DOTTORATO DI RICERCA
Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXVIII
TITOLO TESI
NEGOZIO GIURIDICO PROCESSUALE
E CATEGORIA GENERALE DI CONTRATTO NELLA SCIENZA GIURIDICA EUROPEA
Settori scientifico disciplinari di afferenza IUS/01 - IUS/18
Presentata da: dott.ssa Xxxxxx Xxxxxxx Coordinatore Dottorato Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx
Esame finale anno accademico 2014 – 2015
NEGOZIO GIURIDICO PROCESSUALE
E CATEGORIA GENERALE DI CONTRATTO NELLA SCIENZA GIURIDICA EUROPEA
Al Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx, con affetto e stima
A Xxxxxxx ed ai miei genitori,
con amore e gratitudine
INDICE SOMMARIO
Capitolo Primo
IL PROBLEMA DEL NEGOZIO GIURIDICO PROCESSUALE
1. Status quaestionis: riscontri e problemi 1
2. I diversi orientamenti a confronto 8
3. Autonomia privata e principio dispositivo 12
4. Perimetro di esplicazione dell’autonomia privata nel processo: tra regolamentazione pubblicistica e contributo alla miglior realizzazione del giusto processo 15
5. Buona fede e struttura consensuale della convenzione nel processo. Prospettive d’indagine e genesi storica del modello 19
6. L’inscindibilità del concetto di parte processuale dal rapporto sostanziale 25
7. Il diverso atteggiarsi della necessaria incidenza sul processo: atti incidenti sul regime della tutela giurisdizionale dei diritti ed atti incidenti sulla configurazione di regole meramente processuali 29
8. Il perimetro funzionale: il contributo dell’autonomia privata alla migliore realizzazione del giusto processo 37
9. La patologia: i limiti delle disposizioni inderogabili della legge mediante la quale si attua la giurisdizione ed il recupero per conversione 42
CAPITOLO SECONDO ‘AGERE CUM ALIQUO’
1. Agere cum aliquo 49
2. Il problema del pactum de non petendo 50
3. La convenzione processuale e lo schema della stipulatio: a) l’agere per sponsionem 54
4. Segue. b) Le stipulationes praetoriae 64
5. La gestione convenzionale della lite: a) il compromissum 70
6. Segue. b) la litis contestatio del processo privato romano 76
7. Il segno della cesura storica della cognitio giustinianea nell’interpretazione medievale 81
Capitolo Terzo
UN APPROCCIO CASISTICO ALL’ESPERIENZA ITALIANA CONTEMPORANEA
1. Considerazioni introduttive 89
2. Processo civile 97
2.1 Negozi incidenti sull’agere in senso sostanziale ossia sulla tutela giurisdizionale dei diritti 97
2.1.1 ‘Gentlemen’s agreements’ 98
2.1.2 L’accordo di arbitrato irrituale 105
2.1.3 Regime convenzionale delle eccezioni ex art. 1462 cod. civ. 109
2.1.4 Regime convenzionale delle prove ex art. 2698 cod. civ. 114
2.1.5 Regime convenzionale dell’interpretazione 124
2.2 Negozi incidenti sull’agere in senso processuale implicanti configurazione del rapporto processuale 130
2.2.1 Accordi sulla competenza | 131 | |
2.2.2 Accordi sulla giurisdizione | 141 | |
2.2.3 Segue. L’accordo di arbitrato rituale | 148 | |
2.2.4 Accordi sulla semplificazione del rito | 152 | |
2.2.5 L’accordo sulla sospensione ex art. 296 cod. proc. civ. | 160 | |
2.2.6 La richiesta di decisione secondo equità ex art. 114 cod. proc. civ. | 166 | |
2.2.7 Disponibilità negoziale dei mezzi di gravame: dall’accordo ante | sententiam sulla revisio per | |
saltum al patto di rinuncia preventiva alle impugnazioni | 176 | |
2.2.8 Le conclusioni conformi | 190 | |
2.2.9 La rinuncia agli atti | 192 | |
3. | Processo penale | 201 |
3.1 Querela 3.2 La convenzione nel processo penale: dal superamento del disposto dell’art. 439 cod. proc. all’applicazione della pena su richiesta delle parti | 202 pen. 211 | |
3.3 La convenzione nell’esecuzione della pena | 226 | |
3.4 Rinuncia all’amnistia, alla prescrizione | 232 | |
Abstract | 237 |
English abstract 249
Bibliografia 251
II
Capitolo Primo
IL PROBLEMA DEL NEGOZIO GIURIDICO PROCESSUALE
SOMMARIO: 1. Status quaestionis: riscontri e problemi. - 2. I diversi orientamenti a confronto. - 3. Autonomia privata e principio dispositivo. - 4. Perimetro di esplicazione dell’autonomia privata nel processo: tra regolamentazione pubblicistica e contributo alla miglior realizzazione del giusto processo. - 5. Buona fede e struttura consensuale della convenzione nel processo. Prospettive d’indagine e genesi storica del modello. - 6. L’inscindibilità del concetto di parte processuale dal rapporto sostanziale. - 7. Il diverso atteggiarsi della necessaria incidenza sul processo: atti incidenti sul regime della tutela giurisdizionale dei diritti ed atti incidenti sulla configurazione di regole meramente processuali. - 8. Il perimetro funzionale: il contributo dell’autonomia privata alla migliore realizzazione del giusto processo. - 9. La patologia: i limiti delle disposizioni inderogabili della legge mediante la quale si attua la giurisdizione ed il recupero per conversione.
1. ‘Status quaestionis’: riscontri e problemi.
L’attuale concetto di ‘negozio giuridico processuale’ è nato all’incirca due secoli or sono dalla riflessione nella dottrina di lingua tedesca sotto l’influsso della Pandettistica. Storicamente, esso è stato elaborato per assolvere alla funzione di individuare «una categoria di atti, compiuti nel processo ed operanti a fini processuali, nei quali si riteneva di attribuire alla volontà un ruolo analogo a quello svolto nei negozi di diritto sostanziale»1.
In particolare, questa impostazione concettuale si è articolata, in un momento iniziale, in senso estensivo essenzialmente intorno a due tipologie di atti che vennero ricondotti all’interno della categoria dei negozi giuridici processuali, ossia, da un lato, gli atti di natura processuale che riverberano i propri effetti in senso dispositivo su situazioni sostanziali e, dall’altro lato, gli atti extraprocessuali inerenti al processo, sul cui
1 X. XXXXX, voce Negozio processuale, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 138.
svolgimento vanno ad influire2. Tra i negozi endoprocessuali si soleva ricomprendere atti dal contenuto dispositivo, quali la rinuncia alla pretesa ovvero la confessione3. In relazione al secondo tipo, autorevole dottrina riconosceva l’appartenenza alla categoria di atti di configurazione del processo, come il pactum de non petendo ed il pactum de non exequendo, ovvero gli accordi sulla competenza4.
All’impostazione fatta propria in un primo tempo dalla dottrina dei negozi giuridici processuali si oppose ben presto una differente posizione maggiormente restrittiva, imperniata sull’opportunità di limitare l’area concettuale della figura in questione con esclusivo riferimento al processo5. In altri termini, a seguire questa linea di
2 In proposito, occorre menzionare X. XXXX, Das Geständniss. Ein Beitrag zur Lehre von dem prozessualischen Rechtsgeschäft, in AcP, LXIV, 1881, 216 ss. (in particolare, 237 ss.), il quale non opera una distinzione tra negozi di diritto materiale e negozi di diritto processuale.
3 X. XXXX, Das Geständniss, cit., 216 ss. (in particolare, 237 ss.), che fa riferimento pressoché esclusivo alla confessione giudiziale, in quanto non si presenterebbe come un atto processuale predeterminato, ma bensì inciderebbe sul rapporto sottostante che intercorre tra le parti.
4 X. XXXXXX, Über prozessrechtliche Verträge und Creationen, in Gesammelte Beiträge zum Zivilprozess, Berlin, 1894, 127 ss., il quale conclude le proprie argomentazioni sulla base dell’assunto secondo cui «le categorie giuridiche, che si sono formate prima in ambiti ad esse riservate, divengano un fertile mezzo di costruzione per altri rapporti giuridici» (così, traducendo dall’originale tedesco, come nelle successive occorrenze, a p. 238). Il che indurrebbe a ritenere che, potendo le medesime categorie travalicare i ristretti limiti del diritto civile, esse «si estendono al diritto pubblico, così da ricostruirsi adeguatamente il diritto processuale solo con il loro aiuto» (in questi termini, a p. 238). In quest’ordine di idee,
«l'estensione di categorie giuridiche fertili sul loro cerchio originale è nella scienza così importante come nella cultura materiale la diffusione di culture in aree che non avevano conosciuto prima» (testualmente, a p. 238).
5 X. XXXXXXX, Über prozessualische Rechtsgeschäfte, Xxxxxxx, 0000, 193 ss., 288 ss. e 381 ss., il quale impronta la sua ricostruzione alla necessità di tenere distinti gli atti giuridici processuali, che vanno ad incidere sullo svolgimento del processo, sostanzialmente consentendo l’esercizio di diritti soggettivi processuali, dai negozi giuridici processuali. I primi non avrebbero, infatti, nulla di negoziale, mentre questi ultimi sarebbero definibili soltanto in negativo, in quanto non implicherebbero in alcun caso uno svolgimento processuale tramite il quale un diritto soggettivo processuale possa essere esercitato. Ed invero, ciascun diritto soggettivo processuale troverebbe sempre la sua forma di esercizio in relazione allo svolgimento di un processo, non avendo una sua autonoma esistenza, ma apparendo funzionale alla realizzazione del processo stesso. Da quest’ultimo punto di vista, pertanto, i negozi processuali risulterebbero definibili esclusivamente in negativo, in contrapposizione agli atti processuali. Detto questo, l’A., in modo condivisibile, edifica la propria struttura argomentativa sul presupposto teorico per cui, in relazione ai negozi giuridici processuali, occorrerebbe discorrere non già di contratto, ma bensì di modello di contratto. In questa prospettiva, la figura negoziale in questione troverebbe un fondamento nella vicenda costitutiva, nella modificazione ovvero nell’estinzione di un rapporto giuridico processuale inerente a diritti soggettivi processuali. Specificamente, a titolo esemplificativo, al primo gruppo apparterrebbero negozi giuridici processuali che fondano rapporti giuridici processuali o che giustificano negozi giuridici processuali. L’A. classifica così i negozi in esame in tre gruppi, dal cui ambito certamente esulerebbero gli accordi sulla competenza, dal momento che non apparirebbero idonei a gestire il processo. E nemmeno si configurerebbe in questo senso sub specie di negozio giuridico processuale il pactum de non petendo. In buona sostanza, quel che si propone attraverso questa ricostruzione concettuale è di distinguere tra un’iniziativa funzionale a creare un rapporto, oppure volta a dettare regole, da un atto di parte che in realtà è totalmente determinato dal diritto processuale. In questa logica, il pensiero dei Pandettisti guarda al rapporto obbligatorio come ad un organismo, quindi anche il rapporto giuridico processuale si presenterebbe come un organismo. Ecco perché si evoca la dimensione negoziale, che in questo contesto attiene in particolare al profilo del volere sugli effetti, cui
pensiero, occorrerebbe circoscrivere l’ambito di operatività dei negozi processuali unicamente in relazione agli atti il cui compimento rappresenti l’esercizio di ‘diritti soggettivi processuali’6. Nel nostro Paese, questo orientamento ha trovato autorevolissimi sostenitori, specie tra i processualcivilisti, fra i quali può ricordarsi il Carnelutti7, il quale ha ritenuto di individuare il proprium del negozio giuridico processuale nell’esercizio di un potere giuridico che si traduca in una potestà oppure in un diritto soggettivo, riconoscendo tale qualifica agli atti che realizzano una simile funzione8.
A proseguire nel percorso della dottrina di lingua tedesca, in particolare, è utile poi osservare come l’ulteriore evoluzione della costruzione della categoria del negozio giuridico processuale sia pervenuta ad individuare principalmente una duplice problematica.
Anzitutto, è stato posto l’accento sulla questione relativa alla necessità di
«considerare autonomamente quegli atti di disposizione del diritto sostanziale che, pur essendo compiuti nel processo o in occasione del processo, hanno sotto ogni aspetto la natura di negozi sostanziali»9, profilo che implicherebbe determinate conseguenze in termini di disciplina ad essi applicabile. Per altro verso, la dottrina in questione è giunta progressivamente a predicare la necessità di rinvenire la disciplina degli atti del processo qualificati in termini negoziali unicamente nell’ambito del diritto processuale10. Ed è su
sostanzialmente è ricondotta la causa. A ben vedere, il negozio processuale è l’atto voluto, mentre l’atto processuale non ha attinenza col volere, in quanto risulta predeterminato dal sistema. In ultima analisi, l’A. rifiuta già a monte l’idea che la legge possa regolare ogni aspetto del processo, per chiarire come il fatto che questa regolamentazione possa essere realizzata ad opera dell’autonomia privata implichi che il negozio processuale non produca obbligazioni.
6 X. XXXXXXX, Über prozessualische Rechtsgeschäfte, cit., 193 ss., 288 ss. e 381 ss.
7 X. XXXXXXXXXX, Istituzioni del processo civile italiano5, I, Roma, 1956, 270 ss., il quale afferma che
«secondo che un atto imperativo costituisca esercizio di una potestà oppure di un diritto subbiettivo si chiama provvedimento o negozio giuridico» (così, a p. 270), per includere nel secondo tipo la domanda giudiziale, in quanto «quest’ultima è un negozio non un atto facoltativo perché con essa si esercita tipicamente l’azione» (testualmente, a p. 270). In questa prospettiva, la circostanza che il legislatore non adoperi il termine ‘negozio giuridico’ apparirebbe dovuta alla circostanza che la parola in questione
«ancora dal linguaggio scientifico non è discesa al linguaggio legislativo» (testualmente, a p. 271). Occorre altresì ricordare il contributo di X. XXXXXXXXX, Principi di diritto processuale civile. Le azioni. Il processo di cognizione4, Napoli, 1928, 775 ss., il quale non si nasconde l’elevato livello di problematicità della figura, nel denunciare come «la materia non [abbia] avuto ancora una sufficiente elaborazione» (testualmente, a p. 775). Xxxxxxxxx, l’A. ritiene che si possano stabilire alcuni criteri. In particolare, anzitutto, sarebbero individuabili negozi giuridici processuali «non ogni volta che l’accordo delle parti è presupposto del provvedimento del giudice» (così, a p. 775). In secondo luogo, pur nella loro efficacia dispositiva, essi continuerebbero per specifici profili ad essere regolati dal diritto processuale. Infine,
«che assegnando a un atto processuale il carattere di negozio giuridico, non si è detto ancora con ciò che il diritto riconosca alla volontà della parte la stessa importanza che può riconoscerle nel diritto privato» (in questi termini, a p. 776), dal momento che occorrerebbe comunque rapportare questo elemento alle esigenze di certezza proprie di un meccanismo procedimentale di impronta pubblicistica quale è il processo.
8 X. XXXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 270 ss.
9 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 139.
10 Per una simile impostazione, si veda X. XXXXXXX, Prozesshandlung und Rechtsgeschäft, in Festgabe der Berliner juristischen Fakultät für X. Xxxxxx, II, Privatrecht. Zivilprozessrecht, Breslau, 1910, 75 ss., il quale – dopo aver definito i negozi giuridici processuali come quegli atti consentiti dall’ordinamento
quest’ultimo aspetto che la teoria in esame, come è stato evidenziato11, ha trovato verosimilmente la ragione del crescente svilimento del concetto stesso, il quale ha finito per configurarsi, nelle più fini riflessioni dirette a riordinare sistematicamente la materia degli atti processuali, esclusivamente come un semplice accorgimento volto a classificare una specifica tipologia di atti – quali le dichiarazioni idonee a realizzare una configurazione delle modalità di tutela in senso dispositivo del rapporto processuale – privo di ricadute pratiche circa il regime da applicare all’aspetto volontaristico12.
Come è stato puntualmente osservato13, la dottrina del negozio giuridico processuale è giunta infine all’approdo concettuale basato essenzialmente sulla bipartizione degli atti processuali, riconoscendo al suo interno quelli di natura normativa, come distinti dagli atti processuali in senso stretto. In questa logica, la loro caratteristica peculiare consisterebbe essenzialmente nella connessione che la obiettiva modalità di manifestazione di questi atti evidenzia rispetto alla produzione di determinati effetti giuridici, ossia, nel fatto che tali effetti risulterebbero determinati dallo stesso enunciato negoziale14.
Xx è allora da qui che occorre ripartire per indagare la possibilità di rivalutare la consistenza dogmatica e l’eventuale adeguatezza delle ricadute pratiche da individuarsi in relazione alla categoria che si andrà delineando, anche attraverso un approccio casistico riguardante le figure rinvenibili nell’ordinamento.
Con queste premesse, vediamo ora, in via di prima approssimazione, quali elementi appaiano prima facie suscettibili di indurre a riesaminare la tematica in esame.
In estrema sintesi, sembra utile immediatamente osservare come la possibilità di configurare attraverso atti di esercizio dell’autonomia privata gli ambiti del processo in cui la cogenza delle norme processuali – giustificata dalla natura eminentemente pubblicistica della giurisdizione – lascia spazio di esplicazione al principio dispositivo si fondi, in primo luogo, sulla presenza ordinamentale di figure codificate di negozi giuridici processuali15. Oltre a ciò, occorre considerare in questa direzione la realtà,
processuale con cui le parti pongono in essere uno specifico rapporto e che trovano la propria disciplina all’interno del processo – sostanzialmente afferma l’identità tra i negozi in questione e quelli di diritto sostanziale, dai quali si differenzierebbero in quanto espressivi di una volontà incidente su una specifica esigenza del processo. In altri termini, secondo la ricostruzione restrittiva dell’A. i negozi giuridici processuali non potrebbero estrinsecarsi che all’interno del processo.
11 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
12 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.; opina peraltro in senso contrario X. XXXX, Del negozio giuridico processuale, Milano, 1933, 102 ss., secondo cui «anche la scuola tedesca, dopo avere coltivato estesamente il negozio processuale, pare voglia ora mortificarne il concetto, censurandolo d’infecondità. Ma scambia forse il concetto di tale negozio con le superfetazioni del medesimo, da essa troppo alimentate» (testualmente, a p. 102). Per questa ragione l’A. preferisce ciò che «fu intuito originariamente, con chiarezza e praticità latina, dai romani, presso i quali la res in iudicio deducta assumeva un aspetto singolare» (in questi termini, a p. 102) nelle forme della litis contestatio.
13 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
14 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss., che muove da queste considerazioni al fine di argomentare circa l’incongruità dell’utilizzo della categoria in esame in ordine all’applicabilità della disciplina propria del diritto privato.
15 Tra i quali risultano ascrivibili, a titolo esemplificativo, il regime convenzionale delle prove di cui all’art. 2698 cod. civ., il regime convenzionale delle eccezioni previsto dall’art. 1462 cod. civ., l’accordo sulla sospensione di cui all’art. 296 cod. proc. civ.
prevalentemente accettata, di altri atti cui usualmente si fa ricorso nell’esperienza applicativa, nonché il riconoscimento della derogabilità convenzionale di alcune delle rigide scansioni processuali quasi costantemente operato dalla prevalente giurisprudenza16.
Si avrà poi modo di riconoscere come, a comprovare la stessa ammissibilità della categoria di negozio giuridico processuale, assumano rilevo altresì alcuni importanti principi: in primo luogo, a livello costituzionale, occorrerà considerare, in particolare, il principio di cui all’art. 111 Cost. Invero, quest’ultima disposizione sembra evidenziare la necessità di perseguire una tempestiva – oltre che contenutisticamente adeguata – composizione delle liti. È dunque questa la ragione per cui l’ordinamento sembrerebbe forse addirittura imporre il ricorso a strumenti negoziali che siano espressione del contributo dell’autonomia privata – in quanto meritevole di tutela e corrispondente al criterio della buona fede processuale – per una più efficiente realizzazione del giusto processo regolato dalla legge.
Infine, vengono in evidenza i principi espressi a livello del diritto processuale, come, innanzitutto, il fondamentale principio dispositivo.
In questo quadro, è immediatamente utile individuare un antecedente storico degli accordi processuali nella figura della litis contestatio del processo formulare del diritto romano classico, attraverso la quale le parti in sostanza si accordavano sul programma processuale. Specificamente, pur non potendosi prescindere dalla datio iudicii, ossia dall’autorizzazione del magistrato, affinché il iudex privatus procedesse a risolvere la controversia, la formula sulla base della quale egli era chiamato a decidere, che valeva a delimitare i termini del iudicium, costituiva la rappresentazione in fatto e/o in diritto di quanto prospettato dai litiganti.
Tuttavia, rispetto a questo modello storico – come si vedrà – non sembra comunque predicabile una continuità nella scienza giuridica europea, laddove verisimilmente la ‘gestione bilaterale della lite’ andrà a perdersi nella dimensione statual- legalista già a partire dall’esperienza postclassica e giustininea. In altri termini, con il sistema della cognitio, per un verso, si adottano meccanismi che consentono di prescindere – in casi tassativi – dalla collaborazione del convenuto. Per altro verso, il giudizio si articola diversamente, strutturandosi per atti di parte, e, di conseguenza, non si procede più all’accertamento sulla base di un programma comune. E nondimeno, pare si possa affermare che un recupero del significato più fecondo del modello romano classico sia attualmente necessario, nella prospettiva appena espressa della migliore realizzazione del giusto processo, essenzialmente sub specie della sua ragionevole durata.
Addentrandoci su questa via, sembra anzitutto necessario prendere posizione in merito alla validità dogmatica della categoria degli accordi tra privati non contrattuali17
16 Xxxxxxx menzionarsi, ex pluribus, Pret. Verona 22 settembre 1998, (ord.), in Giur. merito, 1999, II, 712 ss., con nota di X. XXXXXXXX, Dell’accordo processuale, ovvero della derogabilità convenzionale delle fasi che scandiscono il processo ordinario, ivi, 716 ss.; Cass., 11 luglio 2012, n. 38070, in Ius Explorer, Milano, ult. agg.; Cons. St., 7 giugno 2012, n. 3371, in Riv. giur. ed., 2012, 4, 958; Cass., 12 novembre 2010, n. 22956, Ius Explorer, Milano, 2015, ult. ed.; In senso conforme cfr. Cass. 29 aprile 1998 n. 4397, in Giust. civ. 1999, I, 853 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, Ricorso per saltum, giudice monocratico ... e unico, ivi, 858 ss.; Cass., sez. un., 31 luglio 2006, n. 17289, in Ius Explorer, Milano, ult. agg.
17 In proposito, cfr. V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, a) Teoria generale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 297 ss.
per delineare i caratteri essenziali dei negozi giuridici processuali. In particolare, giova osservare come alla stessa faccia riferimento una parte della dottrina, che tuttavia non è pervenuta sinora ad una posizione condivisa né ha espresso orientamenti stabili riguardo a questa tematica, con ogni probabilità per la sua traslazione da altri settori, quali, soprattutto, quelli del diritto amministrativo ed internazionale18. In questo quadro, si segnala perciò una generale propensione, peraltro disomogenea, ad intendere l’accordo, da un lato, alla stregua di una statuizione negoziale effettiva, dall’altro lato, come un mero atto giuridico, incidente su rapporti giuridici19.
La trasposizione della categoria oggetto di questa elaborazione nell’ambito del diritto processuale civile ha così condotto al riconoscimento di diverse ipotesi ad essa ascrivibili20, rispetto alle quali, come è stato osservato21, per una prima impostazione sussisterebbe in capo alle parti la possibilità di regolare convenzionalmente, ma non contrattualmente, la propria posizione, attraverso atti che dal punto di vista strutturale si estrinsecherebbero in mere dichiarazioni parallele. Secondo un altro orientamento, più attento all’aspetto della struttura dell’accordo, esso si articolerebbe essenzialmente nell’affiancamento di plurime dichiarazioni comunque non collegate da un rapporto di reciproca dipendenza, dal contenuto coincidente, ma eventualmente dettate da ragioni non convergenti. Una voce differente, prendendo in considerazione alcuni casi specifici, ha poi adoperato la qualificazione di atti integranti dichiarazioni concordi, descrivendoli altresì come atti complessi, di natura non contrattuale. Infine, in relazione a certe tipologie di accordo, piuttosto è stato disconosciuto che le parti possano esercitare un potere dispositivo, dal momento che un atto così configurato si presenterebbe soltanto quale forma di compartecipazione rispetto all’attività del giudice, del cui provvedimento le convergenti manifestazioni di volontà costituirebbero un semplice presupposto22.
Nondimeno, appare forse utile considerare come al termine ‘accordo’ in generale si ricorra sovente per indicare il negozio giuridico bilaterale, quale frutto dell’attività giuridica realizzata da una pluralità di persone23, incidente sulla definizione di situazioni processuali ovvero sostanziali24. E difatti, a ben vedere, a fronte del richiamo all’accordo in un’accezione puramente strutturale e descrittiva, ove si accetti come la produzione di effetti giuridici consegua ad una valutazione funzionale in termini di meritevolezza di tutela da parte dell’ordinamento, occorrerà qualificare come negoziali gli accordi dotati di
18 Xxxxxxxxxxx, questa, posta in evidenza da V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
19 V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
20 In proposito, V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss. riferisce circa la predicabilità della categoria dell’‘accordo’ nel settore processual civilistico con particolare riferimento, tra gli altri casi, alla
«concorde richiesta delle parti, per la pronuncia secondo equità» (in questi termini, a p. 297), all’intesa
«per la determinazione delle scritture di comparazione in sede di verificazione della scrittura disconosciuta» (testualmente, a p. 298), il pactum de non exequendo, il pactum de non petendo, etc.
21 V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
22 Gli orientamenti in questione sono stati così sintetizzati da V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
23 V.M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
24 X. XXXXX, voce Accordo, b) Diritto processuale civile, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 300 s., secondo cui la convenzione rivestirebbe un peculiare rilievo nell’ambito del processo civile, dal momento che, entro certi limiti – essenzialmente rappresentati dalla compatibilità «con le finalità generali del processo» (in questi termini, a p. 300) – la volontà privata può efficacemente regolamentare alcuni suoi aspetti.
queste caratteristiche, laddove l’inidoneità dell’«in idem sentire»25 a determinare gli effetti sostantivi della fattispecie26 indicherà piuttosto la presenza di una «nuda pactio»27 dal carattere meramente accessorio, suscettibile di confluire in un più ampio assetto negoziale28.
Al riguardo, può invero preliminarmente osservarsi come il negozio giuridico processuale si presenti – ad ammetterne la configurabilità – quale atto di autonomia privata con cui le parti stabiliscono in senso configurativo un regolamento diretto ad incidere sulle modalità di svolgimento del processo ovvero – purché comunque in vista del processo – sul profilo della tutela dei diritti, negli spazi consentiti dalla legge e dai principi dell’ordinamento. Ed allora, se si riconosce la necessità che l’atto in questione sia sorretto dalla meritevolezza della causa in senso economico-individuale29, un accordo così configurato dovrà perciò considerarsi quale vero e proprio negozio giuridico, piuttosto che come mera pattuizione accessoria, e parimenti lo sarà una espressione di volontà privata unilaterale, laddove ciò risulti ammissibile. In questa prospettiva, infatti, non potrà non tenersi conto della circostanza che i suoi effetti di carattere essenzialmente propulsivo rispetto al procedimento giurisdizionale risultino in tal caso idonei a regolare immediatamente il rapporto processuale30. Pertanto, questa
25 V. M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 300.
26 V. M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
27 Così X. XXXXXX, voce Contratto normativo, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., Agg. VIII, Torino, 2013, 195.
28 Sul punto, in relazione al problema del c.d. ‘accordo normativo’, specificamente, X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss., che evidenzia la necessità di qualificare la figura in questione come un contratto, dal momento che, «o ci si trova di fronte ad una convenzione sganciata da un qualsiasi profilo di meritevolezza, ed allora il nostro ‘accordo normativo’ è nuda pactio, come tale priva di autonomia, necessariamente inerente ad un contesto negoziale – come dire – di più ampio respiro, mera intesa preparatoria; oppure sussiste una meritevolezza funzionale, che sottende la convenzione normativa giustificandone uno specifico effetto» (testualmente, a p. 195).
29 Per una riflessione sul significato del requisito causale, si veda G.B. XXXXX, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 355 ss., secondo il quale – attraverso una ricostruzione oramai prevalentemente accolta dalla giurisprudenza di legittimità – occorre aver riguardo all’«interesse che attraverso il negozio si vuol realizzare, e cioè la funzione che il negozio ha per i soggetti che lo pongono in essere» (in questi termini, a p. 370), cui va quindi parametrata la valutazione in termini di meritevolezza dell’assetto di interessi concretamente realizzato. In particolare, dopo aver denunciato la
«contaminazione delle nozioni di causa e tipo» (con questa espressione, a p. 357), che al tempo predominava negli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, l’A. sottolinea come la recezione in via legislativa di un particolare schema negoziale, pur costituendo l’indice di una considerazione astratta di favore da parte dell’ordinamento, attenga al mezzo, ma non all’«interesse concreto perseguito con quel determinato negozio» (in questi termini, a p. 358), per cui anche in questo caso occorrerà comunque valutare la compatibilità ordinamentale dell’operazione realizzata. In questa logica, avere riguardo alla
«funzione economico-individuale» (così, a p. 371) non implica un ritorno alla definizione di causa negoziale quale «scopo meramente soggettivo degli autori del negozio stesso» (in questi termini, a p. 372). Piuttosto, occorre riconoscere che «la causa è l’elemento che collega l’operazione economica oggettiva ai soggetti che ne sono autori» (testualmente, a p. 372).
30 Riguardo al profilo strutturale degli ‘accordi processual-civilistici’, X. XXXXX, voce Accordo, cit., 300 s., secondo cui «la volontà privata appare spesso determinante delle situazioni processuali: sia unilateralmente, quando, ad esempio, la legge subordina l’attività del giudice all’istanza di parte, o condiziona il prodursi di un determinato effetto all’attività di parte, casi tipici l’eccezione di incompetenza territoriale o il rilievo delle nullità …, sia bilateralmente, quando appunto la legge riconosce a determinati accordi efficacia nel processo» (testualmente, a p. 300). In questa logica, pur
considerazione rende manifesta l’opportunità di recuperare il più risalente orientamento espresso dalla Pandettistica31, nella misura in cui riconosceva che anche gli atti aventi ad oggetto profili della tutela dei diritti, qualora vadano ad incidere sullo svolgimento del processo, potessero qualificarsi come negozi giuridici processuali.
2. I diversi orientamenti a confronto.
Abbiamo così prospettato l’astratta riconducibilità nell’ambito della categoria del negozio giuridico delle manifestazioni di autonomia privata, sorrette da un idoneo scopo pratico, che si esplicano nel processo oppure in funzione della tutela dei diritti, purché comunque in via strumentale rispetto al processo.
Nondimeno, la questione appare forse, come si accennava, un poco più complessa, in quanto, a fronte di un orientamento dottrinale e soprattutto giurisprudenziale favorevole ad affermare la configurabilità e la compatibilità ordinamentale dei negozi giuridici processuali, secondo un’altra impostazione, viceversa, la stessa categoria dogmatica apparirebbe infeconda, oltre che inconferente rispetto alle sue applicazioni pratiche. Sotto altro profilo, ad accedere alla prima tesi, occorre – come meglio si vedrà – ulteriormente evidenziare la presenza di una posizione comunque improntata alla negazione dell’atipicità negoziale in ambito processuale, la quale si contrappone all’indirizzo per il quale sarebbe più ragionevole ammettere che la possibilità che l’autonomia privata intervenga in via negoziale, anche con una regolamentazione atipica, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, cod. civ., ad influire sulla disciplina del processo32.
Ed è su queste differenti impostazioni che dovremo ora soffermarci.
In particolare, tra le fila dell’ordito intessuto dalla prevalente dottrina33 che ha da tempo considerato come privo di utili implicazioni pratiche il concetto in esame si collocano le posizioni di autorevoli studiosi, i quali hanno liquidato il problema dei negozi giuridici processuali come una questione essenzialmente nominalistica34.
Specificamente, il ragionamento seguito da una risalente dottrina che si è occupata della questione35 muove dalla considerazione secondo cui l’incessante vitalità che conosce il negozio processuale nell’ambito della giurisprudenza porrebbe in evidenza
apparendo innegabile il carattere pubblicistico della giurisdizione, l’interesse sottostante al suo esercizio si presenta comunque come privato, «perché privato è il rapporto rispetto al quale essa in concreto si esercita» (così, a p. 300).
31 In proposito, può menzionarsi la posizione di X. XXXX, Das Geständniss, cit., 216 ss. (in particolare, 237 ss.).
32 X. XXXXXX, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, in Accordi di parte e processo, a cura di X. Xxxxx, Milano, 2008, 99 ss. (ed, amplius, 107 ss.).
33 Al riguardo, occorre menzionare, ex pluribus, X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
34 Può così riassumersi, in ultima analisi, la pregevole ricostruzione di X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss. Sulla medesima linea di pensiero sembra sostanzialmente attestarsi altresì l’impostazione seguita da X. XXXXX, voce Accordo, cit., 300 s., ove si consideri come – pur riconoscendo la necessità di attribuire rilievo agli accordi che dispiegano la propria efficacia nel processo – l’A. tenda comunque a perimetrarne la disciplina nei ristretti limiti dati dalle esplicite previsioni della legge processuale.
35 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
come al concetto medesimo si faccia usualmente riferimento al fine di trovare una soluzione alla questione del regime giuridico da applicare ai vizi della volontà ovvero ai difetti della manifestazione del volere in relazione agli atti processuali36. Nondimeno, in senso contrario si opina che l’emersione di una tipologia di atti processuali di natura normativa, antitetica alla categoria degli atti del processo restrittivamente intesi, che si distinguerebbe in quanto il loro contenuto obiettivo renderebbe palese la connessione che li lega agli effetti giuridici che producono, e dunque la traslazione del concetto di negozio giuridico nella sfera processuale, non importerebbe comunque la possibilità di estendere alla materia in questione la disciplina dei negozi giuridici privati, ossia di quelli che esplicano i propri effetti in campo sostanziale37. Ad orientarsi in quest’ordine di idee, infatti, occorrerebbe valorizzare in tal senso la circostanza che la tradizionale questione dei vizi della volontà troverebbe piuttosto soluzioni peculiari, caratteristiche degli atti processuali, comunque rinvenibili nell’ambito di tale ordinamento38. Di conseguenza, secondo i fautori della tesi in esame, non potrebbe che concludersi nel senso che
«l’adottare in campo processuale la figura del negozio giuridico non solo non giova, ma può essere causa di equivoco, ostacolando, con il quasi inevitabile richiamo alle soluzioni proprie del diritto privato, l’esatta individuazione delle soluzioni proprie degli atti di carattere processuale»39.
In questa logica, sebbene l’utilizzo della categoria del negozio giuridico processuale varrebbe ad evidenziare la necessità di modulare in concreto il regime degli specifici tipi di atti processuali, allo scopo di non relegare la volontà di parte ad una funzione indefinita, il rilievo comunque riconosciuto alla ‘normatività’ dell’atto presenterebbe nondimeno elementi peculiari non identificabili con i caratteri propri dei negozi giuridici40. In particolare, ciò discenderebbe dalla circostanza che l’atto processuale si contraddistinguerebbe principalmente per il fatto di incardinarsi nello svolgimento ordinato del procedimento, presentando, di conseguenza, effetti non autosufficienti, ma inevitabilmente collegati al provvedimento decisorio del giudice41. La mancanza di autonomia in senso negoziale degli atti di questo genere risiederebbe
36 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
37 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
38 G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, 74 ss., il quale evidenzia le specificità della disciplina processuale – e dunque di diritto pubblico – al fine di rispondere al quesito se «la trasposizione del concetto di negozio giuridico» (in questi termini, a p. 74) in quel campo abbia «per oggetto una semplice etichetta, cioè una categoria da sfruttare a soli fini di classificazione degli atti giuridici, oppure port(i) con sé una determinata disciplina, quella a cui la categoria, pur tra varie differenze … è sottoposta nel diritto privato» (testualmente, a p. 74).
39 X. XXXXX, I fatti, cit., 79, che – nel precisare come l’utilità di una qualifica vada riscontrata in relazione alla capacità di sintetizzare in modo certo e sufficientemente preciso gli elementi comuni ai fatti giuridici ricondotti nel suo ambito – sottolinea l’importanza di stabilire se l’atto si esplichi nella volontà degli effetti giuridici anziché nella volontà dello scopo pratico ovvero nella volontà che abbia ad oggetto il contenuto della dichiarazione. Il che rappresenterebbe il presupposto essenziale per stabilire quali conseguenze importino i vizi della volontà e la mancata coincidenza tra volontà e dichiarazione.
40 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
41 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss.
dunque nella loro natura transitoria di mero passaggio momentaneo in direzione di un successivo atto normativo e di conseguenze giuridiche susseguenti42.
Una volta delineati questi aspetti, ai fini dell’analisi degli orientamenti sottostanti alla casistica di cui ci occupiamo, non si può prescindere, a questo punto, dall’esaminare la tesi – sostenuta da una parte della dottrina, nonché dalla prevalente giurisprudenza – favorevole ad ammettere l’autonomia dogmatica del concetto di negozio giuridico processuale, con cui sarebbe consentito all’autonomia privata regolare, entro i limiti consentiti, il rapporto instaurato o da crearsi con il processo.
Al riguardo, può innanzitutto muoversi dalla considerazione di una risalente dottrina, la quale mette in risalto l’assunto per cui «se il carattere pubblicistico e le forme processuali sopprimessero ogni libertà di volere nella parte che pone in essere gli atti processuali, il potere dispositivo delle parti, universalmente riconosciuto a base del processo civile e spiccatamente sancito dal diritto positivo italiano, sarebbe una chimera»43. In questa logica, si configurerebbero quali negozi processuali quegli atti che rappresentino una libera e volontaria forma di esercizio del diritto soggettivo processuale
– propria delle parti ed esulante dai meri atti procedurali ovvero dagli atti dovuti – con cui queste realizzino un assetto di interessi giuridicamente rilevante, che opera sulle posizioni avanzate e svolte con il processo44. Per altro verso, ci si troverebbe in presenza di uno strumento logico valevole a superare le difficoltà che aveva generato la configurazione di contratti o quasi contratti tra le parti processuali45. In altri termini, il ricorso alla categoria negoziale apparirebbe necessario e sufficiente al fine di predicare il sorgere di effetti giuridici vincolanti a carico dei litiganti46 in relazione al rapporto processuale.
