., 2001, n. 3, pag. 491 e segg.; X. XXXXXXX, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in Arg. Dir. Lav., 2002, n. 3, pag. 645 e segg.; X. XXXXXXXX, Devolution e diritto del lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2002, pag. 19 e segg.; X. XXXXX, Il diritto del lavoro fra Stato e Regioni, in Arg. Dir. Lav., 2002, n. 1, pag. 75 e segg.; X. XXXXXXX, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i “pezzi” di un difficile puzzle?, in Lav. Pubbl. Amm., suppl. fasc. 1, 2002, pag. 152; X. XXXXXXX, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2003, n. 1, pag. 17 e segg.; e, da ultimo, X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, Xxxxxx, 0000.
le uniche a toccare esplicitamente in toto alle Regioni, saranno destinate a fare i conti con la competenza esclusiva dello Stato in materie come l’“ordinamento civile” e la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” di cui al co. 1, lett. l) ed m), così da alimentare una giurisprudenza costituzionale quanto mai corposa39.
Pur a scena cambiata, c’è una sostanziale continuità fra la l. n. 196/1997 e la l. delega n. 30/2003 per quanto riguarda la tipologia contrattuale, perché questa conferma la copresenza da protagonisti dell’apprendistato e del cfl, con a far da comparsa il tirocinio, come rapporto non lavorativo. Solo che, nel definirne le finalità, il primo è rilanciato come strumento formativo recuperato nel sistema integrato scuola/formazione professionale; mentre il secondo viene ridimensionato a mezzo funzionale all’inserimento/reinserimento mirato in azienda40, sin quasi a confonderlo col tirocinio41, che, pur non integrando un rapporto di lavoro, costituisce sempre un inserimento mirato “alla conoscenza diretta del mondo del lavoro”.
Col senno di poi, è possibile cogliervi un segno premonitore di quel “travisamento” messo in atto dal Governo che, nel d.lgs. n. 276/2003, modificava radicalmente la lista dei protagonisti destinati a riempire la scena privatistica, con l’esclusione del cfl e l’inclusione di un contratto di inserimento; e, quanto alla comparsa, allungava la lista preesistente, con l’aggiunta di un timido tirocinio estivo. Almeno a livello di intento coltivato dal legislatore delegato, l’apprendistato avrebbe dovuto acquistare un ruolo egemone, in virtù di una duplice linea operativa: “interna”, esaltandone la vocazione formativa, con a premessa l’emarginazione del cfl; ed “esterna”, combattendone la deriva occupazionale, con l’introduzione del contratto di inserimento.
39 X. XXXXXXXXX, Contratti formativi e competenze normative delle Regioni, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Mercato del lavoro: riforma e vincoli di sistema, cit., pag. 515.
40 Così X. XXXXXXXX, Il contratto di inserimento, in X. XXXXXX (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in X. XXXXXXX (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, Torino, 2007, vol. II, t. 2, pag. 1955 e segg.
41 Sempre nel contesto della riforma del 2003 cfr. X. XXXXXXXX, La revisione dei tirocini formativi e di orientamento. Ancora una riforma solo annunciata, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Mercato del lavoro: riforma e vincoli di sistema, cit., pag. 461.
a) La linea operativa “interna”: l’apprendistato a prevalente vocazione formativa. Dando il benservito al cfl laddove contava di più, il Governo lo addolciva col limitarlo per il futuro ad un uso riservato esclusivamente al settore pubblico, peraltro senza farsi carico di gestire il periodo transitorio, lasciato ad un accordo interconfederale del novembre 2003 (art. 89, co. 9, secondo periodo). Quel cfl, uscito dall’intervento dell’art. 16, l n. 451/1994, scisso in un duplice sotto-tipo “forte” e “leggero”, mantenuto forzatamente unito sotto lo stesso tetto, risultava difficilmente compatibile coll’ambizioso progetto perseguito: un sistema d’istruzione integrato ed un contratto formativo unico. Il sistema era quello “duale”, con possibile passaggio interno tramite il credito corrispondente alla qualifica acquisita all’interno di ciascun canale, che, già prefigurato dalla c.d. riforma Berlinguer, era stato rilanciato dalla c.d. riforma Moratti, con la discussa anticipazione a 13/14 anni della scelta fra licei e formazione professionale; ed il contratto era l’apprendistato, trasformato in un passepartout formativo di cui potersi servire “in tutti i settori di attività”, secondo una triplice tipologia, concepita e battezzata nel co. 1 dell’art. 47, d.lgs. n. 276/2003 con riguardo alla qualifica finale: l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (c.d. “qualificante”) - usabile da un giovane fra i 15 ed i 18 anni - una “qualifica professionale” definita dalle Regioni “ai sensi della l. 28 marzo 2003, n. 53” (art. 48); l’apprendistato professionalizzante - utilizzabile da un soggetto fra i 18 ed i 29 anni, col termine iniziale ridotto a 17 anni per il possessore di una qualifica professionale ai sensi della l. n. 53/2003 - una “qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e la acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali” (art. 49); l’apprendistato per l’alta formazione (cd. specializzante) - usufruibile da un soggetto fra i 18 e i 29 anni - un titolo di studio di livello secondario o universitario o di alta formazione (art. 50).
Al che faceva seguito, nel co. 2 dello stesso art. 47, quale esplicito tratto in comune a tutti e tre i tipi, il recupero del numero massimo di apprendisti che un datore poteva assumere, non più del 100% dei lavoratori specializzati o qualificati in servizio (art. 2, co. 3, l. n. 25/1955, come aggiunto dall’art. 1, l. n. 424/1968); e, se non aveva o aveva meno di tre dipendenti specializzati o qualificati, fino a tre (art. 21, co. 1, l. n. 56/1987), con rinvio per l’artigianato alla l. 8 agosto 1985, n. 443. Se questo vincolo
numerico era ribadito, dato il suo chiaro scopo anti-abusivo, venivano abrogati, invece, dal successivo art. 85, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 276/2003, quel residuo di controllo pubblico sull’avviamento degli apprendisti sopravvissuto fino ad allora, ma ormai del tutto obsoleto, cioè il previo semaforo verde dell’Ispettorato del lavoro (art. 2, co. 2, l.
n. 25/1955, come aggiunto dall’art. 1, l. n. 424/1968) e il peculiare procedimento di assunzione (art. 3, l. n. 25/1955).
Dietro la comune configurazione come “credito formativo per il proseguimento nei percorsi di istruzione e di istruzione e formazione professionale” (art. 51 d.lgs. n. 276/2003), la meta finale risultava diversificata in ragione della formazione necessaria per acquisirla. Da questa derivava, in prima battuta, la contrapposizione fra i primi due tipi (artt. 48 e 49) ed il terzo (art. 50), perché solo per quelli risultava del tutto coessenziale la formazione on the job; nonché, in seconda battuta, la stessa distinzione fra quei primi due apprendistati. Per cogliere quest’ultima distinzione, non era sufficiente considerare a sé la rispettiva meta finale che l’art. 48 indicava con la dizione forte di “qualifica professionale” e l’art. 49 con l’espressione “debole” di “qualificazione”; occorreva riconsiderarla alla luce dell’attività richiesta per conseguirla, che l’art. 48 rinviava alla regolamentazione regionale e l’art. 49 articolava sulla “formazione sul lavoro” e sull’“acquisizione di competenze di base”, con una formula che riecheggiava nella sostanza quella utilizzata dall’art. 16 l. n. 25/1955, “apprendimento pratico” e “insegnamento complementare”.
Il fatto è che la tipologia messa a punto dagli artt. 48 e 49 intendeva soddisfare l’esigenza formativa e occupazionale espressa dai giovani fra l’assolvimento dell’obbligo scolastico e l’ingresso sempre più ritardato al lavoro, affrontandola con una duplice ma convergente strategia. L’apprendistato ex art. 48 era previsto quale strumento adatto per completare subito il percorso formativo necessario per il soddisfacimento del relativo obbligo, con una collocazione “formale” nel sistema formativo; a sua volta, l’apprendistato ex art. 49 era predisposto quale mezzo adeguato per riprendere o recuperare in seguito un percorso formativo, con una collocazione “sostanziale” sul mercato intra- ed extra-aziendale.
E ne sarebbe seguita una razionalizzazione delle fasce d’età coperte: nei due contratti formativi preesistenti si prolungavano e si sovrapponevano, con l’apprendistato arrivato ai 16-24/26 e il cfl ai 16/32 anni; mentre nei due tipi ex artt. 48
e 49, che li sostituivano, apparivano accorciate, sì da poter essere poste in sequenza, 15-18 e, rispettivamente, 18-29 anni; peraltro, senza risultare incompatibili, ben potendo, a’ sensi dello stesso art. 49, il primo tipo essere seguito dal secondo, con conseguente sommatoria dei rispettivi periodi, fino al massimo di 6 anni previsto per quest’ultimo.
Razionalizzazione, questa, destinata ad avere a coda una conseguente rivisitazione dei limiti minimi/massimi di durata previsti dalla legge: se, ieri, per un apprendistato praticabile fra i 16-24/26 valeva un minimo di 18 mesi ed un massimo di 4 anni, dato il suo carattere molti-uso, oggi, per il tipo ex art. 48, utilizzabile fra i 15/18 contava un unico limite, quale costituito da un massimo di 3 anni visto il suo rilievo tendenzialmente mono-uso, cioè con riguardo al completamento dell’obbligo formativo; ed ancora, se ieri per un cfl, usufruibile fra i 16 ed i 32 anni, vigeva un massimo di 12 per il modulo “debole” e 24 mesi per il modulo “forte”, oggi, per il tipo ex art. 49, risultava un minimo di 2 ma un massimo di 6 anni, essendo stato recuperato ad un ruolo prevalentemente formativo.
A riprova dell’esistenza di una parentela stretta fra i due tipi di apprendistato, c’era la disciplina prevista dall’art. 48 e ripresa alla lettera dall’art. 49: introdotta ex novo, come per il contratto in forma scritta, con indicazione della prestazione prevista, del “piano formativo individuale”, della qualifica da acquisire; o ereditata, come il divieto del cottimo ed il regime del recesso datoriale esercitabile solo per giusta causa o giustificato motivo nel corso del rapporto, ma a’ sensi dell’art. 2118 c.c., al termine dello stesso.
Dopo di che il legislatore pensava bene di cavarsela tramite un rinvio ad altre fonti, con una chiara e netta preferenza accordata alla normativa regionale rispetto alla contrattazione collettiva, certo sotto l’influenza della riforma costituzionale del 200142. Toccava alle Regioni regolare i profili professionali dell’apprendistato, seguendo percorsi diversi, a seconda del tipo considerato, d’intesa coi Ministri competenti oppure con le xx.xx. (qui comprensivo sia delle associazioni datoriali, sia delle
42 X. XXXXXXX, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in Arg. Dir. Lav., 2006, pag. 1496 e segg.; X. XXXXXXX, Stato, Regioni e parti sociali nella regolazione dell’apprendistato: recenti sviluppi, in Dir. lav. merc., 2006, n. 1, pag. 193; X. XXXXXXXX, L’apprendistato tra sussidiarietà verticale e orizzontale, in Boll. Adapt, 2005, n. 50; v. anche i riferimenti di cui alla nota 71.
organizzazioni sindacali) comparativamente più rappresentative sul piano regionale (art. 48 e, rispettivamente, art. 49); nonché rispettando criteri e principi direttivi anche qui mutuati letteralmente dall’uno all’altro articolo, tranne alcuni significativi scostamenti. Ciò rende opportuno offrire un elenco comparato di tali criteri, sì da distinguere quelli condivisi e quelli no: definire “la qualifica professionale” a’ sensi della l. n. 53/2003 (art. 48); introdurre un monte ore di “formazione esterna od interna all’azienda congruo al conseguimento della qualifica professionale”, rispettando gli standard minimi di cui alla stessa l. n. 53/2003 oppure di “formazione formale interna o esterna all’azienda di almeno 120 ore per anno, per la acquisizione di competenze di base e tecnico-professionali” (art. 48 e, rispettivamente, art. 49); prevedere il rinvio ai contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale, aziendale da xx.xx. comparativamente più rappresentative per la determinazione, anche all’interno degli enti bilaterali, delle “modalità di erogazione della formazione aziendale nel rispetto degli standard generali fissati dalle regioni competenti” oppure, delle “modalità di erogazione e di articolazione della formazione interna ed esterna alle singole aziende, anche in relazione alla capacità formativa interna rispetto a quella offerta dai soggetti esterni (art. 48 e, rispettivamente, art. 49); “il riconoscimento sulla base dei risultati conseguiti all’interno del percorso di formazione, esterna ed interna all’impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali” (artt. 48 e 49); “la registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo” (artt. 48 e 49); “la presenza di un tutore aziendale con formazione e competenze adeguate” (artt. 48 e 49); la possibilità di sommare i periodi di apprendistato svolti secondo i tipi di cui agli artt. 48 e 49 (art. 49).
Era la differente collocazione, così come sopra richiamata, a dar ragione del perché la procedura per la regolazione regionale e la determinazione delle modalità di erogazione della formazione da parte della contrattazione collettiva fossero diverse per i due tipi di apprendistato: più “istituzionalizzate” (intesa coi Ministri competenti; contrattazione collettiva vincolata al rispetto degli standard generali fissati dalle regioni) per l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione; e, rispettivamente, più “partecipate” (intesa con le xx.xx.; contrattazione collettiva non vincolata), per l’apprendistato professionalizzante. Ma questa, a sua volta, era correlata a quella difformità nella rilevanza della rispettiva attività di
formazione già resa evidente dalla comparazione fra il rinvio alle Regioni di cui all’art. 48, co. 4, lett. a), con riguardo alla definizione della “qualifica professionale” a’ sensi della l. n. 53/2003; e, rispettivamente, l’immediato profilo offerto dall’art. 49, co. 1, con rispetto alla “qualificazione”, se pur sulla base della formazione necessaria per conseguirla. Difformità, peraltro, destinata a trovare piena conferma proprio nella diversa regolamentazione regionale dell’attività formativa, perché, come appena visto, diverso era sia il monte ore che doveva prevedere, sia il contenuto del rinvio che doveva effettuare alla contrattazione collettiva con riguardo alle modalità di erogazione.
Dall’intero quadro, l’apprendistato professionalizzante di cui all’art. 49 esce confermato come l’erede di quello tradizionale disciplinato dalla l. n. 25/1955; erede del de cuius, ma distinto e diverso da lui, ché nel frattempo tanta acqua era passata sotto i ponti. La formula dell’attività formativa dell’apprendista suonava simile, se pur non uguale, perché nella legge sull’apprendistato consisteva in un “addestramento pratico” tramite “una graduale applicazione al lavoro” cui doveva essere avviato, più un “insegnamento complementare” idoneo a fornire “le nozioni teoriche indispensabili all’acquisizione della piena capacità professionale” (art. 16, co. 1 e 2); mentre nell’articolo del decreto del 2003 constava di “una formazione sul lavoro” e, rispettivamente dalla “acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico- professionali” (art. 49, co. 1). Ma la finalità perseguita era ben diversa, visto che là era data dalla “qualifica” di operaio qualificato, secondo un “mestiere” dotato di una sua identità sul mercato del lavoro; mentre qui era costituita da una “qualificazione”, secondo un “tipo” fornito di una sua fisionomia nel sistema classificatorio del contratto collettivo di riferimento.
D’altronde l’art. 49 era sì l’erede, ma non diretto, bensì per tramite dell’art. 16, l.
n. 196/1997, di cui condivideva la durata della formazione teorica, calcolata in un monte di 120 ore annuali, ma non la dislocazione: se per questo la sede doveva essere esterna, come risultava implicitamente dall’aver elevato a condizione di applicabilità delle agevolazioni contributive la partecipazione degli apprendisti alle iniziative formative predisposte al di fuori dell’azienda; per quello, al pari dell’art. 48, poteva essere sia interna che esterna, secondo un formula destinata a durare.
b) La linea operativa “esterna”: il contratto di inserimento a prevalente vocazione occupazionale. Se della strategia complessiva tradotta nel decreto legislativo, quella fin’ora vista costituiva la linea “interna”, intesa a valorizzare la finalità formativa dell’apprendistato, con una riforma della sua disciplina che aveva a pre-condizione la fine prematura del cfl; resta da considerare l’altra, l’“esterna”, tesa ad alleggerire la pressione occupazionale tradizionalmente esercitata sull’apprendistato, divertendola su un contratto apprestato ad hoc43. É un giudizio scontato quello per cui a dividersi l’eredità del cfl ex l. n. 451/1994 sarebbero stati l’apprendistato professionalizzante che ne avrebbe assorbito il modulo “forte” e il contratto di inserimento che ne avrebbe sostituito quello “leggero”; ma, almeno con riguardo a tale ultimo contratto, vero fino ad un certo punto.
Senza dubbio la definizione offerta del tipo “leggero” dall’art. 16, lett. b), l. n. 451/1994, per cui era “mirato ad agevolare l’inserimento professionale mediante un’esperienza lavorativa che consenta un adeguamento delle capacità professionali al contesto produttivo ed organizzativo” veniva riecheggiata da quella dell’art. 54, co. 1: “Il contratto di inserimento è un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro”. Xxxxxx, si dava per scontata l’esistenza di conoscenze professionali pregresse, presunte implicitamente come basse, qui, stando ad un’opinione corrente, anche elementari; e si perseguiva la finalità non di migliorarle od accrescerle, bensì solo di adeguarle o adattarle alle prestazioni richieste sulla base di un piano, che, introdotto a
43 X. XXXXXXXX, Il contratto di inserimento, in X. XXXXXX (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione. Commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, cit., pag. 289 e segg.; M. DELL’OLIO, Il contratto di inserimento, in AA.VV., Come cambia il mercato del lavoro, cit., pag. 385 e segg.; X. XXXXXXXXX, Il contratto di inserimento, in AA.VV., Il nuovo mercato del lavoro. D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Bologna, 2004, pag. 603 e segg.; X. XXXXXXXX, Il contratto di inserimento al lavoro: profili strutturali e funzionali del nuovo modello negoziale, in AA.VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxx, Padova, 2005, 163 e segg.; P. LOI, Il contratto di inserimento, in X. XXXXXXX, P.A. VARESI, Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, cit., pag. 509 e segg.; X. XXXXXXXX, Contratto di inserimento (voce), in Dig. Comm., vol. IV, Aggiornamento *****, 2009, pag. 150 e segg.; da ultimo v. X. XXXXXXXXX, Contratto di inserimento, in X. XXXXXX (a cura di), Il mercato del lavoro, in
X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. VI, Padova, in corso di pubblicazione.
suo tempo per il primo come “progetto formativo”, risultava ora esteso al secondo come “progetto individuale di inserimento”, peraltro, qui, tramite rinvio ad un contratto collettivo di livello nazionale o territoriale o aziendale circa il modo con cui definirlo, anche tramite ricorso ad un Ente bilaterale44.
