ROBERTO FIORI
4
Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato
Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxx J. du Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Giunti
Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxx
Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxx X. Xxxxxxxxxx
a cura di
Xxxxxxx Xxxxx
Estratto
Jovene Editore
2011
XXXXXXX XXXXX
BONA FIDES
FORMAZIONE, ESECUZIONE E INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO NELLA TRADIZIONE CIVILISTICA
(Parte seconda)
in ricordo di Xxxxxxxxx Xxxxxx
III.
IL MODELLO ROMANO: DALLE ORIGINI AL I SECOLO D.C.
1. Premessa.
Nella prima parte di questa ricerca1 abbiamo rilevato che è piut- tosto recente, nel diritto civile italiano, la valorizzazione della buona fede come parametro di individuazione di doveri contrattuali diversi da quelli espressamente previsti dalle parti e dalla legge. La reazione della dottrina a una affermazione particolarmente forte della Cassa- zione, che aveva ridotto la buona fede a una formula sostanzialmente retorica, ha determinato negli anni sessanta del Novecento, soprat- tutto sull’esempio del diritto tedesco, la rivalutazione del ruolo della nozione che è oggi in larga misura condivisa da dottrina e giurispru- denza.
La posizione della Cassazione non nasceva, naturalmente, dal nulla, ma riproduceva l’atteggiamento abbastanza ostile che aveva ca- ratterizzato la scienza giuridica e le corti europee nell’Ottocento. Sono problemi sui quali avremo modo di soffermarci nel prosieguo
1 Pubblicata in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto pri- vato, II, Napoli, 2006, 127 ss. Il riferimento in testo è alle pp. 172 ss.
della ricerca2, ma possiamo sin d’ora ricordare che la pandettistica te- desca si era alquanto disinteressata della buona fede cd. oggettiva, considerata una nozione etica sostanzialmente estranea alla dimen- sione giuridica, concentrandosi invece sulla buona fede possessoria3;e che anche in Francia e Italia si era giunti a sostenere che interpretare ed eseguire un contratto secondo buona fede significa interpretarlo ed eseguirlo in stretta aderenza all’accordo espresso dalle parti4.
2 Vi ho accennato in X. XXXXX, Storicità del diritto e problemi di metodo. L’esem- pio della buona fede oggettiva, in X. XXXXXXXX (a cura di), Scopi e metodi della storia del diritto e formazione del giurista europeo (Atti Padova 2005), Napoli, 2007, 36 ss. (che qui sostanzialmente riporto).
3 Al punto che le concrete esigenze della vita economica parrebbero essere state risolte dalla giurisprudenza passando per l’impiego dello strumento parzial- mente coincidente dell’exceptio doli: cfr. X. XXXXXXX, Dolo petit qui contra pactum pe- tat. Bona Fides und stillschweigende Willenserklärung in der Judikatur des 19. Jahrhun- derts, in «Ius Commune», IV, 1972, 177 ss.; ID., Alienatio convalescit. Contributo alla storia ed alla dottrina della convalida nel diritto dell’Europa continentale, Milano, 1974, 39 ss.; ID., Eccezione di dolo generale, in «Digesto4» (disc. priv. sez. civ.), VII, To- rino, 1991, 315 ss.; X. XXXXXXXXXX, Roman Law, Contemporary Law, European Law. The Civilian Tradition Today, Oxford, 2001, 86 ss. Sul silenzio della pandettistica è sufficiente rinviare a quanto scritto da X. XXXXXXXXX, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato dal codice Napoleonico al codice civile italiano del 1942, Mi- lano 1970, 111 ss., 132 ss., 177 ss.: al di là della nota controversia tra Xxxxx e Wäch- ter, che porterà ad una precisa distinzione tra buona fede cd. soggettiva e oggettiva, l’attenzione dei pandettisti è indirizzata essenzialmente alla buona fede possessoria. Questo stato di cose non muta nei primi anni successivi all’entrata in vigore del BGB, dove pure il legislatore inserisce i paragrafi sulla ‘Treu und Glauben’ (sulla cui formazione cfr. per tutti X. XXXXXXX, § 242, in X. xxx Xxxxxxxxxxx Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch12, Berlin 1983, 26 ss. [Rn. 15 ss.]), non immediatamente va- lorizzati dalla dottrina e dalla giurisprudenza fino al momento in cui la crisi econo- mica successiva alla prima guerra mondiale spingerà l’una e l’altra ad utilizzare il principio come clausola generale (anche) equitativa (cfr. per tutti la sintesi di X. XXXXXXXXXX - X. XXXXXXXXX, Good Faith in European Contract Law: Surveying the Legal Landscape, in X. XXXXXXXXXX - X. XXXXXXXXX [eds.], Good Faith in European Contract Law, Cambridge 2000, 20 ss.). In Francia la situazione è teoricamente mi- gliore, perché le regole di buona fede sono principi codificati, cosicché gli interpreti possono considerarle quale diritto positivo (non mi sembra fondata l’ipotesi di COR- RADINI, op. cit., 54 ss., di una netta opposizione della Scuola dell’esegesi: cfr. FIORI, Storicità del diritto e problemi di metodo. L’esempio della buona fede oggettiva, cit., 38 nt. 37), ma a partire dalla fine del secolo le conseguenze dell’impostazione positivi- stica appaiono maggiormente marcate, e le norme sulla buona fede e l’equità ven- gono sostanzialmente neutralizzate.
4 Cfr. per tutti CORRADINI, Il criterio della buona fede, cit., passim (ad es. 70 e 296).
Questa prospettiva è stata pienamente condivisa dalla romani- stica del Novecento. Innanzitutto, se si guarda ai manuali – che costi- tuiscono un genere letterario spesso (troppo) in ritardo rispetto agli sviluppi della ricerca – ci si avvede che al di là di un riferimento, per lo più insoddisfacente, ai iudicia bonae fidei, non si fa alcun accenno alla buona fede oggettiva come nozione, mentre ci si sofferma su quella soggettiva, proseguendo quel silenzio che aveva caratterizzato i manuali di Xxxxxxxx. Ma anche negli studi più specifici resta forte il legame con le impostazioni dell’Ottocento e in particolare con il dogma della volontà, pur entrato in crisi – salvo recenti reviviscenze – in sede di ricostruzione storica della concezione romana del con- tratto5. È emblematico al riguardo il fatto che ancora pochi anni or sono è stata riaffermata – da una voce autorevolissima, e dunque par- ticolarmente influente – l’impostazione corrente nella prima metà del secolo scorso di un originario valore della buona fede come ‘rispetto della parola data’, dal quale si sarebbe solo in seguito sviluppato quel significato di ‘correttezza’ che avrebbe permesso alla nozione di inter- venire sullo stesso accordo introducendo obblighi accessori e addirit- tura correggendo soluzioni non adeguate6.
5 Su questi problemi rinvio a quanto scritto in X. XXXXX, Ea res agatur. I due mo- delli del processo formulare repubblicano, Milano, 2003, 176 ss.; ID., Contrahere e sol- vere obligationem in Q. Xxxxx Xxxxxxx, in Fides humanitas ius. Studii X. Xxxxxxx, III, Napoli, 2007, 1955 ss.; ID., Contrahere in Labeone, in corso di pubblicazione negli scritti in onore di Xxxxxx Xxxxxxx. Non riesco a comprendere come X. XXXXXX, Buona fede ed equilibrio degli interessi nei contratti, in X. XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Studi X. Xxxxxxx, IV, Padova, 2003, 571 ss. possa definire ‘pandettistica’ la posizione di quegli studiosi come Xxxxxxx, Xxxxxxx, Bonfante che, reagendo al dogma della vo- lontà – questo sì pandettistico – rilevarono che il contratto romano si impernia più sul vincolo che sul consenso.
6 Cfr. in particolare Fr. XXXXXX, Prinzipien des römischen Rechts, Berlin, 1934, 151 ss., il quale sosteneva che la fides – che non si differenzierebbe dalla bona fides, trattandosi di costruzione tautologica (ibid., 154; l’idea è ripetuta in X. XXXX XXXXX- STA, La buona fede nel senatoconsulto Xxxxxxxxxxx, in XXXXXXXX [a cura di], Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., I, 489) – indicherebbe «die Bindung an das Wort, das Sichgebundenfühlen an seine Erklärung» (ibid., 151), rilevando che il principio era nei contratti tanto forte che in diritto romano non sarebbe possibile la risoluzione – i testi che ne parlano sarebbero interpolati: ibid., 153 s. Da questo valore primario si sarebbe sviluppato un significato secondario di ‘Redlichkeit’ come: «Treu und Glau-
La dottrina non riesce però a spiegare come, da un nucleo origi- nario coincidente con il rispetto della parola data, si siano potute svi- luppare funzioni che sembrerebbero a questo opposte, ossia la possi- bilità di integrare il contenuto del contratto al di là dei verba delle parti e addirittura di correggere l’accordo. Il che fa sorgere sin d’ora il dubbio che alla base di una simile interpretazione delle fonti romane possa esservi una sotterranea influenza di concezioni moderne.
Un primo obiettivo di questa ricerca sarà dunque di verificare sui testi se lo sviluppo immaginato dalla dottrina dominante sia effet- tivamente ipotizzabile.
Un secondo obiettivo è al primo strettamente connesso, e consi- ste nel determinare le funzioni della bona fides nell’esperienza ro-
ben mit Rücksicht auf die Verkehrsitte» (ibid., 154 s.) – la formula, a ben vedere, del
§ 242 BGB. Settant’anni dopo ritroviamo le medesime posizioni nel contributo, im- pressionante per dottrina e profondità, di X. XXXXXXXXX, La bona fides nei giuristi romani: ‘Leerformeln’ e valori dell’ordinamento, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., IV, 1 ss., per il quale la bona fides avrebbe avuto come
«compito originariamente più importante quello di imporre il rispetto della parola data» e a questo avrebbe solo gradualmente affiancato l’ulteriore funzione «di cor- reggere soluzioni non adeguate, di introdurre obblighi complementari», nella quale
«era decisivo il generale principio di correttezza nello svolgimento del rapporto» (la citazione è ibid., 186 s., ma è una ricostruzione che permea l’intero contributo). Cfr. anche X. XXXXXX, Zur Geschichte der Entstehung der bonae fidei iudicia, in «ZSS», XI, 1890, 184 ss.; S. CONDANARI-XXXXXXX, Über Schuld und Schaden in der Antike, in Scritti X. Xxxxxxx, XXX, Xxxxxx, 0000, 90 ss.; X. XXXXXX, Osservazioni sulla bona fides nel diritto romano obbligatorio, in Studi X. Xxxxxxx-Xxxx, X, Xxxxxx, 0000, 423 ss.; X. XXXX, Zu den Grundprinzipien der bona fides im römischen Vetragsrecht, in Aequitas und Bona fides. Festgabe X. Xxxxxxxx, Basel, 1955, 9 ss., spec. 14; X. XXXXXX, Fides bona, in AA.VV., Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 10 = Scritti, III, Roma, 2000, 204; X. XXXXX, Bona fides e ius gentium, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., II, 138 e 151 ss.; M. V. XXXXXX XXXXXXXXX, La buena fe en el ejer- cicio de los derechos y en el cumplimiento de las obligaciones desde la perspectiva del de- recho privado romano, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., III, 300 s.; X. XXXXXXXX, Fides bona e societas: una riflessione, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., III, 366 ss.; TAFARO, Buona fede ed equili- brio degli interessi nei contratti, cit., 570. In molti casi il valore della bona fides come rispetto della parola data viene inteso nel senso di una contrapposizione con il dolo, cui si sarebbe successivamente affiancato un più ampio dovere di correttezza: cfr. ad es. X. XXXXXX XXXXXXXXXX, La incidencia de la bona fides en el quantum indemniza- torio: a proposito de la responsabilidad del vendedor por los vicios o defectos ocultos, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., I, 143 e 145.
mana, per comprendere se davvero essa possa essere considerata al pari di una ‘Leerformel’, ossia di un criterio variabile – non solo nel tempo, ma anche nella medesima società – in relazione sia alle «diffe- renti valutazioni soggettive presenti nella società sulla buona fede e sulla correttezza, sia – oggettivamente – in funzione del mutare della concreta situazione, quando un identico comportamento si ponga in uno scenario complessivo diverso»7.
