DOTTORATO DI RICERCA
Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXVII
TITOLO TESI:
CAUSA E REFERENTI OBIETTIVI ESTERNI
Settore scientifico disciplinare IUS/01
Presentata da: | Xxxxxxx Xxxxxx |
Coordinatore Dottorato: | Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx |
Tutor/Relatore: | Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx |
Esame finale anno accademico 2013 – 2014
Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXVII
TITOLO TESI:
CAUSA E REFERENTI OBIETTIVI ESTERNI
CAUSA AND EXTERNAL OBJECTIVE REFERENTS
Settore scientifico disciplinare IUS/01
Presentata da: | Xxxxxxx Xxxxxx |
Coordinatore Dottorato: | Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx |
Tutor/Relatore: | Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx |
Esame finale anno accademico 2013 – 2014
INDICE
1. INTRODUZIONE
1.1. Attualità e rilevanza di un’indagine sulla causa 9
1.2. L’obiettivo della ricerca 16
2. LA CAUSA COME FUNZIONE E RAGIONE GIUSTIFICATIVA DEL NEGOZIO
2.1. Cenni sull’evoluzione del pensiero giuridico in relazione alla causa:
la iusta causa traditionis nel diritto romano e profili di diritto intermedio 20
2.2. Recenti profili evolutivi nel pensiero giuridico europeo-continentale:
dalla funzione economico-sociale alla funzione individuale 24
2.3. Causa come oggettiva e concreta giustificazione e funzione dell’atto 31
2.4. Teoria dello “scopo” della prestazione in relazione a negozi che
non contengano in sé la loro causa 34
2.5. Nozione di “funzione” come attitudine del negozio ad un concreto
assetto di interessi 38
2.6. Rilevanza causale dell’interesse (e dell’assetto di interessi divisato
dalle parti) 45
2.7. Causa, meritevolezza di tutela e astrattezza 57
3. ACCERTAMENTO CAUSALE E REFERENTI OBIETTIVI ESTERNI DELLA CAUSA IN GENERALE
3.1. Premessa sull’accertamento causale 61
3.2. Teoria dei presupposti e referenti obiettivi della causa,
considerati in un’ottica funzionale 66
3.3. Referenti obiettivi esterni della causa in un’ottica strutturale 69
3.4. Concettuale ammissibilità del referente causale esterno e rilievi
in punto di astrattezza 75
3.5. Considerazioni in ordine al rapporto tra causa e oggetto del negozio 82
3.6. La rilevanza causale dell’elemento condizionale 89
3.7. Ulteriori riflessioni sulla valenza causale dell’elemento condizionale.
Una possibile rivisitazione della nozione di scambio (rinvio) 93
4. REFERENTI OBIETTIVI ESTERNI DI NATURA NEGOZIALE E NON NEGOZIALE
SEZIONE I: GLI EFFETTI DI UN DISTINTO ATTO GIURIDICO NEGOZIALE COME REFERENTE CAUSALE ESTERNO
4.1. Effetti di un distinto negozio giuridico come referente causale esterno 96
4.2. La c.d. “prestazione isolata” e il pagamento traslativo 97
4.3. Singole ipotesi di atti con funzione solutoria. Mandato senza rappresentanza. Legato di cosa altrui 102
4.4. Trust e atti di dotazione. La questione del conferimento
di beni in società 105
4.5. Il collegamento negoziale 109
4.6. Una prima conclusione 118
SEZIONE II: INTERESSE OGGETTIVO E REFERENTI CAUSALI ESTERNI DI NATURA NON NEGOZIALE
4.7. Profili generali 120
4.8. Rilevanza causale dell’interesse del disponente nel negozio gratuito atipico. Rivisitazione e ampliamento della nozione di scambio in
un’ottica di convergenza e reciprocità di interessi 123
4.9. Il dibattito intorno ai binomi gratuità-onerosità e atti liberali-atti interessati 132
4.10. L’atto di adempimento del debito altrui 135
4.11. L’interesse dello stipulante nel contratto a favore di terzo 138
4.12. Considerazioni in tema di fideiussione e negozî gratuiti infragruppo…140
4.13. Il negozio di manleva nell’ambito di complesse operazioni societarie. L’impegno avente ad oggetto l’esercizio del
diritto di voto in assemblea. L’opzione 149
4.14. L’atto unilaterale di rinunzia ad un diritto 156
4.15. L’atto di procura. Cenni in tema di donazione 161
SEZIONE III: LA RILEVANZA CAUSALE DEL CONTESTO NEGOZIALE
4.16. Premessa 165
4.17. Operazione economica e contesto negoziale 165
4.18. Esempi applicativi: contratti gratuiti in internet e causa
del contratto di assicurazione 173
5. REFERENTI CAUSALI ED EXPRESSIO CAUSAE
5.1. Il problema dell’expressio causae. Il caso dei negozî la cui
struttura ne rivela di per sé la causa 179
5.2. Expressio causae e negozî con referenti causali esterni 182
6. RILEVANZA APPLICATIVA DELL’ACCERTAMENTO DELLA CAUSA IN RAPPORTO A REFERENTI ESTERNI
SEZIONE I: RILEVANZA APPLICATIVA SUL PIANO STRUTTURALE
6.1. Premessa in tema di interpretazione e qualificazione del rapporto 188
6.2. Assenza di causa in concreto, tra invalidità e condictio indebiti 190
6.3. Meritevolezza di tutela e liceità della causa sul piano strutturale 195
6.4. (segue) Una possibile applicazione in tema di collegamento negoziale. Valutazioni critiche in merito ad un recente
orientamento nomofilattico 199
SEZIONE II: RILEVANZA APPLICATIVA SUL PIANO PRETTAMENTE FUNZIONALE
6.5. Il problema delle disfunzioni sopravvenute in rapporto ai referenti
causali esterni. Profili applicativi in tema di collegamento negoziale 204
6.6. La possibile applicazione estensiva del rimedio risolutorio,
oltre il sinallagma in senso stretto 206
6.7. La natura giuridica e gli effetti della risoluzione 213
6.8. Lo strumento del recesso di autotutela 217
7. CONCLUSIONI 220
BIBLIOGRAFIA 222
1. INTRODUZIONE
1.1. Attualità e rilevanza pratica di un’indagine sulla causa
L’esperienza applicativa del diritto mostra come la causa del contratto (e, più in generale, del negozio giuridico), di per sé istituto di straordinario interesse sul piano teorico e dogmatico, assuma, oggi forse ancor più che in passato, una crescente rilevanza per gli interpreti, che ad essa fanno frequente ricorso allorquando sono chiamati a dare risposte soddisfacenti a problematiche negoziali particolarmente attuali, vuoi sul piano genetico del rapporto giuridico, vuoi su quello funzionale ed attuativo (1).
Il modo di affrontare fisiologia e patologia del rapporto giuridico negoziale, in altri termini, risente, in maniera sempre più consapevole, di un’esigenza di comprensione e giustificazione del medesimo e dei suoi effetti: di qui la rilevanza di un’indagine sull’istituto della causa che sia, ad un tempo, articolata su basi solide e rigorose ed attenta al diritto vivente, al di là di formulazione teoriche o impostazioni puramente descrittive.
L’impressione che si ricava esaminando alcuni dei contributi dottrinali e delle decisioni giurisprudenziali più recenti, in particolare, è che la causa venga avvertita come strumento di adeguamento del diritto alle mutevoli esigenze dei traffici giuridici: per certi versi, un approdo sicuro, al riparo da risultati interpretativi considerati, per così dire, “ingiusti” (si pensi alle elaborazioni ermeneutiche in punto di inutilizzabilità della prestazione da parte del creditore, previa ricostruzione e accertamento della causa concreta del negozio); per altri
1 Osserva che, da sempre, i contorni della causa sono stati modellati sulla base di esigenze logiche e pratiche: X. Xxxx, La causa e il tipo, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, I contratti in generale, 2006, I, 547.
versi, un criterio guida per comprendere e spiegare esigenze in continua evoluzione, che pongono all’attenzione del giurista profili di interesse, patrimoniale o non patrimoniale, difficilmente relegabili nell’angolo dell’irrilevante giuridico.
Sempre più di frequente, di fronte a figure negoziali atipiche (anche socialmente), oppure dinanzi ad atti apparentemente tipici cui è però sottesa una finalità (una funzione oggettiva) del tutto peculiare, che connota l’operazione economico-giuridica nel suo complesso, si è portati ad interrogarsi sul perché le parti abbiano posto in essere quel particolare negozio, o, più precisamente, su quale ne sia la giustificazione e la funzione, quest’ultima – come si vedrà nel corso della presente trattazione – intesa come attitudine alla realizzazione di un determinato e concreto assetto di interessi, al di là, ed eventualmente al di fuori, di rigidi schemi tipologici; si chiede allora l’interprete “se” e “perché” l’ordinamento possa o debba riconoscere e tutelare quel determinato assetto di interessi come divisato dalle parti, quale valida fonte di obbligazioni o, comunque, di effetti giuridicamente rilevanti, per poi domandarsi cosa accade se, nella fase di attuazione degli effetti del negozio, quell’assetto non possa, in tutto o in parte, essere soddisfatto. Non a caso, si è efficacemente puntualizzato, le più recenti decisioni giurisprudenziali ricorrono sempre più spesso alla causa (concreta) per decidere in tema di validità, interpretazione, qualificazione, connessioni ed effetti del contratto (2).
E’ pur vero che talvolta la giurisprudenza esprime un andamento ondivago e incerto allorquando si confronta con la causa (3), talvolta arroccata su asettiche nozioni tradizionali, altre volte fin troppo atecnica nel valorizzare, sotto il profilo
2 C.M. Xxxxxx, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 2, 256. Si rileva altresì in dottrina, con riguardo al rapporto tra causa e collegamento negoziale, che “tra i criteri di interpretazione del contratto viene anche in considerazione quello dell’interpretazione funzionale: e cioè l’interpretazione diretta a ricercare il significato del contratto in coerenza con la causa concreta di esso, più correttamente, ancora, con la causa di esso così come integrata dagli interessi determinanti l’operazione”: X. Xxxxxxxxxxxx, Morte della causa?, in Problemi della causa e del tipo, in Trattato del contratto, II, Regolamento, a cura di X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000, 101.
3 X. Xxxx, op. cit., 562.
causale, intenti e circostanze che lambiscono, fino a varcarla, la soglia dei meri motivi soggettivi o che attengono, più propriamente, all’oggetto o all’interpretazione del negozio; tale incertezza, però, non pare sintomo di “ignoranza” o superficialità tecnico-giuridica, bensì sentore di un’esigenza concreta e imprescindibile, che, di fronte a situazioni giuridiche in continua evoluzione, coglie (o magari soltanto intuisce) la possibilità di fondare sull’istituto della causa una decisione avvertita come più confacente alla concretezza dei rapporti e dei traffici giuridici.
Da altro angolo visuale, se ci si pone nei panni del “pratico” chiamato a tradurre in accordi contrattuali l’assetto di interessi perseguito dalle parti, non perdere di vista la causa concreta (e i referenti sui quali la stessa si articola) costituisce la chiave per decidere “se” e “come” quel determinato negozio possa essere configurato, e soprattutto quali criticità, magari tenendo conto del collegamento con altri negozî, esso potrà eventualmente implicare.
Il problema della causa, dunque, diventa essenzialmente il problema della sua individuazione, del suo accertamento e della sua verifica, ossia della comprensione degli elementi obiettivi che esprimono il concreto assetto di interessi, il cui perseguimento integra appunto la funzione obiettiva del negozio. Ed è di fronte a queste esigenze che si avverte, chiaramente, l’insufficienza di un’analisi circoscritta all’oggetto giuridico del negozio (e dunque alle prestazioni o agli effetti del medesimo), diventando fondamentale verificare ed accertare tutti gli elementi che assumono rilievo in relazione alla causa concreta, al fine di risolvere specifiche problematiche di carattere genetico e/o funzionale, tra cui la qualificazione del negozio giuridico e la sua disciplina, nonché, secondo un orientamento forse
opinabile (in quanto caratterizzato da una inversione logica), la stessa interpretazione del contratto (4).
Posta l’esigenza di comprensione e di accertamento causale sopra evidenziata, oltre che sulla scorta dell’evoluzione millenaria del pensiero giuridico continentale, appare allora decisamente arduo mettere in discussione, in primis nel nostro ordinamento, l’autonoma portata giuridica della causa, come confermato dagli assunti giurisprudenziale più recenti (sui quali si tornerà diffusamente nel prosieguo) e dal chiaro dettato degli artt. 1325 e 1343 cod. civ.
La stessa nozione di meritevolezza di tutela, che – a mente del secondo comma dell’art. 41 della Costituzione – si caratterizza per una dignità autonoma rispetto a quella di liceità, si osserva, esclude che possano trovare riconoscimento e tutela negozî socialmente dannosi (5). Né paiono coerenti con il sistema gli assunti concettuali che argomentano il superamento della causa facendo riferimento a figure (in realtà certamente suscettibili di accertamento e verifica causale in concreto) quali il negozio di accertamento e la transazione (6), ovvero
4 In questo senso, cfr. C.M. Xxxxxx, op. cit., 258, secondo cui l’interpretazione del contratto deve procedere con riferimento alla causa concreta, nel senso che “il significato di ciò che le parti hanno concordato non può essere adeguatamente accertato se non si tiene conto della ragione pratica dell’affare, ossia della causa concreta”.
5 C.M. Xxxxxx, op. cit., 255.
6 Richiama il “vecchio problema” della natura causale o astratta dei contratti diretti ad accertare o transigere rapporti (preesistenti) controversi, X. Xx Xxxx, (voce) Causa nel negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, 1988, 6. Secondo X. Xxxxx, La causa, in Tratt. dir. priv. diretto da X. Xxxxxxxx, III ed., Obbligazioni e contratti, II, 329 ss., il nostro ordinamento consentirebbe di rendere astratta l’obbligazione attraverso l’istituto della confessione, dal momento che, non essendo consentito impugnare la confessione non erronea (pur se falsa), la stessa può risolversi in uno strumento di astrazione manipolabile a piacere dai privati. L’argomento non convince, atteso che, come ricordato dallo stesso Autore, astrattezza sul piano sostanziale e prova delle situazioni giuridiche rappresentano piani distinti, l’uno attinente alla res iuris, l’altro alla res facti. Nemmeno il riferimento al negozio di accertamento, richiamato dal medesimo Autore quale atto astratto, convince, perché trascura la valenza dell’incertezza, della res dubia, quale referente causale, e dunque la funzione dell’atto consistente, per costante giurisprudenza, nella rimozione della situazione d’incertezza in cui verte il rapporto. Né sembra sufficiente argomentare, in contrario, che l’accertamento non è ritenuto impugnabile per errore di fatto o di diritto: l’evenienza che il risultato materiale dell’accertamento non coincida con la realtà dei fatti, e che dunque sul piano empirico l’accertamento comporti il sorgere di situazioni giuridiche prima non esistenti, è ontologicamente connessa alla funzione di eliminazione dell’incertezza (tant’è vero che, qualora si dimostrasse
sovrappongono indebitamente il piano sostanziale della giustificazione causale a quello processuale dell’eventuale inversione dell’onere della prova circa la sussistenza del rapporto sottostante (si pensi all’opinione, invero non condivisibile, che ravvisa nella confessione uno strumento di elusione della causa, con particolare riguardo all’effetto di presunzione iuris et de iure) (7).
Si obietta da più parti che, a livello comunitario, i progetti di regolamentazione uniforme del contratto elaborati dalle varie commissioni di studio non contemplano l’istituto della causa, esprimendo anzi l’inutilità (si pensi ai lavori della Commissione Lando, particolarmente sensibili all’esperienza tedesca) o, peggio, l’incertezza (sostenuta in seno alla Commissione Gandolfi) rispetto all’inclusione dell’istituto in una regolamentazione codicistica comune.
L’assunto secondo cui l’esperienza europea segnerebbe la crisi della causa, tuttavia, appare superficiale e non sufficientemente attento alle dinamiche del diritto vivente, se solo si considera che lo stesso Trattato dell’Unione Europea prevede, quale specifica finalità dell’Unione, la promozione del progresso economico e sociale, oltre alle altre finalità sociali previste dall’art. 2 del Trattato istitutivo della Comunità Europea: molto difficilmente, anche in ambito europeo, potrà allora ammettersi la validità di un contratto in contrasto con quelle finalità (8), il che necessariamente implica che non potrà prescindersi dal cogliere e accertare la funzione concreta del negozio, al fine di valutarne la coerenza con i principî e le finalità dell’ordinamento, ed in primis la sua meritevolezza di tutela e liceità.
l’originaria assenza di incertezza, così come la mancanza della res dubia in caso di transazione, il negozio dovrebbe ritenersi impugnabile per difetto di causa).
7 Cfr. supra, nota 6.
8 C.M. Xxxxxx, op. cit., 255. L’Autore ricorda le riflessioni dottrinali in punto di clausola antielusiva fiscale in rapporto al divieto di abuso del diritto di cui all’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Sarebbe invero arduo pensare ad un sistema giuridico che non ammettesse rimedî a fronte di arricchimenti “ingiustificati” (9), o che, per altro verso, non riconoscesse la fisiologica inscindibilità del vincolo contrattuale sulla base della concezione unitaria del contratto, quale portato del principio causalista (10). Non a caso, si osserva, anche in quei sistemi nazionali nei quali la causa non trova espresso riconoscimento codicistico, tra cui quello tedesco, si riconosce che, quantomeno in materia contrattuale, la causa è “nella natura delle cose” (11).
Proprio il diritto comunitario, tra l’altro, nel farsi portavoce di esigenze di protezione e tutela del contraente “debole” (cui certamente la causa non è estranea) ha contribuito alla positivizzazione di istituti, quali il collegamento negoziale, che della causa costituiscono indubbia esplicazione, e su cui ci si soffermerà specificamente nel prosieguo allorquando si tratterà di approfondire la figura del referente causale esterno (v. infra, § 4.5).
Per altro verso (ed ancora una volta si tratta di aspetti cui certamente il diritto comunitario non è indifferente), l’indagine causale presenta notevoli profili di interesse in rapporto al principio di autonomia negoziale, rispetto al quale la causa può rappresentare, a seconda dei punti di vista, una garanzia e un limite. Da un lato, infatti, l’individualizzazione e concretizzazione della nozione di causa (e
9 Al riguardo, si osserva in dottrina che l’ordinamento tedesco, pur non riconducendo la causa né al negozio giuridico, né al contratto, ne riconosce il rilievo sul piano empirico, appunto apprestando tutela contro gli arricchimenti ingiustificati (§§ 812 ss. BGB): A. Di Majo, op. cit., 1. Peraltro, fermo restando che l’art. 1325 cod. civ. annovera la causa tra i requisiti del contratto, non si manca tra gli interpreti di qualificare la causa come un “giudizio” sulla funzione del contratto, più che come requisito in senso stretto. Tale impostazione, a prescindere dalla sua condivisibilità o meno sul piano positivo, appare significativa laddove riconosce nella causa uno strumento di comprensione e valutazione del negozio, che certamente non verrebbe meno quand’anche, per assurdo, si decidesse di abrogare gli artt. 1325 e 1343 ss. cod. civ.
10 Un approfondimento sul significato del principio causalista è svolto da X. Xxxx, op. cit., 554.
11 Il riferimento è al diritto tedesco e svizzero: cfr. sul punto X. Xxxx, op. cit., 558. L’Autore ricorda che la causa non rientra tra i Principi Unidroit in quanto – stanti le incertezze interpretative che la contraddistinguono – la relativa previsione è stata ritenuta pregiudizievole per la certezza dei traffici internazionali, rispetto ai quali sono parsi sufficienti gli strumenti rimediali basati su good faith (e clausole di hardship) e gross disparity.
del suo accertamento) ne rivela la flessibilità, quale strumento di espressione dell’autonomia negoziale capace di trascendere il tipo normativo, ovvero di adattare e plasmare il “tipo” alla luce delle più diverse esigenze e funzionalità; per altro verso, l’esistenza di previsioni normative in ordine alla causa mancante, assistite dal rimedio civilistico della nullità (ovvero dall’applicabilità del principio di ripetizione dell’indebito, per chi lo ritenga), ricorda che – superati anacronistici dirigismi normativi, a ben vedere nemmeno univocamente accolti in sede di compilazione del Codice civile del ’42 – la causa assolve ad una funzione di tutela dei contraenti, ponendoli al riparo dal rischio di assumere obblighi o subire conseguenze sfavorevoli senza una giustificazione che l’ordinamento ritenga meritevole di tutela (12); infine, volgendo lo sguardo alla disciplina dell’illiceità della causa, si coglie il limite dell’autonomia negoziale, volto ad impedire – a tutela di posizioni giuridiche o interessi più o meno generali o collettivi – che la stessa si esprima in conseguenze effettuali disapprovate dall’ordinamento (13).
Lo studio della causa, dunque, non rileva oggi soltanto (indiscutibilmente) nell’ordinamento interno, ma, a ben vedere, assume rilevanza in una prospettiva europea, a prescindere dalla strada che vorrà perseguirsi in ordine alla sua espressa codificazione. Né può ritenersi che, se si guarda al significato profondo dell’istituto, la causa non trovi in certo qual modo rispondenza nella consideration di common law, quale elemento su cui si fonda l’azionabilità delle promesse contrattuali (14).
12 Si ravvisa in dottrina, tra le funzioni della causa, quella di tutela del contraente più debole, con la precisazione che non è possibile accedere ad una nozione astratta di contraente debole sulla base di criteri oggettivi o soggettivi precostituiti, “trattandosi solo di colui che di fatto è in una posizione di tale debolezza da accettare il rischio di un affare illogico ed inutile rispetto all’interesse perseguito”: X. Xxxxxxxxxx, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, 237. La nozione di causa come “funzione economica” e come strumento di protezione degli stessi contraenti è altresì sostenuta da X. Xxxxxxx, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1990, 170 ss.
13 Per la lettura in termini di “funzioni della causa” delle disposizioni normative relative alla causa mancante ed alla causa illecita, si veda X. Xxxxx, (voce) Contratto, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1989, IV, 113.
00 Xxx. X. Xxxxx, Xx contratto, I, Milano, 1955, 341 ss.; A. Di Majo, ibidem.
In definitiva, può ancora riconoscersi attualità al portato della teoria causalista affermatasi nel pensiero giuridico europeo-continentale (si pensi a Xxxx Xxxxx e a Xxxxxx-Xxxxxx Xxxxxxx) in contrapposizione al pensiero giusnaturalista più rigoroso – che muovendo dall’esaltazione della volontà giungeva alla conseguenza, invero obbligata dall’assunto di partenza, che “una promessa, anche se fatta senza causa, è vincolante per legge di natura”(15) – secondo cui non è ammissibile l’attribuzione di un diritto o l’assunzione di un obbligo senza una giustificazione, senza una causa.
1.2. L’obiettivo della ricerca
Alla luce delle considerazioni introduttive che precedono, obiettivo della presente ricerca è mostrare come una risposta a molti problemi fondamentali cui l’interprete si trova quotidianamente di fronte in materia negoziale possa essere data, con sufficiente grado di attendibilità, avendo a mente un inquadramento chiaro del fenomeno causale, che consenta di apprezzarne, nella maniera più rigorosa possibile, l’autonoma portata giuridica sul piano genetico-strutturale, prima ancora che attuativo-funzionale.
Vi è infatti, in primis, una genuina esigenza di comprensione e di spiegazione, in vista della quale nozioni come “funzione” e “giustificazione”, epurate da sostrati tipologici e calate nella concreta realtà giuridica, si mostrano capaci di rivelare tutta la loro importanza (non solo descrittiva) sul piano strutturale e programmatico del negozio, oltre che su quello (pur innegabile e fondamentale) di concreta ed effettiva realizzabilità, originaria o sopravvenuta, del programma divisato dalle parti. Costante riferimento della trattazione sarà dunque, come
15 Si tratta della celebre posizione di Xxxxx xx Xxxxx.
anticipato all’inizio, il tema dell’accertamento causale, ossia, si è acutamente osservato, “l’indagine ermeneutico-ricostruttiva sulla funzione concreta perseguita dalle parti” (16).
Focalizzare l’attenzione sull’accertamento causale sul piano strutturale richiede di comprendere quali siano gli elementi giuridicamente rilevanti che, a fronte di un determinato negozio giuridico, consentano di comprenderne il fondamento causale e la giustificazione. Il tutto prestando attenzione al rischio di svuotare in concreto la nozione di causa, appiattendola su altri e differenti concetti giuridici: è nota, al riguardo, la tradizionale obiezione anticausalista secondo cui la causa non si caratterizzerebbe per una propria autonoma dignità giuridica, in quanto si risolverebbe, in sostanza, nell’oggetto del contratto o nel consenso: impostazione che, nella sua assolutezza, certamente non può soddisfare le esigenze dell’interprete, pur non potendosi negare (come si vedrà) che proprio l’oggetto, inteso in senso giuridico quale insieme delle prestazioni, rivesta un ruolo importante nell’identificazione dei presupposti dell’accertamento causale, in questo caso intrinseci.