Niente di nuovo sotto il sole. Non esattamente, perché risultava ben diverso l’universo di riferimento: per il contratto cfl ex art. 16, l. n. 451/1994 era costituito solo da “soggetti” di 16/32 anni; mentre per il contratto di inserimento veniva ora dato da un mix di lavoratori connotabili tutti come “deboli” per essere difficilmente collocabili sul mercato del lavoro, secondo un elenco che ai primi due posti recuperava i “soggetti” di 16/32 anni, suddivisi in “soggetti” di 18/29 anni e “disoccupati di lunga durata” di 29/32 (art. 54, co. 1). Così, un confronto fra il modulo “leggero” del cfl ed il contratto di inserimento, condotto solo in base ai loro contenuti, avrebbe mostrato una sostanziale continuità; allargato, invece, ai destinatari, avrebbe potuto far sospettare una trasformazione della comune finalità di “recupero”: non più solo di soggetti giovani, cui permettere di maturare una prima esperienza lavorativa; ma di lavoratori emarginati nel mercato del lavoro per qualsiasi ragione, di età, condizione lavorativa, sesso, stato di salute, cui assicurare comunque un’occupazione pur temporanea45.
Veniva ripresa e ribadita la forma scritta, a pena di conversione in contratto a tempo indeterminato (art. 56); ma veniva modificata la durata, che per il modulo “leggero” del cfl era solo massima, 12 mesi, mentre per il contratto di inserimento, dichiarato non rinnovabile fra le stesse parti, era sia minima, 9, sia massima, 18 mesi (art. 57). E se, come l’apprendistato, anche il cfl era sottratto al regime sul contratto a termine, a’ sensi dell’art. 10, co. 1, lett. b) e c), d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, il contratto di inserimento vi era soggetto: questo, peraltro, solo nel limite in cui quel regime legislativo risultasse compatibile, e sempreché un contratto collettivo nazionale o territoriale (sottoscritto dalle xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) o aziendale (siglato dalle rsa ex art. 19 St. lav. o dalle rsu) non fosse stato di
44 X. XXXXXXXXXX, L’avvio del contratto di inserimento tra contrattazione collettiva e chiarimenti ministeriali, in Dir. Rel. Ind., 2005, n. 1, pag. 234.
45 G. SPOLVERATO, Un contratto di inserimento per un ingresso guidato nel mercato del lavoro, in
X. XXXXXX, M. G. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Contratti di lavoro flessibile e contratti formativi, cit., pag. 226 e segg.
contrario avviso (art. 58, co. 1).
c) La convergenza delle discipline dei due contratti. A questo punto, però, riesce interessante notare come il confronto del regime proprio dell’uno e dell’altro contratto ci restituisca un risultato largamente convergente. Partendo dal sistema sanzionatorio, era evidente come l’art. 53, co. 3 sul contratto di apprendistato e l’art. 55, co. 5 sul contratto di inserimento, preferissero una sanzione soft rispetto a quella hard della conversione in contratto a tempo indeterminato. L’art. 53, co. 3 colpiva l’“inadempimento nella erogazione della formazione” che fosse tale da essere addebitato in toto al datore di lavoro e da impedire il raggiungimento degli obbiettivi definiti per i tre tipi di apprendistato dagli artt. 48, co. 2, 49, co. 1 e 50, co. 1, con la sanzione del versamento dei “contributi agevolati maggiorati del 100 per cento”. Mentre, a sua volta, l’art. 55, co. 5 reprimeva le “gravi inadempienze46 nella realizzazione del progetto individuale di inserimento il datore di lavoro” con l’obbligo di “versare la quota dei contributi agevolati maggiorati del 100 per cento” (art. 55, co. 5).
Qui c’è solo da ribadire la valutazione di massima positiva espressa a suo tempo sull’art. 8, co. 8, l. n. 407/1990, perché elevare la conversione in contratto a tempo indeterminato a sanzione unica, sempre e comunque spendibile, significa far propria la premessa tutta ideologica che qualsiasi contratto non a tempo indeterminato e pieno costituisca una sorta di devianza da riprendere e correggere ogniqualvolta possibile a tutto vantaggio del lavoratore. Il che rappresenta qui un’autentica forzatura, perché la conversione porta con sé la perdita della finalità formativa, pure quando potrebbe ancora essere coltivata e soddisfatta, una volta ripresa e corretta l’eventuale inadempienza datoriale.
A sua volta, il quadro comparativo degli “incentivi” previsti per i due contratti, apprendistato ed inserimento, rivelava una sostanziale uniformità, a cominciare da
46 L’aggettivo “gravi” ha indotto a pensare che “non dovrebbe bastare… una divergenza non lieve degli obblighi previsti dal progetto di inserimento, qualora si accerti in concreto che il contratto abbia raggiunto il suo scopo, che è quello di un ingresso guidato nel mondo del lavoro”: X. XXXXXXXXXX, Il progetto individuale di inserimento e le sanzioni, in X. XXXXXX, M. G. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Contratti di lavoro flessibile e contratti formativi, cit., pag. 234.
quelli “salariali” e “normativi” garantiti negli stessi termini e modi dai co. 1 e 2 degli artt. 53 e 59, scritti gli uni a ricalco degli altri. Il sotto-inquadramento poteva essere effettuato per entrambi, fino a due livelli al di sotto di quello posto come l’obbiettivo cui era finalizzato il contratto di apprendistato o cui era preordinato il progetto d’inserimento: un dato che era già scontato per il regolamento collettivo dell’apprendistato; ma non per il regime legislativo (art. 16, co. 3, l. n. 451/1994) e collettivo del cfl che lo limitava ad un solo livello. Sicché, qui, il contratto di inserimento segnava un punto a suo favore rispetto al cfl, potendo far valere un sotto- inquadramento non di uno, ma di due livelli.
Pure il non computo nei “limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti” del personale assunto tramite loro, scattava per entrambi. Un vantaggio, questo, acquistato dall’apprendistato in forza dell’art. 21, co. 7, l. n. 56/1987, se pur senza l’inciso ora aggiunto, “fatte salve specifiche previsioni di legge o di contratto collettivo”, e mantenuto in seguito; ottenuto, all’inizio, anche dal cfl, in base alla l. n. 864/1984, ma perso per l’art. 1, l. 11 maggio 1990, n. 108, se pur limitatamente all’art. 18 St. lav. Xxxxxx, qui, il contratto di inserimento segnava un altro punto a suo favore sempre con riguardo al cfl, potendo far pesare il non computo del lavoratore inserito o reinserito pure nel calcolo del limite numerico previsto dall’articolo statutario.
Tutto bene, se non fosse che il legislatore del 2003 continuava a dimenticare come a suo tempo Corte cost. 12 aprile 1989, n. 18147 avesse sì giustificato il non computo degli apprendisti, ma solo pro tempore, con riguardo ad un stato occupazionale particolarmente grave; tanto da invitarlo contestualmente a trovare dell’altro, meno dirompente rispetto allo statuto protettivo del lavoro subordinato. Per scusare il nostro legislatore, verrebbe da dire che, mentre quello stato diventava cronico, si era cercato e tentato in lungo ed in largo, senza riuscire a far saltare fuori niente di meglio.
Quanto agli “incentivi contributivi”, anche qui con piena consonanza, l’art. 53, co. 3 e l’art. 59, co. 3, “in attesa del sistema degli incentivi all’occupazione” si rifacevano alle discipline vigenti. Per l’art. 53, co. 3, “restano fermi gli attuali sistemi
47 In Mass. Giur. Lav., 1989, pag. 132 con nota di X. XXXXXXXX e in Dir. lav., 1989, II, pag. 211, con nota di M. SALA CHIRI.
di incentivazione economica”, con una condizione “sospensiva” di ben difficile realizzazione perché la sua erogazione sarebbe rimasta “tuttavia soggetta alla effettiva verifica della formazione svolta” secondo le modalità decretate dal Ministro del lavoro d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Mentre l’art. 59, col co. 3, estendeva gli incentivi economici già goduti dal cfl al contratto di inserimento, ma escludendo esplicitamente proprio quelli menzionati per primi nell’elenco dei potenziali destinatari, cioè “i soggetti di età compresa tra i diciotto e i ventinove anni”: per tener conto del limite posto dall’ordinamento comunitario, ma, al tempo stesso, per ridurre se non eliminare il rischio di un contratto di inserimento elevato a concorrente pericoloso dell’apprendistato professionalizzante. E, poi, col co. 4, lo stesso art. 53 manteneva ferma la disciplina previdenziale e assistenziale prevista dalla l. n. 25/1955 e successive modificazioni.
10. Segue. il lungo intermezzo.
Confermando l’opinione per cui l’Italia sarebbe ricca di discreti architetti, la c.d. legge Xxxxx guardata in pianta dava una qualche idea di grandezza, con quell’apprendistato a triplice navata, che s’immaginava già affollato di giovani praticanti. Ma, poiché sarebbe al tempo stessa povera non solo di buoni ingegneri, ma anche di fidati geometri, non era prevedibile la durata richiesta dall’esecuzione di un’opera che, già di per sé estremamente complessa, dipendeva dalla preventiva messa a regime della l. n. 53/2003 e contava sull’utilizzazione di una ricca ed articolata serie di appalti alla legislazione regionale ed alla contrattazione collettiva48. Del che la legge delegata mostrava piena consapevolezza, col prevedere, all’art. 47, co. 3, che, in attesa di una compiuta attuazione della disciplina prevista, “continua ad applicarsi la vigente normativa in materia”. Saggia precauzione verrebbe da dire, sempreché non si trasformi in una copertura dell’atavica inerzia che attarda la realizzazione di una qualsiasi riforma, con la conseguenza di rivederla, ripensarla, ritoccarla qua e là in maniera casuale, a risposta di questa o quella emergenza, prima ancora di averla attuata. Cosa, invece, puntualmente verificatasi.
48 X. XXXXXXX, Il lungo processo per la messa a regime del nuovo apprendistato, in Dir. Rel. Ind., 2006, n. 1, pag. 195 e segg.
A poco più di un anno dalla riforma era cominciata un’opera di manutenzione ordinaria, con l’inserzione in qualche legge, come tipicamente il “Collegato Lavoro”, di una disposizione correttiva od integrativa del decreto del 2003. Di manutenzione ordinaria si poteva parlare già con riguardo al d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, che, all’art. 19, sopprimeva il divieto di adibire l’apprendista “a lavori di manovalanza e di serie” che, se rispettato, avrebbe reso difficile se non impossibile il sotto-inquadramento di due livelli permesso apertis verbis (modificando la lett. b, co. 1, art. 85, d.lgs. n. 276/2003); ed, all’art. 11, precisava la sanzione prevista per l’“inadempimento nella erogazione della formazione” richiesta per i tre tipi di apprendistato (riscrivendo il co. 3 dell’art. 53, d.lgs. n. 276/2003): la prevista “quota dei contributi agevolati” da corrispondere doveva essere intesa come costituita dalla “differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato”; e la maggiorazione del 100% escludeva “l’applicazione di qualsiasi altra sanzione prevista in caso di omessa contribuzione”.
Solo che questa non bastava, perché la riforma faceva fatica a decollare per la carenza delle fonti che avrebbero dovuto completarla: così l’apprendistato “qualificante” di cui all’art. 48, visto lo stallo della c.d. riforma Xxxxxxx, prolungatosi anche dopo il d.lgs. 17 ottobre 2005, n. 226, che conteneva le norme generali e fissava i livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo di educazione e formazione; così, ancora l’apprendistato “professionalizzante” di cui all’art. 49, visto il diffuso astensionismo regionale. Certo potevano avvalersi della l. n. 25/1955, come modificata ed integrata, peraltro con tutta la problematica relativa alla interazione fra vecchia e nuova disciplina in progress; ma non senza soffrire per questa provvisorietà.
Occorreva un’attività di manutenzione straordinaria a cominciare dall’apprendistato più importante e frequentato, quello “professionalizzante”, come fu fatto con l’aggiunta di un co. 5-bis all’art. 49 (art. 13, co. 13-bis del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella l. 14 maggio 2005, n. 80). Di diritto e di fatto si creava un bypass, per cui il flusso destinato a disciplinare quel tipo di apprendistato avrebbe potuto passare attraverso il canale alternativo costituito dalla contrattazione collettiva condotta dalle xx.xx. comparativamente più rappresentative, fin tanto che fosse durata l’occlusione regionale. Il che sapeva tanto di intervento da
pronto soccorso, destinato ad essere scusato per il suo stesso carattere urgente, pur quando poco rispettoso del protocollo ufficiale, come in casu, dove dava corpo ad un esproprio del potere legislativo regionale.
Nel mentre la contrattazione collettiva si faceva carico della transizione e la prima legislazione regionale si affacciava sulla scena con una faccia sperimentale, iniziava la corsa alla Corte costituzionale, aperta dalle Regioni e poi continuata anche dalla Presidenza del Consiglio (una volta che cominciarono a vedere la luce le leggi regionali) con la conseguente emersione di una giurisprudenza ben presto attestatasi su una linea precisa. Secondo quella che ne costituiva la premessa, l’apprendistato era posto all’incrocio di competenze statali e regionali, ripartite a’ sensi dell’art. 117 Cost.: spettava allo Stato, in via esclusiva, normare il contratto, ivi compresa la formazione “interna” o aziendale, per ricadere tali materie dentro l’“ordinamento civile”, elencato al co. 2, lett. l); spettava allo Stato e alle Regioni, in via concorrente, disciplinare “l’istruzione” e la “tutela e sicurezza del lavoro”, per essere tali materie menzionate al co. 3; spettava, in via residuale, alle Regioni regolare la formazione “esterna” o extra aziendale, per rientrare tali materie nell’ambito della “istruzione e formazione professionale” rinviata dal co. 3 al co. 4. Ma tale ripartizione doveva fare i conti con la forte interferenza esistente fra competenze statali esclusive con riguardo alla formazione interna e regionali residuali con rispetto alla formazione esterna, sì da far escludere che Stato e Regioni potessero procedere in totale separatezza, con interventi distinti e non coordinati; e far concludere, invece, che dovessero far ricorso ai già collaudati criteri della prevalenza e della leale collaborazione (Corte cost. n. 50/2005; n. 406/2006; n. 24/2007)49.
49 Corte cost. 28 gennaio 2005, n. 50, in Giur. cost., 2005, n. 1, pag. 395 con nota di X. XXXXXXXXXXX, Principi fondamentali in materia di potestà concorrente e delegazione legislativa: una conferma dalla Consulta e ivi, 4, pag. 3370, con nota di I. PELLIZZONE, La «concorrenza di competenze» ovvero la formazione professionale tra ordinamento civile e competenze regionali; Corte cost. 7 dicembre 2006, in Foro amm. CDS, 2006, n. 12, pag. 3265 e segg.; Corte cost. 6 febbraio 2007, n. 24, in Dir. Prat. Lav., 2007, pag. 746. In dottrina, per un commento alla giurisprudenza costituzionale in materia v. X. XXXXXX, X. XXXXXX, Il conflitto tra Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale: la recente giurisprudenza tra continuità e innovazione, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, pag. 556.
Sulla problematica relativa alla coesistenza fra legislazione statale e regionale v. X. XXXXXXXX, la
Solo che la riforma non riusciva a prendere quota, sì da essere rivisitata dal Protocollo del 23 luglio 2007, poi “recepito” da quella l. 24 dicembre 2007, n. 247, che delineava la correzione di rotta destinata ad essere confermata nella successiva attività di manutenzione straordinaria del d.lgs. n. 276/2003: all’art. 1, co. 30, prevedeva una delega finalizzata al “riordino” della “normativa in materia di a) servizi per l’impiego;
b) incentivi all’occupazione; c) apprendistato”; e, al successivo co. 33, la sua attuazione con riguardo all’apprendistato, “previa intesa con le regioni e con le parti sociali”, secondo puntuali principi e criteri direttivi già proiettati oltre la legge Biagi50. Senza dubbio questo art. 1, co. 33, l. n. 247/2007 ha influito sull’art. 23, l. 6 agosto 2008, n. 133 (di conversione con modifiche del d.l. 25 giugno 2008, n. 112), destinato a far manutenzione ordinaria e straordinaria rispetto all’apprendistato professionalizzante dell’art. 49 e specializzante dell’art. 50, d.lgs. n. 276/200351. Era ordinaria sia quella sull’art. 49, co. 3, mantenendo la durata “massima” di 6 anni ed eliminando la “minima” di 2 anni per l’apprendistato professionalizzante, sì da permettere alla contrattazione di tener conto di un crescente numero di giovani qualificabili in tempi più brevi, c.d. xxxx apprendisti, ferma restando la competenza regionale a dire l’ultima parola (Corte cost. 10-14 maggio 2010, n. 176)52 (art. 23, co.
disciplina dell’apprendistato professionalizzante nella legislazione regionale, in Lav. Dir., 2007, pag. 175; X. XXXXXXX, Rapporti di lavoro, finalità formative e legislazione regionale, in Lav. Dir., 2007, pag. 493; X. XXXXXXXXX, Un dialogo pluriordinamentale: Regioni e parti sociali tra sperimentazioni e “messe a regime” del nuovo apprendistato professionalizzante, in X. XXXXXXXX, X. XXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXX (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Napoli, 2006, pag. 153; X. XXXXXXX (a cura di), La legislazione regionale in materia di lavoro: studi preparatori, in Quaderni XXXXX - Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; D. COMANDÈ, Il diritto del lavoro al “plurale”. Regioni e modelli regolativi differenziati nell’apprendistato professionalizzante, in Dir. Rel. Ind., 2008, pag. 997 e segg.