Ad altri problemi molto discussi in dottrina – come quello del rapporto con la fides arcaica; della natura etica o giuridica della no- zione; dell’origine pretoria o civile dei iudicia bonae fidei – potremo dedicare meno spazio, essendo già stati affrontati in altri lavori che saranno di volta in volta richiamati8.
2. Fides e bona fides9.
2.1. La fides arcaica. – Nel tentare di comprendere la natura e il ruolo della bona fides nell’esperienza giuridica romana è necessario tener presente il contesto culturale entro cui essa è stata elaborata, ve- risimilmente tra il IV e il III sec. a.C.
L’ipotesi al riguardo più probabile è infatti che il concetto di buona fede sia debitore, da un lato, dell’arcaica nozione giuridico-re- ligiosa di fides; dall’altro, del criterio del bonum.
7 TALAMANCA, La bona fides, cit., 19.
8 Per ragioni di spazio, si pubblica qui solo una prima parte della ricerca sulla bona fides nel diritto romano, dalle origini al I sec. a.C. È opportuno ulteriormente precisare che, in linea con una prassi sostanzialmente unanime, l’analisi è limitata agli usi della buona fede connessi con i iudicia bonae fidei, ossia a quella che nel di- ritto attuale viene denominata buona fede oggettiva. Infatti, per quanto non possa scartarsi l’ipotesi di una genesi comune delle due nozioni (cfr. infra, § 2.2), e benché le fonti romane non abbiano mai operato una distinzione teorica tra le due acce- zioni, restituendo anzi talora la sensazione che anche negli usi ‘oggettivi’ tendano a inserirsi sfumature ‘soggettive’, credo che nelle testimonianze della giurisprudenza romana le funzioni delle due accezioni di buona fede siano sufficientemente distinte da poter essere affrontate separatamente.
9 Nel presente paragrafo è in larga parte riassunto quanto scritto in X. XXXXX, Fides e bona fides. Gerarchia sociale e categorie giuridiche, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, III, Napoli, 2008, 237 ss., con alcune ag- giunte. Mi limito perciò ai riferimenti essenziali.
La nozione di fides è centrale nella rappresentazione arcaica del- l’ordine giuridico. Legata particolarmente a Iuppiter – che dell’ordine è rex – non solo nella veste divinizzata di Fides, ma anche in quell’e- piclesi antichissima di Giove rappresentata da Dius Fidius, essa ha la funzione di costituire, tra i membri del gruppo e nei rapporti inter- nazionali, rapporti diversi da quelli – quali ad esempio la gens o la fa- milia – che potremmo definire ‘naturali’.
Questa funzione viene adempiuta essenzialmente in due forme. In un primo senso, costituendo il parametro per relazioni codi-
ficate dai mores anche nel contenuto. Ne sono un esempio la clientela,
ossia il rapporto verticale tra un gentile detto patronus e non-gentili denominati clientes, i cui obblighi risultano fissati già in età antichis- sima, secondo le fonti all’epoca della fondazione della città. O ancora le associazioni aristocratiche tra gentiles denominate sodalitates, co- struite su un sistema di comportamenti di ‘fedeltà’ che in parte risale addirittura al passato indoeuropeo. Valenze ‘tipiche’ – che nelle epo- che successive si perpetuano nei rapporti internazionali come amici- tia, hospitium, ecc. – dove i doveri delle parti non discendono solo dalle specifiche promesse, ma sono soprattutto codificati nella prassi e ‘naturalmente’ richiamati dal ‘tipo’ di rapporto.
In un secondo senso, determinando vincoli non codificati nel contenuto dai mores, attraverso l’adozione di uno strumento ‘aperto’ come il giuramento, che permette di dar vita a un rapporto le cui re- gole sono dettate unicamente dai verba del giurante.
Questa duplicità di valenze ha determinato, in dottrina, altret- tante posizioni interpretative.
Gli autori più attenti alle risultanze delle fonti hanno ricono- sciuto la complessità del principio, tentando di ricondurre a unità le due valenze. Si è così ipotizzato che la prima fosse originaria, coinci- dendo la fides con il ‘potere’ di una parte sull’altra, che a tale potere si abbandonerebbe. Solo successivamente il rapporto si sarebbe trasfor- mato, giungendo a ricomprendere anche la ‘sottomissione virtuale’ di chi presta la fides, attraverso il valore impegnativo della parola10.
10 X. XXXXXXXX, Dalla fides alla bona fides, Milano, 1961, spec. 133 ss., seguito da X. XXXX, Aspekte der römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara,
Altri hanno concentrato la propria interpretazione solo sul rap- porto tra fides e giuramento – forse anche condizionati dal fatto che le fonti (al più) tardo-repubblicane a noi pervenute, scomparsi gli istituti del diritto arcaico, mettevano in risalto soprattutto questa fun- zione – e hanno rappresentato la fides essenzialmente come principio di vincolatività della parola data11.
Nessuna di queste spiegazioni appare però soddisfacente. Non la seconda, che evidentemente si basa su un’analisi incompleta dei testi. Ma neanche la prima, perché a ben vedere non è dato ravvisare alcun ‘potere’ in capo al patronus o al princeps della sodalitas o al tutor: un potere può talora accompagnarsi alla prestazione di fides, ma que- st’ultima non è in sé una nozione potestativa. Non si spiegherebbe, al- trimenti, perché nei mores predecemvirali non solo il cliente, ma an- che il patrono incorresse nella sanzione della sacratio quando avesse infranto la fides: non certo perché il cliente avesse un ‘potere’ nei con- fronti del patrono, ma in quanto la violazione della fides determinava in sé un illecito sanzionato dal ius12.
In realtà, per comprendere il valore della nozione di fides occorre
ricordare che essa svolge, linguisticamente, il ruolo di sostantivo del verbo credo13, che in senso proprio significa ‘compiere un atto di rico-
Xxxxxxx, 0000, 146 ss. Cfr. anche X. XXX XXXXXXX, Fides, in Atti del Congresso inter- nazionale di diritto romano, Roma, 1934, 135 ss. ed É. XXXXXXXXXX, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, 1976 (tit. or. Le vocabulaire des institutions indoeu- ropéennes, Paris, 1969), 88.
11 XXXXXX, Prinzipien, cit., 151 ss.; XXXXXX, Osservazioni sulla bona fides, cit., 423 ss.; XXXXXXXXX, La bona fides, cit., 40 nt. 129. Cfr. anche X. XXXXXXXXXX, Fides. Étude sémantique et religieuse depuis les origines jusqu’à l’époque augustéenne, Xxxxx, 0000, spec. 319 ss.
12 In realtà, la pena del sacer esto – che permette a chiunque, anche a soggetti sprovvisti di qualsiasi ‘potere’, di uccidere il reo – è verisimilmente stata utilizzata, in questo come in altri contesti, proprio per l’assenza di un potere coercitivo in capo alle parti del rapporto. Sulla sacratio come rimedio a ‘vuoti di potere’ cfr. X. XXXXX, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Na- poli, 1996, spec. 518 ss.
13 Cfr. per tutti X. XXXXX - J. B. XXXXXXX, Lateinisches Etymologisches Wörter- buch, I3, Heidelberg, 1954, 286 s.; X. XXXXXX - X. XXXXXXX, Dictionnaire étymologique de la langue latine4, Paris, 1959 (rist. 2001), 148 s.; X. XXXXXXX, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, I3, Tübingen-Basel, 1994, 117 e 580. Isolato A. PARIENTE, Sobre la etimología de ‘credere’, in «SDHI», XIX, 1953, 340 s. (cre¯dere < *cre¯ddere
noscimento delle capacità o del ruolo dell’altro (eventualmente nel- l’attesa di una remunerazione)’. La fides è la capacità di un soggetto di essere oggetto di un tale riconoscimento, il suo ‘credito’, la sua affida- bilità.
Naturalmente, ciò determina un valore sociale della nozione: in una società classista come quella romana, l’affidabilità di un soggetto si lega alle sue condizioni economiche e sociali. Ciò spiega sia il rap- porto spesso riscontrabile nei testi latini tra il termine fides e concetti come quelli di honor, decus, fama, dignitas, ecc.14, sia il fatto che la fi- des si caratterizza sin da età risalente per essere un attributo soprat- tutto della classe dirigente, dei boni (optimi, optimates), dei sani (sa- nates), dei fortes, dei probi. Nella cultura aristocratica delle origini, i ricchi e i potenti – non diversamente dagli ajgaqoiv greci – sono con- siderati maggiormente ‘affidabili’ sia per la loro possibilità di garan- tire protezione e tutela in misura maggiore dei deboli, sia per l’essere meno condizionabili, così da avere maggiore auctoritas, sia perché il bonus vir, per restare ‘affidabile’ agli occhi del gruppo, deve compor- tarsi in modo honestum, ossia in conformità a tutti i doveri di con- dotta che attengono al suo honos. Se non sarà ‘affidabile’, se non di- mostrerà di essere constans e gravis, diverrà inconstans ac levis: la vio- lazione della fides trasformerà il bonus e probus in malus et inprobus, ossia in un paria che non ha alcun credito. E data la necessaria corri- spondenza tra comportamento e status, la mancanza di fides determi- nerà anche una diminuzione socio-giuridica che potrà condurre ad- dirittura alla perdita di ogni diritto, alla ‘separazione’ (sacratio) dal gruppo: in una realtà come quella della Roma arcaica, in cui la cer- tezza dei rapporti giuridici dipende dalla loro ‘testificabilità’ e le atti- vità negoziali e processuali poggiano in larga misura sull’eteroga- ranzia, il possesso della fides è infatti essenziale alla sopravvivenza del soggetto nel gruppo, mentre l’improbitas determina come effetto l’im-
< *cre¯t[o˘]-dare: ‘dar en prestamo, dar prestado’). Non appaiono chiare le ragioni lin- guistiche che hanno indotto X. XXXXXXXX, Cenni bibliografici sulla bona fides, in AA.VV., Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 53, a qualificare come erronea l’ipotesi di un legame tra fides e credo.
14 Cfr. per tutti X. XXXXXXXXXXX’H, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la république2, Paris, 1972, 362 ss.; XXXXXXXXXX, Fides, cit., 41 ss.
possibilità di fornire prove a favore di terzi o di invocare l’intervento di xxxxx a prova del proprio interesse, coincidendo sostanzialmente con la morte civile15. D’altronde la stessa fraus16, tra i cui valori pri- mari sembra essere individuabile sin da età arcaica l’infrazione della fides17, non sembra avere alle origini alcuna connotazione sogget- tiva18, indicando in senso oggettivo l’effetto dannoso di un comporta- mento antigiuridico19. Questo valore si conserva ancora nelle fonti del I secolo a.C.20, e addirittura negli usi della giurisprudenza del princi-
15 FIORI, Fides e bona fides, cit., 242 ss.; ID. Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de officiis di Xxxxxxxx, Napoli, 2011, 112 ss.
16 Sulla nozione cfr. X. XXXXXX-X. XXXXX, Fraus, in «ZSS», LXIII, 1943, 117 ss.;
X. XXXXXXXX, Fraus legi, Milano 1983, 12 ss. (fraus nelle XII tavole); X. XXXXXX, Fraus, in «Enciclopedia Virgiliana» II, Roma 1985, 588 ss.