Ebbene, ciò consentirebbe di individuare quello che sin dall’esperienza giuridica romana si era percepito come un’entità di natura processuale – configurandosi, può invero precisarsi, come un agere ‘cum’ aliquo, ossia con la cooperazione dei litiganti allo svolgimento della procedura, piuttosto che come un agere ‘contra’ aliquem – comunque distinto dal diritto sostanziale47. Infatti, questo concetto gioverebbe, pur senza trascurare
42 X. XXXXX, voce Negozio processuale, cit., 138 ss., il quale osserva che «se si considera che il connotato essenziale dell’atto processuale è dato dal suo inserimento nella serie effettuale del procedimento, e quindi dell’assenza di un’efficacia autonoma, per il suo riflettersi necessariamente sull’esercizio dei poteri decisori dell’organo giurisdizionale, sembra difficile individuare nella ‘normatività’ dell’atto un fenomeno operante sullo stesso piano della ‘normatività’ degli atti negoziali» (così, a p. 143).
43 X. XXXX, Del negozio, cit., 35.
44 X. XXXX, Del negozio, cit., 34 ss.
45 X. XXXX, Del negozio, cit., 82 ss.
46 Ebbene, la stessa definizione delle parti in termini di litiganti non si presenta come di per sé incompatibile con il raggiungimento di un accordo in ordine alla stipulazione di negozi volti a gestire il processo. In questa logica, già X. XXXXX, Dei rapporti processuali, Milano, 1901, 3 ss. poneva in evidenza come «il rapporto processuale si sovrappone, pur senza confondersi con esso, su quello reale, e fa scomparire … l’atteggiamento di rivalità personale» (così, a p. 6). Dal ché si ricava che la civiltà del giudizio si manifesta proprio nella circostanza che «il contrasto personale si attenua e si trasforma in un accordo fra gli stessi litiganti, animati dall’intento comune di ottenere la dichiarazione del diritto obbiettivo» (in questi termini, a p. 6).
47 Al riguardo, occorre, in primo luogo, richiamare l’impostazione di C.A. XXXXXXX, Profilo istituzionale del processo privato romano. Le ‘legis actiones’, I, Torino, 1982, 6 ss. (e, soprattutto, 9), il quale pone in evidenza come la nozione di ‘agere’ vada intesa, in relazione al processo romano classico, «nel preciso
la natura complessa della figura48, essenzialmente a valorizzare un ineliminabile sostrato volontaristico quale emergerebbe dalla cospicua casistica. In particolare, al negozio giuridico processuale gioverebbe far ricorso al fine di risolvere – sulla base della disciplina sostanziale propria degli atti negoziali, eccettuata l’indispensabile sistemazione per adattarla alla positiva disciplina processuale49 – le questioni applicative del diritto vivente, quale, ad esempio, la conversione di un’opposizione di terzo in un intervento in appello di cui possieda i requisiti. Da quest’ultimo punto di vista, risulterebbe dunque che la presa di consapevolezza circa la configurabilità razionale e giuridica della figura negoziale in esame apparirebbe come produttiva di risultati considerevolmente vantaggiosi sia dal punto di vista dogmatico e ricostruttivo sia da quello dei suoi portati applicativi, operando trasversalmente rispetto al processo civile ed a quello penale, che apparirebbero sotto questo profilo assimilabili50.
Lungo la prospettiva di sviluppo di questa tesi si colloca chi, con una più recente elaborazione51, specificamente ammette che nell’ordinamento trovi spazio la realizzazione di negozi processuali non previsti in modo espresso dal legislatore, e dunque atipici, in forza dell’operatività del principio dispositivo. In particolare, nel processo civile dovrebbe coordinarsi quest’ultimo con la regola della autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 cod. civ., in considerazione della natura strumentale della procedura in questione rispetto ai diritti ed all’autonomia privata, pur senza oltrepassare i limiti pubblicistici stabiliti dall’ordinamento52. Ed invero, ad orientarsi in quest’ordine di idee, può riconoscersi la trasversalità del diritto comune, dal momento che – come si avrà modo di chiarire più avanti – il diritto dei contratti si presenta come destinato a livello ordinamentale a disciplinare tutte le vicende in cui comunque venga in considerazione la possibilità di autoregolamentazione delle parti, laddove la normativa in
senso di attività che il magistrato (la corte) accorda ad un soggetto nei confronti di un altro, e che si svolge con la partecipazione di entrambi quei soggetti: i Romani non dicevano, infatti, ‘agire contro qualcuno’, come è usuale per noi, ma ‘agere cum xxxxxx’, agire con, insieme a qualcuno» (testualmente, a p. 9). In questa prospettiva, è altresì necessario menzionare la posizione espressa da X. XXXXX - X. XXXXX, Das römische Zivilprozessrecht2, Xxxxxxx, 0000, 233. Sul punto, cfr. altresì X. XXXX, Del negozio, cit., 102 s.
48 Natura mista del negozio giuridico processuale che emergerebbe, in particolare, a seguire l’impostazione di X. XXXX, Del negozio, cit., 121 ss., dalla sua caratteristica «a) formale, per la prova della volontà soggettiva, in rapporto col suo valore obbiettivo; b) privata e autonoma nei moventi; c) pubblica e controllata negli effetti; d) patrimoniale nei moventi e negli effetti insieme» (in questi termini, a p. 124).
49 X. XXXX, Del negozio, cit., 96 s.
50 X. XXXX, Del negozio, cit., 103 ss.
51 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 99 ss. (e, soprattutto, 107 ss.).
52 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 99 ss. (e, soprattutto, 107 ss.). La tesi favorevole all’ammissibilità dei negozi processuali atipici trova sostegno anche da parte di G. DE NOVA, Accordi di parte e decisione, in xxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/, il quale, in questa prospettiva, esattamente rileva che sarebbe arduo «tener fermo il limite della tipicità» rispetto alle convenzioni mediante le quali le parti incidono sulla configurazione del processo. Si tratta di «un limite che anche in linea di principio non sussiste se la decisione è dell’arbitro, ma che non regge neppur quando a decidere sia il giudice togato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane il problema della validità di tali accordi, non in linea di principio, ma presi uno per uno, in relazione alla possibile elusione di norme imperative».
questione risulti eventualmente compatibile con le norme imperative espressione di interessi di carattere pubblicistico.
Occorre peraltro ricordare, per completezza, l’impostazione di una parte della dottrina che – come meglio si vedrà nell’affrontare questo problema – risolve in termini generali sfavorevolmente la questione relativa all’ammissibilità di accordi processuali in ipotesi non espressamente consentite dalla disciplina del processo53. Da quest’ultimo punto di vista, l’orientamento in considerazione trae la regola dalla circostanza che non è concesso all’autonomia privata regolare diversamente forme o termini previsti dalla legge a pena di nullità oppure di decadenza, adducendo ad esempio i termini di impugnazione delle sentenze e quelli di estinzione del giudizio. Rileverebbe, inoltre, il fatto che non è permesso derogare ai principi basilari volti a garantire l’effettività della giustizia, per cui si porrebbe in insanabile contraddizione con questi canoni un negozio con cui si rinunci preventivamente a proporre mezzi di impugnazione54.
3. Autonomia privata e principio dispositivo.
Che l’apparente «crisi dogmatica del concetto»55 di negozio giuridico processuale celi in realtà una mai sopita vitalità della figura in esame – quale strumento di cui le parti si avvalgono al fine di regolamentare gli aspetti non indisponibili del procedimento – trova riscontro nel suo non infrequente riaffiorare negli approdi della giurisprudenza. Ed infatti, questo filone di ricerca può schiudere prospettive di sicuro interesse e rilevanza applicativa: specificamente, risulterà utile indagare la possibilità di stabilire una correlazione tra la figura del negozio giuridico processuale e la categoria generale di contratto, allo scopo di definirne i rapporti reciproci, in vista della tendenziale estensione al negozio processuale di alcuni principi che governano la disciplina contrattuale. In quest’ordine di idee, nella preliminare ricerca di un fondamento che consenta di predicare l’ammissibilità della figura in questione, occorrerà prendere le mosse anzitutto da alcuni interrogativi di carattere preliminare.
In particolare, è bene chiedersi immediatamente se il principio dell’autonomia privata sancito essenzialmente dall’art. 1322 cod. civ. possa rappresentare una risorsa applicativa in ambito processuale56. In altri termini, partendo dalla considerazione secondo cui alla luce del principio dispositivo il processo non è totalmente indisponibile, sarà opportuno perimetrare i limiti di esplicazione della regola in esame – di cui emergerà il carattere di tendenziale bilateralità, quale proiezione del dovere di buona fede – al fine
53 X. XXXXX, voce Accordo, cit., 300 s.; sulla stessa linea di pensiero può ricordarsi X. XXXXXXXX,
Dell’accordo, cit., 718.
54 X. XXXXXXXXX, voce Accordo processuale, in Enc. giur., I, 1990, 1 ss., che si esprime in modo sostanzialmente conforme a X. XXXXX, voce Accordo, cit., 300 s.
55 X. XXXXX, Introduzione, in Accordi di parte e processo, a cura di X. Xxxxx, Milano, 2008, 1 ss., il quale, nel delineare i termini del tema della ‘contrattualizzazione’ della giustizia, sottolinea come non sia possibile
«ignorare la formula, apparentemente rigida, dell’art. 111 Cost., secondo cui il giusto processo è quello regolato dalla legge e quindi, sembrerebbe, non dagli accordi di parte» (in questi termini, a p. 3). In questa logica, secondo l’A. occorrerebbe perciò confrontarsi con «la tendenza in Italia alla rigidità dei modelli» (così, a p. 4), che segnerebbe la distanza con i «più moderni modelli europei» (testualmente, a p. 4).
56 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 99 ss. (e, soprattutto, 107 ss.).
di delineare i contesti in cui sia possibile pensare ad un recupero della negozialità del processo, oltre a ricostruire la struttura degli accordi processuali.
Procediamo pertanto ad analizzare il primo punto essenziale, afferente al profilo della configurazione del principio dispositivo – con particolare riferimento, almeno inizialmente, al diritto processuale civile – allo scopo di valutare la sua eventuale correlazione, non necessariamente biunivoca, con il principio dell’autonomia privata.
In proposito, giova preliminarmente osservare come ad una corrente dottrinale tedesca del XIX secolo sia da ascrivere la distinzione tra principio dispositivo in senso stretto o sostanziale (c.d. ‘Dispositionsmaxime’) e principio dispositivo lato sensu inteso, detto altresì processuale (c.d. ‘Verhandlungsmaxime’)57.
La prima accezione, in particolare, fa riferimento al potere-onere di proporre la domanda e di allegare i fatti giuridici costitutivi della pretesa; essa trova espressione nel nostro ordinamento essenzialmente nelle norme di cui agli artt. 99 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ., le quali prevedono, rispettivamente, che chi intenda far valere un diritto in giudizio debba proporre domanda al giudice competente e che l’autorità giudiziaria assicura la tutela giurisdizionale dei diritti su domanda di parte, salvi i casi previsti dalla legge. Specificamente, questa disciplina rappresenta un portato del canone fondamentale di cui all’art. 24 Cost., esplicitando la garanzia della possibilità di agire e difendersi in sede giurisdizionale per la tutela dei propri diritti e interessi. Un preminente rilievo assume, quindi, il principio della domanda che – quale espressione del potere di disposizione conseguente alla natura tendenzialmente privata dei diritti dedotti in giudizio58 – appare strettamente connesso con il principio dispositivo59. In questa prospettiva, «il principio della domanda giudiziale, quello cioè che subordina alla autonomia della parte lo svolgimento del processo e della giurisdizione civile, costituisce aspetto essenziale ed indefettibile della soggettività del diritto»60, dal momento che soltanto il titolare dello stesso, in quanto tale, ha la possibilità di determinarsi nel senso della sua tutela giurisdizionale. Si deve perciò escludere che nel suo esercizio «possano ingerirsi né estranei, né pubbliche autorità in vista di supposti interessi pubblici o superiori»61.
Il secondo profilo riconoscibile nel principio dispositivo, invece, ricomprende più ampiamente l’aspetto organizzativo del processo, ivi incluse le iniziative istruttorie.
In questo senso, la sua alterazione in via legislativa non si ripercuoterebbe negativamente sul «sistema della tutela giurisdizionale e dell’ordinamento giuridico
57 X. XXXXXXXXXX, Manuale di diritto processuale civile. Disposizioni generali. I processi di cognizione di primo grado. Le impugnazioni, I, Padova, 2012, 274 ss.
58 Vi sono nondimeno ipotesi le quali, come rileva X. XXXXXXXX, Dell’accordo, cit., 717, costituiscono
«eccezioni al principio dispositivo», dal momento che «ricorrono anche tratti inquisitori nel processo civile, in casi tassativamente previsti ex lege, quando “all’interesse delle parti si sovrappone un interesse generale a ricercare la verità”» (testualmente, a p. 717). L’attività istruttoria nel processo ispirato al principio inquisitorio viene per l’appunto regolamentata in un titolo autonomo della normativa processuale, denominato ‘sui rapporti indisponibili’ e caratterizzato dai più ampi poteri assegnati al pubblico ministero ed al giudice.
59 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 198 ss.
60 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 199.
61 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 199.
privato»62 complessivamente inteso63. Xxxxxxxxx, non sembra revocabile in dubbio che un modello processuale fondato sul principio dispositivo garantisca un «processo pienamente conforme al contraddittorio, al diritto di difesa e alla sfera di autonomia e libertà delle parti»64, laddove il principio inquisitorio – quale strumento, essenzialmente caratterizzato dall’iniziativa del giudice, per conseguire rapidamente ed eventualmente contro la volontà delle parti la verità ‘reale’ – risulta invero «improntato ad una visione che potrebbe definirsi ufficiosa, quindi burocratica ed autoritaristica della giurisdizione civile»65. In quest’ordine di idee, occorre dunque considerare innanzitutto come non vi siano elementi obiettivi che avvalorino la tesi66 per cui l’introduzione nel processo delle prove ad opera delle parti, piuttosto che officiosamente da parte del giudice, apparirebbe fuorviante rispetto all’obiettivo di accertare processualmente la verità dei fatti67. Viceversa, la partecipazione del giudice alla ricerca delle prove – secondo un oramai pacifico approdo, rispetto al quale, del resto, è orientato l’intero ordinamento – certamente rischia di compromettere l’imparzialità dell’organo giudicante e, di conseguenza, l’obiettività della valutazione68. Ciò trova conferma altresì nel divieto posto al giudice di fare uso della propria scienza privata ai fini della decisione, quale corollario del principio del contraddittorio cristallizzato nell’art. 111 Cost. In buona sostanza, il sistema inquisitorio – già disconosciuto nell’ambito del processo penale – non soltanto non importa la sicurezza di conseguire risultati certi e solleciti, ma altresì si presenta come la manifestazione di un potere pubblico di stampo autoritaristico69 che pregiudica il diritto di difesa delle parti. In questa logica, è chiaro che «non si può arbitrariamente
62 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 274.
63 In proposito, cfr. X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 274 ss., il quale considera come, in astratto, appaia possibile «attribuire vasti poteri direttivi ed inquisitori al giudice civile, senza che ciò comporti attentato alla natura ed alla titolarità dei diritti soggettivi ed al principio della domanda: trattandosi di mera tecnica processuale, l’attribuzione di siffatti poteri sarebbe perfettamente compatibile con la struttura e la funzione della giurisdizione civile» (in questi termini, a p. 274).
64 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 275.
65 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 275.
66 X. XXXXXXX, Verità negoziata?, in Accordi di parte e processo, a cura di X. Xxxxx, Milano, 2008, 69 ss., secondo cui «la verità degli enunciati relativi ai fatti della causa esiste o non esiste in funzione di come si sono svolti i relativi accadimenti nel mondo reale, e non è oggetto di negoziazione o di accordo tra le parti» (in questi termini, a p. 92), per trarne la considerazione che «il fatto non contestato deve essere effettivamente oggetto di decisione, nel senso che il giudice può sempre trarre elementi di convincimento intorno alla verità o falsità di esso, da qualunque fonte di informazione che gli venga fornita nel corso del processo» (così, a p. 97).
67 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 274 ss., il quale chiarisce che, per altro verso, la finalità del processo – e dunque della prova – consiste piuttosto nel rendere edotto il giudice circa lo svolgimento dei fatti, così ché sia in grado di «accertare e dichiarare il diritto» (così, a p. 275, nt. 29). In altri termini,
«la ricerca della verità è solo un equivoco dal quale nasce, come al solito, un falso e quindi insolubile problema: esso svanisce ove si rifletta che in realtà la cognizione dei fatti, e/o la ricerca della verità, non sono il fine del processo giurisdizionale, ma solo un mezzo per consentire lo svolgimento della giurisdizione» (in questi termini, a x. 000 x., xx. 00).
68 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 274 ss. Sul punto, si veda altresì D. BUONICRISTIANI, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino, 2001, 28 ss.
69 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 274 ss.
staccare il fine dal modo in cui si persegue, quindi non si può affatto astrarre la tutela giurisdizionale dei diritti dal modo in cui si giunge ad essa»70.
In ultima analisi, il processo dispositivo ridonda quindi nella regola della necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, di cui all’art. 112 cod. proc. civ. In questa prospettiva, la proposizione della domanda giudiziale – quale esercizio di un diritto potestativo – compete in via esclusiva a chi sia provvisto della legittimazione e dell’interesse per agire e si rivolge ineluttabilmente verso un altro soggetto a sua volta provvisto di legittimazione e di interesse a contraddire. Ed allora, «qualsiasi intrusione di organi o soggetti estranei, sia pure il giudice, nell’ambito oggettivo del processo finirebbe con il menomare il diritto dell’attore e con il pregiudicare la difesa del convenuto»71.
4. Perimetro di esplicazione dell’autonomia privata nel processo: tra regolamentazione pubblicistica e contributo alla miglior realizzazione del giusto processo.
Una volta delineata, in via generale, l’importanza del principio dispositivo per il corretto ed efficiente esercizio della giurisdizione, occorre ora riflettere sul tema dell’area di possibile incidenza degli accordi processuali sullo svolgimento del processo. In altri termini, è necessario perimetrare il problema centrale – su cui si tornerà nel prosieguo della trattazione – del rapporto tra autonomia privata e disciplina essenzialmente pubblicistica del processo civile disposta dalla legge72, per comprendere fino a che punto il principio dispositivo consenta all’attore di disporre dello strumento processuale in sé.
Al riguardo, giova innanzitutto osservare come l’autonomia negoziale che si esplica nel processo non possa «essere tale da contrapporsi alle norme positive e generali di legge, da cui dipende il lecito ed il possibile nella sfera del diritto»73, né a quelle di carattere imperativo riguardanti la peculiare disciplina del processo74. Si tratta invero di limiti indirizzati verso l’obiettivo di garantire alla collettività un funzionamento efficiente della giustizia civile attraverso un equilibrato dispiego di risorse statali75, in sintonia con il principio del giusto processo regolato dalla legge, di cui all’art. 111 Cost. In buona sostanza, non pare ammissibile che – nel momento in cui la manifestazione di autonomia privata consentita dal principio dispositivo si esplica nell’ambito di una procedura di carattere essenzialmente pubblicistico – alle parti sia consentito di spingersi sino ad abusare dello strumento processuale con comportamenti inutilmente dilatori che vadano a discapito del buon funzionamento del processo medesimo, con un deleterio
70 Testualmente, X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 277.
71 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 254.
72 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 100 s., la cui riflessione si appunta sul superamento di una certa configurazione di tali rapporti, i cui segnali si coglierebbero nella «diminuzione della capacità di regolazione dello Stato secondo il modello tradizionale, basato sulla imposizione unilaterale della regola di condotta; (nel)la diffusione di strutture di formazione cooperative e consensuali, come tentativo di compensare la perdita di potere autoritativo e di affiancare al comando l’accordo, come altra forma originaria di fondazione del vincolo giuridico» (in questi termini, a p. 100 s.).
73 X. XXXX, Del negozio, cit., 31.
74 X. XXXX, Del negozio, cit., 27 ss.
75 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 107 ss.
dispendio di mezzi. Per questa ragione, sembra possibile ammettere che la regolamentazione di alcuni aspetti del processo trovi la propria fonte in un atto di carattere negoziale, laddove l’autonomia delle parti si inserisca negli ambiti consentiti dalla legge processuale oppure in quelli naturalmente disponibili76.
Ed è allora in questo senso che la regola dell’autonomia privata – essenzialmente ricavabile dalla disposizione di cui all’art. 1322 cod. civ. per quanto concerne il potere dei privati di determinare il contenuto del contratto – ed il principio dispositivo appaiono certamente correlati, ancorché non necessariamente biunivoci. In altri termini, il principio dispositivo mostra di esplicarsi attraverso scansioni processuali predeterminate
– anche mediante atti processuali in senso stretto oppure con negozi incidenti piuttosto sulla situazione sostanziale controversa –, se non intervenga l’autonomia privata ad ampliarne la portata per mezzo di strutture negoziali ineluttabilmente improntate alla regola della buona fede, pur nei limiti del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico processuale.
Da quest’ultimo punto di vista, occorre peraltro valutare immediatamente se la stessa regola di cui all’art. 1322 cod. civ. assicuri il rispetto del principio di legalità giurisdizionale ed appaia, di conseguenza, applicabile altresì in ambito processuale. In buona sostanza, è necessario stabilire se la norma in questione si presenti come idonea a soddisfare la riserva di legge rinforzata di cui all’art. 111 Cost.
Specificamente, essa si traduce innanzitutto nella regola sulla base della quale è consentito regolare lo svolgimento del processo soltanto mediante atti normativi aventi forza di legge. Per di più, la riserva implica un vincolo contenutistico nei confronti del legislatore, il quale, nel predisporre la disciplina processuale, è tenuto a conformarsi ai principi enucleati nel medesimo art. 111 della Costituzione77. In altri termini, ciò vale ad integrare la previsione di una riserva di legge rinforzata in ordine alla circostanza che attraverso atti normativi di rango primario venga predisposta una regolamentazione del processo che si presenti come ‘giusta’. Il che presuppone il rispetto delle garanzie minime di salvaguardia necessarie affinché qualsivoglia procedimento giurisdizionale possa riconoscersi ‘giusto’, le quali sono essenzialmente riconoscibili nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, nella ragionevole durata del processo ed, infine, nella imparzialità e terzietà dell’organo giudicante. È appena il caso di ricordare, poi, che quest’ultimo parametro trova espressione nell’obbligo di motivazione della sentenza e nella garanzia del ricorso per Cassazione, parimenti previsti dalla norma costituzionale in questione.
Pertanto, come è stato esattamente osservato78, occorrerebbe ai nostri fini riscontrare l’effettiva osservanza della riserva di legge in questione in funzione delle predette garanzie processuali, quali – soprattutto – il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, non sembrando sostenibile affermare che il legislatore costituzionale abbia inteso limitare «tutti quei moduli processuali fortemente “deformalizzati”»79.
76 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 107 ss.
77 X. XXXXXXXX, Equo processo, giudicato nazionale e convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2012, 165 ss.
78 X. XXXXXXXX, Equo processo., cit., 165 ss.
79 X. XXXXXXXX, Equo processo., cit., 166.
Xxxxxx, sembra utile prendere le mosse dalla considerazione per la quale il contenuto testuale della disposizione di cui all’art. 1322 cod. civ. appare prima facie compatibile con il riconoscimento degli accordi processuali. Infatti, il secondo comma della norma in questione consente alle parti di stipulare contratti non rientranti negli schemi tipici, a condizione che l’assetto di interessi programmato si presenti come meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. A ben vedere, la disposizione può essere letta quale riscontro positivo circa la configurabilità degli accordi giuridici atipici, pur restando aperto, come noto, il problema della ammissibilità della figura del negozio unilaterale atipico.
Non paiono sussistere pertanto ragioni ostative alla configurabilità di accordi processuali atipici, stante la rilevata qualificazione degli stessi in termini negoziali. In particolare, ciò trova fondamento nella circostanza che la disciplina contrattuale può operare quale ‘diritto comune’. Ciò equivale a dire che nel vigente assetto ordinamentale la medesima disciplina risulta idonea a regolare ogni atto di autonomia privata plurilaterale che configuri una convenzione, a prescindere dal settore in cui si esplica, salvo il rispetto di specifiche norme imperative80.
Sulla base di queste premesse, per poter predicare l’applicabilità della disciplina in questione in questo settore dell’ordinamento, occorre anzitutto rinvenire un fondamento normativo di rango primario, il quale può appunto individuarsi nel medesimo art. 1322 cod. civ. Più precisamente, quest’ultima norma appare suscettibile di regolamentare al livello legislativo gli spazi della disciplina processuale rimessi all’operatività del principio dispositivo – e dunque non soggetti alla normativa pubblicistica del codice di rito – secondo il parametro della meritevolezza, da declinarsi tenendo conto delle peculiarità del processo81. Oltre a ciò, la riserva sembra così rispettata finanche da un punto di vista
80 In questo senso, può menzionarsi, ex pluribus, X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato16, Napoli, 2013, 775 ss., il quale – dopo aver ricordato che «il codice civile prevede una disciplina generale comune a tutti i contratti, tipici ed atipici» (così, a p. 775), ponendo così la categoria di contratto «al centro del sistema» (testualmente, a p. 775) – evidenzia che «la disciplina del contratto … domina sovrana quando c’è patrimonialità, con una forza espansiva che va peraltro al di là dell’art. 1324» (in questi termini, a p. 777). In quest’ordine di idee, «perfino la P.A. … può scegliere il modello convenzionale per realizzare i propri interessi pubblici» (così, a p. 777). Inoltre, l’A. rileva che «la forza espansiva della disciplina contrattuale si manifesta anche in un altro settore pubblicistico» (con queste esatte espressioni, a p. 778), dal momento che «la giurisprudenza penale … è concorde nell’applicare al patteggiamento della pena i principi sulla conclusione del contratto (la revoca unilaterale è dunque impossibile una volta raggiunto l’accordo)» (in questi termini, a p. 778).
81 Sembra peraltro opinare in senso parzialmente difforme X. XXXXXXXX, Dell’accordo, cit., 718, secondo cui occorrerebbe distinguere due tipi di negozi giuridici processuali. Da un lato, sarebbe possibile individuare gli accordi che «producono efficacia diretta sul processo ma non sono regolati dalla normativa processuale» (così, a p. 718), per i quali sarebbe da ammettersi il ricorso a strutture atipiche. Dall’altro lato, occorrerebbe differenziare gli accordi la cui «natura prettamente processuale» (in questi termini, a p. 718) discende dalla circostanza che essi apparirebbero «disciplinati direttamente dalle norme del codice di rito» (testualmente, a p. 718) e si manifesterebbero «sotto forma di atti bilaterali ovvero di duplice atto unilaterale di identico contenuto» (così, a p. 718). In particolare, a quest’ultimo genere apparterrebbero l’accordo sulla sospensione del processo di cui all’art. 296 cod. proc. civ. e la richiesta di decisione secondo equità proveniente dalle parti, contemplata dall’art. 114 cod. proc. civ. Ebbene, per questi ultimi accordi vigerebbe «la tassatività delle ipotesi e il divieto di modificare forme processuali o termini posti dalla legge con la sanzione della nullità o della decadenza … o derogare ai
contenutistico, dal momento che le convenzioni processuali cui l’ordinamento può riconoscere tutela sono esclusivamente quelle contrassegnate dal contributo dell’autonomia privata alla migliore realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost. – sub specie di una maggiore efficienza dello stesso procedimento ed un incremento delle probabilità di conseguire un accertamento processuale più vicino alla rei veritas – quale effetto riflesso dell’assetto più confacente agli interessi delle parti. In questa prospettiva, il vincolo di contenuto espresso dalla riserva di legge sembra imporre l’apertura all’operatività del negozio giuridico processuale, dal momento che la regolazione privata della procedura, nei limiti funzionali ora accennati, contribuisce a configurare il processo ‘giusto’.
Del resto, tutto questo rappresenta il logico corollario del riconoscimento della circostanza che il procedimento civile si configura come la proiezione dell’autonomia privata rispetto alla posizione giuridica soggettiva per la tutela della quale si agisce in via giurisdizionale, spettando perciò di regola alle parti ogni iniziativa di impulso rispetto allo svolgimento del processo, ad eccezione di alcune ipotesi particolari82. Pertanto, gli accordi processuali si presentano come negozi incentrati sulla gestione del procedimento, quali manifestazioni di «quel principio dispositivo che consente alle parti di regolare lo svolgimento della attività giurisdizionale civile secondo la loro privata volontà per conseguirne vantaggi reciproci»83. In quest’ordine di idee, la validità dei negozi di questo genere risulta comunque delimitata dalla necessaria conformazione alle norme ed ai parametri di ordine pubblico ed alle ragioni di carattere generale del processo, dal momento che le parti non possono spingersi sino a modificare forme o termini imposti dalla legge a pena di nullità o di decadenza ovvero discostarsi da alcune coordinate fondamentali per garantire la possibilità di ottenere giustizia nel caso concreto84.
Ebbene, a ritenere applicabile ai negozi giuridici la disciplina dei contratti in quanto compatibile, sembra potersi da ciò inferire che nemmeno i negozi processuali si discostino dal principio per cui l’atto privato incontra un limite esterno nella compatibilità ordinamentale, secondo quanto xxxxxxx espressamente dalla disposizione di cui all’art. 1418 cod. civ. Limite che si estrinseca nel caso in questione soprattutto nella diversità strutturale del diritto processuale.
principi fondamentali della tutela giurisdizionale» (in questi termini, a p. 718). Ciò si porrebbe dunque in contrasto con l’ammissibilità di convenzioni processuali al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla normativa del codice di procedura civile. Tuttavia, sembra chiaro come il necessario «limite del rispetto tanto dell’ordine pubblico, quanto delle finalità che il processo civile persegue» (testualmente, a
p. 718), nei termini che si andrà ad indagare, valga a perimetrare piuttosto che ad ostacolare la configurabilità di negozi giuridici processuali atipici ai sensi dell’art. 1322 cod. civ.
82 X. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 1 ss.
83 X. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 1.
84 X. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 1 ss.
5. Buona fede e struttura essenzialmente consensuale del negozio nel processo. Prospettive d’indagine e genesi storica del modello.
Con queste premesse, siamo adesso in grado – dopo aver appurato che il processo, in sé, pur nella sua essenza pubblicistica, non è totalmente indisponibile – di individuare i contesti in cui si possa legittimamente ammettere il ricorso al negozio processuale e quale ne sia la struttura. Ciò consentirà successivamente di accennare al significato dell’accostamento – che non si traduce in una piena identificazione – con la categoria generale di contratto, in ragione delle radici storiche della figura in questione.
In proposito, emerge immediatamente – nell’ambito dell’indagine sui fondamenti storico-culturali di un possibile recupero della negozialità nel processo ed in vista di esso
– il tema della bilateralità degli atti con cui in questi ambiti si può concepire l’esercizio dell’autonomia privata, da collegarsi all’operatività finanche in sede giurisdizionale della clausola di buona fede.
Xx è su questo aspetto che dovremo ora soffermarci.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad una prospettiva che merita una più approfondita considerazione, dovendosi immediatamente procedere ad analizzare i rapporti tra la regola espressa dall’art. 1175 cod. civ. e la disciplina processuale. A tal fine, sembra opportuno, in primo luogo, prendere le mosse dalla casistica che ha riguardato l’argomento in esame. Infatti, la questione si riconnette alla complessa vicenda giurisprudenziale del frazionamento della domanda volta ad ottenere la tutela giudiziaria del credito85, il cui esito finisce sostanzialmente per riproporre il criterio di giudizio del quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, che costituiva la struttura dell’intentio dei iudicia xxxxx xxxxx, xxx xxxxxxxx xxxxxxx xxxxxx00. Specificamente, la Corte di legittimità è pervenuta da ultimo a riconoscere che il corretto equilibrio degli interessi considerati dal regolamento negoziale, rispetto al quale il criterio della buona fede costituisce parametro di controllo, rileva non soltanto ai fini dell’eventuale integrazione o modificazione del rapporto obbligatorio, ma bensì deve a fortiori essere rispettato anche in tutte le fasi successive, compresa quella giudiziale, del medesimo, non potendo, di conseguenza, subire modificazioni su impulso del creditore, in danno del debitore87. Ad orientarsi in quest’ordine di idee, il frazionamento giudiziale del credito (‘Teilklage’), che avrebbe invece consentito una tutela unitaria, comporterebbe un nocumento rispetto alla posizione del debitore. Per questa ragione, una simile strategia processuale determinerebbe l’improponibilità delle domande parcellizzate in quanto contrastanti con
85 La questione ha trovato dapprima una soluzione favorevole all’ammissibilità della proposizione della domanda frazionata in Cass., sez. un., 10 aprile 2000, n. 108, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 502 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, Xxxxxxx minimi in tema di abuso del processo, ivi, 506 ss., sulla scorta dell’assunto che il potere di rifiuto dell’adempimento parziale (eccettuato il caso dei titoli di credito) equivalga a consentirne la pretesa. La pronuncia è stata poi superata da Xxxx., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Giust. civ., 2008, I, 641 ss. e 2807, con nota di X. XXXX, La tormentata vicenda del frazionamento della tutela giudiziaria del credito, ivi, 2807 ss.; e in Guida al dir., 2007, 47, 28 ss., con nota di X. XXXXXXXXXXX, Una soluzione difficile da applicare nei futuri procedimenti di merito, ivi, 31 ss.; per un’opinione sostanzialmente adesiva cfr. T. DALLA XXXXXXX, La domanda frazionata e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il ‘ripensamento’ delle Sezioni Unite, in Riv. dir. civ., 2008, II, 345 ss.
86 X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 313 ss.
87 Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, cit., 641 ss.
il valore della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, comma 1, Cost., e con l’inderogabile principio solidaristico espresso dall’art. 2 Cost. Di conseguenza, l’azione giudiziale contrastante con la regola della buona fede configura un abuso del processo, come tale ostativo all’esame della domanda e rilevabile d’ufficio88.
A ben vedere, la proiezione processuale del principio in questione evoca – come si diceva – il modello romano dei giudizi di buona fede, «nella cui intentio incerta l’oportere del convenuto è fondato sulla e delimitato dalla bona fides»89.
Nella prospettiva sinora delineata, se si muove dalla considerazione che la regola della correttezza definisce trasversalmente, al livello di rapporto, le vicende del diritto tutelato sia dal punto di vista sostanziale sia da quello processuale, presentandosi come un continuum tra la norma di cui all’art. 1175 cod. civ. e quella di cui all’art. 88 cod. proc. civ., ben si comprende come l’ordinamento in linea di principio non permetta che il processo come organizzazione possa essere oggetto di una iniziativa unilaterale. In questa logica, allora, in via di prima approssimazione, le figure di negozi giuridici processuali tipicamente individuate sembrano implicare una tendenziale avversione all’unilateralità dell’iniziativa, dal momento che, una volta avviata la macchina processuale, diviene indispensabile un coinvolgimento della controparte.
In questo senso, costituisce una manifestazione del dovere di correttezza, ad esempio, la regola secondo la quale, nel processo civile, la rinuncia agli atti, quale negozio processuale in sé, è necessariamente bilaterale. Similmente, un’altra norma che rappresenta l’espressione del canone in questione è quella che sancisce l’inefficacia nei confronti della controparte della rinuncia al mandato, ove si consideri come risulti iniquo far ricadere le conseguenze pregiudizievoli conseguenti all’interruzione del processo in capo all’altra parte, né potendo l’assistito del difensore rinunziante disporre dello stesso procedimento quale effetto indiretto dell’atto in esame.
Il che – se si considera la prospettiva dell’attore – riecheggia in un importante messaggio della storia: Nov. 112.390 pone, infatti, a carico dell’attore un vero e proprio obbligo di proseguire il giudizio instaurato, dal momento che si riferisce al processo giustinianeo quale modello non più strutturalmente privatistico, come quello formulare, ma piuttosto espressivo di un sistema pubblicistico. Xx invero, mentre in quest’ultimo le
88 Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, cit., 641 ss.
89 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 313.
90 Nov. 112.3: Omnium vero causarum finem volentes celeriter provenire et illorum malignitatibus obviamus, qui tantummodo proponunt actiones, nolunt autem usque ad finem exercere iudicium, dicentes legem esse quae decernit neminem compelli actiones suas exercere nolentem. Et hanc igitur pravitatem extinguere festinantes iubemus memoratae legis auxilio non eos uti, qui contra aliquem suas proposuerint actiones sive per iudiciariam conventionem sive per preces principi oblatas et iudici insinuatas et per eum ad scientiam adversarii deductas, vel sub legitimo iudicis coeptas examine. Iniuste enim agere recusat, qui paratus adversarium suum ad iudicium vocavit, cum haec excusatio pulsato magis quam actori conveniat. Quamobrem sancimus actorem coeptum negotium usque ad finem litis exercere. Si vero causam persequi distulerit, damus pulsato licentiam iudicem apud quem lis coepta est postulandi, ut ab eodem actor ad iudicium aut per se aut per legitimum procuratorem venire moneatur, et si hoc minime fecerit, propositis tribus vocetur edictis, unaquaque vocatione non minus quam triginta dierum spatio concludenda. Iubemus enim ordinarios iudices non solum praeconum vocibus, sed etiam edictis propositis quamcumque litigatorum partem absentem in iudicium vocare: vocem enim praeconum pauci possunt qui praesentes iuveniuntur audire, edicta vero per multos dies sic proposita possunt paene omnes agnoscere. Aliis autem omnibus iudicibus, qui per imperialem iussionem causas examinant, ex praesenti lege permittimus partes quae in iudicio non permanent propositis edictis vocare, ne causae infinitae permaneant (Auth.).
parti, con la litis contestatio, presentavano al giudice i termini della controversia in un unico atto, con cui avevano determinato negozialmente il programma da seguire, nello schema processuale postclassico e xxxxxxxxxxxx, con l’abbandono delle formule, il processo si articolava per libellos, perdendosi così, già a livello empirico, la dimensione della negozialità.
Nondimeno, quel che permane, anche in questo sistema, è la centralità della dimensione collaborativa imposta alle parti.
In questa logica, poiché l’introduzione del giudizio costringe il convenuto ad enormi dispendi, non soltanto a quest’ultimo, bensì anche all’attore risultava imposta una condotta di cooperazione. Infatti, una volta azionato il procedimento, egli non poteva abbandonarlo91.
In ultima analisi, quanto sinora osservato appare coerente con la natura necessariamente bilaterale della buona fede. Ed invero, non sembra azzardato affermare che il significato della proiezione nel processo della regola in questione può rinvenirsi nella rappresentazione di una ‘Mitwirkung’ – ossia nell’idea di una collaborazione tra le parti per un efficiente funzionamento della giurisdizione, che costituisce l’essenza stessa dell’ex fide bona – adeguata al modello statual-legalista delle regole processuali92.