50 Cfr. X. XXXXXXXX, Il riordino della disciplina dell’apprendistato, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Il Collegato lavoro 2008, Milano, 2008, pag. 47 e segg.
51 V. G. XXX, Un apprendistato in cerca d’autore, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, P. A. VARESI (a cura di), Previdenza, mercato del lavoro, competitività. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247 e al decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, Torino, 2008, pag. 275; X. XXXXXXXXXX, L’apprendistato professionalizzante e l’apprendistato di alta formazione dopo la legge n. 133 del 2008, in Dir. Rel. Ind., 2008, n. 4, pag. 1050.
52 Corte cost. 14 maggio 2010, n. 176, in Guida Lav., 2010, n. 23, pag. 12 con commento di X. XXXXXXXXXX, L’apprendistato professionalizzante dopo la sentenza n. 176/2010 della Consulta; in Dir. Relaz. Ind., 2010, n. 2, pag. 448 con nota di X. XXXXXXXXX, La disciplina dell'apprendistato
1, d.l. n. 112/2008); sia quella sull’art. 50, co. 3, inserendo fra i titoli di alta formazione conseguibili con l’apprendistato specializzante “i dottorati di ricerca” (art. 23, co. 4).
Ben più significativa e rilevante risultava l’attività di manutenzione straordinaria effettuata da quello stesso art. 2353. Il suo co. 2 aggiungeva un co. 5-ter all’art. 49 sull’apprendistato professionalizzante: “In caso di formazione esclusivamente aziendale non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo”. Ciò significava tracciare lungo l’unica via già riservata alle Regioni una linea netta e continua, sì da creare una doppia corsia, quella della formazione “interna” privata, percorribile a nome dello Stato dalla contrattazione collettiva e, rispettivamente, quella della formazione “esterna” pubblica, percorribile dalle Regioni. Sicché del tutto prevedibile e scontata apparve la chiamata in causa della Corte costituzionale da parte delle stesse Regioni, per violazione in primis dell’art. 117 Cost., cui Corte cost. 14
professionalizzante dopo la sentenza della Corte costituizonale n. 176 del 2010; ivi, pag. 1109 con nota di
X. XXXXXXXXX, La formazione aziendale in una recente pronuncia della Corte Costituzionale in materia di apprendistato professionalizzante; in Mass. Giur. Lav., 2010, pag. 515 con nota di I. XXXXXX, Il nuovo intervento della Corte Costituzionale sulla ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni in materia di apprendistato; in Riv. It. Dir. Lav., 2010, II, pag. 1070 e segg. con nota di X. XXXXXXXX, Apprendistato professionalizzante: la leale collaborazione impossibile (per ora), ivi, pag. 1089 e segg. con nota di X. XXXXXXXXXXX, Stato, regioni, autonomia privata nell’apprendistato professionalizzante; ivi, pag. 1099 e segg. con nota di X. XXXXXXXXX, La formazione aziendale nell’apprendistato ex art. 49, comma 5-ter, d.lgs. n. 276/2003 dopo la sentenza n. 176/2010 della Corte Costituzionale; in Riv. Giur. Lav., 2010, II, pag. 644 e segg. con nota di X. X’XXXXXX, Ancora una pronuncia della Corte Costituzionale sul riparto di competenze fra Stato e Regioni in tema di apprendistato.
53 Su tale disposizione v. X. XXXXXXXX, La formazione in apprendistato: in attesa del riordino maggiori competenze all’autonomia collettiva, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla legge n. 133/2008: lavoro privato, pubblico e previdenza, Milano, 2009, pag. 495 e segg.
maggio 2010, n. 176 diede sostanzialmente ragione.
Certo la motivazione non brillava per chiarezza e per coerenza; ma, si sa, non poteva essere letta come se fosse soggetta alla stessa deontologia ermeneutica di una ordinaria, perché finalizzata non tanto a giustificare la fondatezza, quanto a spiegare la portata della pronuncia. D’altronde vi ritornava l’argomentazione ormai consolidata, per cui la formazione nella sua duplice variante, “interna” (aziendale) ed “esterna” (extra-aziendale), era unita da una stretta ed inscindibile interrelazione, sì da non poter essere regolata senza una previa coordinazione fra i titolari delle rispettive competenze, fino a trovare la sua espressione più alta nella previa intesa.
La pronuncia costituiva una perfetta esemplificazione di una sentenza di accoglimento manipolativa: operazione chirurgica, capace di salvare la vita al paziente, se pur a costo di sacrificarne estetica e funzionalità. L’asportazione delle parti del co. 5-ter riportate sopra in corsivo permetteva una lettura coordinata dei co. 5 e 5- ter, così amputato, per cui la formazione professionale veniva sì restituita in toto alla competenza della Regione; ma in esclusiva per quella “esterna” e in condivisione con la contrattazione collettiva delegata dallo Stato per quella “esclusivamente aziendale”. Da qui la necessità di ricorrere a quella misura salvifica della leale collaborazione, destinata, però, a fare i conti con la sopravvivenza di una duplice lista, nei co. 5 e 5-ter non coincidente con quel che poteva contenere la disciplina regionale e, rispettivamente collettiva, pur se destinato ad incidere sulla stessa formazione interna.
Della manutenzione straordinaria tentata dall’art. 23, l. n. 133/2008 questa rappresentava solo la parte attinente all’apprendistato professionalizzante, ma ce n’era un’altra, meno importante, peraltro destinata a maggior fortuna, riguardante l’apprendistato specializzante. Il suo co. 4 aggiungeva al co. 3 dell’art. 50 un doppio periodo, per cui “In assenza di regolamentazioni regionali l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le università e le altre istituzioni formative. Trovano applicazione, per quanto compatibili, i principi stabiliti all’articolo 49, comma 4, nonché le disposizioni di cui all’art. 53”. Debitamente contestato dalle Regioni per violazione della competenza loro spettante, il comma veniva promosso da quella stessa Corte cost. n. 176/2010, che aveva bocciato il co. 5-ter dell’art. 49: qui appariva del tutto ragionevole rimediare al ritardo nel dar corso all’apprendistato, introducendo un
meccanismo destinato a dar vita ad un regolamento “cedevole” a fronte di quello regionale che fosse eventualmente varato in seguito.
A riconsiderarla nella sua interezza, quella qui definita come una attività di manutenzione straordinaria si rivelava una vera e propria ristrutturazione della riforma delineata con il d.lgs. n. 276/2003, peraltro sotto la stretta di una situazione vissuta come emergenziale di per sé sufficiente a privarla della necessaria sistematicità; ma che lasciava intatta la triplice tipologia dell’apprendistato. Vi era sottesa la convinzione che sarebbe bastato farla partire, questa riforma, per vederla funzionare a pieno regime; ma poiché le Regioni latitavano, la sola cosa da fare era affidarne la responsabilità alla contrattazione collettiva, rivelatasi da sempre ben più pronta ed accurata: cosa, questa, che, in effetti, avrebbe mostrato di funzionare proprio con riguardo all’apprendistato professionalizzante destinato a sostituire progressivamente quello di cui alla l. n. 196/1997. Ma bisognava inventarsi una qualche copertura rispetto alla possibile contestazione fatta Costituzione alla mano, col confezionare la programmata “espropriazione” come non definitiva o se definitiva, come solo parziale. Non si atteggiava come definitiva la soluzione introdotta con l’aggiunta all’art.
49, sull’apprendistato professionalizzante, del co. 5-bis e riecheggiata nella aggiunta all’art. 50 sull’apprendistato specializzante di un penultimo ed ultimo periodo: si trattava sempre della predisposizione di un bypass finalizzato ad aprire un percorso artificiale, quale dato dalla contrattazione collettiva o dalle apposite convenzioni universitarie o simili, per tutto il tempo in cui quello naturale dell’intervento regionale restasse bloccato. Mentre si configurava come definitiva, solo parziale, la soluzione varata con l’aggiunta all’art. 49, del co. 5-ter, la quale, facendosi forte della pregressa giurisprudenza costituzionale, divideva la competenza in materia di formazione professionale a seconda che questa fosse “interna” o “esterna”, mantenendo la prima a capo della Regione e spostando la seconda a carico della contrattazione collettiva/Enti bilaterali, legittimandola in base ad un’esplicita delega dello Stato.
Se, però, il Giudice delle leggi poteva dar via libera al bypass, per il suo carattere emergenziale che lo rendeva provvisorio, non poteva fare altrettanto per lo scorporo a danno della Regione della competenza attinente alla formazione aziendale: esclusa una netta bocciatura, perché qui perdurava la stessa assenza regionale considerata altrove rilevante, non le restava che ripiegare su quella formula compromissoria costituita da
una condivisione Stato/Regioni della competenza controversa, destinata ad essere gestita secondo la regola aurea della leale collaborazione. Da qui il legislatore del T.U. avrebbe tratto la sua brava lezione, che, cioè, sarebbe bastato spostare a monte l’operatività di quella regola, con una previa intesa Governo/Regioni, per legittimare una ripartizione delle competenze in materia di formazione professionale tale da privilegiare rispetto a quella regionale, quella statale esercitata tramite la contrattazione collettiva e gli Enti bilaterali.
Questa stagione intermedia si sarebbe conclusa con la chiusura della vecchia partita giocata nel primo decennio del secolo e la riapertura della nuova destinata ad essere disputata nel secondo: quel d.lgs. n. 276/2003, ormai vicino a concludere un cammino rimasto lungamente confinato al testo cartaceo, conosce l’ultima attività a suo favore, in forza dell’art. 2, co. 155, l. 23 dicembre 2009, n. 191 e dell’art. 48, co. 8,
l. n. 183/2010; mentre il T.U., cioè il d.lgs. n. 167/2011, ormai prossimo ad iniziare un percorso circondato da un quasi unanime consenso, appare in piena gestazione, in ragione della riapertura dei termini della delega prevista dagli artt. 1, co. 30, lett. c) e 33, l. n. 247/2007, da parte dell’art. 46, co. 1, lett. b) della stessa l. n. 183/2010.
L’art. 2, co. 155, l. n. 191/2009, poteva ancora dirsi di manutenzione ordinaria, se pur dotata di particolare importanza, venendo ad aggiungere a quel co. 1 dell’art. 53, che limitava l’eventuale ricorso al sotto-inquadramento a non più di due livelli, un co. 1-bis, che concedeva alla contrattazione collettiva nazionale, territoriale o aziendale condotta dalle xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale di stabilire “la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale della retribuzione spettante ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle per il conseguimento delle quali è finalizzato il contratto”, graduandola “anche in rapporto all’anzianità di servizio”. Il che permetteva di corrispondere all’apprendista una retribuzione, nel corso del rapporto, calcolata in misura percentuale; e, una volta mantenuto in servizio al termine del rapporto, corrispondente ad un sotto-inquadramento fino a due livelli54.
Invece l’art. 48, co. 8 l. n. 183/201055 doveva considerarsi non tanto di
54 Per un quadro dello stato dell’arte alla vigilia della l. n. 183 del 2010, v. D. PAPA, Il contratto di apprendistato. Contributo alla ricostruzione giuridica della fattispecie, Milano, 2010.
55 X. XXXXXXXX, Il riordino della disciplina dell’apprendistato al secondo appello, in M.
manutenzione, quanto piuttosto di attivazione dell’apprendistato di cui all’art. 48 d.lgs.
n. 276/2003. Il d.p.r. 15 marzo 2010, n. 89, interveniva sul precedente d.lgs. n. 226/2005, modificandone la parte attinente ai percorsi liceali, ma lasciando invariata quella riguardante i percorsi di istruzione e formazione professionale. Il che permetteva l’avvio della riforma Xxxxxxx, con decorrenza dall’anno scolastico 2010/2011, così da dar ragione di quell’art. 48, co. 8, l. n. 183/2010, per cui “Fermo restando quanto stabilito dall’art. 48 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276
… l’obbligo di istruzione di cui all’articolo 1, comma 622, della l. 27 dicembre 2006,
n. 296 …, si assolve anche nei percorsi di apprendistato per l’espletamento del diritto- dovere di istruzione e formazione”. Il che, fra l’altro, risolveva il problema sorto all’indomani della c.d. mini-riforma Fioroni, l. 27 dicembre 2006, n. 296, che, all’art. 1, co. 622 innalzando la durata dell’obbligo scolastico a dieci anni e, conseguentemente, l’età di ammissione al lavoro da quindici a sedici anni, aveva fatto dubitare della perdurante possibilità di iniziare tale apprendistato a quindici anni; lo risolveva, col dar per scontato il mantenimento in toto dell’art. 48 a fronte di quell’obbligo prolungato dalla l. n. 296/2006.
Con la l. n. 183/2010 ormai in dirittura d’arrivo, l’intesa triangolare 27 ottobre 2010, intitolata significativamente “Per il rilancio dell’apprendistato”56 offrirà una diagnosi impietosa del decreto legislativo del 2003, compromessa dall’incerta ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, con ad aggravante la scarsa attenzione data alle parti sociali per via dei contratti collettivi e agli Enti bilaterali. Sicché il suo art. 46, co. 1, lett. b) che riapriva i termini della delega di cui all’art. 1, co. 30 l. n. 247/2007, da esercitare secondo i principi ed i criteri direttivi previsti del successivo co. 33, verrà alla luce in un clima di forte aspettativa di una riforma …della riforma.
11. Segue. l’apprendistato visto al 2009/10
XXXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Il collegato lavoro 2010: commentario alla Legge n. 183/2010, Milano, 2011, pag. 517 e segg.
56 I. XXXXXX, L'intesa tra il Governo, regioni, province autonome e parti sociali per il rilancio dell'apprendistato, in Riv. It. Dir. Lav., 2011, I, pag. 127 e segg.
Il tormentone legislativo faceva sospettare quel che emerge da quegli anni, cioè uno stato di sofferenza dell’apprendistato che rispecchia il grave deterioramento economico in corso, ma anche un mutamento dell’assetto produttivo del Paese. Stando a Isfol, Monitoraggio sull’apprendistato, XII Rapporto, elaborato sulla fonte Inps e pubblicato nel dicembre 2011, ma riferito al 2009/2010, lo “stato di avanzamento” dei tre tipi di apprendistato introdotti dal d.lgs. n. 276/2003 è assai diverso57: embrionale per il primo, relativo all’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (art. 48), peraltro sbloccato a livello nazionale da poco, che, sul finire del 2010, poteva vantare solo la conclusione da parte delle Regioni Lombardia e Veneto delle intese con le parti sociali e con i Ministeri competenti, nonché la predisposizione di un “Programma” ad opera della Provincia di Trento; avanzato per il secondo, c.d. professionalizzante (art. 49), che, a metà del 2011, poteva contare sulla regolazione per legge regionale, con annessa e connessa implementazione in tredici fra Regioni e Province autonome, e sulla regolazione in via sussidiaria tramite la contrattazione collettiva nelle altre; iniziale, per il terzo, c.d. specializzante, con cinque Regioni che ne hanno cominciato a promuovere la diffusione sul territorio nazionale, cioè, oltre le solite Lombardia e Veneto, più la Provincia di Trento, l’Xxxxxx-Romagna ed il Piemonte. Non deve sorprendere che a muoversi siano le Regioni del Nord, certo per la loro maggior spinta e capacità propulsiva, ma rafforzata qui dal continuare ad essere la pratica dell’apprendistato distribuita in maniera affatto ineguale: al 2010, 303.033 unità al Nord, con prevalenza del Nord-ovest sul Nord-est; 141.192 al centro; 97.649 nel Mezzogiorno.
Solo che, a dispetto dell’arricchimento sia pure in progress del prontuario contrattuale, il numero degli apprendisti, in crescendo dall’inizio del secolo, conosce nel triennio 2008/2010 un calo significativo: da 645.385 a 541.874, con una perdita netta di 100.000 unità. Il che riesce del tutto sintonico rispetto all’andamento occupazionale, perché se, dal 2008 al 2010, la percentuale degli apprendisti sugli occupati 15-29 anni cala dal 16,1% al 15,1%, i tassi di occupazione 15-64 e 15-29 anni
scendono dal 58,7% al 56,9% e, rispettivamente, dal 39,3 % al 34,5%.
É vero che a guardare dentro al trend negativo è facile accorgersi come
57 Per un commento sul X Rapporto Isfol che offre dati comparabili v. P. A. XXXXXX, Il monitoraggio dell’apprendistato: risultati e problemi aperti, in Dir. Rel. Ind., 2009, pag. 949.
l’apprendistato professionalizzante, a quanto visto l’unico effettivamente operativo del trio licenziato dal d.lgs. n. 276/2003, appare nel triennio in lieve crescita (da 367.054 a 399.275), mentre l’“altro”, cioè quasi esclusivamente quello di cui alla l. n. 196/1997 sopravvissuto a tutt’oggi, è in caduta (da 278.331 a 142.599): come risultato netto, al 2010, l’apprendistato professionalizzante finisce per costituire poco meno dei ¾ dell’intero ricorso al contratto di apprendistato. Certo questo “travaso” selettivo dal vecchio al nuovo regime dipende largamente dal fatto che il completamento del regime applicabile all’apprendistato professionalizzante sia stato sufficientemente rapido, affidato com’era ad una contrattazione collettiva, potenziata con una continua manutenzione straordinaria dell’art. 49, d.lgs. n. 276/2003; ma lo è stato sul filo di un sostanziale continuum col passato, visto che, così come attuato, l’apprendistato professionalizzante non differisce granché dal precedente tipo unico in un sistema che, lungi da divenire plurale con un afflato universalista, è rimasto monista con un respiro parziale e limitato. Il che ci conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’affinamento tecnico-giuridico dello strumento non è di per sé produttivo di un grande effetto sul suo uso che, nella fase positiva del ciclo, appare influenzato soprattutto dal costo normativo e economico, considerato in sé ed in confronto con l’intero armamentario contrattuale offerto dall’ordinamento; e, nella fase negativa, riesce condizionato pesantemente dall’andamento sfavorevole del mercato.