17 Cfr. ad es. Xxxx. Hal. 2, 10, 1 (prodosiva; cfr. anche Plut. Rom. 13, 7-8), e Serv. Aen. 6, 609 = tab. 8, 21 sulla fraus nel rapporto di clientela (sulla relazione tra la norma predecemvirale e quella delle XII tavole è da seguire X. XXXXXX, Patrono e cliente da Xxxxxx alle XII tavole, in Studi X. Xxxxxxxx, VI, Milano, 1987, 293 ss.; ID., Fraus, cit., 588 ss.); Gell. 20, 1, 49 = tab. 3, 6, sull’assenza di fraus in una distribu- zione non proporzionale dei brani del corpo dell’addictus diviso tra i creditori (cfr. anche Cass. Dio fr. 4, 17, 8 [XXXXXXXXXX, I2, 45] per il ius predecemvirale; sul rapporto tra le due norme cfr. FIORI, Homo sacer, cit., 255 ss.). Ancora più antica è la formula feziale contenuta in Liv. 1, 24, 5, che si inserisce all’interno del procedimento di un foedus (su cui cfr. per tutti A. CALORE, Per Iovem Lapidem. Alle origini del giuramento, Milano, 2000, 40 ss.). Altri testi sono raccolti da XXXXXX - XXXXX, Fraus, cit., 169 ss. Non parrebbero essere riferibili alla fides Cic. leg. 2, 60 = tab. 10, 8 (relativo a norme suntuarie) e Cic. leg. 2, 60 e Plin. nat. hist. 21, 3, 7 = tab. 10, 7 (in cui non è certa la presenza del termine).
18 Un primo dato di ‘soggettività’ è riscontrabile nella lex de vere sacro vovendo
riportata da Xxx. 22, 10, 5 al 217 a.C. (ma la formula potrebbe essere più antica), in cui però l’affermazione si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto conserva l’uso di fraus nel senso di danno, non sembrando implicare un rapporto necessario tra la scientia (da intendere come dolo: cfr. M. F. CURSI, Iniuria cum damno. Antigiuridicità e colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano, 2002, 279 nt. 21) e la fraus (nel senso che la fraus sia non il generico danno ma quello causato con dolo).
19 Non sarei d’accordo con XXXXXX - XXXXX, Fraus, cit., 135, nel parlare di ge-
xxxxxx «Rechtsbruch», e non ancora di «Strafe oder Schaden»: la violazione è per lo più descritta nelle fonti come fraus nei confronti di qualcuno, il che va al di là della generica antigiuridicità, implicando un riferimento al soggetto che la subisce e ne è danneggiato (i due autori ritengono il dato irrilevante – cfr. ibid., 136 – ma cfr. XX- XXXX - XXXXXXX, Dictionnaire4, cit., 252).
20 Le fonti sono state raccolte da XXXXXX - XXXXX, Fraus, cit., 123 ss.
pato21. L’evoluzione verso una parziale sinonimia con il dolo è lenta, e passa per una fase in cui il danno indicato con fraus si lega sempre più a termini come consilium, scientia, dolus malus22.
Dato il valore ‘sociale’ della fides, il suo impiego nella costruzione di rapporti socio-giuridici riconosciuti dal gruppo al di là dei legami gentilizi e familiari (clientela e sodalitas) appare ovvio. Ma si chiarisce anche il legame tra fides e giuramento.
Il ius iurandum è infatti vincolante non perché la parola data (intesa come manifestazione di volontà del giurante) abbia valore in sé, ma perché essa deve essere informata – per usare le parole di Cice- rone – alla constantia (nei giuramenti promissori) e alla veritas (nei giuramenti assertori)23, ossia a qualità del vir bonus come persona ‘af- fidabile’. Per comprendere il rapporto tra fides e giuramento occorre infatti ricordare che alle origini la veritas cui il ius iurandum deve es- sere informato è una verità ‘cosmica’: nel pensiero arcaico la verità è il principio di corrispondenza tra il detto (o il fatto) e il mondo ordi- nato secondo giustizia, al punto che le radici dei termini latini verum e fides ricorrono in altre lingue ad indicare il giuramento o il com- portamento conforme all’ordine cosmico. Le parole e i comporta- menti del bonus vir devono essere conformi al verum, perché la falsità è un atto caotico che mette in crisi l’ordine cosmico, su cui poggia an- che lo status del giurante24.
2.2. L’origine della bona fides. – La capacità della fides arcaica di indicare il concreto ‘credito’ di ogni singolo soggetto all’interno del gruppo, in stretta connessione con il suo status, discende dal fatto che essa opera in una comunità circoscritta nella quale lo status e dunque la fides di ciascuno sono noti, chiari e definiti.
Quando però Roma si apre al confuso e mutevole mondo dei mercati e dei traffici internazionali, i rapporti si realizzano tra per- sone che – non appartenendo alla medesima comunità – non hanno contezza l’uno del ‘credito’ dell’altro. È possibile allora che la prassi
21 Fonti in KRÜGER - XXXXX, Fraus, cit., 140.
22 XXXXXX - XXXXX, Fraus, cit., 149 ss., 154 ss.
23 Cic. off. 1, 23.
24 FIORI, Fides e bona fides, cit., 246 s.; ID., Bonus vir, cit., 84 xx., 00 xx. x 000 xx.
xxxxxxxxxxx xxxxx sviluppato, e che il pretore romano abbia adottato
– ma è verisimile anche il contrario, così come è probabile che la no- vità sia stata introdotta, per il tramite del pretore, su impulso dei giu- risti – un parametro oggettivo, astratto, desunto dall’esperienza ro- mana ma imposto anche agli stranieri che avessero chiesto una tutela entro la iurisdictio del pretore romano.
Questo parametro astratto è una fides fittizia, convenzionale,
svincolata dalla realtà concreta delle parti del rapporto, delle quali non si verifica – non può verificarsi – lo status, l’affidabilità. Si ri- chiama piuttosto un paradigma comportamentale espresso dalla fi- gura del bonus vir25. Nasce così una peculiare forma di fides, la bona fides26, che – è bene ricordarlo – non si sostituisce del tutto alla fides, ma interviene quasi unicamente nel contesto del diritto privato27, e anzi nel solo àmbito processuale dei iudicia bonae fidei28 – dei giudizi cioè in cui, come vedremo, il giudice doveva tener conto del principio della buona fede cd. ‘oggettiva’ – dai quali verisimilmente discende anche la buona fede cd. ‘soggettiva’29.
25 Cfr. in questo senso già XXXXXX, Zur Geschichte der Entstehung der bonae fi- dei iudicia, cit., 177; A. PERNICE, Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Xxxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxxx0, XX.0, Xxxxx, 0000, 170 s.; X. XXXXXX, Fides als schöpferisches Element im römischen Schuldrecht, in Festschrift X. Xxxxxxxxx, Weimar, 1939, II, 6 s.; LOM- BARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 181; M. J. XXXXXXXXXX, Bona fides in Roman Contract Law, in XXXXXXXXXX - XXXXXXXXX (eds.), Good Faith in European Contract Law, cit., 82.
26 Non mi sembra giustificata l’ipotesi di XXXXXX, Zur Geschichte der Ent- stehung der bonae fidei iudicia, cit., 170 ss., che si sia passati da una originaria fides bona (in cui l’aggettivo sarebbe stato sostanzialmente superfluo, posto che la fides, pur essendo tendenzialmente vox media, senza aggettivi avrebbe avuto valore posi- tivo) alla bona fides, nella quale si indicherebbe una vera e propria specificazione del concetto di fides. Non è dato infatti notare nelle fonti una evoluzione cronologica nella posizione dell’aggettivo.
27 È un po’ forzato sostenere che la bona fides «non ricorre altrove nell’intera letteratura latina», se non nelle testimonianze relative alle formule, come sostiene XXXXXXXX, Dalla fides alla bona fides, cit., 179 (il giudizio è parzialmente mitigato ibid., nt. 34), benché nelle altre fonti siano usi effettivamente solo avverbiali: cfr. X. XXXXXXXX, Fides, in Thesaurus linguae Latinae, VI.1, Leipzig 1913, 680 s.
28 Le poche evenienze esterne a questo àmbito sono raccolte e discusse da TA-
LAMANCA, La bona fides, cit., 283 ss.
29 Xxx resta fuori dalla nostra indagine: chi scrive ritiene verisimile lo sviluppo prospettato da LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, cit., 209 ss.
Da quanto detto sinora risulta peraltro verisimile che – contra- riamente a quanto in genere si ritiene – la genesi della bona fides debba essere rintracciata interamente nel ius civile, e più specifica- mente in quella parte del ius civile che sin da epoca risalente era aperta agli stranieri, il ius gentium: l’origine pretoria del ius gentium e dei iudicia bonae fidei non risulta infatti da alcuna fonte ed è il risul- tato della proiezione, sulla realtà romana, delle concezioni positivisti- che degli interpreti30.
Ma quali sono le ragioni della nascita di questa nuova nozione e di un tipo di processo formulare imperniato su di essa al punto da determinare la nascita di una opposizione tra iudicia in cui il giudice può tener conto della buona fede (iudicia bonae fidei) e iudicia – in- dividuati residualmente – in cui gli è interdetto (iudicia stricti iuris)? Come abbiamo detto, è stato autorevolmente sostenuto che il nucleo primigenio e fondamentale della buona fede risiederebbe nel ‘rispetto della parola data’, ponendosi così in un rapporto privilegiato con l’affermazione del consenso in àmbito contrattuale, essendosi svi- luppato solo successivamente un suo valore come strumento di inte- grazione e correzione del contenuto contrattuale31. Tuttavia – al di là di quanto emergerà dall’analisi dei frammenti dei prudentes – pos- siamo osservare sin d’ora che una simile ipotesi è estremamente pro-
blematica.
In primo luogo abbiamo avuto modo di rilevare32 che già la fides arcaica costituiva un parametro di riferimento per doveri oggettiva- mente presenti nel rapporto, a prescindere dalla loro esplicitazione, cosicché è piuttosto improbabile che la bona fides abbia prima perso e poi recuperato una simile funzione.
In secondo luogo i iudicia bonae fidei non sono circoscritti alle
obligationes consensu contractae, comprendendo anche rapporti come
30 X. XXXXX, Ius civile, ius gentium, ius honorarium: il problema della ‘recezione’ dei iudicia bonae fidei, in «BIDR», CI-CII, 1998-1999, 165 ss.; ID., Ea res agatur, cit., 221 s.; ID., Storicità del diritto e problemi di metodo. L’esempio della buona fede ogget- tiva, cit., 26 ss.; ID., Fides e bona fides, cit., 252 ss.
31 Cfr. supra,§ 1.
32 Cfr. supra, § 2.1
la tutela e la negotiorum gestio e alcune obligationes re contractae33, e potendo riferirsi anche a rapporti atipici tutelati con un agere prae- scriptis verbis la cui intentio si riferisse a un oportere ex fide bona. In quest’ultimo caso, in particolare, ci si dovrebbe chiedere perché, nel lavoro compiuto dalla giurisprudenza per riconoscere una protezione ai contratti atipici, la bona fides non sia mai richiamata dai giuristi come criterio fondante34, e per quale ragione il rapporto (che si sup- pone) privilegiato tra buona fede e consenso non abbia condotto al riconoscimento di una immediata tutela ai contratti atipici, basata sul semplice consenso35.
In realtà, tra la bona fides e il consenso non può esservi, in diritto
romano, alcun rapporto privilegiato. La concezione romana del con- tratto è infatti basata non sul consenso, ma sul vincolo obbligatorio: è contractus – ricevendo tutela in via di azione – non ogni pactum, ma solo l’accordo che cada in un oportere tipico, cosicché ai fini dell’iden- tificazione della categoria ‘contratto’ non rileva tanto la prestazione del consenso quanto l’obbligazione, la quale nasce non solo consensu, ma anche re, verbis o litteris36.
33 Al riguardo, non mi sembra sufficiente sostenere che queste avrebbero avuto inizialmente una tutela estranea alla bona fides, mediante formulae in factum (TALA- MANCA, La bona fides, cit., 61 ss.), perché occorrerebbe comunque spiegare la ragione per cui, a un dato momento, si sia ritenuto di tutelare anche queste con formule ispirate al principio della buona fede – ossia, secondo l’ipotesi qui criticata, al prin- cipio della vincolatività dell’accordo – senza trasformare il rapporto in consensuale. Rispetto ad altri rapporti, e in generale sulla questione dell’elenco dei iudicia bonae fidei cfr. per tutti ID., Processo civile (diritto romano), in «ED», XXXVI, Milano, 1987, 64 nt. 457.