L’aver delineato questa caratterizzazione strutturale impone quindi un’importante precisazione, dal momento che sembra adesso possibile definire in che termini una manifestazione di volontà privata – di provenienza, di regola, bilaterale – assuma la qualificazione di negozio giuridico processuale, sulle cui ricadute pratiche ci si soffermerà più oltre.
Sul punto, giova osservare, in prima battuta, come la figura in questione risulti propriamente integrata – differenziandosi così sia dalla classe dei fatti processuali sia da quella peculiare degli atti processuali – esclusivamente nell’ipotesi in cui la manifestazione di autonomia privata proveniente dalle parti appaia effettivamente libera ed autodeterminata, e piuttosto non si presenti come legislativamente imposta da norme di carattere processuale oppure sostanziale93.
In secondo luogo, è utile considerare che, in questa logica, l’essenza dell’attività negoziale risiede nella utilizzazione di un congegno fisiologicamente volto a trarre obiettivi vantaggiosi e concreti dallo stesso procedimento94. In altri termini, occorre che l’atto posto in essere dalle parti abbia come effetto la produzione di diritti o di vincoli in capo alle parti interessate dal processo, oppure a carico di uno soltanto tra i litiganti95.
91 X. XXXXXX, ‘Intentiones exercere’: problemi e prospettive in Nov. 112, in SDHI, LXXIV, 2008, 170 ss., in particolare 203 ss.
92 Per una prospettiva storica si veda X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’. Eine Untersuchung über die Grundlagen des gelehrten Zivilprozesses in der Zeit vom 12. bis zum 19. Jahrhundert, Frankfurt am Main, 2008, 635 ss., che si sofferma sull’analisi dell’idea che la collaborazione del convenuto potesse implicare una funzione processuale costitutiva, in relazione al problema della contumacia.
93 X. XXXX, Del negozio, cit., 31, il quale chiarisce che «se fosse resa obbligatoria, per ipotesi, da una legge di natura non processuale, mancherebbe al negozio il requisito della manifestazione libera della volontà da parte dell’individuo, e così, non potendo essere un negozio giuridico del tipo comune, non potrebbe essere neppure un negozio giuridico della specie processuale» (così, a p. 31).
94 X. XXXX, Del negozio, cit., 32.
95 X. XXXX, Del negozio, cit., 32.
Xxxxxx, non pare incongruo preliminarmente affermare – ma su questo aspetto si tornerà successivamente per un maggiore approfondimento – che il contenuto della categoria del negozio giuridico processuale si estrinsechi in una convenzione diretta a ‘gestire’ il processo, essenzialmente ascrivibile all’area della disciplina volta a regolare le modalità di svolgimento del rapporto processuale medesimo, ovvero ad incidere sullo stesso dal punto di vista della tutela giurisdizionale dei diritti. In quest’ultima accezione, rileveranno, dunque, esclusivamente gli atti negoziali comunque diretti a regolare aspetti afferenti al processo, quale, ad esempio, l’accordo modificativo dell’onere probatorio di cui all’art. 2698 cod. civ. Ed allora, sembra appropriato descrivere gli atti in esame come quei negozi giuridici che presuppongono un’autonomia privata procedimentale all’interno di uno strumento pubblico (negozi ‘endoprocedimentali’) oppure in relazione al medesimo (negozi ‘extraprocedimentali’ inerenti al processo): a ben vedere, dunque, la valenza lato sensu contrattuale della figura in esame – rappresentando una programmazione vincolante che si configura, come meglio si vedrà, quale causa in senso economico-individuale dell’atto del processo – induce a ricercare quale possa essere la funzione rilevante degli accordi in questione. Il che induce a prospettare un possibile recupero della posizione più risalente della Pandettistica96, nella misura in cui ricomprendeva nell’ambito della categoria di negozio giuridico processuale anche quegli atti qualificabili come di diritto materiale, purché rivolti al processo. Ed invero, ciò appare coerente – come si avrà modo di riconoscere – con l’origine sostanziale del concetto di azione.
Siamo a questo punto di fronte ad un prospettiva che evidenzia l’opportunità di una più approfondita valutazione, giacché essa può riconoscersi nel recupero della funzione del ‘regolare’ rapporti giuridici, ai sensi dell’art. 1321 cod. civ. Ebbene, appare evidente che il negozio giuridico processuale non sembri di per sé idoneo né a ‘costituire’ né ad ‘estinguere’ rapporti giudici. Xx è allora in questo quadro che si perverrà a considerare come la figura negoziale che stiamo analizzando assuma in relazione al processo la medesima funzione consistente nella «genesi di una norma giuridica di (ri)configurazione»97 del rapporto che il negozio di accertamento è suscettibile di esplicare all’esterno del contesto giurisdizionale98.
Dopo aver perimetrato in questo modo il campo d’indagine, non sembra inutile esplicitare ulteriormente l’oggetto degli atti di autonomia privata in questione.
Ed invero, da quanto rilevato a proposito dell’area di ‘negoziabilità’ del processo si evince che la regolamentazione delle parti può incidere soltanto su diritti disponibili, come peraltro esplicitato dal legislatore nella norma di cui all’art. 2698 cod. civ., sui patti riguardanti gli oneri probatori99, da considerarsi questi ultimi quali negozi giuridici processuali in quanto incidenti sulle modalità della tutela dei diritti ed evidentemente privi di significato se non li si concepisce in funzione del processo. Ciò consentirà, quindi, di risolvere favorevolmente il problema della ammissibilità dei negozi processuali atipici, configurabili ai sensi dell’art. 1322, comma 2, cod. civ., in considerazione della natura strumentale del processo civile rispetto ai diritti ed all’autonomia privata, entro i
96 X. XXXX, Das Geständniss, cit., 216 ss. (in particolare, 237 ss.).
97 X. XXXXXX, voce Accertamento (negozio di), in Dig. disc. priv. - Sez. civ., Agg. VII, Torino, 2012, 38.
98 X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 32 ss.
99 In proposito, cfr. X. XXXXXXX, Verità negoziata?, cit., 69 ss. (ed, in particolare, 96 s. e nt. 73).
confini rappresentati dalle norme imperative e di diritto pubblico che regolano pur sempre l’esercizio della giurisdizione100. Da quest’ultimo punto di vista, è opportuno rimarcare altresì l’elemento valoriale della presenza nell’ordinamento di figure di accordi processuali pacificamente riconosciute e socialmente, oltre che storicamente tipiche, sebbene non positivizzate101, quali sarebbero, secondo una certa impostazione, il pactum de non petendo ovvero il pactum de non exequendo102.
Siamo però giunti, a questo punto, ad accennare ad un profilo che richiede una specifica valutazione, in quanto occorre trovare, negli spazi di realizzazione consentiti all’autonomia privata, una dimensione di meritevolezza della ‘convenzione dentro e in vista del processo’. In proposito, può sin da ora anticiparsi che, nel solco tracciato dalla regola della buona fede, la tutela attribuibile da parte dell’ordinamento giuridico ai negozi in esame, nell’ottica di una necessaria corrispondenza tra strutture negoziali adoperate e scopo perseguito, appare fondamentalmente inscrivibile nell’esigenza, cristallizzata dalla norma di cui all’art. 111 Cost., di assicurare che il processo pervenga a definire la situazione controversa in tempi ragionevoli, quale garanzia di effettività della tutela giurisdizionale, senza con ciò ostacolare l’accertamento della rei veritas.
Il che non si pone peraltro in contraddizione con il principio dispositivo, dal momento che le parti risultano libere di predisporre la regolamentazione dei propri rapporti processuali con una diretta incidenza sugli stessi, ossia con un atto immediatamente efficace nel configurare vincolativamente il rapporto principale rendendolo conforme all’accertamento voluto ‘con forza di legge’ dai privati103, escludendo diverse possibili soluzioni. E ciò si presenta in linea di principio come un legittimo utilizzo dello strumento processuale al fine di ottenere una definizione certa e tempestiva dei rapporti giuridici controversi. Nondimeno, occorre riconoscere immediatamente che l’autonomia privata che si esplica in relazione al processo non può spingersi sino ad abusare dello strumento giurisdizionale al fine di conseguire risultati che esulano dal contenuto del proprio diritto e non altrimenti ottenibili104. Ed è allora in questo senso che i negozi posti in essere in consapevole contrasto con una determinazione processuale ragionevolmente compatibile con l’effettività delle situazioni giuridiche sostanziali oggetto della vicenda giudiziale devono considerarsi affetti da nullità insanabile ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., sulla scorta del parametro del giusto processo regolato dalla legge di cui all’art. 111 Cost. Infatti, il regime del vizio che affligge l’atto può ricavarsi, sul presupposto della sua natura di negozio giuridico ed al contempo di atto processuale, sulla base del combinato disposto degli artt. 1325, n. 2), e 1418 cod. civ., e dell’art. 156, comma 2, cod. proc. civ., traducendosi l’invalidità nella illiceità della causa quale ragione che impedisce il corretto conseguimento dello scopo dell’atto.
100 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 107 ss.
101 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 107 ss., che ricorda comunque la specifica tipizzazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti nella recente legge di riforma del diritto fallimentare.
102 X. XXXXXX, Autonomia, cit., 107 ss.
103 X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 32 ss.
104 Per un collegamento tra abuso del diritto e buona fede, da una parte, e principio del giusto processo, dall’altra parte, ex pluribus, in dottrina, cfr. X. XXXXXXX, Manuale, cit., 802 s.
Siamo ora in grado di tirare le fila di questo discorso, e di evidenziare come, ad orientarsi in quest’ordine di idee, il richiamo alla categoria generale di contratto imporrebbe preliminarmente di verificare in che termini questa ipotesi ricostruttiva possa considerarsi dogmaticamente fondata e, comunque, quale sia la sua genesi.
Nel delineare questo aspetto, occorre innanzitutto evidenziare come l’imprescindibile connessione tra momento sostanziale e proiezione processuale della buona fede – nella prospettiva della necessaria bilateralità dei vincoli prodotti dai negozi in questione – rappresenti l’antecedente logico per impiegare alcuni profili tratti dalla disciplina contrattuale, pur senza mai concludere per una completa identificazione dei negozi processuali con il contratto. Per questa ragione, diviene centrale il tema di una collaborazione tra le parti (‘Mitwirkung’) adeguata all’ordine statual-legalista della disciplina processuale.
Se quindi sembra consentito far ricorso a quest’ultimo concetto in rapporto ad un recupero della categoria generale di contratto per il negozio giuridico processuale, ci troviamo di fronte ad un accostamento limitato, le cui radici nondimeno affondano – quantunque non direttamente – nella storia.
Ebbene, seppure di questo profilo ci occuperemo più ampiamente in seguito, può sin d’ora anticiparsi che il negozio giuridico processuale trova il suo modello essenzialmente nella duttilità della figura della stipulatio – fonte strutturalmente dialogica di verborum obligatio – quale strumento di gestione del rapporto processuale, e nella litis contestatio – che, come visto, rappresenta sostanzialmente un accordo delle parti sul programma processuale – propria del processo formulare del diritto romano classico. Al riguardo, occorre comunque accennare alla sostanziale ambivalenza del modello romanistico di negozio giuridico processuale, dal momento che il diritto romano non distingueva tra le regole sostanziali dell’azione e l’azione in senso processuale, al fine di un recupero in ordine ad una più ampia configurazione del concetto in senso strumentale alla gestione della lite. In altri termini, il prototipo del diritto romano evidenzia una nozione di azione in senso sostanziale idonea a ricomprendere – se proiettata nelle attuali categorie, frutto dell’elaborazione della Scuola iberica di diritto naturale e del giusnaturalismo razionalista a cavaliere tra Sei e Settecento –, da un lato, il profilo della tutela dei diritti comunque incidente sul processo e, dall’altro lato, quello della gestione del processo medesimo.
Xxxxxxxxx, la configurazione negoziale del processo rinvenibile nell’esperienza giuridica romana si perderà con il passaggio al modello processuale statual-legalistico giustinianeo strutturato sulla base di atti di parte contrapposti piuttosto che su un programma condiviso. Ed è proprio nell’esigenza costituzionalizzata di ambire a configurare un ‘giusto processo’ che sembra si possa rinvenire il senso di un recupero della categoria. Del resto, l’attività negoziale così configurata non potrebbe che tradursi in un peculiare atteggiarsi della procedura per effetto, in linea di principio, di una convenzione tra i litiganti, finalizzata ad una più confacente organizzazione del ricorso alla giurisdizione e del suo svolgimento. Gestione negoziale del processo da considerarsi meritevole essenzialmente in quanto contribuisca ad una più veloce definizione della controversia, ossia a quella ragionevole durata del processo richiesta proprio dalla norma di cui all’art. 111 Cost.
6. L’inscindibilità del concetto di parte processuale dal rapporto sostanziale. La proiezione processuale del rapporto sostanziale in funzione della tutela dei diritti.
Dopo aver delineato questi aspetti, siamo però giunti, a questo punto, ad accennare ad un profilo che merita uno specifico approfondimento, in quanto l’esame delle questioni sollevate dalla tematica del negozio giuridico processuale evidenzia la necessità di soffermarsi sulla questione dell’estensione del concetto di parte, nella sua duplice articolazione, sostanziale e processuale, al fine di indagare la natura del rapporto processuale. Ciò consentirà, infatti, di riconoscere la ontologica diversità di quest’ultimo rispetto al rapporto sostanziale per il quale si chiede la tutela giurisdizionale, pur apparendo in linea di principio gli stessi correlati, e di individuare, in buona sostanza, l’oggetto sul quale si esplica l’autonomia privata.
Potrà dunque, sulla base di questa considerazione, individuarsi la ricaduta pratica dell’opzione interpretativa qui suggerita, essenzialmente da ascriversi alla necessità di configurare lo scopo pratico idoneo a sorreggere la convenzione in relazione all’autonomia del ‘regolare’ di cui all’art. 1321 cod. civ. In questa prospettiva – apparendo la funzione del ‘regolare’ irriducibile alla semplice modificazione del rapporto
– ciò imporrà di fare riferimento al concetto di configurazione di regole destinate ad operare nel processo.
Al riguardo, sembra utile, pertanto, prendere le mosse dalla nozione di parte del giudizio105, dal momento che la domanda giudiziale rende evidente la necessità del giudizio che ha origine immancabilmente in circostanze materiali, rispetto alle quali ed in rapporto alla loro regolamentazione, «nasce a causa del contrasto uno stato di incertezza che blocca il fisiologico concretarsi dell’ordinamento giuridico»106. In altri termini, al livello astratto non pare potersi prescindere da un collegamento tra la posizione processuale e quella sostanziale, che a sua volta implica l’esistenza di relazioni intersoggettive le quali si incardinano su fatti «che recano in sé impresso ed implicito un ordine giuridico»107. Ciò racchiude indefettibilmente il concetto di parte per il necessario collegamento delle situazioni giuridiche in questione con soggetti determinati.
La proiezione processuale del rapporto giuridico sostanziale, pertanto, non può che riflettersi sulle parti degli stessi rapporti da accertare in giudizio. In questa logica, l’ordinamento accorda la posizione di ‘parte’ ai titolari di posizioni giuridiche soggettive per assicurare l’effettività delle quali emerge l’esigenza della tutela giurisdizionale108. Ed invero, quest’ultima ricostruzione trova riscontro indiretto nel sistema giuridico complessivamente considerato, oltre che – in modo implicito – nella disposizione di cui all’art. 81 cod. proc. civ. e nella norma di cui all’art. 24, comma 1, Cost., che stabiliscono
105 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 151 ss., che precisa come «scopo e funzione della teoria processuale delle parti, come anche dei concetti di legittimazione ed interesse ad agire ad essa strettamente connessi» (in questi termini, a p. 152) sia esattamente «quello di fornire degli strumenti per ottenere la loro precisa identificazione in relazione alle domande giudiziali ed al loro oggetto» (testualmente, a p. 152).
106 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152.
107 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152.
108 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
la regola per la quale esclusivamente il titolare di un diritto è legittimato ad agire in giudizio per la sua tutela109.
Nondimeno, in questo si coglie una certa ambiguità dell’espressione ‘parte’, di cui risultano identificabili – sulla base delle indicazioni ricavabili dall’ordinamento positivo – differenti significati. A ben vedere, infatti, se si delineasse il concetto in questione unicamente sulla base del parametro costituito dalla situazione sostanziale, ciò presenterebbe il difetto di una patente astrattezza, ove si consideri come – a collocarsi sul piano giurisdizionale – la sussistenza dei diritti e delle altre posizioni giuridiche che vengono in rilievo risulti di per sé immancabilmente incerta in quanto oggetto della controversia che il giudizio mira appunto a risolvere110.
In quest’ordine di idee, occorre dunque, coerentemente, individuare la soluzione in relazione all’apprezzamento della domanda giudiziale. In particolare, è necessario – poiché quest’atto di parte realizza «la condizione attuale per l’esercizio della giurisdizione»111, costituendo cioè l’indefettibile presupposto affinché si proceda ad esaminare la questione e si pervenga ad una pronuncia nel merito112 – che la stessa esprima chiaramente, allegandoli, i fatti, i rapporti giuridici, i motivi della contestazione e la richiesta di specifici provvedimenti su di un determinato oggetto. Il che consente, in primo luogo, di definire la parte del processo, secondo l’enunciazione prevalentemente condivisa, come il soggetto che per il proprio interesse propone la domanda giudiziale113.
Il contenuto indefettibile della domanda giudiziale permette poi di riconoscere l’altra parte processuale, alla quale fa capo la situazione giuridica antitetica rispetto a quella azionata dall’attore, e che presenta un effettivo e tangibile interesse di opporsi alla stessa e di chiedere che venga rigettata, ossia il convenuto. Del resto, è la stessa regola del contraddittorio, alla quale il processo appare improntato, a richiedere che l’atto di parte che dà origine al procedimento non possa non essere indirizzato verso uno specifico soggetto. Per questa ragione, può così individuarsi l’altro contenuto della nozione di parte processuale con riferimento al soggetto avverso il quale la domanda risulta proposta114.
Le considerazioni sinora svolte consentono, a questo punto, di opinare nel senso che l’utilizzazione della domanda giudiziale come parametro per l’identificazione della corretta instaurazione del contraddittorio e, di conseguenza, per l’individuazione delle parti non vada interpretata in un’accezione meramente formale, mediante una deliberata astrazione dalla titolarità delle posizioni giuridiche dedotte in giudizio115. Ed invero, sembra utile osservare come appaia incongruente già sotto il profilo della logica operare una duplicazione del concetto di parte – attraverso la distinzione della parte ‘astratta’ dalla c.d. ‘giusta parte’ – fondando una simile ricostruzione sulla anticipazione al principio del giudizio di quella che si presenterà come la sua conclusione. In questa
109 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
110 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
111 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 153.
112 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
113 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
114 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 152 ss.
115 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 154.
prospettiva, può dunque convenirsi con quell’autorevole dottrina116 secondo la quale,
«allorché in seguito alla notificazione della domanda giudiziale il processo comincia a pendere, le parti sono in ogni senso quei soggetti che in base ad essa hanno la titolarità dei rapporti in essa dedotti, ed a priori non è lecito fare altra affermazione»117.
Xxxxxx, sulla base di quanto sin qui affermato pare ben cogliersi il presupposto per discorrersi dell’esistenza di un rapporto processuale tra le parti in lite.
In proposito, giova immediatamente osservare come il rapporto giuridico che trova la propria ragion d’essere nel processo – e si differenzia comunque da quello sostanziale, per le ragioni sopra descritte – in considerazione della natura pubblicistica della disciplina processuale si attesti alla stregua di «una situazione particolarissima di diritto e di dovere fra le parti collidenti, non solo, bensì anche fra ognuna di queste e il giudice, virtualmente investito com’è – lo stesso giudice – del potere di risolvere la controversia, o chiamato che sia in effetto a esercitare codesto potere»118. Da quest’ultimo punto di vista, risalta, in prima battuta, la circostanza che il rapporto processuale si sostanzia nella pretesa ed obbligo reciproci ad un comportamento conforme alle regole processuali119.
Xx è su questo aspetto che dovremo ora soffermarci.
Siamo di fronte ad una tematica ampiamente dibattuta nell’ambito della dottrina120, rispetto alla quale non sembra inutile premettere che «un quid processuale, diverso dal diritto materiale, fu già intuito dai romani»121, i quali, relativamente alla litis contestatio, mostravano di intendere «il concetto di un vincolo formale, costruito in qualche modo sopra o fuori di quello materiale»122. Si distingueva, in buona sostanza, da un lato, il rapporto sorto dalla convenzione prodromica ed essenziale al processo e, dall’altro lato, il sostrato giuridico sostanziale, da accertare in giudizio.
Tuttavia, come in precedenza accennato, la concezione del rapporto processuale andò perduta nel periodo intermedio, in considerazione del fatto che il modello delle positiones aveva determinato una scissione del processo «in tanti momenti quante erano le possibili azioni, e ad ognuna di queste veniva fatto un trattamento speciale e separato»123.
116 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 154 ss.
117 In questi termini, X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 156, che esattamente evidenzia come, in seguito alla pronuncia della sentenza di merito che definisce il giudizio, «si saprà chi ha ragione o torto, ma mai il giudice respingerà la domanda perché la ‘parte’ non era quella ‘giusta’, bensì perché essa era infondata, o perché il diritto non le apparteneva» (testualmente, a p. 156).
118 X. XXXX, Del negozio, cit., 12.
119 X. XXXX, Del negozio, cit., 11 s., il quale afferma che «può anche dirsi, con pari equivalenza di espressioni» (così, a p. 12), che la correttezza del comportamento nel processo «è un dovere di una parte verso l’altra o invece un diritto di questa verso quella, nonché un dovere di entrambe verso il giudice, o infine un diritto di questo verso ciascuna di loro» (testualmente, a p. 12).
120 X. XXXX, Del negozio, cit., 13 ss.
121 X. XXXX, Del negozio, cit., 13.
122 X. XXXX, Del negozio, cit., 13.
123 G. DONÀ, Del negozio, cit., 13; contra X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635 ss., per il quale «gli effetti sostanziali della litis contestatio risultano conservati» (testualmente, traducendo dall’originale tedesco, come nelle successive occorrenze, a p. 640), pur ammettendosi che «la litispendenza si verifica già con la notifica della citazione» (così, a p. 640), in considerazione dell’asserzione per la quale «fino alla conclusione del Secolo XIX … l’‘essere insieme’ delle parti, con xxxxxxx costitutiva del processo, è
Tantomeno esso poteva predicarsi riguardo all’esercizio della giurisdizione nel medioevo, ove si consideri come la stessa giunse a poter eventualmente prescindere dalla collaborazione del convenuto per la costituzione del rapporto processuale124, dal momento che, secondo il diritto processuale di area colta, «già alla fine del XIII secolo poteva configurarsi una sentenza di accertamento che non richiedeva l’attuazione del contraddittorio sul bene della vita»125, essendo ammissibile in specifici casi (essenzialmente ascrivibili alle ipotesi in cui, regolarmente citato il convenuto, «emergeva l’interesse dell’ufficio giudiziario a trattare il merito»126) la celebrazione di un processo contumaciale, allo scopo di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva127.
In questo quadro, sembrava dunque sfumare «quel concetto di cooperazione fra gli stessi litiganti, disposta al fine comune della dichiarazione del diritto, che contraddistingue il giudizio dei popoli evoluti, presso i quali di tratta di un contrasto, ma di un contrasto contenuto nei limiti legali, in cui il rapporto processuale si sovrappone, pure senza confondersi con esso, su quello reale, e fa scomparire in conseguenza nelle parti la veste di creditori e di debitori, e con essa l’atteggiamento di rivalità personale»128.
Il parimenti tormentato concetto di rapporto processuale129 – recuperato successivamente dalla dottrina della Pandettistica, aprendo in tal modo la strada a vastissimi avanzamenti per la comprensione della natura degli atti processuali130 –, pertanto, non sembra finire per coincidere esattamente con quello di negozio giuridico processuale, pur potendosi realizzare congiuntamente, soprattutto se al primo si voglia attribuire la prevalentemente accolta «estensione unitaria e comprensiva di ogni vincolo e di ogni diritto reciproco, sorgente fra le parti, e fra queste ed il giudice, in e ad occasione del processo»131. Nondimeno, è nella possibilità di gestione e regolamentazione convenzionale del rapporto processuale stesso che sembra forse cogliersi maggiormente la funzione pratica del concetto in questione, ponendosi quale presupposto logico oltre che quale luogo di esercizio dell’autonomia privata nella disposizione del processo.
Si potrebbe obiettare, peraltro, che il concetto di rapporto giuridico processuale apparirebbe «ormai insufficiente ad esprimere il fenomeno giuridico processuale nella sua complessità»132, dal momento che «tutte le utilizzazioni pratiche di quel concetto … possono benissimo considerarsi acquisite con riferimento senz’altro al processo, come
richiesto per il processo ordinario culto» (in questi termini, a p. 636), dal momento che si richiedeva a tal fine, in linea di principio, la collaborazione del convenuto.
124 X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635 ss.
125 X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635.
126 X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 637.
127 X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635 ss., il quale puntualmente sottolinea che «lo sviluppo di una conduzione processuale unilaterale si trova innanzitutto negli statuti dei comuni italiani e nel diritto canonico, nella misura in cui si riscontrava l’interesse del comune come comunità fondata sul diritto e sulla pace, e l’interesse della Chiesa e come istituzione e per la sua dottrina morale» (in questi termini, a p. 637).
128 X. XXXXX, Dei rapporti, cit., 6.
129 Cui fa riferimento, ex pluribus, X. XXXXXXXXX, Principi, cit., 776 ss.
130 X. XXXXX, Dei rapporti, cit., 3 ss.
131 X. XXXX, Del negozio, cit., 17.
132 Così, X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali20, I, Torino, 2009, 46.
fenomeno giuridico in evoluzione»133. Da quest’ultimo punto di vista, si pone in risalto come alla figura in questione si sia fatto sovente ricorso al fine di riconoscere l’esistenza dei c.d. ‘presupposti processuali’, distinguendo, per un verso, tra quelli relativi alla venuta in essere del rapporto processuale134, e, per altro verso, «all’attitudine del rapporto processuale a consentire il suo normale svolgimento fino al conseguimento del risultato del processo (c.d. presupposti di validità o di funzionalità del rapporto processuale)»135. Tuttavia, si asserisce che una simile distinzione, «palesemente fondata sulla dinamica giuridica del processo, mette in evidenza, una volta di più, come il riferirsi senz’altro al processo sia più calzante del riferirsi allo statico rapporto processuale»136.
Evidenziati questi aspetti e chiarito come non sia lecito ormai dubitare della
«autonomia del processo come fenomeno giuridico»137, è possibile ciononostante considerare che la reale essenza del processo non si comprende forse pienamente a voler escludere la rilevanza che assume la prospettiva della ‘Mitwirkung’, nel senso di una reale dimensione collaborativa delle parti. Il che può cogliersi soltanto ad ipotizzare la sussistenza di un rapporto giuridico nel – e in funzione del – processo, in quanto tale eventualmente suscettibile – negli spazi resi disponibili dall’operare del principio dispositivo – di modulazione ad opera delle parti attraverso negozi giuridici processuali. A ben vedere, ciò non rappresenta la manifestazione di una costruzione concettuale statica, né si pone in antitesi con il canone del giusto processo, piuttosto – come si è in precedenza avuto modo di constatare – ne costituisce una modalità per la sua migliore realizzazione.
7. Il diverso atteggiarsi della necessaria incidenza sul processo: atti incidenti sul regime della tutela giurisdizionale dei diritti ed atti incidenti sulla configurazione di regole meramente processuali.
Una volta tratteggiate le linee essenziali dell’opzione ricostruttiva qui suggerita, possiamo procedere immediatamente ad analizzare un ulteriore aspetto della tematica del negozio giuridico processuale, in quanto occorre soffermarsi sul problema del profilo funzionale degli accordi nel processo. In particolare, dopo aver isolato il concetto di rapporto giuridico processuale, è adesso utile osservare come ciò consenta di riconoscere che in realtà non possono ascriversi nell’area del negozio giuridico processuale che gli atti suscettibili di incidere sullo stesso – con le modalità che si andranno ora ad
133 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, I, cit., 46, il quale rileva la circostanza che «nel momento in cui venne elaborata, questa figura costituì indubbiamente un progresso poiché, attraverso l’acquisizione di una chiara base concettuale per l’autonomia giuridica del processo, consentì di conseguire importanti risultati pratici» (testualmente, a p. 45). Può in questo senso considerarsi, in particolare, «la possibilità di ammettere la successione nel processo, considerato per sé stesso …, e così la rappresentanza nel processo …; e, ancora, la possibilità di considerare il momento dell’instaurazione del rapporto processuale come il momento al quale va ricondotto il risultato della prestazione della tutela; la possibilità di vedere nel rapporto processuale il punto di riferimento giuridico della qualità di parte …; e tante altre utilizzazioni» (così, a p. 45).
134 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, I, cit., 45 ss.
135 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, I, cit., 47. 136 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, I, cit., 47. 137 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, I, cit., 46.
analizzare – e non già gli accordi che, pur stipulati nell’ambito della procedura giurisdizionale, riverberano i propri effetti esclusivamente sul sottostante rapporto sostanziale. Ed è in questo che si coglierà il presupposto per indagare relativamente al negozio così configurato lo scopo pratico idoneo a sorreggere la convenzione, da ricercarsi nell’ambito dell’autonomia del ‘regolare’138.
Al riguardo, può pertanto considerarsi, in primo luogo, come il prerequisito della necessaria incidenza sul processo valga a perimetrare inequivocabilmente il campo d’indagine, dal momento che questo elemento appare idoneo a qualificare e differenziare la categoria del negozio giuridico processuale rispetto ad ogni altro atto negoziale, in quanto – come si accennava – capace, laddove consentito dall’ordinamento, di imprimere al rapporto giuridico processuale una precisa caratterizzazione, che adesso si andrà ad approfondire. In questa prospettiva, dunque, non sembra coerente includere nell’analisi in questione i negozi endoprocessuali riverberanti i propri effetti all’esterno della procedura giurisdizionale, poiché attraverso queste figure ci si limita a realizzare la soluzione concordata dalle parti processuali relativamente all’assetto di interessi sostanziale che aveva dato origine alla lite tra le stesse (tra cui, a titolo esemplificativo, può menzionarsi la conciliazione giudiziale). Xx invero, non vi è ragione per la quale questi ultimi strumenti negoziali non debbano seguire la logica dei negozi giuridici di diritto sostanziale.
Ma torniamo al problema concernente la funzione che appaia ammissibile rispetto alla convenzione ‘nel’ processo ed ‘in relazione al’ processo.
In proposito, sembra immediatamente possibile cogliere il significato della figura negoziale in questione nella possibilità di esercizio dell’autonomia privata che si realizza negli spazi consentiti dall’operare del principio dispositivo, dispiegando la propria efficacia su situazioni attinenti al processo, pur in relazione ad una procedura eterodeterminata dalla legge. Più precisamente, è importante riconoscere – cogliendo le implicazioni del modello romanistico fondato, come meglio si vedrà, sull’azione in senso sostanziale – come il concetto di negozio giuridico processuale individui in realtà qualunque atto di autonomia privata, di carattere convenzionale, strumentale a gestire la lite nel senso più ampio di un negozio relativo all’agere in senso sostanziale come processuale. In buona sostanza, perché si possa predicare l’attributo processuale del negozio giuridico occorre la sua necessaria incidenza sul processo, per cui sembra coerente con tali presupposti evidenziare il duplice significato del concetto in esame: da un lato, esso individua l’atto di autonomia privata destinato ad incidere sul processo dal punto di vista della tutela giurisdizionale dei diritti; dall’altro lato, il negozio diretto a creare la regola del processo, modulando il rito in una prospettiva di semplificazione della procedura.
138 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss., che riflette, in proposito, su come «nell’attuale impianto codicistico», in ciò influenzato dalla più compiuta elaborazione dottrinale del Cinquecento europeo «anche per il tramite dell’apporto giusnaturalista ed illuminista, la convenzione ridonda in ‘contratto’ non solo con un particolare arricchimento del suo spettro effettuale, configurandosi come tale anche ove determini la circolazione dei diritti, ma altresì … ogni qual volta sia suscettibile di incidere su rapporti giuridici anche semplicemente ‘regolandoli’» (testualmente, a p. 195). Profilo questo che sembra per lo più obliterato dalla prevalente dottrina: si veda, in proposito, ex pluribus, X. XXXXXXX, Manuale, cit., 775 ss.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, l’analisi del profilo funzionale della categoria di atti in questione impone peraltro di considerare il fatto che lo scopo pratico della regolamentazione convenzionale del processo non risulta individuabile né in una vicenda costitutiva e neppure nell’estinzione diretta del rapporto processuale. Infatti, lo scopo pratico del negozio processuale si può configurare al più come un ‘regolare’ funzionale all’estinzione del processo, ma – anche in questo caso – occorrerà pur sempre un provvedimento del giudice affinché tale effetto estintivo si produca. Ed è questa la ragione per cui occorre fare riferimento senz’altro – in relazione ai negozi processuali dispositivi del rito ovvero della tutela giurisdizionale dei diritti – al concetto di configurazione.
Il che impone una specifica, importante precisazione, per quanto concerne la valorizzazione della funzione del ‘regolare’ ai sensi dell’art. 1321 cod. civ., non sintetizzabile nella mera modificazione139. È opportuno, infatti, prendere le mosse dalla considerazione per cui l’elemento funzionale dei negozi in questione si percepisce nell’imprimere una regola di configurazione che valga a conformare il rapporto giuridico processuale140, similmente a quanto – secondo l’impostazione preferibile141 - può riscontrarsi in un contesto di diritto prettamente sostanziale in relazione ai contratti normativi ed ai negozi di accertamento.
Ebbene, da questa soluzione dogmatica emerge, come puntualmente evidenziato da un’attenta dottrina142, l’importanza del fondamento storico su cui poggia l’attuale esistenza di «una sorta di ‘terza via’ tra le due storicamente configuratesi, nell’esperienza giuridica romana, nella dicotomia tra negotium contrahere e negotium transigere – ‘dar vita’ o ‘porre fine’ ad un affare – che esaurisce in apicibus lo scopo di qualsiasi convenzione secondo la più matura interpretazione dell’architettura dell’editto giulianeo»143. In questa prospettiva storica, che si manifesta già a livello terminologico, il moderno concetto di contratto trova spazio innanzitutto a partire dal superamento del sistema romano dei nomina edittali con la cauta ammissione di figure sine nomine144, attraverso il suo assurgere a categoria generale145. In particolare, nel percorso speculativo che dal diritto comune porta alla compiuta elaborazione del Cinquecento, la convenzione si presenta come ‘contratto’ di regola unicamente qualora intervenga a costituire un rapporto obbligatorio, differenziandosi così anche dalla corrispondente fattispecie estintiva146. In questo quadro, l’attuale assetto ordinamentale mostra l’influenza della sua storia, recepita attraverso la mediazione del contributo del Giusnaturalismo e dell’Illuminismo147. Ed invero, attraverso questo percorso si giunge ad ampliarne l’ambito di efficacia, ritenendo
139 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
140 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
141 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss. e X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 32 ss.
142 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
143 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 195.
144 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
145 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss. Per un’approfondita analisi del percorso storico- giuridico che ha condotto all’elaborazione della categoria generale di contratto, si veda I. BIROCCHI, Causa e categoria generale del contratto. Un problema dogmatico nella cultura privatistica dell’età moderna, I, Il Cinquecento, Torino, 1997, 137 ss.
146 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
147 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
che la convenzione ridondi in ‘contratto’, oltre che nelle ipotesi in cui valga a realizzare la circolazione dei diritti, anche in tutti i casi in cui i suoi effetti si traducano in un semplice ‘regolare’ il rapporto giuridico148.
Una volta valorizzato il più ampio ruolo da attribuirsi alla funzione del ‘regolare’, quale scopo pratico distinto dal ‘costituire’ e dall’‘estinguere’, irriducibile alla mera modificazione del rapporto, che prescinde dal medium dell’obbligazione, sembra potersi condividere quell’opzione interpretativa149 per la quale, «a ben vedere, qualsiasi funzione di mera configurazione precettiva assolve ad una funzione pratica lato sensu normativa»150, non integrando una causa di scambio in senso tecnico151.
Xx invero, emerge a questo punto la specifica scelta ricostruttiva che sorregge una simile conclusione. Orbene, se si omette la considerazione delle dottrine assolutamente sfavorevoli a riconoscere una qualche utilità ricostruttiva al concetto di negozio giuridico, del quale annunciano la ‘crisi’152, assume rilevanza il fatto che le diverse impostazioni riconoscibili in merito alla teoria generale del negozio giuridico appaiono accostabili per una comune base teorica, che ne testimonia la capacità di persuasione153. In particolare, essa afferisce alla circostanza che il negozio abbia da sempre manifestato la sua potenzialità normativa, in forza della quale non sembra revocabile in dubbio il fatto che esso si discosti concettualmente dal semplice fatto giuridico154. Per questa via si torna perciò alla configurazione negoziale per il tramite dell’ampiezza del regolare di cui all’art. 1321 cod. civ.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, se ci si muove innanzitutto sul piano delle vicende di diritto sostanziale, è preferibile quindi accedere all’impostazione ermeneutica per la quale la funzione del ‘regolare’ accomuna allo stesso modo il negozio di accertamento ed il contratto normativo. In buona sostanza, se con il primo le parti stabiliscono una regola di configurazione che senza mediazioni operi nel senso di
148 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
149 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
150 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 195 s. Sul punto cfr. X. XXXXXXX, Manuale, cit., 900 s., il quale, tuttavia, nell’evidenziare come mediante i negozi configurativi le parti non realizziono una disposizione sul piano degli effetti patrimoniali sostanziali, afferma come, per questa ragione, non potrebbero inquadrarsi tra i contratti sulla base dell’art. 1321.
151 X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 32 ss., che pone in luce come la «certezza giuridica» (così, a p. 43) che assurge a scopo pratico del negozio di accertamento sia da intendersi «come possibilità di percepire la conseguenza del proprio agire in conformità al rapporto giuridico accertato, cioè ‘riconfigurato’ dalla regola voluta dalla legge dei privati» (testualmente, a p. 43).
152 Si può menzionare in proposito, per tutti, X. XXXXX, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Milano, 2011, 67 ss., che si pone sulla scia di una riconsiderazione critica della teoria del negozio giuridico. In particolare, «la funzione pratica [sarebbe] messa in discussione perché si rileva che proprio la generalità della categoria determin[erebbe] eccessiva generalità ed astrattezza dei suoi contenuti, scarsa aderenza ai problemi specifici e agli interessi concreti che si manifestano in relazione ai vari atti dell’autonomia privata» (in questi termini, a p. 67). In questa logica, dopo aver proposto una partizione dell’istituto in tre ulteriori categorie – quali «gli atti personali», «gli atti a causa di morte» e «gli atti patrimoniali fra vivi» (così, a p. 68) –, l’A. sostiene che i requisiti di validità e di efficacia, per ognuna di esse, risulterebbero «disciplinati con regole molto diverse, così da rendere artificioso e vacuo qualsiasi tentativo di riduzione ad unità» (testualmente, a p. 69).
