«FORMALISMO E CONTRATTO DI LOCAZIONE»
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
CORTE DI APPELLO DI ROMA
UFFICIO DEI REFERENTI DISTRETTUALI PER LA FORMAZIONE DECENTRATA CIVILE
INCONTRO DI STUDIO SULLE LOCAZIONI
29 SETTEMBRE 2005
«FORMALISMO E CONTRATTO DI LOCAZIONE»
di Xxxxx Xx Xxxxxx
1. La locazione dalla forma libera alla forma vincolata.
Tra le più rilevanti novità normative degli ultimi anni in materia locatizia è sicuramente da annoverare l'introduzione del requisito della forma scritta «per la stipula di validi contratti di locazione» abitativa ai sensi dell'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431.
Si tratta di un capovolgimento della regola posta dal codice civile — vedremo tra breve perché —, e di un capovolgimento che ha luogo proprio nel momento in cui il legislatore, con la legge del 1998, sembra voler restituire il contratto di locazione, in una significativa misura, all'autonomia dei contraenti, operando così proprio nel senso della restaurazione della disciplina codicistica.
Xxxx, allora, sorgere un primo e fondamentale quesito posto dalla nuova previsione formale: perché il legislatore che intende tornare a valorizzare l'autonomia negoziale dei contraenti, o, come pure si potrebbe dire utilizzando un'espressione non giuridica, affidarsi al libero mercato, opera poi in controtendenza, assoggettando il contratto al requisito della forma scritta?
Vedremo che una simile ipotetica contraddittorietà di scelte è da escludere e che, invece, la decisione di assoggettare il contratto di locazione abitativa al requisito della forma scritta, sia pure discutibilmente realizzata sul piano tecnico, possiede una sua logica niente affatto arcana.
E di qui troveranno soluzione diverse questioni applicative di notevole rilievo pratico.
2. La locazione nell'impianto codicistico.
Per comprendere l’evoluzione della disciplina della forma del contratto di locazione, occorre muovere dalla disciplina codicistica, il che richiede una breve premessa sulla configurazione della locazione nel codice civile.
La caratteristica saliente della locazione nel disegno codicistico sta nella sua astratta commutatività, ossia nella unitarietà tipologica, che si traduce in indifferenza dell'ordinamento rispetto alla natura e alla destinazione del bene concesso in locazione. Il legislatore del 1942 ha disciplinato la locatio rei separatamente dalla locatio operis e dalla locatio operarum, che, nel codice civile del 1865 non erano ancora ben distinte. Ma, all'interno della locatio rei, non ha compiuto alcuna ulteriore distinzione: sia che le parti intendano stipulare la locazione di una bicicletta, oppure di una casa di abitazione, di un capannone industriale oppure di un frutteto, la disciplina giuridica è pressappoco la medesima. E dunque la regolamentazione della locazione è stata suddivisa in una parte generale, sempre applicabile, e due parti speciali dedicate alla locazione di fondi urbani ed all'affitto, inteso quale locazione di cosa produttiva.
La dottrina ha riassunto i termini della questione ponendo l'accento sulla neutralità del congegno di scambio previsto dal legislatore: neutralità, cioè, rispetto al contesto economico-sociale in cui il contratto di locazione si conclude ed alle posizioni delle rispettive classi di contraenti. Ed ha posto in evidenza come la ricostruzione del contratto in termini di neutro scambio tra il godimento di una qualsiasi cosa ed un prezzo non sia, per così dire, nient'affatto neutra:
Non c’è bisogno di molte parole per sottolineare quale forza sia esercitata su quelle elaborazioni, per un verso, dalla considerazione dell’autonomia privata come piena libertà di determinazione del contenuto del contratto, anello di congiunzione tra la proprietà («diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta») ed il regolamento contrattuale; per altro verso, dalla considerazione della locazione esclusivamente come mezzo tecnico che, preservando per intero al proprietario le sue prerogative e «non investendo la sostanza della cosa», nondimeno gli consente di «trar profitto dai suoi beni». La semplice combinazione dei due concetti ora esposti vale a dar ragione della configurazione assolutamente dominante nella dottrina del tempo del contratto di locazione come schema neutro, idoneo allo scambio contro prezzo di qualunque cosa suscettibile di godimento, largamente indifferente alle caratteristiche del bene che ne forma oggetto
(Confortini 1988, 52).
Dinanzi alla neutralità del contratto di locazione non v'è, naturalmente, il legislatore non ha ravvisato alcuna esigenza di fissare specifiche regole in tema di disciplina della forma, speciali rispetto a quelle ordinariamente previste.
Occorre accennare, allora, alla regola di base che il codice civile pone in tema di disciplina della forma.
Esso, secondo una diffusa opinione, stabilisce il principio della libertà di forme negoziali. Ciò si desume dalla regola generale stabilita in tema di nullità del contratto dall'art. 1418 c.c., in relazione all'art. 1325, n. 4, c.c. secondo cui il contratto è nullo se manca del requisito della forma, «quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità».
Nell'ambito di questa impostazione, come è stato evidenziato dalla dottrina (da ultimo Xxxxxxxxx 2004, 78 ss.), la previsione della forma scritta possiede una pluralità di funzioni. Da un lato è posta a tutela delle parti in vista: a) della certezza dei rapporti giuridici; b) dell'univocità dell'atto; c) della serietà della dichiarazione, assolvendo una funzione di responsabilizzazione del consenso. Sotto questo aspetto, si può dire che la forma ha sempre a che vedere con la particolare importanza dell'atto. Dall'altro lato essa è posta a tutela dei terzi, nel senso che ha lo scopo di consentire la conoscibilità dell'atto da parte dei medesimi.
Entrambi questi due aspetti, in effetti, si rinvengono nella disciplina codicistica del contratto di locazione.
Il requisito della forma è prescritto sotto pena di nullità nel solo caso di locazione ultranovennale, ai sensi dell'art. 1350, n. 8, c.c., dunque nel caso che l'impegno sia particolarmente gravoso da entrambi i lati del rapporto. Questa previsione, poi, si collega a quella dell'art. 1572 c.c., secondo cui il contratto di locazione ultranovennale è atto eccedente l'ordinaria amministrazione, la quale a propria volta rinvia all'art. 2643, n. 8, c.c. secondo cui la locazione ultranovennale è soggetta a trascrizione. Ecco, dunque, che il contratto di locazione è contratto di regola a forma libera e che la forma vincolata, in armonia con l'impianto generale del codice, è prescritta in funzione dell'importanza dell'atto e della conoscibilità di esso da parte dei terzi attraverso la trascrizione.
Il disegno del codice civile, perciò, è per questo aspetto organico e coerente. Il contratto di locazione è un congegno di scambio tra godimento e prezzo assolutamente neutro e bilanciato. La forma scritta risponde alle ordinarie esigenze che l'ordinamento riconosce, ponendosi in relazione con l’importanza dell'atto e la sua conoscibilità all'esterno, senza che la particolare finalità che le parti intendano realizzare con la stipulazione del contratto acquisti una qualche rilevanza.
3. Il cambiamento dell’impostazione nell'epoca successiva.
L'ideologia liberale che si respira nella codificazione non ha retto però all'atto dell'applicazione pratica. Sul contratto di locazione si innestano da epoca ben anteriore al codice civile tensioni economico-sociali che il libero mercato non riesce a regolare da sé ed alle quali il legislatore non può rimanere indifferente.
Si sono succedute, allora, innumerevoli leggi e leggine dirette a fornire tutela ad una delle parti del contratto, ossia al conduttore. Si è trattato delle leggi di proroga dei contratti di locazione e di blocco dei canoni, leggi che, in realtà, hanno preceduto di decenni il codice civile (risalgono all’epoca della prima guerra mondiale), ma che il legislatore del 1942 ha volutamente ritenuto di ignorare. Nel periodo postbellico (parliamo ora della seconda guerra mondiale) la necessità di intervenire sui contratti di locazione in essere si è fatta particolarmente pressante, e ciò ha dato luogo a quella pluralità di interventi normativi che va sotto il nome di «regime vincolistico», protrattosi fino al 1978 ed alla legge dell'«equo canone». Il legislatore è intervenuto in successione e senza soluzione di continuità disponendo la proroga dei contratti di locazione e bloccando i canoni. Gli interventi, poi, sono stati commisurati al contenuto del contratto, nel senso che sono state poste specifiche disposizioni in funzione della destinazione d'uso dell'immobile locato: si sono create, così, specifiche regole concernenti le sole locazioni abitative (successione nel contratto, sanatoria della morosità) ed altre regole dirette ad intervenire sulle locazioni di immobili con destinazione commerciale (tutela dell'avviamento). Si è così avuto un passaggio — volendo sintetizzare — dalla disciplina del contratto di locazione alle discipline dei contratti di locazione. Tutto ciò, però, è accaduto, nell'ottica del legislatore, sotto il segno della temporaneità, data l'eccezionalità della situazione del mercato locativo, in attesa del ritorno alla generalizzata applicazione del codice civile.
E tuttavia la ripetizione delle eccezioni ha finito per trasformarsi in regola. Ciò è accaduto soprattutto sotto la spinta della Costituzione, la quali ha indotto a leggere la tutela del contraente debole e, così, la frammentaria disciplina vincolistica, come espressione della realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti: il diritto all'abitazione, individuato nell'ambito dei diritti sociali di cui alla prima parte della Costituzione; la tutela dell'attività economica alla quale l'immobile concesso in locazione è strumentale.
Il legislatore, dunque, è divenuto consapevole che la locazione, come neutro meccanismo di scambio tra un qualsiasi bene ed un prezzo, non può funzionare e che occorre selezionare gli interessi in gioco nel rapporto, schierandosi a tutela del contraente più debole, identificato con il conduttore.
È nata così la legge dell'«equo canone», contrassegnata dall'intento di introdurre non già una transitoria deroga alla disciplina codicistica, ma una stabile regolamentazione delle locazioni urbane, collocata al di fuori del codice, che ha finito per porsi nei confronti della legislazione speciale — come è stato detto — in una posizione di residualità. Il disegno di tutela del contraente debole si è realizzato, in questa fase, attraverso lo strumento della eterodeterminazione dei contenuti contrattuali. I contraenti, cioè, rimangono arbitri del «se» del contratto, ma il contenuto di esso è in larga misura stabilito dal legislatore sulla base di parametri rigidi e predeterminati. Per quanto riguarda la durata, non v'è pressoché nessuno spazio di libertà negoziale né con riguardo alle locazioni abitative, né con riguardo alle locazioni non abitative. Per quanto riguarda il corrispettivo, esso è stabilito dalla legge per le locazioni abitative, mentre le parti sono libere di determinare il canone nelle locazioni non abitative.