34 Lo riconosce lo stesso XXXXXXXXX, La bona fides, cit., 53 ss.
35 Per superare questo ostacolo non basta affermare che il pretore e i giuristi avrebbero trovato nella tipicità contrattuale un limite alla portata del principio della buona fede, non riconoscendo carattere vincolante a qualsiasi assetto d’interessi su cui fosse caduto l’accordo delle parti (TALAMANCA, La bona fides, cit., 66 s.), perché il punto è proprio questo: per quale motivo, disponendo di una categoria come la buona fede, capace di dar vita a un oportere che si sostiene nascerebbe dal solo con- senso, la tipicità contrattuale avrebbe resisitito alla nascita di una categoria generale di contratto-accordo? Sul mio dissenso dall’ipotesi di una concezione labeoniana del contratto (anche atipico) basata sul mero consenso cfr. FIORI, Contrahere in Labeone, cit.
36 Cfr. anche infra, § 5.1.
La genesi della buona fede deve dunque essere stata determinata da altri fattori, e a mio avviso è possibile formulare ipotesi solo te- nendo conto dei rapporti in cui essa rilevava e della loro costruzione nel diritto arcaico.
Nella prima formazione economico-sociale del diritto privato romano37, i rapporti che in seguito saranno tutelati dai iudicia bonae fidei rilevavano nel ius Quiritium – l’unico diritto tutelato processual- mente – solo quando versati in negozi formali quali la mancipatio e la sponsio. La mancipatio creava però situazioni di potere su persone e cose, ma non vincoli di natura obbligatoria: l’emere, il vendere, il lo- care (forse il conducere)38 costituivano la ‘causa’ della mancipatio – che verisimilmente emergeva grazie alle nuncupationes – ma il negozio formale aveva solo lo scopo di dar vita al mancipium attraverso il quale l’acquirente o il conduttore potevano esercitare il loro potere, definitivo o temporaneo, sulla persona o sul bene. Un vincolo obbli- gatorio nasceva solo dalla sponsio, ossia dalla promessa formale di un dare o facere: attraverso due promesse correlate – e la prassi si man- terrà ancora in età classica – era possibile anche dare forma giuridica a rapporti di scambio, ma le prestazioni delle parti restavano giuridi- camente divise, in quanto ciascuna faceva capo a una distinta obliga- tio e a un proprio negozio. Non era pertanto possibile tener conto di fenomeni che interferivano con il bilanciamento tra le prestazioni: la riduzione o il venir meno dell’una non avevano effetti sull’altra.
Se ci volgiamo ai rapporti certamente tutelati da iudicia bonae fi- dei sin da epoca repubblicana, è agevole rilevare che essi attengono tutti a rapporti obbligatori – contrattuali e non – di scambio, associa- tivi, o che comunque prevedono una almeno possibile duplicità di obbligazioni: emptio venditio e locatio conductio sono contratti di scambio; la societas è un contratto associativo; mandato, deposito, co- modato, negotiorum gestio e tutela sono rapporti imperfettamente bi- laterali. In questi rapporti, a differenza di quanto avveniva nella (du-
37 Impiego le categorie di X. XXXXXX, Diritto privato economia e società nella sto- ria di Roma, I3, Napoli, 2006, 7 ss.
38 Sull’esistenza di questa terminologia già in età arcaica cfr. X. XXXXX, La defi- nizione della locatio conductio. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Xx- xxxx, 0000, 00 xx.
xxxxx) sponsio, l’obligatio è una: come si è detto, in diritto romano non trova spazio la concezione moderna del contratto come accordo che produce, quali effetti, le obbligazioni, ma il contrahere è semplice- mente il modo in cui l’obligatio nasce. Una compravendita – per fare un esempio – non è perciò un ‘contratto’ produttivo di due obbliga- zioni reciproche, ma una obligatio contracta entro cui coesistono due prestazioni: non a caso Labeone, nel descriverla, parla di ultro citroque obligatio al singolare39.
L’unicità dell’obligatio fa sì che il giudice possa tener conto non solo delle singole prestazioni, ma anche del loro coordinamento: egli è infatti chiamato a valutare l’oportere ex fide bona, e dunque a giudi- care quanto sia dovuto in relazione all’obligatio, tenendo conto del complesso delle posizioni delle parti. Di qui l’opponibilità della com- pensazione, la possibilità di riequilibrio del sinallagma, ecc.
La causa più probabile della genesi della bona fides è dunque a
mio avviso da rintracciare nella necessità, emersa in primo luogo nei commerci internazionali, di tener conto della logica complessiva del negozio in fase di giudizio40. Il che, ancora una volta, si pone in linea con quanto abbiamo già rilevato circa la verisimile originarietà della funzione della buona fede di valorizzazione di regole ‘naturalmente’ presenti nel negozio. La parola data, al contrario, non dovette avere rilievo nella genesi della categoria dei iudicia bonae fidei: il giudice non può integrare il rapporto con i doveri tipici del negozio quando il contenuto del contratto è interamente assorbito dai verba; questi dovranno essere rispettati in considerazione della fides che anima il rapporto, ma la valutazione dell’oportere non sarà ex fide bona. Non a caso, il contratto maggiormente vicino allo schema della promessa o del giuramento, e cioè la sponsio-stipulatio, era tutelata in iudicia stricti iuris41.
39 Cfr. FIORI, Contrahere in Labeone, cit.
40 Mi sembra che una proposta analoga sia avanzata da XXXXXXXXXX, Bona fi- des, cit., 83.
41 L’isolata testimonianza in senso contrario della lex Rubria, ll. 25 ss. e 36 ss. sembra avere carattere eccezionale: cfr. per tutti X. XXXXXXXX, Zur Ursprung der bonae fidei iudicia, in «ZSS», LXXX, 1963, 15 ss.
3. La buona fede formativa tra il II e il I sec. a.C. a) Q. Mucio Scevola e la bona fides come strumento di (sostanziale) annullamento del contratto.
Tra le più antiche testimonianze in materia di buona fede ricon- ducibili a un giurista può essere annoverata la clausola inserita da Q. Xxxxx Xxxxxxx – come elaborazione personale o come recezione da altri editti – nel proprio editto provinciale del 94 a.C. La clausola, po- sta a favore del convenuto, è riferita da Xxxxxxxx00:
Cic. Att. 6, 1, 15: EXTRA QUAM SI ITA NEGOTIUM GESTUM EST UT EO STARI NON OPORTEAT EX FIDE BONA
Le caratteristiche certe della clausola, desumibili dal suo tenore letterale, sono le seguenti:
a) determinati comportamenti di una parte facevano venir
meno l’oportere;
b) i comportamenti dovevano essere contrari a buona fede: è sulla base della fides bona che si valuta se non è necessario (oporteat) essere vincolati (eo stari) al negozio;
c) i comportamenti potevano riguardare ogni fase del negozio, dalla formazione all’esecuzione, posto che l’espressione negotium ge- stum non può essere circoscritta all’una o all’altra fase: ne è dimostra- zione il fatto che altri strumenti costruiti sul gestum – o sul factum, in un senso sostanzialmente sinonimico43 – come l’actio de dolo e l’actio quod metus causa44 potevano essere usati in entrambe le ipotesi45,e che
42 Per un esame maggiormente accurato della clausola rinvio a FIORI, Ea res agatur, cit., 28 ss.e soprattutto a ID., Eccezione di dolo generale ed editto asiatico di Xxxxxx Xxxxx: il problema delle origini, in X. XXXXXXXX (a cura di), L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 2006, 49 ss.
43 Non mi sembra possano riscontrarsi differenze nell’uso delle due espres- sioni, almeno limitatamente al loro impiego rispetto ai due editti citati. Nell’actio metus, la clausola edittale impiega gestum (Ulp. 11 ad ed. D. 4, 2, 1), ma cfr. factum in Ulp. 11 ad ed. D. 4, 2, 7 pr.; allo stesso modo, nell’actio de dolo e nell’exceptio doli il testo edittale usa factum (Ulp. 11 ad ed. D. 4, 3,1 pr.e Ulp. 76 ad ed. D. 44, 4, 2, 1), ma cfr. gestum in Lab. ad ed. fr. 185 LENEL = Ulp. 76 ad ed. D. 44, 4, 4, 13.
44 Cfr. gli editti in X. XXXXX, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wie- derherstellung3, Leipzig, 1927, 110 ss. e 114 ss.
45 Per un caso di actio de dolo relativa alla fase formativa del rapporto, cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4, 3, 7 pr. (su cui cfr. per tutti M. F. CURSI, L’eredità dell’actio de dolo e il
anche i iudicia bonae fidei classici non distinguevano tra i comporta- menti sulla base del momento in cui erano stati posti in essere.
Molto più dubbia è la natura e l’operatività della clausola.
A mio avviso l’ipotesi generalmente seguita, che questa clausola fosse inserita in un iudicium stricti iuris, non può essere condivisa. Poiché in essa si chiedeva al giudice di valutare l’oportere in relazione alla fides bona, il suo inserimento avrebbe inevitabilmente trasfor- mato l’oportere semplice contenuto nell’intentio del iudicium stricti iuris in un oportere ex fide bona, e dunque il iudicium stesso in un iu- dicium bonae fidei. Ma noi sappiamo che Q. Xxxxx aveva elaborato – in parte recependola dagli editti dei pretori, in parte verisimilmente integrandola46 – una lista dei iudicia bonae fidei47 che sarebbe stata del tutto inutile se ogni iudicium, con la semplice inserzione di una ex- ceptio, avesse potuto divenire bonae fidei: in realtà la distinzione con i iudicia stricti iuris doveva essere netta già in quest’epoca, e – come av- verrà anche in seguito – impostata unicamente sulla costruzione del- l’intentio. Non è dunque pensabile che fosse permesso al convenuto di chiedere al giudice di valutare qualunque pretesa dell’attore – anche quando formulata in un iudicium stricti iuris – sulla base del parame- tro della buona fede.
Tuttavia è impossibile non notare che la clausola appare incom- patibile anche con la struttura dei iudicia bonae fidei di età classica: essa infatti, consistendo nella richiesta al giudice di verificare l’insus- sistenza di un oportere ex fide bona, costituisce un doppione della ri-
problema del danno meramente patrimoniale, Napoli, 2008, 71 ss.); per la fase esecu- tiva, cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4, 3, 7, 3 (su cui cfr. ancora CURSI, op. cit., 61 ss.). Per una ipotesi di actio quod metus causa relativa alla formazione del rapporto cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4, 2, 9,7 (stipulatio estorta per vim); all’esecuzione del rapporto cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4, 2, 9,3 (stipulatio cui non segue il pagamento).
46 Lo dedurrei dall’uso del verbo existimare nel passo citato alla nt. seg.
47 Q. Muc. [inc. sed.] iur. civ. fr. 5 (XXXXXX, X, 102) = Cic. off. 3, 70: Q. quidem Xxxxxxxx, pontifex maximus, summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in qui- bus adderetur EX FIDE BONA, fideique bonae nomen existimabat manare latissime, idque versari in tutelis, societatibus, fiduciis, mandatis, rebus emptis, venditis, conductis, lo- catis, quibus vitae societas contineretur; in iis magni esse iudicis statuere, praesertim cum in plerisque essent iudicia contraria, quid quemque cuique praestare oporteret. Il passo deve essere letto nel contesto del discorso di Xxxxxxxx: cfr. FIORI, Bonus vir, cit., 333 ss.
chiesta di assoluzione del convenuto contenuta nel si non paret absol- xxxx. L’unico modo di darle un senso è di collocarla in quella che, a mio avviso, è la probabile struttura delle formule poste a tutela di iu- dicia bonae fidei in età repubblicana. In quest’epoca, infatti vi erano verisimilmente due distinti modelli di processo formulare48.
Il primo modello – che risulterà vincente, nel senso che ad esso si uniformerà il processo del principato – era rappresentato dalle for- mule con intentio al si paret, ed era caratterizzato dalla promessa del convenuto, effettuata nella litis contestatio, di pagare una somma cor- rispondente al valore della questione in caso di soccombenza e dalla conseguente possibilità per il giudice di confermare o vanificare tale promessa (condemnare o absolvere). Il convenuto poteva controbilan- ciare la propria promessa non solo chiedendo al giudice di verificare l’infondatezza delle asserzioni dell’attore nella clausola finale si non paret absolvito, ma anche opponendo elementi aggiuntivi in una clau- sola, l’exceptio, inserita immediatamente prima della richiesta di con- danna / assoluzione, come condizione negativa della condanna49.
