ABSTRACT
Associaz ione p e r gli Studi I n t e r n a z i o n a l i e C o m p a r a t i s u l Diritto d e l l a v o r o e sulle R e l a z i o n i i n d u s t r i a l i
Il licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato delle Agenzie per il lavoro tra previsioni contrattuali e procedure obbligatorie
Xxxxxxx Xxxxxx
Avvocato ADAPT Professional Fellow
ISSN 2240-273X – Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001 – Tribunale di Modena
Working Paper n. 11/2021
@2021 ADAPT University Press • xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx • xxxxxxxxx@xxxxx.xx
I PUNTI CHIAVE DEL PAPER |
● Il CCNL delle Agenzie per il lavoro unisce aspetti economici e normativi a momenti formativi e di aggiornamento, cadenzati in base alla permanenza del lavoratore nell’Agenzia ● Il suo principale elemento distintivo, tuttavia, sta nella presenza di una procedura per la ricerca di nuove occasioni di lavoro dei lavoratori a tempo indeterminato in «disponibilità», che si accompagna ad un piano formativo e ad un sostegno economico posto a carico delle strutture bilaterali. In caso di esito negativo della ricerca l’Agenzia può procedere al licenziamento per GMO ● Nonostante la resistenza verso le forme di lavoro precario la somministrazione lavoro rappresenta una palestra utile di lavoro, che richiede un forte spirito di adattamento, disponibilità allo svolgimento di mansioni diverse e attitudine a confrontarsi con sistemi organizzativi e di gestione aziendale sia semplici che complessi |
ABSTRACT
Restano irrisolte, e inspiegabilmente sotto traccia, le conseguenze giuridiche del mancato (o irregolare) svolgimento della
«procedura in mancanza di occasioni di lavoro» prevista dall’art. 25 del CCNL delle Agenzie per il lavoro. Scarse (e contrastanti) le pronunce giudiziarie sugli effetti del mancato espletamento della procedura e sulla obbligatorietà del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 l. n. 604/1966 per i lavoratori ai quali è stata correttamente applicata la procedura ex art. 25 CCNL. Sul punto si confrontano contrastanti opinioni della giurisprudenza e del Ministero del lavoro, che lasciano irrisolta la problematica, aprendo scenari di potenziali conflitti tra Xxxxxxx, Lavoratori e Utilizzatori.
IL MESSAGGIO |
Il CCNL delle Agenzie per il lavoro ha introdotto, sin dalla sua prima edizione, una procedura di accompagnamento all’esodo destinata ai lavoratori a tempo indeterminato per i quali non sia possibile il reimpiego nelle filiali o presso nuovi utilizzatori. Una procedura per alcuni “alternativa” a quella prevista dall’art. 7 della l. n. 606/1966 (nei casi in cui è obbligatoria), per altri “aggiuntiva” a quest’ultima, per altri ancora non obbligatoria e “sostituibile” con gli accordi di conciliazione stragiudiziale in sede protetta, ai sensi degli art. 410 e 411 c.p.c. Al di là delle posizioni giuridiche, il CCNL delle Agenzie per il lavoro rappresenta comunque un unicum originale nel panorama dei contratti collettivi, anche se il lavoro somministrato resta una forma di lavoro osteggiata da una parte del mondo del lavoro, fino ad escluderne la previsione di impiego in alcuni contratti collettivi (da ultimo, quello della logistica), nonostante gli indubbi elementi di novità, spesso sottovalutati. |
Indice
1. L’atipicità del CCNL per i lavoratori delle Agenzie per il lavoro 4
2. Le cause di licenziamento (individuale o plurimo) previste dal CCNL Agenzie per
3. La procedura ex art. 25 CCNL: elementi costitutivi 7
4. Le fasi della procedura ex art. 25 CCNL 8
4.1. Sospensione e termine della procedura 10
4.2. Gli effetti novativi dell’accordo sottoscritto ai sensi dell’art. 25 10
5. Le procedure alternative a quella ex art. 25 CCNL 11
5.1. Il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/1966 11
5.2. La non obbligatorietà della procedura contrattuale nella decisione della Suprema Corte (Cass. 18 ottobre 2019, n. 26607) 12
5.3. La diversa prospettazione sull’obbligo della procedura contrattuale ex art. 25, nel § 4, commi 16 e 17 13
5.4. Le condizioni più favorevoli previste dai contratti collettivi e l’interpretazione del Ministero del lavoro 14
5.5. La giurisprudenza di merito 14
5.6. L’obbligo del repéchage 15
1. L’atipicità del CCNL per i lavoratori delle Agenzie per il lavoro
La somministrazione di lavoro, introdotta dalla l. n. 196/1997 sotto forma di lavoro
«interinale», successivamente ridisegnata dal d.lgs. n. 276/2003 e, a seguire (dopo numerose novelle) dal Codice dei Contratti (d.lgs. n. 81/2015), è generalmente richiamata nei contratti collettivi nazionali essenzialmente allo scopo di limitarne l’impiego e di quantificarne le percentuali di utilizzo rispetto ad altre forme di lavoro più stabili, come il contratto a tempo indeterminato e il contratto di apprendistato.
Ma è solo con l’adozione del CCNL di categoria, sottoscritto da Assolavoro nel 2008, che i lavoratori delle Agenzie per il lavoro (note con l’acronimo Apl) hanno raggiunto una piena e completa regolamentazione dei diritti e degli obblighi che incombono sui lavoratori inviati in missione presso Enti ed imprese utilizzatrici.
Le principali caratteristiche del CCNL delle Apl si connotano per la presenza di un piano periodico e strutturato di aggiornamento e formazione, diretta a tutti i lavoratori, e per la previsione di una procedura negoziata per la verifica delle possibilità di reimpiego dei lavoratori a tempo indeterminato «in disponibilità» per i quali non sono ravvisabili, nel medio termine, ulteriori opportunità di ricollocazione in altri ruoli o presso altri utilizzatori.
La procedura in questione, prevista all’art. 25 del CCNL, costituisce una novità nel panorama dei contratti collettivi, che tiene conto sia della particolare natura del lavoro somministrato – che nella temporalità ha il suo elemento costitutivo e distintivo – sia della necessita di rinforzare alcuni strumenti di protezione dei lavoratori, ai quali viene chiesto un forte spirito di adattamento, disponibilità allo svolgimento di mansioni potenzialmente sempre diverse e attitudine a confrontarsi con sistemi organizzativi e di gestione aziendale semplici e complessi.
Una sorta di palestra, a volte obbiettivamente impegnativa e faticosa, che tuttavia aiuta a conoscere ed a confrontarsi “dal vivo” con i tanti e diversi meccanismi aziendali, ed a scoprire le proprie attitudini personali e professionali in un contesto garantito da un regolare contratto di lavoro e dall’obbligo di solidarietà per il pagamento di quanto dovuto a titolo retributivo, assistenziale e previdenziale.