Quanto alla forma, l'intervento del legislatore dell’«equo canone» è stato invece assai più blando, ma non del tutto inesistente. Bisogna introdurre, qui, la distinzione tra formalismo del contratto e formalismo del rapporto: ossia tra previsioni formali che si collocano nella fase di creazione del vincolo e previsioni formali destinate ad operare nella fase di esecuzione della pattuizione contrattuale. Per un verso il contratto di locazione è rimasto contratto a forma libera, anche se, con riguardo alle locazioni abitative, è stato affermato dall'art. 12 della legge dell’«equo canone» che gli elementi concorrenti alla determinazione del corrispettivo «vanno indicati nel contratto di locazione». Con riguardo alla locazione non abitativa, poi, la giurisprudenza ripete tuttora fermamente che il contratto di locazione «sei più sei» non ha durata ultranovennale e, perciò, non è sottoposto alla previsione formale dettata dal codice civile. Per altro verso, però, la disdetta, il diniego di rinnovazione, il recesso devono essere manifestati per iscritto e in una forma particolare, quale la lettera raccomandata.
Tutti sappiamo che l'intervento attuato mediante l'eterodeterminazione dei contenuti contrattuali non ha dato buona prova di sé, anche se, probabilmente, se discutessimo delle ragioni di simili scadenti risultati ci troveremo di fronte ad una pluralità di opinioni contrastanti. Sta di fatto che la legge dell'«equo canone», mentre ha funzionato abbastanza bene per le locazioni non abitative, riguardo alle quali trova tuttora applicazione, ha funzionato molto male per le locazioni abitative. L'effetto dell'«equo canone» è consistito nella rarefazione del mercato (chi ha potuto ha scelto la strada della locazione non abitativa, molti altri hanno semplicemente scelto di tenere sfitti i propri immobili) e nel sorgere e proliferare di «contratti di reazione», ossia di strumenti negoziali utilizzati per aggirare la disciplina cogente dettata dalla legge (foresterie, contratti transitori, finti comodati, ad un dato momento anche contratti costitutivi di diritti reali di abitazione che, in passato, non si erano mai visti).
Il legislatore, dunque, ha cambiato strada e, con la legge sui «patti in deroga» del 1992, ha scelto di limitare fortemente l'eterodeterminazione dei contratti di locazione abitativa: il canone è divenuto libero a condizione del tendenziale incremento di durata del contratto. L'esigenza di tutelare il contraente debole, rimasta inalterata, è stata perseguita in modo — se così si può dire — più soffice, attraverso l'assistenza alla stipulazione da parte delle organizzazioni di categoria dei contraenti. Anche in questo caso la legge non ha preso espressa posizione sulla forma del contratto, sebbene sia arduo pensare ad un contratto a «patti in deroga» stipulato verbalmente, dal momento che esso doveva contenere, da un lato, l'espressa rinuncia del locatore a disdettare il contratto la prima scadenza, e, dall'altro lato, la partecipazione alla pattuizione delle associazioni sindacali. Come sapete la Corte costituzionale ha ritenuto l'incostituzionalità del meccanismo di assistenza obbligatoria previsto dal legislatore e lo ha cancellato. La legge dei «patti in deroga», dunque, è divenuta una legge monca.
Ecco, quindi, che il legislatore si è visto chiamato nuovamente ad intervenire nella materia delle locazioni abitative per rimediare al fallimento del progetto di affidare la regolamentazione del mercato locatizio — come era in qualche modo avvenuto per l'affitto di fondo rustico, attraverso l'art. 45 della legge n. 203 del 1982 — alle associazioni di categoria dei locatori e dei conduttori.
La scelta di contenere l'intervento volto alla eterodeterminazione dei contenuti contrattuali è rimasta tutto sommato ferma, anche se il legislatore è intervenuto ora minuziosamente a regolare non soltanto i contratti di locazione abitativa primaria, ma tutti i contratti, anche quelli transitori e turistici. In questo la legge del 1998 non si è discostata in misura sensibile dalla cosiddetta legge dei «patti in deroga»: la durata è rimasta vincolata, mentre il canone è rimasto libero, salvo che le parti non optino per i contratti a canone «concertato».
A quale strumento, dunque, affidare la tutela del contraente debole. Ecco la previsione formale alla quale si è inizialmente accennato. Essa si inquadra in una tendenza assai più ampia, come vedremo tra breve, che la dottrina ha definito come «neoformalismo»: la tendenza, cioè, ad utilizzare la previsione formale non più, come nella tradizione, quale strumento posto a presidio della particolare importanza dell'atto e della tutela dei terzi, bensì quale meccanismo di tutela di una delle parti contrattuali nei confronti dell'altra.
Vediamo come e perché.
4. Forma scritta e locazioni abitative.
La previsione di cui all’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 — secondo cui «A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta» — vale da un lato a confermare la propensione alla marginalizzazione del disegno del codice civile e dall'altro ad evidenziare il rilievo rivestito dalle esigenze che la locazione tende a soddisfare nell'organizzazione della disciplina giuridica applicabile. Per altro verso il mutamento di indirizzo — come è stato immediatamente sottolineato — pare risolversi in «un'innovazione sospesa sul vuoto» (Breccia 1999, 36), in ragione della formulazione enclitica e non esauriente della nuova norma, la quale ha infatti favorito interpretazioni fuorvianti.
Quest'ultima trova un analogo precedente nella legislazione d'oltralpe, ma il legislatore francese ha risolto il problema
in maniera molto chiara e dettagliata, nella fiducia, forse eccessiva ma ormai dappertutto diffusissima, che il formalismo sia una sorta di toccasana (art. 3, legge n. 89-462/1989 e legge n. 94-624/1994). Quel che è certo è che si tratta di una scelta coerente, non sospesa nel vuoto. Non ci si limita ad affermare che il contratto di locazione è fatto per atto scritto ma sono indicati con molta precisione anche i contenuti che devono essere espressi nella forma legalmente richiesta: nome del locatore; data di presa di consegna dell'immobile e durata del rapporto; stato e destinazione della cosa locata (con precisazione dei locali che sono oggetto di un uso comune al locatore); misura del canone e modalità di pagamento. Perfino i contenuti non necessari (le clausole di revisione del canone, il deposito di garanzia), se di fatto vi siano, devono essere espressi con la forma scritta
(Breccia 1999, 36).
E soprattutto — è stato osservato dal medesimo autore — la disciplina vigente in Francia ha preso espressamente posizione sulla questione fondamentale, ossia sulle conseguenze dell'inosservanza della previsione di forma:
Quanto alle conseguenze del mancato rispetto delle prescrizioni di forma, si esclude che il locatore possa essere legittimato ad avvalersene
(Breccia 1999, 36).
Il testo dell'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, invece, lascia aperto proprio il problema centrale dell'identificazione degli effetti della mancanza del requisito di forma. Ed allora, la constatazione del mutamento di rotta non può risolversi nella semplice descrizione del dato esteriore — la soggezione all'obbligo di forma scritta di un tipo contrattuale nient'affatto considerato, a quel fine, dal codice civile — ma introduce l'interrogativo se il nuovo requisito formale, mercé l'individuazione della sua ratio, si distingua da quello previsto dall'art. 1350, n. 8, c.c. quanto alle conseguenze dell'inosservanza, o sia modellato secondo l'impostazione tradizionale.
5. Ambito di applicazione della previsione formale.
Prima di passare all’esame della ratio, però, occorre soffermarsi sull’ambito di applicazione della norma. La perentoria affermazione secondo cui
per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta
(art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431)
potrebbe indurre a ritenere che il requisito formale introdotto dalla legge sulle locazioni abitative abbia carattere generale e che, dunque, debba estendersi a tutte le locazioni immobiliari.
Una simile opinione, tuttavia, è certamente da respingere, dal momento che la legge esordisce con il dare la definizione dei «contratti di locazione» di cui essa si occupa, individuati nei soli «contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo» (art. 1 l. 9 dicembre 1998, n. 431). A quei contratti e ad essi soltanto, dunque, si riferisce la stessa legge nel porre il requisito della forma scritta.
Sicché, viene in evidenza una diversità di trattamento tra i contratti di locazione di immobili urbani con destinazione abitativa e non abitativa: diversità di trattamento che ha indotto in taluno il sospetto dell'illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 Cost. (Xxxxxxxxx e Xxxxxxxx 2001, 126). L'accusa di incostituzionalità muove dal presupposto che il formalismo trovi fondamento, come di consueto, nell'importanza dell'atto, dal che viene coerentemente tratta la conseguenza che la previsione di forma scritta introdotta per le locazioni abitative a maggior ragione dovrebbe trovare applicazione nel campo delle locazioni non abitative, le quali hanno sovente un'importanza economica maggiore.
Se, però, si condivide l'osservazione che la ratio del formalismo, come vedremo subito dopo, ha in questo caso altre radici — trasparenza e, in misura recessiva, prelievo fiscale —, deve ammettersi che un eventuale sospetto di illegittimità costituzionale dovrebbe resistere all'accertamento che la medesima ratio possa estendersi alle locazioni non abitative. Il che sembra potersi escludere, dal momento che gli interessi in gioco nella locazione abitativa sono ben diversi da quelli coinvolti nella locazione non abitativa.
Escluso che la previsione di forma operi anche riguardo alle locazioni non abitative, occorre ancora verificare se essa trovi applicazione con riguardo a tutte le locazioni abitative. Il dubbio sorge dalla ridondante formula secondo cui i contratti di locazione abitativa degli immobili di prestigio
sono sottoposti esclusivamente alla disciplina di cui agli artt. 1571 e seguenti del codice civile
(art. 1, 2° co., lett. a, l. 9 dicembre 1998, n. 431),
sempre che non siano stipulati quali contratti a canone «concertato». Stando alla lettera, infatti, la norma potrebbe essere interpretata, e lo è stata, nel senso che le locazioni di immobili di prestigio non richiedano la forma scritta.
La disposizione — merita tuttavia sottolineare — è solo apparentemente chiara e non può affatto essere presa alla lettera, dal momento che vi sono disposizioni extracodicistiche della cui applicabilità al caso in questione nessuno ragionevolmente dubiterebbe.
Si pensi, ad esempio, all'art. 80 l. fall. in tema di effetti del fallimento sul contratto di locazione stipulato dal fallito, tanto quale locatore che quale conduttore. O si faccia altrimenti memoria dell'obbligo di registrazione di cui agli artt. 2 e 3 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e 5 dell'allegata tariffa, imposto indipendentemente dall'ammontare del canone, dall'art. 21 l. 27 dicembre 1997, n. 449.