Il secondo modello – proprio delle formule con demonstratio, in un’epoca in cui non era ad esse ancora aggiunta la clausola finale si non paret absolvito – era invece contraddistinto dal fatto che, nella for- mula, il convenuto fingeva di confessare l’esistenza della pretesa at- trice. Contemporaneamente, però, in una clausola scritta prima della formula (praescriptio pro reo), era inserita una condizione negativa dell’intero procedimento50: qualora il giudice avesse ritenuto fondata la praescriptio, avrebbe dovuto far finta di non essere stato investito del giudizio e dunque non avrebbe potuto condannare il convenuto; qualora invece l’avesse ritenuta infondata, avrebbe dovuto conside-
48 È questa l’ipotesi che formulo in FIORI, Ea res agatur, cit.
49 Il modello era dunque: ‘se sembra X [intentio] tranne che Y [exceptio] … si condanni, se non sembra si assolva [condemnatio]’.
50 La mia ipotesi si fonda sul regime della praescriptio pro reo così come rico- struito da X. XXXXXXX, Praescriptio und bedingter Prozess, in «ZSS», XXXIII, 1912, 81 ss. e quasi universalmente accettato. Questa ricostruzione è stata di recente criticata da X. XXXXXXX, Ricerche in tema di praescriptio, Torino, 2008, 24 ss., con argomenti che non mi appaiono convincenti, ma che in questa sede è impossibile discutere adeguatamente. Xxxxxx, per la critica, a un lavoro in corso di elaborazione.
rare le dichiarazioni delle parti come una confessio in iure del conve- nuto e dunque condannarlo51.
La praescriptio pro reo, dunque, non svolgeva una funzione ana-
loga solo all’exceptio, ma anche al si non paret absolvito: essa poteva contenere non solo fatti aggiuntivi alla mera negazione della pretesa dell’attore (come l’exceptio) ma anche contestare in radice la sua pre- tesa (come faceva il si non paret absolvito). Tuttavia, poiché in caso di fondatezza della praescriptio non si perveniva all’assoluzione, ma solo a una non-condanna del convenuto non ritenendosi effettuata la litis contestatio, non operava alcuna preclusione processuale: l’accerta- mento del giudice della circostanza che il negotium non poteva rite- nersi vincolante, non si traduceva in una dichiarazione paragonabile all’annullamento o alla risoluzione del contratto, ma consisteva uni- camente nell’eliminazione del suo rilievo processuale (nel giudizio in corso).
È a mio avviso proprio con la praescriptio pro reo – più che con l’exceptio delle formule al si paret – che deve essere identificata la clausola muciana: essa non subordinava la pretesa dell’attore a una condizione differente da una mera negazione della stessa, ma con- trapponeva frontalmente, alla pretesa di oportere ex fide bona, la ri- chiesta rivolta al giudice di verificare se il negozio fosse ex fide bona vincolante52.
51 Il modello era dunque: ‘si consideri esperita l’azione tranne che Y [prae- scriptio]. Poiché X [demonstratio] a tutto ciò che è dovuto dare o fare [intentio] si condanni [condemnatio]’. La praescriptio svolgeva sia la funzione dell’exceptio che del si non paret absolvito. Questo secondo modello – che mancava della clausola assolu- toria – era stato probabilmente concepito al fine di dare una protezione civilistica a fattispecie che non si poteva o non si voleva tutelare mediante le legis actiones,e in- nanzitutto ai iudicia bonae fidei: il giudice delle formulae, la cui sentenza non avrebbe potuto, in quest’epoca, avere effetti civilistici, formalmente non giudicava, ma si limitava a prendere atto della confessione del convenuto e a quantificare il do- vuto; gli effetti civilistici della sentenza in tal modo non derivavano da un vero e proprio iudicium ma – secondo le regole delle legis actiones – dalla confessio in iure. 52 Essenzialmente per ragioni di sostanza, dunque, ritengo che la clausola mu-
xxxxx debba essere interpretata come praescriptio, benché Xxxxxxxx la chiami excep- tio. Il dato terminologico non deve infatti a mio avviso essere sopravvalutato, attri-
buendo a ciascuna espressione un valore tecnico circoscritto, come invece fanno al- cuni autori (cfr. da ultimo XXXXXXX, Ricerche in tema di praescriptio, cit., 42 ss., con
La peculiare operatività della praescriptio impedisce di attribuire alla buona fede contenuta nella clausola di Q. Mucio una funzione di annullamento o risoluzione del contratto: poiché il convenuto non viene assolto, ma solo non-condannato, e l’attore può ripresentare l’a- zione, la verifica della non vincolatività dell’oportere ex fide bona con- duce unicamente alla irrilevanza processuale del contratto. Ma essa contribuisce egualmente a chiarire il valore dell’absolutio contenuta nella formula classica dei iudicia bonae fidei. Infatti, allorché a seguito della votazione della lex Aebutia, tra la fine del II sec. e l’inizio del I sec. a.C., iniziò un graduale processo di assorbimento del secondo modello processuale nel primo, si inserì nella condemnatio delle for- mule con demonstratio la conclusione si non paret absolvito, e così la clausola di Q. Mucio divenne inutile53. Il si non paret absolvito – come avveniva per la praescriptio muciana – si legava però strettamente al- l’intentio, nel senso che si chiedeva al giudice di valutare se vi fosse o meno un oportere ex fide bona: il giudice poteva decidere se il negozio fosse o meno vincolante tenendo conto della buona fede. Quest’ul- tima dunque non solo costituiva il parametro per valutare in positivo la pretesa dell’attore contenuta nell’intentio, ma svolgeva anche la funzione di ‘limite’ all’autonomia privata che la dottrina ha attribuito
indicazioni bibliografiche), a fronte dell’impossibilità tecnica di concepire una ex- ceptio di buona fede, che sarebbe stata inutile in un iudicium bonae fidei e inammis- sibile in un iudicium stricti iuris (che altrimenti sarebbe divenuto bonae fidei): ho sviluppato l’argomento – anticipato in FIORI, Ea res agatur, cit., 35 ss. – in FIORI, Ec- cezione di dolo generale ed editto asiatico di Xxxxxx Xxxxx, cit., 49 xx. x xxxx. 00 xx. (xxx Xxxxxxx non conosce). La clausola muciana ben poteva essere – in quanto espressione della difesa del convenuto, ossia di un excipere – una exceptio in senso sostanziale e una praescriptio in senso formale, ossia una clausola a favore del conve- nuto scritta prima della formula. Per gli stessi motivi non ritengo che la clausola po- tesse costituire un antecedente storico dell’exceptio doli: cfr. FIORI, Ea res agatur, cit., 35 ss. e ID., Eccezione di dolo generale ed editto asiatico di Xxxxxx Xxxxx, cit.
53 Su questo passaggio, e sul ruolo della lex Aebutia, cfr. FIORI, Ea res agatur, cit., 242 ss. La praescriptio non sparì, ma si trasformò in exceptio tutte le volte in cui non corrispondeva – come invece la clausola muciana – ad una semplice negazione delle pretese dell’attore. In questo caso, però, potevano essere utili solo eccezioni che andassero al di là delle regole di buona fede, posto che queste erano ‘naturalmente’ prese in considerazione a favore del convenuto in virtù del raccordo tra intentio e clausola assolutoria.
alla buona fede nell’odierno diritto civile54: un comportamento con- trario a buona fede poteva anche far venir meno l’oportere.
Al termine di questo processo storico, è chiaro che la violazione della buona fede poteva determinare due effetti:
a) a favore dell’attore, come ogni altra azione romana, poteva
condurre a una condanna pecuniaria55, e dunque all’adempimento e/o al risarcimento, tranne il caso in cui il convenuto avesse sponta- neamente adempiuto prima della condanna, poiché i iudicia bonae fi- dei contengono ‘naturalmente’ una simile possibilità, anche in assenza di una espressa clausola arbitraria56. Come vedremo, però, poiché si poteva agire anche per ottenere una remissione totale o parziale del debito, è verisimile che l’adempimento spontaneo del convenuto-cre- ditore potesse consistere nella remissione, oppure che il convenuto- creditore fosse condannato a pagare una somma pari a quella indebi- tamente corrisposta dall’attore-debitore. In realtà, tutte le domande dell’attore rientravano infatti nell’oportere richiesto nell’intentio, es- sendo indistinguibile la domanda di adempimento da quella di risar- cimento, che era visto al pari dell’adempimento come una compensa- zione, dovuta ex fide bona, della posizione contrattuale dell’attore57;
b) a favore del convenuto, poteva portare alla dichiarazione del- l’insussistenza ex fide bona dell’oportere: ossia – come abbiamo visto –
all’annullamento del contratto, in quanto l’assoluzione del convenuto determinava preclusione processuale.
In conclusione. La bona fides aveva già agli inizi del I sec. a.C.:
1) quel valore di limite all’autonomia privata che la dottrina ci- vilistica italiana – sulla scia dell’esempio tedesco – le ha riconosciuto di recente, quale forma di integrazione del contenuto contrattuale;
2) non solo effetti risarcitori ma anche di annullamento del ne- gozio, ossia anche gli esiti che sono stati introdotti nel diritto civile
54 Cfr. X. XXXXX, Bona fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del con- tratto nella tradizione civilistica (Parte prima), in AA.VV., Modelli teorici e metodolo- gici nella storia del diritto privato, II, Napoli, 2003, 174 ss.
55 In quanto si lega alla genesi del primo modello di processo formulare in for- mulae in factum, relative a rapporti estranei al ius civile: cfr. FIORI, Ea res agatur, cit., 184 s.
56 Cfr. TALAMANCA, Processo civile, cit., 65 ss.
57 Cfr. infra, § 5.12.
italiano sulla spinta della normativa comunitaria – ancora una volta grazie all’esempio xxxxxxx00.
4. La buona fede formativa tra il II e il I sec. a.C. b) Il dovere di infor- mazione nella compravendita.
4.1. Premessa. – Al medesimo torno di tempo in cui può essere collocata la clausola muciana vanno riferite anche le prime attesta- zioni casistiche circa l’operatività della buona fede contrattuale. Esse ci provengono dal de officiis di Xxxxxxxx00, e sono state ampiamente discusse in dottrina, ma per una loro corretta comprensione occorre inserirle nella struttura complessiva dell’opera, e in particolare nell’architettura del terzo libro.
Bisogna infatti considerare che il de officiis è stato scritto per for-
nire una grammatica di comportamento e di valori, innanzitutto poli- tici, ai nuovi ceti che alla fine della repubblica si affacciavano alla vita pubblica. L’opera è interamente costruita sull’opposizione tra verum e simulatio sui tre piani della politica, della filosofia e del diritto. Xxxx- xxxx, il cui fine è politico, presenta come simulata l’ideologia del par- xxxx xxxxxxxxx, ponendo questa falsificazione sullo stesso piano della gnoseologia e dell’etica epicurea, che forniscono una rappresentazione falsa della realtà e degli officia, oltre che sul piano del diritto privato, dove la simulatio viene identificata con il dolus. Il verum, ossia la co- noscenza della natura che determina comportamenti ad essa conformi, viene invece identificato con l’ideologia degli ottimati, con la dottrina stoica e, sul piano del diritto privato, con un comporta- mento ispirato a giustizia: ma si aggiunge che per perseguire davvero il verum occorre tener conto delle concrete circostanze (лspιστα’σsιç), che nella vita pubblica rendono legittima anche l’uccisione del ti- ranno, giustificano i comportamenti apparentemente paradossali del sapiens, e nel diritto privato, sulla base del criterio della bona fides, per- mettono di declinare le regole giuridiche in modo da renderle effetti- vamente aderenti alla iustitia. La bona fides viene pertanto presentata non come un criterio extra-giuridico, ma come un istituto del diritto
58 Una sintesi in FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 165 s.
59 Un’analisi più approfondita in FIORI, Bonus vir, cit.
che da un lato contribuisce a un ampliamento delle regole tradizionali sulla base dell’interpretatio, dall’altro permette, con la sua elasticità, di tener conto delle peculiarità dei casi concreti (kaτa’ лspι’στaσιν).