153 A.P. UGAS, Fatto e dinamica nel diritto, Torino, 2011, 106.
154 A.P. UGAS, Fatto, cit., 106.
conformare l’assetto di interessi risultante dal preesistente rapporto giuridico, analogamente con il secondo i contraenti prestabiliscono il medesimo effetto in relazione ad un rapporto non ancora sorto155.
Prima di procedere a stabilire una connessione con la funzione estesamente normativa idonea a colorare i negozi che si esplicano in ambito processuale, pare nondimeno utile a questo punto fare chiarezza a livello concettuale riguardo alle nozioni di ‘prefigurazione’ e ‘configurazione’ del rapporto, dal momento che essi possono ben riferirsi altresì ai negozi giuridici processuali.
In proposito, sembra utile dapprima procedere a definire la funzione negoziale di configurazione proprio a partire dal negozio accertativo, che – con il suo intervenire su un originario assetto di interessi cristallizzato in un negozio già perfezionato – ne costituisce il modello. A ben vedere, l’essenza causale dell’accertamento negoziale – che certamente lo configura – risiede nell’«autodeterminazione dei privati al riesame di un precedente rapporto in funzione della genesi di una norma giuridica di (ri)configurazione di esso, e di conseguente, automatica conformazione dei contenuti del rapporto primario, pur senza determinarne la sostituzione»156. In particolare, non può predicarsi la sua autosufficienza rispetto al rapporto preesistente perché ciò equivarrebbe ad ammettere la realizzazione di un negozio astratto. In questa logica, la già rilevata gratuità della funzione, che non esprime una causa di scambio, appare nondimeno meritevole di tutela da parte dell’ordinamento in quanto diretta ad assicurare la certezza dei rapporti negoziali, secondo un criterio ordinatorio di convenienza funzionalmente rilevante e suscettibile di ripercuotersi sul fondamentale diritto alla difesa giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., conducendo essenzialmente ad una agevolazione sotto il profilo probatorio157.
Per completezza dell’esame delle prospettive sottostanti alla casistica di cui ci occupiamo, sembra utile peraltro tratteggiare altresì la configurazione della seconda tipologia funzionale che abbiamo individuato come adatta a descrivere lo scopo pratico dei negozi giuridici processuali, ossia quella di carattere prefigurativo rispetto alla regolamentazione di un futuro rapporto.
Se si considera l’affinità causale del negozio processuale con la fattispecie accertativa, è utile precisare, in proposito, che la funzione di immediata conformazione del rapporto in senso precettivo e configurativo propria del negozio accertativo si realizza in questo caso ex ante, con la creazione di una regola privata destinata a plasmare il futuro assetto negoziale. Il che induce subito ad escludere che si tratti di una fattispecie
155 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss.
156 X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 38.
157 Al riguardo, X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 32 ss. osserva come, sulla base di questa opzione argomentativa, chiaramente «la funzione accertativa sia irriducibile tanto ad una mera “semplificazione probatoria di una posizione giuridica preesistente”, che semmai è semplice effetto secondario di quello sostantivo» (testualmente, a p. 38) da ricercarsi altrove; «quanto ad una figura apparentabile con la conciliazione [giudiziale, ex art. 185 cod. proc. civ.; ed ora anche stragiudiziale, secondo la disciplina dettata dal d.lg. 4-3-2010, n. 28], la cui funzione è in ogni caso quella di risolvere una lite attuale o potenziale, ancorché – a differenza della transazione senza un indefettibile ricorso a reciproche concessioni» (in questi termini, a p. 38).
atipica condizionale, valendo piuttosto la stessa ad obliterare la necessità delle trattative in vista del contratto particolare, al fine di semplificare l’attività negoziale dei privati158.
Le considerazioni sinora svolte consentono, a questo punto, di entrare nel vivo della problematica via via delineata, soffermandoci sulla possibilità di estendere utilmente
– in una prospettiva ricostruttiva degli aspetti di disciplina della figura – i criteri appena menzionati ai negozi giuridici processuali, in ragione dell’affinità funzionale con il contratto normativo e con il negozio accertativo, pur in relazione ai diversi settori del diritto, sostanziale e processuale.
In proposito, se si muove dalla premessa concettuale secondo cui ha senso enucleare una figura autonoma di negozio giuridico processuale solo ed esclusivamente secondo il parametro della sua idoneità a plasmare in qualche misura il rapporto processuale, non può invero disconoscersi anzitutto la necessità di ascrivere l’espressione di un simile scopo pratico nell’ambito del ‘regolare’ di cui all’art. 1321 cod. civ., nella sua accezione più ampia, irriducibile – come si ha già avuto modo di constatare – alla mera modificazione. Xx xxxxxx, lo strumento negoziale in questione non vale né a produrre una vicenda costitutiva e neppure ad estinguere il rapporto giuridico processuale, dal momento che effetti di questo tipo appaiono orbitare nella sfera del diritto processuale di matrice pubblicistica, rappresentando al più il riflesso legislativamente predeterminato di un negozio di disposizione del sottostante rapporto sostanziale.
Addentrandoci lungo questo percorso, una volta riconosciuta la specifica attitudine della figura in esame alla regolamentazione del processo negli spazi consentiti all’operatività del principio dispositivo, occorre altresì ammettere che tali effetti si producano senza l’intermediazione di un’obbligazione. A ben vedere, il risultato finale e sostantivo del negozio giuridico processuale parimenti prescinde – come nei negozi inerenti al diritto sostanziale ad esso affini – da un obbligo di prestazione primaria, contribuendo piuttosto a far avanzare il processo, essenzialmente attraverso le semplificazioni procedurali consentite all’autonomia privata. In questa logica, l’effetto non può che presentarsi in termini di prefigurazione ovvero di configurazione del rapporto processuale.
In buona sostanza, il primo effetto appare suscettibile di riconnettersi ad un negozio extraprocessuale incidente sul processo per mezzo della predisposizione di un assetto di interessi che regoli le modalità della tutela giurisdizionale dei diritti relativamente ad un’eventuale lite. Specificamente, esso in questo caso si traduce nella produzione di carattere finale – e non già o non soltanto procedimentale – di un’immediata prefigurazione del rapporto processuale, rispetto alla quale la buona fede
158 Al riguardo, X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 194 ss., specificamente, rileva come, per quanto concerne la questione dell’efficacia del contratto normativo, ad un tempo formativa e sostantiva, appaia preferibile ricostruire la fattispecie quale produttrice di un «effetto ‘reale’, correlato, se vogliamo, ad una funzione lato sensu organizzativa» (in questi termini, a p. 200), dovendosi intendere la ‘realità’ quale
«attitudine a creare la legge privata senza il medium del rapporto obbligatorio» (testualmente, a p. 200). Nondimeno, gli effetti di questo tipo di contratto si presentano, in questa logica, come deboli e strumentali, in quanto «la realità dell’effetto non viene in rilievo sub specie di un’automatica inserzione delle clausole da esso previste nell’atto particolare in termini inderogabilmente imperativi, ma semmai nel senso che la regola di prefigurazione risulterà direttamente vincolante a prescindere da una specifica ulteriore manifestazione del volere in tal senso» (così, a p. 200).
rileva essenzialmente in termini di una ineludibile bilateralità dell’iniziativa volta a modificare in qualche misura il profilo organizzativo del futuro esercizio dell’azione. Il che impone immediatamente di indagare le concrete modalità di estrinsecazione degli effetti negoziali così realizzati, allo scopo di capire quali conseguenze produca la loro violazione.
Vista da questa angolazione, la questione si traduce nel considerare in che modo il risultato immediato della manifestazione di volontà delle parti risulti idoneo ad imprimere un immediato vincolo di configurazione al futuro rapporto processuale. Da questo punto di visuale, può forse, in primo luogo, ipotizzarsi una sua immediata vincolatività sub specie della declaratoria di inammissibilità di un atto processuale compiuto da una parte in violazione dell’accordo, potendosi configurare in questa ipotesi la mancanza dei requisiti previsti dalla legge perché l’organo giurisdizionale possa considerare la richiesta avanzata da una parte. Del resto, pare coerente sostenere che qui i requisiti in questione risultino integrati dallo stesso negozio giuridico processuale159.
In secondo luogo, pare senz’altro configurabile, in via residuale, l’opponibilità dell’exceptio doli generalis, quale rimedio – oramai prevalentemente accettato da cospicua giurisprudenza160 e dalla migliore dottrina161 – operante avverso «chi … viene contra factum proprium, ed abusa del diritto all’azione inteso come “diritto ad un provvedimento sul merito”, frustrando l’affidamento della controparte nella conformazione alla norma di configurazione già dettata dall’autonomia privata»162. In altri termini, qui la buona fede processuale assume rilievo quale criterio capace di fondare lo sbarramento dell’efficacia di un atto ovvero di cagionare la reiezione della domanda basata sullo stesso.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, tuttavia, il richiamo all’immediata prefigurazione del rapporto processuale evoca la tuttora aperta questione dell’ammissibilità a livello ordinamentale di un negozio con cui le parti rinuncino preventivamente all’impugnazione della sentenza volta a dirimere la loro controversia. Nell’accennare ad un problema sul quale occorrerà tornare, è opportuno comunque sin d’ora rilevare come la Corte di legittimità – nell’ordinanza che ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite163 – abbia ritenuto insussistente
159 Questa opzione interpretativa trovava un ulteriore riscontro di diritto positivo, prima della sua intervenuta abrogazione, nella disposizione di cui all’art. 20, comma 4, del d. lgs. 5/2003 in relazione al processo societario, la quale prevedeva che «l’appello è dichiarato inammissibile se le parti hanno convenuto, con atto scritto anche anteriore alla sentenza, che questa sia impugnabile soltanto ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ.».
160 Possono menzionarsi, ex pluribus, Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, II, 697 ss., con nota di X. XXXXX, L’ambito di applicazione ed i limiti dell’‘exceptio doli generalis’, ivi, 710 ss., ed in Ius Explorer, Milano, ult. agg.; Cass., 10 ottobre 2007, n. 21265, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 554 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, ‘Exceptio doli generalis’ ed ‘exceptio doli specialis’, ivi, 561 ss.
161 Al riguardo può ricordarsi X. XXXXXXXX - X. XXXXX, Sull’eccezione di dolo generale, in Questioni vecchie e nuove in tema di responsabilità, a cura di X. Xxxxxxxx, Napoli, 2011, 3 ss. (e, soprattutto, 25 ss.).
162 X. XXXXXX, voce Accertamento, cit., 43, che riconduce alla realizzazione del negozio di configurazione
«la genesi di un contesto affidante» (testualmente, a p. 43).
163 Cass., ord., 6 marzo 2012, n. 3469, in Ius Explorer, Milano, ult. agg., alla quale tuttavia le Sezioni unite non hanno fornito una specifica risposta in merito alla questione che aveva determinato la rimessione degli atti, dal momento che si sono limitate ad una pronuncia in termini di inammissibilità del ricorso principale, dichiarando così assorbito quello incidentale.
nell’ordinamento un principio generale che imponga il doppio grado per il giudizio di merito, incentrandosi piuttosto la questione sui rapporti tra l’autonomia privata delle parti, da un lato, e la disponibilità dell’azione giudiziale quale espressione del principio fondamentale di cui all’art. 24 Cost, dall’altro lato164.
Dopo aver delineato questo aspetto, sembra opportuno, a questo punto, accennare all’altra possibile articolazione del profilo funzionale idoneo a sorreggere i negozi giuridici processuali. Ebbene, se la prefigurazione del rapporto processuale
«genera un vincolo immediato … al quale si affianca un dovere di comportarsi secondo buona fede, funzionale alla reciproca salvaguardia delle posizioni delle parti e sostanzialmente sganciato, quindi, da un dovere di prestazione principale»165, l’effetto più strettamente configurativo opera invece all’interno di un procedimento giurisdizionale già instaurato, determinando un particolare articolarsi della procedura in atto maggiormente confacente agli interessi delle parti.
In proposito, giova dunque osservare come la collocazione del negozio all’interno della procedura giurisdizionale determini una tendenziale coincidenza tra il momento dell’accordo e la sua realizzazione. Nondimeno, anche in questo caso occorre analizzare le conseguenze cui va incontro la parte del processo che non impronti la propria condotta processuale nel senso dettato dalla regola di configurazione prevista dall’autonomia privata. Per altro verso, appare altresì necessario determinare quale sia la sanzione in cui incorra il negozio processuale viziato.
Emerge, a questo punto, la ricaduta pratica dell’opzione interpretativa qui suggerita, dal momento che il regime da applicare ai casi in questione pare si possa ricavare, sulla base delle considerazioni sinora effettuate, secondo una valutazione di compatibilità della disciplina dei contratti, sulla base del parametro del diritto processuale.
Ebbene, in proposito giova osservare, in primo luogo, come – coerentemente con quanto già evidenziato in relazione al profilo di prefigurazione della tutela giurisdizionale dei diritti – anche rispetto ai negozi ‘endoprocedimentali’ la sanzione della regola configurata dall’autonomia privata può individuarsi nell’inammissibilità dell’atto, in quanto lo stesso difetterebbe dei suoi presupposti.
In secondo luogo, non ci si può esimere dallo stabilire se, in presenza di un negozio giuridico processuale in cui la volontà della parte risulti viziata da dolo, errore o dalla coartazione dell’atto, prevalga in ogni caso il rilievo della formalità degli atti processuali, in relazione ai quali le esigenze di certezza proprie del processo impongono di considerare tali vizi irrilevanti. Orbene, l’opzione ricostruttiva qui suggerita, sulla base della quale è necessario valorizzare il carattere negoziale degli atti riconducibili nell’ambito della categoria in esame, impone di considerare come inficiati da una qualche forma di invalidità gli accordi di questo genere qualora risultino affetti da vizi del
164 In questo quadro, un’interessante prospettiva ricostruttiva è quella espressa da X. XXXX, Il ricorso per Cassazione c.d. per saltum: istituto inutile o da riscoprire?, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 151 ss. (ed amplius 177), che si mostra favorevole ad ammettere estensivamente il patto di rinuncia preventiva all’impugnazione in quanto rappresenta uno strumento deflativo del processo, dal momento che costituirebbe sufficiente garanzia affinché dallo stesso non derivi qualche nocumento alle parti il necessario accordo delle medesime.
165 X. XXXXXX, voce Contratto normativo, cit., 203.
consenso. Il che sembra quantomeno compatibile con la circostanza che la struttura di regola bilaterale del negozio giuridico processuale non pone problemi di tutela dell’affidamento della controparte, dal momento che, viceversa, il vincolo di immediata configurazione del rapporto processuale appare collegato e trova il suo significato proprio in relazione al dovere delle parti di tenere un comportamento conforme alla buona fede, funzionale alla salvaguardia delle reciproche posizioni.
In questa prospettiva, il regime giuridico dell’atto invalido può quindi ricavarsi in primo luogo sulla base della norma di cui all’art. 156, comma 2, cod. proc. civ., che sancisce la nullità dell’atto processuale per il difetto dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, la quale va integrata con gli elementi di validità propri del contratto, in quanto compatibili166. Pertanto, il vizio della volontà ridonda, da questo punto di vista, nel difetto dell’accordo delle parti quale requisito essenziale del contratto, venendo così in rilievo sulla base delle disposizioni di cui agli artt. 1325, n. 1), e 1418 cod. civ. In ultima analisi, il negozio giuridico processuale affetto da vizi genetici non può essere che insanabilmente nullo secondo la disciplina del processo civile.
8. Il perimetro funzionale: il contributo dell’autonomia privata alla migliore realizzazione del giusto processo.
Le considerazioni sinora svolte, con il riconoscimento dello scopo pratico valevole a sorreggere la convenzione per il processo nella specifica configurazione della procedura, consentono, a questo punto, di procedere con l’analisi del perimetro funzionale dei negozi giuridici processuali. Ebbene, a questo scopo occorrerà prendere le mosse dalla considerazione per cui la valutazione favorevole dell’operazione economica concretamente realizzata dalle parti in via negoziale soggiace unicamente al limite negativo della non incompatibilità con norme imperative, ordine pubblico e buon costume. E nondimeno, gli atti processuali ampiamente intesi appaiono legislativamente indirizzati nel senso del permettere lo svolgimento del processo, in vista dell’obiettivo dell’accertamento e della dichiarazione del diritto ad opera dell’organo giurisdizionale nei confronti delle parti in conflitto167. Il che renderà manifesta la necessità di circoscrivere la meritevolezza di tutela da parte dell’ordinamento, in relazione al peculiare contesto processuale, secondo il parametro della migliore realizzazione del giusto processo.
Al riguardo, giova preliminarmente osservare come – specialmente sotto questo profilo – non sia congruente «negare la unitarietà del concetto di negozio giuridico»168, così che l’evoluzione degli orientamenti relativi al negozio processuale dipende strettamente dall’evoluzione della medesima nozione di negozio giuridico169. Ed invero, neppure all’interno delle dottrine che, sul presupposto della parzialità dell’efficacia precettiva della regola processuale di parte in ragione dell’ineluttabile concorso di un
166 In questo senso, cfr. X. XXXXXXX, Aspetti sostanziali, cit., 1064 ss.
167 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
168 X. XXXXXXXXX, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 237, nt. 91, ora in Scritti giuridici, I, Milano, 2006, 217, nt. 91.
169 X. XXXXXXXXX, L’istruzione, cit., 236 ss., nt. 91.
provvedimento del giudice170, pervengono a disconoscere la stessa esistenza di negozi giuridici processuali171 si è potuto contestare che nei negozi processuali sussista effettivamente un’autonomia decisionale delle parti, da intendersi esattamente quale
«volontà di autodeterminarsi e cioè di autoregolare il proprio comportamento volitivo»172. Con ciò non si intende evidentemente disconoscere la peculiarità di queste manifestazioni di autonomia privata. A ben vedere, non è revocabile in dubbio la circostanza che un negozio giuridico così configurato, trovando la propria sfera di applicabilità nell’ambito del processo, risente inevitabilmente della struttura del processo medesimo173. Piuttosto, occorre a questo punto soffermarsi sugli aspetti essenziali della teoria del negozio afferenti alla causa, per poi riconoscere i limiti funzionali derivanti dallo specifico contesto processuale.
Addentrandoci su questa via, vediamo immediatamente in quali termini la valutazione favorevole accordata dall’ordinamento al particolare negozio giuridico si ponga come limite rispetto alla sua stessa ammissibilità.
In proposito, non sembra inutile ricordare come l’eventuale riconoscimento in termini di meritevolezza ai sensi della norma di cui all’art. 1322 cod. civ. non valga a trasformare la natura dell’atto di autonomia privata posto in essere in via negoziale, che non diviene per questa sola ragione uno «strumento per la realizzazione primaria di interessi generali»174, dal momento che i principi generali dell’ordinamento si pongono per il negozio giuridico esclusivamente alla stregua di un limite rispetto al quale lo stesso non deve porsi in contraddizione175. In quest’ordine di idee, è stato dunque definito il requisito causale come il «meccanismo attraverso il quale la regola privata si inserisce nell’ordinamento giuridico ed acquista efficacia»176.
Xxxxxx, l’indagine volta a determinare la rilevanza ordinamentale dell’assetto d’interessi programmato con il negozio non può che articolarsi in due fasi. Infatti, in primo luogo, risulta necessario qualificare l’operazione economica concretamente realizzata dalle parti177. Il che induce inevitabilmente ad attribuire rilevanza all’elemento
170 Così, in senso critico, X. XXXXXXXXX, L’istruzione, cit., 236 ss., nt. 91, il quale acutamente pone in luce come le tesi in questione si siano spinte «troppo oltre il segno: perché, solo equivocando tra determinazione della parte che ha per contenuto un particolare comportamento del giudice su di un oggetto determinato (ad es. nell’affermazione del fatto, la necessità che tale fatto sia considerato dal giudice) e determinazione del giudice intorno all’oggetto del proprio comportamento (nella specie, l’esistenza o il modo di essere del fatto) hanno negato che alla parte spettasse anche di poter disporre della necessità del comportamento giudiziale su di un oggetto determinato: il che indubbiamente invece le compete» (in questi termini, a p. 238, nt. 91).
171 Può menzionarsi, tra tutti, X. XXXXX, Contributo alla teoria dei negozi giuridici processuali, Bologna, 1921, 120 ss., per il quale «in rapporto agli atti pubblici la volontà appare … semplicemente come impulso, come richiamo di effetti che seguono senz’altro per opera di legge» (così, a p. 122). In particolare, l’effetto complessivo degli atti processuali si determinerebbe in relazione alla «sentenza a cui tutti convergono» (in questi termini, a p. 122, nt. 1).
172 Così X. XXXXXXXXX, L’istruzione, cit., 239, nt. 91.
173 X. XXXXXXXXX, L’istruzione, cit., 236 ss., nt. 91.
174 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345. 175 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss. 176 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 347.
177 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss.
della tipicità178, in considerazione della tendenza sociale alla «creazione di forme simboliche»179, il cui richiamo consente «di attribuire immediatamente all’azione che il tipo rappresenta, quella portata, quel significato proprio, appunto, del tipo»180. In altri termini, l’operazione finalizzata a riconoscere ai nostri fini e classificare giuridicamente il negozio concretamente voluto dalle parti presuppone che – laddove i caratteri specifici dell’operazione programmata finiscano per coincidere con quelli consueti e regolari riferiti al modello astratto, senza che siano quindi contemplati elementi differenti e individuali – se ne traggano tutti i suoi contenuti, applicandosi integralmente la disciplina del tipo181.
Soltanto dopo aver individuato l’oggetto del riscontro in termini di compatibilità ordinamentale182, diviene dunque logicamente possibile procedere alla seconda fase, ossia quella dell’apprezzamento circa la meritevolezza dell’interesse espresso dalla concreta operazione negoziale posta in essere.
Come è noto, si tratta di un giudizio che riguarda ogni negozio giuridico, compresi quelli sussumibili in un tipo astrattamente previsto dal legislatore, dal momento che sarebbe un errore confondere i concetti di causa e tipo. Ed è questa la ragione per cui non appare soddisfacente constatare che lo schema ideale, rispetto al quale esso converge, corrisponde in astratto ad una funzione socialmente utile, dal momento che occorre bensì esaminare in che modo lo schema tipico è stato concretamente adoperato dalle parti183, al fine di verificare la conformità della reale operazione economica ai principi dell’ordinamento. In buona sostanza, la disciplina degli schemi tipicamente predeterminati dal legislatore deve essere coordinata con i principi che nell’impianto codicistico afferiscono ai contratti in generale, secondo quanto può agevolmente evincersi dal disposto dell’art. 1323 cod. civ.184.
In questa prospettiva, da tempo un’illustre dottrina185 ha evidenziato che «la causa rappresenta il punto d’incontro, di confluenza di tutti i problemi fondamentali della teoria del negozio giuridico»186, quali quello dell’interesse, della tipicità e della sua stessa natura. In particolare, è risaputo che – senza ricadere nelle oramai superate dottrine soggettivistiche – l’elemento causale del negozio esprime la funzione in senso economico individuale, ossia la ragione obiettiva dell’operazione concretamente programmata. Del resto, ad attribuire rilievo esclusivo alla funzione economico sociale, di per sé estranea al profilo strutturale, si finirebbe per trattare indistintamente elementi del negozio e criteri di compatibilità ordinamentale187. Ed allora, nel suo ruolo di connessione degli altri
178 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss.
179 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 349. 180 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss. 181 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss. 182 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss.
183 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 345 ss., (ed amplius 355 ss.).
184 Come puntualmente osservato da G.B. XXXXX, Causa, cit., 345 ss., (ed amplius 355 ss.), il quale rileva che «la formula “ancorché non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare” dell’art. 1323 cod. civ. pone, come un fatto già scontato, che ai tipi legali si debbano applicare i principi contenuti nel titolo “dei contratti in generale”» (così, a p. 359).
185 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 355 ss.
186 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 362.
187 Da quest’ultimo punto di vista, cfr. G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 355 ss.
elementi del negozio, la causa si presenta come «l’elemento che collega l’operazione economica oggettiva ai soggetti che ne sono autori»188.
Così definita la funzione rilevante, giova quindi osservare come nel valutare la meritevolezza dell’interesse occorra applicare i criteri previsti dalla norma di cui all’art. 1343 cod. civ., ossia quelli che richiedono la compatibilità con le norme imperative, l’ordine pubblico ed il buon costume. Specificamente, per quel che ha attinenza con la tematica degli accordi processuali, sembra utile precisare la nozione di ordine pubblico, il quale indica essenzialmente «quei caratteri che dalla considerazione unitaria di tutto il sistema risultino essere a fondamento dell’ordine giuridico stesso»189.
Le considerazioni sinora svolte consentono, a questo punto, di entrare nel vivo della problematica via via delineata, giungendo ad analizzare la peculiare manifestazione della meritevolezza in relazione agli accordi processuali, secondo quanto risulta in modo inequivocabile dai principi fondamentali afferenti all’esercizio della giurisdizione. A tal fine, occorrerà innanzitutto effettuare alcune considerazioni di ordine generale da cui desumere l’indirizzo strumentale impresso già a livello ordinamentale agli atti processuali in senso ampio.
Xx è su questo aspetto che dovremo ora soffermarci.
In proposito, a voler delineare il quadro processuale, può immediatamente considerarsi come il procedimento giurisdizionale si componga e venga a coincidere con una serie ordinata di atti che si dispiegano tutti in direzione di un comune traguardo, ossia il giudizio, da intendersi come l’affermazione del diritto nei confronti dei litiganti ad opera del giudice190. In questa logica, il principio ordinatore che regola interiormente questo svolgimento è il contraddittorio, che identifica a livello organizzativo lo stesso procedimento. A ben vedere, il processo non può concepirsi separatamente dagli atti che ne scandiscono il progredire verso la pronuncia giurisdizionale. Xxxxxx quindi qualificarsi come atti processuali quelli che determinano dei momenti di sviluppo del procedimento, permettendo che il medesimo arrivi a concludersi con uno degli esiti previsti dalla legge191. In altri termini, può riconoscersi un canone fondamentale che emerge dal sistema, che imprime una direzione necessitata agli atti in questione, secondo la loro stessa natura, nel senso della prosecuzione del procedimento medesimo.
Ed invero, questo dato trova un riscontro importante nel principio cardine del giusto processo regolato dalla legge di cui all’art. 111 Cost., che – come si ha già avuto modo di osservare – prescrive che, per essere qualificato come ‘giusto’, il procedimento giurisdizionale debba caratterizzarsi anche per una ragionevole durata. Il che implica la necessità che i singoli atti che lo compongono appaiano orientati verso il suo progresso in dirittura di una sua conclusione legislativamente preordinata, sembrando
188 In questo senso, G.B. XXXXX, Causa, cit., 372, che ribadisce di non effettuare così una ricostruzione soggettivistica, come si evince, da un lato, dal fatto che «nel valutare la meritevolezza dell’interesse è indubbiamente rilevante anche il punto di riferimento oggettivo» (così, a p. 375) e, dall’altro lato, dalla considerazione per cui «è l’essenzialità, e non l’illiceità, che rende il motivo rilevante» (testualmente, a p. 382).
189 G.B. XXXXX, Xxxxx, cit., 408.
190 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
191 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
tendenzialmente non conforme alle direttrici dell’ordinamento l’imporre al processo una situazione di stasi.
Del resto, queste considerazioni si riflettono nella disciplina della forma degli atti processuali. In questa prospettiva, emerge immediatamente la circostanza che, in linea di principio, il regime formale degli atti di carattere processuale vale di regola ad assorbire la considerazione di ogni altro requisito, ivi compresi quelli di carattere soggettivo afferenti alla volontarietà dell’atto stesso192. E nondimeno, al fine di impedire che la controversialità intrinseca al processo induca la parte ad abusare in termini dilatori degli strumenti che l’ordinamento le offre, da autorevole dottrina193 è stata evidenziata l’esigenza di «evitare che i requisiti formali degenerino in vuoto e dannoso formalismo»194. Necessità che trova un fondamento normativo nella norma di cui all’art. 121 cod. proc. civ., la quale stabilisce una relazione di strumentalità tra la forma, che costituisce il mezzo, ed il raggiungimento dello scopo dell’atto, che rappresenta il fine. In buona sostanza, ciò significa che il diritto positivo manifesta esplicitamente l’idea che le forme degli atti processuali risultano predisposte in funzione dello svolgimento del processo195. Da quest’ultimo punto di vista, può poi incidentalmente osservarsi come i requisiti formali che la disposizione di cui all’art. 125 cod. proc. civ. stabilisce per alcuni dei più importanti atti di parte costituiscano tutti un’applicazione del principio del contraddittorio, dal momento che appaiono strumentali al suo effettivo rispetto. Il loro significato, infatti, si manifesta unicamente in quanto diretti alla controparte, che disporrà degli stessi strumenti per approntare la sua difesa196.
Una volta chiariti questi aspetti, siamo ora in grado di tirare le fila di questo discorso, e di evidenziare alcune ricadute pratiche dell’opzione interpretativa suggerita. In particolare, è possibile a questo punto considerare in che modo la necessità di assicurare la progressione del processo e la sua ragionevole durata si intersechi con la funzione economico individuale del negozio giuridico ed i suoi limiti negativi consistenti nella compatibilità con l’ordinamento.
Al riguardo, giova pertanto osservare come – senza discostarsi dai canoni di teoria generale – anche la causa del negozio giuridico processuale concretamente intesa corrisponda alla ragione individuale che abbia collegato oggettivamente l’operazione posta in essere alle parti. Né la sua naturale ed imprescindibile contestualizzazione nell’ambito di una procedura connotata da un’impronta essenzialmente pubblicistica sembra debba implicare di per sé la strumentalizzazione della causa in senso economico sociale, introducendo arbitrariamente in tal modo un giudizio valoriale comunque estraneo alla struttura del negozio.
La questione, piuttosto, si manifesta nell’esigenza di definire la peculiare articolazione del perimetro della meritevolezza ordinamentale secondo i principi del processo, con particolare riferimento all’ordine pubblico, che pare assumere in questo caso un ruolo importante. Ed invero, se il limite in questione nell’ipotesi in esame si traduce nel principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. e nella
192 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 290.
193 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
194 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 291.
195 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
196 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 289 ss.
sua specificazione definibile come necessità della direzione progressiva degli atti in vista della conclusione del processo, si può in prima battuta affermare che i negozi processuali intanto siano ammissibili in quanto facciano andare avanti il processo, nel rispetto del contraddittorio. In buona sostanza, la circostanza che lo strumento del negozio giuridico processuale appaia necessariamente improntato allo scopo di far progredire il procedimento discende dal fatto che la valutazione positiva dell’ordinamento appare ineluttabilmente collegata in questo settore a specifiche ed imprescindibili esigenze di effettività della tutela giurisdizionale. Il che non vale comunque a modificare la fisionomia essenzialmente individuale, e non già pubblicistica, degli atti negoziali in questione.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, peraltro, sembra forse che possa sostenersi che i negozi giuridici processuali, in quanto strumenti capaci di imprimere un’accelerazione alla procedura, risultino addirittura imposti dal principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. sub specie della sua ragionevole durata. In altri termini, nel rispetto dei limiti funzionali ad essi imposti dall’ordinamento, il sistema giurisdizionale così come è configurato non potrebbe non contemplarli per mantenere la coerenza dei propri principi.
9. La patologia: i limiti delle disposizioni inderogabili della legge mediante la quale si attua la giurisdizione ed il recupero per conversione.
Chiariti i limiti della sfera funzionale del negozio giuridico processuale, in ragione dell’esigenza di non trascurare le principali implicazioni che affiorano in relazione all’argomento che stiamo trattando, parrebbe forse nondimeno utile analizzare la questione afferente alle vicende patologiche dei negozi giuridici processuali. Ebbene, a questo proposito sembrerà opportuno prendere le mosse da una recente pronuncia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato197 per ribadire l’inderogabilità convenzionale
– similmente a quanto accade nel settore sostanziale – delle norme processuali che corrispondono a ragioni di interesse generale e, pertanto, sono classificabili come imperative. Ciò consentirà successivamente di soffermarsi sul problema della possibilità di conversione del negozio giuridico processuale affetto da nullità, per giungere – a voler considerare come parte del diritto comune il principio di conservazione degli atti negoziali198 – ad ammettere l’operatività del rimedio sulla base della norma di cui all’art. 1424 cod. civ., al ricorrere dei relativi requisiti, nella prospettiva della non vanificazione della tutela giurisdizionale.
Procediamo quindi con l’esame del primo punto menzionato, afferente all’invalidità degli accordi processuali derivante dalla violazione di norme inderogabili previste dalla legge processuale, le quali, in ultima analisi, sembrano tendenzialmente rappresentare particolari applicazioni del canone fondamentale del giusto processo.
In proposito, è utile immediatamente ripercorrere l’argomentazione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che si preoccupa di definire ciò che rientra nella
197 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, in Ius Explorer, Milano, ult. agg.
198 X. XXXXXXXXX - X. XXXXXX, Principi generali del diritto civile, Torino, 2011, 141 ss.
disponibilità delle parti in relazione alla specifica materia processualmente regolata dalla norma di cui all’art. 23-bis l. e) della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (poi trasfusa nell’art. 119 cod. proc. amm.). Specificamente, si muove dalla considerazione che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la disposizione in questione avrebbe ad oggetto non soltanto le vaste operazioni di dismissione di beni pubblici, ma altresì la cessione dei singoli beni199. Xxxxxx, per quel che qui interessa, la Plenaria rileva come «il rito abbreviato trov[i] la propria ragion d’essere nella esigenza che i giudizi in talune materie di particolare interesse, strategico o finanziario, dello Stato e della comunità vengano definiti con sollecitudine e con priorità rispetto alla generalità delle controversie»200. In questo quadro, occorreva quindi stabilire quali conseguenze attribuire al fatto del giudice di primo grado, tradottosi nell’applicare il rito ordinario al posto di quello speciale; ossia, si era presentato il problema della scusabilità dell’errore della parte che per questa ragione abbia proposto appello nei termini del rito ordinario201. Non senza cogliere un aspetto importante della questione, il Consiglio di Stato – richiamando un proprio precedente202 – risolve la questione precisando innanzitutto che compete al legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità la predisposizione e la determinazione della sfera di applicabilità dei riti speciali203. Per questa ragione,
«l’applicazione del rito è doverosa ed oggettiva, e non vi è spazio per una scelta del rito, o sua disapplicazione, ad opera delle parti o del giudice»204. Ed allora, il comportamento processuale che si discosti dalla regola appena stabilita darà luogo, in relazione alla parte, a decadenza salvo che non sussista un errore scusabile e, rispetto al giudice, all’integrazione di un vizio impugnabile della sentenza205.
In buona sostanza, nella pronuncia in questione si esprime il principio per cui il processo amministrativo non fa eccezione alla regola generale – operante anche rispetto al processo civile – sulla base della quale il rito in sé non potrebbe validamente costituire l’oggetto di un negozio giuridico processuale, dal momento che la scelta del procedimento non sarebbe disponibile per le parti o per il giudice, in quanto risulta legislativamente stabilita per corrispondere a logiche di interesse pubblico206.
Conclusivamente, la Plenaria ha stabilito che, nel caso sottoposto alla sua attenzione, «il comportamento fuorviante del giudice e delle controparti che ne traggano vantaggio»207 determina la scusabilità dell’errore di chi abbia impugnato la pronuncia di primo grado nei termini del rito ordinario208.
Quanto sinora osservato delinea una prospettiva che induce ad ulteriori considerazioni, in quanto appare evidente che non è consentito all’autonomia privata porre in essere negozi giuridici processuali in contrasto con le norme imperative che
199 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
200 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
201 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
202 Cons. Stato, ad plen., 3 giugno 2011, n. 10, in Ius Explorer, Milano, ult. agg.
203 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
204 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
205 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
206 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
207 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
208 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
sovraintendono all’esercizio della giurisdizione. È opportuno, peraltro, precisare il concetto che circoscrive l’inderogabilità delle disposizioni processuali.
Al riguardo, giova osservare che, in generale, le norme che la nozione individua come inderogabili in linea di principio non approfondiscono il merito dell’assetto di interessi concretamente posto in essere dai privati209. Pertanto, si presentano come norme imperative quelle che intervengono a delimitare esternamente il contenuto dell’atto privato per ragioni di interesse generale210, attraverso l’imposizione di «una sorta di perimetro entro il quale l’attività deve essere mantenuta»211 ovvero dettando in modo vincolante il contenuto di specifici negozi212.
Neppure la disciplina processuale sembra sottrarsi a questa classificazione. A ben vedere, in questo settore dell’ordinamento, le ragioni di carattere generale che giustificano l’imperatività della norma sembrano presentarsi in linea di principio quali specificazioni del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. Ed invero, pare innegabile che, a titolo esemplificativo, la disciplina consistente nella prescrizione legale di un presupposto processuale213, di alcuni particolari riti del processo amministrativo214, oltre che, in generale, i termini inderogabili per gli atti processuali corrispondano alla superiore necessità di assicurare al giudizio una ragionevole durata, nell’ottica di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale. In particolare, le decadenze stabilite perentoriamente dal legislatore sembrano corrispondere all’esigenza di imprimere un ritmo dinamico al processo, senza tralasciare il rispetto del contraddittorio, che impone tendenzialmente di non abbreviare i termini previsti.
In questa logica, può dunque osservarsi come all’autonomia privata non sia concesso spingersi sino a porre in essere negozi giuridici processuali in violazione di norme imperative, il che comunque – come si è visto – determinerebbe una fuoriuscita dal perimetro funzionale della migliore realizzazione del giusto processo che consente una valutazione positiva in termini di meritevolezza di tutela.
Una volta precisati questi aspetti, è possibile adesso procedere a delineare un profilo che richiede una specifica valutazione, in quanto occorre analizzare la questione della possibilità di conversione dei negozi giuridici processuali ai sensi della norma di cui all’art. 1424 cod. civ., al ricorrere dei relativi presupposti.
In proposito, giova preliminarmente ricordare come la figura della conversione rappresenti uno strumento che consente di recuperare il contratto nullo, «del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità»215. Più precisamente, è stato osservato come il meccanismo in questione
209 X. XXXXXXX, Manuale, cit., 15 ss.
210 Si veda, in proposito, ex pluribus, X. XXXXXXX, Manuale, cit., 15 ss.
211 X. XXXXXXX, Manuale, cit., 15.
212 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXX, Manuale, cit., 15.
213 Trib. Siena, 25 giugno 2012, in xxx.000xxxxxxxxx.xx, in tema di mediazione, l’elusione della prescrizione legale del previo esperimento della procedura in questione, la quale assolve a fini deflattivi del contenzioso, integra la violazione di una norma da considerarsi imperativa «poiché posta a presidio del giusto processo e della sua ragionevole durata … anche nell’interesse pubblico».