Nonostante la comprensibile (anche se non del tutto giustificata) diffidenza del mondo del lavoro verso le forme di lavoro precarie – è nota la recente esclusione dello staff leasing dal contratto collettivo nazionale della logistica – il lavoro somministrato rappresenta sotto certi aspetti un’opportunità per giovani e meno giovani che necessitano di un lavoro temporaneo, per mantenersi attivi nelle fasi di passaggio tra un lavoro più stabile e l’altro e/o per integrare gli strumenti di protezione sociale previsti nei periodi di crisi lavorativa che accompagnano la vita dei lavoratori, anche di quelli più fortunati.
Sotto il profilo giuslavoristico, il CCNL delle Agenzie per il lavoro rappresenta un modello contrattuale con indubbi elementi di originalità che, sotto alcuni profili, potrebbero costituire un riferimento anche per altri CCNL, particolarmente in momenti storico-sociali come quello attuale in cui si avverte la necessità di accompagnare la ripartenza economica a misure utili ad ammortizzare l’inevitabile (e traumatico) effetto dello sblocco dei licenziamenti per GMO ed il ritorno a quella che, per qualche ignoto motivo, viene definita la “normalità”.
A completamento dell’introduzione, sembra opportuno ricordare che alla tumultuosa normativa lavoristica degli ultimi anni (dalla legge Treu al decreto Biagi, dalla legge
Fornero al Jobs Act, dal decreto dignità alla legislazione d’emergenza in periodo di Covid) è sopravvissuta la regola, introdotta dal d.lgs. n. 276/2003, della non applicabilità alle Agenzie per il lavoro degli art. 4 e 24 della l. n. 223/1991; (1) stabilendo, in considerazione dell’atipicità del lavoro somministrato, che alle Agenzie del lavoro trova sempre applicazione l’art. 3 della l. n. 604/1966, a prescindere dalla dimensione dell’impresa. Di tal ché le Agenzie datori di lavoro possono procedere a licenziamenti individuali o plurimi anche oltre la soglia delle 5 unità nei 120 giorni, senza essere soggetti alla procedura dei licenziamenti collettivi.
Con l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), coevo al codice dei contratti (d.lgs. n. 81/2015), è stata infine dichiarata non applicabile, alle assunzioni a tempo indeterminato successive al 7 marzo 2015, la procedura obbligatoria di cui all’art. 7, l. n. 604/1966 (2).
2. Le cause di licenziamento (individuale o plurimo) previste dal CCNL Agenzie per il lavoro
Nel contratto collettivo sottoscritto nel 2008 da Assolavoro e da Assosomm, parzialmente novellato dall’accordo del 28 dicembre 2018 – e quasi testualmente ripreso dal rinnovo del 2019 – sono indicati, in due diversi articoli, le cause e gli eventi che determinano la risoluzione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle Agenzie per il lavoro. Nell’art. 46 (già art. 45 nell’edizione del 2008) le parti richiamano le fonti normative delle due ipotesi di recesso dal contratto individuale (o plurimo) e precisamente l’art. 2118 c.c., applicabile nelle ipotesi «esemplificative» del raggiungimento dell’età pensionabile e del superamento del periodo di comporto, e l’art. 2119 c.c. applicabile «qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto (giusta causa)» (3).
Il punto merita una riflessione. Col linguaggio “sindacale” tipico dei contratti collettivi le parti hanno verosimilmente inteso includere – attraverso la forma sincopata «ecc.» – anche «altre ipotesi» di applicazione dell’art. 2118 c.c. in cui si manifesta l’ipotesi di giustificato motivo oggettivo. Tra queste, si ritiene che vi sia un riferimento alla procedura
(1) D.lgs. n. 81/2015, art. 34, comma 4. Le disposizioni di cui all’art. 4 e 24 della l. n. 223/1991, che non trovano applicazione nel caso di cessazione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, cui si applica l’art. 3 della l. n. 604/1966.
(2) D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, art. 3, comma 3: «al licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 giugno 1966 n. 604 e successive modificazioni».
(3) CCNL art. 46, comma 4: «A titolo esemplificativo ma non esaustivo, rientrano fra le cause di recesso:
- la recidiva nella non osservanza dell’obbligo di cui al comma 4 dell’art. 34;
- il diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche fra i dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale;
- l’insubordinazione verso i superiori, o verso il personale dell’impresa utilizzatrice incaricata del coordinamento, accompagnata da comportamento oltraggioso;
- l’irregolare dolosa scritturazione o timbratura di schede di controllo delle presenze al lavoro;
- l’appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi;
- il danneggiamento volontario di beni dell’Apl / utilizzatrice o di terzi;
- l’esecuzione di lavoro nell’impresa per conto proprio o di terzi senza il permesso del soggetto referente dell’impresa utilizzatrice;
- assenza ingiustificata per oltre tre giorni consecutivi o cinque nell’anno solare».
prevista dall’art. 25 che, così come articolata, dovrebbe (ma il condizionale, come si vedrà, è d’obbligo) escludere il ricorso all’ulteriore procedura legale del tentativo di conciliazione prevista dall’art. 7, l. n. 604/1966, nei casi in cui quest’ultima sia applicabile.
Va precisato, per inciso, che l’art. 25 del CCNL, nella sua (pressoché inalterata) formulazione, precede temporalmente la riforma dell’art. 7 della l. n. 604/1966 introdotta dalla l. n. 92/2012. E tale è rimasto, senza alcun riferimento alla suddetta procedura obbligatoria di legge, nei successivi rinnovi del contratto collettivo. Difficile credere ad una mera dimenticanza.
Tra le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo previste dall’art. 46 è inserita anche quella del superamento del periodo di comporto. La questione ha dato recentemente origine a diverse interpretazioni in vigenza della normativa di emergenza, tra fautori del blocco dei licenziamenti esteso anche al comporto per malattia e sostenitori dell’opposta versione, che ritiene questa ipotesi riconducibile al solo art. 2118 c.c. e comunque estranea alle ipotesi dell’art. 3 della l. n. 604/1966 (4).
Ad altre, ma convergenti considerazioni, ci inducono le motivazioni che danno origine alla giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., elencate all’art. 46, che si rinvengono in quasi tutti i contratti collettivi (vedasi nota 4). Alle varie ragioni “generiche” se ne aggiungono infatti altre due, più specifiche, separatamente previste nell’art. 34, che riguardano il caso di «irreperibilità» del lavoratore in disponibilità (alle iniziative promosse dall’Agenzia) ed il caso di «mancata accettazione della proposta congrua», che rappresentano i punti nodali della procedura ex art. 25 (5).
(4) Nota dell’Autore: sulla riconducibilità del licenziamento per superamento del periodo di comporto ai casi indicati dall’art. 3 della l. n. 604/1966 non si segnalano, allo stato, decisioni del Giudice di diritto. Diversi commentatori, tuttavia, lo escludono facendo riferimento alla circ. Min. lav. 16 gennaio 2013 n.3, che tuttavia correttamente precisa che l’esclusione è un’interpretazione propria dell’Ufficio emanante. Il tema va tuttavia contestualizzato nella vicenda pandemica, nel corso del quale il blocco dei licenziamenti non attribuibili a giusta causa o che sono esclusi per espresso richiamo di legge (tra essi non viene indicato quello per superamento del periodo di comporto) trova la sua ratio nella compensazione economica riconosciuta dal Legislatore alle aziende attraverso i cosiddetti “ristori” e nella possibilità del datore di lavoro di ricorrere alla CIG. La stessa Inl, peraltro, con propria nota prot. 2489 del 3 aprile 2020 ha ricompreso nel blocco l’ipotesi – parallela sul piano sostanziale – del licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione. In modo conforme il Tribunale di Ravenna, con sentenza del 7 gennaio 2021, ha disposto la reintegra di un lavoratore licenziato per “inidoneità alla mansione”, in quanto (secondo il giudice) trattasi di causa obbiettivamente “oggettiva”, come tale da ricomprendere nel “blocco dei licenziamenti per GMO.