La dialettica tra princìpi e concreti praecepta che tengano conto della circostanze si realizza sia al livello della lex naturae – espressione che rende il concetto stoico di koινo’ç νo’µoç – ossia di quell’ordine cosmico naturale cui devono ispirarsi anche i comportamenti umani che mirino a perseguire il bonum e l’honestum, sia sul piano delle le- ges dei singoli populi, che prendono forma mediante la positivizza- zione delle regole naturali.
Trattando dei praecepta della lex naturae, Xxxxxxxx rileva innan- zitutto che vi sono doveri sia omissivi (Cic. off. 3, 50-57) che com- missivi (3, 58-61), che non vengono sanzionati dalle leges populo- rum60. In diritto romano, in particolare, sino all’introduzione delle formulae de dolo da parte di Xxxxxxx Xxxxx, il dolo era perseguito solo quando previsto da una norma legislativa o in quanto assorbito dalla buona fede nei iudicia bonae fidei61. Al contrario, la trattazione della bona fides ricade, nell’opera ciceroniana, interamente nella parte rela- tiva al diritto romano (positivo). Essa però si distingue ulteriormente in due parti: nella prima si mostra come la bona fides abbia ampliato la regola decemvirale secondo la quale il venditore rispondeva per le false dichiarazioni compiute in una mancipatio (tab. 6, 2), indivi- duando una responsabilità anche in caso di reticentia (Cic. off. 3, 66- 67); nella seconda si mostra come grazie alla bona fides la nuova re- gola possa essere ancor più resa efficace tenendo conto delle circo- stanze (Cic. off. 3, 67).
4.2. Dalla regola decemvirale alla poena reticentiae: il processo tra Lanario e Centumalo (Cic. off. 3, 66-67). – La regola decemvirale pre- vedeva, come si è detto, che il venditore rispondesse per le false di- chiarazioni in una mancipatio; poi l’interpretatio giurisprudenziale ha stabilito dovesse punirsi anche la reticentia, ossia che il venditore ri-
60 Per l’esame di questi testi rinvio a FIORI, Bonus vir, cit., 270 ss. e 310 ss.
61 Cic. off. 3, 61: atque iste dolus malus et legibus erat vindicatus, ut tutela duo- decim tabulis, circumscriptio adulescentium lege [P]laetoria et sine lege iudiciis, in qui- bus additur ex fide bona.
spondesse di tutti i vitia praedii di cui abbia conoscenza, se non li ab- bia resi noti in modo specifico62.
La prima applicazione a noi nota63 della regola più recente ri- guarda un processo svoltosi non più tardi del 91 a.C.64:
Cic. off. 3, 66: ut, cum in arce augurium augures acturi essent iussissentque T.65 Claudium Centumalum, qui aedes in Caelio monte habebat, demoliri ea, quorum altitudo officeret auspiciis, Xxxxxxxx proscripsit insulam [vendidit], emit P. Xxxxxxxxxx Xxxx- rius. huic ab auguribus illud idem denuntiatum est. itaque Cal- purnius cum demolitus esset cognossetque Claudium aedes postea proscripsisse, quam esset ab auguribus demoliri iussus, arbitrum il- lum adegit quicquid sibi dare facere oporteret ex fide bona. X. Xxxx sententiam dixit, huius nostri Catonis pater (ut enim ceteri ex patribus, sic hic, qui illud lumen progenuit, ex filio est nomi- nandus) is igitur iudex ita pronuntiavit, ‘cum in vendundo rem eam scisset et non pronuntiasset, emptori damnum praestari opor- tere’. 67. Ergo ad fidem bonam statuit pertinere notum esse emptori vitium, quod nosset venditor. (…)
X. Xxxxxxx Xxxxxxxxx aveva ricevuto dagli auguri l’ordine di de- molire quelle parti della propria casa la cui altezza impediva ai sacer-
62 Cic. off. 3, 65: ac de iure quidem praediorum sanctum apud nos est iure civili, ut in iis vendendis vitia dicerentur, quae nota essent venditori. nam cum ex duodecim tabulis satis esset ea praestari, quae essent lingua nuncupata, quae qui infitiatus esset, dupli poena subiret, a iuris consultis etiam reticentiae poena est constituta; quicdquid enim esset in praedio vitii, id statuerunt, si venditor sciret, nisi nominatim dictum es- set, praestari oportere.
63 La sententia è ripetuta anche da Val. Max. 8, 2, 1, e dunque dovette avere una certa eco: propendono per una novità X. XXXXXXXX, L’obbligazione di ‘praestare’ e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C. - II sec. d.C.), Milano, 1995, 162 nt. 147 e TALAMANCA, La bona fides, cit., 144 ss.; ipotizzano l’esistenza di un precedente indirizzo X. XXXXXXXX, Der Kauf nach gemeinen Recht. I. Geschichte des Kaufs im römischen Recht, Erlangen, 1876, 654; F. XXXX, Xxxxxxxx e i ‘libri iuris civilis’ di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxx, in AA.VV., Questioni di giurisprudenza tardo-repub- blicana (Atti Firenze 1983), Milano, 1985, 217 ss. = Lectio sua, II, Padova, 2003, 833 ss.; XXXXXXXXXX, Bona fides, cit., 68; X. XXXXXXXX MARUOTTI, Gli obblighi di informa- zione a carico del venditore. Origini storiche e prospettive attuali, Napoli, 2007, 62 nt. 91.
64 Considerando che X. Xxxxxx padre dell’Uticense muore non oltre questa
data: cfr. X. XXXXXXX, Xxxxxxx (12), in «RE», XXII.1, Stuttgart, 1953, 166.
doti di trarre gli auspici, e aveva perciò deciso di metterla in vendita, trovando come acquirente P. Calpurnio Lanario. Quest’ultimo però, acquistata la casa, aveva a sua volta ricevuto l’ordine degli auguri e, essendo venuto a sapere che Xxxxxxx aveva messo in vendita la casa dopo l’intimazione, aveva instaurato un procedimento per la con- danna di Xxxxxxx al pagamento di quidquid dare facere oportet ex fide bona. La sentenza fu pronunciata da X. Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx, pa- dre dell’Uticense, il quale decise che si dovesse tenere indenne l’ac- quirente per il danno subìto66, «in quanto nel vendere la cosa il ven- ditore era a conoscenza del suo stato e non ne aveva dato conto»: de- cise cioè, commenta Xxxxxxxx, che è conforme alla bona fides che sia noto anche all’acquirente il vitium di cui il venditore è a conoscenza. Il fondamento di questa soluzione è tutto nell’essere, l’actio empti 67, un iudicium bonae fidei: la bona fides così come interpretata dai prudentes permette di superare la regola posta dalla lex decemvi- rale68. È questo, si badi, un superamento che avviene all’interno del ius civile: l’interpretatio prudentium costituisce una delle fonti del ius, e il testo ciceroniano mostra che l’innovazione giurisprudenziale si sviluppa non avvalendosi di strumenti pretori, ma interpretando le
regole decemvirali.
65 Così nei codici, seguiti da X. XXXXXXXXXXXX, X. Xxxxx Xxxxxxxxx de officiis, Oxford, 1994, 135: a partire dall’edizione di X. XXXXXXX (Antuerpiae, 1563), tuttavia, la maggioranza degli editori ha preferito emendare in Ti. sulla base della frequenza del prenome Xxxxxxxx tra i membri della gens Xxxxxxx.
66 Rendo così l’espressione damnum praestari oportere sulla scorta delle valuta- zioni di CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 159 ss.
67 I dubbi circa l’identificazione dell’azione sono per lo più superati: cfr. per tutti CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 158 nt. 139.
68 Nota la stretta connessione tra ratio decidendi e bona fides anche X. XXXXX, Fault in the Formation of Contract in Roman Law and in Scots Law, Edinburgh-Lon- don, 1958, 8 s. Il riferimento alla bona fides impedisce di concordare con X. XXX- XXXX, Eccezione di dolo generale: suoi precedenti nella procedura per legis actiones, in XXXXXXXX (a cura di), L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione roma- nistica, cit., 27, nell’ipotizzare una responsabilità derivante dalla norma decemvirale sulle nuncupationes. Xxxxx stesso piano va posta l’ipotesi di SOLIDORO MARUOTTI, Gli obblighi di informazione a carico del venditore, cit., 92, che la poena reticentiae coin- cida con la condanna in duplum e sia diversa dal damnum praestari oportere della sententia Xxxxxxx: lo stesso Xxxxxxxx spiega tale poena come praestari oportere di quidquid … esset in praedio vitii, ossia esplicitamente attribuendole una funzione ri- sarcitoria, e non penale.
Un altro dato interessante è nel riferimento alla scientia del ven- ditore. Il caso è stato infatti costantemente qualificato come un’ipo- tesi di dolus in contrahendo69, ma a ben vedere nel testo – e partico- larmente nella sententia Xxxxxxx – non si parla mai di dolus: il vendi- tore è responsabile non perché abbia voluto ingannare il compratore, ma perché sapeva e non ha detto, ossia per un comportamento che potrebbe anche essere semplicemente negligente. In realtà non si en- tra nel merito del problema delle intenzioni del venditore – come ri- chiederebbe l’actio de dolo, con un onere della prova assai gravoso per l’acquirente – ma ci si ferma al dato della conoscenza del vitium da parte del venditore. La responsabilità ex fide bona si è costruita dun- que sin dall’inizio su un parametro oggettivo, senza entrare nel me- rito dell’essere la reticentia colposa o dolosa.
4.3. La declinazione della regola secondo le circostanze: l’episodio di Orata e Xxxxxxxxxx (Cic. off. 3, 67). – Xxx nella valutazione del giudice entri la scientia delle parti, e non il dolus, è ulteriormente dimostrato dall’episodio narrato di seguito da Xxxxxxxx, riferibile anch’esso a una data precedente il 91 a.C.70:
Cic. off. 3, 67: M. Xxxxxx Xxxxxxxxxxx, propinquus noster, C. Xxxxxx Xxxxxx vendiderat aedes eas, quas ab eodem ipse paucis ante annis emerat. eae [Xxxxxx] xxxxxxxxxx, sed hoc in mancipio Xxxxxx non dixerat; adducta res in iudicium est. Oratam Crassus, Grati- dianum defendebat Xxxxxxxx. ius Crassus urgebat, ‘quod vitii ven- ditor non dixisset sciens, id oportere praestari’, aequitatem Anto-
69 Cfr. X. XXXXXXXX, Iudex arbiterve. Prolegomena zum officium des römischen Privatrichters, Köln-Graz, 1957, 226; TALAMANCA, La bona fides, cit., 137, il quale am- mette trattarsi di «un caso un po’ particolare di dolus in contrahendo» e – forse sulla base della sua ipotesi che Xxxxxxx Xxxxx abbia per primo precisato la nozione di dolo (ibid., 152 nt. 422) – giustifica questa particolarità prima ipotizzando che il dolus fosse «alle origini, sicuramente meno evidente e meno facilmente perseguibile» (ma qui siamo in un iudicium bonae fidei, dove il dolus era da tempo perseguito: Cic. off. 3, 61 e ibid., 143 nt. 400), e poi legando la reticenza al dolo (il venditore sarebbe stato
«dolosamente reticente»). Cfr. anche XXXXXXXX, Der Kauf nach gemeinen Recht, cit., I, 654 ss.
70 X. XXXXXX, Concealing a Servitude, in Studies in Xxxxxxxxx’x Institutes in me- mory of X. X. X. Xxxxxx, London, 1983, 136; TALAMANCA, La bona fides, cit., 146: l’episodio è ricordato anche in Cic. de orat. 1, 178, ambientato da Xxxxxxxx in quella
data.
nius, ‘quoniam id vitium ignotum Xxxxxx non fuisset, qui illas ae- des vendidisset, nihil fuisse necesse dici nec eum esse deceptum, qui id, quod emerat, quo iure esset, teneret’. quorsus haec? ut illud in- tellegas, non placuisse maioribus nostris astutos.