C’è dell’altro dietro il dato economico, cioè il cambiamento strutturale dell’assetto produttivo del nostro Paese, con un progressivo restringimento del terreno di insediamento tradizionale dell’apprendistato, riflesso in quello spostamento del peso relativo già rilevato con riguardo all’ultimo decennio del secolo scorso: nel triennio 2008-2010, l’artigianato va da più a meno di un 1/3 (dal 34% al 31,8%); mentre il settore manifatturiero sperimenta, per la prima volta, nel 2010, il “sorpasso “da parte del settore commercio e riparazioni, con un 23,2% contro un 24,3%, fatto, questo, che aiuta a spiegare il tasso crescente di partecipazione femminile, pari nel 2010 a circa il 43%.
A rimetterci, però, è il numero degli apprendisti, non quello delle trasformazioni in contratti a tempo indeterminato, che, nel 2010, raggiunge le 177.000, con un incremento rispetto all’anno precedente che appare maggiore per quelli sopra i 24 anni, occupati da imprese non artigianali rispetto a quelli sotto i 24 anni, impiegati in
aziende artigianali. Ma ciò non sembra sufficiente a provare il fatto che l’essere stati apprendisti continui ad assicurare confortevoli futuri occupazionali; fatto, questo, smentito da un’analisi longitudinale condotta mettendo a confronto due classi di apprendisti, riferite agli assunti nel 2000 e, rispettivamente, nel 2005. Dall’analisi comparata dei dati, emerge che, a distanza di cinque anni, la classe del 2005 presentava, nel 2010, una percentuale di non occupati pari al 22,2%, mentre la classe 2000, mostrava, nel 2005, solo una percentuale di 18,5.
Ci sono, però, due dati ulteriori, da mettere in evidenza. Il primo attiene all’età, perché un apprendista su tre ha più di 25 anni, oltre la metà più di 22 anni, solo un 3% è sotto i 18 anni, quindi quasi sempre ben al di là dell’età di adempimento dell’obbligo formativo, con un inevitabile ricorso all’apprendistato collocato sul continuum art. 16
l. n. 196/1997 e art. 49 d.lgs. n. 276/2003: trattasi, d’altronde, di un soggetto ancora poco scolarizzato, con il 52,4% con al massimo la licenza media, anche se c’è in atto un miglioramento, ben visibile nel numero crescente di laureati (5,5%), diplomati (33,6%), qualificati (8,5%). Il secondo concerne la durata effettiva, perché il 42,3% dei contratti di apprendistato dura meno di tre mesi, il 15,3% tra i quattro mesi e l’anno, il 30,5% fra uno e tre anni, il 12% oltre i tre anni; non solo, perché l’85,5% cessa prima della scadenza, per il 60% a causa di dimissioni e per il 24% a causa di licenziamento. Ora la durata conferma la larga utilizzazione per una finalità occupazionale, se pur a tener conto la crescente quota di prestazioni lavorative specie nel terziario, richiedenti una breve se non brevissima attività formativa; e, a sua volta, la cessazione anticipata riconducibile all’iniziativa dell’apprendista testimonia della sua relativa forza sul mercato del lavoro, se pur a scontare anche qui qualcosa, cioè della tendenza giovanile ad uscire e rientrare nella categoria dei c.d. NEET (Not in Education, Employment or Training), contando sulla rete famigliare.
Di pari passo con quello degli apprendisti, c’è anche il calo dei partecipanti ad attività formative delle Regioni, calcolati, per il 2010, in uno su quattro: prevalentemente adulti e divisi in ragione dei titoli di studio posseduti, con livello scolastico ben superiore a quello generale (un buon 45% di laureati e diplomati e con un 35,6% di soggetti con al più un titolo di licenza media); dato, quest’ultimo, che mette in evidenza come l’impegno formativo cresca col livello di scolarizzazione, sicché il sistema finisce per produrre l’effetto perverso, di aiutare l’“istruito” a
diventarlo sempre di più e a lasciare il “non istruito” così com’è.
12. Il T.U. (d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167). L’esercizio della delega ex art. 1, co. 30 e 33, l. n. 247/2007
Se l’art. 46, co. 1, lett. b), l. n. 183/2010 riapriva i termini della delega di cui all’art. 1, co. 30, l. n. 247/2007, non ne modificava i criteri ed i principi direttivi, quali espressi dallo stesso co. 30 con riguardo ai servizi per l’impiego, agli incentivi per l’occupazione, all’apprendistato; ma poi integrati dal successivo co. 33, con rispetto al solo apprendistato58. Rileggendoli, se, da un lato, l’uso del termine soft “riordino” in luogo di quello hard “riforma” per indicare il perimetro della delega ci suggerisce l’immagine di un legislatore del 2007 prudente, consapevole dell’impegno richiesto da un intervento esteso lungo l’intero fronte regolativo del mercato del lavoro; dall’altro, il fondamento e l’elenco dei principi e criteri direttivi della delega, ci restituiscono la sembianza di un legislatore smaliziato, intenzionato a procedere con passo deciso, ma su un percorso che gli è reso incerto e faticoso dall’esserne veri o presunti proprietari, in perenne conflitto, lo Stato e le Regioni.
Da qui la “blindatura” che riteneva di assicurare alla futura decretazione delegata, col configurarla, nel co. 30 - con rispetto a tutti e tre i temi elencativi - come ricompresa nella competenza esclusiva dello Stato, per essere finalizzata alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” di cui all’art. 117, co. 2, lett. m) Cost.; e col farla precedere, nel co. 33 - con riguardo all’apprendistato - da quella “previa intesa con le regioni”, oltre che con le parti sociali, elevata dalla giurisprudenza costituzionale a espressione più alta e completa della leale collaborazione richiesta a Stato e Regioni, per risolvere le loro questioni di confine.
Il che trovava conferma nei principi e criteri direttivi preposti dal co. 33 all’esercizio della delega in materia di apprendistato, distinguibili proprio in ragione della loro posizione nei confronti della riforma del 2003. Da un lato, i principi sub a), c), d) si spingevano fino a darne per scontata la precoce obsolescenza, in vista di una
58 V. D. XXXXXXXX, Il riordino della disciplina dell’apprendistato al secondo appello, cit., pag. 517 e segg.
sua incisiva rivisitazione: a) “rafforzamento del ruolo della contrattazione collettiva”;
c) individuazione per l’apprendistato professionalizzante “di meccanismi in grado di garantire la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”, dove ritorna il richiamo a quell’art. 117, co. 2 Cost., riflesso anche nel periodo immediatamente successivo “e l’attuazione uniforme e immediata su tutto il territorio nazionale dell’intera disciplina”; d) “adozione di misure volte ad assicurare il corretto utilizzo dei contratti di apprendistato”. Dall’altro il principio sub b) si limitava a prevederne una integrazione, quale data dall’individuazione di standard nazionali di qualità, dalla certificazione delle competenze, dalla validazione dei progetti formativi individuali, dal riconoscimento delle capacità formative delle imprese “anche al fine di agevolare la mobilità territoriale degli apprendisti, mediante l’individuazione di requisiti minimi per l’erogazione della formazione formale”.
Non per nulla ad aprire era il criterio sub a), che, sotto il termine anodino “rafforzamento”, sembrava celare quella svolta anticipata con la manutenzione straordinaria del d.lgs. n. 276/2003. Una qualche ragione di questa apertura verso la contrattazione collettiva la si sarebbe potuta trovare nella sua disponibilità a farsi carico di un’attività di supplenza nei confronti delle Regioni rimaste inattive; e nella sua capacità di fornire una disciplina nazionale uniforme a fronte di una normativa regionale applicabile Regione per Regione, tale da poter produrre disuguaglianze socialmente intollerabili ed economicamente inaccettabili, perché in grado di penalizzare la concorrenza ed intralciare la mobilità.
E sarà proprio questo “programma”, sotteso più che esplicitato nel co. 33 dell’art. 1, l. n. 247/2007, a costituire la road map seguita per dar forma e sostanza al d.lgs. n. 167/201159. Si presenta come figlio di un procedimento partecipato, con un duplice passaggio dato dall’intesa raggiunta nella Conferenza Stato/Regioni il 7 luglio
59 M. D’ONGHIA, Il Testo Unico sull’apprendistato, in Riv. Giur. Lav., 2012, I, in corso di pubblicazione; X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato). Artt. 2130-2134, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Xxx Xxxxxx, in X. XXXXXXXXX (diretto da), Commentario al codice civile, Torino, in corso di pubblicazione; X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Milano, 2011; X. XXXXXXXXX, L’apprendistato, in X. XXXXXX (a cura di), Il mercato del lavoro, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. VI, Padova, in corso di pubblicazione.
2011, per mettere la parola fine alla “guerra delle competenze”, con quella “previa intesa” sulla loro ripartizione richiesta dalla Corte costituzionale; e, rispettivamente, dall’intesa con le parti sociali conclusa da lì a qualche giorno, l’11 luglio, per ottenere la loro ratifica di una ripartizione che le vedeva chiamate a svolgere una parte più importante. E si auto-qualifica come “Testo unico sull’apprendistato”, titolo giustificato dal taglio netto con il passato regime, abrogato di botto o lasciato sopravvivere per non più di un semestre (art. 7, co. 6 e 7, T.U.), allo scopo di minimizzare il classico contenzioso circa il rapporto fra “vecchio” e “nuovo”, tipico di ogni precedente passaggio di consegne; ma assai meno dal contenuto, non certo esaustivo, ricco com’è di rinvii ad altre fonti, tanto da farlo ribattezzare da qualcuno testo “quadro”.
É comprensibile che a fronte del brillante risultato costituito dall’adattare il regolamento di un istituto al suo nuovo ruolo di canale tendenzialmente unico di ingresso nel mercato, raggiunto in un tempo ristretto e in un clima di larghissimo consenso da parte di tutti i co-protagonisti, si chieda di togliersi il cappello; ma, fermo restando che rimane pur sempre consigliabile per il pratico attenderlo all’esame dei fatti, ché, a quanto ci dice il passato, potrebbe rivelarsi assai più difficile del previsto, è imprescindibile per lo studioso valutarne l’impatto sul sistema. Ciò vuol dire in primis assumere a termine di confronto il testo costituzionale, pur consapevoli di quel processo ormai consolidato per cui interpretarlo al passo con i tempi equivale a svuotarlo del suo contenuto originario a favore di quanto consolidatosi in fatto con l’esplicito supporto di alcuni e il tollerante silenzio di molti se non tutti gli addetti ai lavori. Vox clamans in deserto, verrebbe già da osservare con riguardo al rispetto dei principi e criteri della delega, che, come detto, portavano già dentro di sé spirito e senso del superamento del d.lgs. n. 276/2003, ma non erano tali da poter sopportare il peso che il T.U. scaricherà su di loro. Si pensi a quel principio base di cui alla lett. a) del co. 33, art. 1 l. n. 247/2007, formulato nei termini di “un rafforzamento della contrattazione collettiva”, che sottintende un cambiamento di rotta dalla fonte regionale a quella collettiva; ma per quanto, come pur si è qui fatto, si possa stirare quella parola “rafforzamento”, resta problematico assumerla a guida ispiratrice della ridistribuzione di competenze operata dal T.U.
Niente più di un accenno all’eccesso di delega, perché ormai la legge delega è
divenuta una cambiale in bianco concessa dal Parlamento al Governo, con una tolleranza della Corte costituzionale tutta all’insegna di quella massima popolare per cui “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”. Ma non è questa la voce più pesante del conto lasciato aperto col testo costituzionale dal T.U., che è e rimane quella della ridistribuzione delle parti fra i protagonisti, Regioni e xx.xx.
13. Segue. la definizione del contratto
Prima di fare entrare i nostri protagonisti, bisogna ricostruire la scena, che si articola su tre fondali: la definizione del contratto e delle tre tipologie (art. 1); la determinazione della disciplina, generale (art. 2) e particolare per ciascuna delle tre tipologie (artt. 3, 4, 5); la elencazione delle disposizioni finali, che per lo più tali non sono, se non nel senso di essere state recuperate e collocate in fondo (art. 7).
L’art. 1, co. 1 appare estremamente significativo, prima di tutto per lo stesso posto che occupa, a capo dell’intero testo, poi per il contenuto, cioè di come definisce l’apprendistato: “un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”60. Riesce improprio che la durata preceda la causa, ma spiegabile, perché la configurazione del contratto come a tempo indeterminato fa da premessa alla conversione ad “U” della stessa causa, data non più dalla classica relazione sinallagmatica formazione più retribuzione/prestazione lavorativa, ma da una duplice funzione presentata come pari ordinata, cioè dare una professionalità e favorire un’occupazione. Il che lo priva della tanto conclamata specialità, con una sostanziale eliminazione della “deviazione funzionale” riflessa nella ricostruzione della causa come “mista”; e con una conseguente attenuazione della “deviazione quantitativa”, rispecchiata nella riduzione della regolamentazione particolare.
Come già detto, il confronto fra contratto a tempo indeterminato e determinato era perso da tempo, compromesso definitivamente da quella Corte cost. n. 169/197361 che aveva esteso agli apprendisti il regime dettato dalla l. n. 604/1966 per il
60 Critico X. XXXXX, L’apprendistato di alta formazione e di ricerca, in Mass. Giur. Lav., 2012, n.
4, pag. 242.
61 Corte cost. 28 novembre 1973, n. 169, cit.
licenziamento individuale; e, certo, non avrebbe senso riproporlo all’indomani di questo art. 1, sciorinando di nuovo tutto il campionario argomentativo elaborato nel corso del tempo.
Se, però, niente potrebbe ormai valere per rovesciare la “parola” del legislatore, darla per scontata non significa non vederne la incoerenza sistematica e la potenzialità involutiva. Per quanto ci si sia spremuto il cervello, rimase un mistero più inspiegabile di quello trinitario che un apprendistato tipizzato da una causa mista esauribile entro una durata massima, potesse fin dalla sua nascita essere considerato a tempo indeterminato, come se questa sua causa fosse destinata a perpetuarsi sine die. E se qualcuno fu in grado di farlo, lo fece salvando il carattere di contratto a tempo indeterminato ab initio tramite un mutamento in corsa del sinallagma originario: poteva sì ricostruire quel carattere come sottoposto alla condizione risolutiva potestativa di un conseguimento della qualifica non seguito dalla disdetta datoriale; ma solo dando per scontato implicitamente che la continuazione del rapporto avrebbe richiesto una trasformazione della causa, questa avrebbe dovuto passare da mista (prestazione contro formazione più retribuzione) a pura (prestazione contro retribuzione).
C’era e c’è una incompatibilità fra contratto di lavoro a tempo indeterminato e specialità, cosa di cui l’estensore del T.U. esibisce piena consapevolezza al momento stesso di consacrare legislativamente quel che pur era un indirizzo ermeneutico dominante, perché, come visto, si fa carico di eliminare la causa mista; e si preoccupa coerentemente di togliere ogni base letterale a quella c.d. conversione a tempo indeterminato, che di per sé sola suonava a favore di una discontinuità. Se l’art. 19, co. 1, l. n. 25/1955 prevedeva che “Qualora al termine dell’apprendistato non sia data disdetta … l’apprendista è mantenuto in servizio…”, l’art. 2, co. 1, lett. m) T.U. recita “Se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”, dove a rilevare è il cambiamento del vocabolario: da “apprendistato” a “periodo di formazione”, da “disdetta” a “facoltà di recesso”, da “mantenuto in servizio” a “il rapporto prosegue”. Ma, addirittura, l’art. 4, co. 2, T.U., sembra accreditare l’“irrilevanza” dell’esistenza di una “facoltà di recesso al termine del periodo di formazione” rispetto ad una ricostruzione dell’apprendistato come
contratto a tempo indeterminato; laddove parla di una “durata anche minima del contratto che, per la sua componente formativa, non può comunque essere superiore a tre anni…”: l’apprendistato, come contratto a tempo indeterminato, non è delimitabile; può esserlo solo “nella sua componente formativa”.
Se ne ricava l’impressione di una metamorfosi dell’apprendistato, da “contratto tipizzato” a “patto” inerente ad un contratto a tempo indeterminato, con ad oggetto un “periodo di formazione” finalizzato al proseguimento del rapporto presso lo stesso datore, comparabile alla lontana con quell’obbligo formativo altrove fatto scaturire dallo stesso contratto di lavoro subordinato. Un’impressione, questa, che parrebbe trovare una prima conferma nella prosecuzione di quella tendenza ad uniformare la disciplina dell’apprendistato a quella comune del lavoro subordinato, spintasi fino al punto di metterne in discussione la norma “speciale” base, la possibilità di una non “conversione” priva di motivazione alcuna: contestata, ieri, come “disdetta”, da una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza, che davano per scontata la prevalenza della legislazione sul licenziamento individuale62; disincentivata, oggi, come “recesso” dall’art. 2, co. 1, lett. i), T.U., che dà via libera ex lege a quella clausola collettiva già consolidatasi per l’apprendistato professionalizzante, per cui era precluso ogni suo ulteriore utilizzo a chi non avesse proceduto precedentemente all’“assunzione” a tempo indeterminato di una certa percentuale degli apprendisti già in servizio. Non solo, perché una seconda più significativa conferma potrebbe ben essere tratta dalla assoluta preferenza che il T.U. dà alla formazione aziendale, acquisita prevalentemente se non esclusivamente sul lavoro, lasciandola intuire per l’apprendistato per la qualifica, ma affermandola a piena voce per l’apprendistato professionalizzante; una formazione, questa, che, di per se stessa, appare confezionata a misura della singola impresa, difficilmente esportabile altrove, sì da dover contare prevalentemente sulla continuazione del rapporto.