A sostegno della tesi contraria (di esenzione dal blocco) va tuttavia evidenziata la circostanza che nel periodo di comporto non vengono conteggiati (secondo il d.l. n. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”) i periodi di assenza dovuti a malattia per contagio da Covid-19 ed i periodi di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria, in quanto equiparati dal legislatore alla malattia. Il ché lascerebbe sottendere che il comporto si maturi anche in periodi di Covid, con le conseguenze individuate dai vari contratti collettivi.
(5) CCNL art. 34, comma 10: «Per i lavoratori in disponibilità valgono le seguenti norme disciplinari nelle ipotesi di: a) rifiuto non giustificato alla convocazione in filiale ovvero del colloquio di lavoro presso la filiale o l’utilizzatore, anche per irreperibilità, che risulti da comunicazioni tracciabili con gli strumenti che il lavoratore ha comunicato all’atto di assunzione: passibile di ammonizione scritta, sospensione della indennità fino a un massimo di 3 giorni nel caso di seconda comunicazione e risoluzione del rapporto in caso di ulteriore reiterazione del rifiuto non giustificato o irreperibilità; b) rifiuto non giustificato del percorso formativo anche per irreperibilità: passibile di sospensione della indennità fino a un massimo di 3 giorni nel caso di prima comunicazione e risoluzione del rapporto in caso di reiterazione del rifiuto non giustificato o irreperibilità; c) rifiuto non giustificato della proposta lavorativa congrua ai sensi del presente CCNL anche per irreperibilità: risoluzione del rapporto in caso di reiterazione del rifiuto non giustificato o irreperibilità».
Il tema giuridico di fondo sembra (ancora una volta) ancorato al principio di gerarchia delle fonti, spesso disatteso se non del tutto oscurato dalla normativa di emergenza che caratterizza questo periodo di pandemia.
Il contratto collettivo non può derogare in peius alla norma legale, né può prescindervi se la stessa è inderogabile. La conseguenza della violazione sarebbe infatti l’automatica sostituzione della norma del contratto collettivo con quella di legge (ex art. 1339 c.c.) ovvero la nullità parziale della clausola contrattuale viziata (ex art. 1419 c.c.). Ma, a dire il vero, non è rara l’ipotesi di “fughe in avanti” dei contratti collettivi rispetto alle previsioni ed ai vincoli di legge, anche se quasi sempre restano silenti – o perché non vi è interesse ad impugnarle, o perché il contenzioso si spegne, nei casi più rischiosi, con un accordo stragiudiziale che accontenta tutti.
3. La procedura ex art. 25 CCNL: elementi costitutivi
L’iter disciplinato dall’art. 25 del CCNL ha una durata variabile da 6 ad 8 mesi, secondo l’età anagrafica del lavoratore. Prevede il ricorso a politiche attive (6) ed a percorsi di aggiornamento e riqualificazione del lavoratore finalizzati alla «continuità occupazionale» (7). La procedura si svolge con il concorso di tre soggetti: Agenzia datore di lavoro, lavoratore e Commissione sindacale territoriale (CST), i quali elaborano un piano di azioni che si consolida in un accordo sottoscritto da tutti e tre i partecipanti.
Al termine della procedura, in caso di mancato reperimento di nuove occasioni di reimpiego, l’Agenzia può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo, con pagamento dell’indennità di mancato preavviso. (8)
Tutto l’iter procedurale si incardina, a sua volta, nel sistema della bilateralità contrattuale (EBI.Temp e Forma.Temp), che provvedono a finanziare il percorso concordato col lavoratore.
Nel corpo dell’art. 25 il CCNL del 2014 ha introdotto un comma 17, il quale prevede che
«nel caso in cui l’Agenzia abbia licenziato per mancanza di occasioni di lavoro senza il rispetto della procedura prevista nel presente articolo, Forma.Temp, anche su
(6) CCNL art. 13, Politiche Attive: «In considerazione della natura privata delle Apl autorizzate dal Ministero del lavoro/Anpal, che si occupano di ricerca e selezione del personale, intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, somministrazione di lavoro, le parti condividono l’importanza di interventi coerenti ed integrati con i servizi pubblici per l’impiego (centri per l’impiego) promuovendo, anche a livello territoriale, specifiche intese sulle Politiche Attive».
(7) CCNL art. 11, § 3, Riqualificazione professionale: «Le attività di riqualificazione sono finalizzate al rafforzamento della posizione professionale dei lavoratori in costanza di lavoro per lo sviluppo delle competenze professionali e l’acquisizione di competenze specialistiche, anche per il tramite del bilancio delle competenze, quindi, attraverso la progettazione di percorsi di sviluppo professionale. I corsi per la riqualificazione professionale sono destinati ai lavoratori per i quali risulti attiva la procedura in mancanza di occasioni di lavoro e possono essere oggetto di accordo tra le Agenzie e le Organizzazioni Sindacali stipulanti il presente CCNL e possono coinvolgere più lavoratori sul medesimo percorso formativo».
(8) CCNL 2019, art. 25, punto 24: «Qualora le attività di riqualificazione definite nell’accordo non abbiano portato alla ricollocazione del lavoratore o dei lavoratori coinvolti, e permanendo la mancanza di occasioni di lavoro, l’Agenzia, al termine del periodo di procedura può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo comunicando il licenziamento individuale o plurimo»; e punto 25:
«Analogamente in caso di mancato accordo l’Agenzia può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo al termine del periodo previsto».
segnalazione delle parti ed effettuate le opportune verifiche, trasferirà dal conto Azienda al fondo solidale di garanzia un importo pari al compenso previsto per l’intera procedura maggiorato di una mensilità» (9).
La norma non prevede altro effetto sanzionatorio per il mancato rispetto della procedura
– se non, indirettamente, per le provvidenze collegate alla bilateralità, implementate dall’accordo di rinnovo del 28 dicembre 2018 con il potenziamento della misura del sostegno al reddito e con la previsione di alcune misure di quali/riqualificazione destinate ai lavoratori che terminano il percorso senza esito occupazionale positivo.
Misure che vanno ovviamente ad aggiungersi alle tutele di legge previste sia in caso di crisi aziendale in costanza di lavoro (attivazione TIS) sia in caso di cessazione involontaria del rapporto di lavoro per GMO (Naspi). (10)
4. Le fasi della procedura ex art. 25 CCNL
Come sopra anticipato, con l’art. 25 le parti del CCNL hanno stabilito – e minuziosamente disciplinato – un iter aziendale interno che si conclude, alternativamente, con la ricollocazione del lavoratore in una nuova missione ovvero con l’accertamento della
«mancanza di occasioni di lavoro», che consente all’Agenzia di procedere al licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato per GMO.