Ulteriore sviluppo della riflessione consegue al rilievo per cui l’accertamento causale prende talvolta in considerazione, nella pratica, elementi, circostanze, finalità diverse o ulteriori rispetto al puro e semplice regolamento negoziale (o, per richiamare una tradizionale definizione, oggi forse eccessivamente intrisa di tipicità, alla sintesi degli effetti essenziali del negozio), il che suggerisce di indagare se – come in effetti emergerà – l’accertamento causale possa condursi sulla base di elementi (referenti) non necessariamente intrinseci rispetto alla struttura del negozio o al regolamento negoziale di per sé inteso. In questo senso, la domanda cui si cercherà di dare una risposta è se possa riconoscersi fondamento concettuale e, soprattutto, rilevanza applicativa alla nozione di “causa esterna”
16 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 71.
(come noto, non priva di critiche in dottrina), probabilmente da intendersi più esattamente come funzione (tipica o atipica) e giustificazione oggettiva del negozio giuridico sulla base anche di referenti causali non intrinseci, ma esterni, valorizzati
– prima ancora che in termini di concreta realizzabilità della funzione – innanzitutto su un piano prettamente genetico e strutturale.
Per poter comprendere quali siano gli elementi giuridicamente rilevanti ai fini dell’accertamento causale, pur senza pretesa di esaustività di fronte alla sterminata e autorevole riflessione giuridica sull’istituto, occorrerà in primo luogo orientarsi sulla nozione di causa in generale, cercando di enucleare, per quanto possibile e con particolare attenzione al nostro ordinamento, un’accezione dell’istituto che consenta di comprenderne la rilevanza pratica, oltre che teorica.
Solo una volta delineata una nozione di causa dai contorni sufficientemente definiti, accedendo all’idea di funzione intesa come attitudine alla realizzazione di un concreto assetto di interessi, ossia come giustificazione concreta del negozio, al di fuori di rigidi schemi tipologici, potranno esserne indagati i presupposti o referenti, ossia appunto quegli elementi giuridicamente rilevanti sulla base dei quali sia possibile apprezzarla ed accertarla in concreto sul piano strutturale, arrivando a domandarsi, come si diceva, se ed in che misura quei referenti possano risiedere all’esterno del negozio e quali siano i parametri sulla base dei quali formulare un simile giudizio di “estraneità”.
Un approccio rigoroso e attuale al tema della causa, quale autonomo requisito essenziale del contratto, richiede allora di indagarne i legami con il difficile (e talvolta sfuggente) concetto di “interesse”, fino a sondare l’ipotesi di rilevanza causale del contesto giuridico e/o economico-sociale in cui il singolo contratto è consapevolmente e programmaticamente concluso dalle parti, in relazione a fattispecie in cui tale contesto sembra rivestire un ruolo decisivo sul
piano della giustificazione giuridica dell’atto, trascendendo così la sfera dei meri motivi soggettivi.
Proprio l’indagine sul referente causale esterno offrirà infine lo spunto, previa disamina di figure giuridiche di notevole attualità (con particolare riguardo al collegamento negoziale, al negozio gratuito atipico e alla c.d. “prestazione isolata”), per riflettere su una moderna considerazione dell’interesse negoziale e su una possibile rivisitazione della nozione stessa di “scambio”, capace di trascendere le rigide maglie del sinallagma tra prestazioni fino ad estendere la portata applicativa di rimedî, quale quello risolutorio, a situazioni ove la corrispettività assume, piuttosto, una valenza di convergenza e reciprocità di interessi.
2. LA CAUSA COME FUNZIONE E RAGIONE GIUSTIFICATIVA DEL NEGOZIO
2.1. Cenni sull’evoluzione del pensiero giuridico in relazione alla causa: la iusta causa traditionis nel diritto romano e profili di diritto intermedio.
Tornando all’esigenza metodologica di delineare il concetto di causa, è utile muovere da una sintetica panoramica sulle diverse teorie che, ancora oggi, impegnano (e spesso contrappongono) gli interpreti, partendo da una considerazione preliminare.
Nel pensiero giuridico, il problema della causa ha riguardato, da un punto di vista logico, prima di tutto quello della sua esistenza. Storicamente, la domanda se il nudo patto o la nuda promessa – intesi come la pura e semplice manifestazione della volontà di impegnarsi legalmente – possano ritenersi sufficienti per creare un impegno giuridicamente valido e coercibile ha ricevuto risposte differenti.
Sul punto, come in genere accade, importante punto di riferimento rimane tuttora il diritto romano classico, nonostante in genere si rilevi come esso non abbia conosciuto una teorizzazione della causa sul piano concettuale.
Come è noto, dalla tradizionale affermazione obligatio contrahitur re o verbis o litteris o consensu si trae che l’elemento obbligante poteva essere rappresentato, innanzitutto, dai verba o dalle litterae, assumendo in questo caso decisiva importanza la forma (si pensi alla stipulatio); in altre ipotesi la dazione della res giustificava l’obbligo di restituzione del tantundem (mutuo) o della stessa cosa; infine vi era il consensus manifestato con riguardo a tipici rapporti di corrispettività (compravendita, locazione-conduzione, società, mandato) (17).
17 X. Xxxxxx, (voce) Causa (dir. rom.), in Enc. dir., VI, 1960, 532.
Quanto alle obbligazioni re o consensu contractae, l’ordinamento giuridico romano riconosceva la funzione assolta dal contratto, “individuato in una tipica figura”, con riguardo a ciò “che costituiva intrinsecamente e immediatamente la ragione e insieme lo scopo pratico per cui quel contratto si configurava nella vita sociale e veniva posto in essere” (18). Nel caso di stipulatio, di contro, la forma esauriva l’idoneità dell’atto a produrre i propri effetti giuridici, dando luogo ad un negozio astratto capace di coprire le più svariate cause; nei negozî formali ad efficacia reale – si pensi alla mancipatio e alle forme che ne costituivano le varianti
– l’atto formale atteneva ad un procedimento dichiarativo o a una situazione che giustificava e determinava l’effetto (19).
Posto tale quadro, è interessante notare che nel diritto romano la funzione non era sempre e soltanto forma. Con riferimento alle res nec mancipi, in particolare, la traditio – trasferimento della cosa che ne investiva il possesso – non era di per sé sufficiente a fondare il trasferimento della proprietà, essendo necessario che la stessa avvenisse sulla base di una ragione o di un intento pratico che l’ordinamento considerasse giustificativo dell’acquisto: la causa, in questo caso, non si risolveva dunque in un “tipo” contrattuale, ma era “l’elemento mobile che giustificava l’efficacia della traditio stessa, valutata unitariamente come negozio produttivo di acquisto della proprietà” (20).
Con riferimento alla traditio assumeva allora rilevanza decisiva la iusta causa, come elemento oggettivo facente capo alla “individuazione di un rapporto concreto che forma substrato e contenuto di tale intento e costituisce la ragione
18 X. Xxxxxx, ibidem, ove si osserva che “questi contratti erano tipizzati attraverso la tipizzazione di un elemento causale, che per un verso costituiva un elemento obbiettivo, in quanto esprimeva la tipizzazione sociale e giuridica del contratto stesso nella funzione che assolveva, mentre per altro verso poteva dirsi costituire una tipizzazione della fondamentale intenzione delle parti”.
19 X. Xxxxxx, op. cit., 533.
20 G. Grosso, ibidem.
giustificativa dell’effetto (come integrazione essenziale dell’atto di traditio, di per sé insufficiente)” (21).
Attribuire natura oggettiva alla iusta causa (pro emptore, pro donato, pro soluto, pro dote etc.) significava ricondurre l’effetto al substrato e contenuto oggettivo dell’intento immediato, con la conseguenza che, ad esempio, nel caso di traditio posta in essere solutionis causa, l’effetto traslativo della proprietà si verificava anche nel caso in cui il debito non fosse esistente (22); d’altro canto, però, la traditio non poteva considerarsi un negozio astratto, appunto perché non era sufficiente la mera volontà di trasferire, essendo di contro necessaria la causa (al punto che – ad esempio – la causa fiduciae non era ritenuta di per sé sufficiente a giustificare la traditio, dovendosi piuttosto a tal fine fare ricorso ad un negozio astratto) (23).
Già il diritto romano, dunque, mostrava di conoscere – seppur senza teorizzarla – una nozione di funzione oggettivizzata e di giustificazione non necessariamente ancorata alla forma e al contenuto dell’atto, sull’assunto della cui rilevanza era possibile il ricorso a rimedî (in primis, la condictio indebiti; successivamente anche i rimedî pretori legati all’exceptio doli) allorquando quella giustificazione si rivelasse, in concreto, non sussistere. A prescindere dalla tipizzazione della funzione, che comunque caratterizzava la mentalità giuridica romana, è dunque interessante cogliere nella iusta causa traditionis, così come nella separazione tra titulus e modus acquirendi, un primo fondamento concettuale rispetto alla tesi per cui la giustificazione non necessariamente risiede (ossia non necessariamente rinviene i suoi referenti) nella forma o nell’oggetto dell’atto.
21 X. Xxxxxx, ibidem.
22 Xxxxx restando i rimedi costituiti dalla condictio per la ripetizione dell’indebito, dall’exceptio doli concessa dal pretore per paralizzare l’azione basata sulla stipulatio in caso di mancata realizzazione della causa o di turpitudine della stessa, o dell’actio doli in caso di adempimento di una prestazione di facere in vista di una controprestazione futura poi non effettuata: G. Grosso, op. cit., 534s.
23 X. Xxxxxx, op. cit., 534.
Anche il c.d. “diritto intermedio”, con riferimento alle tematiche affrontate dai primi glossatori, offre interessanti spunti di riflessione. Basti pensare, pur senza poter approfondire in questa sede l’argomento, all’accostamento della causa alla nozione filosofica di ratio e a quella di rationabilitas di ogni atto umano, tratte dalle categorie filosofiche aristoteliche e dal pensiero della Scolastica; nonché alla distinzione tra causa naturalis (inerente il contenuto sostanziale dei contratti re e consensu) e causa civilis, la quale ultima era sì considerata idonea a generare l’azione – in quanto basata sul potere vincolante della forma scaturente dal diritto positivo: si pensi ai contratti verbis e litteris –, ma la stipulatio poteva essere paralizzata mediante exceptio doli, in caso di assenza del sostrato “etico” costituito dalla causa naturalis, o addirittura, per la stessa ragione, essere ritenuta nulla (24).
Xxxxxxx di dibattito era anche la questione se la causa potesse essere implicita nella forma contrattuale tipica o se dovesse essere necessariamente espressa, al punto che il notaio medioevale preferiva specificare sia la causa praeterita, ossia il punto di partenza della volontà negoziale (le motivazioni soggettive dell’atto), sia la causa finalis, ossia lo scopo che ci si prefiggeva, evitando però di perdersi nei motivi personali, ed avendo dunque riguardo a ciò che poteva ritenersi obiettivizzato di fronte all’ordinamento; taluni commentatori, peraltro, si concentravano sul piano della prova dell’esistenza della causa, più che della sua esistenza in sé, e della relativa distribuzione dell’onus probandi (25).
Concetti quali causa naturalis e ratio non possono essere ritenuti estranei alla moderna riflessione sulla causa e sui suoi referenti concreti, nei limiti di cui si cercherà di dar conto. Nella elaborazione dei giuristi intermedî, peraltro, non si è mancato di cogliere la rilevanza della iusta causa quale giustificazione di fronte
24 X. Xxxxxxx, (voce) Causa (dir. interm.), in Enc. dir., VI, 1960, 542. L’Autore ricorda che la tesi della nullità era sostenuta dal glossatore Xxxxxxx.
25 Cfr., sui profili citati nel testo, X. Xxxxxxx, op. cit., 536-546.
all’ordinamento del trasferimento di ricchezza (26), sia pure sulla base di una concezione di “iustitia” radicata su postulati della morale (27).
2.2. Recenti profili evolutivi nel pensiero giuridico europeo-continentale: dalla funzione economico-sociale alla funzione individuale.
Quanto ai più recenti profili evolutivi del pensiero giuridico, se è vero che, a mente della tradizionale distinzione tra teorie soggettive e oggettive, quelle propriamente soggettive – ossia quelle che identificano la causa con lo scopo, il fine, il motivo oggetto di rappresentazione psichica della parte, che la spinge a prestare il consenso (28) – non possono trovare sèguito se intese nel senso di attribuire rilevanza causale alle personali rappresentazioni psichiche e agli interessi coltivati nel foro interno (29), si evidenzia correttamente che la dicotomia tra teorie oggettive e soggettive non deve essere troppo enfatizzata, atteso che entrambe le impostazioni, se interpretate in modo rigoroso, finirebbero con il togliere autonomia all’istituto della causa. Ed in particolare, se nella teoria soggettiva, che pur “opportunamente evidenzia il ruolo dell’accertamento ermeneutico nella ricostruzione concreta dell’elemento, si annida, infatti, il pericolo di limitare a tale funzione l’accertamento causale, risolvendo la causa nel consenso o nell’identificazione del contenuto voluto dai contraenti”, nella teoria rigorosamente oggettiva “si insinua l’opposta tentazione di andare alla ricerca di ragioni giustificative della vincolatività dell’accordo al di fuori dello stesso consenso e
26 X. Xxxxxxxxxx, (voce) Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, 1960, 573.
00 X. Xxxx, Xx xxxxx e il tipo, in Trattato dei contratti, diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, I contratti in generale, 2006, I, 547.
28 Tradizionalmente, la nozione soggettiva di causa viene ricondotta al pensiero francese di Domat e Xxxxxxx.
29 X. Xxxxx, Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxx, II ed., Milano, 2011, 343s.
dunque prescindendo dalla prospettiva ermeneutica, con il che si riduce la causa al tipo e la prima perde nuovamente autonomia” (30).
La precisazione è molto rilevante, in quanto rivela fin d’ora che l’accertamento causale, pur sempre intesa la causa in senso oggettivo, ossia con riguardo a ciò che il negozio è preordinato a produrre sul piano dell’assetto perseguito, non può prescindere dal considerare i profili di “interesse” e le consapevoli scelte dei contraenti, quand’anche non desumibili dall’oggettivo contenuto o regolamento contrattuale, qualora essi non possano essere relegati a rappresentazioni del foro interno, né si risolvano in semplici motivi soggettivi. Il “consenso”, in questo senso, permane un punto di riferimento necessario, inteso anche come consapevole configurazione e collocazione del negozio in un determinato contesto.
Ciò premesso, guardando alle teorie oggettive, ossia a quelle secondo cui “la causa va ricercata in qualche elemento obiettivo, esterno e autonomo rispetto alle rappresentazioni mentali dei contraenti” (31), per comprendere l’evoluzione che sul punto ha interessato il pensiero giuridico (introducendo il concetto di “funzione”), è d’obbligo muovere dalle parole dell’illustre Autore che relegava all’ambito dei motivi soggettivi tutte quelle funzioni ulteriori e diverse dallo scopo tipico, invariabile, dell’atto: “questa funzione che il negozio deve adempiere, riguardata come ragione determinante del soggetto al negozio, appare e si chiama
30 X. Xxxxxxxxxx, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, 197s. Osserva G.B. Xxxxx, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 129: “indubbiamente, essendo la valutazione della regola e della struttura privata fatta essenzialmente in termini di ordinamento, non ogni intento capriccioso e fatuo potrà trovare tutela da parte dell’ordinamento. Ma da questo non si può certo dedurre che la volontà e l’interesse individuale degradino a elemento secondario, quasi irrilevante; che l’aspetto individuale soggettivo non conti. Non a caso, proprio nell’art. 1322 c.c. non è cenno ad una funzione economico-sociale del contratto, ma è cenno a un interesse meritevole di tutela, e cioè ad una entità che, rappresentando un rapporto tensionale tra una persona e un bene, implica necessariamente un elemento soggettivo, e cioè individuale, accanto ad un elemento oggettivo”.
31 X. Xxxxx, op. cit., 343.
la causa del negozio medesimo. Qui è subito necessario un chiarimento. La funzione che la legge prende in considerazione, nel regolare l’autonomia privata, è quella immediatamente adempiuta dal negozio, quella che il negozio è idoneo da sé e ugualmente in tutti i casi a realizzare. Le funzioni ulteriori, variabili da caso a caso, cui l’autonomia privata si indirizza, dipendenti da questa funzione immediata e costante, non sono e, per la loro estraneità al congegno negoziale, non possono essere prese in considerazione dalla legge nello stabilire la figura e le categorie del negozio” (32).
Oggettività della funzione, secondo la tesi appena ricordata, va dunque di pari passo con la nozione di tipicità, essendo la causa connaturata ad una determinata figura di negozio, mentre “quelle funzioni ulteriori, che non mancano mai, ma sono diverse da caso a caso, e in questo senso sono eventuali, non informando di sé il negozio, non sono che circostanze soggettive, le quali assumono la figura ed il nome di motivi” (33).
La causa obiettiva del contratto, osservava Xxxxxx Xxxxx, veniva a distinguersi dalla “causa remota”, attinente all’eventuale connessione del negozio con rapporti giuridici preesistenti, e dalla “causa soggettiva”, ossia dall’intento pratico perseguito da chi ponga in essere un negozio appartenente ad un determinato “tipo” (34). Causa obiettiva era in particolare la “funzione economico- sociale” del contratto, invariabile a seconda del tipo scelto dai patiscenti, assumendo all’uopo rilievo non soltanto i “tipi” legislativi, ma anche quelli “sociali”, ossia quelle cause che “pur non essendo tassativamente indicate dalla legge, debbono però in genere essere ammesse dalla coscienza sociale, siccome rispondenti ad una esigenza pratica legittima, a un interesse sociale durevole, e
32 X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966 (rist. 2002), 127s.
33 X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, op. cit., 128.
34 X. Xxxxx, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960, 171 ss.
come tali sono valutate degne di tutela giuridica” (35). La concezione economico- sociale è stata accolta dalla Relazione del Guardasigilli al Codice vigente, la quale – pur contenendo definizioni di causa che la dottrina ha avuto modo di ritenere non omogenee (36) – focalizza in ogni caso l’attenzione sull’interesse sociale quale legittimazione dell’autonomia negoziale; la Relazione al Re, dal canto suo, parla di “contenuto socialmente utile del contratto” e di “scopo obiettivo la cui realizzazione l’ordinamento giuridico si propone di garantire” (37).
La ricordata rigorosa concezione “economico-sociale” della funzione (che ha certamente avuto maggior successo, tra le teorie oggettive, rispetto a quella secondo cui la causa consisterebbe nel “rapporto obiettivo” esistente tra le parti) (38), proprio in quanto fondata su un assunto di oggettività invariabile, perché connessa alla tipicità (se del caso, sociale) dell’atto, ha nel tempo mostrato una sempre più evidente inidoneità a fornire risposta effettiva e soddisfacente all’esigenza di indagine in concreto della funzione svolta dal contratto o dal negozio, ovvero alla sua effettiva (e giuridicamente rilevante) giustificazione.
Sempre sul piano delle teorie oggettive, la nozione di “funzione” è stata allora precisata (con conseguente svalutazione, si è rilevato, della teoria funzionale in senso stretto) (39) ricorrendo al concetto di “sintesi degli effetti giuridici essenziali” (40), finendo così la causa con il coincidere con il “tipo” negoziale e
35 X. Xxxxx, op. cit., 195.
36 L’osservazione è di X. Xxxx, op. cit., 544, il quale ricorda, tra le definizioni di causa che si rinvengono nella Relazione del Guardasigilli: “specifico scopo economico-sociale che il contratto intende realizzare”, “requisito obiettivo del contratto in cui si riassume la condizione della tutela giuridica alla volontà privata”, “scopo intrinseco socialmente apprezzabile del contratto”, ragione giuridica della dichiarazione.
37 Relazione al Re, n. 79.
38 X. Xxxxxxxx, Il contratto e la causa del contratto, in Scritti giuridici varii, III, Torino, 1921, 131 ss.
39 X. Xxxx, op. cit., 551.
40 X. Xxxxxxxxx, Nuovi aspetti del problema della causa dei negozi giuridici, e Precisazioni in tema di causa del negozio giuridico, in Diritto civile, Saggi, Milano, 1951, 75 ss. e 105 ss. L’espressione è tuttora utilizzata in giurisprudenza, anche se – come si vedrà nel prosieguo – sembra preferibile
venendo estesa a tutti i negozî giuridici, anche relativi a rapporti a carattere non patrimoniale (41). Una simile impostazione rischia tuttavia di riproporre i medesimi limiti proprî della funzione nella sua rigorosa accezione economico-sociale, restando l’accertamento degli effetti essenziali relegato ad un’indagine tipologica, in relazione a ciò che l’ordinamento, ovvero la coscienza sociale, abbia preventivamente considerato meritevole di tutela. Come si è puntualmente osservato, “lo schema astratto, cioè, precede e tende a soffocare la concretezza dell’atto, alterando il ruolo del modello tipico, che non è quello di incasellare ogni singolo contratto, bensì eventualmente di disciplinarlo sulla base della funzione accertata in concreto e degli altri effettivi indizi tipologici” (42).
Peraltro, difficilmente un’impostazione oggettiva improntata su schemi tipologici – particolarmente preoccupata di porre un limite all’autonomia privata – riesce a dare risposte convincenti a tradizionali questioni, quali la mancata menzione della causa nel contenuto negoziale o l’ammissibilità del negozio astratto, né consente di valorizzare adeguatamente quel profilo di garanzia (e non esclusivamente di limite) che connota la causa in connubio con l’autonomia negoziale. Nemmeno la funzione di controllo, a ben vedere, sarebbe appieno soddisfatta da un rigido approccio tipologico, atteso che – anche a voler ridurre il ruolo della volontà a semplice scelta di un “tipo” determinato – il problema
inquadrare la funzione come oggettiva propensione ad un concreto assetto di interessi, onde evitare il rischio di rigidi inquadramenti tipologici.
41 La considerazione è di X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 562, secondo cui “in tal modo non si era ancora usciti dal solco della tradizione, in quanto la causa indicava pur sempre la ratio del verificarsi o del conservarsi degli effetti giuridici dell’atto che mette in essere uno spostamento patrimoniale”. L’Autore ricorda peraltro che, come risulta dalla Relazione al codice, i compilatori del Codice Civile vigente preferirono la nozione di “funzione” intesa come sintesi degli effetti giuridici essenziali di qualsiasi negozio, senza tuttavia tradurre tale preferenza in una formula normativa, ma anzi riferendo la causa al contratto (art. 1325 cod. civ.) e agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (art. 1324 cod. civ.).
42 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 268. L’identificazione dalla causa con il tipo negoziale conduce ad esiti paradossali, come dimostrato dalla tesi – cui fa cenno, con approccio critico, Xxxx. 8 maggio 2006,
n. 10490 in Giur. it., 2007, 10, 2203 – secondo cui sarebbe predicabile la sostanziale validità del negozio simulato, in quanto caratterizzato da una causa astratta, sia pur fittizia.
dell’illiceità riaffiorerebbe sempre, e sarebbe in questo caso vano cercare di risolverlo sulla base del controllo del “tipo” prescelto (43).
Si è così fatta strada e ormai consolidata la nozione di causa in concreto, intesa come funzione economico-individuale del contratto (44), ove l’oggettività, tutt’altro che svuotata, ha piuttosto assunto un carattere per così dire “relativo”, capace di ricomprendere tutte quelle funzioni che, in vista di un concreto assetto di interessi, le parti abbiano inteso obiettivizzare nel regolamento contrattuale; dallo schema contrattuale, di per sé sterile, l’attenzione si è spostata sul concreto assetto di interessi programmato dalle parti o dal disponente. Così, secondo un recente e noto approdo delle Sezioni Unite della Cassazione, l’indagine causale “va operata con riferimento al singolo negozio considerato”, essendo la “causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi abbiano inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale” (45).
43 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 564.
44 In tema di concezione di causa come funzione economico-individuale del contratto, è d’obbligo un richiamo a G.B. Xxxxx, op. cit., 355.
45 Cass. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947, in Giur. it., 2010, 2038 ss., ove si precisa altresì che appare “oggi predicabile una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto dell’obsolescenza della matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli effetti reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato)”; cfr. altresì Xxxx. 8 maggio 2006, n. 10490, cit., secondo cui la nozione di causa come funzione economico- sociale sconta l’ “obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa come strumento di controllo della sua utilità sociale […] che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita”, giungendosi dunque alla definizione di causa del negozio come “sintesi reale degli interessi che è diretto a realizzare anche al di là del modello tipico utilizzato (c.d. causa concreta). Sintesi (e, dunque, ragione concreta) della dinamica contrattuale, non
La concezione concreta della causa consente di disvelarne l’attitudine a diventare espressione (prima ancora che limite) dell’autonomia negoziale, intesa come libertà di costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici, ferma restando l’esistenza di settori del diritto in cui la causa resta ancora legata ad essenziali esigenze di tipicità, qual è quello rappresentato dai negozî giuridici familiari come il matrimonio, il riconoscimento di figli naturali, l’adozione (46): in questi casi, la causa in concreto non scompare concettualmente, ma – in vista della tutela di esigenze diverse e prevalenti sull’autonomia negoziale – finisce necessariamente con il coincidere con la causa in astratto, ossia con la causa tipica.