214 Cons. Stato, ad plen., 9 agosto 2012, n. 32, cit.
215 Art. 1424 cod. civ.
rappresenti un procedimento che consente di desumere un nuovo negozio da una fattispecie negoziale radicalmente invalida, che si differenzia da quello oggetto della volontà delle parti, pur risultando adeguato – anche se, di norma, di efficacia più circoscritta – a produrre lo stesso risultato pratico216. È dunque necessario che sussista tra il negozio nullo e quello diverso destinato a produrne lo scopo sostantivo il c.d. rapporto di continenza217, dovendo quest’ultimo avere un’ampiezza che non ecceda il primo, oltre a possedere i necessari requisiti di sostanza e di forma per esso previsti218.
Orbene, pur ponendosi tradizionalmente a fondamento del meccanismo in questione il principio di conservazione degli atti negoziali219, sembra da condividersi quell’impostazione dottrinale220 per cui, dal momento che «sarebbe esercizio vacuo»221 ricercare una volontà per definizione insussistente222 e riduttivo considerare la figura come «un automatismo di fonte legale»223, occorrerebbe rinvenire il fondamento e la ragione giustificatrice della conversione nel principio di buona fede. In quest’ordine di idee, può farsi ricorso allo strumento in questione qualora gli effetti differenti che conseguono dalla conversione appaiono coerenti con il programma contrattuale riversato dalle parti nel negozio nullo, di modo che rifiutarli si porrebbe in contrasto con la regola della buona fede224.
Con questo chiarimento, è quindi possibile procedere ad indagare l’applicabilità della figura in esame nel settore processuale225.
216 X. XXXXXXXXX-XXXX, voce Conversione dell’atto giuridico, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 528 ss. (e soprattutto, 530 ss.);
000 X. XXXXXXXXXXXXX, xxxx Xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxx, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., IV, Torino, 1989, 376 ss.
218 X. XXXXX, voce Conversione del negozio giuridico (dir. vigente), in Noviss. dig. it., IV, Torino, 1968, 811 ss.
219 Sul punto si veda, ex pluribus, X. XXXXXXXXX - X. XXXXXX, Xxxxxxxx, cit., 141 ss.
220 X. XXXXX, Il contratto, cit., 806 ss. In proposito, cfr. X. XXXXXXXXX-XXXX, voce Conversione, cit., 534, la quale, pur non volendo ivi esprimersi sulla questione, nondimeno rileva che «non sembra dubbio che il codice del 1942 abbia dato particolare rilievo alla teoria oggettiva, riducendo in modo sostanziale la rilevanza della volontà soggettiva nella struttura del negozio giuridico» (così, a p. 534); considerando altresì che «in ogni caso …, ai fini della conversione, in base al citato art. 1424, non si richiede una volontà effettiva degli autori del negozio invalido …; e che il ricorso ad una volontà ipotetica, che dovrebbe rappresentare il deus ex machina, capace di salvare ad ogni costo l’aspetto volontaristico del fenomeno, sta a denunziare chiaramente la finzione e, di conseguenza, il fondamento essenzialmente oggettivo di questo» (in questi termini, a p. 534).
221 X. XXXXX, Il contratto, cit., 807.
222 Così, quasi testualmente X. XXXXX, Il contratto, cit., 807.
223 X. XXXXX, Il contratto, cit., 807.
224 X. XXXXX, Il contratto, cit., 806 ss.
225 Per la tesi favorevole, si veda, in dottrina, X. XXXXXXX, Sulla conversione del negozio giuridico processuale, Napoli, 1905, 27 ss., per il quale «pure in ordine al processo civile bisogna distinguere tra conversione legale, che si opera in virtù di una disposizione di diritto positivo, e conversione volontaria o convenzionale, che si effettua in base alla volontà delle parti» (testualmente, a p. 27), campo, quest’ultimo, di proficua applicazione della dottrina del negozio giuridico processuale. Si attesta su queste posizioni altresì X. XXXX, Del negozio, cit., 96 ss. Per la possibilità di conversione del negozio giuridico processuale, con specifico riferimento alla dichiarazione di impugnazione, si veda altresì X. XXXXXXXX, L’art. 514 codice di procedura penale e la conversione dei negozi giuridici processuali, in Giur. it., 1951, 77 ss., secondo cui «l’applicazione di tale istituto, ispirata a criteri di equità e di giustizia, non contrasta con il diritto positivo e presenta d’altro lato il vantaggio di evitare una soluzione fondata sul concetto di
Ebbene, è opportuno ribadire a questo proposito che il diritto dei contratti mostra di operare nel nostro sistema alla stregua di un diritto comune, trasversalmente applicabile a tutti gli atti negoziali, a prescindere dal loro ambito, secondo il criterio della compatibilità ordinamentale226. Ed è questa la ragione per cui la regola della conversione degli atti negoziali non può che operare anche in relazione agli atti processuali, potendosi forse, peraltro, intravedere un continuum tra la norma di cui all’art. 1424 cod. civ. e quella di cui all’art. 159, comma 3, del codice di procedura civile227. In questa logica, è stato puntualmente osservato228 come, dal momento che si è pervenuti ad escludere la rilevanza determinante della volontà delle parti anche in relazione al profilo sostanziale dell’operatività della conversione del negozio giuridico, «il differente atteggiarsi del fenomeno nei due campi non sarebbe più sostenibile»229.
Del resto, questa prospettiva appare suffragata dal favore di autorevole dottrina230 e parte della giurisprudenza di legittimità231. Infatti, la prima si è orientata nel senso di ritenere suscettibili di conversione i negozi giuridici processuali, limitatamente all’ipotesi in cui gli stessi appaiano idonei ad influire sui mezzi e sui presupposti della tutela giurisdizionale232.
‘impugnazione generica’, soluzione che non troverebbe il consenso della dottrina dominante» (così, a p. 82). In generale, come rilevato da X. XXXXXXXXXXXXX, voce Conversione, cit., 378 ss., non sembra di per sé rappresentare un ostacolo alla configurazione della conversione in ambito processuale l’eventuale unilateralità dell’atto, dal momento che, con riguardo ai negozi di carattere sostanziale, la giurisprudenza tende ad ammetterne l’operatività, pur negando che si possa giungere a consentire la conversione di un contratto nullo in un atto unilaterale.
226 X. XXXXXXX, Manuale, cit., 777 ss.
227 Contro l’esistenza di un principio di conservazione degli atti processuali, si veda X. XXXXXXXXX - X. XXXXXXXX, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali24, I, Milano, 2015, 559 ss., secondo cui, «mentre la regola della conversione degli atti negoziali, codificata dall’art. 1424 cod. civ., riguarda un mutamento qualitativo di un dato atto in uno diverso e autonomo, la norma in esame si riferisce ad un fenomeno quantitativo di riduzione (ossia “il far salvi quei minori effetti che il vizio non preclude”)» (in questi termini, a p. 561, nt. 6).
228 X. XXXXXXXXX-XXXX, voce Conversione, cit., 540.
229 X. XXXXXXXXX-XXXX, voce Conversione, cit., 540, la quale, tuttavia, ritiene che «la funzione rigidamente specifica dei singoli atti processuali» (in questi termini, a p. 540) renda «assai improbabile la possibilità di una utile sostituzione dell’atto invalido con un altro atto valido, di cui il primo dovrebbe contenere i minimi presupposti di sostanza e di forma» (così, a p. 540).
230 X. XXXXX, Diritto processuale civile italiano2, Roma, 1936, 282 ss., il quale ha sottolineato che «la conversione dei negozi e, più generalmente, degli atti giuridici non è che un’applicazione particolare di un principio generale tendente ad attuare, sin dove sia possibile e in quanto sia praticamente utile, una conversione delle valutazioni giuridiche: conversione che d’ordinario, ma non sempre, importa un mutamento di qualifica delle fattispecie giuridiche considerate» (in questi termini, a p. 283, nt. 12).
231 Possono menzionarsi, in particolare, Cass., 5 marzo 2008, n. 6004, in Ius Explorer, Milano, ult. agg., e Cass., 27 febbraio 2002, n. 2912, in Xxxxxxxxx, 2002, 879 ss., con nota di X. XXXXXXXXX, La conversione dell’atto invalido e il requisito della volontà dei contraenti, ivi, 883 ss.
232 Orientamento riferito da X. XXXXXXX, Corte suprema di cassazione. Ufficio del massimario e del ruolo. Relazione su questione di massima di particolare importanza ricorso n. 12760/2010, in xxxx://xxx.xx.xxxxxx.xxxxxxxxx.xx/XxxxxxxxXxxxxxxx, in relazione alla problematica questione della rinuncia preventiva all’impugnazione. Al riguardo, l’A. evidenzia che «qualora si ammetta la vigenza della regola di irrinunciabilità preventiva ai gravami – sebbene ormai non assoluta – occorrerà interrogarsi sulle conseguenze della relativa violazione. Segnatamente, posta la nullità della rinuncia indiscriminata ad
Per l’orientamento della Cassazione menzionato, poi, «spetta al giudice di merito indagare, agli effetti dell’art. 1424 cod. civ., se sussista un oggettivo rapporto di continenza tra negozio nullo e negozio sostitutivo e se quest’ultimo rientri nell’intento dei contraenti233 …, da valutare come intento pratico perseguito»234, come precisa un’altra conforme pronuncia235.
ogni gravame contro la futura sentenza di primo grado, è opportuno verificare se essa possa convertirsi nell’accordo preventivo di salto per cassazione, oggi valido ed efficace».
233 Cass., 5 marzo 2008, n. 6004, cit.
000 X. XXXXXXX, Xxxxx suprema di cassazione. Ufficio del massimario e del ruolo. Relazione su questione di massima di particolare importanza ricorso n. 12760/2010, cit.
235 Cass., 27 febbraio 2002, n. 2912, cit.
CAPITOLO SECONDO ‘AGERE CUM ALIQUO’
SOMMARIO: 1. Agere cum aliquo. - 2. Il problema del pactum de non petendo. - 3. La convenzione processuale
e lo schema della stipulatio: a) l’agere per sponsionem. - 4. Segue. b) Le stipulationes praetoriae. - 5. La gestione convenzionale della lite: a) il compromissum. - 6. Segue. b) la litis contestatio del processo privato romano. - 7. Il segno della cesura storica della cognitio giustinianea nell’interpretazione medievale.
1. ‘Agere cum aliquo’.
L’opzione interpretativa che si intende approfondire, incentrata sul recupero di un modello romanistico del negozio giuridico processuale, rende indispensabile, a questo punto della trattazione, soffermarsi sull’origine del modello, procedendo ad analizzare le figure dalla cui astrazione e generalizzazione può trarsi la sua configurabilità nell’attuale sistema. In questa prospettiva, come vorremmo qui dimostrare, la stipulatio, in ragione della sua struttura dialogica e della sua attitudine a rendere vincolante qualsiasi assetto d’interessi lecito, si rivela strumento negoziale di configurazione anche di regole processuali.
Profilo di particolare interesse, come vedremo, è il riscontro di una tendenziale affinità strutturale – come mostrata da Ulpiano – tra stipulatio e litis contestatio. Si tratta di un aspetto che può contribuire ad evidenziare l’ammissibilità dogmatica del ricorso alla categoria contrattuale per comprendere il fenomeno degli accordi processuali, muovendo dalle fonti romane, fermo restando che una siffatta connessione innanzitutto strutturale non può indurre ad inferire la sussistenza di una relazione di identità con lo schema contrattuale, in ragione della natura pubblicistica che – anche nel diritto romano – rivestono le regole sull’organizzazione del xxxxxxxx0.
1 In proposito, ex pluribus, C.A. XXXXXXX, Profilo istituzionale del processo privato romano. Il processo formulare, II, Torino, 1982, 7 ss.
Per altro verso, sembra a questo punto necessario preliminarmente precisare quale fosse il significato della categoria di actio nella concezione dei giuristi romani, al fine di individuare il possibile ambito di estrinsecazione della dimensione convenzionale della lite. In proposito, emerge immediatamente la visione spiccatamente sostanzialistica che i prudentes adottano nel configurare l’azione come potere di agire a tutela della propria ragione fondata2. Pertanto, appare innegabile che i giuristi romani pensassero alla posizione sostanziale con il filtro dell’actio, per cui i due aspetti convivono inscindibilmente nella loro maniera di concepire il diritto3. Nell’ottica così delineata, ben si comprende come l’oggetto della gestione negoziale della lite vada in realtà correlato con l’idea di azione in senso sostanziale. Ed in questo senso esso assume una duplice valenza, finendo per afferire sia alle convenzioni incidenti su quello che attualmente si intende come diritto d’azione, sia a quelle relative al procedimento strumentale alla sentenza. In altri termini, la qualificazione come ‘processuale’ che giungiamo a predicare del negozio giuridico dipende dalla particolare ampiezza che nel diritto romano assume il significato di ‘agere’, e ricomprende, di conseguenza, non soltanto il profilo strettamente inerente alla gestione della procedura, ma altresì, più ampiamente, l’aspetto della tutela della posizione giuridica controversa.
In questa prospettiva, si giungerà a riconoscere come l’ampio utilizzo di strumenti consensuali nell’ambito del processo romano rappresenti l’espressione dell’operatività di un determinato modello, sulla base del quale lo svolgimento della procedura si presenta come un ‘agere cum aliquo’. In altri termini il processo costituisce essenzialmente l’oggetto di un accordo tra le parti attraverso cui definire i termini della contesa.
2. Il problema del ‘pactum de non petendo’.
Seguendo questo possibile percorso d’indagine, vediamo ora, innanzitutto, in quali termini delimitare la presenza di negozi giuridici processuali nell’esperienza giuridica romana, a partire da alcune figure che si pongono ai confini della categoria. Occorre esaminare, in primo luogo, il problema dell’inquadramento del pactum de non petendo, dal momento che anche su questa fattispecie, evocata soprattutto dal Xxxxxx, si sono esercitate le moderne dottrine dei negozi giuridici processuali ed, in particolare, da una corrente di pensiero ascrivibile alla Pandettistica, nella cui area di influenza l’Autore si colloca4.
Al riguardo, giova preliminarmente osservare come nell’esperienza giuridica romana il negozio in questione, la cui origine è da collocarsi nell’ambito del diritto onorario, consistesse in una nuda pactio mediante la quale il creditore si impegnava a non agire in giudizio per ottenere il pagamento di un debito, ovvero a non avanzare la
2 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 277 ss.
3 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 279.
4 La tesi favorevole ad un simile inquadramento del negozio è stata sostenuta, specificamente, da X. XXXXXX, Über prozessrechtliche Verträge, cit., 127 ss. Così pure, sebbene al di fuori delle dottrine in questione, V. M. XXXXXXXXX, voce Accordo, cit., 297 ss.
propria pretesa prima di una certa data5. L’eventuale violazione del patto poteva essere respinta dalla controparte mediante l’opposizione di una exceptio pacti conventi, concessa dal pretore a partire dal I sec. a.C., che comportava l’assoluzione del convenuto. Qualora poi l’eccezione inerisse a iudicia bonae fidei, il patto determinava il venir meno ipso iure dell’actio6.
Nel tracciare le coordinate generali della figura, che consentano di valutare la sua eventuale ascrivibilità nell’ambito della categoria del negozio giuridico processuale, sembra utile delineare il profilo dell’efficacia del pactum, dal momento che ciò potrebbe fornire un’indicazione in ordine al tipo di effetti che esso produce, e dunque un indizio sul peculiare atteggiarsi dello stesso rispetto al processo. In proposito, occorre ricordare che, nonostante si sia soliti far risalire la compiuta partizione tra pacta in rem ed in personam al periodo postclassico, la distinzione si basava verosimilmente su «precisi spunti classici»7, come sembra emergere dalle fonti, tra le quali può menzionarsi
Ulp. 4 ad ed. D. 0.00.0.0: Pactorum quaedam in rem sunt, quaedam in personam. in rem sunt, quotiens generaliter paciscor ne petam: in personam, quotiens ne a persona petam, id est ne a Xxxxx Xxxxx xxxxx. utrum autem in rem an in personam pactum factum est, non minus ex verbis quam ex mente convenientium aestimandum est: plerumque enim, ut Xxxxxx ait, persona pacto inseritur, non ut personale pactum fiat, sed ut demonstretur, cum quo pactum factum est.
In sostanza, il frammento – da ritenersi in linea di principio classico nella sua impostazione – mostra la considerazione per l’effettivo intento delle parti, piuttosto che per la sua manifestazione, che Xxxxxxx ascrive a Pedio. Da quest’ultimo punto di vista, in ciò risiederebbe dunque il criterio con cui distinguere tra pacta de non petendo in rem, la cui efficacia estintiva risulta opponibile anche a soggetti diversi dal debitore, e quelli in personam, ad efficacia estintiva circoscritta al debitore. Ed invero, nel primo caso non sembravano sussistere dubbi circa l’estensibilità del beneficio del patto anche a soggetti che risultavano connessi da particolari rapporti con la parte8. Pertanto, coerentemente con questa logica volontaristica, allo stesso Xxxxx è riferita la dichiarazione che l’efficacia in personam del patto non discende di per sé dal richiamo nello stesso della parte coinvolta, dal momento che la menzione aveva l’unico scopo di individuare il paciscente. Dunque, la tipologia di effetti che potevano discendere dal pactum sembra immediatamente evidenziare non già un carattere processuale di tipo configurativo, ma bensì un’efficacia sostanziale del medesimo di differente ampiezza – circoscritta o
generale – a seconda della volontà manifestata dalle parti.
In questo quadro, per capire se il pactum de non petendo incidesse essenzialmente sulla posizione sostanziale, con un effetto sostanzialmente analogo a quello della acceptilatio – seppure mediante uno strumento più agile e privo del rigoroso rituale
5 Il pactum poteva colorarsi altresì di differenti contenuti, ma «il suo impego elettivo è quello per rimettere – o dilazionare – un debito» (in proposito, cfr., testualmente, M. TALAMANCA, Istituzioni, cit., 642).
6 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 642 s., che precisa come ciò valesse «sia per le obligationes consensu contractae che per le obligationes re contractae del ius gentium» (così, a p. 642).
7 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 643.
8 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 643.
proprio di quest’ultimo negozio –, ovvero si traducesse in un meccanismo con cui modulare le forme di tutela in giudizio del credito, occorre far riferimento ad un noto passo relativo al patto in questione. Leggiamo, infatti,
Xxxx. 3 ad ed. D. 0.00.00.0: Xxxxxx, ne peteret, postea convenit ut peteret: prius pactum per posterius elidetur, non quidem ipso iure, sicut tollitur stipulatio per stipulationem, si hoc actum est, quia in stipulationibus ius continetur, in pactis factum versatur: et ideo replicatione exceptio elidetur. eadem ratione contingit, ne fideiussoribus prius pactum prosit. sed si pactum conventum tale fuit, quod actionem quoque tolleret, velut iniuriarum, non poterit, postea paciscendo ut agere possit, agere: quia et prima actio sublata est et posterius pactum ad actionem parandam inefficax est: non enim ex pacto iniuriarum actio nascitur, sed ex contumelia. idem dicemus et in bonae fidei contractibus, si pactum conventum totam obligationem sustulerit, veluti empti: non enim ex novo pacto prior obligatio resuscitatur, sed proficiet pactum ad novum contractum. quod si non ut totum contractum tolleret, pactum conventum intercessit, sed ut imminueret, posterius pactum potest renovare primum contractum. quod et in specie dotis actionis procedere potest. puta pactam mulierem, ut praesenti die dos redderetur, deinde pacisci, ut tempore ei legibus dato dos reddatur: incipiet dos redire ad ius suum. nec dicendum est deteriorem condicionem dotis fieri per pactum: quotiens enim ad ius, quod lex naturae eius tribuit, de dote actio redit, non fit causa dotis deterior, sed formae suae redditur. haec et Scaevolae nostro placuerunt.
In sintesi, nel frammento in questione Xxxxx dapprima afferma che, qualora in seguito ad un pactum de non petendo venga successivamente concluso un accordo con il quale si accordi nuovamente la possibilità di agire per la tutela del credito, il primo patto non si estinguerebbe per effetto del secondo, poiché esso non opera ipso iure, come invece accadrebbe alla stipulatio in forza di una successiva stipulazione. Infatti, per quanto concerne i patti, si versa nel campo della tutela in factum, e per questa ragione l’eccezione si neutralizza con una replicatio. Solo in determinate ipotesi il pactum de non petendo appare idoneo ad estinguere l’azione posta a presidio dell’obbligazione, di modo che questa non possa rivivere in seguito ad un successivo accordo. Si tratta, in particolare, da un lato, dell’actio iniuriarum e, dall’altro lato, dei contratti protetti da azione di buona fede, rispetto ai quali l’inserimento nella formula della relativa exceptio si considerava implicito nel quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, in cui si sostanziava l’intentio dei bonae fidei iudicia9. Per quanto concerne questi ultimi, dunque, il patto successivo potrebbe costituire il presupposto – al ricorrere dei necessari requisiti – per la sussistenza di un nuovo contratto. Tuttavia, quando, nel caso dei bonae fidei contractus, l’accordo si configuri alla stregua di quello che – con terminologia medievale – è stato denominato pactum ad
9 X. XXXXXXXX, Brevi riflessioni in tema di patti modificativi, in Studi per X. Xxxxxxx, IV, Milano, 2007, 312 ss., la quale sottolinea che il meccanismo in questione appare – quantomeno sulla base di una parte della giurisprudenza classica – il medesimo che conduce al riconoscimento del principio del contrarius consensus, come emerge da Xxxx. 33 ad ed. D. 18.5.3: Emptio et venditio sicut consensu contrahitur, ita contrario consensu resolvitur, antequam fuerit res secuta: ideoque quaesitum est, si emptor fideiussorem acceperit, vel venditor stipulatus fuerit, an nuda voluntate resolvatur obligatio. Xxxxxxxx scripsit ex empto quidem agi non posse, quia bonae fidei iudicio exceptiones pacti insunt: an autem fideiussori utilis sit exceptio, videndum: et puto liberato reo et xxxxxxxxxxxx liberari. item venditorem ex stipulatu agentem exceptione summoveri oportet, idemque iuris esse, si emptor quoque rem in stipulationem deduxerit.
minuendam obligationem, così modificandola, un patto successivo sarebbe capace di rinnovare il primo contratto nella sua pienezza.
Ebbene, alla base del ragionamento del giurista si colloca la questione dell’efficacia del pactum de non petendo, adoperato per rimettere il debito in via informale, che – come abbiamo anticipato – non vale di per sé ad estinguere l’obbligazione, soprattutto qualora questa si configuri come protetta da iudicium stricti iuris, ma piuttosto consente di opporre l’accordo remissorio in via di eccezione. Specificamente, si trattava di stabilire la disciplina per il caso in cui le parti avessero successivamente concluso un nuovo accordo informale in forza del quale intendessero ripristinare la possibilità di esigere l’obbligazione. Il giurista xxxxxxxxx riteneva che il patto più recente avesse l’effetto di elidere il precedente pactum de non petendo, restituendo pieno vigore all’originaria obligatio, nonostante potesse operare esclusivamente come replicatio, per neutralizzare in giudizio l’exceptio pacti conventi opposta dal debitore10.
Da quest’ultimo punto di vista, la contrapposizione tra il pactum in questione e la stipulatio serve al giurista per rimarcare il peculiare modo di operare degli accordi informali in esame: quest’ultimo negozio, qualora abbia ad oggetto l’eliminazione di un’altra stipulazione, comporta un effetto estintivo automatico ed immediato rispetto alla precedente stipulatio11.
Proseguendo con la riflessione sulla portata del pactum de non petendo, occorre ora soffermarsi su un aspetto relativo al suo inquadramento, in quanto – sulla base di ciò che sinora abbiamo osservato – pare emergere una valenza di carattere essenzialmente ‘sostanziale’ dell’efficacia del pactum de non petendo, in quanto la fattispecie non si configura come strumentale a creare una regola processuale.
Ed invero, sebbene – almeno in relazione alle convenzioni tutelate da bonae fidei iudicia – il patto accessorio mostri di riverberarsi immediatamente sulle forme di tutela, nondimeno non è revocabile in dubbio che ciò si traduca in realtà nell’estinzione dell’obbligazione, dal momento che per lo stesso giurista xxxxxxxxx il pactum conventum ha estinto l’intera obbligazione.
Del resto, l’assunto trova conferma altresì nella stessa impossibilità di riportare in vita l’obbligazione ormai estinta: appare chiara, dunque, l’efficacia del patto sulla posizione soggettiva coinvolta, così come la sua utilità quale strumento alternativo alla figura dell’acceptilatio. In questa prospettiva, in relazione al problema di un possibile inquadramento del pactum de non petendo sub specie di una figura di negozio giuridico processuale, sembra si possa concludere nel senso che si tratti piuttosto di un meccanismo che opera attraverso gli strumenti del processo: quindi ‘dentro’ il processo e non ‘sul’ processo come organizzazione.
È notevole, invero, la distanza, rimarcata da Xxxxx, tra il pactum de non petendo e la stipulatio (non quidem ipso iure, sicut tollitur stipulatio per stipulationem). A ben vedere, una simile osservazione risulta coerente con il ruolo della stipulatio – che, come si vedrà, rappresenta una costante dell’esperienza giuridica romana – quale strumento negoziale strutturalmente duttile che, in forza del suo schema dialogico, può essere riempito di differenti contenuti e trova spazio altresì in funzione strumentale al giudizio,
10 Sul punto, cfr. X. XXXXXXXX, Brevi riflessioni, cit., 305 ss.
11 X. XXXXXXXX, Brevi riflessioni, cit., 312 ss.
consentendo in qualche misura di configurare diversi tipi di tutela, mediante l’integrazione consensuale dei relativi presupposti processuali. Il che sembra portare alla luce il differente funzionamento del patto in questione, al quale una valenza funzionale alla creazione di una regola processuale non pare comunque attribuibile.
3. La convenzione processuale e lo schema della stipulatio: a) l’ agere per sponsionem’.
Dopo aver escluso l’appartenenza alla categoria dei negozi giuridici processuali – in base alla dogmatica di cui qui andiamo ricostruendo – della figura del pactum de non petendo (che pure presentava all’apparenza delle caratteristiche per certi versi affini), vediamo ora, innanzitutto, secondo quali modalità operi il meccanismo dell’agere per sponsionem, per poi indagare in che termini vi si possa riconoscere una forma di negozialità processuale. Xx invero, si avrà modo di chiarire che una funzione sostanzialmente configurativa del rapporto processuale trova in queste ipotesi la propria spiegazione nella circostanza che, per mezzo della stipulatio, la posizione giuridica soggettiva fatta valere dall’attore risulta accertata in modo indiretto12. In buona sostanza, l’analisi della peculiare struttura dello strumento processuale in esame indurrà a riconoscere che, a partire dall’introduzione della iudicis postulatio, da cui non può prescindere la sua operatività, esso sembra tradursi essenzialmente in un meccanismo volto all’accertamento di una situazione sostanziale che transita nel processo attraverso la stipulatio.
Xx è su questo aspetto che dovremo ora soffermarci.
Incamminandoci lungo questo percorso ricostruttivo, è opportuno muovere dall’esame del primo punto da analizzare, afferente alla ricognizione dei caratteri essenziali del procedimento per sponsionem, quale ci è stato tramandato dalle fonti. Specificamente, ad esso fa riferimento Gai 4.93-95.
In proposito, giova immediatamente osservare come si faccia risalire la creazione della figura alle origini dell’età preclassica13, dal momento che in quel periodo la giurisprudenza aveva predisposto un meccanismo capace di smorzare la rigidità delle legis actiones, attraverso cui si era giunti a configurare di uno strumento alternativo alla legis actio sacramento in rem, oltre ad accordare tutela a posizioni soggettive che non risultavano inquadrabili all’interno dello schema di una specifica legis actio14. In questa prospettiva, ad incidere sull’operatività del procedimento per sponsionem, rendendolo adatto ad una più proficua tutela, non può che essere intervenuta l’introduzione della legis actio per iudicis arbitrive postulationem con le XII Tavole. Ebbene, lo strumento procedurale per sponsionem finisce per correlarsi inscindibilmente alla iudicis postulatio, creando il presupposto per la sua esperibilità, dal momento che attraverso la promessa effettuata con sponsio, condizionata alla fondatezza della situazione soggettiva vantata dalla controparte, si
12 X. XXXXXXXX, Storia del diritto privato romano, Torino, 2012, 190.
13 In questo senso, tra gli altri, si veda X. XXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano3, con la collaborazione di
X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Torino, 1991, 271 xx.
00 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss.
rendeva applicabile il modus agendi in questione ai fini dell’accertamento indiretto della vicenda sottostante alla stessa stipulazione15.
Questo chiarimento preliminare consente di introdurre l’analisi dei passi dai quali può trarsi la descrizione dello strumento processuale per sponsionem. A tal fine, occorre ricordare
Gai 4.93: Per sponsionem vero hoc modo agimus: provocamus adversarium tali sponsione: SI HOMO, QUO DE AGITUR, EX IURE QUIRITIUM MEUS EST, SESTERTIOS XXV
NUMMOS DARE SPONDES? deinde formulam edimus, qua intendimus sponsionis summam nobis dare oportere; qua formula ita demum vincimus, si probaverimus rem nostram esse.
Dal testo gaiano si ricava, in primo luogo, che, successivamente al passaggio dal lege agere alle formule, l’obligatio fondata sulla sponsio praeiudicialis riceveva tutela per formulas16. Specificamente, nel riferire la formula adoperata nel procedimento in esame, il giurista mostra immediatamente di intendere la provocazione diretta a prestare la sponsio, indirizzata alla controparte, come un meccanismo necessariamente collegato all’accertamento della spettanza di un bene ex iure Quiritium: una volta dimostrata l’appartenenza della res, ciò determina la soccombenza dell’avversario17. Il che vale subito ad evidenziare come l’agere per sponsionem consenta in realtà di ‘eludere’ l’azione reale con le sue formalità, per ottenere una tutela che permetta di ottenere il medesimo risultato pratico consistente nell’accertamento circa l’appartenenza del bene. Ed invero, può sin d’ora anticiparsi come questo strumento processuale consentisse, ab antiquo, di evitare la forma sacramentale e la prestazione dei praedes sacramenti, propria della legis actio sacramento in rem18.
Ulteriormente, il giurista precisa:
15 In proposito, si veda, in particolare, X. XXXXXXX, Diritto privato romano12, Napoli, 2001, 658 s., il quale ricorda che notoriamente il superamento della farraginosa procedura della legis actio sacramento in rem per assicurare tutela al dominium ex iure Quiritium è avvenuto prima dell’introduzione della procedura per formulas. Pertanto, in questo contesto, le controversie sulla proprietà venivano affrontate «con l’espediente della utilizzazione della sponsio e della conseguente legis actio per iudicis postulationem: sistema della c.d. ‘legis actio per sponsionem’» (testualmente, a p. 658 s.). Circa la genesi del procedimento, A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’: dal procedimento interdittale al procedimento ‘in rem’, in Studi urbinati, XLIII, 1990-91, 197 ss. (e specialmente 228 ss.) rileva che «taluni aspetti dello stesso, e principalmente l’uso di un istituto obbligatorio qual’è la sponsio, ne fanno un fenomeno antichissimo, mentre certune affinità col rito per sacramentum inducono a ritenere che possa essersi originato nel periodo delle legis actiones, forse in relazione col sorgere della legis actio per iudicis arbitrive postulationem, che l’avrebbe ispirato» (così, a p. 228).
16 X. XXXXXXXX, Il processo civile romano, I, Le ‘legis actiones’, Roma, 1961-62, 357 ss.
17 A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’, cit., 197 ss. (e specialmente 219 ss.), la quale evidenzia che
«il giurista precisa anche in questo caso che la vittoria risulterà subordinata ad un’attività di verifica sostanzialmente in rem, analoga a quella espressa per il procedimento interdittale» (testualmente, a p. 220).
18 Si veda, in proposito, X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 357 ss.
Gai 4.94: Non tamen haec summa sponsionis exigitur: non enim poenalis est, sed praeiudicialis, et propter hoc solum fit, ut per eam de re iudicetur; unde etiam is, cum quo agitur, non restipulatur. ideo autem appellata est PRO PRAEDE LITIS VINDICIARUM stipulatio, quia in locum praedium successit, quod olim, cum lege agebatur, pro lite et vindiciis, id est pro re et fructibus, a possessore petitori dabantur praedes.
In buona sostanza, il brano mostra chiaramente la pregiudizialità logica e cronologica della promessa rispetto al susseguente accertamento contenuto nel procedimento in rem per sponsionem. In questa prospettiva, si può argomentare dallo stesso per cogliere come venga qui in evidenza la peculiare forma indiretta in cui si esprime la res iudicata – con un accertamento che può dirsi indiretto in quanto immediatamente incentrato sulla tutela del credito da sponsio, ma mediatamente rivolto ad un ulteriore risultato processuale – dal momento che la pronuncia che decide circa la spettanza della summa sponsionis non è titolo per la sua effettiva riscossione, ma piuttosto essa rileva per l’implicita statuizione circa l’appartenenza del dominium ex iure Quiritium del bene controverso al creditore ex sponsione19. Invero, questo aspetto ben si desume dall’affermazione del giurista per cui et propter hoc solum fit, ut per eam de re iudicetur, costituendo l’accertamento sulla spettanza del bene la sola ragione del giudizio fondato sulla sponsio20. Ed è allora questo il motivo per cui il negozio assume una valenza non già penale, ma bensì – sebbene forse non originariamente – pregiudiziale, non contemplando appunto la riscossione della somma21.
Nel concludere la descrizione dell’istituto, Xxxx ricorda poi come, anche in seguito all’istituzione del processo per formulas, l’introduzione per sponsionem del rito centumvirale continuasse a necessitare del procedimento del lege agere22, così rilevando:
Gai 4.95: Ceterum si apud centumviros agitur, summam sponsionis non per formulam petimus, sed per legis actionem: sacramento enim reum provocamus; eaque sponsio sestertiorum CXXV nummorum fieri solet (?) propter legem Crepereiam.
In proposito, occorre rilevare che dal testo emerge la circostanza che la summa sponsionis – la quale normalmente veniva determinata dalle parti – risulta fissata dalla lex Crepereia al valore di 125 assi, in relazione alle sole ipotesi in cui venissero aditi i centumviri, il che però di regola poteva realizzarsi soltanto successivamente al sacramentum23. A ben vedere, questo elemento sembrerebbe implicare che inizialmente il negozio in questione si configurasse come una sponsio poenalis, per poi trasformarsi successivamente in sponsio praeiudicialis, dal momento che non si procedeva più alla riscossione della somma24.
19 X. XXXXXX, Contributo allo studio della ‘satisdatio pro praede litis et vindiciarum’, in XXXX, XXX, 0000, 65 ss.
20 X. XXXXXX, Xxxxxxxxxx, cit., 65 xx.
00 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 357 ss.
22 Ex pluribus, X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 362 s. e X. XXXXXX, Contributo, cit., 65 xx.
00 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 363.
24 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 444 s.
Una volta chiariti questi aspetti, senza addentrarsi nel merito degli orientamenti contrastanti25 circa la questione inerente alla possibilità di ricostruire il procedimento per sponsionem quale punto di connessione tra legis actiones e formulae, giova considerare come dai passi riportati sembri di potersi trarre qualche indicazione per una ricostruzione di questo strumento, nella prospettiva del riconoscimento della sua funzione strutturalmente configurativa del processo.
Al riguardo, occorre innanzitutto ricordare come l’agere per sponsionem abbia trovato la propria estrinsecazione nello schema per cui il convenuto prometteva con sponsio una somma di denaro, sotto la condizione che una determinata pretesa dell’attore si rivelasse fondata26. Come è noto, la somma promessa poteva assumere due distinte configurazioni, dal momento che, se poenalis, veniva ad impegnare entrambi i contendenti27, costituendo una pena per la parte soccombente, che, di conseguenza, doveva poi corrisponderla. Per altro verso, essa poteva altresì configurarsi esclusivamente come praeiudicialis. In questo caso era solamente il convenuto a doverla promettere, ed allo stesso, sebbene soccombente, progressivamente è stato concesso di non pagarla28. Da questo punto di vista, sembra oramai acclarato che il procedimento cronologicamente anteriore era certamente quello cum poena, secondo quanto si desume dalla circostanza che anche in seguito esso è rimasto il solo utilizzabile per poter azionare gli interdicta prohibitoria, i quali tra gli interdetti rappresentano la fattispecie maggiormente risalente29. E nondimeno, è alla sponsio praeiudicialis che si faceva ricorso per la tutela dell’appartenenza a favore del «dominus civilistico spossessato della cosa»30, ottenendo una promessa sulla base della quale instaurare la iudicis postulatio, il cui procedimento poteva trovare soluzione indipendentemente dalla corresponsione della summa sacramenti, che importava un aggravio non insignificante31.
25 Per la tesi minoritaria, favorevole a configurare l’agere per sponsionem quale strumento di transizione verso il procedimento per formulas, si veda X. XXXXXXX, Sponsio e processo formulare (su spunti di X. Xxxxxxxxx), in X. Xxxxxxxxx. Atti del convegno, Milano, 1994, 115 ss.; non vidi, cit. da X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 658. nt. 51.2.1. La tesi contraria è sostenuta da X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 359, il quale obiettava alla tesi dello Scherillo, condivisa dal Martini, che la procedura dell’agere per sponsionem, nella sua forma in rem, «cominciò ad essere praticata quando il processo per legis actiones era ancora in pieno vigore» (così, a p. 359), dal momento che sarebbe da collocarsi cronologicamente tra la fine del III e l’inizio del II Secolo a.C. Per questa ragione, essa non rappresentò «un ponte di passaggio dalle legis actiones alle formule, poiché la sua origine si colloca anteriormente al momento del passaggio dall’una all’altra procedura significa inoltre che l’obligatio sorta dalla sponsio venne fatta valere mediante una delle legis actiones contenziose in personam esperibili: la iudicis postulatio, innanzi tutto, e la legis actio sacramento in personam, come actio generalis, poi anche, verosimilmente, la condictio» (testualmente, a p. 359). Sulla stessa linea di pensiero di colloca altresì X. XXXXXXXXX, Processo civile (diritto romano), in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 28 ss. (e soprattutto, 30, nt. 203).
26 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss.
27 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 348 s., il quale precisa che «le due stipulazioni erano chiamate sponsio et restipulatio» (così, a p. 348).
28 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss.
29 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 348 s.
30 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 659.
31 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 658 s.