D'altronde, l'art. 1, 2° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 esordisce con l'individuare negli artt. 2, 3, 4, 7, 8 e 13 le proprie disposizioni non applicabili — tra l'altro — alle locazioni di immobili di prestigio, dal che si deduce l'applicabilità ad essi delle rimanenti norme della legge. Di qui, se si propendesse per un interpretazione strettamente letterale del riferimento agli artt. 1571 ss. c.c., si dovrebbe riconoscere che il legislatore è caduto in contraddizione, affermando e negando, nel corpo dello stesso xxxxx, la soggezione dei contratti di locazione di immobili di prestigio a disposizioni di legge diverse da quelle codicistiche.
Perciò, sembra corretto ritenere che la soggezione delle locazioni abitative di immobili di prestigio
esclusivamente alla disciplina di cui agli artt. 1571 e seguenti del codice civile
(art. 1, 2° co., lett. a, l. 9 dicembre 1998, n. 431),
debba essere intesa nel senso che non si applicano alle locazioni in questione le disposizioni della legge dell'«equo canone» sopravvissute alle abrogazioni di cui all'art. 14 l. 9 dicembre 1998, n. 431 (Xxxxxxxxx e Xxxxxxxx 2001, 34).
Sul piano strettamente letterale la soluzione trova conferma nel riferimento, contenuto nella stessa legge
ai contratti di locazione stipulati dagli enti locali in qualità di conduttori per soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio, ai quali si applicano le disposizioni di cui agli artt. 1571 ss. del codice civile. A tali contratti non si applica l'art. 56 della legge 27 luglio 1978, n. 392
(art. 1, 3° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
In questo caso, dunque, espunto l'avverbio «esclusivamente», il legislatore ha avvertito la necessità di sancire in modo espresso l'inapplicabilità dell'art. 56 citato, che — perciò — sarebbe stato altrimenti applicabile proprio per il venir meno dell'avverbio.
Non sembra quindi potersi dubitare — nonostante qualche voce discorde — che le locazioni abitative di immobili di prestigio, così come gli altri contratti disciplinati dalla stessa legge, siano anch'esse assoggettate alla prescrizione di forma scritta prevista dall'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431.
Depongono d'altronde in tal senso, sul piano sistematico, sia la portata generale della previsione di forma, sia l'omessa indicazione della menzionata disposizione tra quelle non applicabili ai contratti di cui allo stesso art. 1, 2° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431.
Sul piano della ratio, poi, militano nel senso dell'applicabilità del requisito formale alle locazioni di immobili di prestigio sia la finalità di «trasparenza» perseguita dalla norma — se ne parlerà subito dopo —, sia lo scopo di promuovere l'osservanza degli adempimenti tributari derivanti dalla stipulazione dei contratti di locazione: sarebbe davvero paradossale, a quest'ultimo riguardo, che fossero posti in condizione di poter facilmente sfuggire al fisco proprio quei locatori titolari di immobili di particolare pregio e maggiormente liberi di lucrare da essi in assoluta libertà.
Occorre osservare, tuttavia, che la violazione della previsione di forma scritta non può in questo caso dare ingresso all'azione di riconduzione «a condizioni conformi» di cui all'art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, menzionato tra le norme non applicabili alle locazioni di immobili di prestigio dall'art. 1, 2° co., della stessa legge. E l'inapplicabilità dell'art. 13, inoltre, priva di sanzione, con riguardo agli immobili di prestigio, la pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato (art. 13, 1° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
6. La ratio della nuova previsione formale tra regole di trasparenza ed esigenze di prelievo fiscale.
Tornando alla ratio, si è accennato che l’essenziale ragione ispiratrice dell'art. 1350, n. 8, c.c. — come tale leggibile in una prospettiva del tutto tradizionale — sta nell'importanza della locazione ultranovennale, che assume il rilievo della straordinaria amministrazione, ex art. 1572 c.c., ed è per questo collegata alla formalità della trascrizione, ex art. 2643, n. 8, c.c..
La stipulazione di una locazione abitativa, invece, non è atto di particolare rilievo economico, potenzialmente pregiudizievole per il patrimonio dei disponenti: semmai è la locazione non abitativa, destinata tendenzialmente a durare almeno due sessenni, ad impegnare maggiormente — pur rimanendo di regola confinata nell'amministrazione ordinaria — il patrimonio dei contraenti. Dunque, la ratio che è posta a fondamento dell'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 — questo è evidente — non è la medesima che sostiene l'art. 1350, n. 8, c.c..
La dottrina, allora, ha individuato due finalità della previsione.
Sotto un primo aspetto il requisito della forma scritta per la validità del contratto è sembrato piuttosto da intendere come regola di trasparenza nei rapporti tra i contraenti, regola che va sempre più impregnando l'ordinamento, quale strumento con finalità protettiva della «parte debole». In tal senso, si è detto che l'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431
si inserisce in una linea di tendenza della legislazione speciale la quale prevede, nei contratti caratterizzati dalla contrapposizione di classi di soggetti di forza diversa, l'uso della forma scritta in una specifica funzione di soddisfacimento delle esigenze informative del contraente debole e di semplificazione della prova dell'esistenza del rapporto
(Xxxxx 1999, 153).
V'è, cioè, alla base della disposizione in esame, la tutela dell'interesse
ad una determinazione informata e consapevole del regolamento contrattuale
(Breccia 1999, 35).
Il «contraente debole», in questa prospettiva, deve avere scienza dettagliata del contenuto del contratto che è in procinto di concludere, in modo da essere in grado di esprimere un «consenso informato», in posizione paritaria con il locatore (così Xxxxxxx 1999).
Si tenga in primo luogo presente, a tal riguardo, che già l’elemento fondamentale del «prezzo» della locazione ha ragione di risultare da una pattuizione scritta, ove si consideri che esso — seguendo l'interpretazione data dalla S.C. all'art. 13 l. 9 dicembre 1998, n. 431 (Cass. 27 ottobre 2003, n. 16089, RLC, 2004, 130) –— non può subire aumenti in corso di rapporto: di qui, il contratto di locazione steso in forma scritta costituisce termine di paragone attraverso il quale il conduttore può far valere il suo diritto a mantenere inalterata la misura del canone.
E, più in generale, si tenga presente che il contratto di locazione appare richiedere una sempre maggiore disciplina di dettaglio (basti pensare a spese di registrazione, oneri accessori, partecipazione del conduttore all'assemblea dei condomini, deposito cauzionale ecc.), la quale ha da essere tradotta in forma scritta, per ragioni di trasparenza, proprio nel momento in cui prende il sopravvento — se così si può dire — una tendenziale deregulation, che assume le forme della maggior derogabilità prodotta per effetto dell’abrogazione dell’art. 79 l. eq. can.. Disciplina di dettaglio il cui progressivo incremento pare del resto manifesto, se si presta attenzione alla estrema specificità della formulazione dei contratti a canone «concertato» di cui all'art. 2, 3° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431.
Una «protezione», poi, quella riservata dal legislatore al conduttore ad uso abitativo, che trova evidente giustificazione nel rilievo costituzionale del «diritto all'abitazione» destinato a convivere con altri analoghi diritti di terzi: se si tiene conto dell'assoluta prevalenza numerica degli immobili con destinazione abitativa collocati in stabili condominiali, si comprende come il contratto di locazione abitativa — lungi dal risolversi nel mero dato patrimoniale dello scambio del godimento contro il «prezzo» — finisce per costituire lo strumento attraverso cui una «persona» viene a porsi in relazione con altre «persone».
Secondo un diverso indirizzo, l'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 — più che espressione coerente, sebbene non del tutto sviluppata, di una regola di trasparenza di ampio respiro — perseguirebbe il diverso scopo (invero estraneo alla disciplina del rapporto obbligatorio) di promuovere l'osservanza degli adempimenti fiscali derivanti dalla stipulazione del contratto di locazione.
La norma, in tale prospettiva, sarebbe da porre in correlazione con l'art. 13 l. 9 dicembre 1998, n. 431, con cui il legislatore ha sanzionato di nullità
ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato
(art. 13, 1° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
In tal modo la vigente disciplina delle locazioni abitative avrebbe inteso precludere l'espediente della stipulazione di due contratti, l’uno destinato ad avere forza di legge tra le parti e l'altro, per un minor canone, alla registrazione: pena la conseguenza, per il locatore, di vedersi effettivamente corrispondere il ridotto corrispettivo indicato in sede di registrazione. Per questo il contratto andrebbe stipulato per iscritto, con l'ulteriore obbligo di registrazione (artt. 2 e 3 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e 5 dell'allegata tariffa).
L'impostazione che precede, secondo cui la previsione formale in discorso sarebbe volta a promuovere l'osservanza degli adempimenti fiscali connessi con la stipulazione del contratto di locazione — pur non priva, ad una prima apparenza, di un certo grado di fondatezza, desumibile dallo stesso rilievo che la legge pareva voler riservare ai risvolti fiscali della propria disciplina — non sembra ormai più condivisibile.
Vale infatti osservare che il giudice delle leggi ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 7 l. eq. can. (Corte cost. 5 ottobre 2001, n. 333, FI, 2001, I, 3017; GC, 2001, I, 2595; Contr, 2001, 1100; CorG, 2001, 1513). D’altro canto la S.C., assecondando in pieno una coraggiosa soluzione dottrinale (Xxxx 1999, 372), ha riconosciuto che l'art. 13, 1° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 non costituisce strumento di repressione della pratica del doppio contratto, ma sancisce invece il principio, tutt’affatto distinto, dell'invariabilità, in danno del conduttore, della misura del canone nel corso del rapporto (Cass. 27 ottobre 2003, n. 16089, RLC, 2004, 130).
Occorre dunque riconoscere, alla stregua degli sviluppi citati, che la ratio ispiratrice della previsione di forma scritta del contratto di locazione abitativa non è da porre in relazione (oltre che con la trasparenza della pattuizione) con la promozione degli adempimenti fiscali.
Individuata così la ratio della disposizione, dovrebbe ora riuscire meno disagevole l'individuazione della disciplina applicabile in caso di inosservanza della previsione formale.
7. Effetti dell'inosservanza della previsione formale.
Forma scritta — si è detto — quale avamposto di una regola di trasparenza comunemente sentita.
Se si guarda ad altri campi dell'ordinamento, la scelta dell'introduzione del requisito formale per la stipulazione di contratti altrimenti a forma libera non è nuova e, anzi, sono molteplici i settori in cui il legislatore è intervenuto a dettare regole di forma a «protezione» di uno dei contraenti, sovente tenendo uniti il requisito formale e la nullità relativa a favore del contraente protetto.