La causa concreta, in definitiva, si è affermata in quanto assicura una maggior coerenza e corrispondenza biunivoca tra diritto ed esigenze pratiche, consentendo (si è osservato in dottrina) quella necessaria connessione tra le forme della “mediazione giuridica”, che sono il contratto e la circolazione dei beni e dei servizi (47).
anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita funzionale dell’atto, ma funzione individuale del singolo, specifico, contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto”. Spunti sulla rilevanza della causa in concreto sono ravvisabili già in X. Xxxxxxx, La causa del contratto secondo il nostro codice, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1950, 900 ss. e, nella giurisprudenza meno recente, in Cass. 7 maggio 1998, n. 4612, in Corriere Giur., 1998, 9, 1039, in tema di c.d. sale and lease back; Cass. 6 agosto 1997, n. 7266, Foro it., 1997, 1, sul
patto di non concorrenza; Cass. 15 maggio 1996, n. 4503, in Contratti, 1996, 5, 473, relativa al negozio di rendita vitalizia. Sull’argomento in generale, si rinvia all’analisi di C.M. Xxxxxx, Diritto civile, Il contratto, 3, 2000, 453.
46 X. Xx Xxxx, (voce) Causa nel negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, 1988, 2, ove si ricorda che nei negozî familiari l’autonomia negoziale trova un limite anche con riguardo ai rapporti patrimoniali (si fa l’esempio del regime patrimoniale tra i coniugi). L’Autore cita, quale ulteriore limite all’autonomia negoziale, quello della condizione giuridica dei beni, avuto riguardo al principio di tipicità dei diritti reali, che impone alle parti di rispettare le forme di appartenenza e di godimento giuridicamente riconosciute (con l’eccezione, forse, della proprietà fiduciaria, laddove il trasferimento del bene sia giustificato concretamente dal diritto al ritrasferimento e da una disciplina dell’esercizio del diritto da parte del fiduciario).
47 A. Di Majo, ibidem.
2.3. Causa come oggettiva e concreta giustificazione e funzione dell’atto
Tenendo presente l’ormai consolidato favore per la concezione economico- individuale della causa, e dunque per la dimensione concreta della stessa, può guardarsi ad alcune delle molteplici definizioni e connotazioni che la causa ha ricevuto nell’evoluzione del pensiero giuridico, nel tentativo di ricavarne una nozione che possa fungere da guida ai fini della presente indagine.
Oscillando tra “funzione economico-sociale” e “funzione economico- individuale”, valorizzando di volta in volta profili oggettivi e soggettivi, si riscontrano definizioni quali: “funzione meritevole di tutela” (48); “scopo pratico” e “ragione economico giuridica del negozio” (49); scopo ultimo perseguito da entrambe le parti attraverso la stipulazione contrattuale; giustificazione, di fronte all’ordinamento, dello spostamento patrimoniale; “ragione pratica del contratto, cioè l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare” (50); interessi delle parti “obbiettivati nell’affare” (51); sintesi degli effetti essenziali nel negozio; sensatezza dell’operazione sul piano giuridico.
Al di là delle differenze, che peraltro spesso si risolvono in sfumature terminologiche, sostrato comune tra le citate definizioni, da cui potrebbe utilmente muoversi, è il concetto di ragione giustificativa degli spostamenti (e, più in
48 X. Xxxxxxxxxxxx, Dei requisiti del contratto (sub art. 1343 c.c.), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, 312 e 316: secondo l’Autore, “l’unico punto di riferimento abbastanza sicuro sembra essere allora quello offerto dalla concezione della causa come la funzione tipica (ed oggettiva) del negozio; da cui conviene prendere ormai le mosse per mettere un po’ d’ordine – questo è almeno il proposito – nei problemi di precipua natura costruttiva”.
49 X. Xxxxxxxx, Manuale di diritto italiano, Parte generale, IV ed., Milano, 1929, 411, secondo cui “chiunque aliena, rinunzia, assume un obbligo, non intende già alienare, rinunziare, trasmettere il diritto patrimoniale sic et simpliciter, ma intende far ciò per questo o quell’altro scopo […]. Ebbene questo scopo pratico è la causa del negozio giuridico, la quale perciò si può definire «la ragione economico giuridica del negozio»”, con la precisazione che “la causa, pur costituendo un elemento obbiettivo del negozio, possa essere considerata sotto l’aspetto soggettivo, cioè in quanto è scopo pratico che, caratterizzando il negozio, è voluto da chi compie il negozio stesso”. 50 C.M. Xxxxxx, op. cit., 419 ss.
51 X. Xxxxx, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1974, 105.
generale, delle modificazioni o attribuzioni) giuridico-patrimoniali, quale concetto in effetti recepito da tutti gli ordinamenti che ammettono la nozione di causa (52) sull’assunto che la volontà non è di per sé sola idonea a dare ragione della tutela giuridica del negozio. Anche allorquando si discute di consideration in riferimento agli ordinamenti di common law, pur nella specificità dei caratteri dell’istituto, in fondo si ha riguardo alla giustificazione della vincolatività del rapporto, a mente, da un lato, del beneficio che il promittente ottiene e, dall’altro, dell’affidamento che il promissario ripone nell’adempimento.
Tale ragione giustificativa, a mente delle oggettive lacune proprie della definizione di causa come funzione economico-sociale (53), non può dunque intendersi in astratto, rischiando di confondere causa e tipo equivocando sui confini e presupposti del vaglio di liceità, bensì appunto in concreto, come ragione che giustifica il particolare contratto alla luce delle specificità rilevanti che lo connotano.
Atteso che il contratto (quale accordo tra due o più parti volto a costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici patrimoniali), come in generale il negozio giuridico, genera spostamenti attuali o potenziali di ricchezza, o comunque implica modificazioni sul piano giuridico-patrimoniale (54), in via di prima approssimazione la causa può allora essere utilmente definita come la concreta ragione giustificativa dell’atto, o meglio degli effetti di quest’ultimo; in altri termini, la ratio del negozio,
52 X. Xxxxx, (voce) Xxxxxxxxx, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1989, IV, 112.
53 Si osserva in dottrina: “se la causa è la funzione economico-sociale di un tipo (di negozio) riconosciuto dal diritto, la sua mancanza non può che coincidere con quella del negozio stesso; o, detto altrimenti, neppure può concepirsi che un negozio di quel tipo sia mancante di causa. Il rilievo critico assume, se è possibile, un’evidenza anche maggiore riguardo all’illiceità della causa, pur testualmente ammessa dalla norma che si considera [ossia dall’art. 1343 cod. civ., n.d.r.], per la contraddizione insuperabile che si annida nell’idea di una funzione giuridicamente riconosciuta e ad un tempo contrastante con il diritto”: X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 306.
54 Punto di vista in parte differente attiene alla natura degli interessi perseguiti, che certamente possono anche essere di tipo non patrimoniale, pur se suscettibili di valutazione economica (v. infra nel testo, § 2.6).
cioè l’elemento che lo spiega razionalmente, che gli conferisce un senso, ovvero “la funzione o il senso che le parti gli assegnano nelle loro scelte di autonomia privata” (55), “elemento di giustificazione del patto” (56). Nozione, questa, che semanticamente ben si adatta alla concezione tradizionale di causa finale, che “sta a rappresentare, al di sopra e al di là della dimensione dinamica del reale, la ragione ed ad un tempo lo scopo per cui la realtà diviene” (57). Del resto, proprio il principio consensualistico ha dato risalto, nel Codice civile del ’42, alla ragione del contratto, consentendo una definitiva reductio ad unum del c.d. “doppio referente della causa”, in precedenza distinto tra causa dell’obbligazione (o, meglio, della singola attribuzione o disposizione patrimoniale) e causa del contratto (58).
Ragione e giustificazione richiamano immediatamente la tradizionale nozione di “funzione”, che infatti si rivela, anche da un punto di vista semantico, particolarmente efficace al fine di comprendere in cosa si risolva in concreto quella giustificazione: un negozio, infatti, in prima approssimazione si giustifica, agli occhi delle parti, dei terzi e dell’ordinamento, in base alla sua oggettiva e concreta finalità, al risultato che persegue. Parlare di “funzione” mette oltretutto in evidenza la peculiarità dell’istituto causale rispetto ad altri requisiti, quali soprattutto l’oggetto. La domanda “a cosa serve?” o “perché lo si fa?” è invero necessariamente diversa, e si pone su un piano ulteriore di comprensione, rispetto al chiedersi “cos’è?”, “in cosa consiste?”; per altro verso, lo si vedrà nel prosieguo,
55 X. Xxxxx, Il contratto, cit., 346. Ricorre semplicemente all’espressione “funzione del contratto”, evidenziandone la rilevanza sotto il profilo della protezione dei contraenti, X. Xxxxxxx, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1990, 188s.
56 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 301.
57 X. Xxxxxxxxxxxx, ibidem. Una nota dottrina richiama, analizzando la nozione di “scopo” avente rilevanza causale, la distinzione tra causa finalis e causa impulsiva, ponendo l’accento – quanto alla prima – sulla consapevolezza della rilevanza dello “scopo” perseguito dalle parti, a differenza di quanto avviene nel caso di moventi intimi: cfr. X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 567.
58 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 190, secondo cui “l’afferenza della causa alla capacità di sostenere l’effetto contrattuale (sia esso obbligatorio o traslativo) diviene a questo punto un dato sotterraneo e latente”.
altro è ravvisare nella causa la giustificazione degli effetti del negozio, altro è ritenere che la causa coincida con quegli effetti (59).
2.4. Teoria dello “scopo” della prestazione in relazione a negozî che non contengano in sé la loro causa.
Causa, dunque, è in prima approssimazione funzione e giustificazione concreta del negozio. Considerata l’accezione e i limiti della teoria funzionale, come tradizionalmente sviluppata nel pensiero giuridico, occorre però intendersi sulla nozione di “funzione” (appunto, in senso economico-individuale) cui si intenda accedere.
E’ nota l’autorevole tesi di Xxxxxxxxxx, secondo cui, premesso appunto che nel nostro ordinamento la “funzione” del negozio assume frequentemente il ruolo di “causa”, ossia di “giustificazione” dello spostamento patrimoniale attuato mediante il negozio stesso, la “causa” deve essere ricercata talvolta al di fuori di quella “funzione”, allorquando, in particolare, lo spostamento patrimoniale non si presenti come effetto di un negozio che contenga in sé la sua causa (60).
Merita al riguardo ripercorrere sinteticamente i passaggi argomentativi dell’Autore, in quanto snodo imprescindibile per la presente ricerca, sia pure nei limiti che si diranno.
Vi sono – osserva Xxxxxxxxxx – ipotesi nelle quali lo spostamento patrimoniale trova la propria giustificazione causale nel negozio stesso che lo pone in essere: “ciò avviene esemplarmente nei contratti obbligatori, nei quali gli effetti,
59 La descrizione della causa come sintesi degli effetti del negozio, a ben vedere, implica un salto logico, perché non spiega quale sia la giustificazione di quegli effetti: piuttosto, la causa risiede nella sintesi degli interessi, o, meglio, nell’assetto di interessi complessivo concretamente perseguito dalle parti con il negozio.
60 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 564.
ovverosia le obbligazioni che sorgono a carico dei soggetti, trovano la loro giustificazione nello stesso negozio, ovverosia nello intrecciarsi delle obbligazioni stesse” (61). Nel nostro ordinamento, dunque, “la «funzione» riconosciuta degna di tutela dall’ordinamento giuridico […] è sufficiente nella maggior parte dei casi a fornire contemporaneamente al negozio il suo fondamento causale. La «funzione» del negozio diventa, quindi, «causa» di esso” (62). In altre situazioni (più confacenti all’ordinamento germanico, ma ritenute non estranee al nostro), invece, lo spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un negozio che contenga in sé la causa: “in queste ipotesi è possibile rinvenire nel negozio solo la indicazione dello «scopo» avuto di mira dal soggetto, mentre la giustificazione e il
«fondamento» della prestazione vanno ricercati al di fuori del negozio stesso” (63).
In sintesi, l’argomentazione muove dalla considerazione per cui, in riferimento alle prestazioni tipiche che costituiscono il contenuto dei contratti incidenti su situazioni giuridiche patrimoniali (trasferimento della proprietà, costituzione e trasferimento di altri diritti, concessione del godimento, rinunzia ai diritti, trasferimento del danaro e di titoli di credito, assunzione di obbligazioni) non sarebbe possibile parlare di “funzione” della prestazione in sé e per sé, né di “causa” della stessa, dal momento che l’ordinamento valuta la prestazione esclusivamente in termini di liceità e possibilità (arg. ex art. 1346 cod. civ.) e “la singola prestazione riceverà la «funzione» e la «causa» in seno al contratto nel quale sarà inserita” (64). Così, con riguardo alle ipotesi di rinunzia, remissione,
61 X. Xxxxxxxxxx, ibidem.
62 X. Xxxxxxxxxx, ibidem.
63 X. Xxxxxxxxxx, ibidem. L’Autore osserva che l’avere trascurato queste ipotesi – ossia quelle in cui, a suo avviso, la giustificazione deve essere ricercata al di fuori del negozio stesso – o l’averle relegate al piano dell’astrattezza consisterebbe in uno dei principali difetti della teoria della “funzione”.
64 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 565: si fa l’esempio della costituzione del diritto reale di usufrutto, che avrà funzione di scambio nel caso in cui l’altra parte si addossi una “prestazione” di qualsiasi tipo, mentre sarà a titolo gratuito (più precisamente, liberale) se effettuata animo donandi .
fideiussione e cessione del credito il problema della causa è ritenuto apparente, trattandosi di “prestazioni” tipiche “le quali ricevono la loro causa in seno al contratto nel quale sono inserite, senza che per questo esse possano essere ritenute atti astratti ovvero a «causa variabile» (65).
Se però la prestazione si presenta “isolata” in senso strutturale (e non semplicemente in senso estrinseco, come avverrebbe in caso di documentazione separata di prestazioni contrapposte riferite al medesimo contratto), “sarebbe vano ricercare la giustificazione causale dello spostamento patrimoniale nella
«funzione» della prestazione ovvero in quella del negozio che la pone in essere” (66). Nel caso di prestazione effettuata per adempiere un obbligo, ad esempio, tale prestazione – che può anche essere diversa da quella dovuta, laddove si abbia datio in solutum – “trova la sua giustificazione causale al di fuori di essa, e cioè nella esistenza di una precedente obbligazione, la quale, è bene osservare, potrebbe anche non avere origine negoziale (ad esempio risarcimento per atto illecito)” (67). Il controllo dell’ordinamento giuridico, allora, non potrebbe esercitarsi con riferimento al singolo atto (di adempimento dell’obbligo), ma allo scopo che il disponente intende realizzare (68).
65 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 566, ove si ricorda che la cessione del credito nel Codice abrogato era invece regolata come contratto di scambio (art. 1538 ss.). Secondo l’Autore, “quando, adunque, la prestazione si inserisce in un contratto, o in genere in un negozio, che abbia una propria «funzione» il problema della «causa» di questo si confonde con quello della sua «funzione», nel senso che il giudizio effettuato dall’ordinamento sulla rispondenza della combinazione delle prestazioni ad
«interessi meritevoli di tutela», soddisfa contemporaneamente la esigenza di «giustificazione» (ratio) della combinazione stessa”. Sulla possibilità che lo scopo rimandi ad una giustificazione oggettiva posta al di fuori delle prestazioni, cfr. altresì X. Xxxxxxxxx, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1986, 225.
66 X. Xxxxxxxxxx, ibidem.
67 X. Xxxxxxxxxx, ibidem.
68 A. Xx Xxxx, op. cit., 5, ove si fa riferimento alle ipotesi di trasferimento che attuino obbligazioni naturali (art. 2034 cod. civ.) o dationes in solutum (art. 1197 cod. civ.), adempimenti del terzo (art. 1180 cod. civ.), atti di esecuzione della causa mandati (art. 1706 cod. civ.), atti di trasferimento da parte dell’onerato nell’ipotesi di legato di cosa altrui (art. 651 cod. civ.), atti di conferma o di esecuzione di negozi nulli (artt. 590 e 799 cod. civ.) e in generale adempimenti di obblighi risarcitorî che non si risolvono nel pagamento di somme.
Nella c.d. “prestazione isolata”, in altri termini, pur esaurendo essa l’oggetto del negozio posto in essere, la causa di quest’ultimo non sarebbe desumibile dal suo contenuto concreto, ma dallo “scopo” indicato dal disponente, quale ad esempio l’adempimento di una precedente obbligazione civile o naturale, lo spirito di liberalità, la retribuzione di una controprestazione di “fatto”. “Qui la causa assume di conseguenza due significazioni, l’una spiccatamente soggettiva e l’altra oggettiva: venendo la prima ad indicare lo scopo, e la seconda la effettiva esistenza del rapporto che giustifica la prestazione […]. Si ripresenta allora quel dualismo […] tra l’aspetto soggettivo e oggettivo della causa – ovverosia tra lo
«scopo» ed il «fondamento» del negozio, tra Zweck e Grund –, il quale costituisce un motivo fondamentale della teoria ottocentesca della causa, la quale lo deriva dai due filoni fondamentali della promissio e della traditio” (69). La prestazione (apparentemente) isolata – sulla quale si tornerà anche nel prosieguo della presente trattazione, quale interessante momento di emersione del referente causale esterno (v. infra, § 4.2) – diviene allora esplicitazione del profilo soggettivo della causa, al punto che si parla di “animus” (solvendi o donandi), rinvenendo, in assenza di un obiettivo intrecciarsi di prestazioni, la caratterizzazione causale della prestazione nello “scopo” del disponente.
In definitiva, secondo l’autorevole dottrina richiamata, “funzione” e “scopo” verrebbero rispettivamente in considerazione a seconda che la prestazione si inserisca in un negozio caratterizzato da una propria funzione tipizzata, ovvero sia “isolata”, e dunque sorretta unicamente dallo scopo dichiarato dal disponente (non essendo, si osserva, la prestazione di per sé idonea ad avere una propria “funzione”, tipologicamente intesa).
69 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 567.
2.5. Nozione di “funzione” come attitudine del negozio ad un concreto assetto di interessi.
La tesi di Xxxxxxxxxx, ed in particolare la considerazione secondo cui è possibile che l’atto riveli solo lo “scopo” avuto di mira dal disponente, mentre la giustificazione e il “fondamento” della prestazione possono essere ricercati al di fuori, è molto interessante ai fini dello sviluppo argomentativo della presente ricerca, in quanto consente di mettere a fuoco un portato dell’esperienza, ossia l’esigenza di spiegare negozî che strutturalmente appaiono, a prima vista, ingiustificati, ma che in realtà non lo sono. Anche il richiamo alla prestazione, pur sfornita di una propria “causa” in senso tecnico, è significativo, in quanto conferma la rilevanza in prima battuta dell’oggetto del negozio in punto di accertamento causale, ove si acceda ad una nozione tecnica del medesimo, quale insieme delle prestazioni costituenti il regolamento contrattuale (70).
Ciò posto, però, la distinzione tra “funzione” e “scopo” – e, conseguentemente, tra profilo oggettivo e soggettivo della causa –, sia pur finalizzata a dar conto di situazione nelle quali la giustificazione non è desumibile dal “contenuto” (inteso come complesso di regole dettate dalle parti o dal disponente) (71) del negozio (c.d. prestazione isolata), muove in realtà da
70 Si vedrà, infatti, nel prosieguo della trattazione che l’accertamento della causa concreta non può prescindere dalla ricostruzione dell’oggetto del negozio, e dunque della sintesi dei suoi effetti reali. Il punto, semmai, è che talvolta tale verifica non è sufficiente a rivelare compiutamente la funzione e giustificazione concreta del negozio, potendo in taluni casi risultare addirittura fuorviante: di qui, la necessità di riflettere sui referenti obiettivi esterni (rispetto all’oggetto e alla struttura del negozio) della causa.
71 Quanto alla distinzione tra oggetto e contenuto del negozio giuridico, si osserva in dottrina che le prestazioni possono costituire oggetto solo in quanto siano previste da regole che i contraenti abbiano dettate, di guisa che, se è vero che le prestazioni non fanno parte del contenuto del contratto (inteso come complesso di regole dettate dalle parti del contratto), non è men vero che le stesse in tanto costituiscono oggetto del contratto in quanto siano descritte e regolate nel contenuto dello stesso: N. Xxxx, Oggetto del negozio giuridico, in Noviss. dig. Xx., XX, Xxxxxx, 0000, 803 ss.; X. Xxxxxxxxxx, I contratti (parte generale), II ed., Torino 2000, 159.
un’accezione di “funzione” che risulta oggi eccessivamente influenzata da rigore tipologico, e come tale poco aderente all’odierno contesto storico-giuridico, nonché alla visione concreta della causa.
Ed infatti, se è vero che la prestazione di per sé considerata non ha in linea di principio una propria “funzione”, ma in concreto la deriva dal negozio in cui si colloca, e se è altresì ancor oggi attuale l’osservazione per cui determinati negozî unilaterali non rivelano di per sé la propria causa, ciò non implica necessariamente che quegli atti, aventi anch’essi carattere negoziale, non si caratterizzino per una propria “funzione”, concretamente intesa. Ciò in linea con la nozione unitaria e oggettiva di causa del contratto, affermatasi con il superamento dell’atomistica e soggettiva causa dell’obbligazione (confusa con il titolo dell’obbligazione), sulla scorta di una visione più complessa del fenomeno negoziale, non più semplicemente inteso come fonte di obbligazioni, ma anche come fonte di effetti traslativi, talvolta immediati e caratterizzanti (72).
La nozione di “funzione” cui oggi deve accedersi, pertanto, si connota inevitabilmente per una dimensione concreta, immune da aprioristici incasellamenti (vuoi positivi, vuoi sociali) (73): “funzione” – in ambito contrattuale – non è dunque
72 X. Xxxxx, (voce) Contratto, cit., 113: secondo l’Autore, “la causa non è più la controprestazione che giustifica la prestazione, e viceversa. La causa è la contestuale esistenza di prestazione e controprestazione, che si giustificano reciprocamente e simultaneamente: la causa è (nei contratti di scambio, che sono i prototipi dei contratti) appunto lo scambio; è, più in generale, l’operazione economica che dà sostanza e ragion d’essere al contratto, mentre il contratto dà all’operazione economica veste e forza legale”. Avuto riguardo alle ipotesi di rapporto sinallagmatico, la causa attiene, in altri termini, al nesso tra le prestazioni, piuttosto che alle prestazioni di per sé considerate; ciò, peraltro, in via di prima approssimazione, atteso che non necessariamente – anche a fronte di contratti caratterizzati da prestazioni corrispettive – l’accertamento causale si esaurisce nella presa d’atto dello scambio tra prestazioni, potendo la causa risultare integrata, o addirittura diversa, alla luce di referenti obiettivi esterni che connotino l’assetto di interessi concretamente perseguito dalle parti.
73 Se, invece, la nozione di “funzione” resta legata a doppio fino a quella di “tipo”, non può che giungersi alla conclusione per cui “le ipotesi di divergenza o di incompatibilità tra il tipo negoziale e l’interesse in concreto perseguito devono essere risolte abbandonando l’identificazione della funzione, che permea di sé l’affare, con la causa. Con il conseguente errore di prospettiva di ridurre, in tal modo, ad uno schema tipico quella che invece è la complessa struttura dell’autoregolamento, sovrapponendo così all’assetto di interessi in concreto costruito dalle parti,
solo scambio tra prestazioni, credito, impresa, garanzia, cooperazione, accertamento e sicurezza; non è nemmeno solo ciò che la coscienza sociale astrattamente ritiene meritevole di tutela. La “funzione” dell’atto, in questo senso, è la sua “attitudine” (74) a perseguire un determinato concreto assetto di interessi, non necessariamente tipizzato (legalmente o socialmente) a monte. In questo senso, la “funzione” viene a coincidere con la giustificazione concreta del negozio, la quale a sua volta – lo si vedrà – può fondarsi su referenti interni (contenuto o, meglio, oggetto) o esterni rispetto al medesimo.