D’altra parte il carattere di contratto a tempo indeterminato per quanto forzato
62 Fra le decisioni in tal senso v. Pret. Vercelli 23 giugno 1981, in Giur. It., 1983, I, n. 2, pag. 152 con nota favorevole di P. XXXXXXXXXXX, Rapporto di apprendistato, disciplina limitativa dei licenziamenti individuali e recesso «ad nutum» del datore di lavoro al termine del rapporto di apprendistato; da ultimo in dottrina X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Apprendistato: l’illegittimità del recesso ad nutum, per contrasto con l’art. 30 della Carta di Nizza, in Riv. Giur. Lav., 2011, I, pag. 683.
sull’apprendistato fino a metterlo a rischio come rapporto tipico, può sì travestire il fenomeno reale, ma fino ad un certo limite. Tant’è che il legislatore, confrontatosi col caso di “datori che svolgono la propria attività in cicli stagionali”, sì è trovato costretto a concedere che fosse la contrattazione collettiva a regolarvi l’apprendistato professionalizzante, prevedendolo anche a tempo determinato (art. 4, co. 5).
14. Segue. la disciplina generale del contratto
Una volta definito l’apprendistato al co. 1 dell’art. 1, il co. 2 della stessa disposizione riprende la triplice tipologia tenuta a battesimo dagli artt. 48, 49 e 50, d.lgs. n. 276/2003, ma cambiano loro i nomi, sì da renderli espressivi di ruoli sia pur solo parzialmente modificati dal T.U.: l’“apprendistato per l’espletamento del diritto- dovere di istruzione e formazione” (art. 48) diventa l’“apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale”; l’“apprendistato professionalizzante” (art. 49) diventa l’“apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere”; l’“apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (art. 50) diventa l’“apprendistato di alta formazione e di ricerca”.
a) Disciplina generale. E questo è tutto quello che lo Stato ritiene di poter dire in prima persona circa il contratto, perché, poi, all’art. 2, co. 1, passa la parola alla contrattazione collettiva, chiamata a farsi carico della “disciplina generale”. Rinviando ad un paragrafo successivo per il quadro complessivo del nuovo riparto fra Regioni ed xx.xx., che, come detto, costituisce il tratto innovativo più significativo ed importante del T.U., c’è da osservare come la legge ponga dei principi, che, a dire il vero costituiscono punti fermi ereditati dal consolidato legislativo o giurisprudenziale, lasciandoli tali e quali o aggiornandoli o introducendoli ex novo. Limitandosi ad uno sguardo a volo di uccello, riesce naturale notare per primo quanto attiene al contratto/rapporto, se pur come effetto riflesso del suo profilo formativo, che qui si riassume con l’utilizzo delle stesse lettere dell’alfabeto di cui alla legge: a) Forma scritta del contratto, del patto di prova e del relativo piano formativo individuale definibile anche secondo moduli predisposti “dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali” e presentabile entro trenta giorni dalla stipulazione del contratto, lasciando aperta una duplice questione, cioè la natura della forma, con la prima
dottrina favorevole ad escluderne la qualificazione ad substantiam a pro di quella ad probationem o ad regularitatem63 e, rispettivamente, la situazione esistente nell’eventuale intermezzo fra stipulazione del contratto e presentazione del progetto;
b) Divieto di retribuzione a cottimo, che introdotto già dall’art. 2131 c.c., era stato esteso dall’art. 11, lett. f) l. n. 25/1955 alle lavorazioni retribuite ad incentivo, poi dimenticate nel d.lgs. n. 276/2003 e, ora, nel T.U.; c) Scelta del sistema di determinazione della retribuzione dell’apprendista vis-à-vis di quella spettante al prestatore incaricato di un lavoro che richieda la stessa qualifica conseguibile al termine dell’apprendistato, con un cambio significativo rispetto a quanto prima deducibile dall’art. 51, co. 1 e 1-bis (aggiunto dall’art. 2, co. 155, l. n. 191/2009) perché non può più essere cumulativa, ma deve essere alternativa fra sotto- inquadramento e calcolo percentuale; h) Prolungamento del periodo di apprendistato in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto superiore a trenta giorni, escludendosi il rilievo di un tempo inferiore64, con recepimento dell’indirizzo giurisprudenziale e ministeriale esistente65, di per sé espressivo del trend di un allineamento del regime dell’apprendistato a quello comune del lavoro subordinato, confermato anche dall’intervento di cui al c.d. “pacchetto anti- crisi 2008-2010”, poi prorogato, in favore degli apprendisti, riconosciuti destinatari di tutti gli ammortizzatori in deroga66; i) Conferma in servizio al termine del percorso
63 X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato), cit., § 8.1; M. D’ONGHIA, Il Testo Unico sull’apprendistato, cit.
64 La soluzione era già stata prospettata da X. XXXXXXXX, La formazione, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Il lavoro temporaneo e i nuovi strumenti di promozione dell’occupazione, Milano, 1997, pag. 365 e segg., spec. pag. 420. Adesivamente, X. XXXXXX, Xxxxxxx e contratti formativi, cit., pag. 57 e segg., spec. pag. 68, secondo cui nei contratti formativi la fissazione del termine è correlata all’interesse del lavoratore alla formazione, ritenendosi ammissibile la proroga quando, per cause indipendenti dalla volontà delle parti, la formazione non abbia potuto svolgersi in conformità al programma prestabilito.
65 Cass. 12 maggio 2000, n. 6134 e Trib. Forlì 22 giugno 2000, entrambe in Mass. giur. lav., 2001, pag. 1301 e segg., con nota di X. XXXXX, Apprendistato: sospensione del rapporto e termine di scadenza; nonché Cass. 19 dicembre 2000, n. 15915, ivi, 2001, pag. 380 e più di recente Cass. 28 settembre 2010, n. 20357, in Dir. Relaz. Ind., 2011, n. 1, pag. 121, con nota di X. XXXXXX, Contratto di apprendistato: tra principio di effettività ed obblighi di buona fede in executivis.
66 In particolare, sull’art. 19 co. 8 della l. 29 novembre 2008, n. 185, che ha già esteso l’accesso agli ammortizzatori in deroga a tutti i lavoratori subordinati, compresi gli apprendisti e i somministrati, v.
formativo come condizione per poter procedere ad ulteriori assunzioni, secondo quanto già previsto dalla legge, prima per il cfl, poi per il contratto di inserimento, nonché già introdotto dalla contrattazione collettiva per l’apprendistato; l) Divieto di recedere dal contratto durante il periodo di formazione se non per giusta causa o giustificato motivo, secondo quanto sostenuto da Corte cost. n. 169/1973 e, poi, posto a base della ricostruzione dell’apprendistato come contratto a tempo indeterminato, con un problema lasciato all’interprete, ché, preso alla lettera, il divieto sembra essere esteso dal datore allo stesso apprendista67; m) Diritto di recedere dal contratto a’ sensi dell’art. 2118 c.c., cioè ad nutum, con decorrenza del preavviso dal termine del periodo di formazione, fermo restando che, se non esercitato, “il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro”, secondo quanto già previsto dall’art. 19, l. n. 25/1955 e dagli artt. 48, co. 3, lett. c) e 49, co. 4, lett. c), d.lgs. n. 276/2003, con, ad esplicita eccezione, il caso del lavoratore in mobilità assunto come apprendista di cui al successivo art. 7, co. 4, dello stesso T.U., per il quale vale il regime comune in tema di licenziamento individuale.
Passando, ora, a quanto concerne direttamente il profilo formativo, i principi riguardano: d) Presenza di un tutore o referente aziendale, dove l’accoppiamento al primo del secondo, dal significato e dal rilievo più debole, pare confermare la maggior libertà lasciata in materia di formazione aziendale; e) Finanziamento dei percorsi formativi aziendali degli apprendisti per il tramite dei fondi paritetici interprofessionali, che, a quanto visto, comportando un alleggerimento finanziario delle Regioni, contribuisce a spiegarne il semaforo verde dato ad un riparto di ruoli tutto a favore della contrattazione collettiva; f) Riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e delle competenze acquisite ai fini del proseguimento degli studi, nonché dei percorsi di istruzione degli adulti, così come effettuabile sulla base dei risultati conseguiti all’interno del percorso di formazione, esterna ed interna alla impresa, dove rileva la distinzione tracciata fra “qualifica professionale” e “competenze acquisite”, a conferma della duplice finalità dell’apprendistato,
X. XXXXXXXXX, Apprendistato e ammortizzatori sociali, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Milano, 2011, pag. 212 e segg., spec. pag. 216.
67 Sulle molteplici questioni cfr., che riguardano le dimissioni dell’apprendista ed il periodo di decorrenza del preavviso, v. ancora X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato), cit.
presentata come pari-ordinata, ma declinata con l’anima professionale perdente rispetto a quella occupazionale; g) Registrazione della formazione effettuata e della qualifica professionale a fini contrattuali nel libretto formativo del cittadino.
b) Contingentamento. L’art. 2 prosegue coi co. 2 e 3, quest’ultimo dedicato al
c.d. contingentamento del numero degli apprendisti che un datore non artigiano – per l’artigianato vale l’art. 4, l. 8 agosto 1985, n. 443 – poteva assumere, rimasto quello già previsto dall’art. 2, co. 3, l. n. 25/1955, del 100% “delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso l’azienda stessa”, con l’eccezione prevista dall’art. 21, co. 1, l. n. 56/1987, per cui se quel datore non ha o ha in numero inferiore a tre maestranze specializzate e qualificate, può occupare fino a a tre apprendisti. Non manca, però, un elemento di novità, che conferma ulteriormente la prevalenza della finalità occupazionale rispetto a quella formativa, cioè la possibilità che il datore assuma non solo “direttamente”, ma anche “indirettamente” tramite quella somministrazione a tempo indeterminato di cui all’art. 20, co. 3, d.lgs. n. 276/2003: linguaggio improprio, ma tale da far trapelare quale sia qui il giudizio del legislatore sulla somministrazione, né più né meno di una “intercapedine artificiosa”, tant’è che nel numero contingentato di apprendisti erano ricompresi anche quelli somministrati.
c) Sistema previdenziale e assistenziale. A sua volta l’art. 2, co. 2 ci offre un quadro del sistema previdenziale ed assistenziale degli apprendisti, meramente ricognitivo di quanto già in vigore prima del T.U.: assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; assicurazione contro le malattie; assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia; maternità; assegni famigliari. La mancanza dell’assicurazione contro la disoccupazione involontaria si spiega con la perdurante convinzione che il contratto di apprendistato per la sua stessa rilevanza formativa non risentisse di eventi causativi di interruzioni integrabili o di riduzioni di personale, tant’è che per lungo tempo sì è ritenuto che l’apprendista non potesse né essere sospeso né licenziato per giustificato motivo obbiettivo. Una volta che giurisprudenza e prassi amministrativa hanno cominciato ad ammettere che questo era del tutto ammissibile, prima la contrattazione collettiva, poi la stessa legge sono intervenute per assicurare forme di supporto del reddito sostitutive di quelle garantite agli altri
lavoratori dagli ammortizzatori sociali.
d) Sistema sanzionatorio. Il sistema sanzionatorio è articolato sulle due tipologie previste ai co. 1 e 2 dell’art. 768. Invertendone l’ordine, per dar loro una sequenza logica, vien da menzionare per prima quella di cui al co. 2, che ricollega ad “ogni violazione delle disposizioni contrattuali collettive attuative dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b), c), d) (forma scritta, divieto di retribuzione a cottimo, sotto-inquadramento o calcolo percentuale, presenza di un tutore o di un referente) “una sanzione amministrativa pecuniaria (da 100 a 600 euro), destinata a salire in caso di recidiva (da 300 a 1500 euro), affidandone la contestazione agli organi di vigilanza legittimati ad effettuare accertamenti in materia di lavoro e previdenza a’ sensi dell’art. 13, d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124. Trattasi di una disposizione che riecheggia l’art. 23, l. n. 25/1955, se pur con la sostituzione di una sanzione amministrativa pecuniaria all’ammenda allora prevista, ma che rivela la stessa criticità di quella norma, per essere riferita ad una contrattazione collettiva rimasta a tutt’oggi di diritto comune: se è vero che a monte ci sono i principi posti dall’art. 2, co. 1, è pur vero che a rilevare sono le clausole collettive a valle, con la loro forza esclusivamente contrattuale e con la loro traduzione discrezionale dei detti principi legislativi.
La seconda tipologia, di cui al co. 1, ricalca quella già vista dell’art. 53, co. 3, pen. e ult. periodo d.lgs. n. 276/2003 (come sostituito dall’art. 11, d.lgs. n. 251/2004), col colpire l’“inadempimento nella erogazione della formazione” - che sia tale da impedire il raggiungimento dello scopo proprio di ciascuno dei tipi di apprendistato e da essere addebitabile in toto al datore di lavoro69 - tramite la corresponsione della differenza tra contribuzione versata e dovuta per il livello di inquadramento superiore destinato ad essere raggiunto al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del
68 D. PAPA, Xxxxxxxx, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, cit., pag. 473 e segg.
69 L’«esclusiva responsabilità del datore di lavoro» va verificata, tenendo conto del coinvolgimento dell’amministrazione pubblica nell’assolvimento degli obblighi formativi, sicchè, in mancanza di canali di formazione pubblica, andrà esclusa la responsabilità del datore di lavoro: cfr. Circ. Min. n. 29/2011. Cfr., nel vigore del regime precedente, X. XXXXXXXX, Apprendistato: inadempimento degli obblighi formativi, in Dir. Prat. Lav., 2007, n. 12, pag. 777 ove anche una ricostruzione delle posizioni giurisprudenziali in proposito.
100%, senza alcuna ulteriore sanzione per omessa contribuzione. Ma aggiunge qualcosa, cioè la previsione che se, a seguito di un controllo sul contratto di apprendistato in corso di esecuzione, emerga un inadempimento nello svolgimento del piano formativo individuale, il personale ispettivo del Ministero del lavoro adotta un provvedimento di disposizione a’ sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 124/2004, dando un congruo termine per adempiere70, così ricollegandosi a quella previa diffida già introdotta dall’art. 8, co. 8, l. n. 407/1990, ma poi persa per la strada.
e) Sistema incentivante. Passando dal profilo “repressivo” a quello “promozionale”, il T.U. offre poco di nuovo. Il co. 3 dell’art. 7 riproduce il co. 2 dell’art. 53 d. lgs. n. 276/2003, con riguardo al non computo degli apprendisti nei “limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti”, sempreché specifiche previsioni di legge o di contratto collettivo non dispongano il contrario. E il co. 9 dello stesso art. 7, riprende sì il co. 3 dell’art. 53, con rispetto al mantenimento “degli attuali sistemi di incentivazione economica dell’apprendistato”, ma togliendovi ed aggiungendovi qualcosa: da un lato, non pretende più di condizionare l’erogazione dei benefici contributivi ad una effettiva verifica della formazione svolta secondo le modalità definite da un decreto ministeriale, con una pretesa totalizzante tanto pretenziosa quanto impraticabile; dall’altro, contiene il classico “stimolo” al mantenimento in servizio dopo il termine dell’apprendistato costituito dal prolungamento di quei benefici per l’intero anno successivo, di cui a quell’art. 21, l. n. 56/1987, condannato a condividere il comune destino abrogativo riservato dal T.U. al lascito legislativo del passato.
f) Regime transitorio. Il legislatore del 2003 era stato tanto prudente da prevedere un regime transitorio soft, per cui il vecchio regolamento dell’apprendistato rimaneva fermo fino al varo del nuovo prefigurato nel decreto (art. 47, co. 3), col rischio di causare un rinvio sine die: ciò che, in seguito, si è effettivamente verificato.
70 Il personale ispettivo della DPL, che accerta l'inadempimento, ha l’obbligo di impartire una disposizione ai sensi dell'art. 14, d.lgs. n. 124/2004, assegnando un congruo termine per adempiere. Ovviamente la disposizione potrà essere impartita quando l'obbligo formativo non adempiuto possa ancora esserlo.
Il legislatore del 2011, invece, è tanto intrepido dal confezionarne uno hard, per cui il vecchio regolamento era destinato a venir meno nel momento stesso nel quale scadeva il termine ultimativo previsto per il battesimo del nuovo (art. 7, co. 6 e 7), col rischio tutt’ affatto opposto di creare un vuoto; ciò che, come si vedrà in seguito, è stato parzialmente e temporaneamente evitato da una contrattazione collettiva intervenuta in “zona Cesarini”.
Secondo il classico modo di rendere digeribile un intervento innovativo, il co. 6 esclude i contratti di apprendistato già in essere dal cambio di regime destinato a scattare all’entrata in vigore del T.U. avvenuta il 25 ottobre 2011, con contestuale abrogazione della l. n. 25/1955, degli artt. 21 e 22 l. n. 56/1987, dell’art.16 della l. n. 196/1997, degli artt. 47-53 d.lgs. n. 276/2003. Una abrogazione tecnicamente impropria, questa, perché la normativa in questione era destinata a sopravvivere non solo per i contratti già in essere, ma a’ sensi del successivo co. 7 anche per i contratti conclusi successivamente, se ed in quanto, a quel 25 ottobre 2011 e per tutto il semestre seguente, la disciplina “sostitutiva” rimessa dal T.U. alle Regioni e/o alle xx.xx. comparativamente più rappresentative latitasse. Sicché trattasi più propriamente di una inapplicabilità della normativa in questione ai contratti conclusi dopo l’entrata in vigore della disciplina “sostitutiva”, regionale e/o collettiva; e, comunque, dopo la scadenza del semestre fatidico, cioè dal giorno successivo al 25 aprile prossimo venturo, dove dovrebbe verificarsi un vuoto per l’inapplicabilità del vecchio “diritto” e la carenza del nuovo “diritto”. Ma meno assoluto di quel che appare perché il legislatore, convinto che sia la Regione la ritardataria cronica, chiude con quell’art. 7 co. 3 già ricordato sopra, per cui “in assenza dell’offerta formativa pubblica di cui all’articolo 4, comma 3, trovano immediata applicazione le regolazioni contrattuali vigenti”: insomma l’apprendistato per eccellenza, cioè quello professionalizzante o contratto di mestiere non resterà bloccato; e se dovrà fare a meno della formazione teorica che la Regione non sarà in grado di assicurare, si accontenterà della formazione pratica così come regolata dalla contrattazione collettiva.