La procedura si sviluppa nelle seguenti (sintetiche) fasi: (a) verifica delle competenze, (b) sottoscrizione di un accordo tra lavoratore, Agenzia e CST (Commissioni Sindacali Territoriali) sul percorso formativo che ne consenta la riqualificazione; (c) individuazione dell’ambito (territoriale e professionale) in cui si dovrà orientare la ricerca di nuove opportunità lavorative; (d) pagamento di un indennizzo mensile (variabile da € 1000 a
€.500 per il personale che ha svolto missioni in regime di lavoro part time) per tutta la durata della procedura; (e) attivazione delle politiche attive («borsa lavoro di settore») (11); (f) individuazione di proposte «congrue»; (g) attestazione della formazione eseguita;
(9) CCNL 2019, art. 25, punto 16: «La mancata attuazione da parte dell’Agenzia degli interventi formativi di riqualificazione professionale previsti dall’accordo sindacale, verificata da Forma.Temp e da quest’ultima comunicata alle XX.XX. e all’Agenzia, determina l’obbligo per l’Agenzia di restituire entro trenta giorni dal ricevimento di detta comunicazione le somme eventualmente percepite a titolo di rimborso, di cui al punto 3 del presente articolo. In caso di mancata restituzione Forma.Xxxx trasferisce risorse di pari importo dal conto Agenzia al Fondo di Solidarietà. In ogni caso l’Agenzia è tenuta a corrispondere l’intero compenso al lavoratore per tutto il periodo previsto dall’accordo»; e punto17: «Nel caso in cui l’Agenzia abbia licenziato per mancanza di occasioni di lavoro senza il rispetto della procedura prevista nel presente articolo Forma.Temp, anche su segnalazione di una delle parti ed effettuate le opportune verifiche, trasferisce dal conto Azienda al Fondo di Solidarietà un importo pari al compenso previsto per l’intera procedura maggiorato di una mensilità».
(10) Assolavoro 15 ottobre 2019, art. 10, Fondo di solidarietà bilaterale alternativo di settore (FSBS), punto 5: «Allo scopo di favorire ed implementare ulteriormente il vigente sistema di welfare e di sostegno al reddito […] ai lavoratori disoccupati da almeno 45 gg e precedentemente assunti dalle Apl con contratti di lavoro in somministrazione, sia a TD che a TI, pari ad almeno 110 gg nell’arco degli ultimi 12 mesi viene riconosciuto un sostegno al reddito una tantum di € 1.000 a carico del fondo di solidarietà (FSBS)». (NB: l’importo viene ridotto a 780 euro in caso di svolgimento di almeno 90 gg lavorativi nell’arco del medesimo periodo).
(11) La Borsa lavoro di settore, che mira a condividere tutti i CV tra le Apl aderenti ad Assosomm, è stata prevista dall’art. 10 del CCNL Apl del 2014.
(h) licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei casi previsti dai commi 24 e 25 dell’articolo stesso.
Al punto 12 dell’articolo 25 le parti del CCNL hanno poi previsto che la «mancata disponibilità o assenza del lavoratore verso le attività proposte dall’Agenzia» che si verifichino nel corso della procedura di cui all’art. 25, «qualora non giustificata», costituisce «inadempimento contrattuale» (12).
Non è chiara la conseguenza giuridica collegata a questa (ulteriore) ipotesi sanzionatoria, né se le sanzioni debbano essere adottate ai sensi dell’art. 7 l. n. 300/1970 o semplicemente ai sensi dell’art. 1453 c.c., eventualmente precedute da un invito ad adempiere. Ipotesi quest’ultima da non escludere a priori se adottata, come oltre si dirà, dopo la sottoscrizione dell’accordo previsto al punto 9 dell’art. 25 del CCNL (vedasi nota 11). Resta tuttavia opinabile sia la (eventuale) sanzione espulsiva sia la risoluzione per inadempimento, in quanto la misura andrebbe a collocarsi all’interno di una trattativa finalizzata al raggiungimento (o all’esecuzione) di un accordo. Che, in quanto tale, può dare origini a divergenze di opinioni (ad esempio sulle misure proposte dall’Agenzia o sui tempi di erogazione), che in quanto tali attengono alla natura stessa di ogni trattativa senza costituire violazione di norme o di comportamento contrattuale.
Infatti sia i criteri per la determinazione della «offerta congrua» previsti nel decreto del Ministero del lavoro n.42 del 14/4/2018 (13), sia le ragioni dell’assenza alle riunioni, potrebbero essere motivate da una diversa valutazione, da parte del lavoratore, della validità delle proposte formative e della «congruità» delle proposte di reimpiego che gli vengono sottoposte. (14) Circostanze che non appaiono di per sé sufficienti a determinare né la giusta causa di licenziamento secondo i canoni giurisprudenziali dell’art. 2118 del x.x., xx xx xxxxxxxxxxx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxx (xxxxxxxx xx xxxxxx) ai sensi dell’art. 1453 Né appare “congruo” se paragonato ai canoni delle indennità risarcitorie previste dalla l.
n. 92/2012 e del d.lgs. n. 23/2015 – il risarcimento corrisposto al lavoratore sotto forma
(12) La previsione risulta ripresa anche all’art.33 del CCNL edizione 2019.
(13) Decreto Ministeriale n. 42 del 10 aprile 2018, art. 5, Tipologia contrattuale: «1. L’offerta di lavoro è congrua quando ricorrono contestualmente i seguenti requisiti: a) si riferisce a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato oppure determinato o di somministrazione di durata non inferiore a tre mesi; b) si riferisce a un rapporto di lavoro a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro; c) prevede una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015. 2. L’offerta di lavoro contiene, al momento della sua presentazione, le seguenti informazioni minime: 4 a) la qualifica da ricoprire e le mansioni; b) i requisiti richiesti; c) il luogo e l’orario di lavoro; d) la tipologia contrattuale; e) la durata del contratto di lavoro; f) la retribuzione prevista o i riferimenti al contratto collettivo nazionale applicato»; art. 6, Distanza del luogo di lavoro dal domicilio e tempi di trasferimento: «1. Per i soggetti in stato di disoccupazione per un periodo fino a dodici mesi, l’offerta di lavoro è congrua quando il luogo di lavoro non dista più di 50 chilometri dal domicilio del soggetto o comunque è raggiungibile mediamente in 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblici. 2. Per i soggetti in stato di disoccupazione da oltre dodici mesi, l’offerta di lavoro è congrua quando il luogo di lavoro non dista più di 80 chilometri dal domicilio del soggetto o comunque è raggiungibile mediamente in 100 minuti con i mezzi di trasporto pubblici. 3. Nel caso in cui il luogo di lavoro non sia raggiungibile con i mezzi di trasporto pubblici, le distanze di cui ai commi 1 e 2 si considerano ridotte del 30%».