Lo “scopo” dichiarato dal disponente (o eventualmente oggetto di accertamento aliunde, laddove si ritenga non necessaria l’expressio cause ai fini dell’accertamento causale: v. infra, § 5.1 e § 5.2) non costituisce, da questo angolo visuale, una alternativa rispetto alla “funzione”, ma finisce con il sovrapporsi ad essa, mediante la valorizzazione dei referenti obiettivi sui cui quello “scopo” concretamente riposa. In altri termini, se lo “scopo” oggettivato nel negozio trova fondamento in qualcosa di esterno alla struttura del medesimo, non per ciò solo la causa diviene estranea al negozio e alla sua “funzione”; analogamente, se lo “scopo” consiste in un determinato animus del disponente (si pensi all’animus donandi), non per questo può ritenersi che quello scopo non attenga alla “funzione”, al pari degli effetti dispositivi. Nel contratto di donazione, allora, potrebbe oggi suonare fuorviante l’affermazione per cui la causa degrada ad animus
come regola dei loro interessi, l’effetto caratteristico dello schema tipico dalle stesse prescelto”: X. Xxxxxxxxx, “Operazione economica” e teoria del contratto (studi), Milano, 2013, 71s.
74 La nozione di “attitudine” appare invero particolarmente utile al fine di esprimere il fatto che l’accertamento causale, da un punto di vista ermeneutico-ricostruttivo, precede logicamente la verifica della idoneità effettiva del negozio alla realizzazione della funzione. Ad essa la dottrina faceva riferimento già in un’ottica di funzione economico-sociale, osservando che la causa è la “attitudine del contenuto complessivo del contratto ad una funzione economico-sociale apprezzabile in base ai principi cui è ispirato l’ordinamento giuridico; o, che fa lo stesso, come il contenuto integrale del contratto […] considerato nella sua attitudine ad una tale funzione economico- sociale”: G. Osti, Scritti giuridici, II, Milano, 1973, 665 ss. (ove è stata riedita la voce G. Osti, Contratto, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1957).
donandi perdendo ogni connotazione oggettiva per identificarsi con lo scopo soggettivo del disponente, atteso che anche in questo caso “scopo” e “funzione” confluiscono in un’unica accezione di causa in concreto, cui lo “scopo”, nei limiti in cui non sia (come nella donazione non è) mero motivo individuale e soggettivo, non è estraneo.
Funzione – in questo caso tipica, a mente dell’art. 769 cod. civ. – è dunque l’arricchimento del beneficiario per spirito di liberalità, ossia spontaneo e disinteressato, con correlativo depauperamento in senso giuridico del disponente o di colui che si obbliga; in via per certi versi analoga, è sostenibile che assurga a funzione concreta l’attribuzione a titolo di solidarietà (si pensi alla disciplina normativa del volontariato, nella quale – unitamente al fondamento ultimo costituito dall’art. 2 della Costituzione – può ritenersi che abbia trovato positivizzazione la causa di solidarietà).
La “funzione”, come sopra delineata, rileva in senso “oggettivo”, come sintesi degli interessi (non necessariamente patrimoniali) divisati dalle parti o dal disponente, il che è cosa diversa e non necessariamente coincidente con la sintesi degli effetti giuridici essenziali (o reali) del negozio (75).
Per comprendere meglio tale profilo merita richiamare, in maniera parzialmente critica, le considerazioni di una recente dottrina, secondo cui la nozione di causa, in linea con quella di sintesi degli effetti giuridici, “fatica […] a trascendere il regolamento contrattuale, il che è dire, ancora, il contenuto del contratto, gli effetti che questo le parti vogliono produca” (76), con la conseguenza che, negandosi alla causa una propria identità rispetto a ciò che attiene alla volontà o al contenuto o oggetto del contratto, “la causa altro non sia se non lo stesso
75 La definizione di causa come sintesi degli effetti essenziali risale a X. Xxxxxxxxx, Diritto civile, Milano, 1951, 108 ss.
76 X. Xxxxxxx, L’expressio causae. Contributo allo studio dell’astrazione negoziale, Torino, 2011, 177.
regolamento contrattuale, solo divisato dal punto di vista della giustificazione degli effetti dispositivi di cui esso stesso consista” (77); in altri termini, si osserva, con la causa “si identifica tutto il negozio in sé preso, ossia se ne definisce il complessivo contenuto e l’effetto che ne deriva” (78).
Premesso che sulla questione si tornerà diffusamente nel prosieguo della ricerca (v., in particolare, infra, cap. 3), deve in proposito anticiparsi che l’oggetto del contratto, così come descritto e regolato nel contenuto del medesimo (e dunque, appunto, la sintesi dei suoi effetti essenziali), non necessariamente è idoneo ad esprimerne compiutamente la causa, dal momento che, a parità di effetti negoziali, possono corrispondere assetti di interessi ben diversi, e dunque cause diverse. Basti pensare a come, a fronte di un negozio gratuito atipico, la funzione concreta possa differire a seconda che esso si inserisca in un determinato contesto negoziale o fattuale idoneo a giustificarlo (si pensi alla rilevanza causale del rapporto di gruppo societario o del collegamento negoziale: v. infra § 4.12 e § 4.2).
La funzione concreta, pur senza dubbio riconducibile alla “totalità e unità funzionale in cui si esplica l’autonomia privata” (79) e all’operazione negoziale nella sua globalità (80), attiene dunque alla sintesi degli interessi reali delle parti,
77 X. Xxxxxxx, op. cit., 178.
78 X. Xxxxxxx, op. cit., 176, ove si cita X. Xxxxxxxx, Manuale di dir. civ. comm., I, VII ed., Milano, 1950, 476. Rileva il rischio di confusione, a seconda delle nozioni che di causa e oggetto si intendano di volta in volta adottare: Xxxx. 8 maggio 2006, n. 10490, cit., che fa ricorso all’accezione concreta della causa per mettere ordine tra le diverse categoria giuridiche.
79 L’espressione è utilizzata da X. Xxxxx, op. cit., 183, che però pone l’attenzione sulla sintesi degli elementi essenziali del negozio, quali elementi indispensabili della funzione tipica: “la causa si identifica con la funzione economico-sociale del negozio intero, ravvisato spoglio della tutela giuridica, nella sintesi dei suoi elementi essenziali, come totalità e unità funzionale in cui si esplica l’autonomia privata”
80 G.B. Ferri, op. cit., 371, secondo cui “la causa come funzione economico-individuale sta appunto ad indicare il valore e la portata che all’operazione economica nella sua globalità le parti stesse hanno dato. Valore che può essere inteso solo se si considerino, veramente, tutti gli elementi di cui si compone il negozio giuridico; perché il negozio concreto, da tutti questi elementi primari e secondari viene caratterizzato ”.
come correttamente osservato dalle Sezioni unite della Cassazione (81), piuttosto che alla sintesi degli effetti negoziali, esprimendosi così in maniera netta la distinzione tra causa e oggetto; appiattire la causa sugli altri requisiti del negozio, in altri termini, significherebbe non comprendere a fondo la rilevanza dell’assetto di interessi perseguito dalle parti, rischiando di ricadere in anacronistiche impostazioni tipologiche (82). D’altro canto, affermare che la funzione assume carattere oggettivo non significa sovrapporre indebitamente causa e oggetto, ma chiarire che le singole prestazioni (la cui sintesi costituisce l’oggetto del negozio) si giustificano alla luce di un assetto di interessi complessivo, cui l’atto è oggettivamente preordinato. Per altro verso, il carattere oggettivo della causa, che rileva anche ai fini della sua accertabilità, non esclude ovviamente l’incidenza che sul perseguimento di un determinato assetto di interessi riveste la volontà delle parti o del disponente: i piani sono però distinti. Fermo l’interesse soggettivo di ciascuna delle parti a conseguire la controprestazione (in quanto ciascuna prestazione funge da ragione giustificativa dell’altra), la causa, unitariamente intesa, va oltre, cogliendo l’assetto di interessi complessivo sotteso agli effetti di quel contratto.
81 Cass. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947, cit.; si parla di sintesi reale degli interessi anche nella precedente Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, cit. Non paiono dunque condivisibili le osservazioni critiche di X. Xxxxxxx, op. cit., 167, nt. 24, secondo cui l’impostazione causale seguita dalla Cassazione si risolverebbe in una “descrizione del contenuto della fattispecie negoziale, mediata dal riferimento al c.d. intento pratico, con minor tecnicismo della formulazione delle categorie”.
82 Non sembra allora possibile ricorrere al concetto di contenuto negoziale, o alla nozione di consenso, per giungere alla conclusione che la causa presenterebbe una “marginalità di risultati”, (così, X. Xxxxxxx, op. cit., 176, nt. 49, ove si riporta in maniera critica la tesi di P. Voci, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1948, 127-130, secondo cui la causa consentirebbe di formulare un giudizio sul risultato pratico del negozio, garantendo, in un’ottica diversa da quella riguardante il contenuto, la liceità e la possibilità del negozio), fino al punto da negarne la valenza di elemento costitutivo del negozio. Mentre, infatti, il contenuto, a differenza dell’oggetto, rappresenta una nozione atecnica sotto il profilo strutturale (e dunque, come tale, priva di descrittività in ordine agli elementi costitutivi del negozio), il consenso senza dubbio investe (anche) la causa, il che però non significa escluderne l’autonoma rilevanza giuridica, non diversamente da quanto accade per l’oggetto.
Causa concreta, dunque, non è una “parafrasi del meccanismo effettuale, condotta pur sempre in astratto”(83) o descrizione sintetica del contenuto (84), ma funzionalizzazione concreta di quegli effetti.
Ciò posto, appare utile svolgere ancora una considerazione in ordine alla nozione di “funzione”.
Si sostiene in dottrina che “la causa è funzione del contratto – ossia il suo meccanismo funzionale, la capacità dell’atto di funzionare secondo il programma dei contraenti” e “svolge il ruolo di dare alle parti una prima e basilare, in quanto minima, garanzia: assicura infatti ai contraenti, e a chi è coinvolto nella loro attività contrattuale, che l’interesse perseguito abbia un minimo di funzionalità, abbia la capacità originaria di svilupparsi o meglio la non impossibilità di realizzarsi. E solo a tale condizione, nel loro interesse, l’ordinamento impegna le parti consentendo la produzione degli effetti negoziali” (85). C’è allora idonea causa, si ritiene, se c’è “razionalità dell’affare in termini di iniziale realizzabilità” (86), intesa come funzionalità giuridica originaria, a prescindere da eventuali disfunzioni sopravvenute.
L’osservazione è senza dubbio pregevole; nondimeno, occorre precisare che la “funzione” della quale qui si discute non attiene soltanto alla concreta ed effettiva capacità di funzionamento: quest’ultima è certamente decisiva, ma, come pure è precisato dalla dottrina appena ricordata, l’accertamento causale si compone anche e soprattutto di un momento genetico e strutturale, inerente la “funzione”
83 L’espressione è di X. Xxxxxxx, op. cit., 168.
84 Inteso come complesso di regole dettate dalle parti: X. Xxxx, op. cit., 803 ss.
85 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 234s., ove si precisa che “la funzionalità originaria degli interessi perseguiti dalle parti deve garantire l’aspettativa minima dei contraenti e con essa una base di equilibrio contrattuale fra gli stessi che, in una prospettiva moderna, va misurata sul parametro della distribuzione dei rischi giuridici dell’affare e non in un’ottica utilitaristica di confronto fra i rispettivi sacrifici economici delle parti, come poteva essere nello spirito originario della cause suffisante e della consideration”.
86 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 234.
oggettiva del negozio quale attitudine programmatica ad un assetto di interessi, a prescindere dalla sua concreta ed effettiva realizzabilità. In questo senso, la “funzione” rileva ai fini della qualificazione del negozio e dell’individuazione della disciplina al medesimo applicabile, quale momento propedeutico rispetto alle successive valutazioni circa la validità ed efficacia.
La causa del negozio, in definitiva, può essere definita come la sua funzione concreta, intesa come oggettiva attitudine alla realizzazione di un determinato e concreto assetto di interessi, patrimoniali e non patrimoniali. Causa, in altri termini, è prima di tutto ciò che giustifica il negozio dal punto di vista delle parti e dell’assetto di interessi dalle stesse divisato, nella prospettiva di un esercizio razionale della loro autonomia privata, con cui non contrasta, ma anzi si allinea, la “sanzione” della declaratoria di nullità in caso di assenza di causa, ossia di insensatezza dell’atto (87).
Il richiamo alla sintesi degli interessi reali, come si vedrà, schiude le porte alla possibilità di individuarne i referenti obiettivi anche al di fuori dell’oggetto del negozio, e dunque della sua struttura intesa come regolamento, rendendo opportuno addentrarsi più in profondità nella nozione di “interesse” causalmente rilevante.
2.6. Rilevanza causale dell’interesse (e dell’assetto di interessi divisato dalle parti)
Si è visto, dunque, come la causa del negozio possa essere definita come la sua funzione concreta, intesa come oggettiva e programmatica attitudine alla realizzazione di un determinato e concreto assetto di interessi. Il passaggio al piano dell’interesse concretamente perseguito, del resto, ha costituito lo snodo
87 X. Xxxxx, (voce) Contratto, cit., 113.
fondamentale della teoria della causa concreta, grazie alla quale il tipo ha assunto non più la valenza di indice di meritevolezza di tutela, bensì di modello di organizzazione di interessi (88).
La valorizzazione, sul piano causale, dell’interesse – che disvela lo stretto legale tra causa e autonomia negoziale – trova un importante fondamento positivo nella norma di portata sistematica contenuta nell’art. 1322 cod. civ., ed in particolare nel testuale richiamo agli “interessi meritevoli di tutela” (89). E’ nota, al riguardo, l’autorevole tesi secondo cui “a norma dell’art. 1322 c.c., l’interesse realizzabile mediante il contratto non è soltanto quello che corrisponde alle strutture tipiche; non è cioè, soltanto un interesse tipizzato; il contratto può, infatti, realizzare anche interessi nuovi e diversi, purché siano meritevoli di tutela; e la realizzazione di questi interessi nuovi e diversi si può attuare, sia attraverso l’attribuzione di una nuova funzione alle strutture già tipiche, sia attraverso la creazione di nuove strutture” (90). Ancora recentemente, riprendendo tali concetti (sia pure nell’ottica della ricostruzione del concetto, autonomo sotto il profilo logico-giuridico, di “operazione economica”), si è osservato che l’interesse dei contraenti “assurge a elemento oggetto del controllo dell’ordinamento sul piano del profilo causale del contratto e sulla realizzazione degli effetti delle parti, di volta in volta, in concreto programmati con l’operazione economica da loro voluta” (91).
88 G.B. Xxxxx, op. cit., 247.
89 Altra importante norma codicistica dalla quale si desume la rilevanza dell’interesse sul piano causale (nella specie, sotto il profilo funzionale-attuativo) è contenuta nell’art. 1455 cod. civ., laddove si prevede che la valutazione dell’importanza dell’inadempimento debba avvenire avuto riguardo all’interesse dell’altra parte.
90 G.B. Xxxxx, op. cit., 251. Secondo l’Autore “il fulcro della valutazione causale resta quello espresso dall’art. 1322 x.x., xx xxxxxxx xx xxxxxxxxx xxxxxxxxxx xx xxxxxx” (X.X. Xxxxx, ibidem) e può parlarsi, sia pure in maniera meno precisa (dal momento che “l’interesse esprime, già di per sé, la tensione della volontà verso un bene”) di causa come “tensione all’interesse” (G. B. Xxxxx, op. cit., 254).
91 X. Xxxxxxxxx, op. cit., 70.
Discorrendo del rapporto tra interesse e causa, è d’obbligo ricordare la dottrina secondo cui, in relazione agli atti in forza dei quali solo una parte sopporta sacrifici giuridici, “opera una causa quando il soggetto del sacrificio abbia interesse alla conclusione del contratto, alla sua efficacia, o alla prestazione” (92). A fronte di una struttura negoziale di per sé non autosufficiente, dunque, l’indagine causale non necessariamente deve arrendersi ad un esito negativo, dovendosi comunque ravvisare la causa (non nella funzione, intesa in astratto, bensì) nell’elemento che giustifica il sacrificio dell’uno e/o dell’altro contraente, all’esito di un’indagine da condursi in concreto, caso per caso.
Si fa in particolare riferimento all’interesse o vantaggio perseguito da colui che si obbliga o promette, tra cui sono state annoverate le ipotesi di: vantaggio patrimoniale per il promittente connesso al fatto stesso di promettere (ad esempio, promessa reclamistica o promessa dell’artista di partecipare ad uno spettacolo di grande richiamo per il pubblico); promessa sottoposta a condizione, il cui verificarsi, pur dipendendo dal promissario, si rivolge a vantaggio patrimoniale del promittente; promessa finalizzata a perseguire una finalità statutaria della persona giuridica promittente (si richiama l’interesse pubblico che giustifica la promessa o il contratto della P.A.); interesse collettivo del comitato ex art. 41 cod. civ. (93).
Nelle suddette ipotesi di “promessa interessata”, si osserva, “la causa è l’interesse di colui che assume su di sé un sacrificio. La promessa si giustifica per un interesse del promittente” (94).
Può inoltre accadere che la promessa o il sacrificio vengano posti in essere in relazione ad un preesistente interesse del promissario, ad esempio per rafforzare
92 X. Xxxxx, La causa, in Tratt. dir. priv. diretto da X. Xxxxxxxx, III ed., Obbligazioni e contratti, II, 325.
93 Il catalogo riportato nel testo è di X. Xxxxx, La causa, in Tratt. dir. priv. diretto da X. Xxxxxxxx, III ed., Obbligazioni e contratti, II, 325-326.
00 X. Xxxxx, Xx xxxxx, in Tratt. dir. priv. diretto da X. Xxxxxxxx, III ed., Obbligazioni e contratti, II, 326.
un’obbligazione precedente (obbligo di garanzia) o per adempiervi, venendo qui in considerazione il tema – che sarà oggetto di specifica analisi infra (§ 4.2) – del pagamento traslativo, ove la corrispettività risiederebbe all’esterno rispetto alla nuda pattuizione negoziale singolarmente intesa. In questi casi, si osserva, “il preesistente interesse (giuridicamente riconosciuto e tutelato) del promissario alla prestazione sostiene la promessa, e, in genere, l’atto di disposizione” (95).
In effetti, il richiamo all’interesse in un’ottica di giustificazione del negozio giuridico assume, soprattutto nell’odierno contesto giuridico e tenuto conto delle svariate applicazioni giurisprudenziali, rilevanza centrale, per la sua capacità di spiegare l’assunzione di obblighi o l’effettuazione di prestazioni che, se considerate alla luce della mera dichiarazione, potrebbero apparire ingiustificate. Non a caso – come autorevolmente osservato – “proprio nell’art. 1322 c.c. non è cenno ad una funzione economico-sociale del contratto, ma è cenno a un interesse meritevole di tutela, e cioè ad una entità che, rappresentando un rapporto tensionale tra una persona e un bene, implica necessariamente un elemento soggettivo, e cioè individuale” (96).
Occorre però ribadire che, ai fini della causa, la rilevanza dell’interesse non si arresta alla posizione individuale del promittente o del promissario, bensì concerne l’assetto complessivo che il negozio, unilaterale, bilaterale o plurilaterale che sia, è oggettivamente atto a perseguire in concreto. Nonostante la dottrina poco sopra citata ritenga contraddittorio identificare la causa con la funzione – sull’assunto che quest’ultima, riferendosi a qualsiasi atto, non avrebbe per il contratto un significato pratico –, alla luce di quanto illustrato nel paragrafo precedente nulla impedisce che di “funzione” possa specificamente discorrersi sia con riferimento al contratto, sia con riguardo alle promesse e ai negozî unilaterali,
95 X. Xxxxx, op. cit., 326.
96 L’affermazione, inserita nel discorso volto ad evidenziare la rilevanza causale della volontà e dell’interesse individuale, è di G.B. Xxxxx, op. cit., 129.
se per funzione si intende l’attitudine ad un risultato concreto, in cui l’interesse (o, meglio, l’assetto complessivo di interessi) si sostanzia. In questo senso, l’interesse oggettivo nei contratti sinallagmatici avrà riguardo, in prima analisi, allo scambio tra determinate prestazioni, quale concreto assetto divisato dalle parti, nel quale confluiscono i singoli interessi individuali; ferma restando però la possibilità che, in concreto, risulti accertata una funzione diversa, espressione di un differente assetto di interessi. Lo scambio, peraltro, potrebbe essere inteso in senso più ampio rispetto alla mera corrispettività tra prestazioni, come si avrà modo di osservare valorizzando la convergenza di interessi (v. infra, § 4.8).
Con chiarezza, si osserva al riguardo che “causa non è l’interesse di ciascuna singola parte, ma è l’insieme degli interessi rilevanti di entrambe le parti, che nel loro complesso definiscono il senso di quell’operazione, la ragione giustificativa di quel contratto, agli occhi delle parti stesse e dell’ordinamento giuridico” (97); ed ancora, “la causa, come funzione individuale, non dovrà essere intesa come riferita alle singole posizioni dei contraenti, quasi che nel contratto si potessero enucleare tante funzioni individuali, quanti sono i contraenti […]. La funzione individuale del contratto dovrà essere prospettata, tenendo conto che la regola privata è creata da più soggetti e che, al di là di quelle che sono le considerazioni e gli interessi personali dei contraenti, la regola contrattuale si caratterizza sulla base di un comune assetto di interessi, che sorge dal coordinamento degli interessi personali dei contraenti” (98).
Analogamente, secondo la giurisprudenza, “l’interesse di una parte, ove noto all’altra e da questa anzi alimentato, può con ciò obiettivarsi nella causa negoziale intesa come funzione pratica che i contraenti hanno effettivamente
97 X. Xxxxx, (voce) Contratto, op. cit., 114, ove si precisa che è solo tenendo conto di tutti gli interessi rilevanti delle parti che è possibile stabilire se la causa manca o è illecita, compiendo così il giudizio di razionalità e liceità del contratto cui la causa è vocata.
98 G.B. Xxxxx, op. cit., 387.
assegnato al loro accordo” (99). E così, se con riferimento ad un contratto di compravendita, dal punto di vista delle singole prestazioni l’acquirente ha interesse ad acquistare la proprietà e il venditore a conseguire il prezzo, la causa del contratto è lo scambio tra il trasferimento del diritto e il prezzo, mentre sarebbe erroneo (in quanto espressione di un ritorno al passato, ossia alla causa dell’obbligazione) cogliere la causa, rispetto all’obbligazione di un contraente, nell’obbligazione dell’altro (100). L’interesse rilevante sotto il profilo causale, come si diceva, è quello a conseguire lo scambio tra prezzo e titolarità del diritto, così fondendosi funzione e assetto complessivo ed oggettivo di interessi.
Ne deriva la riduttività dell’ulteriore sviluppo argomentativo della dottrina poco sopra citata, secondo cui, al di fuori delle categoria dei negozî interessati sul piano patrimoniale e di quelli con funzione di garanzia o pagamento, rimarrebbero soltanto i negozî sostenuti da un puro elemento soggettivo, rispetto ai quali – stante l’impossibilità di rinvenire una giustificazione sul piano sinallagmatico – la causa sarebbe rimpiazzata da altri elementi, quali la forma (si pensi alla donazione non manuale) o la consegna.
Xx xxxxxx, affermare la rilevanza dell’assetto di interessi sul piano causale non implica necessariamente l’accoglimento di impostazioni rigidamente utilitaristiche o mercantili della causa. Non sembra, in altri termini, che l’ordinamento legittimi l’interprete ad introdurre una distinzione generale ai fini causali, in punto di natura giuridica e disciplina, tra interesse patrimoniale e interesse non patrimoniale: quest’ultimo, invero, è idoneo a giustificare causalmente il negozio non soltanto allorquando venga in considerazione una liberalità o un negozio familiare o mortis causa, ma anche – argomentando ai sensi
99 Cass. 26 gennaio 1995, n. 975, in Giust. civ., 1995, I, 662.
100 L’osservazione è di X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 192, ove si cita criticamente App. Napoli, 21 dicembre 1989, n. 1934, in Dir. giur, 1990, 518, nella parte in cui tale sentenza ha appunto ritenuto di individuare la causa avuto riguardo alla singola obbligazione, valutandola in rapporto all’altra.
dell’art. 1174 cod. civ. – in ambito contrattuale, con riflessi sulla disciplina dell’inadempimento e del danno risarcibile. Si pensi, per fare solo alcuni esempi, ai contratti di prestazione d’opera professionale (quali quello del medico o dell’avvocato) in cui venga in considerazione la protezione di interessi non patrimoniali del cliente (la salute, il diritto di difesa, la libertà personale), oppure a figure quali il contratti di mantenimento o di assistenza (101) e il contratto di assicurazione sulla vita, ove rileva, quale evento assicurato, la lesione di un interesse di natura non patrimoniale (102).
Né deve confondersi il piano dell’apprezzabilità economica della prestazione (e dunque della natura patrimoniale del rapporto giuridico, ex art. 1321 cod. civ.) con quello della natura (anche) non patrimoniale dell’assetto di interessi perseguito e rilevante sul piano causale.