15. Segue. la triplice tipologia
Per quanto riguarda la triplice tipologia di apprendistato i “nomi” cambiano per
corrispondere ai nuovi ambiti e ruoli, chiaramente finalizzati a creare una rete in grado di “catturare al massimo” la inoccupazione/disoccupazione giovanile, fra i 15 ed i 29 anni, “sganciando” l’ex apprendistato qualificante dall’assolvimento dell’obbligo di istruzione e l’ex apprendistato professionalizzante dallo stesso sistema di istruzione e formazione professionale.
a) Se l’“apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione” previsto dall’art. 48, d.lgs. n. 276/2003” diventa l’“apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale”, di cui all’art. 3 T.U., aperto ai giovani fra i 15 e non più i 18 ma i 25 anni, ciò è dovuto al fatto di essere ora spendibile, oltre che per l’espletamento di tale diritto-dovere tramite l’ottenimento della qualifica (con la stessa durata massima di tre anni prevista precedentemente), anche per il conseguimento di un diploma (con la durata massima di quattro anni nel caso di diploma regionale quadriennale) (co. 1). Come si vedrà, qui le Regioni conservano la loro precedente competenza circa la regolamentazione dei profili formativi, da realizzare secondo tre criteri e principi direttivi, che riecheggiano quelli di cui all’art. 48, co. 4, d. lgs. n. 276/2003: i primi due chiamano in causa il d.lgs. n. 226/2005, per la “definizione della qualifica o diploma professionale” e, rispettivamente, per la “previsione di un monte ore di formazione, esterna od interna all’azienda, congruo al conseguimento della qualifica o del diploma professionale”; il terzo rinvia alla contrattazione collettiva per la determinazione delle modalità di erogazione della formazione aziendale (co. 2).
b) E, così, se l’“apprendistato professionalizzante” previsto dall’art. 49 d.lgs. n. 276/2003, diventa l’“apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere” di cui all’art. 4 T.U., aperto, come prima, ai soggetti tra i 18 e i 29 anni, con l’abbassamento del termine iniziale a 17 anni per i possessori di una qualifica professionale conseguita ai sensi del d.lgs. n. 226/2005; questo è riconducibile al fatto di risultare ora direttamente e chiaramente finalizzato al “conseguimento di una qualifica professionale a fini contrattuali”, nobilitata attraverso la riesumazione della parola “mestiere” (co. 1), che ritorna ulteriormente esaltata nella possibilità di un riconoscimento “della qualifica di maestro artigiano o di mestiere” secondo le modalità
decise dalle Regioni e dalle associazioni di categoria dei datori (co. 4).
C’è una prima novità che ci è offerta dalla disciplina di cui all’art. 4, cioè l’assoluta prevalenza accordata alla formazione aziendale, acquisita di massima on the job, con la precisa consapevolezza della sua “economicità”, perché a carico della stessa impresa; nonché della sua potenziale “redditività”, perché funzionale a quella continuità del rapporto che rappresenta, per l’apprendista giunto alla fine del suo percorso, se non l’unica, certo la più seria possibilità di un’occupazione stabile. Come visto a suo tempo, l’apprendistato professionalizzante di cui all’art. 49, d.lgs. n. 276/2003 era finalizzato al “conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e la acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico- professionali” cioè una formazione pratica ed una teorica (co. 1), la cui regolamentazione era affidata alle Regioni: per la formazione pratica era contemplato un rinvio alla contrattazione collettiva “per la determinazione … delle modalità di erogazione e della articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende” (co. 5, lett. b); e, rispettivamente, per la formazione teorica era previsto “un monte ore di formazione formale, interna o esterna all’azienda, di almeno centoventi ore per anno, per la acquisizione di competenze di base e tecnico professionali (co. 5, lett. a).
Di contro invece, come appena ricordato, l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere di cui all’art. 4 T.U. è finalizzato “al conseguimento di una qualifica professionale” (co. 1), di cui in seguito si precisa la formazione necessaria per acquisirla, peraltro qui con una divisione fra le parti competenti a regolarla, a seconda che sia pratica o teorica. La regolamentazione della formazione pratica è rimessa alla contrattazione collettiva, che deve individuare “in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire, la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico- professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale” (co. 2); mentre la disciplina della formazione teorica, da affiancare a quella pratica svolta “sotto la responsabilità dell’azienda”, è mantenuta a capo delle Regioni, che devono definire, “sentite le parti sociali e tenuto conto dell’età, del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista”, l’“offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda, finalizzata alla acquisizione
di competenze di base e trasversali”, peraltro “nei limiti delle risorse annualmente disponibili” e “per un monte complessivo non superiore a centoventi ore per la durata del triennio” (co. 3).
Ora è possibile rendersi conto ictu oculi della differenza fra il T.U. e il decreto del 2003. Anzitutto con riguardo alla finalità formativa, perché sembrerebbe che per l’art. 4 T.U. letto tenendo presenti i co. 2 e 4, si dia per presupposta una tendenziale coincidenza fra “tipo di qualificazione” di cui tratta l’art. 49, co. 3. d.lgs. n. 276/2003 e “mestiere” di cui parla l’art. 18, co. 1, l. n. 25/1955, cioè fra sistema classificatorio collettivo e mercato. Ma se questa è solo una impressione suscitata da una certa lettura dell’art. 4, non lo è la differenza con riguardo all’attività formativa, che risulta, com’era da attendersi, rafforzata nella sua componente pratica, perché, una volta rimessa alla contrattazione collettiva la determinazione delle modalità di erogazione della formazione in relazione al tipo di qualificazione contrattuale da conseguire, l’art. 4, co. 2 puntualizza che tale formazione è “per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche” richieste dai profili professionali contrattuali; mentre l’art. 49, co. 5, lett. b) non precisa nulla.
Tutto al contrario, l’attività formativa risulta indebolita nella sua componente teorica, non perché l’art. 4, co. 3 riconosca apertis verbis quel che era prima pudicamente taciuto, che, cioè, l’offerta formativa pubblica destinata a farvi fronte resta condizionata alle disponibilità finanziarie; e neppure, perché la ritenga “finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali”, mentre l’art. 49, co. 5, lett. a), secondo un’espressione apparentemente più forte, la considerava funzionale alla “acquisizione di competenze di base e tecnico-professionali”. Non per questo, ma per due ragioni assai più corpose e pesanti: data, la prima, da quanto previsto dall’art. 7, co. 7, che, pur scritto per il regime transitorio, può ben valere anche per quello definitivo, per cui l’“assenza della offerta formativa pubblica di cui all’art. 4, co. 3” non condiziona l’applicazione della disciplina collettiva, sì da poter procedere prescindendo dalla formazione teorica e contando solo su quella pratica; costituita, la seconda, dallo stesso art. 4, co. 3 che a proposito della formazione teorica la restringe ad un monte massimo di 120 ore nel triennio, rispetto all’art. 49, co. 5, lett. a) che le riconosceva un monte minimo di 120 ore annuali.
Proprio questo riferimento al triennio ci introduce alla seconda novità restituitaci
dalla regolamentazione di questo tipo di apprendistato, cioè la possibilità per la contrattazione collettiva di tener distinta la durata della formazione dalla durata del contratto: la prima è stabilita, insieme alle modalità di erogazione della formazione, “in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire” in una misura che potrebbe risultare minore di quella determinata per la seconda, con libertà per l’eventuale minima ma non per la massima, costretta a rimanere al di sotto dei tre anni o dei cinque “per le figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione collettiva di riferimento”, con una sostanziosa riduzione della durata massima dai precedenti sei a tre anni.
c) Diversamente il cambio da “apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione previsto dall’art. 50, d.lgs. n. 276/2003 a “apprendistato di alta formazione e di ricerca“ di cui all’art. 5 T.U.71 non dice niente circa il mutamento nel contenuto che ci viene riproposto notevolmente ampliato. Stando al co. 1 di questo art. 5 è possibile individuare almeno tre sottotipi72, fruibili da soggetti fra i 18 e 29 anni, con possibile anticipazione ai 17 anni per il possessore di una qualifica professionale a’ sensi del d.lgs. n. 226/2005: il primo relativo al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore o di titoli di studio universitari e dell’alta formazione, compresi i dottorati di ricerca o per la specialità tecnica superiore di cui all’art. 69, l. 17 maggio 1999, n. 144, con particolare riferimento ai diplomi relativi ai percorsi di specializzazione tecnologica degli istituti tecnici superiori previsti dall’art. 7 del D.P.C.M. 25 gennaio 2008; il secondo, allo svolgimento di un’attività di ricerca, senza che rivesta rilevanza l’eventuale finalizzazione ad un titolo; il terzo, al praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche o per esperienze professionali.
Ora qui ritorna potenziato quell’intento universalistico già sotteso al d.lgs. n. 276/2003, per cui un apprendistato multiforme dovrebbe puntare a coprire quanto più
71 V. M. TIRABOSCHI, Apprendistato di alta formazione e ricerca, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, cit., pag. 367; M. D’ONGHIA, Il Testo Unico sull’apprendistato, cit.; X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato), cit.; X. XXXXXXXXX, L’apprendistato, cit..
72 V. i contributi di X. XXXXXXXXX, M. T. XXXXXXX, X. XX XXXX, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, cit., pag. 376 e segg.
spazio possibile dell’ingresso sul mercato del lavoro di soggetti fra i 15 e i 29 anni, secondo un amplissimo spettro formativo; solo che questo quanto più viene dilatato, tanto più riesce artificioso, essendo stato tale contratto tipizzato e regolato a misura quello poi declassato a uno dei tre previsti dal d.lgs. n. 276/2003, cioè quello professionalizzante (o contratto di mestiere): ne è buon testimone l’ultimo parto costituito dall’apprendistato avente ad oggetto il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche, che dovrebbe dar per scontato quanto non potrebbe esservi, cioè un rapporto di lavoro subordinato. Appare evidente che tale ampliamento dell’ambito dell’apprendistato fino a farne lo strumento elettivo di accesso al mercato, risponde ad un giudizio confortato dai fatti, esser, cioè, l’acquisto di un bagaglio professionale fattore determinante per il proprio futuro lavorativo. Ma questo suo utilizzo a tutto campo tradisce anche, se non soprattutto, uno scopo occupazionale immediato, quello di contribuire a contenere il precariato, con un contratto reso appetibile coll’incentivarlo e col configurarlo come contratto a tempo indeterminato del tutto peculiare, risolubile ad nutum al termine del periodo formativo.
Quanto alla “regolamentazione e alla durata” l’art. 5, co. 2 e 3 del T.U. riprendono quasi alla lettera l’art. 50, co. 3 d. lgs. n. 276/2003 (come modificato dall’art. 23, co. 4, l. n. 133/2008), rimettendola alle Regioni “per i soli profili che attengono alla formazione”, tenute a definirle secondo una procedura partecipata; ed in assenza, ad apposite convenzioni fra singoli datori o loro associazioni ed Università ed istituzioni similari.
d) Quello che viene previsto ex novo dall’art. 7, co. 4 è “l’apprendistato per i lavoratori in mobilità”73 finalizzato alla “loro qualificazione o riqualificazione professionale”, senza precisare né l’età, né la situazione di mobilità; ma, secondo un’opinione qui condivisa, una soluzione coerente con la ratio della disposizione sarebbe di ritenere irrilevante l’età e di ritenere rilevante la situazione di mobilità data dall’iscrizione alle liste e dalla percezione delle relative indennità, argomentando
73 X. XXXXXXXX, L’apprendistato per la riqualificazione dei lavoratori in mobilità, in TIRABOSCHI (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, cit., pag. 485; M. D’ONGHIA, Il Testo Unico sull’apprendistato, cit.; X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato), cit.; X. XXXXXXXXX, L’apprendistato, cit..
dall’esplicito richiamo dell’incentivo di cui all’art. 8, co. 4, l. n. 223/1991. Qui viene raggiunto il punto più spinto di un apprendistato costruito come normale contratto a tempo indeterminato, con l’intento formativo ridotto a puro alibi per il trattamento di favore che lo accompagna, tant’è che viene esplicitamente esclusa la facoltà di recesso esercitabile al termine del periodo di formazione a’ sensi dell’art. 2, co. 1, lett. i), dovendosi dare integrale applicazione alla disciplina prevista per i licenziamenti individuali in un contratto a tempo indeterminato.
e) In controtendenza rispetto all’evoluzione legislativa più recente che tende a riaprire la differenza fra disciplina legislativa del lavoro privato e del lavoro pubblico privatizzato, l’art. 7, co. 8 prevede l’estensione di quella di cui ai precedenti artt. 4 e 5, con un D.P.R., assunto, “sentite le parti sociali e la Conferenza unificata”, entro dodici mesi dall’entrata in vigore del T.U. Si presume che dovrebbe andare a sostituire il cfl, ma tenuto conto del blocco del personale, a danno dello stesso turnover, pare difficile immaginarsi un radioso futuro dell’apprendistato nel settore pubblico, fra l’altro le mille miglia lontano da quello da cui gli proviene il suo stesso dna.
f) Se pur non relativo al contratto/rapporto di apprendistato considerato in sé e per sè quanto previsto dall’art. 6, in tema di “standard professionali, standard formativi e certificazione delle competenze” ne costituisce un imprescindibile quadro di riferimento, perché il risultato raggiunto sia valutabile e certificabile, sì da poter essere speso, secondo quanto previsto come obbiettivo da raggiungere al termine del periodo, nel sistema formativo e/o nell’inquadramento contrattuale74. Limitandoci qui ad un rapido sommario dello strumentario predisposto alla bisogna, c’è da menzionare: la definizione degli standard formativi per la verifica dei percorsi formativi in apprendistato per la qualifica e il diploma professionale e in apprendistato di alta formazione, per tramite di decreto ministeriale, previa intesa con le Regioni (co. 1) la individuazione degli standard professionali cui riferirsi ai fini della verifica dei
74 In proposito v. X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Standard professionali e standard formativi, sempre in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, cit., pag. 423 e segg.; v. anche M. D’ONGHIA, Il Testo Unico sull’apprendistato, cit.; X. XXXXXXXX, Xxx xxxxxxxxx (o apprendistato), cit.; X. XXXXXXXXX, L’apprendistato, cit..
percorsi formativi in apprendistato professionalizzante e in apprendistato di ricerca, per mezzo dei contratti nazionali di categoria o, in mancanza, di intese specifiche raggiunte a livello nazionale o interconfederale, “anche in corso della vigenza contrattuale” restando a carico del datore la “registrazione nel libretto formativo del cittadino della formazione effettuata e della qualifica professionale a fini contrattuali eventualmente acquisita” (co. 2); la costituzione del repertorio delle professioni presso il Ministero del lavoro, “predisposto sulla base dei sistemi di classificazione del personale previsti nei contratti collettivi di lavoro e in coerenza con quanto previsto nelle premesse dalla intesa tra Governo, Regioni e parti sociali del 17 febbraio 2010, da un apposito organismo tecnico Governo/xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale/rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni, al duplice scopo di “armonizzare le diverse qualifiche professionali acquisite secondo le diverse tipologie di apprendistato” e di “consentire una correlazione tra standard formativi e standard professionali” (co. 3); la certificazione delle “competenze acquisite dall’apprendista” secondo le modalità definite dalle Regioni e la loro registrazione sul libretto formativo del cittadino sulla base del repertorio delle professioni - ma per la registrazione anche nel rispetto dell’intesa 17 febbraio 2010 - fermo restando che nell’attesa della definizione del repertorio, si farà riferimento agli standard regionali esistenti (co. 4).
Un programma collaudato, così come il modello privilegiato per attuarlo, quale costituito da un coordinamento sistemico fra Governo, Regioni, parti sociali, che rinviene il suo testo di comune riferimento nell’intesa trilaterale del 17 febbraio 2010, per svilupparsi secondo quattro canali: un decreto ministeriale, assunto previa intesa con le Regioni (co. 1), contratti collettivi di categoria (co. 2), un organismo tecnico trilatero (co. 3), normative regionali (co. 4). Niente da dire sul modello, che appare addirittura obbligato, dato il coinvolgimento formale o almeno fattuale di tutti e tre i soggetti, senza, però dimenticare che se lo Stato è uno, ma con più ministeri interessati, le Regioni sono 15 ordinarie e 5 a autonomia speciale, le parti sociali/le xx.xx. comparativamente più rappresentative sono numerose, sicché già ora la predisposizione dei vari pezzi del mosaico si preannuncia complessa e faticosa; ma, poi, in seguito, la successiva messa in opera si rivelerà assai più impegnativa e lunga di qualsiasi previsione.
16. Segue. la ridistribuzione delle parti fra Regioni e xx.xx.
Nel passaggio dal d.lgs. n. 276/2003 al T.U. del 2011 c’è una accelerazione della politica legislativa di promozione della contrattazione collettiva coltivata negli anni trascorsi fra l’uno e l’altro. Sulla premessa della copresenza di una disciplina del contratto di apprendistato riservata allo Stato e di una regolamentazione della formazione divisa fra competenza esclusiva statale (formazione interna) e residuale regionale (formazione esterna), da ricomporre la “leale collaborazione” teorizzata dalla Corte costituzionale, quella politica legislativa di promozione aveva luogo nell’ambito della competenza statale, che, invece di essere gestita in economia, veniva concessa in appalto alla contrattazione collettiva: ma, attenzione, di massima non per la disciplina del contratto di apprendistato, bensì solo per la regolamentazione della formazione.