In proposito, giova dunque ricordare come – sulla base di questo schema – l’attore non fosse tenuto a compiere la vindicatio, ma piuttosto ingiungesse alla controparte di porre in essere una sponsio, condizionandola alla veridicità del fatto menzionato nella promessa (ad es., la proprietà di uno schiavo), alla quale l’avversario non poteva sottrarsi senza subire conseguenze svantaggiose32. Nella fase successiva, una volta realizzata la sponsio ed accordata la satisdatio, diventava possibile per l’attore esperire la legis actio per iudicis postulationem nei confronti della controparte, tutela che assumeva la veste di un’azione in personam ed aveva a fondamento proprio i crediti da sponsio. In questo caso al iudex competeva un accertamento pregiudiziale sulla sussistenza del dominio quiritario vantato, al fine di determinare se la somma in questione fosse dovuta33. Qualora i fatti oggetto dell’accertamento venissero riconosciuti come effettivamente sussistenti, ciò si traduceva nella condanna del convenuto alla summa sponsionis, la quale tuttavia normalmente non veniva riscossa oppure conseguiva alla soccombenza come sanzione34. Xx invero, quel che rilevava era piuttosto la conclusione della procedura con l’accertamento circa la spettanza effettiva del bene controverso35.
In questa prospettiva, la valenza configurativa del rapporto processuale cui appare idoneo il meccanismo della sponsio affiora dunque dal suo operare in connessione con una legis actio, indirizzandone il funzionamento per conseguire un risultato altrimenti direttamente ottenibile soltanto con l’agere sacramento in rem, come traspare da un famosissimo passo dove Xxxx, nel descrivere una nuova tipologia di azione dichiarativa, riferisce circa il formulario del procedimento per iudicis arbitrive postulationem. In particolare, egli così si esprime:
Gai 4.17a: Per iudicis postulationem agebatur, si qua de re ut ita ageretur lex iussisset, sicuti lex XII tabularum de eo quod ex stipulatione petitur. eaque res talis erat. qui agebat sic dicebat: EX SPONSIONE TE MIHI X MILIA SESTERTIORUM DARE OPORTERE AIO: ID
POSTULO AIAS AN NEGES. adversarius dicebat non oportere. actor dicebat: QUANDO TU NEGAS, TE PRAETOR IUDICEM SIVE ARBITRUM POSTULO UTI DES. itaque in eo genere
actionis sine poena quisque negabat. item de hereditate dividenda inter coheredes eadem lex per iudicis postulationem agi iussit. idem fecit lex Licinnia, si de aliqua re communi dividenda ageretur. itaque nominata causa ex qua agebatur statim arbiter petebatur.
Per quel che qui rileva, in particolare, occorre osservare come dal passo in esame emerga che, secondo un xxxxxx decemvirale, si agiva con la legis actio per iudicis arbitrive postulationem per la tutela dei crediti generati da una sponsio36. Il che sembra evidenziare
32 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss. e Il processo, cit., 362 ss., il quale considera come le fonti tacciano circa le modalità di coercizione del convenuto renitente al compimento della stipulatio praeiudicialis, ritenendo verosimile che tale contegno ricevesse un trattamento analogo a quello che nel processo formulare dava luogo ad un rem non defendere, con il conseguente spossessamento.
33 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 xx.
00 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss.
35 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 658 s.
36 C.A. XXXXXXX, Materiali per un xxxxx xx xxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxxxx, XX, Xxxxxx, 0000, 38 ss., il quale ricorda come la legis actio per iudicis postulationem si fondi espressamente su una precedente
ulteriormente come il negozio in questione valesse a consentire una più funzionale tutela civile di differenti situazioni soggettive attraverso la iudicis postulatio, soprattutto di quelle di più ardua definizione per mezzo della più antica legis actio sacramento in rem, che può così essere ‘surrogata’, per la via sinora individuata, da un’azione in personam. Inoltre, assume precipuo rilievo l’affermazione per la quale, nell’esercizio di questo modus agendi, chiunque poteva negare la fondatezza dell’altrui pretesa senza il rischio di incorrere in una pena. A ben vedere, questo dato mostra chiaramente la natura pregiudiziale piuttosto che penale della sponsio che consente di esperire la procedura per iudicis postulationem. Per questa ragione, la struttura della procedura in questione si presenta come particolarmente funzionale ad una seppur indiretta tutela accertativa, in forza della specifica configurazione ad esso impressa dall’agere per sponsionem.
Ed invero, come un’autorevole dottrina37 ha puntualmente sottolineato,
«essenzialmente i litiganti si valsero del procedimento per sponsionem per riformare nella tecnica processuale e in certi presupposti sostanziali la tutela già fornita dalla legis actio sacramento in rem, la quale ultima fu affiancata, non sostituita, dal nuovo mezzo»38. In questa logica, ad accedere al meccanismo incentrato sulla sponsio praeiudicialis, le parti potevano ottenere diversi effetti vantaggiosi.
In particolare, veniva in considerazione innanzitutto il risultato di eludere le formalità proprie delle più antiche legis actiones, le quali «costituivano relitti dell’antica difesa privata»39, oltre ad aggirare, agendo con la iudicis postulatio, la loro superstite veste religiosa rappresentata dal sacramentum40.
In secondo luogo, aveva importanza ai fini della gestione del processo la sostituzione degli antecedenti praedes, che comportavano un vincolo di immediata soggezione alla potestà della parte avversaria. Infatti, ad essi subentravano così gli sponsores della cautio pro praede litis et vindiciarum, sui quali gravava un più attuale vincolo obbligatorio accanto a quello del possessore medesimo41.
Infine, il meccanismo procedimentale in questione rappresentava un notevole progresso rispetto al procedimento della legis actio sacramento in rem, dal momento che, da un lato, quest’ultimo imponeva ad entrambe le parti indistintamente l’onere di provare il fondamento della propria ragione e, dall’altro lato, il possesso come situazione fattuale non riceveva alcuna tutela, poiché il magistrato ordinava ai litiganti di privarsene, al fine di assegnare in via interinale il bene alla parte che presumibilmente sarebbe risultata vittoriosa ovvero che presentasse maggiori garanzie di restituzione. Viceversa, mediante
sponsio. Xx xxxxxx, in questa ipotesi, l’attore «invoca il proprio credito, cioè la sua titolarità attiva del rapporto obbligatorio (te mihi dare oportere) ‘nominata causa’, cioè “menzionando(ne) il fondamento”, vale a dire – trattandosi di un’azione nella quale l’attore avanza una pretesa creditoria – menzionando la fonte del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio» (così, a p. 41). 37 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 357 xx.
00 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360, che ha cura di precisare appunto come l’utilizzo della sponsio praeiudicialis per assicurare la tutela di rapporti nuovi non rientranti nell’ambito di applicabilità della legis actio sacramento in rem avesse tutto sommato «una portata marginale» (in questi termini, a p. 360) rispetto alla funzione configurativa e semplificatoria della tutela processuale comunque esperibile.
39 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360.
40 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360.
41 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360.
il procedimento per sponsionem acquisì rilevanza la differenziazione del ruolo dell’attore da quello del convenuto, competendo al primo dimostrare di essere titolare della situazione fatta valere in giudizio. Invero, ciò risulta dalla circostanza che la sponsio appariva connessa all’accertamento sull’appartenenza del bene controverso a colui che si faceva promettere la summa sponsionis; pertanto, il processo avrebbe visto il prevalere dell’attore esclusivamente se questi fosse riuscito a provare che la cosa gli apparteneva, come si evince in Gai 4.9342. Oltre a ciò, lo strumento processuale in esame comportava in modo innovativo l’attribuzione di una valenza giuridica al possesso, dal momento che il possessore convenuto in giudizio conservava il possesso iniziale e non lo perdeva durante il processo sino alla eventuale sconfitta giudiziale, quando diventava operativa la satisdatio pro praede litis et vindiciarum43.
In questo quadro, sembra peraltro utile considerare come il meccanismo in questione abbia rappresentato anche in seguito, nel passaggio verso la formula petitoria44, un meccanismo configurativo connesso alla predisposizione di un processo, finendo per tradursi in uno strumento di attuazione dei mezzi ausiliari dello stesso procedimento formulare, tra i quali permangono gli interdicta, quale fenomeno di lunga tradizione45. In particolare, questi ultimi si traducevano in un ordine impartito dal pretore su richiesta di un interessato, con il quale si impone ad un altro soggetto di assumere una determinata condotta, senza che fosse necessario verificare la sussistenza dei presupposti fattuali, ma esclusivamente la circostanza che il provvedimento in questione corrispondesse ad una delle fattispecie contemplate dall’editto46. Ed allora, nell’ipotesi in cui il destinatario dell’interdetto esibitorio o restitutorio non intendesse richiedere la formula arbitraria, al fine di verificare la fondatezza del provvedimento, e non ottemperasse allo stesso, all’attore – come in tutti gli interdetti proibitori – non restava che domandare l’accertamento, nell’ambito del procedimento per sponsionem, della legittimità dell’interdetto, allegando l’inosservanza dell’ordine pretorio47.
Xx è in questo che si coglie bene il presupposto per evidenziare come anche nella tutela interdittale il procedimento incentrato sulla sponsio consenta di ampliare le possibilità di tutela e la sua effettività48.
42 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360 ss. Similmente, A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’, cit., 197 ss. (ed amplius 219 ss.), che, circa il procedimento interdittale di cui tratta il testo lacunoso del manoscritto veronese, nel passo 4,165, rileva come il giurista abbia riguardo «alla struttura della sponsio ed alle necessità probatorie che ne derivano» (così, a p. 221). In quest’ordine di idee, l’A. evidenzia che anche in quest’ipotesi, «come a proposito dell’agere in rem per sponsionem … il giurista doveva qui dire che la sponsio è una sponsio condizionata dalle circostanze relative al rapporto sostanziale oggetto dell’ordine interdittale» (in questi termini, a p. 221); pertanto, l’obbligo sorgerà «solo nel momento in cui sarà provato il buon diritto … dell’attore» (così, a p. 221).
43 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360 ss.
44 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 444 s.
45 In argomento si veda A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’, cit., 197 ss. (ed amplius 219 ss.), circa le affinità strutturali della sponsio e del relativo onere probatorio del procedimento interdittale rispetto all’omologa figura su cui si incentra la procedura dell’agere per sponsionem.
46 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 345 ss.
47 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 348 s.
48 A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’, cit., 197 ss. (ed amplius 228 ss.).
Ma torniamo al problema inerente al ruolo della stipulatio nell’ambito del procedimento per sponsionem, quando – a seguito dell’introduzione della legis actio per iudicis arbitrive postulationem, nel periodo intermedio che segna la progressione verso il procedimento formulare49 – quest’ultimo «serviva a sostituire la legis actio sacramento in rem, che era il suo impiego probabilmente più antico e risultò anche il più duraturo»50.
Invero, in questa prospettiva, assume preminente importanza la circostanza che la reale natura della pronuncia risiedeva nell’accertamento relativo alla spettanza o meno all’attore della proprietà della cosa. Ed è in questo che si coglie bene il presupposto per affermare che può riconoscersi la logica sottostante al meccanismo dell’agere per sponsionem nell’utilizzo configurativo del processo al fine di conseguire una migliore e maggiormente effettiva tutela giurisdizionale attraverso una più confacente gestione del processo come organizzazione. In altri termini, quel che sembra emergere da questa ricostruzione è che la sponsio sembra integrare, con le categorie sinora tratteggiate, una fattispecie di negozio giuridico processuale in quanto essenzialmente idonea a «riformare nella tecnica processuale ed in certi presupposti sostanziali la tutela già fornita»51, attraverso una traslazione di significato del tipo di azione esperita, incidendo così sul rapporto processuale con una specifica regolazione.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, infatti, il richiamo al negozio configurativo del processo imporrebbe di attribuire rilievo alla considerazione per cui la sponsio «era istituto antichissimo, che per la sua accessorietà poteva essere usato a rafforzare una preesistente situazione, in rem o in personam, e che per la sua astrattezza poteva essere impiegata ad adattarsi a qualsiasi rapporto precedente»52. Del resto, nella procedura in esame, appare evidente come l’azione esperita sulla base dell’efficacia della sponsio manifesti in realtà un’iniziativa della parte volta ad accertare l’esistenza del dominium ex iure Quiritium sulla res53. Ed allora è questa la ragione per cui occorre riconoscere come l’actio certi formulare abbia una funzione pratica configurativa sottostante a quella condannatoria, nonostante si presenti formalmente come un’azione di condanna al pagamento di quel che è stato promesso54.
In questo quadro, a testimoniare la pur dibattuta55 portata generale del procedimento in questione, sembra assumere rilievo un oscuro passaggio di Xxxx nell’ambito di un celebre testo,
49 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360 xx.
00 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 272.
51 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 360.
52 A.M. GIOMARO, ‘Agere per sponsionem’, cit., 197 ss. (ed amplius 228 ss.)., che trae le proprie argomentazioni da Gai 3.176: Praeterea novatione tollitur obligatio veluti si quod tu mihi debeas, a Titio dari stipulatus sim: nam interventu novae personae nova nascitur obligatio et prima tollitur translata in posteriorem, adeo ut interdum, licet posterior stipulatio inutilis sit, tamen prima novationis iure tollatur, veluti si quod mihi debes, a Xxxxx post mortem eius vel a muliere pupillove sine tutoris auctoritate stipulatus fuero; quo casu rem amitto: nam et prior debitor liberatur, et posterior obligatio nulla est. non idem iuris est, si a servo stipulatus fuero: nam tunc <prior> proinde adhuc obligatus tenetur, ac si postea a nullo stipulatus fuissem.
53 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 658 s.
54 È quanto si ricava dalla ricostruzione di X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 271 ss.
55 In un’ottica favorevole a questa opzione interpretativa, X. XXXXXXX, Sponsio, cit., 115 ss., il quale rileva come, per un verso, ogni pretesa avente un oggetto indeterminato o comunque di problematica determinazione, per mezzo della sponsio «avrebbe potuto essere trasformata in una
Gai 4.1: <Superest, ut de actionibus loquamur. et si quaeramus,> (?) quot genera actionum sint, verius videtur duo esse, in rem et in personam. nam qui IIII esse dixerunt ex sponsionum generibus, non animadverterunt quasdam species actionum inter genera se rettulisse.
Per il giurista non sarebbe condivisibile la ricostruzione operata da chi predica una quadripartizione delle azioni in luogo della summa divisio tra azioni in rem ed azioni in personam, essendo quest’ultima la soluzione da preferirsi in relazione ad un tema comunque controverso56. In particolare, la tesi avversata sarebbe fondata sull’erronea deduzione delle tipologie delle azioni – che invece risulterebbero interamente ascrivibili nelle due categorie individuate – ex sponsionum generibus.
In buona sostanza, pur nell’oscurità del significato della locuzione adoperata, dal contesto sembra emergere l’ampia portata applicativa del procedimento per sponsionem57. Specificamente, l’assunto trova conferma nella distinzione in genera di una categoria che, in quanto chiaramente identificabile nonostante la sua articolazione interna ed in quanto contraddistinta, dunque, da una certa varietà nelle sue forme di manifestazione, non può non aver avuto un’ampia forza espansiva. Per di più, per quel che qui rileva, appare non privo di significato il collegamento comunque delineato tra azioni e genera sponsionum, che, per quanto dal testo non risulti prospettato come un valido criterio classificatorio, nondimeno parrebbe delineare la notevole capacità del negozio stipulatorio di tradursi in forme processuali funzionalmente configurate nella prospettiva di una più congeniale tutela. A ben vedere, l’opzione ricostruttiva che riconnette la quadripartizione in esame alle utilizzazioni processuali delle sponsiones sembra collimare con i riferimenti rinvenibili nelle altre fonti, ed in particolare rappresenta un dato ricorrente nelle Institutiones di Xxxx, secondo quanto si evince dai passi sinora esaminati58.
“pretesa su una res certa e quindi essere portata davanti al giudice delle legis actiones”». Per altro verso, anche le sponsiones stragiudiziali potevano talvolta avere come proprio esito la richiesta al pretore di un giudice. La tesi risulta altresì condivisa da X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 358, nt. 241, il quale riconosce che «la vastità e l’importanza del campo di applicazione, che la sponsio ebbe in un certo momento storico, sono testimoniate da quanto Gaio 4,1 ci dice intorno alla classificazione delle azioni proposta da alcuni giuristi da lui criticati» (testualmente, a p. 358, nt. 241), i quali operavano una quadripartizione di «altrettanti sponsionum genera» (così, a p. 358, nt. 241). Contra: X. XXXXXXXXX, Processo, cit., 28 ss., secondo cui sarebbe del tutto arbitrario unificare «fattispecie in cui la sponsio ha punti di rilevanza del tutto differenziati o, addirittura, non viene neppure nominata» (così, a p. 30, nt. 203).
56 In proposito, F.M. XXXXX, Xxxxx distinzione gaiana tra ‘actio in rem’ ed ‘actio in personam’, in ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di X. Xxxxxxxxx, a cura di X. Xxxxxxxx, I, Padova, 2011, 9 ss. (e soprattutto, 11 ss.).
57 X. XXXXXXXX, Il processo, cit., 358, nt. 241.
58 Questo profilo viene analizzato problematicamente da X. XXXXX, Spunti critici sull’interpretazione di Gai 4.1, in Studi in onore di X. Xxxxxxxxx, Milano, 1972, 67, ss., il quale mostra di condividere l’impostazione che vede nella sponsio un «elemento necessario del processo privato romano in una certa fase della sua evoluzione verso le forme documentateci da Gaio e dalla giurisprudenza classica». In questa prospettiva, la connessione dell’istituto con l’area processuale emerge altresì dalla circostanza che il termine ‘sponsio’ si rinviene nelle Istituzioni soltanto nella pars de actionibus. Specificamente, l’A. fa riferimento a 4.91-95, «in cui la sponsio è presentata come mezzo per impostare una procedura autonoma … apparentemente concorrenziale alla rei
Siamo ora in grado di tirare le fila di questo discorso, e di evidenziare alcuni possibili approdi esegetici dell’opzione interpretativa suggerita.
Ebbene, sulla base di quanto sinora osservato emerge con sufficiente nitidezza come lo schema del negozio obbligatorio incentrato sulla stessa stipulatio evidenzi una caratterizzazione in termini di estrema duttilità, dal momento che la struttura dialogica59 dello strumento permette di colorare un’azione basata su un certum dare oportere ex sponsione di differenti contenuti, più efficacemente veicolati attraverso la legis actio per iudicis postulationem60 e, successivamente, con la tutela per condictionem. A ben vedere, come è stato esattamente posto in evidenza da autorevole dottrina, la flessibilità dello strumento negoziale in esame discende dal fatto che esso non appare strutturalmente correlato ad uno specifico affare. Piuttosto, come è stato esattamente rilevato61, «la sponsio si presentava come un atto giuridico astratto, tanto nella sua forma, perché la forma corrispondeva alla promessa di una certa prestazione, ma non vi veniva specificato lo scopo in funzione del quale le parti volessero il sorgere di quell’obbligazione, quanto nella sua sostanza, perché lo scopo economico perseguito dalle parti non aveva rilevanza alcuna in ordine alla validità e all’efficacia dell’atto»62. Per di più, implicando la promessa
vindicatio formulare» (con queste esatte espressioni, a p. 90), a 4.17a, laddove «nel c.d. agere in rem per sponsionem essa svolge una funzione assolutamente pregiudiziale» (testualmente, a p. 90), mentre «in tutti gli altri luoghi del quarto commentario … compare con una funzione spiccatamente penale ed è accompagnata da restipulatio» (così, a p. 90). Tuttavia, «nella sua applicazione interdittale (4.141; 165-170) essa sembra ricoprire anche una funzione pregiudiziale, dovendo servire a impostare il iudicium ex interdicto» (in questi termini, a p. 90). Si sofferma sulla questione anche X. XX XXXXXXXX, ‘Lex Irnitana’ LXXXIV-LXXXV-LXXXIX: nuovi spunti per una riflessione sulla ‘sponsio’ nel processo romano, in ‘Testimonium amicitiae’. Studi in onore di F. Pastori, Milano, 1992, 97 ss.
59 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 9 ss. (e soprattutto 22 s.), il quale sottolinea che «il carattere dialogico della forma orale corrisponde all’idea che il formarsi dell’obbligazione da stipulatio è fatto dipendere dal consenso, cioè da un accordo delle parti …. Quando il giurista Xxxxx affermerà, nel I sec. d.C., che “la stipulatio che ha luogo verbis … è nulla se non comprende il consenso (delle parti)”, riaffermava solo in modo elegante – come si esprimeva Xxxxxxx citandolo – un connotato del negozio che gli apparteneva fin dalla sua origine» (testualmente, a
p. 22). In questo quadro, rappresenta senz’altro un naturale portato dell’indispensabile requisito del consenso la circostanza che, in un’ottica romanistica, «il criterio fondamentale per l’interpretazione del negozio stipulatorio consistette nella ricerca e nella considerazione dell’id quod actum est, e cioè dell’affare che le parti, concludendo la stipulatio stessa, avevano inteso gestire» (in questi termini, a p. 23).
60 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 38 ss., il quale, ricorda come «la giurisprudenza pontificale romana introdusse nel patrimonio concettuale del diritto civile la nozione di obbligazione, individuando nella sponsio la sua fonte e creando la legis actio per iudicis postulationem per la sua sanzione» (così, a p. 38). In questo contesto non esistevano «azioni che potessero essere esperite non nominata causa» (testualmente, a p. 41 s.). Muovendo dalla riflessione sul passo Gai 4.19, l’A. nondimeno precisa come successivamente fu istituita la legis actio per condictionem, «dalla xxxxx Xxxxx per i crediti di somme determinate di denaro e dalla legge Calpurnia per tutti i crediti di certa res». Attraverso questo sistema, si giunge dunque a configurare un’azione astratta, «per la sua struttura processuale idonea ad essere impiegata per la sanzione di un rapporto obbligatorio indipendentemente dall’identità della sua fonte».
61 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 9 ss. (e soprattutto 22 ss.).
62 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 26.
consensuale stipulatoria il sorgere di un obbligo a carico di una sola delle parti, assume rilievo la circostanza che una semplice obbligazione così configurata normalmente trova la propria ragion d’essere soltanto se si attribuisce rilievo alla più complessa vicenda in cui si inserisce63.
Il che non può che indurre a considerare come l’utilizzo della stipulatio ai fini processuali abbia assunto, per la sua peculiare configurazione, una notevole rilevanza nell’esperienza giuridica romana. In questa prospettiva, ciò risulta coerente – come meglio si avrà modo di approfondire in seguito – con la connessione stabilita dal passo di Ulpiano 29 ad ed. D. 15.1.3.11 tra la stipulatio e la litis contestatio quale modello di negozio giuridico processuale. Ebbene, nel quadro che progressivamente emerge pare arduo non riconoscere la correttezza dogmatica di un’opzione ricostruttiva volta ad adoperare la categoria generale di contratto quale base concettuale per la comprensione del fenomeno del negozio giuridico processuale, con evidenti riscontri nell’ambito del diritto romano. In buona sostanza, può sin d’ora anticiparsi come assuma rilievo qui la circostanza che la stipulatio – nelle sue molteplici sfaccettature, incidenti anche su profili processuali – va intesa nelle sue applicazioni processuali quale nomen contractus, ossia come modello contrattuale di atto strutturalmente bilaterale in cui la convenzione è insita ed ineludibile come in qualsiasi figura di obligatio contracta.
4. Segue. b) Le ‘stipulationes praetoriae’.
Altro campo in cui lo strumento della stipulatio mostra la propria flessibilità nell’assurgere a schema negoziale dalle molteplici applicazioni anche in sede processuale è quello delle stipulationes praetoriae.
Ebbene, se si valorizzano alcuni dati emergenti dalle fonti romane che descrivono quest’ultima figura – con specifico riferimento alle stipulazioni cautionales e iudiciales – potrà riconoscersi come la terminologia utilizzata costituisca un indice della possibilità di adoperare la procedura in questione al fine di configurare una regola del processo. Ciò consentirà, infatti, di attribuire alla oramai ammessa struttura obbligatoria e consensuale delle stipulationes praetoriae64 un più preciso significato in un’ottica di ‘negozialità processuale’, in ragione della loro idoneità a «fondare obblighi delle parti nel processo e fuori del processo»65.
63 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 22 ss. (e soprattutto 26 s.).
64 Sul punto, cfr. F. DE XXXXXXX, La giurisdizione nel diritto romano, Padova, 1937, 218 ss., il quale nondimeno – nel sottolineare come occorra evitare di sovrapporre concettualmente «la stipulatio con l’actio, con il iudicium» (così, a p. 219) – sostiene che, mentre «l’azione ha per suo presupposto l’esistenza di un diritto, o quanto meno una dichiarazione del pretore che riconosce meritevole di tutela un determinato rapporto, la stipulazione non ha nulla dietro di sé: essa è la fonte di un nuovo diritto, in quanto tende a far sorgere obblighi che l’ordinamento giuridico non è riuscito a tutelare direttamente» (in questi termini, a p. 219).
65 Così F. DE XXXXXXX, La giurisdizione, cit., 218, che evidenzia come «il carattere più eminente delle stipulazioni pretorie è quello di creare con il concorso della volontà privata, col volontario assoggettamento delle parti all’assunzione dell’obbligo, un rapporto giuridico nuovo» (testualmente, a p. 219).
Pare opportuno preliminarmente tratteggiare i caratteri della figura per riconoscere la sua strumentalità – nell’ipotesi in cui risulti funzionale ad un processo – rispetto ad un peculiare atteggiarsi della regolamentazione del procedimento medesimo.
In proposito, giova innanzitutto osservare come riguardo alle stipulationes praetoriae
– che pure indubbiamente presentano degli elementi comuni ed appaiono contraddistinte da una loro specifica funzione latamente cautelare66 – risulti controversa la stessa possibilità di riconduzione ad una categoria unitaria, dal momento che ogni figura ad essa ascrivibile avrebbe una sua specifica natura, influenzata dal tempo della sua affermazione, dal suo profilo strutturale, dallo scopo pratico cui era di volta in volta destinata67.
Nondimeno, sembra possibile muovere da alcune considerazioni.
Orbene, sembra utile, in prima battuta, rilevare come la figura in esame paia avere origini alquanto risalenti nel tempo68: anche in questo caso, come per il procedimento per sponsionem, la posizione giuridica che nasceva dalla stipulazione poteva trovare protezione già nel sistema delle legis actiones con la iudicis postulatio o con la condictio, potendo dunque prescindere (purché si deducesse un certum) eventualmente dall’organizzazione di processi formulari tra cittadini69.
In epoca classica con ogni probabilità sussistevano essenzialmente due tipologie di stipulazioni pretorie70. Ci si riferisce, in particolare, per un verso, alle stipulationes iudiciales, la cui funzione si estrinsecava nell’assicurare un migliore e più efficiente svolgimento di un processo nel quale si immettevano, tra le quali possono annoverarsi la cautio vadimonium sisti71 e la satisdatio iudicatum solvi72. Per altro verso, si ha riguardo alle stipulationes cautionales, stricto sensu intese – quale, ad esempio, la cautio damni infecti – portatrici di un’autonoma funzione processuale e cautelare73.
66 X. XXXXXXXX, Contributi allo studio delle ‘stipulationes praetoriae’, Napoli, 1960, 1 ss. Invero, si legge nelle fonti: Ulp. 70 ad. ed. D 46.5.1.4.: Et sciendum est omnes stipulationes natura sui cautionales esse…
67 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 1 ss.
68 Sul punto, X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 11 ss. non manca di considerare come «la scienza romanistica [si sia] profondamente divisa sull’origine preebuzia delle stipulationes praetoriae». In questo quadro, secondo l’A., sarebbe «del tutto legittimo supporre che le prime manifestazioni del procedimento cauzionale si siano andate plasmando sui modelli già acquisiti dalla prassi … la [cui] recezione edittale
… segna quasi sempre il passaggio tra la stipulazione prestata volontariamente e quella di contenuto analogo imposta dal magistrato» (così, 13 s.). Al riguardo, cfr. F. DE XXXXXXX, La giurisdizione, cit., 118 ss., che mostra qualche perplessità riguardo alla tesi secondo cui la genesi delle stipulazioni pretorie non potrebbe che collocarsi in un periodo di gran lunga posteriore rispetto al formarsi della categoria concettuale dell’obbligazione contrattuale, sulla base della quale le figure di cauzioni più risalenti sarebbero la sponsio e la restipulatio tertiae partis, immediatamente anteriori alla lex Aebutia. Xx invero, secondo l’A., «anche ammettendo che la stipulatio pretoria sia modellata sullo schema dell’obbligazione contrattuale, da ciò non può affatto dedursi che essa abbia un’origine recente, perché l’obligatio verbale tipica, la stipulatio nelle forme della sponsio, era già nota nell’età delle XII tavole» (in questi termini, a p. 119).
69 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 349.
70 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 238, nt. 12.4.
71 X. XXXXX, Das ‘Edictum Perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Xxxxxxxxxxxxxxxxx0, Xxxxxxx, 0000, 80 ss.
72 X. XXXXX, Das ‘Edictum’, cit., 415 ss.
73 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 238, nt. 12.4.
Successivamente, nel periodo postclassico, è stata enucleata «una terza e ambigua categoria»74 rappresentata dalle stipulationes communes, configurata – come si legge in D. 46.5.1pr-475 – iudicio sistendi causa76. Xx invero, sembra assumere una valenza descrittiva l’affermazione del giureconsulto, con ogni probabilità non immune da interpolazioni77, quando chiarisce
Ulp. 70 ad ed. D. 46.5.1pr: Praetoriarum stipulationum tres videntur esse species, iudiciales cautionales communes.
In questo quadro, come vedremo meglio a breve, soltanto le forme di stipulazioni iudiciales e cautionales – che, per le loro caratteristiche, ancora una volta in forza della duttilità della stipulatio su cui si incentrano, consentono di ottenere un risultato configurativo della procedura – si prestano ad un’analisi in termini di ‘gestione negoziale del processo’. Del resto, esclusivamente queste due figure appaiono corrispondere al
«criterio ispirato dal iudicium ratum facere»78 che, non ammettendo diversi canoni di classificazione delle stipulationes praetoriae, non può che denunciare l’estraneità delle stipulationes communes alla partizione classica79.
Con questo chiarimento preliminare, vediamo ora, innanzitutto in quali termini si contraddistinguesse la procedura basata sulle stipulationes praetoriae, al fine di trarne utili indicazioni in ordine alla funzione pratica ad esse sottesa.
Come è noto, l’elemento strutturale che caratterizza le fattispecie nelle quali era ammesso domandare la prestazione di una stipulazione pretoria consiste nella circostanza che il magistrato, al fine di offrire tutela ad interessi considerati meritevoli, piuttosto che accordare un’actio honoraria o emettere un interdictum80, imponeva tramite un decreto ad un destinatario di promettere per mezzo di una stipulatio di corrispondere una somma di denaro al titolare degli interessi in questione ovvero di tenere nei suoi confronti un diverso comportamento con cui darvi soddisfazione81. In altri termini,
74 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 238, nt. 12.4.
75 Ulp. 70 ad ed. D 46.5.1.3.: Communes sunt stipulationes, quae fiunt iudicio sistendi causa.
76 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 238, nt. 12.4.
77 Al riguardo, X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 21 ss. (e soprattutto, 25 ss.) considera come «la classificazione attribuita a Xxxxxxx» si presenti come «il risultato di una sovrapposizione tribonianea (o, comunque, postclassica), ché tale deve considerarsi la categoria delle stipulationes (praetoriae) communes: quae fiunt iudicio sistendi causa» (così, a p. 25). Da quest’ultimo punto di vista, la tricotomia delle stipulazioni pretorie risulterebbe spuria, non permettendo di appianare l’antinomia altrimenti evidente tra i paragrafi 3 e 4: «infatti, dopo aver affermato che certe stipulazioni sono communes, in quanto svolgono una duplice funzione, giudiziale e cauzionale, si aggiunge subito dopo, che omnes stipulationes natura sui cautionales esse. Sembra giusto chiedersi: perché sottolineare questa duplicità di funzioni soltanto per la cautio vadimonium xxxxx quando tutte le stipulazioni iudiciales sono, natura sui, cautionales? Certamente uno dei due paragrafi è estraneo a Xxxxxxx; e che lo sia il primo è provato dalle orme profonde che, a parte le nostre considerazioni, vi ha lasciato la caratteristica terminologia compilatoria applicata all’obbligo vadimoniale» (così, a p. 26).
78 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 26.
79 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 25 xx. 00 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 340 s. 81 X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 340 s.
l’attore convocava in ius la parte avversaria ed il magistrato emanava il provvedimento con cui ingiungeva di compiere la promissio, dopo aver preso cognizione della causa. Pertanto, la procedura si distingueva per una certa semplicità e speditezza82. Ovviamente, pur avendo la stipulatio una genesi pretoria, produceva effetti civili, dal momento che dalla stessa scaturivano la normale obligatio e l’ordinaria actio83.
Addentrandoci su questa via, non sembra inutile precisare che, nell’ambito delle stipulationes praetoriae, occorre distinguere le ipotesi in cui appariva indispensabile esclusivamente la mera promessa del soggetto obbligato dalle fattispecie che, invece, vedono la stipulazione pretoria assumere la struttura della satisdatio, con il conseguente obbligo per il promittente di offrire altresì dei garanti personali, ossia degli sponsores84.
Una volta tratteggiati questi aspetti, siamo ora in grado di entrare nel vivo di questo discorso, soffermandoci ad esaminare – nell’ambito ricostruttivo sinora perimetrato – i profili dai quali trarre conferma circa la specifica fisionomia funzionale alla configurazione del processo propria di una categoria, quale quella delle stipulazioni pretorie, indubbiamente negoziale.
Al riguardo, è dunque opportuno, evidentemente, considerare le figure – le uniche autenticamente classiche – in cui la stipulatio praetoria manifesti una funzione strumentale rispetto al processo85.
Il che impone immediatamente una specifica, importante precisazione: come mostrato da un’attenta dottrina86, i due soli elementi su cui si fondava la classificazione delle stipulationes praetoriae adottata dal giurista classico in D. 46.5.1.5 erano le stipulationes iudiciales e quelle cautionales. Le prime, in particolare, «svolgono una funzione strettamente inerente al processo, permettendone il normale svolgimento sino al momento in cui le parti contestano la lite sulla formula del iudicium (iudicium ratum facere)»87. Ciò trova riscontro, in primo luogo, in
Ulp. 70 ad ed. D. 00.0.0.0: Iudiciales eas dicimus, quae propter iudicium interponuntur ut ratum fiat, ut iudicatum solvi et ex operis novi nuntiatione.
A ben vedere, il passo in questione (di cui, come si è già accennato, l’ultima parte è forse spuria, in ragione della sostituzione alla cautio vadimonium xxxxx di quella ex operis novi nuntiatione) individua una figura, quella delle stipulationes iudiciales, che appare nitidamente caratterizzata e dotata di intrinseca coerenza88. In questa prospettiva, le stipulazioni iudiciales si innestano sui precedenti modelli processuali, trasformandone progressivamente le modalità di tutela, come emerge dalla locuzione ‘propter iudicium interponuntur’. Ciò si spiega riconoscendo, da un lato, nella possibilità di sostituzione della legis actio sacramento in rem con la procedura per sponsionem «quelle che possono dirsi le
82 X. XXXXXXX, Diritto privato romano, cit., 238, nt. 12.4.
83 Così, quasi testualmente X. XXXXXXXX, Istituzioni, cit., 340.
84 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 349 s.
85 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 349 s., che porta gli esempi della cautio rem ratam dominum habiturum e della satisdatio iudicatum solvi.
86 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 41 s.
87 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 41.
88 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 41 ss. (e, soprattutto, 42, ss.)
sollecitazioni più immediate alla introduzione della cautio vadimonium xxxxx e di quella pro praede litis et vindiciarum»89. Ed invero, la prima figura di garanzia ha consentito di promettere il pagamento di una somma di denaro per assicurare la comparizione della parte in udienza, in luogo della necessità di dare un vindex, il che appare coerente con la tendenza semplificatoria espressa dal procedimento per sponsionem. Anche la satisdatio pro praede litis et vindiciarum, sulla base della quale, per mantenere il possesso del bene controverso, il convenuto doveva effettuare una promessa garantita da terzi, ma non più a prestare i praedes, sembra corrispondere alla medesima esigenza.
Dall’altro lato, dalla transizione verso un nuovo tipo di processo sembra derivare altresì l’affermazione della satisdatio iudicatum solvi. In questa logica, con il passaggio verso la formula petitoria, sembra che trovasse spiegazione nella necessità di garantire, mediante uno strumento di coercizione indiretta quale la satisdatio iudicatum solvi, la restituzione del bene. Probabilmente, da meccanismo originariamente riferibile alla fattispecie della cooperazione di terzi nel processo per lo svolgimento di attività difensiva, quest’ultima stipulazione successivamente sarebbe stata estesa, per le caratteristiche proprie del processo formulare ed essenzialmente in relazione alle ipotesi di actio in rem, oltre che ai casi dell’actio depensi e dell’actio iudicati, ad ogni convenuto90.
Relativamente alla seconda figura, quella delle stipulationes cautionales, occorre innanzitutto far riferimento a
Ulp. 70 ad ed. D. 00.0.0.0: Cautionales sunt autem, quae instar actionis habent et, ut sit nova actio, intercedunt, ut de legatis stipulationes et de tutela et ratam rem haberi et damni infecti.
Il passo induce a constatare che il secondo elemento della classificazione ulpianea
– che non si presenta come un insieme omogeneo, ma alquanto diversificato91 – si caratterizza essenzialmente per la circostanza che tutte le stipulationes praetoriae ad esso riconducibili si traducono nel consentire l’esperimento di un’azione strettamente condizionata alla promessa stipulatoria, in mancanza della quale la stessa non sarebbe stata accordata92.
Siamo così di fronte ad una prospettiva che invita ad una più approfondita riflessione, in quanto – nel momento in cui questi schemi trovano attuazione in funzione del processo privato romano, dotato, almeno nella vigenza della procedura formulare di un’indole marcatamente privatistica93 – non può non osservarsi come lo scopo pratico cui assolvono queste stipulazioni pretorie sia rappresentato dalla loro idoneità a plasmare
89 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 43.
90 Sul punto, cfr. X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 42 ss.
91 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 41 ss.
92 X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 41 ss.
93 C.A. XXXXXXX, Profilo, II, cit., 7 ss., che riferisce del passo di Xxxxx. 2 quaest. D. 2.14.38: Ius publicum privatorum pactis mutari non potest, e di quello di Ulp. 30 ad ed. D. 00.00.00.0: Privatorum conventio iuri publico non derogat, per osservare come la presenza di elementi di negozialità nella procedura formulare non esclude nondimeno «un processo condotto da organi dello Stato, e in questo senso la sua disciplina appartiene al diritto pubblico» (in questi termini, a p. 8).
l’esercizio del iussum cavendi, immettendosi nell’impianto generale del processo romano con un’impronta fondamentalmente convenzionale94.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, pertanto, non possono non valorizzarsi tutte quelle funzioni che nelle fonti risultano attribuite alla stipulatio, per riconoscere come le stesse abbiano in realtà il significato di designare la possibilità di configurare la regola del processo. In particolare, occorre richiamare
Ulp. 70 ad ed. D. 00.0.0.0: Et sciendum est omnes stipulationes natura sui cautionales esse: hoc enim agitur in stipulationibus, ut quis cautior sit et securior interposita stipulatione.