Analogamente, non pare da condividere la tradizionale distinzione tra negozî interessati e negozî liberali, appunto perché sottesa ed essa vi è un’accezione di interesse ingiustificatamente limitata a parametri patrimoniali e utilitaristici. Se è vero, peraltro, che la forma solenne può fungere da elemento di garanzia e tutela a fronte di impegni a titolo gratuito potenzialmente molto invasivi sul piano giuridico-patrimoniale, ciò non può e non deve tradursi nello svuotamento della rilevanza causale ed oggettiva dell’interesse non patrimoniale, di cui si è detto.
101 Il contratto di mantenimento o assistenza è una figura negoziale atipica elaborata nella prassi, ai sensi della quale una parte si obbliga ad effettuare, in favore dell’altra, una prestazione continuativa, in relazione alla quale, alle prestazioni aventi ad oggetto più propriamente un dare (che avvicinano la figura alla rendita vitalizia) si aggiunge un prioritario obbligo di assistenza morale e materiale, che in genere comprende l’assistenza medica, la compagnia, il sostegno morale nel corso della vita quotidiana, la cura e la pulizia della persona: cfr. X. Xxxxxx, Commento agli artt. 1872 ss. c.c., in Comm. cod. civ., dir. da X. Xxxxxxxxx, Torino, 2011, 19; X. Xxxxxxxx, Il c.d. contratto di assistenza, in Contratti, 1998, 4, 379 ss.; X. Xxxxxxxx, Contratto di mantenimento e rendita vitalizia, in Contratti, 1999, 3, 223 ss.; in giurisprudenza, cfr. Cass. 7 febbraio 1992, n. 1401, in Giur. it., 1993, I, 1784;
Cass. 9 ottobre 1996, n. 8825, in Giust. civ., 1997, I, 2233.
102 La natura non patrimoniale dell’interesse protetto dal contratto di assicurazione sulla vita è ribadita da X. Xxxxxxx, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi?, in Riv. dir. civ., 2013, 1, 46.
Non pare in questo senso condivisibile, nella sua assolutezza, l’accezione di causa in senso prettamente “mercantile” (103), perché finisce con il restringere in maniera ingiustificata il novero degli interessi rilevanti, così rischiando di circoscrivere la meritevolezza di tutela nell’ambito di logiche rigidamente utilitaristiche. Inoltre, come meglio si vedrà infra (§ 4.8), un’accezione di “scambio” troppo legata ad una logica mercantile di circolazione della ricchezza finirebbe con lo sminuire la reale portata causale dell’interesse, che, come detto, non sottende solo utilità intrinsecamente economiche.
Quanto, ancora, ai confini della nozione, è noto che l’interesse oggettivo di cui si discute non deve essere confuso con i semplici motivi soggettivi che animano il disponente o il promittente. Basti pensare, ad esempio, a come, in tema di prestazioni consistenti in attività personali, la distinzione tra contratto gratuito e rapporto di mera cortesia venga ravvisata proprio alla luce dell’interesse di chi si impegna a prestare senza corrispettivo: se egli mira a perseguire un vantaggio, anche indiretto, dalla prestazione gratuita, si avrà contratto (e, dunque, un atto giuridicamente rilevante: si fa il caso della consulenza resa gratuitamente in una logica promozionale, o del trasporto gratuito in favore del cliente di un albergo); qualora, di contro, “la prestazione senza corrispettivo non è sorretta da alcun interesse che non sia l’interesse puramente soggettivo di rivolgere al beneficiario un gesto di cortesia, amicizia o benevolenza (…), allora il rapporto non è giuridico e l’accordo non è un contratto” (104).
103 La nozione di causa mercantile è approfondita da M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, 2015, spec. 185 ss. L’Autore affronta anche il tema del rapporto tra causa e interessi delle parti, osservando ad esempio che “un contratto corrisponde al paradigma utilitario, che la causa mercantile postula, non quando il sacrificio di una parte sia ricambiato da un suo semplice interesse/vantaggio, ma solo quando si dia un quid alla cui appropriazione una parte può opporsi e per ottenere il consenso dell’appropriazione del quale l’altra parte si obbliga a darle alcunché” (M. Barcellona, op. cit., 205).
000 X. Xxxxx, Xx contratto, cit., 14.
La rilevanza dell’argomento è confermata dalla riflessione sull’integrazione contrattuale in forza del principio di buona fede, cui è attribuito il valore di “indice di emergenza di interessi altrimenti destinati, in una utilizzazione formalistica del diritto, a non acquistare adeguato risalto; di strumento capace di fungere – in quella che è stata indicata come una valutazione di secondo grado, ma non per ciò meramente eventuale e sussidiaria – da correttivo dei rigori del ius strictum tramite una valutazione degli interessi coinvolti nella singola vicenda” (105). E così, l’interesse delle parti, così come si articola anche nel corso del rapporto contrattuale, diventa espressione della funzione del contratto nella sua fase di esecuzione, diventando il parametro di riferimento per stabilire se il contraente sia o meno legittimato ad opporre l’eccezione di inadempimento (106), oppure se la clausola penale possa considerarsi manifestamente eccessiva, e come tale riducibile anche d’ufficio (107). Il dettato dell’art. 1455 cod. civ., del resto, conferma la rilevanza dell’interesse sul piano attuativo del rapporto.
105 X. Xxxxxxxxx Xxxx, Xxxxx Xxxxxxxxxxx, 172 ss., citato da X. Xxxxxxx, L’eccezione di inadempimento nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nota a Xxxx. 15 maggio 2012, n. 7550, in NGCC, 2012, 1067.
106 La Cassazione ritiene che l’equilibrio sinallagmatico vada ravvisato, nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nelle singole coppie di prestazioni da realizzarsi in corrispondenza reciproca nel tempo, dovendosi dunque escludere che, ove la prestazione sia economicamente scindibile, l’eccezione di inadempimento possa essere sollevata in relazioni a prestazioni già eseguite, fuori dall’equilibrio della specifica coppia prestazione-controprestazione: Xxxx. 15 maggio 2012, n. 7550, cit.
107 Secondo un orientamento recentemente ribadito dalla Cassazione, la valutazione di manifesta eccessività della penale può e deve essere condotta con riguardo alla fase attuativa del rapporto, osservandosi che “non sembra possibile espungere la considerazione della fase attuativa del rapporto ai fini della considerazione dell’interesse del creditore alla prestazione. Anche in tale fase, infatti, trovano applicazione il dovere costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ed il dovere di buona fede (art. 1375 c.c.)”: Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994, in Foro it., 2013, I, c. 1205 ss., ove si condivide l’orientamento, pur indicato come minoritario, secondo cui si deve avere riguardo alla “incidenza che l’inadempimento ha in concreto avuto sulla realizzazione dell’interesse della parte, riferita non al solo momento della conclusione del contratto, ma a quello in cui la prestazione attesa è stata sia pure in ritardo eseguita o è definitivamente rimasta ineseguita” (così, Xxxx. 3 settembre 1999, n. 9298, in Contratti, 1999, 12, 1108). L’orientamento maggioritario, di contro, ritiene che ai fini della riducibilità della penale occorra avere riguardo all’interesse all’esecuzione del contratto che le parti hanno al momento della stipulazione della clausola (cfr. Cass. 9 maggio 2007, n. 10626, in Contratti, 2008, 8-9, 771).
Non ogni interesse (pur se astrattamente meritevole di tutela) di cui una delle parti è portavoce assume peraltro, di per sé, rilevanza causale. Si pensi, ad esempio, all’orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto di non attribuire valenza causale all’interesse dell’utilizzatore, nel contratto di leasing, ad ottenere un finanziamento per l’acquisto del bene oggetto della locazione finanziaria, la cui causa è stata in questo caso ravvisata su un piano misto vendita-locazione, piuttosto che nell’ottica di una funzione di finanziamento e garanzia. A prescindere dalla condivisibilità di un simile esito ermeneutico (invero incoerente con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di locazione finanziaria) (108), esso dimostra che l’interesse concreto, pur astrattamente idoneo a supportare causalmente un negozio (appunto, l’interesse ad ottenere un finanziamento), certamente esistente, non necessariamente assurge a causa (concreta) del negozio in esame.
Né, d’altra parte, attribuire rilevanza causale all’interesse significa necessariamente condividere l’osservazione critica secondo cui il limite della categoria dell’interesse/vantaggio starebbe nell’assumere che sia sufficiente, ai fini della sussistenza e valutazione della causa, il mero tornaconto soggettivo dell’obbligato o un suo qualche beneficio o soddisfazione (109).
Innanzitutto, come detto, l’interesse non rileva di per sé, ma in quanto si inserisce in un complessivo assetto; inoltre, non ogni “soddisfazione” verrà in considerazione sul piano giuridico, ma – pur senza (re)introdurre tipizzazioni o
108 Secondo la più recente giurisprudenza, “il contratto di leasing traslativo sottende un’operazione tendente ad attuare un acquisto dell’utilizzatore ed una mera operazione di finanziamento da parte del concedente. È l’utilizzatore che sceglie presso il terzo venditore (non presso il concedente) il bene oggetto di leasing, in termini conformi alle sue peculiari esigenze, mentre il concedente si limita a fornire i mezzi economici per il pagamento del prezzo, erogando la somma necessaria, che verrà restituita - con l’aggiunta di interessi, spese ed utile dell’operazione ratealmente e tramite l'esercizio finale dell’opzione di acquisto. La formale intestazione della proprietà al concedente ha mera funzione di garanzia della restituzione del finanziamento e configura una sorta di proprietà fiduciaria in funzione di garanzia, che si contrappone al vero e proprio dominio utile, spettante all’utilizzatore”: Xxxx. 13 febbraio 2014, n. 3362, in Contratti, 2014, 4, 380.
109 L’osservazione critica è di M. Barcellona, op. cit., 205.
ricostruzioni teoriche – solo quelle utilità o quei vantaggi, anche di natura non patrimoniale, che cui l’ordinamento conferisca valore giuridico e che siano idonei a specifica in concreto ed oggettivamente la “funzione” dell’atto; tali interessi saranno meritevoli di tutela laddove risultino in linea con i principî dell’ordinamento giuridico, e non siano prevaricati, in un’ottica di contemperamento e bilanciamento, da un interesse maggiormente meritevole.
Ancora di grande attualità, in proposito, sono le parole dell’autorevole Autore, ove osservava che “l’atto di autonomia privata è per noi un atto portatore di interessi individuali e teso dunque alla realizzazione di questi interessi; che esso è preso in considerazione dall’ordinamento giuridico, proprio quale atto caratterizzato da origine e finalità individuali e come, in questa sua veste, esso si differenzi da tutte le altre attività private, che possano essere rilevanti per l’ordinamento giuridico. Il valore dei criteri sociali nell’esperienza giuridica, ed, in particolare, il ruolo dei tipi, degli schemi e, più in genere, di tutti i riferimenti ad usi e consuetudini sociali, è essenzialmente strumentale. Utilizzabile cioè, mi si consenta di arrestarmi per ora a questa formula, per una migliore comprensione del negozio giuridico, in quanto atto individuale” (110). Anche eventualmente al di là delle nozioni di “normalità sociale” e “socialità”, la causa diventa allora strumento di espressione e tutela dell’autonomia privata, nella sua individualità.
L’interesse, in qualsiasi negozio, rappresenta il fondamento ultimo della funzione, quale elemento di contatto tra causa ed esigenze della realtà giuridica. Anche nei negozî unilaterali, così come per i contratti, ciò che rileva sotto il profilo causale non è l’interesse sotteso alla singola prestazione o alla singola promessa, bensì l’assetto di interessi complessivo, nel quale confluiscono sia l’utilità attesa dal promittente, sia quella attesa o perseguita dal promissario o beneficiario, avuto
110 G.B. Xxxxx, op. cit., 225.
riguardo a tutti i rapporti coinvolti (111). Al punto che, può ritenersi, assume rilievo causale la convergenza di interessi verso un unico assetto (112), pur in assenza di controprestazioni in senso tecnico, ossia pur a fronte di situazioni in cui l’utilità perseguita dal promittente o dal disponente non derivi da una prestazione del beneficiario (sulla possibile rivisitazione, in senso estensivo, della nozione di “scambio”, v. infra, § 4.8).
Quanto sopra, peraltro, a mente del passaggio evolutivo dalla nozione di causa della prestazione (113) a quella di causa del contratto, non implica il venir meno della distinzione tra “scopo del contraente” e “scopo del contratto” (che deve essere tale da diventare conoscibile ed apprezzabile socialmente) (114), atteso che, in concreto, la seconda ipotesi sussiste allorquando lo scopo individuale, pur se non necessariamente esplicitato, risulti obiettivizzato al punto da influenzare e giustificare in concreto la struttura e le caratteristiche essenziali del negozio (ad esempio, optando per la gratuità non liberale).
In estrema sintesi, tenuto conto di quanto finora esposto, è possibile definire utilmente la causa come funzione concreta del negozio, intesa come obiettiva attitudine del medesimo a realizzare un concreto e complessivo assetto di interessi, non necessariamente di natura patrimoniale.
111 La necessità di un’indagine complessiva, che tenga conto di tutti i rapporti coinvolti, è evidenziata, con riguardo alla figura dell’adempimento dell’obbligo altrui, da X. Xxxxxxx, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, 144.
112 Parlava di “coordinamento degli interessi personali dei contraenti”: G.B. Xxxxx, op. cit., 387.
113 Il riferimento alla causa dell’obbligazione deve invece essere inteso in senso atecnico, trattandosi piuttosto di fonte o titolo dell’obbligazione. Rileva la non condivisibilità della sovrapposizione tra i concetti di “causa del contratto” e “causa/fonte dell’obbligazione”: Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, cit.
114 X. Xxxxx, op. cit., 177 ss.
2.7. Causa, meritevolezza di tutela e astrattezza
L’affermazione per cui la causa consiste nella giustificazione oggettiva del negozio generalmente si accompagna alla riflessione sulla meritevolezza di tutela, nel senso che, si osserva, può parlarsi di mancanza di causa allorquando il negozio posto in essere dalle parti non abbia una funzione che l’ordinamento riconosca idonea a realizzare interessi meritevoli di tutela (115). Si osserva, in quest’ottica, che mentre “il tipo riguarda la struttura dell’atto; la causa invece l’interesse e più precisamente la sua caratteristica di essere meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico” (116).
E’ in proposito opportuno svolgere alcune precisazioni.
Il fondamento del requisito di meritevolezza di tutela si ravvisa – oltre che nell’art. 1322 cod. civ. – nell’art. 41 della Costituzione, ove si tutela la libertà di iniziativa economica, di cui è espressione l’autonomia privata, purché quest’ultima non si svolga in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; così distinguendosi l’ipotesi in cui l’esercizio di attività economica è immeritevole di tutela da quella in cui tale esercizio è illecito, perché contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (117).
Può ritenersi dunque immeritevole di tutela (pur se non illecito) il negozio cui siano sottesi interessi in contrasto con l’utilità sociale (118), o comunque socialmente dannoso, in quanto contrastante con gli interessi generali della comunità o con l’interesse di terzi, se questo sia maggiormente meritevole di tutela
115 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 567.
116 X.X Xxxxx, op. cit., 123, ove si osserva che la relazione al codice civile è puntuale ed esplicita in questo senso.
117 C.M. Xxxxxx, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 2, 253.
118 X. Xxxxx, op. cit., 105.
(119). Si porta l’esempio dei contratti aventi ad oggetto la trasmissione di programmi diseducativi, della pubblicità di prodotti dannosi per la salute, dello svolgimento di attività pregiudizievoli per l’ambiente (120), della prevalente o esclusiva finalità di eludere norme fiscali (121). Un riferimento normativo alla nozione di meritevolezza di tutela è poi individuato nell’art. 2645 ter cod. civ., ove si prevede che gli atti di destinazione debbano essere volti alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, cod. civ. In questo caso, si osserva, la validità dell’atto costitutivo del vincolo “presuppone che l’interesse esprima un valore morale o sociale che lo renda maggiormente meritevole di tutela rispetto a quello economico della garanzia patrimoniale dei creditori” (122).
Affinché possa essere ritenuto meritevole di tutela (secondo la nozione normativa contenuta nell’art. 1322 cod. civ.), peraltro, il contratto non deve necessariamente perseguire una specifica utilità sociale (123). Tale impostazione appare condivisibile ed in linea con la moderna evoluzione del pensiero giuridico,
119 C.M. Xxxxxx, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, cit., 253. L’Autore cita, quale ipotesi concreta di atto dannoso per i terzi, quella affrontata da Xxxx. 19 giugno 2009, n. 14343, che ha ritenuta nulla la clausola contenuta in un contratto di locazione avente ad oggetto il divieto imposto al conduttore di dare ospitalità a terzi.
120 Cfr. Cass. 7 ottobre 2008, n. 24769, in Giur. it., 2009, 7, 1655.
121 C.M. Xxxxxx, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, cit., 253-255. L’Autore ritiene contrari all’utilità sociale anche gli atti che impongono obbligazioni reali (propter rem), in quanto volti a creare pesi sulla proprietà privata al di fuori dei casi previsti dalla legge, salvo che in concreto l’imposizione di vincoli a carico di futuri proprietari corrisponda ad un interesse maggiormente meritevole di tutela (ad esempio, l’interesse abitativo della comunità condominiale) rispetto a quello di non essere gravati da vincoli atipici. In generale, peraltro, vengono qui in considerazione le varie giustificazioni al principio del numerus clausus dei diritti reali, quali la certezza del diritto, la circolazione dei diritti reali, la relatività degli effetti negoziali rispetto ai terzi, con particolare riguardo all’ipotesi di pesi gravanti sulla posizione giuridica di terzi futuri titolari del bene o del diritto reale limitato.
122 C.M. Xxxxxx, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, cit., 254.
123 In questo senso, cfr. X. Xxxxx, Il contratto, cit., 345s., ove si osserva che “deve preferirsi l’idea che i contratti socialmente dannosi vanno certamente disapprovati e repressi; che i contratti socialmente utili vanno certamente approvati e lodati; ma che fra gli uni e gli altri possano esistere contratti socialmente indifferenti (né utili, né dannosi) che, se non meritano di essere lodati, neppure meritano di essere repressi, ma certamente meritano di essere tollerati”.
non potendosi ritenere invalido (in quanto privo di causa) un negozio per il solo fatto che persegua interessi socialmente indifferenti. Xxxxxxx cautela sembra però doversi adottare in relazione allo sviluppo argomentativo secondo cui sarebbero tollerati dall’ordinamento anche contratti con causa futile o stravagante, atteso che il confine tra dette ipotesi e la insensatezza e irragionevolezza dell’operazione può essere molto labile. L’interpretazione del principio espresso dall’art. 1322 cod. civ., invero, non dovrebbe essere tale da snaturare del tutto il requisito della meritevolezza di tutela, estendendo eccessivamente l’ambito del “rilevante giuridico” in nome dell’autonomia privata; ciò anche in considerazione di recenti sviluppi normativi, che talvolta ravvisano proprio nella previsione generale dell’art. 1322 cod. civ. un baluardo di rilevanza e liceità, se non di tenuta stessa del sistema: si pensi all’art. 2645 ter cod. civ., cui già si è avuto modo di fare cenno.
La valutazione di meritevolezza investe l’intera operazione negoziale, anche tenendo conto di quegli elementi accessorî che, attribuendo rilevanza a motivi soggettivi, ben possono influenzarne in maniera decisiva il risultato (124).
Così individuata la nozione di meritevolezza di tutela, è concettualmente sostenibile che il vaglio richiesto dall’art. 1322 cod. civ. a sua volta presupponga, sul piano logico e giuridico, il previo accertamento causale, ben potendo accadere che la funzione oggettiva del negozio, pur esistente, sia, in concreto, non meritevole o illecita. Il piano dell’esistenza della causa (scevra, in questa prima fase dell’accertamento, da apprezzamenti di meritevolezza o liceità) potrebbe allora ritenersi preliminare, salvo si voglia accedere ad una nozione necessariamente “qualificata” di causa, intesa di per sé come funzione intrinsecamente meritevole di tutela.
124 Sul punto, cfr. G.B. Xxxxx, op. cit., 258, secondo cui “un interesse che, senza quelle determinazioni accessorie, o in mancanza dell’inserimento di quei motivi psicologici, sarebbe meritevole, può non esserlo più, quando tale inserimento si attui”.
L’accertamento della causa, dunque, si pone su un piano antecedente rispetto a quello di meritevolezza e liceità, attenendo prima di tutto alla summa divisio tra negozî causali e negozî astratti, secondo la definizione per cui, mentre nei primi la causa è strettamente incorporata nel negozio, in quelli astratti è sufficiente il requisito formale, restando la causa – si sostiene – per così dire “indifferente” (125).
Il dibattito dottrinale sorto e tuttora in corso intorno all’astrattezza conferma la rilevanza che l’accertamento della causa riveste sotto il profilo strutturale. A fronte, infatti, delle opinioni che ravvisano varie ipotesi di negozî astratti – quali (oltre alla delegazione di pagamento c.d. pura e alla girata nei titoli di credito), il negozio di accertamento, la transazione, e perfino al confessione – delineare la causa e capire come accertarla in concreto assume valenza decisiva al fine di sottrarre dalle maglie dell’astrazione (che ben poco si attaglia ai principi di fondo del nostro ordinamento) fattispecie che, in realtà, certamente si giustificano sul piano causale.
Di qui l’importanza di individuare la funzione come attitudine ad un concreto assetto di interessi, e coglierne tutti i referenti obiettivi, anche esterni.
125 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 301. L’Autore fonda la distinzione tra negozî causali e negozî astratti muovendo da una accezione di causa improntata a tipicità. Si vedrà nel corso dell’esposizione che l’accertamento causale può verosimilmente essere compiuto sulla base di referenti esterni rispetto alla struttura negoziale, senza che ciò necessariamente implichi sfociare nell’astrattezza.
3. ACCERTAMENTO CAUSALE E REFERENTI OBIETTIVI ESTERNI DELLA CAUSA
3.1. Premessa sull’accertamento causale
Rilevata la valenza causale del concreto assetto di interessi complessivo perseguito dal negozio, occorre chiedersi quali elementi possano o debbano essere presi in considerazione ai fini della verifica e dell’accertamento in concreto di quell’assetto. E così, se è vero che in genere lo scambio tra le prestazioni oggetto del contratto esaurisce l’indagine causale (rendendo per così dire in re ipsa l’assetto di interesse oggettivo), è interessante chiedersi se la funzione del negozio possa e debba essere accertata anche sulla base di elementi diversi dalle prestazioni che ne formano oggetto, o addirittura in contrasto con ciò che il tipo, o la struttura dell’atto, sembrerebbero a prima vista indicare come funzione obiettiva.
A ben vedere, può accadere – e spesso accade – che la ragione giustificativa di un determinato negozio (non liberale), e dunque l’assetto di interessi perseguito nel suo complesso, non sia disvelata da un vero e proprio scambio di prestazioni, ma semmai da un interesse fondato su ulteriori elementi (pur oggettivi), ossia da un’utilità, di natura patrimoniale o non patrimoniale, che non necessariamente forma oggetto di una controprestazione.
Più in generale, considerare il contenuto, o meglio l’oggetto del contratto (inteso in senso giuridico come insieme delle prestazioni) o i suoi effetti essenziali, non sempre è sufficiente per pervenire ad esiti soddisfacenti in punto di accertamento causale. La stessa rilevanza causale dell’animus donandi nel negozio liberale dimostra che la prestazione o comunque l’effetto giuridico, di per sé considerati (si pensi al trasferimento a titolo gratuito del diritto al beneficiario accettante), non sono, per così dire, caratterizzanti o qualificanti ai fini
dell’accertamento della causa, al punto che in dottrina non si è mancato di ritenere che la donazione sia in realtà priva di causa o che, più coerentemente con il sistema, la causa risieda nello “scopo” soggettivo perseguito dal disponente. Allo stesso modo, più in generale, la nozione concreta e individuale di causa concettualmente può implicare la rilevanza di elementi concreti e atipici, proprî della specifica operazione e riflettenti peculiari interessi delle parti (126).
Indagare il fenomeno causale significa allora chiedersi cosa attribuisca senso e giustifichi in concreto la scelta delle parti di esercitare in una determinata direzione la propria autonomia negoziale, e dunque quali elementi (si vedrà, presupposti causali o, ancor più precisamente, referenti obiettivi a rilevanza causale) possano essere presi in considerazione ai fini dell’accertamento della causa in concreto, in quanto rilevanti in relazione all’assetto di interesse divisato e perseguito dalle parti o dal disponente. Nel rispondere a tale domanda, potrà allora riflettersi se detti elementi debbano necessariamente essere ricercati nell’oggetto o nell’insieme degli effetti, oppure se possano essere etero-individuati; con l’ulteriore corollario, accedendo alla tesi della rilevanza causale di elementi esterni (ferma la necessità di definire i contorni e i parametri di riferimento di tale nozione di “estraneità”), consistente nell’indagare se gli elementi rilevanti ai fini dell’accertamento causale debbano necessariamente essere espressi nell’atto (ossia “dichiarati”), sia pure con riguardo ad elementi esterni ad esso, oppure se l’indagine causale possa essere condotta anche al di là e a prescindere dalle dichiarazioni negoziali (e, dunque, della expressio causae).