(14) CCNL art. 25, punto 9: «Nella proposta di accordo l’Agenzia deve:
a) indicare l’ambito territoriale entro cui è tenuta a valutare le possibili occasioni di ricollocazione del lavoratore avendo come unico riferimento la congruità dell’offerta come definita nel presente CCNL;
b) definire il patrimonio professionale del lavoratore cui fare riferimento per valutare le occasioni di ricollocazione dello stesso;
c) indicare le attività del percorso di riqualificazione professionale che si impegna a porre in essere, entro il termine della procedura, al fine di favorire le eventuali occasioni di ricollocazione del lavoratore».
di indennità di disponibilità per tutta la durata della procedura, peraltro ridotta al 70% in caso di mancato accordo.
4.1. Sospensione e termine della procedura (15)
La procedura viene sospesa (ai sensi del punto 18 dell’art. 25) nel caso in cui l’Agenzia
«ricollochi temporaneamente il lavoratore […] per un periodo di tempo corrispondente alla durata della nuova missione». La sospensione opera anche nel caso sia impedito temporaneamente allo svolgimento della prestazione lavorativa con riconoscimento della relativa indennità dovuta per legge; ed infine nel caso di aspettativa non retribuita fino ad un massimo di 4 mesi.
La procedura termina in caso di: a) dimissioni del lavoratore in pendenza di procedura,
b) licenziamento del lavoratore per violazione delle norme disciplinari previste all’ex art. 32 del CCNL di settore; c) ricollocazione del lavoratore.
Da ultimo, è previsto (al punto 22) che qualora il lavoratore torni in disponibilità a seguito di una o più missioni di durata complessiva superiore a ventiquattro mesi di calendario, occorre attivare ex novo la procedura per mancanza di occasioni di lavoro.
4.2. Gli effetti novativi dell’accordo sottoscritto ai sensi dell’art. 25
L’articolata procedura ex art. 25 CCNL può dunque esaurirsi o interrompersi prima del termine per volontà del lavoratore stesso (nel caso di dimissioni volontarie o di ricollocazione), o per «inadempimento contrattuale» o, infine, per «violazione delle norme disciplinari previste all’art. 34 del CCNL». Il richiamo alle norme disciplinari sembra in realtà ultroneo, atteso che la diligenza nel comportamento è dovuta dal lavoratore non già nella (sola) fase della procedura ex art. 25 ma per tutta la durata del rapporto di lavoro che decorre dall’assunzione. Perché dunque il richiamo in questa sede? La risposta va probabilmente letta tra le righe. Da una parte, comprensibilmente l’Agenzia deve assicurarsi che l’indennità che è tenuta a corrispondere in pendenza di procedura trovi corrispondenza in un comportamento attivo e non negligente del lavoratore.
Dall’altro, la sottoscrizione dell’accordo triangolato con la presenza del sindacato rappresenta una garanzia per l’Agenzia stessa che, attraverso un percorso nuovo, che prevede steps di aggiornamento formativo e modalità di ricerca di nuova occupazione su parametri (territoriali e di congruità), convenuti col lavoratore, pone in essere un accordo novativo del rapporto di lavoro disciplinato dal contratto individuale, all’interno del quale accordo è insita la previsione, in caso di esito negativo, del licenziamento del lavoratore per giustificato motivo oggettivo.
L’assenza dell’accordo rende pertanto meno sostenibile, per l’Agenzia, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non potendo costituire inadempimento né giusta causa la mancata sottoscrizione dell’accordo in sé. Che in estrema sintesi può avere due (opposti) motivi: il primo, riferibile alle proposte dell’Agenzia (ritenute dal lavoratore insufficienti, non congrue o non utili all’obbiettivo della sua ricollocazione); il secondo riferibile al comportamento del lavoratore che, in violazione dell’art. 2104 e 1176 c.c.,
ingiustificatamente non partecipa alle riunioni convocate dall’Agenzia, limitandosi a percepire l’indennità prevista dal CCNL nel periodo di procedura.
Ecco perché il CCNL, nel richiamare le cause che comportano il licenziamento del lavoratore, precisa che sono la “ingiustificatezza” (dell’assenza) o la “reiteratezza” (della assenza del lavoratore alle iniziative dell’Agenzia) a determinare la decisione di risolvere il contratto di lavoro – e non la mancata sottoscrizione dell’accordo in sé.
In entrambe le ipotesi, tuttavia, non appare sostenibile che l’Agenzia possa sottrarsi alla procedura disciplinare ex art. 7 l. n. 300/1970, ancorché di ciò non si faccia menzione nell’art. 25 del CCNL. Infatti anche in tal caso è il principio di specialità delle fonti a soccorrerci. Indipendentemente dal fatto che la norma civile generale consenta la risoluzione di un contratto per inadempimento dell’altra parte, nel caso specifico se inadempiente è un lavoratore subordinato prevale la disciplina speciale dettata dalle norme in materia di lavoro, che obbliga l’Agenzia a contestare ed ascoltare le ragioni del lavoratore prima di procedere a qualsivoglia provvedimento. (16).
5. Le procedure alternative a quella ex art. 25 CCNL
5.1. Il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7, l. n. 604/1966
La questione dell’applicabilità (o meno) dell’art. 7 l. n. 604/1966 ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori a tempo indeterminato delle Apl è stato sin dall’inizio caratterizzato da una certa ambiguità, ponendosi la procedura legale in evidente sovrapposizione con quella (peraltro previgente) dell’art. 25 del CCNL delle Agenzie per il lavoro.
Una volta espletata la procedura “contrattuale” infatti, l’unico scopo del riproporre un confronto davanti alla DPL (ora ITL) avrebbe (rectius: dovrebbe avere) solo un valore “certificatorio” dell’insussistenza di soluzioni di reimpiego del lavoratore (impossibilità di repéchage) e di conferma dell’avvenuta erogazione delle altre misure (economiche e formative). Dunque, a prima vista, un ulteriore (e apparentemente pleonastico) iter burocratico. In realtà non è così scontato che in sede di esame dell’accordo l’ITL tralasci di verificare se tutti i passaggi della procedura ex art. 25 siano stati effettivamente e correttamente rispettati. Né appare scontato che il lavoratore, davanti alla Commissione Provinciale non abbia ripensamenti rispetto all’accordo sottoscritto con l’Agenzia, rivendicando, ad esempio, l’irregolare svolgimento della stessa non tanto nella fase di predisposizione, quanto nella fase esecutiva dell’accordo stesso. Quali le conseguenze in tal caso?
Può ipotizzarsi un nuovo (e alternativo) scenario: a) un mancato accordo tra le parti, a seguito dei rilievi di irregolarità della procedura evidenziati dalla Commissione ITL; b) un nuovo accordo avanti all’ITL, che inevitabilmente comporta costi aggiuntivi per l’Agenzia che voglia comunque evitare la potenziale vertenza giudiziaria.
(16) Sul punto vedasi anche l’ordinanza 14777/2021 della Suprema Corte di Cassazione che ribaltando le precedenti sentenze secondo cui la tutela reintegratoria è prevista solo nel caso in cui il CC tipizza la condotta inadempiente, ha stabilito che ciò è contrario ai principi di uguaglianza e ragionevolezza in quanto anche le violazioni che danno origine a sanzioni conservative possono dar luogo alla reintegrazione.