Nel testo in esame il termine chiave è il verbo interponere, che in questo contesto sembra rappresentare nitidamente il ruolo di filtro assunto dalla stipulatio, che perciò in questo caso ridonda nel concetto di cavere, ossia di garantire la controparte processuale. Specificamente, in proposito, è stato esattamente osservato95 – pur nella difformità delle conclusioni – che «non si tratta dunque di componere i litiganti, perché essi facciano decidere la loro causa da un iudex, ma si tratta di fondare obblighi delle parti nel processo e fuori del processo, mediante la stessa volontà privata, sulla quale opera, come forza coercitiva, l’imperium del pretore»96.
Alla medesima funzione si fa riferimento in
Ulp. 70 ad ed. D. 00.0.0.0: Quod si sit aliqua controversia, ut puta si dicatur per calumniam desiderari, ut stipulatio interponatur, ipse praetor debet super ea re summatim cognoscere et cautum iubere aut denegare.
Ed invero, in questo caso la stipulatio opera in termini di ‘interposizione’, verosimilmente nella logica di rendere tutelabili situazioni soggettive altrimenti sfornite di protezione.
Ebbene, come già poc’anzi accennato, in tutti i testi presi in considerazione è, di volta in volta, il ‘propter iudicium interponere’, oppure l’‘intercedere’ della stipulatio, a marcare il significato che il negozio assume in ordine al processo. Del resto, ad orientarsi in quest’ordine di idee, non si può non considerare come i verbi adoperati indichino chiaramente – e ciò trova riscontro nel significato sostanziale dei passi – il fatto che il meccanismo negoziale in questione operi alla stregua di un filtro capace di imprimere una specifica configurazione al modus agendi. Ed è appunto questa frapposizione in ragione del giudizio (propter iudicium) a determinare il tipo di tutela accordato alle posizioni soggettive controverse.
Conclusivamente, occorre altresì menzionare – in quanto sostanzialmente espressivo della stessa logica – un altro rilevante contributo delle fonti all’opzione ricostruttiva qui suggerita, quale
94 Contra X. XXXXXXXX, Contributi, cit., 19 s., per il quale, se alla litis contestatio «potrebbe paragonarsi la stipulatio intercorsa tra le parti (una sorta di dictare et accipere iudicium), non bisogna dimenticare che sovente essa si fonda anzitutto sul iussum del pretore, ed è compiuta dopo il suo intervento» (così, specificamente, a p. 20).
00 X. XX XXXXXXX, Xx giurisdizione, cit., 218 ss.
00 X. XX XXXXXXX, Xx giurisdizione, cit., 218.
Ulp. 70 ad ed. D. 00.0.0.00: Sed et si quid vel addi vel detrahi vel immutari in stipulatione oporteat, praetoriae erit iurisdictionis.
In questo quadro, non si può non riflettere sull’utilizzo dei verbi addere, detrahere ed immutare, i quali mostrano di indicare differenti modalità operative della stipulatio – ossia, quelle riguardanti l’ipotesi in cui per il tramite del negozio in questione risulti necessario aggiungere, sottrarre ovvero regolare diversamente il rapporto processuale – in funzione dell’accertamento della spettanza del bene della vita controverso, propter iudicium.
In buona sostanza, anche nel caso delle stipulationes praetoriae può riconoscersi la presenza di un negozio giuridico che opera direttamente sul regolamento processuale – per mezzo dello strumento della stipulatio, quale modello di obbligazione strutturalmente bilaterale caratterizzato da una notevole versatilità – nella prospettiva di una tutela giurisdizionale maggiormente corrispondente alle esigenze dell’autonomia privata (iudicium ratum facere).
5. La gestione convenzionale della lite: a) il ‘compromissum’.
Una volta riconosciuta la natura sostanziale del pactum de non petendo, occorre osservare come altri problemi si pongano, sul piano ermeneutico, in relazione all’inquadramento concettuale della figura romanistica del compromissum, da analizzare nella prospettiva della capacità configurativa della tutela delle posizioni giuridiche soggettive, quale modello consensuale veicolato da reciproche stipulationes. Ed invero, la questione si impone essenzialmente in ragione della rilevata affinità funzionale che accomuna il compromissum alla litis contestatio97, dal momento che quest’ultima – come si avrà modo di osservare – viene condivisibilmente considerata – secondo l’oramai prevalente ricostruzione dottrinale98, sostanzialmente debitrice delle tesi del Wlassak99 – un negozio giuridico processuale. Il che non implica necessariamente un’adesione alla tesi per la quale tra la litis contestatio e le stipulazioni compromissorie sarebbe predicabile una relazione di identità strutturale100.
97 In proposito, occorre ricordare X. XXXXXXXXX, Ricerche in tema di ‘compromissum’, Milano, 1958, 4 ss.
98 Ex pluribus, X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’ nel processo formulare, ora in Scritti giuridici scelti, I, Diritto romano, Napoli, 1985, 137 ss. (già in Scritti giuridici in onore di X. Xxxxxxxx, Bologna, 1953, 363 ss.).
99 X. XXXXXXX, Die Litiskontestation im Formularprozess, Leipzig, 1889, passim. Per un parallelismo con la concretizzazione del contraddittorio nel processo criminale romano, che porta ad un agire coordinato con una vicenda per certi versi speculare all’evoluzione del processo formulare incentrato sulla litis contestatio, si veda altresì X. XXXXXXX, Anklage und Streitbefestigung im Xxxxxxxxxxxxx xxx Xxxxx, Xxxx, 0000, 52 ss.
100 Sul tema, cfr. G. LA PIRA, ‘Compromissum’ e ‘litis contestatio’ formulare, in Studi in onore di X. Xxxxxxxxx nel XL anno del suo insegnamento, II, Palermo, 1936, 187 ss. (e soprattutto 202 ss.), il quale, in sintesi, pone in luce come in entrambi i casi si configurino negozi formali conclusi tramite stipulazioni e diretti a dirimere una controversia, con cui non soltanto le parti si assoggettano alla decisione finale, conferendo a tal fine ad un terzo questo potere, ma altresì stabilivano i termini della lite da sottoporre a quest’ultimo. In questa prospettiva, l’esegesi delle fonti consentirebbe di restituire «al compromissum la sua fisionomia classica di negozio formale, concluso mediante stipulazioni» (testualmente, a p. 225),
Ebbene, come immediatamente si vedrà, le difficoltà sorgono essenzialmente per l’ambivalenza della figura: infatti, se per un verso il negozio in questione non dispiega i propri effetti immediati sulla situazione sostanziale controversa, ma pur sempre sulle modalità della sua tutela, per altro verso esso si pone pur sempre al di fuori del processo e della sua organizzazione. In questo quadro, potrà pertanto suggerirsi un’interpretazione che muova dall’accostamento dal negozio alla litis contestatio formulare, per giungere a valorizzare – pur nella consapevolezza della diversa sfera di operatività dei due negozi e dei procedimenti che da essi traggono origine – il carattere sostanziale che l’actio riveste per il diritto romano, che in un’ottica estensiva potrebbe correlarsi con la figura in esame. In altri termini, ciò permetterebbe di considerare – sebbene nell’impossibilità di fornire una ricostruzione che non sia ipotetica – come la tutela della ragione fondata possa in ipotesi trovare diversi sbocchi anche attraverso l’accordo delle parti sul compromissum.
Procediamo, dunque, con il tratteggiare gli aspetti essenziali del compromissum, quali possono aiutare a far chiarezza sul suo inquadramento, ai fini che qui vengono in evidenza. Xxxxxx, secondo l’interpretazione preferibile101, esso si presentava strutturalmente come una conventio sottostante a reciproche stipulazioni in funzione penale. La violazione del compromissum, per l’appunto, permetteva di esperire l’actio ex stipulatu102, ma non già di opporre una exceptio pacti103. In particolare, mediante questo negozio, le parti di un rapporto controverso si accordavano nel senso di definirlo in sede extragiudiziale, attraverso la sua sottoposizione alla decisione di un arbitro. Infatti, attraverso le reciproche stipulazioni poste in essere dalle parti, si realizza un negozio che definisce il tema della lite con la creazione di un programma procedimentale volto all’organizzazione dell’arbitrium. Si nomina altresì l’arbitro, conferendogli specifici poteri,
riconoscendone il distacco dalla fisionomia giustinianea del pactum. Il che si evincerebbe, ad esempio, da Xxxx. 2 ad ed. D. 4.8.1: Compromissum ad similitudinem iudiciorum redigitur et ad finiendas lites pertinet, circa l’identità degli schemi tipici, e da Ulp. 4 ad ed. D. 4.8.2 : Ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem, in cui si afferma esplicitamente che dal negozio in questione, di per sé, non aveva origine l’exceptio pacti.
101 X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 37 ss.
102 X. XXXXXX - X. XXXXXXXX - X. XXXXXXXX MARUOTTI, Diritto privato romano, Torino, 2014, 569 ss.
103 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 191 ss., il quale osserva in proposito che «se il compromissum fosse stato un patto cui venivano estrinsecamente aggiunte due stipulazioni penali, avrebbero dovuto per esso valere i principii esposti da Ulpiano in Ulp. 4 ad ed. D. 0.00.00.0: Si pacto subiecta sit poenae stipulatio, quaeritur, utrum pacti exceptio locum habeat an ex stipulatu actio. Sabinus putat, quod est verius, utraque via uti posse prout elegerit qui stipulatus est: si tamen ex causa pacti exceptione utatur, aequum erit accepto eum stipulationem ferre» (così, a p. 191). Eppure risulta pacifico che per il diritto classico dal compromissum di per sé non sorgesse l’exceptio pacti. Nondimeno, in senso contrario, opina X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 101 ss. (e, soprattutto, 110 ss.), il quale ritiene che questa circostanza non valga a disconoscere il carattere di pactum, ossia la natura di convenzione, che sarebbe propria del compromissum. Da quest’ultimo punto di vista, occorrerebbe piuttosto ammettere che «la restrizione delle parti alla sola obligatio poenae, con l’esclusione dell’exceptio pacti, sia il risultato della valutazione data alla fattispecie dall’interpretazione giurisprudenziale» (così, a p. 110). Ebbene, apparirebbe un’ipotesi verisimile quella per la quale la mancanza dell’exceptio pacti troverebbe la propria ragione nella «preoccupazione di mantenere … la situazione di equilibrio tra le parti» (testualmente, a p. 114), finendo per accordare al convenuto assolto la possibilità di optare per «un mezzo che assicurava il conseguimento dell’interesse» (in questi termini, a p. 112), e non già soltanto per agire per ottenere il pagamento della poena.
ed, inoltre, per questa via, i litiganti si sottopongono alla pronuncia arbitrale, prevedendo eventualmente una pena per l’inosservanza104.
In questo quadro, appare opportuno dapprima riconoscere i notevoli profili di affinità funzionale tra i caratteri del compromissum e quelli della litis contestatio, allo scopo di individuare successivamente – pur dovendosene evidenziare le differenze strutturali – gli aspetti suscettibili di incidere sull’eventuale qualificazione in termini di negozio giuridico processuale della convenzione compromissoria.
A tal fine, occorre anzitutto prendere le mosse dal profilo strutturale.
Infatti, non sembra si possa condividere, al riguardo, quell’impostazione, espressione di una non molto recente dottrina105, secondo la quale – non presentandosi come un pactum in senso tecnico – il compromissum farebbe parte di quelle conventiones che in aliud nomen transeunt106, dal momento che non assumerebbe un’autonoma rilevanza se non nella misura in cui transiti nel negozio in forza del quale troverebbe la propria veste giuridica, quale sarebbe individuabile nella stipulatio107.
Viceversa, non si vede come si possa disconoscere quell’orientamento, autorevolmente sostenuto108, che evidenzia come i rapporti tra la conventio e le reciproche stipulazioni vadano ricostruiti in primo luogo sulla base della circostanza che la conventio compromissi, quale accordo delle parti sullo specifico assetto di interessi, non possa prescindere, per realizzare lo scopo perseguito, dalle stipulazioni in funzione penale. Difatti, per rendere giuridicamente vincolante l’accordo delle parti volto a deferire ad un arbitro la loro controversia, assicurandone la sostanziale efficacia, è necessario che i litiganti si impegnino tramite stipulazioni – di carattere accessorio – a prestarvi ottemperanza.
Xxxxxxxxx, non pare sia stato dimostrato in che modo i prudentes sarebbero pervenuti a configurare il negozio compromissorio come un’unitaria fattispecie complessa basata sull’interdipendenza delle stipulazioni109. Ebbene, ove si consideri che gli effetti della stipulatio si presentano come esclusivamente obbligatori, ben si comprende come gli effetti che sono stati ricondotti al negozio complesso stipulatorio risultino piuttosto ascrivibili alla relativa conventio compromissi, e sarebbero riferibili esclusivamente alla medesima, dal momento che non si potrebbero attribuire alle stipulazioni effetti ad esse estranei110. In questa logica, l’asserita tipicità dei formulari stipulatori predisposti per delimitare il programma della gestione arbitrale della lite non trova riscontro nelle fonti, finendo per confonderla con i requisiti formali caratteristici della stipulatio, indispensabili per assicurare una sanzione efficace agli impegni assunti con la compromissione in
104 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 197 ss.
105 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 192.
106 Può menzionarsi, al rigurado, il celebre passo Ulp. 4 ad ed. D. 0.00.0.0: Sed conventionum pleraeque in aliud nomen transeunt: veluti in emptionem, in locationem, in pignus vel in stipulationem.
107 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 192.
108 X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 1 ss. (e, soprattutto, 37 ss.). 109 Così, quasi testualmente X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 67. 110 X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 67.
arbitri della lite111. Sembra piuttosto che si debba predicare l’utilizzo di paradigmi fissi in ragione del rilievo pubblicistico del negozio112.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, se si riferiscono gli effetti alla convenzione sottostante, può dunque concordarsi con il rilievo dell’affinità funzionale riconoscibile rispetto alla litis contestatio. In particolare, il contenuto degli obblighi reciproci – come si è in precedenza accennato – si estrinseca essenzialmente, da un lato, nel definire puntualmente i termini della controversia, plasmando in questo modo uno specifico programma al quale l’arbitro era tenuto a conformarsi nel giudicare113 e, dall’altro lato, nello stabilire la sanzione per l’inosservanza alla decisione, che in linea di principio consisteva in una pena pecuniaria. Pertanto, «il compromissum costituisce …, per l’arbitro, il paradigma del suo giudizio»114. Xx invero, dai testi chiaramente risulta che all’arbitro dev’essere fornito un programma preciso, il quale risulti dallo stesso accordo compromissorio, sebbene lo stesso non possa in realtà rappresentare il contenuto della formula stipulatoria espressa dalle parti115. Il che si evince, in particolare, da un passo di Xxxxx, che giova qui ricordare:
Xxxx. 13 ad ed. D. 0.0.00.00: Arbiter nihil extra compromissum facere potest et ideo necessarium est adici de die compromissi proferenda: ceterum impune iubenti non parebitur.
Xxxxxx, essendo in questa fattispecie la promessa stipulatoria strettamente connessa al profilo causale del negozio posto in essere, i suoi effetti si produrranno esclusivamente se la pronuncia arbitrale si riveli conforme al programma prestabilito mediante il compromissum116. Ed allora, non può dubitarsi del fatto che i caratteri appena enucleati valgano a ravvicinare notevolmente la figura in questione alla litis contestatio formulare quale modello di negozio giuridico processuale. Difatti, anche attraverso quest’ultimo atto le parti – con l’accordo sulla formula piuttosto che con un assetto di interessi trasfuso nella conventio compromissi – perseguono lo stesso obiettivo di soluzione della controversia attraverso strumenti affini. In altri termini, delineano i termini della lite, prefigurando un programma processuale, attribuiscono ad un terzo il potere condannatorio o assolutorio e si vincolano alla sua pronuncia117. Appare, dunque, inconfutabile la considerazione che il procedimento ordinario e quello di carattere arbitrale assolvono ad una medesima funzione, risultando quindi alcuni aspetti di entrambi gli istituti disciplinati in un modo assimilabile118.
Con queste considerazioni, è possibile inoltrarsi a questo punto ad analizzare una questione collegata al tema dell’affinità tra litis contestatio e compromissum, in quanto la procedura fondata su strumenti negoziali sembra dar luogo ad un assoggettamento alla
111 In questi termini, quasi testualmente, X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 4, nt. 11.
112 X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 4.
113 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 197 ss.
114 G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 197.
115 M. TALAMANCA, Ricerche, cit., 3 ss.
116 In questo senso, G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 200 s. 117 In questo senso, G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 202 ss. 118 X. XXXXXXXXX, Ricerche, cit., 5 s.
pronuncia arbitrale per certi versi simile alla responsabilità conseguente al iudicium, come emerge quantomeno in relazione all’ipotesi in cui sia parte un filius familias.
Al riguardo, assume rilievo la circostanza che costituiva ius controversum la possibilità di esercitare de peculio l’actio ex stipulatu nei confronti del dominus, nell’ipotesi di omessa ottemperanza ad una pronuncia arbitrale conseguente ad un compromissum cui avesse preso parte uno schiavo119. Ed invero, da diversi elementi testuali120 sembra potersi desumere come, in relazione all’attività compiuta dal servus, si predicasse una sostanziale irresponsabilità del dominus qualora il suo sottoposto fosse convenuto e risultasse soccombente nell’ambito di un procedimento arbitrale, senza che rilevasse in proposito la correttezza del comportamento dello schiavo stesso o l’effettiva riconducibilità dell’amministrazione agli interessi del dominus121.
Xxxxxxxxx, a soluzioni opposte sono approdati i giuristi classici in relazione alle obbligazioni del filius familias, sul presupposto della generale responsabilità del pater per le stesse, seppure nei limiti del peculio122. In particolare, merita al riguardo un’attenta considerazione un passo in cui è racchiusa una menzione ulpianea al nono libro delle Questioni di Xxxxxxxxx. Si tratta di
Ulp. 29 ad ed. D. 00.0.0.0: Sed si filius fideiussor vel quasi interventor acceptus sit, an de peculio patrem obligat, quaeritur. et est vera Xxxxxx et Xxxxxx sententia existimantium semper obligari patrem de peculio et distare in hoc a servo. (10) Xxxxx et ex compromisso pater tenebitur. et ita Xxxxxxxxxx quoque libro nono quaestionum scribit nec interesse ait, ex qua causa compromiserit, utrum ex ea causa, ex qua potuit cum patre de peculio agere, an vero ex ea qua non potuit, cum ex stipulatu pater conveniatur.
In sostanza, il § 9 esprime il favore dei giuristi in ordine al coinvolgimento della responsabilità del pater con riferimento, per un verso, all’assunzione di garanzie personali per le obbligazioni da parte del filius, per altro verso, alla realizzazione ad opera del medesimo di una stipulazione compromissoria. In questa logica, viene adottata
119 Sul punto si veda, diffusamente, X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’. Storia di un dovere giuridico, Napoli, 2007, 390 ss.
120 In proposito, cfr. Ulp. 29 ad ed. D. 00.0.0.0: Si servus, cum se pro libero gereret, compromiserit, quaeritur, an de peculio actio ex poena compromissi quasi ex negotio gesto danda sit, sicuti traiecticiae pecuniae datur. sed hoc et Xxxxxx filio et xxxx videtur verius ex compromisso servi non dandam de peculio actionem, quia nec si iudicio condemnetur servus, datur in eum actio. Xxxxxxxxxx, Xxxx. 13 ad ed. D. 0.0.00.0: Si servus compromiserit, non cogendum dicere sententiam arbitrum, nec si dixerit, poenae exsecutionem dandam de peculio putat Octavenus. sed an, si liber cum eo compromiserit, exsecutio adversus liberum detur, xxxxxxxx: sed magis est, ut non detur. Nella stessa logica si colloca Gai. 1 ad ed. prov. D. 2.14.30.1 : Qui pecuniam a servo stipulatus est, quam sibi Titius debebat, si a Titio petat, an exceptione pacti conventi summoveri et possit et debeat, quia pactus videatur, ne a Titio petat, quaesitum est. Xxxxxxxx ita summovendum putat, si stipulatori in dominum istius servi de peculio actio danda est, id est si iustam causam intercedendi servus habuit, quia forte tantandem pecuniam Titio debuit: quod si quasi fideiussor intervenit, ex qua causa in peculium actio non daretur, non esse inhibendum creditorem, quo minus a Titio petat: aeque nullo modo prohiberi eum debere, si eum servum liberum esse credidisset. Da quest’ultimo passo, in particolare, emerge come la responsabilità del dominus sussista unicamente al ricorrere di una iusta causa intercedendi, da far valere tramite un’exceptio, come evidenziato da X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 390 ss. (e soprattutto 396 ss.).
121 X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 390 ss.
122 X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 398 ss.
l’impostazione sabiniana, incentrata sulla differenziazione di piani tra l’ipotesi del servus e quella del filius123.
A ben vedere, il ragionamento del giurista, nell’affrontare il tema della responsabilità adiettizia, si incentra sul fondamento negoziale della stessa. In questa logica, «nelle ipotesi per le quali non è chiara la riferibilità dell’agire del sottoposto libero alla sfera economica del pater, in presenza di un atto ‘sanante’ come la stipulatio non c’è dubbio che possano ricadere sul pater, sia pure de peculio, le conseguenze di quanto questi abbia effettuato»124. Siamo così di fronte ad una prospettiva che invita ad una più approfondita riflessione, qualora si consideri il rilevante profilo dato dall’«accostamento
– imposto forse dalla successione degli argomenti nell’opera di Xxxxxxxxx, ma evidentemente condiviso dal giurista di Xxxx – della fattispecie dell’actio de poena compromissi a quella dell’actio iudicati dall’angolo visuale del contrahere e non già da quello della causa contrahendi»125. In altri termini, alla base di entrambe le azioni può riconoscersi l’operatività della stipulatio, quale comune denominatore che rappresenta una struttura negoziale idonea a fornire il modello di un’attività lecita, da considerarsi latamente contrattuale, capace di fondare la responsabilità del pater126.
Nel quadro sinora delineato, se proviamo a riannodare i fili di questo discorso, anzitutto può sin d’ora anticiparsi, in considerazione di quanto osservato, come la stipulatio, per la sua struttura dialogica, ben si presti a diversi utilizzi in ambito processuale e – più in generale – in relazione alla tutela di posizioni giuridiche soggettive. In questa prospettiva, è evidente come l’affinità funzionale degli atti posti alla base dei due procedimenti, quali quello compromissorio e quello formulare, in quanto diretti a configurare negozialmente le modalità con cui dirimere la controversia precedentemente insorta tra le parti e capaci di fondare il successivo obbligo di ottemperare alla decisione, rappresenti una traccia importante del ruolo paradigmatico svolto dalla stipulatio, che si colloca trasversalmente tra la configurazione di posizioni giuridiche soggettive e la loro tutela, pur essendo comunque questi profili strettamente interconnessi. Xxxxxx, pur non potendosi ascrivere la funzione configurativa della tutela della situazione sostanziale al contenuto delle reciproche stipulazioni, quanto piuttosto al significato della conventio sottostante, ciononostante la coercibilità dell’assetto di interessi in questione transita attraverso lo strumento stipulatorio. Per questa ragione, sarebbe inopportuno sottovalutare l’elemento di contrattualità che accomuna la procedura extragiudiziale ed il iudicium.
Tuttavia, se si muove dalla considerazione per cui la natura del negozio giuridico processuale si estrinseca peculiarmente nell’apporto negoziale dei litiganti capace di incidere sullo svolgimento di una procedura la cui essenza pubblicistica comunque non risulta intaccata, dal momento che l’accordo dispiega i propri effetti negli spazi ad esso concessi dall’ordinamento, alla categoria in questione potrebbe apparire immancabilmente estranea la fattispecie del compromissum. Ed invero, la procedura in
123 X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 398 ss.
124 Così X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 402.
125 In questi termini, X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 403.
126 X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 402 ss., che rileva come appaia «significativo il permanere, per fattispecie tra loro eterogenee …, di un’unica prospettiva per così dire sostanziale cui funge da comune denominatore il negozio della stipulatio» (così, a p. 403).
questione si colloca pacificamente all’esterno del iudicium, rappresentando piuttosto uno strumento ad esso parallelo, stante l’analogia della funzione127. Del resto, l’assunto trova riscontro nella circostanza che le stipulazioni compromissorie non importano la novazione del rapporto obbligatorio, consentendo perciò di far ricorso al iudicium indipendentemente dal precedente compromissum128.
In buona sostanza, non è revocabile in dubbio che il meccanismo in questione servisse non già a configurare il iudicium, ma bensì ad evitarlo.
Peraltro, in questa funzione si potrebbe riconoscere la finalità di gestire la tutela della posizione giuridica controversa, attraverso una modalità che tende ad obliterare il iudicium – che comunque rappresenta il termine di paragone dell’assetto di interessi posto in essere –, rientrando così nel concetto di azione in senso sostanziale quale in precedenza delineato. In questo quadro, l’ammissibilità di un’opzione interpretativa che predichi in relazione al compromissum una qualificazione in termini di negozio giuridico processuale resta una questione aperta.
6. Segue. b) la ‘litis contestatio’ del processo privato romano.
Dopo aver seguito il filo che, nel segno della stipulatio, riconnette i negozi giuridici processuali riconoscibili per le loro caratteristiche nell’esperienza giuridica romana, evidenziando una prospettiva che consente di intervenire sul processo configurandolo, siamo giunti, a questo punto, ad esaminare un profilo che rappresenta forse la sintesi di ogni discorso sull’argomento, ossia la questione della natura della litis contestatio e dei suoi rapporti con la stessa stipulatio129.
Xx è su questo aspetto che dovremo ora soffermarci.
Al riguardo, è opportuno, in prima battuta, evocare la configurazione negoziale della litis contestatio nel processo formulare, proprio del diritto romano classico, quale oggetto di un accordo tra le parti attraverso cui definire i termini della contesa130.
127 In proposito, cfr. Ulp. 13 ad ed. D. 4.8.21.
128 Ciò si evince, in particolare da Xxxx. 13 ad ed. D. 4.8.30: Si quis rem, de qua compromissum sit, in iudicium deducat, quidam dicunt praetorem non intervenire ad cogendum arbitrum sententiam dicere, quia iam poena non potest esse, atque si solutum est compromissum. Sed si hoc optinuerit, futurum est, ut in potestate eius, quem paenitet compromisisse, sit compromissum eludere. Ergo adversus eum poena committenda est lite apud iudicem suo ordine peragenda. Sul punto, cfr. lo stesso X. XX XXXX, ‘Compromissum’, cit., 203, per il quale comunque ciò non varrebbe ad inficiare «l’identità strutturale tra i due istituti» (testualmente, a p. 203), ossia compromissum e litis contestatio.
129 Il problema è stato sollevato, in particolare, da G. LA PIRA, ‘Compromissum’, cit., 226, che, nei suoi studi volti a dimostrare l’identità strutturale tra compromissum e litis contestatio, ha suggerito come, in questo campo, questi stessi elementi sembrino «irresistibilmente» (in questi termini, a p. 226) indurre a più approfondite ricerche.
130 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 330 ss. Per un’approfondita ricognizione sulla questione della componente convenzionale della litis contestatio, cfr. X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 33 ss.
In particolare, appare utile premettere che – come risulta dalle fonti131 – porre in essere l’atto in questione competeva esattamente alle parti e non al magistrato, dal momento che il ‘litem contestari’ seguiva logicamente il ‘iudicium dare’, in quanto atto sostanzialmente distinto132. Per di più, giova immediatamente evidenziare che la litis contestatio si presentava come un accordo: se si considera il ruolo del convenuto, non può non riconoscersi come il suo atto difensivo – consistente nel ‘se iudicio defendere’ – finisse per coincidere con il ‘iudicium accipere’133, quale atto di volontà che racchiudeva l’accettazione del programma processuale134. Del resto, ciò risulta coerente con l’espressa menzione dell’eventualità di un rifiuto da parte del convenuto135, non ponendosi peraltro l’elemento volontaristico in contraddizione con la sussistenza di un obbligo di iudicium accipere, secondo quanto nitidamente risulta dalla tradizione giuridica romana136.
Addentrandoci su questa via, viene qui in considerazione una riflessione di Xxxxxxx, che, nell’interpretare estensivamente l’ambito di applicazione dell’actio de peculio, fonda la propria soluzione sulla circostanza che «anche il litem contestari costituiva un contrahere, sì da poter venire assimilato allo stipulare»137. Ci si riferisce, in particolare, a
131 Si possono menzionare in proposito due passi, quali Mac. 1 de off. praes. D. 1.18.16, e Xxxx. 17 ad Plaut. D. 0.0.00.0: Sed et si dies actionis exitura erit, causa cognita adversus eum iudicium praetor dare debet, ut lis contestetur ita, ut in provinciam transferatur.
132 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (e, soprattutto, 141 ss.).
133 L’assunto trova conferma in alcuni celebri testi, quali Ulp. 49 ad ed. D. 5.1.63: Recte defendi hoc est iudicium accipere vel per se vel per alium, sed cum satisdatione: nec ille videtur defendi, qui quod iudicatum est non solvit. E Ulp. 44 ad ed. D. 50.17.52: Non defendere videtur non tantum qui latitat, sed et is qui praesens negat se defendere aut non vult suscipere actionem.
134 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 141 ss., il quale precisa come la forma impersonale del ricevere la formula che talora emerge dalle fonti (cfr., ex pluribus, Ulp. 19 ad ed. D. 10.2.2.4) si riferisca in realtà ai iudicia duplicia, nei quali i contendenti si pongono sul medesimo piano, non distinguendosi tra attore e convenuto. «Nessuna meraviglia allora che il iudicium si dica acceptum fra i contendenti, poiché tutti contemporaneamente lo propongono e lo accettano» (in questi termini, a p. 142).
135 In questo senso va inteso, infatti, Ulp. 12 ad ed. D. 0.0.00.0: Defendi autem non is videtur, cuius se defensor ingerit, sed qui requisitus ab actore non est defensioni defuturus, plenaque defensio accipietur, si et iudicium non detrectetur et iudicatum solvi satisdetur.
136 In proposito, approfonditamente, X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (ed amplius 143), il quale rileva che «l’esperienza giuridica è ricca di esempi in cui un atto di volontà costituisce l’adempimento di un’obbligazione precedente (basta pensare alla mancipatio con cui si adempieva un’obbligazione di dare) o è oggetto di una coazione (basta pensare alle stipulazioni pretorie)» (testualmente, a p. 143). In questa prospettiva, la necessità di predisporre specifiche misure per il possibile rifiuto del convenuto di assumere la difesa, si presenta come «una delle migliori prove che, senza un atto di volontà del convenuto, non si poteva instaurare un giudizio» (in questi termini, a p. 143).
137 Così X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 151 s. Al riguardo, X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 380 ss., ha evidenziato che, secondo la tesi espressa dal passo in questione, la litis contestatio conclusa dal filius con chi intendeva agire in giudizio nei suoi confronti risulta parificata ad una stipulatio tra gli stessi perfezionata; pertanto, «non sembra vi sia il dubbio (il richiamo analogico alla stipulatio si riferisce, evidentemente, ad un istituto in ordine al quale vi è una oramai raggiunta certezza) che quest’ultima consenta sempre l’esercizio dell’actio (ex stipulatu) nei confronti del pater, ovviamente de peculio» (così, a p. 382).
Ulp. 29 ad ed. D. 00.0.0.00: Idem scribit [scil. Xxxxxxxxxx] iudicati quoque patrem de peculio actione teneri, quod et Xxxxxxxxx putat, etiam eius actionis nomine, ex qua non potuit pater de peculio actionem pati: nam sicut in stipulatione contrahitur cum filio, ita iudicio contrahi: proinde non originem iudicii spectandam, sed ipsam iudicati velut obligationem. quare et si quasi defensor condemnatus sit, idem putat.
A voler ripercorrere brevemente la trama del passo ulpianeo, si può immediatamente partire dalla questione – alla quale il giurista romano offre una soluzione favorevole – riguardante la possibilità che, in forza della litis contestatio, sia consentito esperire de peculio l’actio iudicati. La vicenda concerne, dunque, il profilo dell’eventuale responsabilità del pater familias nell’ambito della procedura esecutiva relativa al giudicato che vede il filius – quale soggetto in potestate, cui il pater abbia voluto, pur senza procedere ad emancipatio, conferire «una certa indipendenza dal punto di vista patrimoniale»138, attraverso l’attribuzione di beni che vanno a costituire il peculio – come parte. Orbene, pur se il rapporto sostanziale azionato – indicato con la locuzione ‘origo iudicii’139 – non rendesse possibile imputare una simile figura di responsabilità, e dunque non valesse in linea di principio ad attribuire l’actio de peculio contro il pater, il pensiero di Xxxxxxxx, riportato da Xxxxxxxxx e condiviso da Xxxxxxx, appare propenso a riconoscere anche nei confronti di quest’ultimo soggetto l’ammissibilità dell’actio iudicati nei limiti del peculio. Ed invero, la responsabilità peculiare si fonda qui non già sulla posizione originaria fatta valere in giudizio, ma bensì sulla litis contestatio, in quanto, in maniera non dissimile dal contrarre in stipulatione col filius, essa espone il pater all’actio de peculio140.
In questa prospettiva, il ragionamento seguito «in xxx xxxxxxxxxxxxxxx xxxxxx»000 dai prudentes appare viepiù perspicuo ove si consideri come il perfezionamento della litis contestatio da parte del filius, similmente all’ipotesi della stipulatio, si configuri alla stregua di un ‘contrahere’. È questa, allora, la ragione per cui il pater assume la responsabilità per il
138 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 87.
139 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (ed amplius 150 ss.).
140 Sostiene, in particolare, l’incapacità del figlio in potestate di soggiacere in nome proprio alle azioni esecutive conseguenti al giudicato X. XXXXX, ‘Filius familias se obligat?’. Il problema della capacità patrimoniale dei ‘filii familias’, Milano, 2003, 93 ss. In questo quadro, nel ripercorrere le mutazioni intervenute nella disciplina della «condizione giuridico-patrimoniale del filius familias» (in questi termini, a p. 93), l’A. ricorda che inizialmente il regime in questione «si modellò con le stesse caratteristiche di quello previsto per il servus; in secondo luogo, che il limitato ed indiretto riconoscimento della capacità di obbligarsi, prima attraverso la previsione iure honorario delle azioni adiettizie (in particolare l’actio de peculio), poi con il progressivo affermarsi della nozione classica di naturalis obligatio, fu innovazione comune a figli e schiavi; infine, che nel corso dell’evoluzione storica la situazione del figlio si differenziò profondamente da quella servile» (così, a p. 94), finendo – dopo Xxxxxxx – per poter disporre di un patrimonio autonomo e per potersi obbligare «iure civili per contratto» (testualmente, a p. 94). Sembra invero di potersi cogliere anche qui il riconoscimento di un parallelismo tra l’inconfigurabile «personale responsabilità dei filii per le obbligazioni assunte manente potestate» (così, a p. 95) e la parimenti inammissibile actio iudicati esperita direttamente contro il soggetto alieni iuris, quale portato della litis contestatio da quest’ultimo stipulata, che ne mutua la natura.
141 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 333.
negozio giuridico consistente nel litem contestari quale atto sostanzialmente convenzionale compiuto dal suo sottoposto142.
Nondimeno, occorre peraltro sottolineare come il verbo ‘contrahere’ indichi precipuamente lo ‘stringere un vincolo’, abbracciando dunque un significato più esteso del sostantivo ‘contractus’143. In questa logica, si comprende bene, perciò, come nell’ottica romana la litis contestatio non fosse qualificata come una delle figure contrattuali riconosciute dall’editto. È chiaro, inoltre, come gli effetti della litis contestatio assumessero, quale conseguenza dell’interazione procedimentale con i decreti magistratuali,
«un’impronta e una portata pubblicistiche che li differenziavano dagli effetti dei contratti»144, assumendo altresì l’obligatio iudicati – che trovava origine in quell’atto – una specifica configurazione145.
A ben vedere, non sembra dunque incongruo suggerire di accedere ad un’esegesi secondo cui il pensiero ulpianeo intenderebbe il riferimento alla stipulatio non tanto quale identificazione della litis contestatio con lo schema della obligatio verbis, ma bensì come modello storico di atto il quale indefettibilmente presuppone un consenso, ossia una struttura bilaterale in cui la convenzione è insita ed ineludibile come in qualsiasi figura di obligatio contracta. Questa prospettiva, del resto, trova riscontro – alla luce dell’intuizione di un’ampia parte della dottrina146 – in un celebre passo ulpianeo, quale
142 Di «negozio giuridico processuale» in relazione alla litis contestatio parla X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (ed amplius 150 ss.), valorizzando il «concetto di soggezione» in cui «si inquadra esattamente quel vincolo» (in questi termini, a p. 154), dal momento che gli effetti immediati dell’atto
«non potevano che consistere nella sottomissione delle parti alla pronunzia dell’organo giudicante, nell’impossibilità, in cui esse si venivano a trovare, di impedire che l’organo giudicante decidesse la controversia sulla scorta della formula ormai non più modificabile e che la decisione producesse automaticamente le sue conseguenze per ognuna di esse» (così, a p. 154). In quest’ordine di idee, è utile considerare l’opzione ricostruttiva suggerita da X. XXXXXX, ‘Litem suam facere’ da Xxxxxxx ai Severi, in Diritto @ Storia, X, 2011-2012, § 5, che – nell’analizzare le «questioni inerenti alla soggezione all’actio del giudice che abbia violato il perimetro del iudicium» (in questi termini, nel § 1) – riflette sull’esegesi del passo di Ulpiano in D. 5.1.15.1, il quale sembra adoperare a fondamento del proprio ragionamento casistico l’ipotesi di «una condanna ingiusta in senso sostanziale» (testualmente, nel § 5), per giungere,
«in una prospettiva più ampia rispetto a quella normalmente seguita» (così, nel § 5), ad «ipotizzare che il rimedio pretorio mirasse al raggiungimento di un risultato pratico di traslazione in capo al iudex dell’interesse delle parti, percepibile hinc et inde al momento della litis contestatio, alla corretta e fisiologica gestione della lite, legittimando all’azione, una volta pronunciata la sententia, quella che tra esse risultasse in concreto lesa dall’errore procedurale o dal dolo giudiziario qualificato» (in questi termini, nel § 5). Peraltro, ciò appare coerente con la circostanza che «la bilateralità è alla base della gestione negoziale dell’agere tramite litis contestatio, come pure bilaterale è l’atto di individuazione del iudex» (con queste esatte parole, nel § 5).