Tale accelerazione emerge da un confronto fra vecchi e nuovi disposti, che verranno riportati, pur se già precedentemente trascritti, per rendere più facilmente percepibile per il lettore il cambiamento nel sistema delle “fonti”. Il più radicale è contenuto nell’art. 2, co. 1 T.U. che consegna “ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, quella “disciplina generale”, prima riservata ad una legislazione statale qui esplicitamente abrogata (art. 7, co. 6); anche se lo fa, ponendo una serie ben precisa di paletti sub specie di principi da rispettare. Ma, poi, il cambiamento trascorre dall’art. 2, co. 1 agli artt. 3, 4, 5 che riprendono i tre tipi di apprendistato di cui agli artt. 48, 49, 50 d.lgs. n. 276/2003, ribattezzandoli e revisionandoli sul filo di quei correttivi varati negli anni precedenti, che già anticipavano la svolta a favore della contrattazione collettiva.
A dire il vero l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, di cui all’art. 48 del decreto del 2003, giunto invariato, subisce solo un ritocco nel trasformarsi in apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale. Infatti, l’art. 3, co. 2 T.U. conserva alle Regioni la regolamentazione dei profili formativi, se pur non più “d’intesa” coi Ministri competenti (art. 48, co. 4), ma “previo accordo in Conferenza permanente” (art. 3, co. 2), sì da tener conto della situazione
dell’intero Paese in vista di una uniformità di disciplina, sempre “sentite” le xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. E cambia sì il primo dei criteri e principi cui deve attenersi tale regolamentazione, ma solo per tener conto dell’ampliamento dell’ambito coperto da questo apprendistato, così se chiedeva, ieri, la definizione della “qualifica professionale ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53” (art. 48, co. 4, lett. a); chiede, oggi, la determinazione della “qualifica o diploma professionale ai sensi del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226” (art. 3, co. 2, lett. a); mentre lascia del tutto invariato il terzo criterio, costituito dal rinvio ai contratti collettivi nazionali, territoriali, aziendali stipulati da xx.xx. comparativamente più rappresentative “per la determinazione, anche all’interno degli enti bilaterali, delle modalità di erogazione della formazione aziendale, nel rispetto degli standard generali fissati dalle regioni” (art. 48, co. 4, lett. c, e, rispettivamente, art. 3, co. 2, lett. c).
Ben diverso, invece, il destino dell’apprendistato professionalizzante, di cui a quell’art. 49, d.lgs. n. 276/2003, che, nel suo testo originario, già visto e commentato sopra, riservava sempre alle Regioni la regolamentazione dei profili formativi, d’intesa con le xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano regionale (art. 49, co. 5), prevedendo - al secondo posto dei criteri e i principi direttivi cui doveva attenersi tale regolamentazione - il rinvio ai contratti collettivi nazionali, territoriali, aziendali stipulati dalle xx.xx. comparativamente più rappresentative “per la determinazione, anche all’interno degli enti bilaterali, delle modalità di erogazione e della articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende, anche in relazione alla capacità formativa interna rispetto a quella offerta dai soggetti esterni” (art. 49, co. 5, lett. b). Mentre attribuiva ai contratti collettivi stipulati da xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o regionale la determinazione della durata del contratto “in ragione del tipo di qualificazione da conseguire” (art. 49, co. 3).
In seguito, come visto, quel testo originario era stato integrato coi co. 5-bis e 5- ter, con una erosione della riserva riconosciuta inizialmente alle Regioni, “espropriata” a pro della contrattazione collettiva, per la loro dimostrata incapacità a legiferare: in xxx xxxxxxxxxxx, xxx xx. 0-xxx, perché destinata a conservarsi solo fino all’emanazione della normativa regionale; e, in via definitiva ma parziale, dal co. 5-ter, perché destinata a perpetuarsi, limitatamente alla “formazione esclusivamente aziendale”, (co. 5-ter, poi riscritto da Corte cost. n. 176/2010).
Ora, invece, per l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere, a’ sensi dell’art. 4, co. 2 gli “accordi interconfederali e i contratti collettivi”, di cui non vengono stabiliti né i livelli né i soggetti, sono deputati a definire “in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire, la durata e le modalità di erogazione” di una “formazione” finalizzata all’”acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale”, nonché “la durata, anche minima, del contratto…”; mentre, a’ sensi del successivo co. 5 “i contratti collettivi”, peraltro qui, more solito previsti come stipulati da xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, per “i datori di lavoro che svolgono la propria attività in cicli stagionali… possono prevedere specifiche modalità di svolgimento del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato”.
Restano alle Regioni, peraltro “sentite le parti sociali”, la disciplina dell’“offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali”, ad integrazione della “formazione di tipo professionalizzante e di mestiere, svolta sotto la responsabilità dell’azienda” (art. 4, co. 3); nonché, in alternativa con le associazioni di categoria, la definizione delle “modalità per il riconoscimento della qualifica di maestro artigiano o di mestiere”(art. 4, co. 4).
Quanto, infine, all’apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione di cui all’art. 50, d.lgs. n. 276/2003, nell’ereditarlo come apprendistato di alta formazione e ricerca, l’art. 5, co. 2 conserva alle Regioni, in accordo con le xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le università e istituzioni rilevanti “la regolamentazione e la durata…per i soli profili che attengono alla formazione…”, peraltro sempre con la clausola di salvaguardia, di cui al successivo co. 3, per la quale, l’eventuale latitanza regionale può essere ovviata tramite convenzioni stipulate da parte datoriale sempre con le Università ed altre istituzioni rilevanti (art. 50, co. 3 e, rispettivamente, art. 5, co. 2).
Una panoramica, questa, che il lettore per caso avrà trovata noiosa e lo studioso specializzato banalmente espositiva; ma nell’economia di questo scritto sembra rispondere alla finalità assegnatele di far toccare con mano la rilevanza della ridistribuzione delle parti, che iniziata dalla legislazione correttiva del d.lgs. n.
276/2003, è stata ripresa con ben maggiore ampiezza dal T.U.; fermo restando che le parti regionali coinvolte a tutto campo sono le Regioni a statuto ordinario, mentre quelle a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano sono esplicitamente richiamate solo nell’art. 3, co. 2 (ma le Province anche nell’art. 6, c. 4), per poi vedersi riconosciute “le competenze … ai sensi dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione” (art. 7, co. 11).
Sì è creduto di individuare una qualche ragione dell’apertura alla contrattazione collettiva di cui già alla delega di cui all’art.1, co. 30 e 33, l. n. 247/2007 nella disponibilità delle xx.xx. a farsi carico della necessaria regolamentazione al posto di non poche Regioni reticenti, con a loro favore la possibilità di dar vita ad una disciplina nazionale uniforme. Ma, certo, nella cedevolezza mostrata dalle Regioni in sede di gestazione del T.U. ha giocato quel che lo specialista più informato e attento ha francamente e crudamente indicato come “vil denaro”, cioè la possibilità, riconosciuta agli appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi legittimati a dar vita alla disciplina generale dell’apprendistato di cui all’art. 2 T.U. di “finanziare i percorsi formativi aziendali degli apprendisti per il tramite dei fondi paritetici interprofessionali e del fondo per i lavoratori somministrati di cui all’articolo 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 e all’articolo 12 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni anche attraverso accordi con le Regioni” (art. 2, co. 1, lett. e). Il che contribuisce a spiegare ancor più e meglio la disponibilità delle xx.xx., specie di parte lavoratrice, per il ruolo qui esercitabile dall’Ente bilaterale, d’altronde valorizzato anche in sede di regolazione della formazione professionale come possibile sede di determinazione delle modalità di erogazione della formazione aziendale, per l’apprendistato del primo tipo (art. 3, co. 2) e, rispettivamente, delle modalità per il riconoscimento della qualifica di maestro artigiano o di mestiere, per l’apprendistato del secondo tipo (art. 4, co. 4); tanto che il legislatore ritiene bene precisare che per Ente bilaterale a’ sensi del T.U. si intende “esclusivamente” quello definito dall’art. 2, co. 1, lett. h), d.lgs. n. 276/2003 (art. 7, co. 5).
É una riforma dalle molte partite: ne apre di nuove, ne riapre di antiche. Si può ben lasciare allo studioso di diritto regionale dirci se la “previa intesa” con la Conferenza permanente sia di per sé idonea a far “prevalere” la ripartizione effettuata dal T.U. su un’eventuale normativa regionale che non la rispetti, pur mantenendosi
all’interno della competenza residuale in materia di “istruzione e formazione professionale” riconosciutale dalla Costituzione. Ma il giuslavorista non può esimersi dal dire la sua a proposito di questa riproposizione a tutto campo di una contrattazione collettiva “fonte”, se pur a costo di far la figura di chi non si rassegna a dar per scontato a livello di diritto costituzionale un indirizzo legislativo costruito a ricalco di un sistema sindacale usurato e rappezzato alla meno peggio.
La formula utilizzata per selezionare la contrattazione collettiva legittimata in base alla rappresentatività delle xx.xx. firmatarie è quella emersa dopo l’abrogazione referendaria della lett. a) co. 1 art. 19 St. Lav. e consolidata definitivamente nel d.lgs.
n. 276/2003: cioè il “sindacato comparativamente più rappresentativo”75. E di quel decreto del 2003 è ben visibile nel T.U. la stessa malizia politica, cioè l’individuazione delle xx.xx. stipulanti preceduta dalla particella indeterminata “da”, di per sé tale da “legittimare” anche una contrattazione separata; tanto più che, a contrario, la selezione delle xx.xx., di cui le Regioni devono sentire il parere o ricevere il consenso in sede di predisposizione delle regolamentazioni di loro spettanza o partecipare ad un organismo tecnico è preceduta dall’articolo determinato “le” (artt. 3, co. 2; 5, co. 2; 6, co. 3). Ma è ben percepibile anche l’identica approssimazione tecnica circa i livelli contrattuali, individuati direttamente o tramite i livelli delle xx.xx stipulanti, singoli o plurimi, ma se plurimi, previsti come se fossero tutti equivalenti. Così, riconsiderando in un quadro unitario quanto già visto, sono chiamati in causa appositi accordi interconfederali ovvero i contratti collettivi stipulati a livello nazionale da xx.xx. comparativamente più rappresentative (art. 2, co. 1); i contratti collettivi stipulati a livello nazionale,
00 X. X. XXXXXXX, Una svolta fra ideologia e tecnica: comtinuità e discomtinuità nel diritto del lavoro di inizio secolo, cit., pag. XXIX e segg.
Sulla nozione v. X. XXXXX, Dalla rappresentatività presunta a quella comparativa – verso la democrazia sindacale?, in Lav. Prev. Oggi, 1998, pag. 2142 e segg.; X. XXXXXXXX, Il sindacato comparativamente più rappresentativo, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1999, pag. 211 e segg.
Un elenco aggiornato delle disposizioni che rinviano al “sindacato comparativamente più rappresentativo” in X. XXXXXXX, R. DE XXXX XXXXXX, X. XXXX, X. XXXX, Diritto del lavoro. 1. Diritto sindacale, Torino, 2006, pag. 314 e segg.
X. XXXXXXXX, Diritto sindacale, Padova, 2011, pag. 91; in dottrina, oltre a X. XXXXXXX, Commento all’art. 1 della legge n. 196 del 1997 alla nota n. 29, in M. NAPOLI (a cura di), Commento alla legge n. 196/1997, cit.
territoriale o aziendale stipulati da xx.xx. comparativamente più rappresentative (art. 3, co. 2); gli accordi interconfederali e i contratti collettivi, senza menzione delle xx.xx. stipulanti (art. 4, co. 2); i contratti collettivi stipulati da xx.xx. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 4, co. 5); i contratti collettivi nazionali di categoria, anche qui senza previsione delle xx.xx. stipulanti (art. 6, co. 2).
Nessuna sorpresa, data l’identità della maggioranza, del Ministro, dello staff di consulenza. Resta la criticità della formula di “sindacato comparativamente più rappresentativo” succeduta all’altra di “sindacato maggiormente rappresentativo”, sì da far prevalere una valutazione comparativa, potenzialmente limitata ai primi rispetto ad una assoluta teoricamente aperta a tutti, senza che ne consegua alcuna maggiore trasparenza e certezza, ma solo una minore correttezza costituzionale; e resta, altresì, tutta la problematicità di una sia pur implicita legittimazione di un’eventuale contrattazione separata.
Certo applicando la tesi ancora prevalente in dottrina e giurisprudenza tale contrattazione resta di diritto comune, nonostante sia forgiata sotto la “guida” della legge; tanto più che tale ha trovato proprio qui una duplice “convalida”: la prescrizione contenuta nell’art. 11, co. 1, lett. c), l. n. 25/1955, “di osservare le norme dei contratti collettivi di lavoro e di retribuire l’apprendista in base ai contratti stessi” è stata ridotta quasi a nulla da Corte cost. n. 10/195776, ferma nel negare ai contratti c.d. di diritto comune un’efficacia erga omnes; e la stessa opinione dottrinale per cui quelle norme, pur prive di per sé di efficacia generale, avrebbero dovuto essere osservate per poter usufruire dei benefici contributivi, è stata disattesa dalla giurisprudenza e dalla prassi amministrativa.
Si sa quanto si è detto e scritto sulla c.d. contrattazione delegata, elevata a fonte “normativa” a portata generale, ma né parte autorevole della dottrina77, né, soprattutto, la giurisprudenza costituzionale è andata oltre una casistica limitata, peraltro con una buona dose di realpolitik, per cui il salvataggio della legislazione sottopostole avveniva portando la contrattazione collettiva previstavi fuori dalla portata applicativa dell’art. 39, co. 4 Cost., con una argomentazione più o meno artificiosa. E, a conferma,
76 Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 10, cit.
77 In proposito rinvio al mio Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in W.P.C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2011, n. 133.
proprio a fronte di eccezioni che chiamavano in causa la contrattazione collettiva in materia di apprendistato, Corte cost. n. 50/2005 e Corte cost. n. 176/201078, se la cavavano senza doversi confrontare con la problematica della sua efficacia.
Qui, però, la musica è diversa: se anche la contrattazione collettiva fosse considerata di diritto comune, priva di efficacia generale, pur tuttavia continuerebbe ad offrire l’unica disciplina disponibile, data l’abrogazione della normativa speciale, eccezion fatta per quella residua del codice civile, di per sé sufficiente per tipizzare il tirocinio alias apprendistato, ma non per regolarlo nel suo rilievo ed ambito attuali; sicché, una volta si sia decisa l’assunzione di un apprendista, non c’è alternativa all’applicazione al relativo rapporto della disciplina collettiva.
Per di più, come si è visto, l’art. 7, co. 2, T.U. prevede sanzioni amministrative pecuniarie per l’inosservanza delle clausole contrattuali formulate in attuazione di certi principi posti dall’art. 2, co. 1, che richiamano alla memoria quella penale dell’ammenda contemplata dall’art. 23, co. 1, lett. b) l. n. 25/1955, per l’inosservanza del precedente art. 11. Come si sa, tale art. 23 cadde in desuetudine; ma non è affatto detto che anche l’attuale art. 2 vada incontro alla stessa sorte, trattandosi qui di sanzioni solo amministrative, affidate a organi di vigilanza che saranno indirizzati e sollecitati a procedere alle relative contestazioni; ma non tutto il male viene per nuocere, perché così, prima o poi, la questione arriverà di fronte alla Corte, costringendola ad uscire da quella sorta di surplace sull’art. 39 Cost., co. 4 praticato a tutt’oggi.
Se per il giuslavorista tradizionale la conclusione “teorica” è sempre la stessa, che, a Costituzione invariata non sarebbe possibile per il legislatore agire come se quel disposto costituzionale fosse stato abrogato per desuetudine, sì da sollecitarlo ad un intervento correttivo tale da liberare il terreno ad un regolamento capace di razionalizzare l’attuale sistema; la prospettiva “pratica” non cambia, che, a situazione fattuale immutata, la forza di auto perpetuazione dell’esistente rimane irresistibile.
PARTE III
78 Corte cost. 28 gennaio 2005, n. 50, cit. e Corte cost. 14 maggio 2010, n. 176, cit.
17. Lo stato di “attuazione” del T.U.
Il 25 aprile scadeva quella “abrogazione sospesa” di cui all’art. 7, commi 6 e 7, d.lgs. n. 167/2011, per cui uscivano definitivamente di scena “la legge 19 gennaio 1955, n. 25, gli articoli 21 e 22 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, l’articolo 16 della
legge 24 giugno 1997, n. 196 e gli articoli da 47 a 53 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”. Sicché c’è stata tutta un’affannosa corsa finale per mettersi in regola, con la conclusione di quelle intese collettive elevate a “fonti” regolatrici dall’art. 2 del decreto, last but not least l’accordo interconfederale 18 aprile 2012 per il settore industriale, sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, ripreso alla lettera dall’accordo interconfederale 19 aprile 2012 per il settore cooperativo siglato da AGCI, Confcooperative, Legacoop, Cgil, Cisl e Uil79.
A’ sensi dell’art. 2, anzitutto, il richiamo è effettuato rispetto “ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi stipulati a livello nazionale”, sì da far presumere che essi siano alternativi; però, l’accordo interconfederale in parola si limita ad introdurre una disciplina “in via sussidiaria e cedevole rispetto a quanto dovrà essere disciplinato dalla collettiva richiamata dal d.lgs. n. 167/2011”, cioè, come appena ricordato sopra “dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria”. Poi, gli accordi o i contratti sono quelli “stipulati a livello nazionale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, che, quindi, possono essere solo alcune di quelle classificabili come tali; di fatti, l’accordo interconfederale in questione si caratterizza per essere stato siglato esclusivamente da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil.
Ad esserne oggetto è l’apprendistato professionalizzante, per cui vengono ripresi e tradotti i principi preposti dallo stesso art. 2 al confezionamento del relativo regolamento collettivo: eventuale previsione del patto di prova per la durata prevista dai contratti collettivi di categoria; possibilità di inquadramento fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante; indicazione nel piano formativo individuale del tutore/referente aziendale; facoltà di recedere dal contratto al termine del periodo formativo ex art. 2118 c.c., con un preavviso di 15 giorni, che, se ed in quanto non esercitata, comporta la prosecuzione del rapporto “come ordinario rapporto di lavoro
79 Entrambi reperibili in Bollettino Speciale Adapt, 24 aprile 2012, n. 13, xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
subordinato a tempo indeterminato”; durata, comunque, non superiore a tre anni e, per “i profili professionali equipollenti a quelli dell’artigianato” individuati dai contratti collettivi, a cinque anni.