Così, in materia di intermediazione finanziaria:
I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. … Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo.
…
Nei casi previsti dai commi 1 … la nullità può essere fatta valere solo dal cliente
(art. 23, 1° e 3° co., d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).
Così, nel medesimo testo, in materia di gestione di portafogli di investimento:
Al servizio di gestione di portafogli di investimento si applicano le seguenti regole:
a) il contratto è redatto in forma scritta;
…
Sono nulli i patti contrari alle disposizioni del presente articolo; la nullità può essere fatta valere solo dal cliente
(art. 24, 1° co., lett. a, e 2° co., d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).
Così nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia:
I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti.
…
Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo.
(art. 117, 1° e 3° co., d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385),
con quel che segue in tema di legittimazione:
Le nullità previste dal presente titolo possono essere fatte valere solo dal cliente.
(art. 127, 2° co., d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385).
Così in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, o vendita «porta a porta»:
Per i contratti e per le proposte contrattuali soggetti alle disposizioni del presente decreto l'operatore commerciale deve informare il consumatore del diritto di cui all'art. 4. L'informazione deve essere fornita per iscritto …
(art. 5, 1° co., d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50).
Così in materia di vendita di pacchetti turistici:
Il contratto di vendita di pacchetti turistici è redatto in forma scritta in termini chiari e precisi.
Al consumatore deve essere rilasciata una copia del contratto stipulato, sottoscritto o timbrato dall'organizzatore o venditore
(art. 6, 1° e 2° co., d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111).
Così in materia di multiproprietà:
Il contratto deve essere redatto per iscritto a pena di nullità …
(art. 3, 1° co., d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427).
Secondo l'impostazione che emerge dai dati normativi ora ricordati, la previsione formale è stabilita a pena di nullità, ma la nullità può essere fatta valere soltanto da una parte. Essa assume così il connotato del rimedio «speciale» — dettato da leggi «speciali», connotato da effetti «speciali» — di «protezione», rimedio che pare inquadrarsi in una tendenza generale, di lunga durata, dell'ordinamento:
L'angolo di visuale da cui molti si sono mossi è … quello della «protezione» dell'interesse del singolo contraente, definito meritevole di particolare attenzione. Onde all'interesse generale di una contrattazione seria ed efficiente e collimante con i valori dell'ordinamento, cui tradizionalmente è ancorata la nullità codicistica, e che induce, oltre che a fulminare di nullità contratti od accordi privi del necessario substrato materiale, anche contratti contrari a norme imperative, all'ordine pubblico e al buoncostume, si è venuto sovrapponendo anche l'interesse del singolo contraente (sia esso il consumatore o il cliente di una banca o di una società di assicurazione), per la cui tutela la tradizionale forma di nullità, nella sua neutralità ed astrattezza, più non sarebbe stata sufficiente (appunto perché neutrale rispetto ai singoli interessi dei contraenti). Su tale terreno e con questi presupposti si pone la cosiddetta nullità e/o meglio le nullità «di protezione»
(Di Majo 2002, 129).
Sul piano degli effetti propri delle già menzionate ipotesi di nullità «speciali», la deviazione dalla regola tradizionale dell'assolutezza della nullità si giustifica dunque in ragione della loro strumentalità allo scopo protettivo. Non c'è quindi da stupirsi
se un requisito di forma del contratto, tradizionalmente riferito ad entrambi i contraenti, venga invece riferito solo ad uno di essi … e che la nullità, così comminata, può essere fatta valere solo dal contraente protetto
(Di Majo 2002, 130).
Per la locazione abitativa, come per le altre ipotesi normative considerate, la fondamentale ragione ispiratrice della previsione formale è da ravvisare — come si è detto in precedenza — nell'intento di rendere il contraente debole pienamente edotto del contenuto contrattuale, mediante un congegno che, negli altri campi, dà vita a fattispecie di nullità «speciale» con finalità «di protezione»: occorre perciò verificare se il medesimo congegno possa ritenersi introdotto anche in materia di locazioni abitative.
8. L’alternativa tra nullità assoluta e nullità «speciale».
In quest'ambito, se è vero che il requisito di forma è posto a tutela del conduttore, inteso come contraente debole, la configurazione del vizio derivante dalla stipulazione verbale quale nullità assoluta finirebbe per assumere caratteristiche del tutto sfavorevoli al soggetto che si intende proteggere, privandolo di un titolo giustificativo del godimento del bene: insomma, sarebbe un curioso esempio di protezione del contraente debole se quest'ultimo, in ragione della nullità della pattuizione per difetto di forma, e della conseguente applicazione del principio quod nullum est, con quel che segue, si trovasse esposto all'azione di rilascio intrapresa dal locatore.
L'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 — a differenza di quanto accade nelle diverse materie in precedenza ricordate — non individua però esplicitamente nel solo conduttore il soggetto legittimato a far valere la mancanza del requisito di forma.
Ed allora, l'interprete riverente ad un ingiustificato primato del codice civile potrebbe essere indotto ad identificare le diverse ipotesi di nullità alle quali si è fatto cenno, singolarmente considerate, avulse l'una dall'altra, come eccezioni alla regola generale posta dagli artt. 1418 ss. c.c., pervenendo alla conclusione che simili ipotesi debbano cedere il passo alle regole generali ogni qual volta il regime della loro «specialità» non sia espressamente dettato dal legislatore.
Ma il ragionamento — è da credere — peccherebbe di miopia. Se si torna al tema dei rapporti tra codice civile e leggi speciali, infatti, ben si comprende come queste ultime pongano, in questo caso, una trama in sé coerente e, come tale, portatrice di regole anch'esse generali. Ed allora, diviene naturale intendere ogni nullità di «protezione» — per quanto qui essenzialmente rileva — come nullità relativa, tale da poter essere esclusivamente invocata dal contraente protetto.
9. Dal contratto «amorfo» al contratto «polimorfo».
Occorre quindi muovere, con specifico riguardo all'inosservanza dell'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, dalla constatazione che la forma scritta non è stata prevista dalla legge sotto pena di nullità, ai sensi dell'art. 1325, n. 4, c.c., ma quale generico requisito validità.
Ed è difficile credere che il legislatore, per quanto approssimativa appaia, sovente, la tecnica legislativa sottesa alla stesura della legge in esame, abbia omesso immotivatamente, per semplice imprecisione, il facile lemma «nullità».
Si deve quindi aggiungere che la stessa legge contempla la cosiddetta azione di riconduzione a condizioni conformi — un alquanto originale strumento di «recupero» e dunque di conservazione del contratto, evidentemente dotato di una certa sia pur minorata vitalità — nei casi in cui il locatore
ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'art. 1, 4° co.
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431),
ossia in violazione della previsione di forma scritta.
Il che suggerisce che il contratto privo del requisito formale non è assolutamente nullo, ed è anzi in nuce valido al pari del contratto scritto, sol che il locatore abbia «preteso» l'instaurazione di un rapporto di fatto, ovvero stipulato semplicemente verbis o per fatti concludenti. Difatti, investito dell'azione di riconduzione a condizioni conformi, non il giudice dà vita al rapporto, che resta ancorato all'accordo delle parti, giacché egli «accerta» (art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431) l'esistenza del contratto di locazione.
Vale inoltre osservare che l’art. 14, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 non ha abrogato l'art. 80 l. eq. can., posto in tema di adibizione dell'immobile ad un uso diverso da quello pattuito. Ebbene, la forma scritta di cui all'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, se intesa come prevista a pena di nullità, solleciterebbe senz’altro a ritenere che il citato art. 80, pur non abrogato espressamente, sia stato abrogato per incompatibilità, poiché, altrimenti, dovrebbe ammettersi il sorgere di contratti di locazione abitativa privi del requisito di forma ad substantiam.
Ciò, però, procurerebbe conseguenze applicative paradossali: si immagini l’adibizione di uno studio professionale ad abitazione, che, pur nella consapevole inerzia del locatore, non potrebbe dar vita ad una locazione abitativa, con buona pace delle esigenze di protezione alle quali si è fatto cenno; oppure ad una locazione transitoria che fosse fatta consapevolmente proseguire nel venir meno della transitorietà delle esigenze abitative del conduttore.
In simili ipotesi, allora, pare manifestarsi ed esaltarsi un fenomeno definibile di polimorfismo nella formazione del contratto, che, in talune fattispecie, trae origine pur sempre dalla volontà dei contraenti, ancorché non rivestita della forma scritta richiesta dalla legge.
Perciò, è da credere che la sanzione, enunciata come generica invalidità del contratto, imponga la ricerca delle conseguenze del vizio mediante l'utilizzazione di strumenti concettuali estranei alla usuale dicotomia tra forma ad substantiam e ad probationem, ovvero tra nullità e annullabilità: e ciò nonostante parte della dottrina, costretta in una visuale angusta, si sia orientata per la «ordinaria» nullità del contratto mancante della forma scritta, intesa come requisito formale ad substantiam, ex art. 1350, n. 13, c.c. (v., per tutti, Preden 1999, 353 ss.) e che la giurisprudenza si sia andata finora inquadrando nell'alveo del medesimo indirizzo dottrinale (Trib. Pisa 2 febbraio 2003, RLC, 2003, 234; Trib. Palermo 20 febbraio 2001, ALC, 2002, 64; GM, 2001, 672; Trib. Reggio Calabria 29 marzo 2001, ALC, 2001, 567; Trib. Verbania 5 aprile 2001, ALC, 2001, 567; Trib. Verona 21 giugno 2000, ALC, 2001).
La legge sulle locazioni abitative, a ben vedere, non pare offrire alcun decisivo appiglio per sostenere che la forma sia richiesta a pena di nullità, nel senso tradizionale di nullità assoluta. In tale contesto è dunque da credere che,
anche in mancanza di un'espressa previsione del carattere relativo della nullità a questa conclusione possa aggiungersi in via interpretativa in presenza di una disciplina che evidenzia esigenze di protezione del contraente debole analoghe a quelle che in altri settori di legislazione speciale hanno determinato la previsione espressa di tale nullità
(Xxxxx 1999, 154).
Pertanto, il contratto stipulato verbalmente, nella linea della «protezione», pare piuttosto collocarsi su un crinale, dal quale potrà raggiungere lo spazio della piena inattaccabile validità, sol che il conduttore, sussistendone le condizioni, intraprenda l'azione di «recupero», oppure precipitare in quello della nullità, quando lo stesso conduttore, ed egli soltanto, denunci invece la mancanza del requisito di forma stabilito a sua tutela. Con una terza possibile opzione, ossia che il conduttore ritenga confacente al suo interesse non denunciare la nullità e non agire per il «recupero» del contratto, nel qual caso la locazione vivrà nonostante la carenza di forma, non potendo nessun altro, all'infuori del conduttore, farla valere.