Con tutta franchezza si ritiene che da questa ambiguità sarebbe necessario uscire e far chiarezza, sia attraverso una revisione della procedura del contratto nazionale, sia attraverso un chiarimento legislativo.
A favore della necessità di una “doppia procedura” sembra schierarsi la decisione della Suprema Corte (Xxxx. 18 ottobre 2019, n. 26607) che, pronunciandosi in merito ad un fatto cronologicamente antecedente la riforma del Jobs Act, e dunque in vigenza degli abrogati art. 20 e 22 del d.lgs. n. 276/2003, ha concluso che «per effetto di tali previsioni, al rapporto tra Agenzia e dipendente a tempo indeterminato è applicabile l’apparato protettivo del lavoro subordinato anche per ciò che attiene alla disciplina della fase estintiva del rapporto di lavoro, quindi i presupposti per il legittimo esercizio del potere di recesso ed i connessi oneri di allegazione e di prova a carico della parte datoriale». Nella vicenda trattata (avente ad oggetto l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di repéchage da parte di un’Agenzia, datore di lavoro), la Corte ha asserito che «lo svolgimento della procedura contrattuale (il cui mancato rispetto non determina alcuna nullità o illegittimità ma comporta solo sanzioni economiche, ai sensi dell’art. 25, comma 15, CCNL), non esonera il datore di lavoro dall’onere di prova degli elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso e, nel caso di licenziamento per motivo oggettivo, dell’impossibilità di repéchage (Cass. n. 10435 del 2018; n. 32159 del 2018) che per il dipendente a tempo indeterminato di una Agenzia di somministrazione consiste nella impossibilità di reperimento di altre occasioni di lavoro in un arco di tempo congruo […] potendo l’esito della procedura suddetta costituire elemento indiziario valutabile dal giudice unitamente al restante materiale probatorio. Proprio quest’ultima considerazione, tenuto conto della valutazione complessiva compiuta dalla Corte territoriale, porta a negare alla procedura contrattuale e all’esito della stessa, che si assumono quali fatti non esaminati nella sentenza impugnata, quel carattere di decisività invece necessario ai fini del vizio di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014)». A commento della decisione della Corte si rileva anzitutto che la problematica va affrontata restando ancorati alle fonti ed alle disposizioni sulla legge in generale. In tal senso, va osservato che l’intera costruzione giuridica della sentenza della Corte si richiama a norme abrogate (art. 20 e 22 del d.lgs. n. 276/2003), il cui contenuto è stato solo parzialmente ripreso dall’art. 34 del d.lgs. n. 81/2015, dal quale ultimo risulta tuttavia espunto l’inciso (essenziale) «anche per ciò che attiene alla disciplina della fase estintiva del rapporto di lavoro, quindi i presupposti per il legittimo esercizio del potere di recesso ed i connessi oneri di allegazione e di prova a carico della parte datoriale».
Non appare quindi conforme all’attuale formulazione della norma (art. 34 citato) sostenere che il mancato svolgimento della procedura contrattuale non determina alcuna nullità o illegittimità ma comporta solo sanzioni economiche.
Nel merito, la Corte non sostiene esplicitamente l’obbligatorietà della procedura negoziale ex art. 7 l. n. 604/1966, all’epoca dei fatti già vigente in quanto introdotta dalla
l. n. 92/2012, ma solo l’obbligo dell’Agenzia di valutare attentamente la possibilità di un repéchage del lavoratore, prima di procedere al suo licenziamento per GMO. Dunque la decisione della Corte Suprema non è derimente.
La questione va verosimilmente affrontata sotto un diverso profilo. Se infatti la procedura ex art. 7 l. n. 604/1966 ha fonte legale, l’accordo negoziato dall’Agenzia col lavoratore nell’attuazione della procedura ex art. 25 CCNL ha (mero) valore di scrittura privata, a contenuto “novativo”. Il che comporta, anzitutto, la sua inefficacia se non convalidato ai sensi dell’art. 2113 del c.c. in una sede protetta nei sei mesi successivi alla sua sottoscrizione. A tal fine, contrariamente a quanto appare sostenere la Corte Suprema, la partecipazione della CTS all’accordo ex art. 25 CCNL assimila di fatto l’accordo stesso ad una conciliazione eseguita in una “sede (sindacale) protetta”.
Ma anche questa prospettiva pone dubbi e incertezze. La partecipazione del CTS (Commissione Sindacale Territoriale) all’accordo avviene infatti nella fase “costitutiva” dell’intesa, ma le irregolarità possono prodursi anche nella fase “attuativa” dell’accordo stesso. In tal caso la procedura dell’art. 7 l. n. 604/1966 potrebbe apparire ineludibile. Il che riporta la discussione all’inizio…
5.3. La diversa prospettazione sull’obbligo della procedura contrattuale ex art. 25, nel § 4, commi 16 e 17
Va premesso che il CCNL sottoscritto il 15/10/2019 (come parimenti previsto dalle precedenti edizioni) dispone, nel suo preambolo («sfera di applicazione») che «le disposizioni del presente CCNL sono correlate e inscindibili fra loro e non ne è ammessa la parziale applicazione.»
Ciò premesso, i commi 16 e 17 dell’art. 25 CCNL meritano comunque un’attenta esegesi, potendo dare origine ad una duplice (ed opposta) interpretazione. Anzitutto sul significato del «mancato rispetto della procedura», che può desumersi che avvenga sia nel caso che la stessa non venga svolta correttamente (ad esempio saltando alcuni passaggi essenziali), sia nel caso che la stessa non venga affatto svolta.
In entrambi i casi, si potrebbe legittimamente sostenere che l’inadempimento contrattuale sia imputabile all’Agenzia, con le relative conseguenze di legge. Che, alla luce delle norme vigenti non appaiono essere solo quelle “economiche”, in quanto la mancata esecuzione della procedura ex art. 25 costituisce violazione di una norma contrattuale essenziale, che per la sua complessità e articolazione non può considerarsi “non sanzionabile” anche ai fini delle norme civilistiche e del lavoro (invalidità o inefficacia del licenziamento intimato), ferme restando le ulteriori sanzioni economiche per l’Agenzia, che vanno ad aggiungersi alle ulteriori (ma generiche) penalità previste dall’art. 47 del CCNL medesimo.
Vi è infatti anche giurisprudenza più risalente (vedasi al § 5.5) che ha ritenuto che l’irregolarità della procedura vada verificata in concreto, valutandone la rilevanza e la gravità rispetto all’insieme della procedura stessa.
Per quanto incerta resti la questione, va ricordato comunque che si tratta di una procedura “negoziale” – non prevista dalla legge e senza che vi sia un rinvio esplicito della materia alla contrattazione collettiva – ontologicamente finalizzata a fornire all’Agenzia prova certa (o comunque indiziaria) dello svolgimento di un’attività di repéchage e dell’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento secondo i canoni richiesti dall’art. 3 della l. n. 604/1966. Il cui corretto svolgimento dovrebbe (ma il condizionale è quanto mai d’obbligo) mettere al riparo l’Agenzia dai rischi di un successivo contenzioso giudiziale (o comunque ridurli in modo considerevole). Nella vicenda trattata dalla Corte Suprema (al punto 5.2 che precede) era infatti risultata carente,
nello svolgimento della procedura, la prova di un’effettiva ricerca di una possibilità di reimpiego per il lavoratore licenziato.