X. Xxxxx Xxxxxxxxxx aveva rivenduto a X. Xxxxxx Xxxxx la casa che quest’ultimo gli aveva alienato pochi anni prima. La casa era gra- vata di una servitù, ma nella mancipatio Xxxxx non aveva dichiarato il vincolo, e Xxxxx lo aveva citato in giudizio. I difensori delle parti erano i più grandi oratori del loro tempo: di Xxxxxxxxxx era patronus
X. Xxxxxxx (143-87 a.C.), mentre Xxxxx era difeso da X. Xxxxxxx Xxxxxx (140-91 a.C.). Xxxxxx, scrive Xxxxxxxx, invocava il ius, ossia la regola elaborata dai prudentes secondo cui si risponde per la reticen- tia. Xxxxxxx, invece, invocava l’aequitas, sostenendo che, poiché il vin- colo non era ignoto a Xxxxxx in quanto precedente proprietario della casa, non era necessaria una espressa dichiarazione del vincolo, non potendosi considerare deceptus chi conosce la condizione giuridica del bene acquistato.
L’interpretazione del passo è stata fortemente condizionata dal preconcetto positivistico di una opposizione tra buona fede e diritto. Si è infatti autorevolmente ritenuto che il testo miri a illustare una contrapposizione tra ius civile e bona fides, e – poiché in un iudicium bonae fidei la posizione di Xxxxxx non sarebbe giustificabile – si è so- stenuto che l’azione esperita da Orata dovesse essere non un’actio empti, come pure ritiene la maggioranza della dottrina71, ma l’actio auctoritatis, originata dalla mancipatio nella quale Xxxxxxxxxx non aveva dichiarato le servitù, e il processo non un procedimento for- mulare, bensì per legis actiones72.
71 X. XXXXXXXX, Das Verschulden beim Vertragsabschluß im klassischen rö- mischen Recht und xx xxx xxxxxxxx Xxxxxxxxxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 4 s.; G. VON BE- SELER, De iure civili Xxxxxx xxxx ad naturam revocando. Xxxxxx de officiis III 12. 49-17. 72, in «BIDR», XXXIX, 1931, 333; XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 9 s.;
X. XXXXXXX, Xxxx’actio empti come azione di garanzia per i vizi della cosa in alcuni te- sti di Xxxxxxxx, in «BIDR», LXII, 1959, 190; CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 163 e nt. 148; SOLIDORO MARUOTTI, Gli obblighi di informazione a carico del venditore, cit., 63 ss.
72 TALAMANCA, La bona fides, cit., 146 (e 145 nt. 407). Cfr. anche X. XXXXXXX,
Die Haftung des Verkäufers für die Xxxxxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 46 ss.
Un simile scenario è però estremamente problematico. Innanzi- tutto non si comprende come il ius civile arcaico potesse veicolare cri- xxxx equitativi, oltretutto in un processo per legis actiones73. Inoltre, abbiamo elementi per ritenere che l’operazione interpretativa dei prudentes che ha condotto alla sanzione della reticentia non sia stata condotta sul piano del ius Quiritium, ossia della mancipatio, ma solo nell’ambito della tutela ex empto74: ancora all’epoca di Q. Mucio – ma la sua posizione è ripresa da giuristi successivi – la responsabilità ri- spetto alla mancipatio nasceva infatti solo in caso di false dichiara- zioni75. Per immaginare un’actio auctoritatis dovremmo dunque rite- nere che Xxxxxxxxxx abbia dichiarato che le aedes erano prive di vin- coli76: tuttavia non solo ciò non risulta dal testo, ma sia il non dixerat, sia il rapporto con l’episodio precedente inducono a pensare che la fattispecie fosse di reticentia.
La controversia poteva insomma essere stata incardinata solo sulla scorta di un’actio empti. E ottenuta questa consapevolezza ci ac- corgiamo di un dato importante: l’opposizione tra ius ed aequitas non corrisponde in alcun modo a un’antitesi tra ius civile e bona fides, perché la stessa regola di ius – quella sulla sanzione della reticentia – è stata elaborata sulla base della bona fides, come risulta chiaramente dall’episodio precedente della sententia di Catone77. In realtà, nel te- sto, il termine ius è impiegato per indicare la ‘regola’ di ius civile emersa attraverso l’interpretatio dei doveri emergenti dall’oportere ex fide bona (ossia la punizione delle reticentiae del venditore sciens). Una regola che a sua volta diviene suscettibile di interpretazione ri-
73 Ma in realtà anche in un iudicium stricti iuris formulare, prima della crea- zione dell’exceptio doli: cfr. per maggiori indicazioni FIORI, Bonus vir, cit., cap. V
§ 5.3.
74 Contra TALAMANCA, La bona fides, cit., 146 s. nt. 410; cfr. anche XXXXXXX, Ec- cezione di dolo generale, cit., 26 ss.
75 Cfr. Q. Muc. fr. 35 LENEL = Cels. 8 dig. D. 18, 1, 59 e Ven. 16 stip. D. 21, 2, 75.
76 Come propone XXXXXXXXX, La bona fides, cit., 146, che però immagina an- che che l’interpretatio sulla reticentia si sia svolta nell’ambito dell’actio auctoritatis (ibid., 147 nt. 410): se così fosse, non sarebbe stata necessaria la dichiarazione di op- timae maximae, perché qualunque reticentia del venditore sciens sarebbe stata san- zionata.
77 Così, esattamente, XXXXXXXXXX, Bona fides, cit., 69.
spetto alla sua formulazione: troviamo, nel passo, un uso del termine ius come ‘formula’ che sopravvive in talune espressioni, come ad esempio in ius iurandum78. Con aequitas, invece, Xxxxxxxx non in- tende certo affermare che Xxxxxxx chiedesse al giudice una sentenza contro il ius civile, ma piuttosto che egli proponeva di interpretare il ius – ossia la regola ‘formulata’ nel precedente – in accordo con le concrete circostanze: Xxxxxxxx allude, in altri termini, a un’accezione di aequitas analoga a quella aristotelica di sjлιsι’ksιa, non contrappo- sta al ius, ma interna ad esso allo scopo di intenderne lo spirito con- tro la lettera, operando sempre come «categoria tecnica dell’interpre- tatio»79. Xxxxxxx, in altre parole, non contesta la regola, ma la sua in- terpretazione rigida, letterale, ‘formulare’: Xxxxxx afferma che vi è responsabilità ex fide bona perché il venditor, pur sciens, non dixisset; il suo antagonista rileva che nella specifica fattispecie, quoniam id vi- tium ignotum Xxxxxx non fuisset, qui illas aedes vendidisset, non può parlarsi di deceptio dell’emptor, e dunque di responsabilità ex fide bona del venditore. E la chiusura del brano (quorsus haec? ut illud in- tellegas, non placuisse maioribus nostris astutos) rende verisimile l’ipo- tesi che sia stata proprio quest’ultima posizione a prevalere80: d’al-
78 Per questo valore cfr. per tutti XXXXXXXXXX, Il vocabolario delle istituzioni in- doeuropee, cit., 367 ss.
79 X. XXXXX, L’aequitas nell’interpretatio prudentium dai giuristi ‘qui fundave- runt ius civile’ a Labeone, in X. XXXXXXXX (a cura di), Aequitas. Giornate in memoria di Xxxxx Xxxxx (Atti Trento 2002), Padova, 2006, 25, in un contributo assai importante. Cfr. anche X. XXXX, Rechtskritik in der römischen Antike, München, 1974, 113. Non so da quali fonti M. S. XXXXXXX, Il problema giuridico del silenzio, Milano, 1982, 71 (cfr. anche EAD., Il problema del silenzio nella esemplificazione ciceroniana del de offi- ciis: ipotesi circa la giuridicità come storia e come reale, in Studi X. Xxxxxxxx, III, Mi- lano, 1982, 78), tragga la convinzione che la «Stoa (…) tramite il circolo degli Sci- pioni, Scevola ed Xxxxxxx (…) aveva elaborato il concetto dell’aequitas».
80 Non mi sembra convincente l’ipotesi di X. XXXXX, Das jus naturale aequum et bonum und jus gentium der Xxxxx, I, Leipzig, 1856, 50 ss. (spec. 51 nt. 20), e ROD- GER, Concealing a Servitude, cit., 134 ss., spec. 140 ss. (cfr. ID., Concealing a Servitude. II, in «Index», XXII, 1994, 239, più attenuato), secondo cui il convenuto Xxxxxxxxxx sarebbe stato in realtà condannato per aver violato la bona fides non menzionando l’esistenza della servitù, nonostante Xxxxx ne fosse a conoscenza: in teoria, a questa affermazione si sarebbe potuto rispondere che Xxxxx aveva a sua volta violato la bona fides per aver promosso un giudizio in cui si lamentava un inganno che in realtà non aveva avuto luogo (in una funzione che più tardi, nei iudicia stricti iuris, sarebbe stata affidata alla exceptio doli cd. generalis).
xxxxxx, i testi della giurisprudenza classica ci informano del fatto che in ipotesi simili il venditore non era considerato responsabile81.
4.4. La bona fides nel de officiis. – L’analisi dei passi ciceroniani ci fornisce una serie di risultati significativi.
Innanzitutto, dallo stesso Xxxxxxxx – da un autore, cioè, interes- sato a scrivere un’opera di filosofia e non di diritto – la bona fides non è presentata come un principio etico antitetico al ius, ma invece come un parametro attraverso il quale l’interpretatio giurisprudenziale svi- luppa regole pienamente giuridiche, tali da essere presentate come ius contrapposto a un’aequitas che, a sua volta, non è un principio extra- giuridico, ma un’istanza interpretativa produttrice di ulteriori regole giuridiche. Diviene difficile, pertanto, accogliere la proposta di leggere la bona fides come una ‘formula vuota’ riempita di volta in volta con i contenuti etici del singolo momento storico82. Non vi è infatti nulla di soggettivamente ‘etico’ nello stabilire che la reticenza su un aspetto del negozio determina la responsabilità del venditore, tranne il caso in cui l’acquirente ne fosse comunque a conoscenza: è solo un problema di bilanciamento informativo, e non a caso – a dimostrazione del fatto che la regola attiene alla razionalità economica del rapporto e non alle convinzioni morali del singolo interprete – è questo un prin- cipio che si applica alla vendita da più di due millenni.
In secondo luogo, abbiamo verificato che erano oggetto di san- zione comportamenti scorretti nella fase formativa del contratto che oggi ricadrebbero alternativamente nella tutela della buona fede for- mativa o contro il dolo come vizio del consenso. Tuttavia, già all’ini- zio del I sec. a.C.83, nei iudicia bonae fidei il dolus è interamente assor-
81 Pomp. 9 ad Sab. D. 18, 1, 13: sed si servo meo vel ei cui mandavero vendas sciens fugitivum illo ignorante, me sciente, non teneri te ex empto verum est; Ulp. 28 ad ed. D. 19, 1, 1, 1: … haec ita vera sunt, si emptor ignoravit servitutes, quia non videtur esse celatus qui scit neque certiorari debuit qui non ignoravit.
82 Cfr. supra, § 1.
83 Per la giurisprudenza classica cfr. Gai. 10 ad ed. prov. D. 18, 6, 9; Xxxx. 33 ad
ed. D. 19, 1, 21, 1; Ulp. 28 ad ed. D. 19, 1, 1, 1; 32 ad ed. D. 19, 1, 11, 5 e D. 19, 1, 13
pr.-1; 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 9 e D. 21, 1, 4, 4; 2 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 38, 7. Il fatto che Pap. 3 resp. D. 19, 1, 41 parli di deceptio non depone necessariamente a favore del dolo, perché l’emptor è detto deceptus anche quando alla sua ignoranza
bito nel più ampio parametro della bona fides: l’attore non deve di- mostrare alcuna intenzionalità nel comportamento reticente del con- venuto, ma solo e unicamente la sua scientia84. Riceveva perciò tutela anche l’ipotesi del cd. ‘raggiro colposo’ o della ‘reticenza non dolosa’85 individuate dalla dottrina civilistica italiana: ma si noti che la scienza moderna è ancorata a una valutazione psicologica che induce a rife- rire tutti i comportamenti a dolo o a colpa, mentre per i giuristi ro- mani ciò che rileva è il fatto oggettivo della scientia, senza che si debba discutere sulla volontarietà del comportamento.