Il conduttore — si può sintetizzare — è il dominus esclusivo della situazione, ed egli può optare per la nullità o per il «recupero», ovvero lasciare le cose come stanno, senza che, in quest'ultimo caso, la nullità possa essere invocata dal locatore o rilevata d'ufficio dal giudice.
Il vizio delineato dall'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 si atteggia, in conclusione, quale nullità relativa suscettibile di essere rilevata dal solo conduttore.
10. La «locazione di fatto» e l'azione di «recupero» del contratto privo del requisito di forma.
Si è già accennato all'azione di riconduzione a condizioni conformi, che più agevolmente pare poter essere identificata come azione di «recupero» del contratto — da intendere come espressione del principio generale di conservazione del negozio giuridico —, la quale è tra l'altro data al conduttore
nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'art. 1, comma 4
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
La disposizione di rinvio — si ricorda — stabilisce che:
A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta
(art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
Introdotta l'azione di «recupero»,
nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell'art. 2 ovvero quello definito ai sensi dell'art. 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
Se, come si è visto, il legislatore, con l'art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, avesse inteso porre un requisito di forma ad substantiam, dando conseguentemente vita ad un'ipotesi di nullità nel senso tradizionale dell'espressione, riconducibile all'art. 1325, n. 4, c.c., non vi sarebbe stata necessità di dettare un intervento volto ad identificare gli effetti della sanzione ed a individuare il soggetto legittimato a farla valere. Sarebbe bastato, in tal caso, all'interprete ricercare le pertinenti risposte nella disciplina generale della nullità, come prevista dagli artt. 1418 ss. c.c..
Al contrario, proprio la sottolineata specialità della previsione di invalidità — non riconducibile alla nozione abituale di nullità come strumento di tutela dell'ordinamento ed invece diretta, da un lato, al soddisfacimento delle esigenze informative del contraente debole e di semplificazione della prova dell'esistenza del rapporto e, dall'altro, sebbene in misura ormai marginale, alla promozione degli adempimenti tributari derivanti dalla stipulazione del contratto di locazione — pare aver indotto il legislatore a prestare attenzione alle conseguenze derivanti dal rilievo del vizio ed alla legittimazione alla conseguente azione, così da evitare che esso potesse porsi in pregiudizio degli interessi tutelati dalla norma.
È più importante — sembra dire il legislatore — impedire alla nullità di ritorcersi contro gli interessi che si intendono proteggere, piuttosto che assicurare l'inefficacia dell'atto.
In questo quadro si colloca la figura del «rapporto di fatto», figura non nuova, che richiama immediatamente alla mente l'art. 2126 c.c., in tema di improduttività di effetti della nullità o dell'annullamento del contratto di lavoro per il periodo in cui esso ha avuto esecuzione; ovvero, a titolo di esempio e senza alcuna pretesa di completezza, la disciplina del matrimonio putativo di cui all'art. 128 c.c.; o, ancora, la disciplina della subfornitura dettata dalla l. 18 giugno 1998, n. 192, che fa salvo il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni effettuate ed all'indennizzo delle spese sostenute in buona fede.
La figura menzionata — occorre quindi dire — manifesta una sua prima utilità proprio nel temperare gli effetti della sanzione di invalidità in relazione a rapporti di durata riguardo ai quali è in rerum natura precluso il ripristino della situazione antevigente attraverso la reciproca restituzione delle rispettive prestazioni. Ciò è esattamente quanto accade in materia di locazione, giacché, quando quest'ultima sia dichiarata nulla, pur conseguendone, in linea di principio, il reciproco diritto delle parti di ripetere le prestazioni effettuate, il conduttore non può ottenere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo del godimento della cosa, poiché ciò importerebbe un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore (Cass. 3 maggio 1991, n. 4849, ALC, 1991, 504; GI, 1991, I, 1, 1314, v. pure Cass. 2 aprile 1996, n. 3019, MGC, 1996, 482).
E, in effetti, proprio in tema di locazione il «rapporto di fatto» ha in passato trovato riconoscimento espresso da parte del giudice delle leggi chiamato a pronunciarsi sugli effetti di una propria dichiarazione di incostituzionalità:
Il giudice remittente sopravvaluta la retroattività della sentenza n. 108 del 1986, la quale, avendo ripristinato le scadenze previste dall'art. 67 della legge n. 392 del 1978 (e prorogate di un biennio dalla legge n. 94 del 1982), ha rimosso per i contratti scaduti durante l'interregno delle leggi n. 377 del 1984 e n. 118 del 1985 il titolo contrattuale che legittimava la protrazione del godimento del conduttore, ma non può mettere nel nulla il fatto che, nel periodo compreso tra la scadenza del regime transitorio e la pubblicazione della sentenza, le parti si sono comportate come conduttore e locatore, in conformità della proroga legale del contratto allora vigente, l'una godendo l'immobile a titolo di locazione, l'altra percependo i canoni di affitto. Questo comportamento, concretante un rapporto di «locazione di fatto», esclude, per la contraddizione che non lo consente, che la sentenza n. 108 possa avere l'effetto di costituire il conduttore in mora ora per allora, rendendolo responsabile per i danni da ritardato rilascio dell'immobile. In ordine al periodo suddetto il significato normativo dell'art. 2 in esame delinea una figura di «contratto di fatto», che non è un istituto di carattere generale, ma trova gia nel nostro ordinamento cospicue e ben note applicazioni (artt. 2126 e 2332 c.c.; art. 3, 2° co., della legge n. 756 del 1964). Ciò comporta, oltre alle conseguenze specificamente indicate dall'art. 2, l'applicabilità di tutto il regime della locazione, e cosi, per esempio, dell'art. 1577 c.c., e non delle norme sulla gestione di affari, se il conduttore abbia eseguito direttamente riparazioni urgenti che non sono a suo carico, o dell'art. 1588, e non dell'art. 2043, qualora siano avvenuti deterioramenti dell'immobile
(Corte cost. 24 gennaio 1989, n. 22, GI, 1990, I, 1, 528; RGE, 1989, I, 273; ALC, 1989, 25; FI, 1989, I, 959; GC, 1989, I, 514).
Il rapporto di fatto, nel caso in questione, è qualificato «di locazione». Non si tratta, allora, di una sorta di occupazione senza titolo: il rapporto esiste con le caratteristiche fondamentali del sinallagma locatizio — godimento di un bene dietro pagamento di un corrispettivo — ma non è riconducibile ad alcuno degli statuti riconosciuti per l'uso abitativo. La sua disciplina va quindi ricercata, con riguardo a tutti i profili — e, quindi, anche per durata, rinnovazione, canone, eccetera — nella regolamentazione pattizia, che ovviamente può coincidere con quella legale. L'invalidità finisce, insomma, con il cogliere l'insufficienza di quella fonte — contratto non scritto — e ricondurre il rapporto ad uno degli statuti presenti nell'ordinamento.
V'è da rimarcare, tuttavia, una significativa differenza tra le ipotesi menzionate e quella disegnata dall'art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431. La figura della «locazione di fatto» ivi contemplata, infatti, a differenza delle altre prima enumerate, vale ad individuare la disciplina di un rapporto destinato a protendersi nel futuro e non a coprire quanto irrimediabilmente verificatosi nel passato per effetto della pattuizione afflitta da invalidità. Siffatta differenza, però, non deve sorprendere o preoccupare, se non per quanto pone in crisi certezze che non meritano di essere preservate. Anzi, dalla peculiarità della figura della «locazione di fatto» può trarsi conferma che l'istituto dell'invalidità, nelle sue varie forme, può conformarsi ormai di volta in volta — non già ad un modello concettuale definitivamente cristallizzato, bensì — al soddisfacimento degli interessi che il legislatore intende proteggere e soddisfare: finisce così per essere posto in discussione in radice il principio stesso secondo cui la nullità non può che dirimere il negozio in ossequio al brocardo quod nullum est, nullum producit effectum.
Nel riflettere sulla disposizione, tuttavia, non è sufficiente fermarsi all'aspetto di tutela del contraente debole, ove si rammenti che — come si è ripetuto — il requisito formale ha altresì una chiara, seppur secondaria, finalità di ordine fiscale. Sotto tale aspetto, risulta altresì evidente che l'azione di «riconduzione» della «locazione di fatto», oltre alla finalità di tutela del conduttore, coltiva uno scopo sanzionatorio e — come è stato osservato — dissuasivo (Cuffaro 2000, 199).
Vale osservare, in proposito, che l'azione di «recupero» della «locazione di fatto» dà vita ad un contratto il cui contenuto è difforme dall'originario programma negoziale quantomeno sotto il profilo del canone. La conclusione del contratto di locazione in forma verbale, in ragione della previsione dell'azione di «riconduzione» della «locazione di fatto», espone quindi il locatore al rischio di vedersi riconoscere un canone diverso da quello pattuito e presumibilmente inferiore ad esso, dovendo essere fissato in riferimento agli accordi locali relativi ai contratti a canone concertato.
11. La legittimazione all'azione di «recupero» del contratto privo del requisito di forma.
Di qui — riprendendo un discorso già affrontato — la naturale relatività della nullità di «protezione», in modo che l'altro contraente non sia posto a propria volta in condizione di caducare il contratto.
Ebbene, mentre la questione della legittimazione a far valere la nullità prevista dall'art. 79 l. eq. can. era prevalentemente risolta nel senso dell'applicabilità dell'art. 1421 c.c. (Cass. 13 aprile 1989, n. 1776, ALC, 1990, 268; RaEquoC, 1989; Cass. 24 maggio 1993, n. 5827, GI, 1994, I, 1, 589; nella giurisprudenza di merito Trib. Milano ottobre 1994, ALC, 1995, 139; Trib. Busto Arsizio 26 gennaio 2000, ALC, 2000, 277), il problema è oggi superato, in coerenza con l'illustrata ratio dell'istituto, dal tenore letterale dell'art. 13, 5° co., in questione, che attribuisce espressamente al solo conduttore le azioni di ripetizione e riconduzione: difatti, non altri che il conduttore
può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431),
ed il solo medesimo conduttore
può altresì richiedere … che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
La relatività dell'azione è quindi implicitamente ma inequivocamente ribadita dal terzo periodo della disposizione — ancorché, seguendo una certa inclinazione a conservare soluzioni giurisprudenziali collaudate, sebbene non più pertinenti, venga sostenuta anche la tesi dell'applicabilità dell'art. 1421 c.c. (Xxxxxxx 2001, 7 ss.) — secondo cui «tale azione», indubitabilmente con le medesime caratteristiche,
è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto
(art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431).