Nella risposta all’Interpello n.1 del 12/1/2015 il Ministero del lavoro ha chiarito che
«l’art. 22 comma 4 Dlgs 276/2003 (abrogato e sostituito sul punto dall’art. 34 Dlgs 81/2015), richiama l’applicabilità degli art. 3 e 12 della l. n. 604/1966 che forniscono la nozione di GMO e fanno salve le condizioni più favorevoli previste dai contratti ed accordi collettivi, senza escludere che i medesimi licenziamenti debbano seguire la procedura prevista dall’art. 7 della stessa l. n. 604/1966, peraltro introdotta dalla l. n. 92/2012 e quindi successivamente all’entrata in vigore del decreto Biagi»- (aggiungendo che) «in linea con quanto chiarito con il precedente interpello n.27/2013 si ritiene che per l’ipotesi in esame […] trovi applicazione la procedura di cui all’art. 7 l. n. 604/1966» L’interpretazione del Ministero del lavoro si schiera dunque a favore della tesi che sostiene la necessità della doppia procedura, anche se appare almeno in parte contraddittoria. L’art. 25 del CCNL, infatti, contiene e rappresenta obbiettivamente una condizione più favorevole per i prestatori di lavoro proprio ai sensi di quell’art. 12 della
l. n. 689/1966 richiamato dallo stesso Ministero del lavoro. In nessun altro contratto collettivo esiste infatti una previsione di accompagnamento attivo all’uscita dal lavoro nei casi di soppressione del posto di lavoro. Le imprese infatti – al netto di questo periodo di blocco dei licenziamenti decretato in pendenza di pandemia da Covid 19 – si limitano ad attivare la procedura ex art. 7 (in caso di lavoratori di imprese sopra la soglia numerica assunti prima del 7/3/2015), ovvero la procedura ex art. 2 e 3 del Dlgs 23/2015 (in caso di lavoratori di imprese sopra soglia assunti dopo la predetta data); o infine la procedura dei licenziamenti collettivi ex art. 4 e 24 della l. n. 223/1991 nell’ipotesi in cui intenda eseguire più di cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni.
Se dunque la procedura ex art. 25 CCNL integra l’ipotesi formulata dall’art. 12 della l. n. 604/1966 si rende superfluo, con un’interpretazione conforme alla mens legis, attivare un ulteriore percorso conciliativo sostanzialmente analogo (quantomeno dal punto di vista finalistico), qual è la procedura prevista dall’art. 7 della l. n. 689/1966, nel testo novellato dalla l. n. 92/2012. E ciò trova riscontro logico nel fatto che il Legislatore ha espressamente escluso il settore dall’obbligo della procedura ex art. 4 e 24 l. n. 223/1991 Si potrebbe obbiettare che il Legislatore, nella formulazione della norma abbia voluto far riferimento solo alle (eventuali) condizioni normative ed economiche che non riguardano la cessazione del rapporto di lavoro, ma sarebbe un’interpretazione restrittiva non rispondente, in tal caso, alla ratio legis, che all’epoca della sua emanazione non conosceva la distinzione tra piccole e grandi imprese né le conseguenze sanzionatorie in caso di licenziamento illegittimo, poi introdotte dall’art. 18 l. n. 300/1970.
5.5. La giurisprudenza di merito
Di opposto avviso, rispetto all’interpretazione del Ministero del lavoro, si segnalano due ordinanze del Tribunale lavoro di Cremona, rispettivamente in data 8 aprile 2014 e in data
5 aprile 2014 (17). In entrambi i casi i Giudici di merito hanno rigettato il ricorso con cui i lavoratori avevano impugnato il licenziamento contestando il mancato esperimento della nuova procedura del CCNL, precisando che la stessa «è assolutamente equivalente, per finalità e modalità, a quella disciplinata dall’art. 7, comma 1 l. n. 604/1966, nel testo novellato dalla l. n. 92/2012». Nelle due ordinanze i Giudici non si sono peraltro interrogati se la procedura prevista dal contratto collettivo integrasse l’ipotesi delle
«condizioni più favorevoli» previste dall’art. 12 della l. n. 689/1966, ma è come se – indirettamente – ne avessero riconosciuto la riconducibilità, convenendo sul fatto che, in presenza di una procedura contrattuale come quella dell’art. 25 del CCNL delle Agenzie per il lavoro, non si ravvisa la necessità di una procedura “aggiuntiva” (ex art. 7 della l.
n. 604/1966) che andrebbe inevitabilmente (e inutilmente) a sovrapporsi alla prima, innestando (come sopra visto) possibili confusioni anche in relazione alla natura dell’accordo già raggiunto tra le parti con la partecipazione della Commissione Sindacale Territoriale (CST).
Meno chiara – ma ugualmente significativa – appare invece l’interpretazione adottata nell’ordinanza 2408 del 27/6/2016 dal Tribunale lavoro di Milano, in cui il Giudice milanese, pronunziatosi sul ricorso proposto da una lavoratrice dipendente di un’Agenzia che lamentava la non corretta applicazione della procedura negoziale ex art. 25 CCNL, ha riconosciuto l’insussistenza, sia al momento del recesso che nel corso della procedura, di offerte lavorative coerenti con il profilo professionale della ricorrente, sostenendo che
«la ratio dell’art. 25 del CCNL 2014 è quella di arginare il rischio che il licenziamento del lavoratore somministrato a tempo indeterminato non sia motivato da ragioni effettive». Aggiungendo che «l’ambiguità della procedura prevede anche la non obbligatorietà della stessa, dalla quale il CCNL fa discendere solo mere sanzioni economiche a carico della Apl». In sostanza, il Tribunale di Milano, pur non esprimendosi sulla natura e rilevanza giuridica della procedura contrattuale, ne ha sottolineato non solo l’alternatività al licenziamento rispetto a quella prevista dall’art. 7 della l. n. 604/1966, ma anche la sua importanza quale elemento decisorio e probatorio per dimostrare l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo, sottolineando che la sua assenza esporrebbe l’Agenzia a maggiori rischi di impugnazione.
5.6. L’obbligo del repéchage
La disamina che precede non può infine esimersi, prima di giungere alle conclusioni, da un passaggio sul tema del repéchage, dall’osservanza del quale obbligo non sono escluse le Agenzie per il lavoro. Sul punto si richiama la medesima sentenza della Suprema Corte Cass. 18 ottobre 2019, n.26607) già sopra citata e, in ogni caso, non si segnalano pronunzie giudiziarie contrarie.
Il repéchage, rappresenta infatti lo «scopo essenziale» della procedura prevista dall’art. 25 del CCNL delle Agenzie, ed obbliga il datore di lavoro a dar prova dell’impossibilità non solo di indirizzare il lavoratore verso una nuova missione, ma anche di poterlo adibire ad una mansione compatibile con il suo profilo professionale e coerente con il pregresso livello di inquadramento e categoria legale.