In punto di accertamento della causa, muovendo dalla distinzione tra accertamento ermeneutico-ricostruttivo della causa e accertamento oggettivo e funzionale, si è osservato che “l’accertamento sull’elemento causale può essere idealmente scisso in due fasi: quella ermeneutico-ricostruttiva, ossia
126 X. Xxxxx, (voce) Xxxxxxxxx, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1989, IV, 114.
l’individuazione in concreto del programma economico e dell’assetto di interessi che l’atto mira a realizzare, e l’accertamento obiettivo sulla sua capacità di funzionamento, tramite la verifica che non sia a priori irrealizzabile – in base alle circostanze concrete in cui si colloca l’atto – la funzione programmata” (127).
La prima, ossia l’indagine ermeneutico-ricostruttiva in ordine agli interessi rilevanti nell’ambito dello specifico programma negoziale, si è detto, costituisce la fase prodromica dell’indagine causale, sempre necessaria a prescindere dalla specifica categoria di atti (128), nell’ottica di un accertamento causale improntato alla ricerca della funzione economico-individuale del negozio anche prescindendo, o addirittura smentendo, l’eventuale dichiarazione di scopo da parte dei contraenti (129). Il momento ermeneutico, secondo una impostazione (condivisibile, quantomeno con riguardo al piano dell’interpretazione), non significa considerare la causa come strumento volto ad orientare l’interpretazione e la qualificazione del contratto, dovendo semmai essere la causa e la funzionalità dell’atto ad essere sottoposta al previo esito interpretativo, al fine di evidenziare la concreta configurazione del singolo contratto rispetto all’assetto di interessi delineato (130).
Posto il momento ermeneutico-ricostruttivo dell’accertamento causale, la dottrina citata soggiunge che “l’indagine sulla causa non può rivolgersi alla pura funzione, una volta ricostruita quella programmata dalle parti, ma deve esaminare quali sono i presupposti da cui dipende la medesima, se oggettivamente sussistono e se sono coordinati in maniera da consentire il funzionamento dell’atto” (131).
In sostanza, si argomenta, “la causa è, dunque, la funzione del contratto nell’accezione di una capacità concreta di funzionamento dell’atto misurata in
127 X. Xxxxxxxxxx, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 270.
128 Sull’esigenza di una ricostruzione in chiave ermeneutica della causa, cfr. Cass. 19 maggio 1967, n. 1084, in Giust. civ. Mass., 1967, 566.
129 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 272s.
130 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 270.
131 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 274.
rapporto al programma predisposto dai contraenti”, nel senso che la ricostruzione del concreto assetto di interessi programmato dalle parti non assorbe l’indagine causale, rappresentando soltanto, come detto, la fase prodromica (sia pure imprescindibile) di tale accertamento, ed occorrendo altresì accertare che tale programma non risulti a priori irrealizzabile, ossia che la funzione sussista in concreto, con particolare riguardo alla sua realizzabilità e non impossibilità (132).
Guardando ai due momenti costituenti l’accertamento della causa, così come sopra (e condivisibilmente) individuati, interessa in questa sede approfondire quello della ricostruzione del concreto assetto di interessi programmato dalle parti, a sua volta come detto propedeutico all’accertamento dei presupposti di funzionamento della causa, e dunque della sua realizzabilità e non impossibilità (133). Se è vero, infatti, che l’accertamento causale non può che tener conto della concreta realizzabilità, originaria e sopravvenuta, della funzione, è altresì innegabile che l’esigenza di spiegazione della realtà giuridica (e, conseguentemente, di qualificazione e disciplina) trova nel momento strutturale un prius logico e giuridico imprescindibile.
Una volta individuata (se c’è) la giustificazione del negozio sul piano strutturale, potrà condursi, a valle, il vaglio di meritevolezza di tutela ex art. 1322 cod. civ., e in generale la valutazione in punto di liceità, oltre che di possibilità della causa, prendendo in esame i presupposti di concreto funzionamento e realizzabilità della causa medesima. Con la precisazione, peraltro, che i presupposti di funzionamento della causa non necessariamente coincidono con i referenti obiettivi della stessa, che, come si è anticipato e in seguito si approfondirà, ne presiedono all’accertamento.
132 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 273.
133 X. Xxxxxxxxxx, ibidem.
Così, il contratto avrà causa illecita se l’operazione, pur sensata e giustificata dal punto di vista delle parti, risulti disapprovata dall’ordinamento giuridico, che dunque si pone in questo caso in antitesi rispetto all’autonomia negoziale delle parti (134); la causa non sarà meritevole di tutela, in senso stretto, se essa non corrisponde ad un interesse rilevante dal punto di vista sociale e giuridico o se in concreto quell’assetto di interessi risulti recessivo rispetto ad altro interesse maggiormente meritevole di tutela; il contratto sarà, di contro, tecnicamente privo di causa se, pur considerando tutti i possibili referenti aventi rilevanza causale, esso risulti ingiustificato, insensato.
Una volta accertata la causa sul piano strutturale, potrà poi affrontarsi il profilo del concreto funzionamento della stessa, e discutersi di eventuali vizî della stessa sul piano genetico (si pensi al contratto rescindibile) o funzionale (si pensi alla disciplina della risoluzione del contratto per inadempimento, impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione). Non senza ricordare, in proposito, l’obiezione di quella dottrina che, muovendo dalla natura della causa quale elemento essenziale del contratto, osserva che gli istituti volti a mantenere o disciplinare un certo equilibrio delle prestazioni all’inizio del rapporto e nella sua fase evolutiva attengono alla “realizzazione, in termini di efficacia giuridica, dell’autoregolamento divisato dalle parti in vista della funzione perseguita; per cui solo a voler usare un linguaggio traslato, che per il suo tono equivoco conviene evitare, possono ricondursi nel quadro della causa” (135).
In effetti, come meglio si vedrà nel prosieguo (cfr. § 3.2 e § 3.3), è indispensabile distinguere l’accertamento della causa sotto un profilo strutturale (oltre che genetico) dall’analisi del piano funzionale, ossia della concreta idoneità
134 X. Xxxxx, (voce) Contratto, cit., 113.
135 X. Xxxxxxxxxxxx, Dei requisiti del contratto (sub art. 1343 c.c.), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, 318. Secondo l’Autore, è contraddittorio affermare che un elemento essenziale, qual è la causa, possa mancare solo in parte o venire successivamente meno, dando luogo ad una ipotesi non già di invalidità, bensì di inefficacia.
alla realizzazione della funzione divisata dalle parti, specie allorquando tale idoneità venga valutata nel tempo, ad esempio al fine di gestire le sopravvenienze capaci di incidere concretamente sul complessivo assetto di interessi.
3.2. Teoria dei presupposti e referenti obiettivi della causa, considerati in un’ottica funzionale
In prima analisi, alla luce di quanto sopra osservato, indagare la causa di un negozio giuridico significa coglierne la funzione oggettivata, la ragione giustificatrice, in relazione all’assetto di interessi divisato dalle parti, avuto riguardo
– non ai meri motivi soggettivi in quanto tali, bensì – alla funzione economico- individuale del negozio, che potrà essere ulteriore (o addirittura diversa) rispetto a quella astratta che tipicamente connota lo schema negoziale (tipo) utilizzato dalle parti o dal disponente.
Se l’impostazione unitaria della causa senza dubbio convince, non potendosi avere riguardo allo scopo che ciascuna parte persegue assumendo il proprio vincolo (136), definire la causa come concreta funzione e giustificazione del contratto non spiega tuttavia come (o meglio, sulla base di quali elementi o referenti) possa essere condotto il relativo accertamento in concreto.
136 Il che significherebbe ricadere in prospettive atomistiche risalenti alla concezione dalla cause suffisante, la quale contrasterebbe non solo con le direttive del Codice civile del ’42, ma anche e soprattutto con l’esigenza di una visione non frammentaria del fenomeno causale: X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 274, ove si osserva altresì che “il centrismo del sinallagma oneroso si è incentrato a lungo anche nel nostro ordinamento inducendo a confondere la funzione dell’atto con il suo carattere oneroso o gratuito. Xxxxx menzionare, in proposito, i tentativi di conferire rilievo causale alla controprestazione dell’obbligo in fattispecie, quali la fideiussione, la datio in solutum e il contratto autonomo di garanzia” (X. Xxxxxxxxxx, ibidem, nt. 257). In realtà, anche con riguardo a tali ipotesi l’assetto di interessi concretamente divisato ben può implicare un’utilità o un vantaggio per colui che si obblighi o rilasci la garanzia: tale utilità, come è stato evidenziato, assume rilevanza causale, se si vuole nell’ottica di uno “scambio” non più rigidamente ancorato al rapporto tra controprestazioni in senso tecnico.
Accolta dunque la nozione di “funzione” intesa come giustificazione concreta del negozio (quand’anche quest’ultimo si risolva in una prestazione apparentemente “isolata”), e compreso come lo “scopo” altro non sia se non la manifestazione di tale “funzione” sulla base di determinati referenti obiettivi, è allora opportuno muovere un passo ulteriore e chiedersi quali siano gli elementi in cui quella funzione o giustificazione si sostanzi, ovvero, adottando un approccio più pragmatico, quali presupposti o referenti debbano essere presi in considerazione per individuare la causa, mostrando la propria “rilevanza” nell’ottica dell’accertamento causale, e quali invece – ai fini che ci occupano – rimangano non illuminati dal “faro” del diritto, ossia relegati al mondo del c.d. “irrilevante giuridico”.
In argomento, è stata autorevolmente condotta in dottrina un’analisi in tema di presupposti obiettivi della causa, su cui occorre in questa sede soffermarsi. Discorrendo dell’accertamento causale, si è già visto nelle pagine precedenti come la dottrina abbia individuato due momenti: un primo, di carattere ermeneutico- ricostruttivo, operante su un piano strutturale; un secondo, cui il primo è propedeutico, attinente alla verifica dell’effettiva capacità di funzionamento della causa.
L’accertamento causale sarebbe dunque completato dal riscontro dei presupposti di funzionamento della causa, ossia di quei presupposti il cui ruolo non sarebbe quello di identificare tout court la causa, “bensì di svelare se tale elemento sia in grado di funzionare”. Nello specifico, i presupposti causali potrebbero ordinarsi in tre categorie: “presupposti causali di tipo oggettivo interni alla struttura dell’atto e spesso coincidenti con altri elementi essenziali del contratto, a partire dall’oggetto; presupposti causali di tipo oggettivo esterni alla struttura dell’atto; e presupposti causali di tipo soggettivo e dunque interni alla volontà del disponente” (137).
137 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 275.
Con riguardo ai presupposti causali di tipo oggettivo interni alla struttura dell’atto, si fa essenzialmente riferimento alle ipotesi in cui il presupposto della funzione risiede nell’oggetto (si pensi allo scambio di diritti o di prestazioni), nel senso che esso evidenzia il meccanismo operativo della causa, con la conseguenza che, se è vero che la mancanza dell’oggetto assorbe il difetto di causa, quest’ultima assume autonomo rilievo quando la controprestazione non è idonea a sorreggere la funzione di scambio. Si cita, in proposito, l’esempio (138) della causa simbolica, in cui il contratto di scambio si caratterizza per una prestazione di valore di per sé simbolico; della causa non trasparente, in cui una prestazione rivela la sua irrisorietà in rapporto alla controprestazione; della causa putativa, ravvisata dalla giurisprudenza allorquando un contraente si impegni a pagare un corrispettivo per una situazione giuridica che in realtà gli spetta per legge (139), o per una facoltà sua di diritto (140), o ancora per una facoltà non suscettibile di essere oggetto di trasferimento, in quanto attinente a una funzione pubblica (141).
Quanto alla possibile coincidenza tra presupposto causale ed elemento oggettivo esterno al contratto, si osserva che “la funzione di un atto non può che essere afferente e intrinseca all’atto stesso e, dunque, l’elemento esterno non può essere in sé la causa, con gli eventuali risvolti ipotizzati in termini di astrazione o di causalità. D’altro canto, il carattere necessariamente interno della causa non impedisce che il suo concreto funzionamento possa dipendere da un quid esterno all’atto, sicché la rilevanza di tale elemento deriva solo dalla sua incidenza sull’originaria funzionalità dell’atto” (142).
138 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 277 ss.
139 Cass. 27 luglio 1987, n. 6492, in Giust. civ. Mass., 1987, 1875.
140 Trib. Torino, 23 marzo 1987, n. 1567, ined., citata da X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 284, nt. 301, che ha dichiarato la nullità di un contratto fra il condominio e un condomino proprietario del solaio, in forza del quale il condomino si era impegnato a pagare un corrispettivo per esercitare la facoltà di aprire “finestrotti” nel tetto per dare aria e luce al locale.
141 Cass. 14 febbraio 1984, n. 1115, in Mass. Foro it., 1984.
142 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 285.
Come tipico esempio di presupposto causale esterno viene richiamato il rischio nel contratto di assicurazione (art. 1895 cod. civ.), il quale – osserva l’Autrice citata – non è la causa del contratto, ma il presupposto esterno senza il quale la causa assicurativa non può funzionare; analogamente, si fa riferimento all’esistenza in vita al momento del contratto della persona in caso di rendita vitalizia (art. 1876 cod. civ.); si ritiene, inoltre, che ipotesi di presupposto causale esterno (questa volta di natura giuridica) sia l’esistenza dell’obbligazione originaria rispetto alla causa novativa (art. 1234 cod. civ.) (143).
3.3. Referenti obiettivi esterni della causa in un’ottica strutturale.
Secondo la dottrina che recentemente ed approfonditamente si è occupata dell’accertamento causale, dunque, ad essere eventualmente esterno è il presupposto causale (non la causa in sé), che assume dunque rilevanza in un’ottica funzionale.
In effetti, avuto riguardo all’espressione “causa esterna” cui talvolta ricorre la dottrina, va osservato che la nozione di causa, intesa come funzione e concreta giustificazione del contratto, non appare suscettibile, sul piano ontologico, di essere qualificata in termini di “estraneità” rispetto al negozio cui inerisce, dal momento che, appunto, ne rappresenta una caratterizzazione e, nel contempo, un requisito costitutivo essenziale.
In altri termini, se la causa è un requisito del contratto, essa per definizione non può rinvenirsi “fuori” rispetto ad esso (144), essendo la funzione di un atto una sua caratterizzazione, come tale necessariamente “immanente”. Né appare
143 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 286s.
144 U. La Porta, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da X. Xxxx-X. Xxxxxxxx-X. Xxxxxxx, continuato da X. Xxxxxxxxxxx, Milano, 2009, 30.
condivisibile l’assunto secondo cui la causa, in quanto oggetto di un “giudizio di meritevolezza”, dovrebbe essere considerata per ciò solo un requisito esterno del contratto, in quanto proveniente dalla legge (art. 1322, primo comma, cod. civ.) o dal giudice (art. 1322, secondo comma, cod. civ.), atteso che la necessità di operare un vaglio giuridico (di meritevolezza di tutela) non rende di per sé esterno il requisito contrattuale, allo stesso modo in cui il vaglio di liceità o possibilità non rende esterno al contratto il suo oggetto.
La nozione di “causa esterna”, rigorosamente e semanticamente intesa, appare allora utilizzabile solo in senso lato e atecnico, tenuto conto del dato normativo e dell’evoluzione del pensiero giuridico.
Attiene invece ad un profilo distinto l’indagine se la causa possa avere referenti esterni rispetto al negozio. Una volta individuata, infatti, una nozione generale di causa sufficientemente affidabile, ed evidenziato che (da un punto di vista logico, prima che giuridico) essa non può che consistere in un requisito “interno” ed essenziale del negozio giuridico, può domandarsi quali siano gli elementi concreti nei quali essa si esprime e, dunque, dai quali possa ricavarsi (in via propedeutica rispetto al vaglio di meritevolezza di tutela e liceità).
Sotto tale secondo profilo, la tesi della rilevanza funzionale del presupposto causale – certamente condivisibile, in quanto capace di orientare l’interprete allorquando si tratti di indagare la tenuta funzionale del rapporto obbligatorio – merita allora qualche ulteriore considerazione e integrazione alla luce dell’obiettivo che la presente ricerca si propone.
Più precisamente, è senz’altro vero che non può ritenersi provvisto di idonea causa, quale requisito genetico di validità, un negozio in relazione al quale la funzione che le parti (o il disponente) si prefiggono sia originariamente e definitivamente incapace di realizzarsi. Si pensi al contratto di compravendita avente ad oggetto un bene già di proprietà dell’acquirente, al contratto di
transazione concluso in assenza di una res litigiosa, oppure al contratto di assicurazione concluso nonostante l’originaria assenza di qualsivoglia rischio. La causa, intesa sempre in senso funzionale, può altresì essere pregiudicata per effetto di sopravvenienze, come dimostrato dalla disciplina della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, per inadempimento o per eccessiva onerosità.
L’assenza originaria o sopravvenuta di causa, in queste ipotesi, riguarda l’incapacità del negozio di realizzare la propria funzione: in questo senso, come accennato, può sostenersi che la causa rilevi, da quest’angolo visuale, sul piano funzionale.
Ciò posto, se è vero che la concreta funzionalità del requisito causale ben può dipendere (in positivo o in negativo) da presupposti interni o esterni al negozio, non è detto che gli stessi presupposti rilevino ai fini dell’accertamento della causa sul piano strutturale, ossia dell’individuazione della funzione del negozio a prescindere dalla sua concreta realizzabilità. Si legge, al riguardo, in dottrina che il fatto che “la causa possa risultare irraggiungibile è questione che attiene […] al momento ulteriore dell’effettiva funzionalità del negozio; ma […] non può coinvolgere la sua esistenza ed ammissibilità come tale” (145).
Proprio l’esempio del rischio nel contratto assicurativo appare in proposito significativo: se manca il rischio, la funzione assicurativa senza dubbio non è in grado di realizzarsi (e, dunque, il contratto di funzionare), atteso che se l’assetto di interessi divisato è la copertura dell’assicurato mediante assunzione di un rischio da parte dell’assicuratore, in cambio del pagamento del premio, tale sintesi di interessi non può concretamente avere luogo; ciò, però, non esclude che, a monte, si renda necessario accertare la causa assicurativa, individuando quei referenti che, lungi dall’inerire al profilo attuativo della causa, riguardino l’accertamento della stessa
145 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 306.
sul piano programmatico, salvo poi appunto indagarne la concreta realizzabilità sul piano del rischio. In prima approssimazione, dunque, potrebbe dirsi che il contratto di assicurazione riveli la sua causa sul piano strutturale, in relazione all’impegno dell’assicuratore a fronte del pagamento del premio, senza necessità di ricorrere a referenti causali esterni (in verità, peraltro, proprio la struttura del contratto di assicurazione, quale contratto intrinsecamente di impresa, porta a ritenere che la questione non stia esattamente in questi termini, ma sul punto si tornerà infra § 4.18). Se la causa sul piano strutturale e programmatico esiste, ed è meritevole di tutela, nondimeno essa potrebbe mancare sul piano funzionale, ab origine o per effetto di sopravvenienze. Il presupposto di funzionamento, in questo caso, non è, necessariamente, anche referente strutturale esterno della causa.
Influenza la concreta realizzazione della funzione del negozio (ma non ne è causa), tutto ciò che non lo giustifica, ma - data la funzione del medesimo - ne rende possibile in concreto la realizzazione. Non costituisce presupposto causale, ad esempio, l’oggetto in senso materiale nel contratto di compravendita ad effetti reali, ossia l’esistenza della cosa oggetto di trasferimento. La causa rimane lo scambio tra trasferimento del diritto e obbligazione di pagare il prezzo; l’esistenza del diritto compravenduto influenza senza dubbio la concreta attuazione della funzione di scambio, ma attiene all’oggetto del contratto, la cui causa resta di per sé meritevole di tutela e lecita, anche se l’oggetto, in concreto, si riveli impossibile materialmente o giuridicamente. In altri termini, il concetto di presupposto causale esterno non dovrebbe essere confuso con tutte quelle ipotesi in cui è l’oggetto del negozio ad insistere su un referente esterno, senza che questo assurga a causa (ossia a giustificazione causale).
In proposito, può essere utile riflettere anche sull’istituto della novazione, pensando ad esempio ad un contratto con il quale le parti di un precedente rapporto
obbligatorio, con animus novandi, pattuiscono di estinguerlo e di sostituirlo con un nuovo rapporto, caratterizzato dall’elemento dell’aliquid novi.
In questo caso, fermo restando che il negozio novativo può assolvere alla propria funzione (e dunque essere valido) solo se esiste ed è valida l’obbligazione originaria, ciò non significa che tale obbligazione ne costituisca un presupposto causale, ossia che la funzione del negozio debba essere ravvisata nell’obbligazione oggetto di novazione. La giustificazione causale del negozio novativo risiede infatti (in prima approssimazione, e salvo quanto si dirà tra breve) nell’estinzione del precedente rapporto e nella sostituzione del medesimo con un nuovo rapporto obbligatorio; funzione complessa che le parti possono volere per i più diversi motivi soggettivi.
L’esistenza e validità del rapporto obbligatorio, dunque, consente la concreta realizzazione della funzione novativa (né più né meno di come l’esistenza della res consente in concreto l’attuazione della causa di scambio nella vendita non obbligatoria), ma non ne è la causa sul piano strutturale, che appunto può consistere di per sé nella estinzione non satisfattiva di un rapporto obbligatorio, mediante sua sostituzione con un nuovo rapporto (così come la causa abdicativa è idonea a sorreggere di per sé il negozio di rinunzia, salve eccezioni: v. infra, § 4.14). Ciò spiega come mai non si possa discorrere di collegamento negoziale tra negozio fonte dell’obbligazione presupposta e negozio novativo: non vi è un’operazione economica unitaria, ma un distinto e successivo atto che estingue l’obbligazione prodotta dal primo negozio, sostituendola con effetti istantanei. Il tutto con la precisazione che anche il negozio novativo può avere, in concreto, una “causa esterna”, allorquando alla novazione le parti pervengano per dare esecuzione ad un preesistente assetto negoziale: si pensi al contratto con il quale le parti si siano obbligate ad estinguere una data obbligazione novando un distinto rapporto obbligatorio, ipotesi in cui la causa novativa si completa in concreto alla luce di un
risultato solutorio, con le dovute conseguenze circa la genesi e la funzionalità del rapporto. Il negozio novativo, peraltro, potrebbe inserirsi in un più ampio negozio transattivo, trovando in esso giustificazione.
L’esempio della novazione appare allora eloquente espressione della distinzione, sul piano teorico e all’atto pratico, tra referenti causali e oggetto del contratto.
Si pensi, ancora, al negozio di manleva (istituto molto interessante e di frequente applicazione nella prassi, che sarà oggetto di successiva analisi: v. § 4.13). Certamente l’impegno a tenere indenne il beneficiario rispetto ad una determinata obbligazione è, di per sé, in grado di funzionare, atteso che l’effetto è istantaneo e si traduce nel sorgere, in capo al manlevante, dell’obbligazione di manleva. Xxxxxxxxx, occorre chiedersi quale sia la giustificazione concreta di quell’impegno, al fine di conseguentemente valutarne la meritevolezza di tutela e, in ultima analisi, la validità e disciplina; occorre, in altri termini e prima di tutto, accertare l’assetto di interessi divisato, eventualmente alla luce (anche) del vantaggio o dell’utilità attesi dal disponente e connessi con l’assunzione dell’obbligo.
La distinzione tra piano strutturale e piano funzionale (attuativo) della causa non è priva di rilevanti conseguenze applicative: il relativo apprezzamento, dal quale dipende la stessa ammissibilità del negozio nell’ordinamento e dunque la sua astratta capacità di produrre effetti giuridici in conformità a quest’ultimo, deve avere ad oggetto innanzitutto il profilo strutturale, superato il quale potrà chiedersi se in concreto (eventualmente in via sopravvenuta o temporanea) detta funzione o giustificazione causale sia idonea a realizzarsi. Può anche accadere, in concreto, che il negozio non sia causalmente giustificato, pur essendo astrattamente in grado di funzionare: si pensi all’ipotesi di negozî gratuiti atipici causalmente giustificati dall’interesse societario di gruppo, laddove manchi o venga meno di presupposto,
ossia l’interesse di gruppo. In questo caso, la causa manca su un piano strutturale, prima che funzionale.
E’ allora necessario individuare i criterî che consentano di selezionare i presupposti causali o “referenti obiettivi della causa”, ossia quegli elementi obiettivi che disvelano la funzione del negozio su un piano strutturale, e che, come detto, non necessariamente si esauriscono in quel quid da cui, in concreto, dipende la realizzabilità (originaria o sopravvenuta) della funzione.