143 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss.
144 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 153.
145 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (ed amplius 150 ss.).
146 Occorre ricordare, in proposito, la lezione di X. XXXXXXX, Il contratto romano tra forma, consenso e causa, in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di X. Xxxxxxx, Padova, 2006, 85 ss. (ed amplius 102 ss.), il quale evidenzia come «il testo prova, di pari passo con l’uso sempre più esteso del termine contractus a partire da Xxxxxxx a ricomprendere figure di negozi obbligatori disparati, per una presa di cognizione della categoria di contratto obbligatorio, non più tecnicamente limitata come per Xxxxxxx ai soliti contratti consensuali e bilaterali. È del resto riscontrabile nelle fonti la particolare tendenza di
Ulp. 4 ad ed. D. 0.00.0.0: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, [id est in unam sententiam decurrunt]. adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Xxxxxx nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est.
Sintetizzando l’esito di ricerche estremamente vaste e complesse, ciò su cui interessa qui soffermarci afferisce al rilevo sulla base del quale emerge dal testo in esame che la stipulatio, sebbene necessiti di un indice di giuridicità esteriore147 riconoscibile nella pronuncia dei verba, esiste e crea il vincolo soltanto se sorretta dal consensus. In altri termini, la questione oggetto della riflessione del giurista si appunta sul procedimento di formazione della fattispecie contrattuale, imperniato sul rapporto tra conventio e consensus148.
Xx è allora in questo senso che va letta la scelta lessicale ascrivibile ad Ulpiano, in quanto si intende verosimilmente valorizzare l’elemento del consenso connaturato ab origine – vale a dire, sin dalla sua genesi nella legislazione decemvirale – alla stipulatio, affinché dalla stessa possa sorgere un rapporto obbligatorio149. Non senza cogliere un aspetto importante della questione, dunque, un interessante orientamento dottrinale150 ritiene che la stipulatio in questo caso sia da intendersi quale nomen contractus.
Xxxxxxxx a ricercare, in sede interpretativa, l’effettivo intento comune delle parti al di sotto del formalismo degli atti contrattuali che vi si fondano» (così, a p. 103).
147 X. XXXXXXXX, Gratuità e responsabilità contrattuale, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di X. Xxxxxxxx, Padova, 2011, 45 ss., che effettua l’esegesi di un noto passo di Ulpiano, collocato in D. 2.14.1.3, dove egli riferisce «un’opinione di Xxxxx, giurista attivo nella seconda metà del I secolo d.C.» (testualmente, a p. 49). Per quel che qui interessa, può porsi in risalto la circostanza che la presenza degli elementi ‘formali’ – «nelle ipotesi in cui si agiva re, verbis e litteris» (in questi termini, a p. 50) – facesse sì che «la conventio abbandonasse il piano sociologico … per passare in quello giuridico» (così, a p. 50).
148 X. XXXXXX, Il ‘fieri’ della fattispecie contrattuale ‘sine nomine’ e l’evizione dell’‘ob rem datum’, in Diritto @ Storia, XII, 2014, § 1.
149 Al riguardo, si consideri la ricostruzione proposta da C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 38 ss.
150 In proposito occorre immediatamente ricordare il contributo di X. XXXXXXX, Il contratto, cit., 85 ss. (ed amplius 102 ss.), il quale, in relazione al «celebre detto di Xxxxx sulla inerenza della conventio ad ogni obbligazione contrattuale (cioè ad ogni negozio obbligatorio avente una struttura bilaterale)» (in questi termini, a p. 104), finemente argomenta nel senso che il riferimento alla conventio stessa sia da intendersi nella sua caratterizzazione in termini di «nomen generale» (testualmente, a p. 104), dal momento che viene qui adoperato in relazione «a figure non meramente consensuali della quadripartizione tradizionale delle obligationes, in particolare alla stipulatio» (in questi termini, a p. 104). In questa prospettiva, l’A. evidenzia che «nell’ambito del genere conventio quale nomen o verbum generale si individuano quindi esempi di convenzioni che assumono una propria denominazione (un proprio nomen) indifferentemente tratti dai c.d. contratti consensuali, reali e verbali» (così, a p. 104). Similmente, anche X. XXXXXX, «Fiduciam contrahere» e «contractus fiduciae», Napoli, 2012, 111 ss. (e specificamente 117 ss.), che – nell’effettuare l’esegesi di Ulp. D. 2.14.1.3 – puntualmente evidenzia come «per Xxxxxxx sarebbero ‘contractus’ i nomi edittali di convenzioni ex privata causa produttive di obligationes». In
Proseguendo su questo percorso storico, è ora possibile tirare le fila di questo ragionamento, per iniziare ad enucleare alcune ricadute dell’opzione interpretativa suggerita.
Al riguardo, sembra quindi coerente giungere ad evidenziare l’elemento consensuale insito nella litis contestatio, il quale – pur non facendo dell’atto in questione un vero e proprio contratto – vale a identificarne la ‘negozialità’ e la struttura bilaterale. Siamo perciò in presenza di una figura che, in ragione del suo accedere al processo apportandovi la regolamentazione delle parti, può legittimamente configurarsi quale negozio giuridico processuale, sebbene i giuristi romani non abbiano mai completato un’opera di inquadramento dogmatico della fattispecie151.
7. Il segno della cesura storica della ‘cognitio’ giustinianea nell’interpretazione medievale.
Dopo aver riconosciuto l’ampio utilizzo di strumenti negoziali per la gestione convenzionale del conflitto nell’esperienza romana, occorre adesso considerare le ragioni della cesura storica che ha segnato l’effettivo abbandono della negozialità processuale, pur nella perpetuazione del segno della litis contestatio. Xx invero, sin dal passaggio verso il modello statual-legalista giustinianeo, con il passaggio dal processo incentrato su una convenzione che è sintesi della dialettica di parte ad un processo basato su atti di parte, si perde il significato negoziale della stessa litis contestatio152.
Xxxxxx, nella prospettiva sinora delineata, il richiamo al consenso quale elemento strutturale del litem contestari segna la differenza concettuale rispetto alla successiva sistemazione classificatoria operata dai Glossatori153, che – nell’analizzare i
quest’ordine di idee, il giurista, «innestandosi sul discorso di Xxxxx, costruiva la propria esposizione sulle conventiones evidenziando la distinzione tra disciplina ed efficacia procedimentale, e disciplina ed efficacia sostantiva» (testualmente, a p. 125), per giungere alla conclusione che «non ‘si forma’ … la fattispecie contrattuale, né dunque se ne scorge l’effetto sostantivo suo proprio, che è l’obbligazione, in difetto di una struttura bilaterale, sia che la fattispecie si formi con uno spostamento patrimoniale, sia che si formi ricorrendo al formalismo verbale» (in questi termini, a p. 125). Sul punto, occorre poi menzionare la riflessione di X. XXXXXXXX, Lezione introduttiva sul contratto in diritto romano, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di X. Xxxxxxx, Padova, 2006, 23 ss. (e, più diffusamente, 30 ss.), che – in relazione al passo D. 2.14.7.1 – per quanto concerne le conventiones che non acquistano alcun nome specifico, riflette sul fatto che «il contesto e soprattutto il seguito del passo lasciano intendere senza possibilità di dubbio che … l’elemento discriminante è la causa, ossia lo scopo pratico perseguito dalle parti e su cui si forma il contenuto specifico della conventio» (in questi termini, a p. 30 s.). Invece, «per altre conventiones l’elemento discriminante, anziché la causa è la forma, come quella della stipulatio (menzionata infatti da Xxxxxxx in D. 2.14.1.4 accanto a emptio venditio, locatio ecc.) o quella del nomen transcripticium» (testualmente, a p. 31).
151 X. XXXXXXXX, La ‘litis contestatio’, cit., 137 ss. (ed amplius 150 ss.), che sottolinea, in questa direzione,
«la riluttanza dei giuristi romani a inserire precisamente la l.c. nell’elenco dei contractus» (testualmente, a p. 154 s.).
152 Il notevole ridimensionamento del ruolo della litis contestatio è stato segnalato, in particolare, da X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635 ss.
153 X. XXXXXXXX, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania (trad. it. di X. Xxxxxxxxxx e S.A. Xxxxx, con una presentazione di X. Xxxxxxxxxx, de Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deustschen Entwiklung2, Göttingen, 1967), I, Milano, 1980, 70 ss., il quale
testi classici, evidenziando una mutata visuale già riscontrabile nelle categorie giustinianee – hanno visto nel iudicium contrahere una figura collocabile tra le obligationes ex quasi contractu.
Leggiamo infatti,
gl. iudicio contrahi in l. Licet praetor § idem scribit ff. de peculio (D. 15.1.3.11): id est sententia. Nota ex sententia quem obligari ex quasi contractu: ut supra de noxa. quotiens [Iul. 4 ad Urs. Fer. D. 9.4.34] et l. sequen. [Ulp. 41 ad Sab. D. 9.4.35]. Argumen(tum) contra(rium) C. de usur. rei iudicatae l. fin. [Iust. C. 7.54.3] in eo quod dicit sortis tantum currere centesimas quadrimestres usuras, non usurarum: licet sint in condemnationem deductae. Accursius (nell’ed. Venetiis, apud Iuntas, 1598).
Quel che emerge dalla Glossa è, in sintesi, la ricostruzione per la quale il concetto di contrahere iudicium non varrebbe più ad indicare un negozio, ma piuttosto un obligari ex sententia, che sorgerebbe ex quasi contractu154. In altri termini, il sorgere della
ricorda che i Glossatori – il cui metodo «ha dominato le Facoltà giuridiche europee fino a dopo la fine del Medioevo e all’instaurarsi dell’Usus modernus – fondavano la loro analisi sull’asserzione per la quale
«come ratio scripta già il singolo testo giuridico (locus)» (così, a p. 70) avrebbe rappresentato «di per sé una verità senza che vi sia bisogno d’un suo inquadramento sistematico nel complesso di tutti gli altri testi» (in questi termini, a p. 70). Per questa ragione, «la forma fondamentale secondo cui procede questo progressivo chiarimento d’ogni singolo luogo testuale è la glossa» (testualmente, a p. 71). Peraltro, ben presto «i Glossatori non si limitaron più all’esegesi puntuale di singoli passi» (così, a p. 73), per cercare, nella «convinzione che, all’interno del patrimonio tramandato dalla tradizione, operasse una unica ratio» (in questi termini, a p. 73), «il significato razionale comune a tutti i testi e ad esporlo secondo un ordine sillogicamente concludente» (con questa esatta espressione, a p. 73).
154 Sembra nondimeno utile rilevare come, nella costituzione imperiale menzionata da Accursio al fine di addurla quale esemplificazione in termini di argomentazione contraria, ossia Iust. C. 7.54.3, la regola da essi individuata subisca un’eccezione, in ragione dell’origine legale e quasi contrattuale dell’obbligazione sorta in forza del giudicato. In particolare, la costituzione in questione essenzialmente stabilisce che le usurae relative alla res iudicata siano dovute sul parametro del capitale originario e non piuttosto sul capitale calcolato computando le usurae pattiziamente previste. Si prevede inoltre che gli interessi così definiti, cui ci si riferisce nel testo con il termine di ‘centesimae quadrimestres’ siano fissati al tasso dell’1 % al mese, rispetto alla decorrenza del quale Xxxxxxxxxxx aveva stabilito una dilazione di quattro mesi per l’azione esecutiva. In questo quadro, dunque, l’interesse dovrà intendersi rapportato al solo capitale e non anche in funzione degli interessi stabiliti nel primo contratto, essendosi stabilito che in nessun caso potesse pretendersi il pagamento degli interessi degli interessi (usurae usurarum), al fine di correggere eventuali sperequazioni. Xx è allora in questo senso che si può affermare che il primo contratto si innova in forza di giudicato. Per questa ragione, siccome si pongono gli interessi dopo la sentenza, si avrà inizialmente il contratto da cui sorge l’obbligazione, con gli interessi convenzionali; poi, in seguito al giudicato, l’1% al mese sul capitale dopo il termine dilatorio di quattro mesi. Addentrandoci su questa via, sembrerebbe che la condanna agli interessi qui considerata derivi ex lege, non quasi ex contractu. In altri termini, è come se si fosse in presenza di un’obbligazione che sorge direttamente dall’ordinamento: lege obligamur. Ecco perché può forse opinarsi nel senso che Accursio sostenga che la costituzione di Xxxxxxxxxxx appaia porsi contro questa dimensione quasi contrattuale della sentenza, dal momento che le usurae della res iudicata decorrono dalla legge e non si correlano al primo contratto. Da quest’ultimo unto di vista, questo elemento quindi proverebbe contro perché, sebbene inserite nella condanna, non sarebbero dovute le usurae usurarum, per cui in fin dei conti la somma attribuita risulta essere soltanto quella derivante dalla scelta del legislatore.
soggezione al giudicato non appare qui ricondotto all’accordo delle parti sul programma processuale, ma bensì, secondo questa impostazione dogmatica, troverebbe origine in un differente atto lecito, estraneo ad un modello di atto a struttura bilaterale e per questo non accostabile alla categoria di contratto.
In questa logica, i Glossatori si limitano a valorizzare il sorgere di un’obbligazione, quale emerge dal passo di Ulpiano, adoperando ai fini dell’inquadramento della figura una categoria – quella dei ‘quasi contratti’ – di matrice postclassica. Ed invero, dal modello adoperato dai Glossatori può evincersi la circostanza che l’istituto in questione ha subito una riformulazione sulla base della quale è stato disconosciuto il profilo della bilateralità dell’atto. Specificamente, la genesi dell’obbligazione che nasce in forza del giudicato è ricondotta ad una fonte legale piuttosto che all’accordo delle parti sul programma processuale. In questo quadro, appare quindi chiaro come la circostanza che le fonti conservino traccia della litis contestatio derivi in realtà dal fatto che si perpetua il segno, ma con una diversa collocazione teorica e pratica155. Ad orientarsi in quest’ordine di idee, la litis contestatio valeva a creare un rapporto obbligatorio di carattere quasi contrattuale tra i litiganti156.
Invero, in proposito, può subito osservarsi come rispetto alla categoria contrattuale i quasi contratti – relativamente ai quali la casistica espressa nel Digesto risulta comunque presupposta dall’opera esegetica di Accursio157 – difettino proprio della ‘consensualità’. A ben vedere, se si fa riferimento alla sistemazione di epoca giustinianea, già i casi che sono stati tradizionalmente annoverati nell’ambito di tale precedente categorizzazione relativa alle obligationes quasi ex contractu – quali la solutio indebiti, la negotiorum gestio, la tutela, il legatum per damnationem e sinendi modo, cui si aggiunge la communio incidens158 – non includono la litis contestatio. Essi piuttosto rappresentano obbligazioni da atto lecito, non inquadrabili quali figure di contractus, ove si consideri come si sia in presenza, in linea di principio, di atti non bilaterali. Soltanto la solutio indebiti appare strutturalmente bilaterale, «ma vi manca l’intento tipico delle parti rivolto a creare un’obbligazione (com’era già evidenziato in Gai 3.91)»159. Può perciò cogliersi, in questo quadro, la distanza teorica che separa il negozio giuridico processuale in esame dalle obligationes quasi ex contractu. Il che, in buona sostanza, sembra rappresentare il segno del fatto che non vi sia una continuità storica nel prototipo della gestione convenzionale del processo, che pare perdersi già con Xxxxxxxxxxx ed appare oramai caduta nell’oblio per i Glossatori.
Invero, nell’interpretazione del Duecento160, può dunque osservarsi, in primo luogo, come – pur giungendo a delineare quella dei quasi contratti come una categoria
155 In proposito, cfr. X. XXXXXXXX, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 580 ss., per la quale «Xxxxxxxxxxx non si limitava ad un formale omaggio al diritto classico», reputando come «egli fosse classicista nel senso di un legislatore che guarda al passato, ma per avallare risoluzioni escogitate pensando al presente» (testualmente, a p. 584).
156 X. XXXXXXXXX, ‘Litis contestatio’, cit., 635 ss.
157 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 140.
158 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 609 ss.
159 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 610.
160 In proposito, cfr., in particolare, X. XXXXXXX, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2000, 296 ss.
aperta – alla stessa venga riconosciuto carattere autonomo. Infatti, ai Glossatori doveva apparire ben chiaro che le Istituzioni imperiali si riferivano anche a questa categoria quando accostavano altre due tipologie di fonti delle obbligazioni a quelle da contratto e da delitto161. Da quest’ultimo punto di vista, la non incontroversa sistemazione dei quasi contratti emerge da una glossa accursiana relativa alla questione delle obligationes ex variis causarum figuris, in cui si legge:
gl. figuris in l. obligationes ff. de obligationibus et actionibus (D. 44.7.1 pr): Quaeri consuevit, quae sunt istae obligationes quae oriuntur ex variis figuris causarum? Respon(dent) quidam, illae quae sunt ex quasi contractu, et ex quasi maleficio: et talem dicunt condictionem furtivam, scilicet ex quasi contractu, et ex quasi maleficio, et secundum hoc sunt tantum tria membra. Alii dicunt, ut Hug(olinus) hoc esse dictum propter condictionem furtivam, quae habet insignia contractuum et maleficiorum, non tamen est ex maleficio, quia datur in heredem, ut Insti. de obli quae ex delic. in fi. [I. 4.1.19 in fine] Item non ex contractu, quia non daretur in quantum est locupletatum peculium tantum, sed in solidum quatenus peculium pateretur: ut supra de pecu. l. tertia § ex furtiva causa [D. 44.7.1 pr.]. Et secundum Hug(olinum) dic supra ex contractu, scilicet vel quasi. Item ex maleficio, supple, vel quasi: ut sit argumentatio à sufficienti partium enumeratione: et secundum hoc sunt quinque membra. Vel intelligendum est de obligationibus, quae non sunt iure scilicet ordinario; sed magis proprio quodam iure, id est extraordinario separato à contractu, vel quasi, et maleficio vel quasi, ut actiones quae dantur loco interdictorum: ut in interdicto quod vi, aut clam: et eo casu cum datur contra eum, qui non fecit, sed ratum habet: vel de noxa. Quibus convenitur dominus ex delicto servi: vel de pauperie: vel de ac(tione) quod metus causa, quae datur contra bonae fidei possessorem, et in similibus. De utilibus autem dico per Praetores dari, non oriri ex contractu ex quo directa, vel alio facto ex quo datur directa: ut ex albo Praetoris corrupto. Nam cum quis vendidit actionem suam: emptori datur utilis, non nascitur. Vel dic, datur utilis non ex illa venditione: sed potius ex ipso veteri contractu: ut no(tat) C. de leg. l. ex legato [C. 6.37.18]. De act(ione) in rem, dic quod non nascitur ex obligatione: ut Insti de act. § 1. (I. 4.6.1). Unde nec proprie dicitur actio: ut infra eo(dem) l. actio [D. 44.7.51]. Item stipulationes praetoriae et interdicta non sunt proprie actiones: ut infra eo(dem) l. actionis verbo (D. 44.7.37). De actionibus quae oriuntur ex pactis incontinenti appositis: dicunt quidam quod sunt ex variis figuris causarum: sed possunt dici ex contractu, cum sint obligatoria talia pacta vel conventiones. Nam et ipsum pactum est contractus. Accur(sius) (nell’ed. Venetiis, apud Iuntas, 1598).
Condensando un discorso ampio e complesso, giova immediatamente considerare come Accursio anzitutto dia conto di una dissensio sorta tra i Glossatori sul significato da attribuirsi alla categoria delle obligationes che sorgono ex variis causarum figuris. In particolare, sulla base del primo degli orientamenti riferiti, i genera delle fonti delle
161 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 133 ss., che segnala come la metamorfosi delle fonti delle obligationes quasi ex contractu verso i quasi contratti «risale all’attività esegetica relativa alle Istituzioni giustinianee che precedette quella della scuola di Bologna … Ciò è in particolare testimoniato dall’apparato di glosse alle Istituzioni che va sotto il nome di Glossa torinese» (così, a p. 135).
obbligazioni sarebbero essenzialmente tre, dal momento che alle obbligazioni da contratto ed a quelle da delitto si sarebbero collocate le obbligazioni generate da fonti di carattere misto, relativamente alle quali è stata individuata essenzialmente l’ipotesi dell’obbligazione sanzionata con la condictio furtiva, da riconoscersi come inerente alle variae causarum figurae in quanto partecipante ad un tempo sia della natura dei quasi contratti sia di quella dei quasi delitti, sebbene non idonea ad essere ricompresa interamente in una delle due categorie162. Viceversa, la seconda impostazione muoveva dalla critica alla precedente sotto il profilo per il quale la figura con fonte mista si caratterizzerebbe piuttosto per il fatto di non far parte delle obbligazioni la cui fonte si inscrive in una delle altre categorie individuabili, quali sarebbero, specificamente, il contratto, il quasi contratto, il delitto ed il quasi delitto163. Da quest’ultimo punto di vista, accolto dallo stesso Xxxxxxxx, i genera obligationum erano dunque classificabili nell’ambito di cinque categorie. Nondimeno, il giurista procede ad una ridefinizione delle obbligazioni ex variis causarum figuris, includendovi diverse ipotesi ed escludendone infine delle altre che vi erano state ricomprese da parte di altri glossatori. In questo quadro, sembra interessante osservare come – sebbene non si soffermi sulla categoria in questione, per la sua definizione postulando la casistica rinvenibile nel Digesto, oltre ai precedenti approdi della sua scuola di appartenenza164 – Accursio presupponga il riconoscimento dell’autonomia del genus dei quasi contratti.
In questo quadro, segnalandosi la continuità con il modello giustinianeo delle obligationes quasi ex contractu, non si vede come la categoria dei quasi contratti non possa anche per i Glossatori differenziarsi in altro dai contratti che per la mancanza del carattere della consensualità, così evidenziando un definitivo mutamento di prospettiva rispetto al modo di intendere la litis contestatio, che dai Glossatori risulta ascritta proprio nell’ambito dei quasi contratti.
Ed invero, questa impostazione trova riscontro in un’altra delle fonti del diritto comune. Ci si riferisce in particolare a:
Summa Trecensis, 4.10.2 (H. Fitting, 83, lin. 12-15): item pacto seu conventione cessante agis interdum aliquid in re mea, pro quo facto equum est ita te teneri, ac si pactum intervenisset, veluti si tutelam vel curam meam amministrasti, vel me absente negotia mea gessisti.
Emerge infatti chiaramente da questo passo, pur nella sua essenzialità, come nella dottrina giuridica medievale l’elemento del consenso non assumesse alcun ruolo nella configurazione della categoria dei quasi contratti165. Il che ben si comprende se si considera, in particolare, la locuzione ita te teneri ac si pactum intervenisset, dal momento che
162 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 139 ss. 163 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 139 ss. 164 C.A. XXXXXXX, Materiali, II, cit., 139 ss.
165 In proposito, si veda X. XXXXXXX, ‘Indebiti solutio’ ed arricchimento ingiustificato. Modelli storici, tradizione romanistica e problemi attuali, Padova, 2009, 3 ss. In particolare, il testo della Summa è tratto da ‘Summa Codicis’ des Irnerius mit einer Einleitung, herausgegeben von H. Fitting, Berlin, 1894 (rist.: Frankfurt am Main, 1971), 83. Per quanto concerne la questione paternità della Summa Trecensis, in un primo momento attribuita ad Xxxxxxx dal Fitting, si può far riferimento, per tutti, ad E. CORTESE, Le grandi linee, cit., 259 s.
si predica come corretta l’equiparazione in punto di disciplina dell’ipotesi considerata (ossia, quella della negotiorum gestio), al caso in cui un patto fosse effettivamente intervenuto, così presupponendo che in realtà il consenso difetti. In questa logica, ben si comprende come la riflessione sul quasi contratto si fondi su una prospettiva di carattere squisitamente rimediale166.
Le considerazioni sinora svolte, che implicano l’abbandono della logica negoziale del processo, del resto, trovano riscontro in un altro passo nel quale i Glossatori hanno analizzato il profilo ontologico delle stipulationes praetoriae su cui ci siamo in precedenza soffermati167.
Si tratta, in particolare, di,
gl. iudiciales in l. stipulationum Inst. de divisione stipulationum (I. 3.18 pr.): Quando iudex cognoscit de aliqua causa, et pendente causa incidenti facit interponere cautionem et dicuntur iudiciales a iudice (nell’ed. Venetiis, 1569).
gl. praetoriae in l. stipulationum Inst. de divisione stipulationum (I. 3.18.1): Quando non aditur iudex aliqua de causa sed principaliter ut talis cautio interponatur: veluti damni infecti et cautio legatorum praestandorum: et talis est differentia inter ea quae dicta sunt. Sed cum hic ponatur praetoria ut species opposita iudiciali: quare ff. de praeto. stip. l. j. in prin. (D. 46.1.5 pr.) ponitur ut genus? Respon(deo) ibi, aliter accipitur iudicialis, supra a iudicio: hic a iudice: ut ff. manda. l. Xxxxxx (D. 17.2.38) (nell’ed. Venetiis, 1569).
Xxxxxx, da quest’ultimo punto di vista, sembrerebbe che le stipulationes iudiciales vengano ricondotte, in un’accezione riduttiva, alla cautio che il giudice impone alla parte di prestare in pendenza di un accertamento incidentale. Per quanto concerne quelle praetoriae, invece, le stesse risultano ascritte all’ipotesi in cui si ricorre alla stipulatio in via principale. Ed è in questo – ossia nella natura dell’accertamento cui la cautio risulta strumentale – che si individua la differenza tra le due fattispecie. A ben vedere, una simile configurazione del negozio non vale più a qualificarlo come un meccanismo volto a creare regole processuali. In altri termini, se si riflette sulla distanza tra la stipulatio come viatico per differenti modalità di tutela nel processo e la mera prestazione di una garanzia nell’ambito di una procedura predeterminata, ben si comprende come le stipulationes interpretate dalla sensibilità dei Glossatori non valgano a configurare regole da applicarsi in un processo. Ed è in questo che emerge come con lo statual-legalismo giustinianeo si sia perso completamente il senso della negozialità del processo, dal momento che – come si può osservare – anche le questioni classiche sono state successivamente reinterpretate in questa logica.
Conclusivamente, occorre considerare come, una volta abbandonata l’idea di una gestione convenzionale della lite, l’esperienza giuridica successiva si sia allontanata altresì dal concetto di azione in senso sostanziale. In particolare, esso perde di
166 Così, quasi testualmente, X. XXXXXXX, ‘Indebiti solutio’, cit., 4 e nt. 8.
167 In particolare, il testo rappresenta un’analisi di Inst. 3.18pr.: Stipulationum aliae iudiciales sunt, aliae praetoriae, aliae conventionales, aliae communes tam praetoriae quam iudiciales. 1. Iudiciales sunt dumtaxat, quae a mero iudicis officio proficiscuntur: veluti de dolo cautio vel de persequendo servo qui in fuga est, restituendove pretio. 2. Praetoriae, quae a mero praetoris officio proficiscuntur, veluti damni infecti vel legatorum. praetorias autem stipulationes sic exaudiri oportet ut in his contineantur etiam aediliciae: nam et hae ab iurisdictione veniunt.
significato, sfumando nella costruzione teorica che ha condotto al riconoscimento dei diritti soggettivi, nell’elaborazione della Scuola iberica di diritto naturale e del giusnaturalismo razionalista tra Sei e Settecento. A ben vedere, l’impostazione teorica della prima Scuola, nel sostenere innovativamente che dai principi del diritto, necessari ed evidenti per la loro razionalità, fosse possibile inferire in via deduttiva regole con uno specifico contenuto, di carattere stabile ed eterno168, ha posto le basi per «i sistemi giuridici logicizzanti del secolo XVIII»169. In questa prospettiva, la corrente del giusrazionalismo moderno è arrivata a configurare l’esistenza di «diritti attribuiti dalla natura ad ogni uomo di dare libero corso ai propri impulsi istintivi o razionali»170, in funzione della propria conservazione. La necessaria limitazione degli stessi nell’ambito della società civile avrebbe peraltro comportato una maggiore garanzia di carattere pubblicistico rispetto ai diritti che sarebbero residuati in capo ai soggetti in seguito al c.d. contratto sociale. A ben vedere, «la teoria dei diritti naturali soggettivi, che cominciò ad avere subito applicazioni importanti nel campo del diritto pubblico, era in sostanza una teoria del diritto privato, poiché riguardava originariamente il modo d’essere delle relazioni fra gli individui»171.
In questo quadro, la teoria dei diritti soggettivi ha importato, dunque, una seconda cesura nella storia del negozio giuridico processuale, facendo venir meno la centralità dell’azione, che – non valendo più ad assorbire in sé la posizione sostanziale azionabile – si scompone, di conseguenza, nel diritto d’azione, quale diritto sostanziale strumentale al processo, e l’azione – quale actio mota – da intendersi come procedimento per giungere alla sentenza. Ed è allora in questo senso che va letto il senso dell’attuale recupero del modello romano nella sua reale portata, non potendosi il negozio giuridico processuale che esplicare in entrambi i profili nei quali si è disgiunta l’azione in senso sostanziale, al fine di valorizzare la dimensione convenzionale della gestione della lite sia nella prospettiva della tutela dei diritti, sia per quanto concerne il rito.
168 In proposito, si veda A.M. HESPANHA, Introduzione alla storia del diritto europeo (ed. italiana a cura di X. Xxxxxxxxx de Panorama histórico da cultura jurídica europeia2, Lisboa, 1999), nuova ed. Bologna, 2003, 179 ss.
169 A.M. HESPANHA, Introduzione, cit., 180.
170 A.M. HESPANHA, Introduzione, cit., 192.
171 A.M. HESPANHA, Introduzione, cit., 193.
Capitolo Terzo
UN APPROCCIO CASISTICO ALL’ESPERIENZA ITALIANA CONTEMPORANEA
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. - 2. Processo civile. - 2.1. Negozi incidenti sull’agere in senso sostanziale ossia sulla tutela giurisdizionale dei diritti. - 2.1.1. ‘Gentlemen’s agreements’. - 2.1.2. L’accordo di arbitrato irrituale. - 2.1.3. Regime convenzionale delle eccezioni ex art. 1462 c.c. -
2.1.4. Regime convenzionale delle prove ex art. 2698 c.c. - 2.1.5. Regime convenzionale dell’interpretazione. - 2.2. Negozi incidenti sull’agere in senso processuale implicanti configurazione del rito. - 2.2.1. Accordi sulla competenza. - 2.2.2. Accordi sulla giurisdizione. -
2.2.3. Segue. L’accordo di arbitrato rituale.- 2.2.4. Accordi sulla semplificazione del rito. - 2.2.5. L’accordo sulla sospensione ex art. 296 c.p.c. - 2.2.6. La richiesta di decisione secondo equità ex art. 114 c.p.c. - 2.2.7. Disponibilità negoziale dei mezzi di gravame: dall’accordo ante sententiam sulla revisio per saltum al patto di rinuncia preventiva alle impugnazioni. - 2.2.8. Le conclusioni conformi. - 2.2.9. La rinuncia agli atti. - 3. Processo penale. - 3.1. Querela. - 3.2. La convenzione nel processo penale: dal superamento del disposto dell’art. 439 c.p.p. all’applicazione della pena su richiesta delle parti. - 3.3. La convenzione nell’esecuzione della pena. - 3.4. Rinuncia all’amnistia, alla prescrizione.
1. Considerazioni introduttive.
Si è osservato nei capitoli precedenti che quella del negozio giuridico processuale si presenta come una categoria di atti mediante i quali è consentito all’autonomia privata configurare il rapporto processuale, dal momento che la natura pubblicistica della giurisdizione non si pone di per sé in contrasto con l’operatività del principio dispositivo. Specificamente, si è riconosciuta la trasversalità del principio della buona fede, che si traduce nella tendenziale bilateralità della gestione negoziale del processo, da considerarsi meritevole in quanto contribuisca ad una migliore realizzazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. sub specie della ragionevole durata del procedimento.
A ben vedere, il prototipo della gestione bilaterale del processo che si rinviene nell’ambito del processo formulare romano sembrava perdersi già con la giurisdizione statual-legalista giustinianea. Nondimeno, pur non potendosi individuare una continuità
storica, il modello mostra di ritrovare un significato ed un appropriato sostrato giuridico proprio nell’attuale principio dispositivo.
In questa prospettiva, la valorizzazione del più ampio significato che la nozione di agere rivestiva nell’ambito del diritto romano consente di delineare con maggiore precisione il profilo funzionale dei negozi giuridici processuali, con l’effetto di determinare esattamente quali tipi negoziali possano ricomprendersi all’interno della categoria in questione. In particolare, occorre individuare il criterio discretivo nel diverso atteggiarsi della necessaria incidenza dell’atto negoziale sul processo, distinguendo così tra atti incidenti sul regime della tutela giurisdizionale dei diritti ed atti incidenti sul rito con la configurazione, in determinati casi, di regole destinate ad operare nel processo.
In buona sostanza, si configura come negozio giuridico processuale l’atto di autonomia privata incidente sull’agere in senso sostanziale, mediante la regolamentazione di aspetti inerenti alla tutela giurisdizionale dei diritti, oppure sull’agere in senso processuale, con la realizzazione di un assetto di interessi avente ad oggetto la predisposizione di regole inerenti al processo come organizzazione, modulando il rito in una prospettiva di semplificazione della procedura.
Ad orientarsi in quest’ordine di idee, l’analisi del profilo funzionale della categoria di atti in questione impone dunque di fare riferimento alla predisposizione, nell’esercizio dell’autonomia privata, di una regola di configurazione del processo, secondo una duplice valenza. In altri termini, nel primo caso, si tratta di negozi aventi ad oggetto la disciplina dispositiva del codice civile che concerne le modalità di attuazione della tutela giurisdizionale dei diritti, consentendo di predisporre una regolamentazione maggiormente congeniale agli interessi delle parti nei limiti della compatibilità con i principi dell’ordinamento. Nel secondo caso, vengono in evidenza accordi che riguardano le modalità organizzative del procedimento, mediante i quali è permesso alle parti trovare un assetto più funzionale ad una rapida definizione della controversia. In questa accezione, occorre dunque far riferimento al negozio diretto a creare la regola del processo, modulando le regole processuali in una prospettiva funzionale all’attuazione della ragionevole durata del processo.
Il che permette di ricavare una base concettuale conformemente alla quale si può giungere a delimitare l’insieme delle figure qualificabili sub specie di negozi giuridici processuali – mediante la loro riconduzione essenzialmente nell’ambito dei due insiemi funzionalmente distinguibili nella categoria in esame – rispetto a quelle fattispecie che, pur dispiegando i propri effetti indirettamente anche sul processo, rappresentano in realtà delle tipologie di negozi giuridici di carattere squisitamente sostanziale.
Ebbene, l’opzione ricostruttiva qui suggerita induce innanzitutto ad escludere che gli istituti della confessione giudiziale e del giuramento decisorio rappresentino delle figure di negozi giuridici processuali.
Ed invero, il regime della confessione – che trova la sua collocazione codicistica nell’ambito dei mezzi di prova – è contenuto negli artt. 2730 ss. cod. civ. e negli artt. 228 ss. cod. proc. civ., xxxxxxx si definisce la stessa come «la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte»1. A ben vedere, come è
1 Art. 2730 cod. civ.
stato posto in evidenza in dottrina2, è da ritenersi che la confessione non appartenga effettivamente all’insieme dei mezzi probatori. Ed invero, non si sarebbe in presenza di una prova con efficacia legale, ma di un atto di disposizione del diritto da parte dell’interessato. Il giudice risulta, infatti, vincolato dalla dichiarazione confessoria in quanto questa trova il proprio «fondamento nell’autonomia negoziale e nel potere dispositivo delle parti, il cui scopo è quello di consentire ad una di esse di sfuggire all’onere probatorio da assolversi di norma con quei mezzi soggetti al prudente apprezzamento del giudice»3. In questa logica, ciò trova conferma nel requisito del c.d. animus confitendi richiesto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità4, ossia nella volontà di rendere una dichiarazione vincolante di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte5. Il che rende manifesta la circostanza che gli effetti della confessione non si traducono nella creazione di una regola procedimentale, ma piuttosto operano direttamente sul diritto sostanziale e soltanto in via indiretta sul processo.
Le considerazioni svolte a proposito della natura di negozio sostanziale della confessione si percepiscono con maggiore nitidezza con riguardo al giuramento decisorio6.
Xx invero, la sua realizzazione conduce alla incontrovertibile definizione del giudizio, senza che in capo al giudice residui alcuna possibilità di apprezzare liberamente i fatti controversi, se si eccettua il mero riscontro circa il fatto che esso sia stato prestato oppure no. Ai fini della decisione appare poi del tutto irrilevante l’effettiva veridicità di ciò che è stato giurato7. Infine, i requisiti della capacità della parte e della obiettiva disponibilità del diritto controverso rendono palese che si tratta di un atto avente la natura di negozio giuridico sostanziale.
Le medesime conclusioni possono trarsi con riguardo alle fattispecie – apparentemente affini alla categoria di negozio giuridico processuale – di conciliazione giudiziale, rinuncia alla prescrizione, transazione, mediazione ed a quella (di recente introdotta) della negoziazione assistita, rispetto alle quali l’effetto sul processo rappresenta soltanto un riflesso della disposizione del diritto sostanziale sottostante.
In particolare, la conciliazione ha luogo, sulla base della disposizione di cui all’art. 185 cod. proc. civ., in seguito alla richiesta congiunta effettuata dalle parti e – come è stato posto in evidenza8 – comporta sia effetti sostanziali simili a quelli della transazione
2 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 461 ss.
3 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 461.
4 Al riguardo, basti menzionare, ex pluribus, Cass., 10 ottobre 2007, n. 21258, in Ius Explorer, Milano, ult. agg.
5 In proposito, si veda X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 461 ss., il quale, nel contrastare la tesi che qualifica la fattispecie alla stregua di una prova legale, sottolinea che «se la confessione ha gli stessi effetti pratici di un atto dispositivo del diritto in contesa, e se per tal ragione si richiedono il potere di disporre e la oggettiva disponibilità del diritto, non si vede perché non ne dovrebbe avere anche la stessa natura giuridica, se non per una arbitraria interpretazione in contrasto con il diritto positivo». Per la posizione avversata, cfr. X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile. Il processo ordinario di cognizione20, II, Torino, 2009, 254 ss., il quale discorre di «indiretta portata dispositiva della dichiarazione confessoria» (in questi termini, a p. 259).
6 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 466 s.
7 X. XXXXXXXXXX, Manuale, I, cit., 466 s.
8 X. XXXXXXXXX, Diritto processuale civile, II, cit., 84 ss.