In questo senso, occorre riconoscere — contrariamente ad un'opinione assai diffusa e, riguardo ad altri aspetti della legge, certamente fondata — che la formulazione dell'art. 13, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, laddove rimette al solo conduttore la legittimazione ad agire, si mostra tecnicamente perspicua (Gioia 1999, 1346), apparendo essa coerente con l'intento del legislatore di disciplinare, in un'ottica protettiva, l'ipotesi in cui la carenza di forma avrebbe altrimenti impedito la prosecuzione del rapporto, in pregiudizio dell'interesse del soggetto economicamente più debole.
In questo caso, in definitiva, l'impostazione letterale della legge speciale mostra di aver fatto tesoro delle lacune della precedente disciplina, esprimendosi in modo chiaro per la legittimazione all'azione di riconduzione, in caso di locazione di fatto, oltre che nelle altre ipotesi dell'art. 13, 5° co., del solo conduttore.
12. La nozione di «pretesa» come condizione dell'azione di «recupero» del contratto privo del requisito di forma.
Fatte tali premesse, occorre sottolineare che il presupposto di operatività dell'azione di «recupero» della «locazione di fatto» è costituito dall'essere stata «pretesa» la stipulazione in forma verbale del contratto da parte del locatore.
Merita osservare, sul punto, che nella nozione di «pretesa» non è insito, né sul piano della lettera, né su quello della ratio, alcun coefficiente di costrizione od imposizione nei confronti del conduttore ad opera del locatore, tale da impedire che, sul punto, le parti convengano liberamente — se non validamente, stante la previsione di forma — la pattuizione di una locazione verbale.
Il locatore, in altri termini, «pretende» la stipulazione del contratto verbale non diversamente da quanto «pretenda» la pattuizione del canone in una certa misura piuttosto che in un'altra: il conduttore, per parte sua, non ha che da accettare oppure respingere la «pretesa», salvo a prospettare una diversa soluzione negoziale. Perciò, a
d ammettere che il «pretendere» debba essere inteso nel senso di «esigere ciò che non è dovuto» — ma il significato di «chiedere ciò che si ha diritto di ottenere» appare ad esempio accolto negli artt. 66, 1488 e 1769 c.c. —, va nondimeno riconosciuto che l'espressione non ha certamente, neppure per approssimazione, un significato analogo ad «estorto con violenza» di cui all'art. 1427 c.c..Escluso, dunque, che la «pretesa» del locatore debba determinare una coartazione della volontà del conduttore, non può che giungersi alla conclusione che, pur dinanzi alla menzionata «pretesa», ben possa liberamente formarsi il consenso delle parti sulla conclusione verbis del contratto. Ma, allora, dovrebbe apparire evidente
che il presupposto in esame — la «pretesa» del locatore — si realizza ogni qual volta la stipulazione verbale non sia avvenuta ad iniziativa del conduttore, interessato a tutelare proprie ragioni di riservatezza più o meno legittime
(Xxxxxxx e Xx Xxxxxx 2002, 357).
Di qui, la nozione di «pretesa» si risolve in un connotato meramente negativo, nel senso che la forma verbale può dirsi «pretesa» ogni qual volta non sia stata richiesta per proprie ragioni (p. es. locazione di una garçonnière di cui è preferibile non rimanga alcuna traccia ) dal conduttore. Non è da condividere, dunque, l'opinione espressa da un giudice di merito secondo cui la disciplina in questione coprirebbe
un'area del tutto residuale, segnata, per così dire, dall'abuso di posizione dominante del locatore, nella parte in cui questi «pretende» l'accordo verbale, e perciò lo impone al conduttore
(Trib. Varese 18 maggio 2000, ALC, 2000, 935).
13. Il giudizio di accertamento dell'esistenza del contratto.
Nel giudizio introdotto ai sensi dell'art. 13, 5° co., terzo periodo, l. 9 dicembre 1998, n. 431, spetta al giudice — che, inutile dire, non è più il pretore, ma il tribunale in composizione monocratica — accertare l'esistenza del contratto di locazione emergente tanto dall'accordo verbale sul punto, quanto dalla concreta esecuzione che le parti vi abbiano dato, determinando la formazione di un contratto nel quale l'osservanza della forma scritta resta affidata alla pronuncia giudiziale.
A tal riguardo il giudice deve in primo luogo individuare la data di esordio del rapporto, coincidente con l'inizio della sua esecuzione: il pregresso godimento dell'immobile da parte del conduttore va dunque imputato alla durata del contratto. Il giudice deve inoltre determinare il canone dovuto in forza del contratto «recuperato», quantificando il medesimo canone in riferimento alla previsione dei contratti-tipo ordinari o transitori per studenti, pronunciando, altresì, ove ve ne sia richiesta del conduttore, condanna del locatore alla restituzione delle somme precedentemente versate in misura superiore al canone determinato in giudizio.
La decisione, infine, deve fare il punto sul regime applicabile al contratto ricondotto, dichiarando applicabile, quale fonte integrativa della pattuizione, il contratto tipo ordinario ovvero quello transitorio per studenti.
In definitiva, gli elementi genetici del contratto ricondotto vanno ricercati in primo luogo nell'atteggiarsi concreto della volontà delle parti, dalla quale non v'è ragione di discostarsi nella misura in cui essa non urti il dettato della legge, ed inoltre nella legge e negli accordi locali.
L'onere della prova della pattuizione e dei suoi termini, ovviamente, incombe sul conduttore.
Sul punto la legge nulla dice.
E, se si dovesse ragionare nell'angusta prospettiva di coloro i quali ritengono il requisito della forma scritta quale requisito richiesto ad substantiam, si dovrebbe ammettere che il conduttore non sia ammesso alla prova orale o per presunzioni, ex artt. 2725, 2° co., c.c.: soluzione, quest'ultima, paradossale, dal momento che il conduttore mai potrebbe esibire quel documento negoziale che semplicemente non c'è. Egli, dunque, sarebbe votato sempre a soccombere nell'azione di «recupero». Ma, come si è sostenuto, la legge non pone un requisito di forma ad substantiam, bensì formula un'ipotesi di nullità «speciale» con finalità «di protezione»: dal che si deduce che, nella medesima ottica protettiva, il conduttore potrà provare quanto a suo carico con ogni mezzo.
14. L'introduzione della forma scritta per le locazioni abitative ed i contratti preesistenti.
I contratti, secondo la nuova legge, devono dunque farsi per iscritto.
Ma, ovviamente, questa regola non può applicarsi ai vecchi contratti conclusi verbalmente che si rinnovino tacitamente in difetto di disdetta. Xxxxxxxxx, si è condivisibilmente affermato che tra la norma che impone la forma scritta e quella che prevede il transito nel nuovo regime di tutti i vecchi contratti, ivi compresi quelli conclusi verbalmente, non vi è incompatibilità, dal momento che la forma scritta è richiesta per la validità dei futuri contratti, dal che si desume che i precedenti conservano validità (Xxxx 1999, 43; Xxxxxxx 1999, 382 s.).
In tal senso, in giurisprudenza, si osserva:
Per i vecchi contratti rinnovati sotto il vigore della nuova disciplina … vige un'attenuazione del principio della forma vincolata (la nuova legge, infatti, richiede la forma scritta ad substantiam per i contratti di locazione). In sostanza, la forma scritta, ai sensi dell'art. 1, 4° co., della legge n. 431 del 1998, sembra essere richiesta solo per i contratti stipulati (e non anche rinnovati) dopo l'entrata in vigore della stessa legge. Ciò lo si desume anche dal raffronto tra l'art. 1, 1° co., e l'art. 1, 4° co., della legge n. 431 del 1998; mentre, infatti, la prima norma estende la portata della legge a tutti i contratti stipulati o rinnovati dopo l'entrata in vigore della stessa, la seconda norma limita la necessità della forma scritta solo alla stipula dei contratti, non facendo alcun riferimento alla rinnovazione di quelli già esistenti. Tra l'altro tale differenza di trattamento ha una sua chiara ragion d'essere, tenuto conto del fatto che, con la rinnovazione, restano ferme le vecchie pattuizioni contrattuali già approvate e praticate dalle parti, e che, quindi, per tali contratti non appare necessaria la forma scritta. Essa invece sarebbe necessaria qualora si fissassero nuove condizioni, in quanto, in tal caso, non si avrebbe una semplice rinnovazione di quanto già pattuito ma nuova regolamentazione del rapporto che, in base ad una valutazione ex nunc del legislatore, costituisce attività tanto delicata da richiedere quel particolare requisito di forma solitamente preteso — per stimolare l'attenzione delle parti — in tutti quei rapporti potenzialmente capaci di incidere in modo significativo sull'attività economica e sociale di un individuo
(Trib. Palermo 20 febbraio 2001, ALC, 2002, 64).
15. Invalidità del contratto di locazione per difetto di forma e azione per convalida.
In conclusione della relazione occorre soffermarsi sulla questione se possano avvalersi del procedimento per convalida quei locatori che abbiano stipulato un rapporto di locazione privo dei requisiti di forma previsti dalla legge. Il problema non sembra aver mai suscitato, nel passato, l’interesse né della dottrina, né della giurisprudenza, ancorché esso, almeno in astratto, potesse presentarsi.
In linea generale, in proposito, si è visto che il contratto di locazione è, di norma, contratto non formale, che, dunque, non richiede pattuizione per iscritto e, anzi, può essere stipulato non soltanto verbalmente, ma anche per fatti concludenti. E non sembra potersi negare che tale normale natura del contratto di locazione si collochi a monte dello stesso procedimento per convalida e, in specifico, del congegno che ne costituisce l’architrave: quello, cioè, della ficta confessio dei fatti dedotti dall’intimante in citazione per effetto della mancata comparizione ed opposizione dell’intimato. La condotta di questi, infatti, in tanto può giustificare la pronuncia dell’ordinanza di convalida e, di qui, la formazione del giudicato sulla pregressa esistenza del rapporto e sulla sua successiva cessazione per scadenza del termine ovvero risoluzione per inadempimento, in quanto il contratto di locazione non richiede forma scritta ad substantiam. Accade, così, che l’azione per convalida non necessiti della produzione del documento contrattuale — che può senz’altro mancare — ma si fondi sulla deduzione dell’esistenza del rapporto locativo, la quale si ha per accertata in dipendenza della mancata comparizione e opposizione dell’intimato.