I referenti causali cui si intende fare riferimento non sono tutte quelle circostanze che consentono e rendono possibile (o impossibile) l’attuazione della funzione del negozio, bensì quegli elementi la cui esistenza rende il negozio concretamente giustificato, in quanto in rapporto ad essi si articola l’assetto di interessi alla cui realizzazione il negozio è preordinato. E’ chiaro, infatti, che, risiedendo la causa della vendita nello scambio tra trasferimento del diritto e obbligazione di pagare il prezzo, se il diritto non esiste la funzione del contratto non può in concreto realizzarsi: ciò che spiega la ragione del contratto, tuttavia, è lo scambio, piuttosto che l’esistenza o la possibilità di uno dei termini dello scambio medesimo. L’inesistenza attuale del diritto opererà sul piano, concettualmente distinto, dell’oggetto.
3.4. Concettuale ammissibilità del referente causale esterno e rilievi in punto di astrattezza
Si è visto, discorrendo dell’inquadramento generale della causa, che autorevole dottrina, già negli anni sessanta, distingueva tra le ipotesi in cui la prestazione riceva la sua funzione all’interno di un negozio, avuto riguardo al “contenuto” di quest’ultimo, e i casi nei quali, apparentemente, ciò non avvenga. Si
è anche avuto modo di osservare che la distinzione tra “funzione” e “scopo”, richiamata da quella dottrina, possa essere superata accedendo ad una nozione di “funzione” concreta maggiormente adeguata alle moderne esigenze. Altro autorevole Autore, del resto, ha riconosciuto all’interprete la possibilità di estendere l’accertamento causale al profilo funzionale nel suo complesso, se del caso attingendo a rapporti esterni o sottostanti (146).
La nozione di presupposti o referenti esterni, peraltro, non contrasta con l’assunto secondo cui la causa non può di per sé, tecnicamente, ritenersi “esterna” al negozio, né implica condividere l’interpretazione secondo cui negli atti “privi di un’intrinseca determinazione causale” l’individuazione di una “causa esterna” (intesa con le precisazioni di cui sopra in ordine alla necessaria immanenza della causa quale requisito del negozio) implicherebbe il passaggio dalla causalità all’astrazione (147).
L’astrazione, su un piano teorico, può invero essere intesa come l’idoneità dell’atto a produrre un effetto obbligatorio o traslativo a prescindere dall’elemento da cui si astrae, salva l’eventuale instabilità del trasferimento (148), ossia, in altri termini, come possibilità di produrre effetti a prescindere dalla causa, in forza del solo requisito formale (149). Di contro, l’indagine qui in esame non prescinde dall’accertamento di una giustificazione causale, ma semplicemente si interroga sulla possibilità che la stessa poggi su referenti esterni rispetto all’oggetto dell’atto
146 G.B. Xxxxx, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 251 ss.; G. Palermo, Funzione illecita e autonomia privata, Milano, 1970, 124 ss.; X. Xxxxxx, (voce) Negozio astratto, in Enc. Giur. Treccani, vol. XX, Roma, 1990, 5 ss.
147 X. Xxxxxxx-Xxxxxxx, I negozi fiduciari, Padova, 1933, 127; X. Xxxxxxxx, I titoli di credito, Padova, 1964; X. Xxxxxx, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 184 ss.
148 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 200.
149 Xxxxxxxx l’ammissibilità dell’astrazione nel nostro ordinamento viene sostenuta alla luce della provvisorietà dell’effetto, suscettibile di rimozione ex post (si pensi alla dimostrazione dell’insussistenza del rapporto sottostante in caso di promessa di pagamento). A ben vedere, tuttavia, proprio il carattere provvisorio dell’effetto o dell’attribuzione finisce con il confermare la natura necessariamente causale del negozio, di per sé non smentita dalla presunzione iuris tantum o dall’inversione dell’onere della prova sul piano processuale.
di per sé considerato, inteso come insieme delle prestazioni e delle attribuzioni dedotte in contratto.
Una raffinata tesi dottrinale – ricordando lo sfavore riposto in linea di principio dal nostro ordinamento per la separazione dell’attribuzione o della promessa dalla causa sottostante, e dunque per l’astrazione c.d. assoluta – riconduce la rilevanza (quando ammessa) dei negozî c.d. astratti ad una “autonoma funzione (causa) che vale ad identificarlo; e può riferirsi nell’insieme al fine di realizzare, secondo le esigenze del traffico, una promessa di prestazione, che si regga in tutto, o anche fino ad un certo segno, da sé, restando avulsa ed indipendente nello stesso senso del più vasto e complesso rapporto nel quale di regola si innesta” (150). “Solo in tale modo [prosegue l’Autore, n.d.r.] si supera l’evidente ed irriducibile contraddizione, secondo cui un negozio potrebbe esistere anche, e seppure a titolo eccezionale e per effetti limitati (nel nostro diritto), al di fuori di una sua causa, salvo ad agganciarsi in certa misura, secondo la stessa veduta, alla causa di un negozio diverso (quello sottostante). Si deve ribadire piuttosto che dal sistema del diritto vigente emerge un principio, certamente giustificato e meritevole d’approvazione, nel senso della rilevanza della causa dell’attribuzione (e della promessa), che dunque deve risultare immediatamente dal negozio; in base al quale le cause e funzioni astratte, come si suole definirle, appaiono costituire soluzioni eccezionali, per cui di regola debbono essere esplicitamente sancite ed adeguatamente disciplinate dal diritto (negozi nominati); che comunque ritiene di condizionarle (e limitarle) in linea di massima, postulando l’osservanza di peculiari requisiti formali” (151).
Riferendosi alle ipotesi di negozî relativamente astratti (tra cui colloca i titoli di credito e, pur consapevole del contrasto tra gli interpreti, la delegazione
150 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 319.
151 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 320.
pura, ossia consistente nella promessa di prestazione al delegatario senza alcun riferimento al rapporto sottostante), la dottrina ricordata osserva che “anche qui si deve convenire sulla indipendenza della causa dal negozio astratto, che esplica innegabilmente una sua peculiare efficacia, anche se su di essa può reagire la nullità od inefficacia di un negozio diverso (la c.d. causa sottostante); secondo un nesso di collegamento, ed un criterio di disciplina, che trovano peraltro riscontro e sicura giustificazione nella connessione anche pratica dei due negozi” (152).
In verità, ravvisare una peculiare efficacia del negozio astratto, eventualmente paralizzata dall’eccezione fondata sul rapporto sottostante, rischia di relegare a mera “causa sottostante” ciò che, a ben vedere, costituisce un referente causale del negozio apparentemente astratto, che si giustifica (ed in quanto tale è al riparo da eccezioni impeditive o estintive del convenuto) se ed in quanto esiste ed è valido il rapporto sottostante. Non si tratterebbe, in altri termini, di agganciarsi alla causa di un negozio diverso e sottostante, ma di ravvisare in quest’ultimo (o, più precisamente, nei suoi effetti) un referente causale decisivo per ricostruire ed accertare la causa in concreto del negozio apparentemente astratto, alla luce del concreto assetto di interessi perseguito. Né appare sostenibile che, in ossequio ad esigenze di certezza e di celerità dei traffici, l’astrattezza possa di per sé assurgere a rango di causa, perché, così opinando, si cadrebbe in una contraddizione in termini, consentendo attribuzioni patrimoniali senza giustificazione in ragione di mere esigenze empiriche (non certo prevalenti, sotto il profilo della meritevolezza di tutela) di celerità dei traffici.
In generale, non può ravvisarsi astrazione con riguardo a quegli istituti che in realtà si rivelano schemi negoziali a “causa variabile”, quali la cessione del credito, l’espromissione, la delegazione di pagamento o l’accollo, atteso che si tratterà per essi di individuare l’assetto di interessi concretamente perseguito, se del
152 X. Xxxxxxxxxxxx, op. cit., 320.
caso sulla base di referenti obiettivi eventualmente esterni (si pensi alla cessione di un credito caratterizzata da causa solvendi, riconducibile alla figura del c.d. “pagamento traslativo”).
Proprio muovendo dall’esame dei negozi c.d. “astratti”, osserva altra attenta dottrina che l’astrattezza è in realtà un concetto fuorviante, in quanto “ogni negozio
«astratto» si inserisce in un più vasto regolamento di interessi”, dovendosi verificare l’esistenza effettiva di un’idonea giustificazione causale “nell’intera operazione economica ossia, appunto, in quel complessivo regolamento nel quale il negozio (non più astratto) si inserisce, e senza limitarsi alla sua sola struttura” (153). Più in generale, si è altresì osservato come il controllo sugli interessi debba indirizzarsi verso l’intera operazione economica (154).
Molto interessante, in proposito, è la recente decisione delle Sezioni Unite della Cassazione, sulla quale si avrà modo di soffermarsi nel prosieguo, secondo cui, a fronte di “particolari categorie di negozi, quali la prestazione di garanzia (reale o personale) per un debito altrui, la modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio (delegazione, espromissione, accollo, art. 1268 c.c. e ss.), l’adempimento del terzo (art. 1180 c.c.), la cessione del credito (art. 1260 c.c.), la rinuncia a un diritto, fra cui la remissione di debito e, secondo alcuni, la cessione del contratto […] è difficile individuare una causa oggettiva nel senso tradizionale, dato che non c’è una coincidenza fra la funzione pratica del contratto e la causa
000 X. Xxxxxxx, Xx liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, 123, secondo cui “una più accurata ed insieme elastica considerazione del dato causale risolve buona parte dei problemi pratici alla cui soluzione la categoria dell’astrattezza sarebbe destinata”, la quale risulta quindi svuotata della propria consistenza concettuale e rilevanza pratica; X. Xxxxxx, op. cit., 5 ss.
154 X. Xxxxxxx, op. cit., 85 ss. Sulla c.d. “operazione economica” si tornerà diffusamente discorrendo della possibile valenza causale (esterna) del contesto in cui il negozio è consapevolmente collocato e destinato ad operare. Si vedrà, in particolare, come il richiamo all’operazione economica sia senza dubbio utile, al fine di evidenziare la rilevanza causale di circostanze e fattori non ricompresi nella struttura e nell’oggetto del negozio, pur non essendo necessario spingersi fino a configurare un istituto autonomo ed ulteriore (appunto, la c.d. “operazione economica”) rispetto al contratto (v. infra nel testo, § 4.17).
economico-giuridica tradizionale; e […] tuttavia anche per questi negozi, classificati «astratti» o «a causa astratta o generica», è egualmente indispensabile individuare la causa sia pure in base ad una impostazione differente non soggetta all’obbligo predeterminato di modelli astratti, ma attenta strettamente al negozio posto in essere dai contraenti, nonché all’affare nel suo complesso: quanto meno onde valutare la meritevolezza dell’operazione alla stregua di quanto dispone l’art. 1322 c.c., comma 2, e pervenire ad una giustificazione causale anche nei contratti più complessi, nei fenomeni dei collegamenti negoziali e più in generale nei negozi da sempre qualificati «astratti»” (155).
Muovendo dalla nozione di causa concreta, la Corte ha dunque ritenuto superflua la nozione di negozio astratto, laddove esso risulti “inserito in un più vasto regolamento di interessi”, dovendosi compiere “la verifica della giustificazione causale nell’ambito dell’intera operazione economica compiuta dalle parti”, osservando che “i concetti di «gratuità» ed «economicità» vengono assunti nel loro significato economico proprio, con spostamento della loro qualificazione dal negozio all’attribuzione patrimoniale: per la quale deve tenersi conto dell’interesse economico che si intende realizzare, anche in via mediata, attraverso la complessa operazione economica, da parte di chi apparentemente paga il debito altrui senza corrispettivo: nell’ambito, quindi, del regolamento globale degli interessi non limitato al singolo «atto di disposizione» da lui compiuto” (156).
155 Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, n. 6538, in Giur. it., 2010, 248.
156 Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, cit. Precisa, ancora, la Corte che “attraverso lo schema-base individuato dal legislatore nell’art. 1180 c.c., le parti possono perseguire variegati interessi meritevoli di tutela, ricorrendo anche ad un collegamento di atti o negozi diversi, pure non coevi, ma susseguitisi nel tempo; il quale permette, grazie a semplici connessioni economiche, di realizzare uno scopo, a seconda dei casi, oneroso o gratuito, mediante l’utilizzo di atti astrattamente a causa neutra, oppure onerosa o anche gratuita, ma tutti egualmente strumentali e necessari alla realizzazione del risultato antitetico. Ed al quale, dunque, deve guardarsi per valutare se l’atto sia stato compiuto o meno, a titolo gratuito”.
Come l’orientamento accennato conferma, le circostanze e i fattori alla base dell’operazione economica complessiva in cui il negozio si inserisce possono dunque assumere rilevanza causale, laddove consentano di spiegare e giustificare il singolo atto che, sulla base del proprio oggetto e della propria semplice struttura, potrebbe apparire “astratto”, “isolato”, privo di una propria oggettiva funzione. Ciò, peraltro, senza che sia necessario spingersi fino ad attribuire all’operazione economica in sé una autonoma dimensione strutturale, quasi si tratti di una figura giuridica diversa ed ulteriore rispetto al negozio (v. infra, § 4.17).
La riflessione sui negozî apparentemente astratti consente di rilevare come l’assetto di interessi che costituisce la giustificazione concreta nel negozio si oggettivizzi non necessariamente nella struttura o nel regolamento negoziale in sé, ma (eventualmente) nella volontaria e consapevole considerazione, da parte dei contraenti, di referenti esterni, che lo rivelano e, in ultima analisi, consentono di accertarlo e apprezzarlo. Un fatto o un atto giuridico esterno alla struttura del contratto, dunque, assume piena dignità di parametro di valutazione dell’oggettivizzazione dell’interesse, che da mero motivo soggettivo si rivela causa del negozio.
Il referente o presupposto causale consente così di ampliare l’orizzonte di analisi del negozio, apprezzandolo nella sua concreta complessità, fornendo all’interprete un parametro per distinguere, in concreto, ciò che è mero motivo da ciò che attiene all’assetto di interessi concretamente perseguito, ossia alla causa.
In conclusione, la possibile estraneità della causa rispetto al contratto sembra allora potersi più correttamente specificare con riguardo ai referenti causali (non necessariamente presupposti funzionali), ossia a quegli elementi giuridicamente rilevanti ed estranei alla sfera dei motivi che incidono in maniera sostanziale sull’assetto di interessi divisato dalle parti, disvelandone lo scopo e la concreta giustificazione.
3.5. Considerazioni in ordine al rapporto tra causa e oggetto del negozio
Ammessa la coerenza tra nozione di causa e possibile estraneità del referente causale rispetto alla “struttura” del negozio, per comprendere se e in quali termini un referente causale possa considerarsi “esterno” occorre muovere un passo indietro, e chiedersi quali siano gli elementi da prendere in considerazione ai fini dell’accertamento della causa e del correlativo assetto di interessi cui concretamente la “funzione” risulti protesa. Solo una volta chiarito tale profilo, potranno eventualmente introdursi distinzioni in relazione alle caratterizzazioni di tali elementi.
In proposito, si è detto all’inizio che un’autorevole dottrina, nel cogliere la possibilità che la causa del negozio non necessariamente sia ricavabile dal suo contenuto (nelle ipotesi in cui “lo spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un negozio che contenga in sé la sua causa”) (157), ha ravvisato proprio in quest’ultimo il principale punto di partenza dell’accertamento causale.
Il riferimento al contenuto appare tuttavia non appagante: se infatti, come sembra preferibile ritenere, si ravvisa il contenuto, sul piano formale, nell’insieme delle dichiarazioni negoziali (così come eventualmente oggetto di integrazione volontaria o legale), il relativo richiamo risulta eccessivamente generico e, in ultima analisi, carente di precettività; se, di contro, al contenuto si attribuisce il significato di oggetto o di insieme degli effetti negoziali, come parte della dottrina, anche autorevolmente, sostiene, la relativa nozione rischia di perdere autonomia e specificità.
Più significativo, allora, è il richiamo all’oggetto negoziale.
157 X. Xxxxxxxxxx, (voce) Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, 1960, 565.
In proposito, pur nella consapevolezza dell’ambiguità del dettato normativo
(158) e della pluralità di tesi ed interpretazioni proposte in dottrina, è indispensabile optare per una nozione tecnico-giuridica di oggetto che, quand’anche nei limiti di una “definizione stipulativa” (159), consenta di mettere ordine tra i concetti (si pensi al frequente ondeggiare della dottrina tra le nozioni di oggetto, contenuto, regolamento).
Posta l’eccessiva ristrettezza dell’impostazione secondo cui l’oggetto andrebbe ravvisato nella prestazione caratteristica dedotta nel contratto, ossia nel bene (nozione che appare in effetti smentita dal tenore letterale dell’art. 1346 cod. civ., ove si riferisce alla possibilità e liceità dell’oggetto), può allora adottarsi, ai fini della presente ricerca, la nozione di oggetto inteso come l’insieme delle prestazioni e attribuzioni dedotte in contratto, in relazione a ciò che, secondo il regolamento negoziale, le parti sono tenute a dare, a fare o a non fare, oppure (o congiuntamente) all’effetto reale che dal contratto consegue (160). In questo senso, può superarsi la tradizionale obiezione secondo cui, accedendo ad una nozione di oggetto inteso come insieme delle prestazioni in senso tecnico, si escluderebbe il mondo dei contratti ad effetti reali: l’oggetto, invero, ricomprende le prestazioni in senso ampio, intese come risultato dedotto (161), ossia come portato effettuale del
158 Tradizionale è, nella manualistica, il rilievo per cui, nel Codice Civile, l’oggetto è a volte inteso come prestazione (artt. 1346-1349 cod. civ.), altre volte come bene materiale o economico (artt. 1221, 1257, 1259 cod. civ.); è nota, inoltre, l’ambiguità sottesa alla distinzione tra oggetto dell’obbligazione e oggetto della prestazione.
159 Secondo X. Xxxxxxxxx, Il problema delle definizioni nel Codice Civile, Milano, 1977, 65ss., si intende per “definizione stipulativa” quella definizione che viene attribuita sul piano convenzionale, prescindendo dal significato o dai significati con cui è normalmente utilizzata.
160 Secondo una dottrina, occorre distinguere tra contratti a contenuto obbligatorio, il cui oggetto si identifica con il diritto alla prestazione o con la prestazione tout court, e contratti a contenuto dispositivo (ossia che trasferiscono, costituiscono, modificano o estinguono un diritto su una cosa o modificano o estinguono un rapporto giuridico preesistente), in cui l’oggetto si identificherebbe con il diritto sulla cosa o con la cosa tout court, ovvero con il rapporto giuridico preesistente: AA.VV., Diritto Civile. Xxxxx, questioni, concetti (a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx), I, Bologna, 2014, 591 (le considerazioni sull’oggetto sono di X.Xxxxx).
161 X. Xx Xxxx, L’oggetto del «contratto di informatica»: considerazioni di metodo, in Dir. inf., 1986, 804.
negozio, sia esso obbligatorio, sia esso reale. Peraltro, che la prestazione assuma rilevanza in relazione all’oggetto è ulteriormente confermato dalla disciplina di ispirazione comunitaria, in punto di necessaria determinatezza dell’oggetto, con particolare riguardo ai numerosi obblighi informativi a tutela del consumatore nei settori, tra gli altri, assicurativo, del credito al consumo, del commercio elettronico, dei contratti di multiproprietà e dei contratti a distanza (162).
Inquadrata così una nozione di oggetto sufficientemente tecnica e specifica
– distinta rispetto al concetto di testo o contenuto contrattuale, nei limiti di quanto sopra esposto –, può allora argomentarsi che la causa può essere in prima battuta apprezzata avuto riguardo all’insieme delle prestazioni o attribuzioni che le parti hanno previsto nel regolamento contrattuale per perseguire un determinato assetto di interessi, cogliendo alla luce del rapporto (in genere di scambio) esistente tra le stesse la funzione oggettiva del negozio. L’oggetto, dunque, costituisce così il primo fondamentale referente della causa, dal quale non può prescindersi ai fini del relativo accertamento.
Può allora apparire agevole (ma, si ripete, solo in prima battuta) ravvisare la causa nei contratti a prestazioni corrispettive nello “scambio” tra le prestazioni, che appunto consente di cogliere la funzione oggettiva, l’interesse obiettivizzato nel contratto, cui esso è preordinato. Oggetto e causa mantengono così la propria autonomia concettuale e giuridica (altro sono le singole prestazioni, altro è la funzione che il loro scambio soddisfa, ossia il reciproco soddisfacimento dell’interesse loro sotteso). Ricordando un’attenta dottrina, accertare la causa (alla luce dell’insieme dei presupposti causali) in relazione all’oggetto del contratto non significa sovrapporre indebitamente le due nozioni, ma soltanto individuare nelle
162 Sulla specificità della disciplina dell’oggetto in relazione ai contratti non commerciali, cfr. AA.VV., Diritto Civile. Xxxxx, questioni, concetti (a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx), I, Bologna, 2014, 591 (le considerazioni sull’oggetto sono di X.Xxxxx).
prestazioni essenziali volute dalle parti quell’ “elemento oggettivo intrinseco” su cui si articola la funzione oggettiva del negozio.
Muovere dall’oggetto del contratto per determinare, in prima approssimazione, la funzione concreta del medesimo (e dunque la sua giustificazione causale) non significa pertanto sovrapporre indebitamente causa e oggetto, che mantengono la loro autonomia sia da un punto di vista concettuale che di disciplina. L’impossibilità o illiceità della prestazione dedotta in contratto, dunque, impedisce la concreta realizzazione dell’assetto di interessi perseguito dalle parti, ma non incide direttamente sulla causa e sul giudizio di meritevolezza ad essa connesso, non esclude cioè che quel contratto abbia una sua causa concreta, e che la stessa sia di per sé meritevole di tutela e lecita.
In definitiva ed in prima approssimazione, dunque, la causa (e il relativo accertamento in concreto) ha, come referente, l’insieme delle prestazioni e delle attribuzioni dedotte in contratto, ovvero, se si vuole, l’insieme degli effetti che integrano l’assetto di interessi divisato dalle parti. L’oggetto, in altri termini, diviene il referente interno della causa, quale primo approdo dell’accertamento causale.
Ciò posto, non necessariamente però l’analisi delle prestazioni e degli effetti essenziali del contratto conduce l’accertamento causale ad un esito soddisfacente. Ed invero, moltissime situazioni rivelano come la concreta giustificazione dell’atto non possa comprendersi se non attribuendo rilevanza causale ad elementi concreti ed obiettivi ulteriori, che per così dire “qualificano” e spigano le prestazioni.
Per approcciare l’indagine sul punto si può partire dall’esempio classico di acquisto di cosa propria: si suole in proposito osservare che l’acquisto di una cosa che sia già di proprietà dell’acquirente è privo di causa, “perché riflette una operazione economica insensata, una pseudo-operazione incapace di giustificare il
relativo contratto e gli spostamenti patrimoniali che dovrebbero derivarne” (163). Si parla al riguardo anche di causa putativa, nella quale infatti la dottrina ha colto un momento di distinzione tra causa e oggetto, pur nell’ambito di un’ipotesi ricondotta alla figura del presupposto causale intrinseco (164).
Ora, l’esempio appena citato offre uno spunto di riflessione: lo scambio delle prestazioni (trasferimento della proprietà e obbligo di pagamento del prezzo) non necessariamente è sufficiente per ritenere esistente la causa: nell’ipotesi in esame, si osserva, il negozio è in realtà privo di causa, e ciò avviene perché lo scambio previsto in astratto deve essere calato in concreto, ed apprezzato sulla base di un elemento ulteriore, ossia la titolarità che l’acquirente già abbia della cosa.
Si pensi, ancora, all’ipotesi di fideiussione prestata dal socio illimitatamente responsabile di una società di persone in favore del creditore sociale. In questa fattispecie, la valutazione opera in senso opposto rispetto a quanto appena accennato: un atto che, astrattamente inteso, apparirebbe privo di giustificazione (posto che il socio è già illimitatamente responsabile, a prescindere dal rilascio di garanzie personali), si rivela “sensato” se solo si riflette sul fatto che la funzione dell’atto non è tanto (o soltanto) garantire il creditore, ma superare il beneficio della preventiva escussione della società debitrice, magari unitamente ad un riconoscimento della posizione debitoria da poter far valere più agevolmente in via esecutiva. L’assetto di interessi nel suo compreso, tenuto conto dell’utilità del creditore sotto il profilo dell’accertamento del debito, rivela dunque una giustificazione ragionevole, rispetto alla quale l’atto in sé è muto.
In entrambi i casi appena ricordati, avere riguardo agli effetti essenziali del negozio (o comunque alle prestazioni e attribuzioni che ne formano oggetto) rischierebbe di condurre a conclusioni errate in punto di accertamento causale: nel
163 X. Xxxxx, (voce) Contratto, cit., 113.
164 X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 283.
primo caso, la ravvisabilità di una funzione di scambio porterebbe a ritenere esistente una causa in realtà incapace di funzionare; nella seconda ipotesi, la mera considerazione dell’assunzione di un’obbligazione solidale a titolo di garanzia rischierebbe di qualificare come privo di causa un negozio in realtà caratterizzato da una propria funzione concreta, senza dubbio meritevole di tutela.