Tutto questo appare scontato; non così, invece, quello relativo al processo formativo, di cui al piano individuale, debitamente redatto “tenendo conto del format allegato”. Riesce evidente il pieno recupero di quell’esclusivo rilievo contrattuale attribuito all’apprendistato professionalizzante dall’art. 4 del d. lgs. n. 167/2011: “la formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche
… sarà coerente con la qualifica professionale ai fini contrattuali da conseguire ai sensi del sistema di inquadramento definito nel ccnl applicato in azienda”; ed, inoltre, per “gli standard professionali di riferimento debbono intendersi quelli risultanti dai sistemi di classificazione ed inquadramento del personale e/o dalle competenze professionali individuate dai contratti collettivi”. Ma, soprattutto, lo scarso contenuto dell’obbligo formativo a carico del datore di lavoro, lo si valuti quantitativamente, visto che la “formazione professionalizzante … sarà non inferiore a 80 ore medie annue (ivi compresa la formazione teorica iniziale relativa al rischio specifico prevista dall’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011); o qualitativamente, dato che “potrà essere svolta anche on the job ed in affiancamento”, senza precisare alcunché rispetto a questa che da sempre rappresenta la tecnica tipica di formazione pratica. D’altronde, trova altresì conferma la mera eventualità di quella integrazione costituita “dall’offerta formativa pubblica”, prevista, sempre dall’art. 4 del decreto legislativo citato, qui richiamata e considerata solo “laddove esistente”.
Assai più ricchi ed articolati sono i contratti siglati per il terziario, distribuzione, servizi e per il turismo, perché come contratti nazionali costituiscono le “fonti collettive” privilegiate per fornire una disciplina dell’apprendistato adattata a misura di ciascuna singola categoria; tanto che, come visto, lo stesso accordo interconfederale 18 aprile 2012 per l’intero settore industriale pone solo una regolamentazione “cedevole” a fronte dei futuri c.c.n.l. Sono firmati solo ed esclusivamente dalle federazioni aderenti a Cgil, Cisl Uil, a conferma di una gestione oligopolistica della c.d. contrattazione delegata, basata non su un’effettiva ricognizione della rappresentatività, ma su una perpetuazione della situazione di fatto in forza della convenienza di entrambe le parti stipulanti, associazioni sindacali e datoriali. E, se pur provvisti di
discipline generali, come tali potenzialmente estese anche agli altri tipi di apprendistato, risultano centrati su quello professionalizzante.
Il contratto nazionale per il terziario, distribuzione, servizi, sottoscritto il 24 marzo 2012 da Confcommercio-Imprese per l’Italia, Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl, Uiltucs-Uil80, replicato il 28 marzo successivo da Confesercenti, ha una Premessa, riproducente quell’esplicita riserva di competenza a favore del livello nazionale di contrattazione sancita dall’art. 2 d. lgs. n. 167/2011; cui fa seguire la Parte I, con una disciplina generale che ricalca largamente quella di cui al d. lgs. n. 167/2011, e la Parte II, con una particolare per l’apprendistato professionalizzante o di mestiere. Ora, della Parte I è meritevole di menzione la “procedura di applicabilità” relativa proprio a quest’ultimo apprendistato, per la quale chi intenda assumere apprendisti, deve farne richiesta con tanto di progetto formativo “alla specifica Commissione dell’Ente Bilaterale, prevista dalle norme contrattuali nazionali del Terziario, competente per territorio” o, se titolare di unità produttive distribuite in più di due regioni, può farla alla “commissione paritetica istituita in seno all’Ente Bilaterale Nazionale”. Parrebbe che, in mancanza di un “parere di conformità”, il richiedente “terzo rispetto al contratto” non possa procedere all’assunzione; cosa, questa, che risulterebbe illegittima se anche l’art. 39 Cost. fosse stato attuato, con conseguente efficacia erga omnes della sua disciplina normativa, sicché è ben difficile immaginare che non lo sia in assenza di qualsiasi legislazione attuativa.
Nella Parte II spicca la prevista esistenza di una percentuale di conferma in servizio pari addirittura all’“80% dei lavoratori il cui contratto di apprendistato professionalizzante sia già venuto a scadere nei ventiquattro mesi precedenti”, quale precondizione per l’assunzione di altri apprendisti, che potrà portare alla mancata concessione del visto “parere di conformità”.
Accurata risulta la regolamentazione della formazione, che sembra smentire l’impressione diffusa per cui proprio la realtà del terziario, distribuzione, servizi, per il suo carattere largamente “maturo”, richieda spesso poca acculturazione professionale. L’attività formativa prevede l’individuazione di qualifiche e mansioni escluse, la scansione della durata a seconda dei livelli d’inquadramento, la definizione del percorso formativo in relazione alla qualifica professionale e al livello di
80 Reperibile in Bollettino Speciale Adapt, 24 aprile 2012, n. 13, xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
inquadramento da raggiungere, secondo un allegato 1, l’individuazione dei requisiti della formazione professionalizzante in termini quantitativi in due tabelle A e B. Questa è destinata a svolgersi secondo un strumentazione tecnica sulla carta molto moderna: “in aula, on the job … tramite lo strumento della formazione a distanza (FAD) e strumenti di e-learning, ed in tal caso l’attività di accompagnamento potrà essere svolta in modalità virtualizzata e attraverso strumenti di tele affiancamento o video-comunicazione da remoto”.
Non molto dissimile risulta il successivo accordo per il turismo 17 aprile 2012, sottoscritto da varie Federazioni datoriali, nonché da Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl, UilTuCS81, anch’esso comprensivo di una disciplina generale che recupera ampiamente quella di cui al d.lgs. n. 167/2011 e di una particolare per l’apprendistato professionalizzante. Vi ritorna sia la sostanza della “clausola di applicabilità”, con la chiamata in causa degli enti bilaterali e dell’Ente Bilaterale nazionale del Turismo, “per la verifica della conformità dei piani formativi…”; sia l’esistenza della percentuale di conferme in servizio, qui pari al 70%, quale pre-condizione per procedere a nuove assunzioni.
Anche qui c’è un allegato dove sono indicati per ciascun comparto “i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante”; e il processo formativo prevede un largo uso dello strumento informatico.
Per completezza, va richiamato il c.c.n.l. per i dipendenti da studi professionali del 29 novembre 2011, fra Confprofessioni e Xxxxxxx Xxxx, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil, che si segnala per essere stato il primo contratto ad intervenire sulla materia.
Da ultimo, vanno poi richiamati tre accordi specifici sull’apprendistato professionalizzante. Il primo è quello per l’apprendistato professionalizzante in somministrazione 5 aprile 2012, fra Assolavoro, Felsa Cisl, Xxxxx Xxxx, Uil Temp82, che prevede l’assunzione a tempo indeterminato, solo dei lavoratori di età compresa tra i 18 e i 29 anni, con una attività formativa di cui resta responsabile l’Agenzia per il lavoro, ma condotta ovviamente con la partecipazione dell’impresa utilizzatrice. La limitazione della somministrazione agli apprendisti “giovani” esclude l’ipotesi che la stessa possa essere utilizzata per i lavoratori in mobilità.
81 Reperibile anch’esso in Bollettino Speciale Adapt, 24 aprile 2012, n. 13, xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
82 Reperibile in Bollettino Speciale Adapt, 24 aprile 2012, n. 13, xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
Il secondo è l’accordo per l’apprendistato professionalizzante nel settore del trasporto e della logistica del 24 aprile 2012.
Infine, il 4 maggio 2012 è stato siglato l’accordo per l’apprendistato professionalizzante nel settore della panificazione, che per primo ebbe ad utilizzare come meccanismo di remunerazione dell’apprendistato il doppio sistema del sottoinquadramento e della retribuzione in percentuale, recepito in legge nel 200983.
18. Aspettando Xxxxx/Fornero: l’apprendistato come passaporto per l’uscita dal “precariato”
Il disegno di legge presentato dal Ministro Fornero si apre con un art. 1, dedicato alle finalità perseguite cioè “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”. Come si vede, una formula ormai consumata dall’uso, per esser rintracciabile in ogni misura, grande o piccola, succedutasi dalla prima legislazione in materia, declassata da programmatica a meramente propiziatoria. Ma qui conta riprenderne quella che ne dovrebbe costituire la strumentazione, quel mix di minore flessibilità in entrata e di maggior flessibilità in uscita di cui alle prime tre lettere: “a) favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (c.d. “contratto dominante”); b) valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel modo del lavoro; c) ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego, da un lato, contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali; dall’altro, adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione, altresì, di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie”.
Nonostante che non sia affatto passata la tesi del “contratto unico”, con una sostanziale riduzione della tipologia “atipica”, la scena finale sarebbe dominata da
83 L’art. 2, comma 155, l. 23 dicembre 2009, n. 191, ha legificato il doppio sistema di remunerazione dell’apprendista, inserendo il comma 1-bis nell’art. 53, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.
quello a tempo indeterminato. Se per la lett. a) questo è il tipo dominante, la lett. b) stabilisce coerentemente che il modo normale di accesso al lavoro è costituito da quell’apprendistato, definito dall’art. 1 del d.lgs. n. 167/2011. Si è già visto come, da un punto teorico, è difficile conciliare il carattere attribuitogli di contratto a tempo indeterminato, unico ed unitario, nonostante l’inevitabile cambio dell’elemento causale
- da misto (formazione/retribuzione versus prestazione lavorativa) a puro (retribuzione versus prestazione lavorativa) - nel passaggio dal periodo formativo a quello post- formativo. Ma, da un punto di vista pratico, viene qui in rilievo quel suo regime in tema di licenziamento, etichettabile come “bastardo”: per l’intero corso del periodo formativo occorre una giusta causa od un giustificato motivo, ai sensi della l. n. 604/1966 e successive modificazioni; mentre, al termine dello stesso, è possibile procedere ad nutum, ai sensi dell’art. 2118 c.c.
A tradurlo nel linguaggio famigliare all’orecchio di un datore di lavoro, sarebbe sì un contratto a tempo indeterminato risolubile liberamente al termine di un periodo caratterizzato da un obbligo formativo. E, questo obbligo formativo risente di quanto detto in quello stesso art. 1 d.lgs. n. 167/2011, che, dopo aver definito l’apprendistato “un contratto a tempo indeterminato” lo ritiene “finalizzato alla formazione e alla occupazione”, prendendo così atto del suo crescente rilievo come strumento occupazionale. Come visto, con riguardo al tipo di gran lunga più rilevante e diffuso, tale da coprire i ¾ dell’intero ricorso all’apprendistato, cioè il “professionalizzante”, il visto accordo interconfederale 18 aprile 2012 introduce uno striminzito fondo aziendale di 80 ore medie annue per acquistare le competenze relative alla qualifica professionale da conseguire. E lo fa in perfetto sincronismo con l’art. 4 del decreto n. 167/2011, debitamente richiamato, che prevede uno stentato monte ore integrativo non superiore a centoventi ore sul triennio per acquisire le competenze di base e trasversali, peraltro condizionato nello svolgimento effettivo dal cronico deficit finanziario ed organizzativo del “pubblico” tenuto a provvedervi.
Il disegno di legge è consapevole che sul cammino intrapreso c’è il rischio di un uso facile a trasformarsi in un abuso oltre il limite del tollerabile, sì da procedere con l’art. 5 ad alcuni interventi correttivi del testo ancor caldo del d.lgs. n. 167/2011, che, però, non risultano tutti convincenti. En passant, viene chiarito un problema interpretativo scaturito dall’aver previsto in quel decreto che il periodo di preavviso
per il licenziamento ex art. 2118 c.c. decorresse dal termine dell’apprendistato, stabilendo che per quel periodo continui “a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato”. Chiarito questo, ma a costo di aprirne un altro, cioè su che significhi esattamente tale ultima espressione, soprattutto con riguardo alla scadenza prevista: una volta così spostata in avanti, non si sa se scatterà automaticamente o se sarà ulteriormente prolungabile per qualche causa potenzialmente sospensiva verificatasi nel frattempo, come tipicamente una malattia.
Ad interessare è ben altro. Una prima modifica è data dalla “previsione di una durata minima del contratto, non inferiore a sei mesi”, certo apprezzabile, perché intesa ad impedire la sua utilizzazione per soddisfare esigenze temporanee, tali da non permettere alcuna formazione, se pur elementare. Essa, però, dovrà fare i conti con quanto risulta dal visto Isfol, Monitoraggio dell’apprendistato, XII Rapporto, elaborato sulla fonte Inps, che, preso a riferimento il 2010, dà le seguenti percentuali: l’85,5% dei contratti cessa prima della scadenza, il 60% a causa di dimissioni, mentre il 42,3% dura meno di tre mesi.
Una seconda modifica è costituita dalla prescrizione di una riserva per la quale non sarà possibile assumere nuovi apprendisti, se non si sarà provveduto a mantenere in servizio almeno il cinquanta per cento (trenta per cento per i prossimi tre anni) dei vecchi, esclusi quelli cessati dal servizio per recesso nel corso del periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta, ma, inspiegabilmente, non per giustificato motivo soggettivo. La riserva è stata mutuata dal soppresso contratto di inserimento (art. 54, comma 3, d.lgs. n. 276/2003); ma con l’esplicita aggiunta dell’usuale sanzione, per cui gli apprendisti sopranumerari sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato fin dall’inizio del rapporto.
Sorprende poco o nulla che proprio quest’ultima previsione sia destinata a dar vita ad una battaglia parlamentare assai dura, perché significa vanificare parzialmente la possibilità di licenziare ad nutum alla fine del periodo di apprendistato; anche se, come visto, è ripresa da una contrattazione collettiva spintasi ben oltre. Ma qui interessa sottolineare come sotto la copertura di una misura anti-abusiva, si nasconda una finalità occupazionale; la stessa che risulta dalla disposizione successiva, la quale eleva da uno a uno a due a tre il rapporto fra apprendisti che il datore di lavoro può assumere, anche “indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di
lavoro” e maestranze specializzate e qualificate in servizio. Il che permetterà un innalzamento del numero del personale occupabile, senza ricadere nell’ambito coperto dall’art. 18 St. lav., dato lo scomputo previsto dall’art. 7, comma 3, d.lgs. n. 167/2011.
Non senza, però, che tutto questo abbia una ricaduta sulla finalità formativa. La condizione della percentuale di conservazione in servizio, accresce la spinta a conformare la formazione all’attività dell’impresa in cui si sta come apprendista e si dovrebbe restare come lavoratore, rendendola poco spendibile al di fuori di essa. E l’elevazione del rapporto fra apprendisti e maestranze specializzate e qualificate in servizio diluisce quella tipica forma di apprendimento on the job, costituita dall’affiancamento.
Insomma, il cambiamento si muove tutto nel solco del passato. Ed, allora, a prescindere dall’impegnativo programma costituito dall’apprendistato permanente (art.
66 e ss.), c’è da dubitare, oggi come ieri, che l’apprendistato possa assurgere a “modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro”. Come già ricordato, il verdetto dei numeri offerti dal Rapporto citato è chiaramente e nettamente contrario, visto che l’apprendistato non solo non è mai riuscito a decollare, ma appare in declino nel triennio 2008-2010.
Certo il legislatore cerca di allargargli lo spazio operativo. Al fine di dar inizio al riassorbimento di ogni altro contratto di accesso al lavoro, l’art. 4 elimina il contratto d’inserimento di cui agli artt. 54 ss. d.lgs. n. 276/2003, previsto per un tempo fra i nove ed i diciotto mesi e finalizzato ad un adattamento o riadattamento del lavoratore ad un certo contesto lavorativo, limitatamente ad alcune categorie specificamente indicate. Ora, per la categoria dei giovani fra i 18 e i 29 dovrebbe essere sostituito dall’apprendistato, se pur non senza dar per scontato quel ridimensionamento qualitativo del momento formativo, tipizzato nel contratto di inserimento; mentre, per quelle degli ultracinquantenni e delle donne nelle aree svantaggiate interviene l’art. 53. Rimane scoperta la categoria costituita “dai disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni”, tant’è che forse sarebbe stato meglio mantenerlo questo contratto di inserimento per tener conto di una realtà drammatica, quale costituita da una disoccupazione giovanile la quale proietta la sua ombra sempre più verso l’età adulta. Comunque meglio reintrodurlo che procedere ad un innalzamento dell’età di accesso all’apprendistato, portandola fino al limite dei trentadue anni,
perché questo significherebbe travolgerne completamente il rilievo ed il ruolo.
A guardare al futuro, si dovrebbe imparare da dove l’apprendistato funziona, secondo quel duplice modello scuola-centrico della Francia o impresa-centrico della Germania, che ne fa uno strumento destinato ad operare a monte, con un xxxxx xxxxxxx xxxxxxxxx, xxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxx xxxxxx, invece di insistere su una politica che, di fatto, ne vorrebbe fare un mezzo utilizzato per il recupero di tutto il materiale spurio prodotto dal disboscamento delle collaborazioni a progetto, delle partite Iva, dei tirocini84.
84 Per una sintesi v. Italia Lavoro, Rapporto di Benchmarking, L’apprendistato in Europa. Schede di Germania e Francia, 2011, in www. Xxxxxxxxxxxx.xx.
Più ampiamente v. X. XXXXXXX, Xxxxxxx e formazione nelle normative europee: l’apprendistato, in W.P.C.S.D.L..E.”Xxxxxxx X’Xxxxxx”, n. 90/2012; X. XXXXX – X. XXXXXXX, Il ruolo delle parti sociali nei sistemi di formazione professionale: un’analisi comparata, in Dir. Rel. Ind., 2007, n. 1, pag. 37.