Secondo la più recente giurisprudenza, peraltro, al lavoratore competerebbe in tale ipotesi solo un mero dovere di «collaborazione», che si concreta nella segnalazione al datore di
(17) A. D’ASCENZO, Agenzie per il lavoro e licenziamenti, in Bollettino ADAPT, 18 luglio 2016.
lavoro della disponibilità, nell’impresa, di posti di lavoro compatibili con la professionalità acquisita, senza peraltro che detta collaborazione produca l’inversione dell’onere della prova, che resta a capo del datore di lavoro. (18)
Giova tuttavia notare che per un’Agenzia tale prova appare spesso “diabolica” e difficilmente affrontabile con i normali criteri utilizzati da qualsiasi altra azienda che deve cercare solo al proprio interno eventuali nuove occasioni; e comunque difficilmente accertabile se l’Apl dovesse prendere in considerazione tutte le “posizioni aperte”, spesso di breve durata, sull’intero territorio in cui opera (19).
La questione non è di scarso interesse, considerando che l’obbligo non riguarda solo le imprese sopra la soglia numerica dell’art. 18, l. n. 300/1970 ma anche quelle minori e che la più recente giurisprudenza di diritto ha stabilito che «in tema di licenziamento per GMO […] in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, ove non sia utilizzabile il criterio dell’impossibilità di repéchage, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede e, in questo contesto, l’art. 5 della
l. n. 223/1991 offre uno standard idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l’utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati» (20).
In tal senso, l’Agenzia dovrebbe verificare anche la sussistenza nel proprio organico, di posizioni «fungibili», immediatamente o a breve termine disponibili, occupate da altri lavoratori assunti ai fini della somministrazione di lavoro, applicando i criteri di scelta dell’art. 5, prima di procedere al licenziamento di un lavoratore per mancanza di occasioni di lavoro.
6. Conclusioni
«Le peculiarità del rapporto di somministrazione, riflesse nella disciplina dedicata all’istituto, rendono non agevole la ricostruzione della fattispecie del recesso per GMO esercitato dall’Agenzia per il lavoro, come sembra emergere dalle incertezze applicative rintracciabili, sul punto, nella giurisprudenza di merito». A queste conclusioni perveniva l’Estensore dell’interessante nota del 18 luglio 2016, riportata sul Bollettino ADAPT in pari data e già sopra richiamata.
A distanza di 5 anni le difficoltà e le incertezze permangono, nonostante l’intervento della Suprema Corte.
L’ambiguità è rappresentata dalla presenza, all’interno della procedura contrattuale, di elementi e di principi tipici dei contratti disciplinati dal codice civile (l’inadempimento, la novazione contrattuale, la diligenza professionale, il comportamento di buona fede) con elementi tipici del diritto del lavoro. Che spesso si accavallano e si elidono
(18) Cass. 5 gennaio 2017, n. 1609; Cass. 26 maggio 2017, n. 13379: «In ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombe sul datore di lavoro l’onere della prova dell’impossibilità di repéchage del lavoratore, il quale non ha invece alcun onere di allegazione di mansioni potenzialmente a lui assegnabili». Secondo la Cassazione, è contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri. Tale orientamento è, inoltre, coerente con il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
(19) In Guida alle paghe, febbraio 2006, a cura di X. XXXXXX. (20) Cass. n. 21438/2018.
vicendevolmente, con buona pace della specialità della norma lavoristica, ma che tuttavia richiamano l’attenzione dell’interprete in forza di quanto stabilito dall’art. 12 della l. n. 604/1966, che fa salve le condizioni più favorevoli previste dai contratti ed accordi collettivi.
In questo quadro, risulta difficile sostenere – sotto il profilo meramente di diritto – sia la sufficienza (e l’obbligatorietà) della procedura contrattuale sia la necessità di svolgimento della (ulteriore) procedura legale, e così pure l’alternatività delle due procedure, che nel caso di aziende minori comporterebbe l’applicazione tout court dell’art. 3 della l. n. 604/1966, escludendo qualsiasi procedura, con buona pace della previsione contrattuale. Quanto ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, esclusi per ius superveniens dall’applicazione della procedura ex art. 7, l. n. 604/1966, il tema si restringe quindi a quello della “obbligatorietà” (o meno) della procedura ex art. 25 CCNL rispetto alle altre forme di risoluzione stragiudiziale del rapporto di lavoro, e degli effetti del suo mancato (o irregolare) espletamento, nonostante la (carente) decisione della Corte Suprema (21). Accedendo all’ipotesi della “non obbligatorietà” (e conseguentemente del legittimo richiamo all’art. 12 della l. n. 604/1966), si potrebbero ritenere possibili anche altre forme di accordo raggiunte in sede protetta ai sensi degli art. 410 e 411 del c.p.c.
Le parti del rapporto di lavoro, per semplificare i tempi, potrebbero infatti formalizzare un accordo di risoluzione consensuale in sede sindacale o avanti all’Inl, stabilendo (ad esempio) un compenso/indennizzo per il lavoratore pari all’indennità di disponibilità, maggiorata di un importo corrispondente a quello della mancata erogazione del corso di aggiornamento/formativo.
Si tratterebbe in tal caso di un accordo di risoluzione consensuale che, in modo surrettizio, abbinerebbe presso l’unica sede “protetta” la procedura contrattuale e quella conciliativa, mettendo al riparo lavoratore e Apl da possibili contenziosi. In tal modo, tuttavia, il lavoratore non avrebbe diritto alla Naspi. A meno che l’Inps non riconosca a questa atipica forma di accordo conciliativo, un valore giuridico equivalente a quello del licenziamento per GMO che consegue all’esito (negativo) della procedura ex art. 25 CCNL, prendendo atto che la risoluzione del rapporto di lavoro è comunque di fatto involontario, potendo l’Agenzia dimostrare che la stessa avviene per (comprovata) mancanza di occasioni di lavoro. Una sorta di deroga al principio di “involontarietà del licenziamento” che darebbe diritto alla tutela del lavoratore, come peraltro già avviene in alcune ipotesi di licenziamento per GMO concordate col lavoratore a seguito di un accordo sindacale raggiunto ai sensi degli art. 4 e 24 della l. n. 223/1991.
Anche se sarebbe quantomai preferibile un richiamo in tal senso, da parte del Legislatore, nel corpo del d.lgs. n. 81/2015. A volte bastano due righe per risolvere il problema di centinaia di aziende e di milioni di lavoratori…
(21) A. D’ASCENZO, op. cit.: «Tuttavia, l’ambiguità della disciplina collettiva, in termini di conseguenze applicative, deriva dalla non obbligatorietà della procedura, la cui omissione non preclude all’Apl la possibilità di recedere direttamente dal rapporto, come sottolineato anche in giurisprudenza (“Tale procedura […], appare, nel caso di specie, correttamente applicata, fatta eccezione per gli aspetti del mancato formale invio alla lavoratrice dell’avviso di avvio della procedura e per l’omessa implementazione di percorso di riqualificazione che, tuttavia, in virtù di quanto si dirà, non possono inficiare la validità del licenziamento de quo”, ord. Trib. Milano n. 22702, del 24 luglio 2015)».