Se, invece, il contratto richiede la forma scritta a pena di nullità, mai — salvo il caso contemplato dal combinato disposto degli artt. 2725, 2° co., e 2724, n. 3, c.c. — la stipulazione di esso, in mancanza della produzione del documento, potrebbe essere desunta dalla non contestazione — e neppure dalla esplicita confessione — della parte nei cui confronti la pattuizione venga fatta valere. Perciò, non sembra potersi dubitare che, in un caso di locazione ultranovennale, sottoposta al requisito della forma scritta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350, n. 8, c.c., ovvero in un caso di locazione stipulata dalla pubblica amministrazione, per la quale l’atto scritto a pena di nullità è sempre richiesto (tra le più recenti, con riguardo alla locazione, ex permultis, Cass. 6 febbraio 2004, n. 2289, ALC, 2004, 578), il locatore il quale agisse con l’azione per convalida sarebbe in ogni caso tenuto alla produzione del contratto, senza di che il giudice dovrebbe ex officio rilevare l’insussistenza delle condizioni per la pronuncia del provvedimento richiesto.
L’indicata questione, che, come si accennava, non sembra mai essere stata oggetto di specifica attenzione, ha acquistato oggi rilievo proprio in dipendenza della sanzione di nullità dei contratti di locazione abitativa stipulati verbalmente in violazione del precetto dettato dall’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 prima citato.
Qui si può accogliere la tesi predominante secondo cui la previsione formale in questione è prevista, appunto, ad substantiam e determina nullità «ordinaria» (Trib. Pisa 2 febbraio 2003, RLC, 2003, 234; Trib. Palermo 20 febbraio 2001, ALC, 2002, 64; GM, 2001, 672; Trib. Reggio Calabria 29 marzo 2001, ALC, 2001, 567; Trib. Verbania 5 aprile 2001, ALC, 2001, 567; Trib. Verona 21 giugno 2000, ALC, 2001; in dottrina si veda per tutti Preden 1999, 13). Ovvio, su tale premessa, che l’azione per convalida di sfratto, in presenza di una pattuizione soltanto verbale, debba essere respinta. Un primo tentativo di inquadramento del fenomeno si rinviene nella pronuncia che segue, la quale ha ritenuto che il contratto di locazione abitativa stipulato verbalmente sia sullo, con la conseguenza che il conduttore tale non è, ma è mero detentore sine titulo:
L’intimante ha proposto azione di sfratto per morosità, deducendo l’omesso pagamento dei canoni di locazione e, a seguito dell’opposizione di controparte, ha chiesto pronunciarsi ordinanza di rilascio. Non è dubbio che tra le parti sia stato concluso un accordo verbale avente ad oggetto la locazione di immobile destinato ad uso abitativo, nel vigore della legge n. 431 del 1998: tale prospettazione, formulata dallo stesso intimante in atto di citazione, non può essere superata dalla bozza di contratto prodotta in udienza, giacché essa non è sottoscritta da parte convenuta. Parte intimata ha perciò conseguito il godimento dell’immobile, assumendo l’obbligazione di corrispondere un canone, l’accertamento della cui misura è allo stato irrilevante: si è così costituito un rapporto di fatto in violazione dell’art. 1, 4° co., della legge citata. Questo giudice aderisce infatti all’opinione assolutamente prevalente in dottrina, secondo la quale la novella ha imposto la forma scritta ab substantiam quale requisito posto a pena di nullità ai fini della conclusione di «valido» contratto di locazione ad uso abitativo. Non sono mancate, come è noto, autorevoli voci dissenzienti: in particolare, si è sostenuto che la progressiva frantumazione della categoria dogmatica costituita dalla nullità deve indurre l’interprete a svincolarsi dai tradizionali schemi dicotomici, entro cui si gioca la partita delle cause di invalidità del negozio (nullità rilevabile d’ufficio/annullabilità rilevabile su eccezione della parte interessata), mischiando le carte, e ricostruendo la disciplina normativa alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. Nell’ipotesi di specie, l’esigenza di protezione del conduttore, assunto paradigmaticamente a «contraente debole» del rapporto, dovrebbe indurre a riporre nella disponibilità di costui le sorti del rapporto di fatto. Ciò in forza del combinato disposto degli artt. 1 e 13, 5° co., ove, a fronte del difetto di forma scritta, si introduce a favore del conduttore, e nei casi in cui il locatore abbia preteso l’instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, azione di accertamento dell’esistenza del contratto e di riconduzione dello stesso agli statuti legali. Altri, su tale falsariga, hanno richiamato l’art. 1352 c.c., seppure nell’interpretazione, ripudiata dalla giurisprudenza, a mente della quale il difetto di forma convenzionale non sarebbe rilevabile d’ufficio. Ora, sembra chiaro che la coesistenza degli artt. 1 e 13 obblighi l’interprete a correggere l’approccio abituale in ordine agli effetti della nullità del contratto per difetto di forma
(Trib. Varese 18 maggio 2000, ALC, 2000, 935).
Secondo il tribunale di Varese — par di capire — la tesi della specialità della nullità comminata dall’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431, quale nullità di protezione, non potrebbe essere accolta perché l’azione di riconduzione a condizioni conformi prevista dall’art. 13 l. 9 dicembre 1998, n. 431 è data soltanto in caso che la pattuizione in forma verbale sia stata «pretesa» dal locatore:
Ma è proprio su questo terreno che l’opinione appena esposta non riesce a convincere. Il fatto è che l’atipico meccanismo edificato dal quinto comma dell’art. 13 copre un’area del tutto residuale, segnata, per così dire, dall’abuso di posizione dominante del locatore, nella parte in cui questi «pretende» l’accordo verbale, e perciò lo impone al conduttore. Non a caso chi propugna la tesi soggetta a critica inverte i termini della questione, stimando applicabile l’azione concessa al conduttore, nei casi in cui per libera determinazione di entrambe le parti il rapporto si sia instaurato in via di fatto. Ma su questo punto la lettera della legge chiude ogni spazio: come chiosato dai primi commentatori, sembra al contrario che la sola «pretesa» di parte locatrice giustifichi tale effetto, a condizione che il conduttore ne offra la prova in giudizio. Se ciò è vero, se ne trae una decisiva conseguenza: l’inosservanza della forma scritta non è considerata di per sé dal legislatore come un mezzo di indebita compressione della posizione giuridica che l’ordinamento intende garantire al conduttore. Al contrario, ad essa si deve accompagnare un quid pluris (la pretesa), il quale altro non è se non la spia che nel caso di specie, caratterizzato da profili concreti che il legislatore non può e non vuole prevedere, in quanto variabili a seconda della peculiarità della fattispecie, l’elusione della forma scritta reca vantaggi al solo locatore: se tali utilità fossero reciproche cesserebbe infatti la ragione stessa dell’abuso impositivo, esattamente come cessa l’esperibilità da parte del conduttore dell’azione di cui all’art. 13
(Trib. Varese 18 maggio 2000, ALC, 2000, 935).
Nel seguire il suo ragionamento — la nullità di cui all’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 non è nullità di protezione perché l’azione di riconduzione a condizioni conformi di cui all’art. 13 l. 9 dicembre 1998, n. 431 è data solo in caso di «pretesa» del locatore — il giudice xxxxxxxx varca senza esitare la soglia del paradosso, giungendo ad affermare che il conduttore il quale abbia conseguito il godimento dell’immobile grazie ad un contratto verbale, come tale nullo, si troverebbe in posizione di forza nei confronti del locatore, posizione che, viceversa, decisamente non si addice a chi è detentore sine titulo:
Ciò, del resto, è assolutamente consono a quanto ordinariamente accade: il conduttore che ottenga il godimento dell’immobile in assenza di contratto scritto viene spesso a trovarsi in una posizione di forza rispetto al locatore, già per il solo fatto che toccherà a quest’ultimo attivarsi allo scopo di recuperare il bene, nell’ipotesi di altrui inadempimento (senza poter usualmente disporre dell’efficace procedimento speciale di convalida di sfratto, in difetto di prova documentale in ordine alla sussistenza e alla natura del rapporto), esponendosi così all’alea di un giudizio, ove la difficoltà di accertamento della fattispecie tende ad aggravare la posizione di parte attrice. Non è, pertanto, nell’assiomatica debolezza del conduttore che deve ricercarsi la ratio dell’art. 1. 4° co., allo scopo di governare gli effetti della locazione di fatto. Piuttosto, emerge prepotente il tradizionale interesse pubblico sotteso alla disciplina della nullità. Non solo ciò appare chiaro in relazione agli effetti fiscali del negozio, cui il legislatore, dinnanzi ad imponenti fenomeni evasivi, presta particolare attenzione (basti pensare all’art. 7 della novella in tema di esecuzione dei provvedimenti di rilascio). Soprattutto, si deve considerare l’esigenza di certezza propria di rapporti giuridici, il cui dinamismo caratterizza la conformazione di assetti sociali di primario rilievo: difficilmente potrà negarsi che il cd. mercato della casa non rientri in tale novero (il massiccio e tormentato ricorso alla legislazione speciale è lì a confermarlo). Se il legislatore restringe gli spazi dell’autonomia contrattuale, in ragione della natura del rapporto in gioco, è speculare la necessità che sia agevole ed immediato l’accertamento in ordine all’osservanza della normativa. Un conto è, in altre parole, che siano rispettate le disposizioni imperative di tutela del contraente debole; altra questione è che vi sia certezza in ordine al rapporto giuridico cui le parti hanno dato vita: per raggiungere tale ultimo obiettivo, il legislatore ha imposto la forma scritta quale requisito di validità del contratto
(Trib. Varese 18 maggio 2000, ALC, 2000, 935).
Alle considerazioni che precedono vale in primo luogo replicare che l’individuazione della ratio della previsione formale nell’esigenza di combattere l’evasione fiscale non appare ormai sostenibile, come si è già detto. Quanto all’assunto che la previsione del requisito formale andrebbe di pari passo con le limitazioni imposte dalla legge all’autonomia privata è facile replicare, da un lato, che la vigente legge sulle locazioni abitative ha perseguito il manifesto obbiettivo di ripristinare, sia pure entro margini contenuti, l’autonomia privata delle parti, e, dall’altro lato, che l’impostazione menzionata susciterebbe un immediato sospetto di incostituzionalità, avuto riguardo al rilievo che la disciplina delle locazioni non abitative — nelle quali la limitazione della libertà negoziale è analoga — non prevede alcun requisito di forma per la stipulazione. Nondimeno la pronuncia in esame si avvia al suo epilogo affermando che, nel caso di stipulazione verbale del contratto di locazione, il ricorso all’azione per convalida è inammissibile, giacché il locatore non è locatore, né il conduttore è tale:
Sulla base di tali premesse, non può che ritenersi, sia pure ai limitati effetti propri del presente procedimento di convalida di sfratto, la nullità dell’accordo verbale di locazione. Ne segue che la detenzione dell’immobile da parte dell’intimata non regge su alcun contratto, ma si connota quale occupazione sine titulo. Xxx l’intimante intende recuperare il bene, sarà perciò tenuto ad agire nelle forme ordinarie. In questa sede, ai sensi dell’art. 13, 5° co., può innestarsi in via riconvenzionale l’azione del conduttore ivi prevista … Allo stato, tuttavia, si deve solo osservare che la fattispecie dedotta in causa non ha carattere locatizio e non consente di esperire il procedimento prescelto di convalida di sfratto per morosità. L’istanza dell’intimante va perciò rigettata
(Trib. Varese 18 maggio 2000, ALC, 2000, 935).