L’indagine della causa in concreto, in questi casi, richiede di prendere in considerazione profili diversi rispetto alla struttura del negozio, che talvolta incidono sulla capacità concreta di funzionamento della causa (come nel caso di originaria titolarità del diritto compravenduto in capo all’acquirente), in altri casi rilevano a monte, sul piano dell’accertamento causale, a prescindere dall’indagine circa la sua capacità di funzionare, come sembra accadere nell’ipotesi della fideiussione rilasciata dal coobbligato solidale (ove la funzione risiede nel superamento del beneficio di preventiva escussione).
Se l’accertamento della causa si limitasse alla considerazione dell’oggetto del contratto, troverebbe verosimilmente conferma una nozione “interna” o “intrinseca” dei presupposti o referenti causali, nel senso che per comprendere la funzione concreta del contratto sarebbe sufficiente analizzarne l’oggetto, sia pure calato in concreto. Nondimeno, proprio evidenziando la necessità di cogliere l’operazione economica nel suo complesso, autorevole dottrina ha ricordato che non è preclusa all’interprete un’indagine oltre i confini strutturali dell’atto posto in essere, in maniera tale da evidenziare il completo profilo funzionale, anche se del caso attingendo ad un rapporto esterno o sottostante (165).
In proposito, appare opportuno un richiamo alla teoria della c.d. “causa remota”, secondo cui “la interferenza del negozio con un rapporto giuridico preesistente o anche coevo o futuro può dal luogo […] ad un nesso di carattere
165 G.B. Xxxxx, op. cit., 251 ss.; Palermo, op. cit., 124 ss.; X. Xxxxxx, op. cit., 5 ss.
oggettivo […] tale da rendere ragione della causa” (166), ovvero, in altri termini, “la datio o l’assunzione di un obbligo, carenti di una funzione economico-sociale, realizzano un’attribuzione non indifferente a ragioni causali, benché desumibili da un elemento esterno all’atto: la fonte dell’obbligo o il rapporto giuridico con cui la prestazione si collega” (167). La teoria della causa remota, se senza dubbio coglie un profilo fondamentale ai fini della presente trattazione, si rivela però sfuocata nella parte in cui viene attribuita alla causa c.d. “remota” una rilevanza (sì causale, ma) indiretta. Esemplifica, difatti, l’Illustre Autore: “si denomina «causa remota» un presupposto oggettivo della causa tipica che caratterizza il negozio: così l’attribuzione che si faccia per adempiere una preesistente obbligazione ha per causa il pagamento ossia il soddisfacimento dell’interesse del creditore […] ma questo ha, a sua volta, per presupposto il rapporto di obbligazione che si ritiene preesista” (168), con la conseguenza, si conclude, che se la presupposta obbligazione si rivela poi inesistente ab origine, l’atto di trasferimento non è nullo, ma spetta a chi pagò la ripetizione dell’indebito.
Dunque, secondo la predetta impostazione la rilevanza causale sarebbe indiretta, nel senso che implicherebbe un rimedio restitutorio, ma non invalidatorio per difetto genetico della causa. Assunto, questo, che non pare condivisibile in quanto accede ad una visione eccessivamente ristretta di causa, appunto basata sulla nozione economico-sociale della stessa, il cui superamento consente di riconoscere piena rilevanza causale al referente (presupposto) esterno, con rilevanti conseguenze sul piano applicativo.
000 X. Xxxxx, Xxxxx (diritto romano), in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, 32; Id., Causa del negozio giuridico, ibidem, 34.
167 Così la teoria bettiana della causa remota è sintetizzata da Xxxxxxxxxx, op. cit., 9.
000 X. Xxxxx, Xxxxx (diritto romano), cit., 34.
3.6. La rilevanza causale dell’elemento condizionale.
Rilevato come l’analisi dell’oggetto possa non essere sufficiente a spiegare causalmente il negozio, occorre chiedersi come incida su tale affermazione la considerazione del regolamento negoziale nel suo complesso (quale risultato dell’accordo e dell’eventuale integrazione, cogente o dispositiva, del suo contenuto) (169).
E’ vero, infatti, che il regolamento negoziale non necessariamente si esaurisce nella disciplina delle prestazioni e delle attribuzioni in esso dedotte, ma si compone anche di ulteriori elementi di disciplina del rapporto, ad esempio (a parte l’ipotesi di integrazione cogente o dispositiva) elementi accidentali inseriti dalle parti nel contenuto negoziale.
Particolarmente interessante, al riguardo, è riflettere sulla eventuale rilevanza causale dell’elemento condizionante, sospensivamente o risolutivamente, apposto al negozio.
Richiamando la distinzione tra causa e motivi (170), si è soliti affermare che i meri motivi soggettivi che muovono le parti, determinandole a porre in essere un
169 Sulla distinzione tra accordo e regolamento contrattuale, cfr. X. Xxxxx, (voce) Contratto, cit., 110 ss., ove si osserva che “l’accordo delle parti non esaurisce il contratto (inteso come il modo in cui quei rapporti risultano concretamente ed effettivamente regolati): questa concreta ed effettiva regolazione è infatti determinata, oltre che dall’accordo delle parti, anche da altri fattori. La concreta ed effettiva regolazione del rapporto tra le parti, conseguente al contratto, è il regolamento contrattuale. Nel regolamento contrattuale confluiscono, si intrecciano e parzialmente si sovrappongono l’accordo delle parti ed elementi esterni all’accordo delle parti. Per conoscere il regolamento contrattuale, occorre dunque conoscere l’accordo delle parti, e più precisamente chiarirne il significato: ciò che si compie attraverso l’interpretazione. Occorre poi conoscere quegli altri elementi di regolazione del rapporto, che non sono contenuti nell’accordo delle parti, ma derivano da fonti esterne le quali possono completare o addirittura modificare l’accordo stesso: questa è l’integrazione”).
170 La distinzione tra causa e motivi – certo non agevole se si acceda alla ormai consolidata teoria della causa concreta – può essere sintetizzata tenendo presente che la causa è il concreto interesse che attraverso il contratto viene ad essere soddisfatto, mentre il motivo è l’intima ragione che spinge il contraente ad obbligarsi, con la conseguenza che un conto è lo scopo obiettivo del contratto, altro lo scopo individuale perseguito dal contraente, che assume rilevanza causale solo se assurge a funzione del contratto, obiettivizzandosi in esso ed influenzandone in modo percepibile i termini
determinato negozio giuridico, possono assumere rilevanza entrando a far parte del regolamento contrattuale attraverso il recepimento in una condizione risolutiva o sospensiva (ma anche nell’ipotesi di annullamento del contratto per dolo, in cui l’errore assume rilevanza anche se non essenziale e anche se afferente ai motivi individuali del contraente), il che però, di per sé, non significa di per sé che essi ne influenzino la causa.
La condizione, allorquando in essa si esprimano i motivi soggettivi, regolamenta l’efficacia del negozio cui è apposta, rivelando l’intento soggettivo di una o di entrambe le parti, senza in linea di principio accedere al piano della giustificazione oggettiva del rapporto alla luce dell’assetto di interessi perseguito. Si pensi all’ipotesi di compravendita di un immobile sospensivamente condizionata al trasferimento entro una determinata data della residenza dell’acquirente. Da un punto di vista logico, la condizione opera in questo caso in un momento successivo: una volta individuato l’assetto di interessi oggettivamente perseguito dalle parti per mezzo del contratto, che potrebbe ben realizzarsi indipendentemente dai motivi per i quali i contraenti si sono determinati a concluderlo, la condizione serve a subordinare quell’assetto di interessi (sul quale, quindi, non incide) al soddisfacimento dei motivi soggettivi. In questo caso, la condizione – pur attenendo al regolamento negoziale - non assume dunque rilievo causale.
A diversa conclusione dovrebbe però pervenirsi allorquando, se analizzata in concreto, è proprio la condizione a rivelare l’oggettiva funzione del negozio, risolvendosi nello strumento tecnico attraverso il quale le parti strutturano l’intera operazione giuridico-economica, perseguendone (e disvelandone) la funzione concreta (e dunque la causa). Si pensi all’ipotesi di contratto sospensivamente
programmatici dell’operazione. Un utile criterio guida è quello del “condizionamento”: anche laddove i motivi soggettivi non siano esplicitati nel contratto, infatti, deve ritenersi che essi riflettano la funzione e giustificazione oggettiva del negozio in concreto quando la disciplina del medesimo ne sia stata influenzata in maniera decisiva, al punto che l’operazione economica possa ritenersi giustificata, logica e non capricciosa, solo alla luce di quello scopo.
condizionato alla conclusione o alla esecuzione di un rapporto collegato, qualora attraverso il collegamento negoziale le parti perseguano un complessivo assetto di interessi, ovvero ad un atto di rinunzia ad un diritto condizionato al perseguimento di una utilità, in capo al rinunziante, in forza di altro negozio o rapporto. In questi casi, attraverso l’elemento accidentale della condizione le parti estrinsecano l’interesse oggettivamente perseguito, e dunque la causa, garantendosi nel contempo una più agevole disciplina delle sopravvenienze: si pensi al rimedio risolutorio automatico, che rende non necessario ricorrere alla risoluzione per inadempimento, la quale – anche per chi ammetta l’efficacia risolutoria dell’atto unilaterale di esercizio del diritto potestativo di risoluzione per inadempimento – richiede pur sempre la pronuncia costitutiva del Giudice (171).
Ulteriore ipotesi ravvisata in dottrina è quella relativa ad un mandato a vendere senza obbligo di rendiconto, che sottende una causa concreta contrastante con il divieto di patto commissorio, allorquando il mandante sia debitore del mandatario e l’esecuzione del mandato sia condizionata al suo eventuale inadempimento (172).
Osservava un illustre Autore che “attribuire alla causa una funzione economico-individuale, significa darle, a nostro avviso, una portata che ne chiarisce il ruolo nell’ambito del negozio giuridico. Questo può articolarsi in elementi oggettivi e soggettivi, in clausole, condizioni, elementi accessori; il fatto che tutti questi elementi, spesso di natura così differente l’uno dall’altro, non siano sparpagliati, ma si coordino e si indirizzino verso una unitaria finalità, trova la sua giustificazione proprio nell’elemento della causa. […] La causa come funzione economico individuale sta appunto ad indicare il valore e la portata che
171 Per una approfondita e chiara riflessione sull’argomento, ed in particolare sul diritto potestativo alla risoluzione (che sorgerebbe, sul piano sostanziale, allorquando l’inadempimento raggiunga la soglia della non scarsa importanza), si rinvia a X. Xxxxxxxx, L’atto unilaterale di risoluzione per inadempimento, Torino, 2013, in particolare 105ss.
172 M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, 2015, 128.
all’operazione economica nella sua globalità le parti stesse hanno dato. Valore che può essere inteso solo se si considerino, veramente, tutti gli elementi di cui si compone il negozio giuridico; perché il negozio concreto, da tutti questi elementi primari e secondari viene caratterizzato” (173).
La condizione – ma analogo ragionamento può essere condotto con riguardo agli altri accidentalia negotii, ossia al termine e al modus (quest’ultimo, peraltro, spesso sostituito nella prassi proprio dalla condizione) – può allora, a seconda dei casi, rivelarsi uno strumento concreto di emersione della causa, a testimonianza del fatto quest’ultima possa essere “indice di come il regolamento negoziale di interessi sia l’espressione oggettiva di talune finalità soggettive” (174).
Tale assunto, tornando alla questione di partenza, per un verso conferma ulteriormente come l’oggetto del negozio ben possa non essere sufficiente a spiegarlo causalmente, e per altro verso dimostra che l’elemento su cui riposa la causa può essere esterno alla struttura negoziale, sia pure richiamato dalle parti ai fini di integrare il regolamento negoziale (come avviene nel caso della condizione, che assumerebbe, sotto questo profilo, valenza di expressio causae).
Se l’oggetto, inteso come sintesi di prestazioni e attribuzioni, costituisce un referente causale (interno), non può dirsi lo stesso del regolamento negoziale, ossia della disciplina complessiva del negozio, il quale – se del caso attraverso elementi accidentali – può nondimeno far emergere l’esistenza di referenti esterni rispetto all’oggetto. In questo senso, quand’anche per struttura negoziale si intenda non solo l’oggetto, ma in senso più ampio il regolamento, rimane condivisibile l’assunto secondo cui la causa può trovare i suoi referenti in circostanze o situazioni esterne ad essa.
173 G.B. Xxxxx, op. cit., 371.
174 G.B. Xxxxx, op. cit., 372.
3.7. Ulteriori riflessioni sulla valenza causale dell’elemento condizionale. Una possibile rivisitazione della nozione di scambio (rinvio).
Si è visto che la condizione (come, in senso lato, gli accidentalia negotii) può costituire il punto di emersione, nell’ambito del regolamento negoziale, del referente causale esterno, quale espressione dell’assetto di interessi concretamente perseguito.
Un interessante ulteriore spunto può cogliersi alla luce di quella dottrina che si è occupata approfonditamente del fenomeno condizionale, analizzando in chiave critica la tesi tradizionale secondo cui l’avveramento della condizione risolutiva sarebbe da ricondurre alla categoria dell’ “inefficacia sopravvenuta”. Si è osservato, in particolare, che il condizionamento risolutivo, al pari di quello sospensivo, incide ab origine sulla vicenda effettuale derivante dal regolamento negoziale, rendendo “precaria” l’efficacia dell’atto in ragione della non definitività degli interessi esposti all’avverarsi dell’evento (175); in altri termini, attraverso il meccanismo condizionale si avrebbe un peculiare dispiegarsi dell’autonomia privata, tale da configurare effetti qualitativamente diversi rispetto a quelli che conseguirebbero al negozio non condizionato, in quanto caratterizzati dalla precarietà connessa al subordinamento rispetto al verificarsi di determinati presupposti.
Ora, la ricostruzione del fenomeno condizionale come peculiare strumento di manifestazione dell’autonomia negoziale, tale da incidere sull’assetto di interessi e sulla regolamentazione del negozio, appare un contributo importante ai fini del riconoscimento alla condizione di piena rilevanza causale, oltre che (argomento sul quale si tornerà nel capitolo successivo) ai fini della rivisitazione della nozione di “scambio”.
175 X. Xxxxxx, La condizione di inadempimento, Padova, 1996, 373 ss.
Posto infatti che la condizione ben può implicare l’emersione di referenti causali esterni all’interno del regolamento negoziale, ritenere che essa sia idonea a configurare in maniera peculiare l’assetto di interessi perseguito, al punto da incidere sulla natura, e non solo sul loro dispiegarsi temporale, degli effetti (plasmati, appunto, come non definitivi) del negozio, implica ammettere che, in generale, l’esistenza di un determinato referente causale può configurare in maniera peculiare quell’assetto di interessi, specificando ed integrando il profilo causale allorquando, in ipotesi, lo stesso sia calato in una condizione.
Fermo restando, dunque, che la condizione può ovviamente essere (e tipicamente lo è) dettata dall’esigenza di attribuire rilevanza giuridica a meri motivi soggettivi – e senza dunque spingersi fino a ritenere che la mera deduzione in condizione faccia loro assumere sic et simpliciter valenza causale –, la riflessione sull’incidenza della condizione sull’assetto di interessi aiuta a comprendere come determinati elementi oggettivi, esterni rispetto alla struttura del negozio, possano assumere valenza causale, anche al di fuori di una logica di sinallagma o liberalità (cui, generalmente, la condizione non accede). Analogo ragionamento può essere svolto in relazione al modus, allorquando il disponente abbia previsto la risoluzione come conseguenza del suo inadempimento.
L’idea dell’incidenza dell’elemento condizionale sul regolamento negoziale, al punto da escludere che possa parlarsi di retroattività in senso stretto, in definitiva, può considerarsi un ulteriore argomento a sostegno della complessità dei fattori che possono assumere rilevanza causale.
Ciò, come si accennava, offre uno spunto di riflessione in più verso la possibile rivisitazione, in chiave evolutiva, della nozione di “scambio”, su cui si tornerà nel § 4.8: se ben si riflette sulla nozione stessa di corrispettività, ci si avvede che il fondamento della stessa non risiede nelle prestazioni in quanto tali, ma nelle
reciproche “attribuzioni” (176), o meglio negli effetti obbligatorî o reali che dalla reciproca obbligazione o disposizione conseguono. Il passo dalla corrispettività delle prestazioni alla reciprocità di utilità, anche non corrispondenti a prestazioni reciproche, ma pur sempre nell’ambito di un unitario assetto di interessi, è allora assai breve. Ed è proprio a supporto della tesi per cui lo scambio diviene, in senso più ampio, “reciprocità” o “convergenza” di interessi, che è utile riprendere quanto sopra accennato in ordine al fatto che l’assetto di interessi perseguito dalle parti può essere concretamente plasmato ricorrendo ad una condizione, la quale di per sé non tocca il piano della corrispettività tra prestazioni: attraverso il meccanismo condizionale, invero, quella “reciprocità” o “convergenza” di interessi può estrinsecarsi, valorizzando l’utilità attesa da una parte (o dal disponente) senza che sia necessariamente prevista una controprestazione in senso stretto.
176 AA.VV., Diritto Civile. Xxxxx, questioni, concetti (a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx), I, Bologna, 2014, 865 (le considerazioni sulla risoluzione e la gestione delle sopravvenienze sono di
F. Addis).
4. GLI EFFETTI DI UN DISTINTO ATTO GIURIDICO NEGOZIALE COME REFERENTE CAUSALE ESTERNO
SEZIONE I: GLI EFFETTI DI UN DISTINTO ATTO GIURIDICO NEGOZIALE COME REFERENTE CAUSALE ESTERNO
4.1. Effetti di un distinto negozio giuridico come referente causale esterno.
Tra le ipotesi in cui la struttura e l’oggetto del negozio non consentono di coglierne la funzione e giustificazione concreta, ossia non rivelano compiutamente il complessivo assetto di interessi perseguito, meritano attenzione quelle situazioni nelle quali la giustificazione risiede in un diverso negozio giuridico presupposto o “collegato”, posto in essere tra le stesse parti o tra parti diverse. Più esattamente, non è tanto l’esistenza del negozio presupposto, quanto i suoi effetti a giustificare il negozio a valle, escludendo quindi che lo stesso – pur apparentemente non autosufficiente sul piano strutturale – possa ritenersi astratto, e dunque privo di causa. Il complessivo assetto di interessi sotteso al negozio, in altri termini, si specifica, completa o qualifica alla luce degli effetti di un altro atto negoziale, tra le stesse parti o tra parti diverse.
In proposito, rileva soffermarsi su due figure oggetto di grande attenzione da parte degli interpreti, ossia il c.d. “pagamento traslativo” (anche individuato in dottrina come negozio di attribuzione o, più genericamente, “prestazione isolata”) e il collegamento negoziale. Nel successivo capitolo, allargando l’indagine alle ipotesi in cui il referente causale esterno consiste in fatti o situazioni diverse dagli effetti di un preesistente o contestuale negozio giuridico, si farà cenno alla figura
del contratto gratuito atipico, del quale il c.d. “pagamento traslativo” può costituire attuazione.
4.2. La c.d. “prestazione isolata” e il pagamento traslativo
La c.d. “prestazione isolata” (177), come accennato, costituisce una interessante ipotesi in cui l’oggetto in senso tecnico del negozio giuridico – di regola il trasferimento della proprietà di un bene a titolo gratuito – non ne rivela la giustificazione, perché di per sé non chiarisce a che titolo il trasferimento venga effettuato e dunque quale sia l’assetto di interessi oggettivamente perseguito dai soggetti coinvolti nell’operazione giuridico-economica. In altri termini, non basta prendere in considerazione l’effetto giuridico voluto dal disponente e dall’accettante (appunto, il trasferimento gratuito del diritto), né considerare il referente obiettivo interno (la prestazione o l’attribuzione) per rivelarne la giustificazione concreta, e portare così a compimento l’accertamento causale.
Come è noto, l’art. 1376 cod. civ. codifica la regola del consenso traslativo, disponendo che “nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”.
177 Una recente menzione giurisprudenziale alla “prestazione isolata” si rinviene in Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, n. 6538, in Giur. it., 2010, 248, secondo cui in questo caso “è difficile individuare una causa oggettiva nel senso tradizionale, dato che non c'è una coincidenza fra la funzione pratica del contratto e la causa economico-giuridica tradizionale; e che tuttavia anche per questi negozi, classificati «astratti» o «a causa astratta o generica», è egualmente indispensabile individuare la causa sia pure in base ad una impostazione differente non soggetta all’obbligo predeterminato di modelli astratti, ma attenta strettamente al negozio posto in essere dai contraenti, nonché all’affare nel suo complesso”.
In tale ottica, l’obbligazione di dare – intesa, nel codice previgente, quale obbligazione di fare acquistare la proprietà derivante da un negozio i cui effetti immediati sono meramente obbligatorî – perderebbe a rigore autonomia giuridica, traducendosi nella diversa obbligazione di consegnare una cosa determinata, in conseguenza del trasferimento del diritto già intervenuto per effetto della prestazione del consenso legittimamente manifestato. Il contratto di compravendita è così, al tempo stesso, titulus e modus adquirendi (178).
Fermo il principio consensualistico, ci si è però chiesti se sia ammissibile anche nell’ordinamento giuridico italiano ravvisare il titolo dell’effetto traslativo in un atto o negozio giuridico successivo e distinto rispetto a quello in cui viene manifestato il consenso al trasferimento del diritto (situazione evidentemente diversa da quella in cui l’effetto traslativo, pur essendo differito al momento in cui si verificherà un determinato fatto o atto giuridico, trovi pur sempre titolo nell’originario negozio ad effetti reali differiti: si pensi alla vendita di cosa futura o di cosa generica, ovvero alla vendita sospensivamente condizionata).
In un primo momento, e in particolare subito dopo l’entrata in vigore del Codice civile del 1942, la dottrina ha dato al quesito risposta negativa, osservando che scindere titulus e modus adquirendi significherebbe configurare una “prestazione isolata” astratta, con conseguente difetto di causa, non essendo la prestazione sorretta né da animus donandi (stante la preesistenza di un obbligo sorto per effetto del primo contratto titulus), né da una controprestazione (prevista dal titulus, ma non dal modus). Non sarebbe ammissibile, si osservava, uno
178 L’obbligazione di dare in senso tecnico trova disciplina in quegli ordinamenti che ammettono ancora oggi la distinzione tra titulus e modus adquirendi, concependo così l’eventualità che dal contratto possa sorgere esclusivamente l’obbligo di trasferire la proprietà o altro diritto, rimanendo relegati ad un successivo ed autonomo atto esecutivo, oltre all’attribuzione della disponibilità della cosa (consegna), il vero e proprio effetto traslativo (si pensi all'ordinamento tedesco, che non ha elevato la causa ad elemento necessario nella dinamica dei trasferimenti immobiliari, o a quello inglese, ai sensi del quale il venditore di real property è obbligato a far acquistare il legal title al compratore mediante un autonomo e successivo atto traslativo, la c.d. “conveyance”).
spostamento di ricchezza non giustificato da un corrispondente sacrificio economico, che non sia al tempo stesso animato da spirito di liberalità.
Il rigore di tale impostazione, che vede il negozio avente ad oggetto una mera prestazione di dare di per sé privo di giustificazione causale, è stato però oggetto di stemperamento sul piano ermeneutico: può infatti accadere che un negozio (solo apparentemente) astratto, costituisca in realtà il modo per adempiere ad un obbligo assunto in precedenza per effetto di un altro negozio, nel quale può allora essere rinvenuta la giustificazione causale dell’atto da cui, a sua volta, derivi l’effetto traslativo (nel caso in cui la prestazione isolata abbia ad oggetto una prestazione di dare). L’astrattezza, dunque, sarebbe in questo caso soltanto apparente, atteso che il secondo negozio (quello c.d. “astratto”) in realtà non è privo di causa, ma è dotato di una giustificazione causale avente quale referente obiettivo esterno il primo negozio (o meglio, i suoi effetti, in questo caso obbligatorî), di cui il secondo costituisce adempimento o attuazione.
Esclusa la configurabilità di un negozio astratto, per cogliere la causa concreta alla luce del complessivo assetto di interessi occorre allora fare riferimento agli effetti di un negozio presupposto esterno, o comunque ad una fonte di obbligazioni parimenti esterna, alla cui luce accertare – in ipotesi – la funzione solutoria dell’atto traslativo.
Autorevole dottrina – cui si è avuto modo di fare cenno nelle pagine precedenti (v. supra, § 2.4) –, illustrando la distinzione tra momento soggettivo e momento oggettivo della causa (ed in particolare tra “scopo” e “funzione”), ha in proposito osservato che in caso di separazione strutturale (e non semplicemente estrinseca) della prestazione (dunque, di “prestazione isolata”) “sarebbe vano ricercare la giustificazione causale dello spostamento patrimoniale nella
«funzione» della prestazione ovvero in quella del negozio che la pone in essere”