Secondo questa discutibile impostazione, dunque, il locatore non avrebbe l’azione per convalida nel quadro del medesimo giudizio diretto ad accertare la sussistenza del contratto di locazione. In senso analogo, ma con più stringata motivazione, un altro giudice di merito ha:
osservato che nell’atto di intimazione dello sfratto per morosità e citazione per convalida è riferito che il contratto è stato stipulato in data 1° luglio 2000 in forma verbale ...; osservato che l’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998 (entrata in vigore in data 30 dicembre 1998), statuisce come noto che «a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta»; ritenuto pertanto che il contratto oggetto del presente procedimento sommario è affetto da nullità ex artt. 1 della legge citata e 1418 c.c.; ritenuto che, ove i rapporti contrattuali posti a base di procedimenti sommari siano affetti da nullità rilevabile d’ufficio, debba il giudicante rigettare la domanda stessa per assenza dei relativi presupposti
(Trib. Verbania 5 aprile 2001, ALC, 2001, 567).
E parimenti si è sostenuto che, richiedendo l’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 la forma scritta sotto comminatoria di nullità, tale forma diviene elemento costitutivo del contratto, la cui mancanza, a norma dell’art. 1418 c.c., attraverso il rinvio all’art. 1325, n. 4, c.c., determina la nullità del contratto di locazione:
Poiché l’art. 1, 4° co., della legge n. 431 del 1998 richiede la forma scritta sotto comminatoria di invalidità del contratto, tale forma diviene elemento costitutivo del contratto, la cui mancanza, a norma dell’art. 1418 c.c. che rinvia alla doverosa sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1325 c.c., determina la nullità del contratto di locazione. Conseguentemente il procedimento speciale di convalida di sfratto non è esperibile
(Trib. Reggio Calabria 29 marzo 2001, ALC, 2001, 567).
Più ampiamente un diverso giudice di merito, misurandosi con il medesimo caso, ha svolto le osservazioni che seguono:
A fondamento della procedura sommaria di convalida di sfratto vi deve essere un valido contratto di locazione e la prova dell’esistenza di un tale contratto incombe sull’intimante, posto che è il fatto costitutivo del diritto che fa valere (art. 2697 c.c.). L’ultimo comma dell’art. 1 della legge n. 431 del 1998 stabilisce che un contratto di locazione per essere ritenuto valido deve essere stato stipulato per iscritto. In mancanza della forma scritta il contratto è nullo (artt. 1418 e 1325 c.c.) e la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 1421 c.c.). Nel caso in esame è pacifico che tra le parti non è stato stipulato un contratto scritto. A tal proposito sostiene l’intimante che la nullità del contratto non comporterebbe di per sé l’inesistenza di un rapporto locatizio di fatto «figura che emerge dall’art. 13 della legge n. 431 del 1998». Ritiene il giudicante che, anche se per mera ipotesi si potesse condividere tale tesi, lo sfratto, nel caso in esame, non potrebbe, comunque essere convalidato. Il provvedimento di convalida, infatti, comporterebbe un giudizio di accertamento dell’esistenza di un contratto stipulato in modo non conforme alla legge ed una pronuncia di risoluzione di tale contratto per inadempimento. È evidente che la domanda di accertamento, ammesso, pure, che possa essere proposta con l’intimazione di sfratto ... deve essere, in ogni caso, formulato in modo esplicito, anche per garantire il diritto di difesa dell’intimato
(Trib. Ascoli Xxxxxx 21 maggio 2003, ALC, 2003).
A conclusioni del tutto diverse si perviene ove si ricostruisca la peculiare invalidità di cui all’art. 1, 4° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 in termini di nullità speciale.
Merita rammentare, in argomento, una articolata opinione che sembra rinvenirsi in una decisione, la quale, pur prestando adesione all’opinione dominante, è apparse consapevole della specialità della nullità contemplata dalla disposizione in questione, ed ha intravisto nella condotta processuale in quell’occasione mantenuta dal conduttore l’esperimento dell’azione di «recupero», ritenendolo, così, legittimato ad avvalersi della sanatoria giudiziale di cui all’art. 55 l. eq. can. ovvero dell’art. 666 c.p.c., e, perciò, titolare della qualità di conduttore:
La dottrina dominante (consta, difatti, una sola ― ancorché autorevole ― voce dissenziente) ravvisa in questa norma la definitiva introduzione nel nostro ordinamento della forma scritta ad substantiam per la stipulazione di contratti di locazione ad uso abitativo. L’affermazione, condivisa da questo tribunale, viene altresì validamente avallata dal successivo art. 13, 1° e 5° co., della legge citata, da cui ― a fortori ― si desume la nullità del «contratto» concluso in forma meramente verbale (se, difatti, è nulla persino la semplice clausola ― ovviamente scritta ― con la quale viene pattuito un canone superiore a quello fissato nel contratto «scritto e registrato» a maggior ragione si dovrà ritenere nulla la locazione conclusa in forma verbale)
(Trib. Verona 21 giugno 2000, ALC, 2001, 131).
Una volta prestata adesione alla tesi della nullità del contratto per carenza di forma, il tribunale si trova dinanzi al problema dell’ammissibilità dell’intimazione di sfratto per morosità. Un non-locatore, infatti, non può dolersi che il non-conduttore ometta di versare un non-canone:
Tuttavia, ad un più meditato esame, emerge come detta nullità (la cui specialità appare evidente) non conduce necessariamente all’inesistenza della locazione. L’art. 13, 5° co., della legge n. 431 del 1998 ammette difatti la figura della «locazione di fatto» allorquando il locatore abbia preteso la mera forma verbale … e, in siffatta ipotesi, consente al conduttore di agire: a) per l’accertamento dell’esistenza del contratto di locazione; b) nonché per la determinazione del canone in misura non superiore a quello fissato nel contratto-tipo ex art. 2, 3° co., della legge n. 431 del 1998. La legge, pertanto, nel riconoscere rilevanza giuridica a questo peculiare rapporto di fatto, introduce una sorta di speciale «conversione» del contratto nullo che, in prima lettura, pare tuttavia discostarsi da quella ordinaria di cui all’art. 1424 c.c. principalmente per la tutela soggettiva ed unilaterale che la ispira
(Trib. Verona 21 giugno 2000, ALC, 2001, 131).
Qui il tribunale scaligero non sembra perfettamente conseguente. Se la nullità è evidentemente una nullità «speciale», infatti, sarebbe da attendersi che essa si comporti come tale, e non come una nullità tipica pienamente inquadrata nel paradigma degli artt. 1418 ss. c.c.. Comunque, il giudice constata che il conduttore, nel formulare eccezione di nullità del contratto, mancante del requisito formale, preannuncia al tempo stesso l’azione di «recupero». In ciò va ravvisato
l’esercizio dell’azione di cui all’art. 13, 5 co., della legge citata e ciò può bastare, in questa fase, per ritenere l’astratta sussistenza del presupposto logico-giuridico per proporre l’intimazione di sfratto
(Trib. Verona 21 giugno 2000, ALC, 2001, 131).
Se il conduttore manifesta la volontà di introdurre l’azione di «recupero» — mostra di intendere il tribunale — il contratto di locazione deve essere dunque considerato valido, sul che può convenirsi. Ma il giudice non pare invece interrogarsi sulla compatibilità logica — che appare assai difficile da realizzare — dell’eccezione di nullità con l’azione di «recupero». Il conduttore, come si è visto, è il dominus della situazione, nel senso che il suo atteggiamento negoziale dinanzi al contratto ne determinerà la sorte. Ma, proprio per questo, egli non può volere e disvolere al tempo stesso e, dunque, non può invocare simultaneamente la nullità ed il «recupero».
Dopo aver esaminato l’atteggiamento della giurisprudenza, la quale, pur con qualche apertura, intende la nullità per difetto di forma come nullità che «può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice» (art. 1421 c.c.), occorre osservare che, se si ammette invece il carattere speciale e relativo della nullità, ogni questione sembra divenire facilmente risolvibile.
Raggiunto dall’intimazione di sfratto per morosità — questo il caso finora presentatosi all’esame della giurisprudenza, ma la soluzione sarebbe analoga in qualsiasi controversia locatizia —, il conduttore potrà:
[a] — eccepire la nullità per difetto di forma, con conseguente inammissibilità del procedimento per convalida e preclusione, al tempo stesso, dell’azione di «recupero»; egli, in tal caso, rimarrà privo di titolo giustificativo del godimento della cosa, che dovrà dunque rilasciare perché detenuta senza titolo, restando soltanto da verificare, sul piano processuale, se una simile domanda di rilascio possa trovare ingresso all’esito della trasformazione del rito ex art. 667 c.p.c., ovvero richieda l’introduzione di un nuovo giudizio;
[b] — non eccepire la nullità per difetto di forma, con conseguente ammissibilità del procedimento per convalida; egli, in tal caso, si troverà nella posizione di qualsiasi altro conduttore, come se il contratto stipulato fosse pienamente valido; la morosità andrà scrutinata in riferimento al canone come pattuito; il conduttore potrà avvalersi della sanatoria giudiziale in riferimento a quel canone;
[c] — introdurre la domanda di «recupero», con conseguente ammissibilità del procedimento per convalida; in tal caso il conduttore si troverà parimenti nella posizione di qualsiasi altro conduttore, come se il contratto stipulato fosse pienamente valido; la morosità andrà scrutinata — si può ipotizzare — in riferimento al non abrogato ultimo comma dell’art. 45 l. eq. can., ossia al canone che il conduttore non contesta di dover pagare all’esito dell’azione di «recupero»; il conduttore potrà avvalersi della sanatoria giudiziale in riferimento a quel canone.
Trattandosi di nullità relativa, inoltre, essa non potrà essere rilevata d’ufficio dal giudice. Il che val quanto dire che egli non dovrà esigere dall’intimante la produzione del contratto di locazione, dovendo invece operare il consueto congegno di ficta confessio su cui il procedimento per convalida si fonda.
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