Le conseguenze della condanna saranno però solo e unicamente risarcitorie (… emptori damnum praestari oportere), anche quando la fattispecie rientra in quel che oggi chiameremmo dolo determinante. Ciò però, si badi, non per ragioni di diritto sostanziale che impedi- scano alla buona fede (o al dolo) di determinare effetti caducatori, ma per la semplice circostanza che il processo formulare prevede solo la possibilità della condemnatio pecuniaria, salvo che il convenuto ese- gua spontaneamente quanto chiesto dall’attore.
Infine, a differenza di quanto avveniva nella logica sanzionatoria arcaica, che puniva il comportamento a prescindere dagli effetti, la bona fides ha come fine il mantenimento dell’equilibrio nella posi- zione delle parti: mentre la falsa dichiarazione nella mancipatio è pu- nita in sé, la reticentia rileva solo se determina un pregiudizio per l’emptor, altrimenti – come nel caso in cui l’acquirente è a conoscenza del vizio – non c’è condanna.
È questo dell’equilibrio, come vedremo, un valore di particolare importanza per la comprensione della buona fede. Ma bisogna sin d’ora rilevare che esso va inteso nel senso più ampio.
4.5. Dolus e bona fides formativa in Q. Mucio. – Il rapporto tra buona fede ed equilibrio contrattuale parrebbe confermato da un
corrisponde la semplice scientia del venditore (cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13 pr.-1). Diversamente da quanto sostenuto da XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 12, Iul. 15 dig. fr. 252 LENEL = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13, 6 non costituisce un esem- pio di reticenza, ma di falsa dichiarazione.
84 Cfr. già X. XXXXXXXX, Der Kauf nach gemeinem Recht. III.2. System des Kauf nach gemeinem Recht, Erlangen, 1908, 191 ss.
85 Riferimenti in FIORI, Bona fides (Parete prima), cit., 143 e ntt. 41-42.
passo di Xxxxxxxx in cui si ritiene sia riportato il pensiero di Q. Mu- cio. Nel testo non si menziona espressamente la bona fides ma, rife- rendosi all’impiego dell’actio empti, è chiaro che esso si lega ai passi appena analizzati:
Pomp. 31 ad Q. Muc. D. 18, 1, 66, 1: Si cum servitus venditis praediis deberetur nec commemoraverit venditor, sed sciens esse re- ticuerit et ob id per ignorantiam rei emptor non utendo per statu- tum tempus eam servitutem amiserit, quidam recte putant vendi- torem teneri ex empto ob dolum.
Nell’ipotesi in cui il venditore, pur sciens, abbia omesso di ricor- dare l’esistenza di una servitù costituita a favore del fondo venduto, e l’acquirente a causa di questa reticenza abbia perso il diritto per non uso, alcuni (quidam) ritengono – secondo Xxxxxxxx, correttamente86
– che il venditore sia responsabile ex xxxxx, a causa del dolo.
Il riferimento all’opinione dei quidam ha indotto a ritenere che vi fosse una contrapposizione tra il pensiero di questi, condiviso da Xxxxxxxx, e quello di Q. Xxxxx, che Xxxxxxxx commenta87. Tale contrapposizione, che sembra effettivamente probabile, non è però sufficientemente chiarita nel passo: non possiamo perciò far altro che procedere per supposizioni.
In primo luogo è difficile non notare, tra la prima e la seconda parte del passo, una incongruenza. Se inizialmente si parla di scientia, nella conclusione si giustifica l’attribuzione dell’actio empti con il ri- ferimento al dolo. Senonché tra le due nozioni deve distinguersi, come hanno mostrato chiaramente gli episodi riportati nel de officiis di Xxxxxxxx: da un lato, la reticentia è sanzionata a prescindere dall’o- nerosa prova del dolo, essendo sufficiente dimostrare che il venditore sapeva e non ha informato il compratore, eventualmente anche per semplice negligenza (§ 4.2); dall’altro, poiché la scientia non implica necessariamente il dolus, essa può non essere sanzionata quando non
86 Non mi sembra necessario riferire il recte ai compilatori, come propone X. XXXXXXXXX, La definizione dello ius, in «BIDR», LIII-LIV, 1948, 23.
87 XXXXXXXXX, La definizione dello ius, cit., 23 s.; XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 11; X. XXXXXXXXXX, Juristic use of the term ‘dolus’: contract, in
«ZSS», C, 1983, 525; CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 166.
determini uno squilibrio informativo tra le posizioni delle parti (§ 4.3). Se si riflette su questi dati ci si accorge, in primo luogo, che il ri- ferimento al dolus contenuto nella parte finale del passo è almeno ap- parentemente superfluo e inutilmente restrittivo; in secondo luogo che la semplice scientia non avrebbe necessariamente dovuto deter- minare un risarcimento, posto che la reticenza del venditore non aveva prodotto uno squilibrio tra le prestazioni: l’emptor aveva rite- nuto congruo il prezzo del terreno anche senza sapere dell’esistenza della servitù esistente a suo favore, e la servitù era un di più che avrebbe potuto al limite far aumentare il prezzo.
Probabilmente, il contrasto tra Q. Xxxxx e i quidam va spiegato
storicamente.
Come abbiamo ricordato, all’epoca di Q. Mucio non esistevano ancora le formulae de dolo, che saranno create da Xxxxxxx Xxxxx, cosic- ché in un rapporto contrattuale il dolo poteva essere perseguito solo in quanto assorbito dalla buona fede nei iudicia bonae fidei88. In quest’ul- timo caso, però, a livello formulare emergeva solo la bona fides: nel te- sto della formula non vi era alcun riferimento al dolo ma si chiedeva al giudice di verificare se fosse dovuto qualcosa ex fide bona. Perciò al- l’attore era sufficiente provare la violazione della buona fede (ad es., in caso di reticentia dei vizi, la semplice scientia) per ottenere la con- danna, senza dover farsi carico della più complessa prova del dolo89.
Questa situazione di favore per l’attore trovava però un limite nel fatto che il danno doveva trarre origine dal contratto: la pretesa al quidquid dare facere oportet ex fide bona contenuta nell’intentio for- mulare si lega indissolubilmente in un rapporto di causalità (ob eam rem) con la fattispecie descritta nella demonstratio, ossia con il nego- zio. È perciò possibile che Q. Xxxxx abbia negato l’actio empti in con-
88 Non disponiamo di alcun dato testuale per affermare con XXXXXX, Fides bona, cit., 22 (= 216) che Q. Xxxxx avrebbe sanzionato la reticenza «con una azione non contrattuale (precorritrice delle formulae de dolo di Aq. Xxxxx, così come la sua eccezione precorreva la exceptio doli)» (su questa clausola e sul suo rapporto con l’exceptio doli cfr. supra, § 3).
89 Senza però che con ciò il comportamento del venditore dovesse essere qua- lificato come culpa (così invece XXXXXXXX, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 166): la scientia, come abbiamo visto, prescinde da un’analisi dei criteri soggettivi di respon- sabilità e determina oggettivamente la responsabilità.
siderazione del fatto che la perdita della servitù discendeva da una re- ticentia che – come si è detto – non aveva alterato l’equilibrio con- trattuale. Ciò che il venditore aveva taciuto non era infatti un difetto che rendeva squilibrato il rapporto a proprio vantaggio, ma un pregio che lo avrebbe al limite legittimato a chiedere un prezzo più elevato. La perdita della servitù, perciò, non costituiva un danno verificatosi all’interno della compravendita, ‘a causa’ della compravendita (ob eam rem), ma un pregiudizio nato ‘in occasione’ della compravendita: il venditore aveva causato un danno – per così dire – al di fuori del con- tratto, come un qualsiasi terzo.
Una simile fattispecie – un danno causato dolosamente al di fuori di un contratto e di una figura delittuale tipica – sarebbe stata di lì a poco tutelata mediante l’actio de dolo, che permetterà di agire sia per il dolo relativo a rapporti non tutelati da iudicia bonae fidei, sia per il dolo che prescinde dall’esistenza di rapporti negoziali90. È veri- similmente a questo punto che si è avvertita l’iniquità di una mancata tutela per l’acquirente che abbia subìto un danno – per così dire ‘ex- tracontrattuale’ – dalla reticentia dolosa del venditore91, in confronto al caso della tutela offerta dall’actio de dolo quando fosse mancato un rapporto contrattuale tra le parti. Ed è possibile pertanto che i qui- dam abbiano ritenuto che una tutela ob dolum – ma, si noti, solo ob dolum – spettasse anche all’emptor contro il venditor, ma che tale tu- tela dovesse essere realizzata non con l’actio de dolo, utilizzabile solo in assenza di altre azioni, bensì con l’actio empti – ossia in un iudi- cium bonae fidei – poiché l’evento si era determinato al momento della conclusione del contratto.
In realtà, la soluzione muciana, benché più iniqua, è indubbia- mente più coerente, e il suo abbandono deve essere inteso più come una estensione dell’actio empti sul piano processuale, che come l’af- fermazione di un diverso regime contrattuale92. Il valore del principio
90 Un panorama di questi impieghi in CURSI, L’eredità dell’actio de dolo, cit.,
127 s.
91 Si è ipotizzato che il dolo del venditore fosse finalizzato ad avvantaggiare il
proprietario del fondo servente, che poteva essere egli stesso: XXXXX, Fault in the For- mation of Contract, cit., 11; CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 166.
92 Non mi sembra possa seguirsi la ricostruzione che del brano propone CAR-
DILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 166 ss. (seguito da SOLIDORO MARUOTTI, Gli
resta pertanto intatto: la reticentia del venditore rileva nel contratto solo quando abbia determinato uno squilibrio tra le posizioni tra le parti.
Il dato è importante perché induce a sospettare che la risposta di
Q. Mucio sia espressione di una riflessione della giurisprudenza sul problema dell’equilibrio contrattuale che vedremo approfondito nella generazione successiva, ma che appare già strutturata all’inizio del I sec. a.C.
4.6. Buona fede formativa, dolo, violenza e responsabilità oggettiva (edilizia) nel I sec. a.C. – Per comprendere pienamente il ruolo della buona fede formativa nel momento storico preso in esame è però ne- cessario inserire il principio nel contesto dei rimedi emersi in con- temporanea anche nei iudicia stricti iuris e nel peculiare àmbito della giurisdizione edilizia nei mercati.
Innanzitutto è possibile che accanto alla praescriptio muciana so- pra analizzata – attraverso la quale il convenuto poteva chiedere al giudice di valutare a proprio favore la bona fides anche nella partico- lare struttura delle formule con demonstratio repubblicane – si siano formate negli stessi iudicia bonae fidei delle clausole in cui il conve- nuto poteva denunciare in modo più circoscritto il dolus o il metus della controparte. Ed è possibile che dall’àmbito dei iudicia bonae fi-
obblighi di informazione, cit., 99). Ad avviso dell’a., Q. Xxxxx avrebbe sostanzial- mente anticipato le definizioni di dolo formulate da Xxxxxxx Xxxxx e Xxxxxx, ammet- tendo il ricorrere del dolo solo quando concorressero una macchinazione (aliud si- mulatum, aliud actum: cfr. Cic. off. 3, 60 e Ulp. 11 ad ed. D. 4, 3, 1, 2) e un interesse a ingannare (che l’a. desume dall’espressione decipiendi causa di D. 4, 3, 1, 2, in cui causa ha valore avverbiale, ma che egli interpreta come causa decipiendi). I quidam, al contrario, avrebbero inteso il dolus in senso lato, presumendo la collusione del venditore con il proprietario del fondo. A me pare che sia da un lato difficile imma- ginare una simile anticipazione muciana delle definizioni di dolo, non altrimenti at- testata; e dall’altro che – se davvero i quidam avessero inteso ampliare la nozione – non si spiegherebbe la precisazione ob dolum, che inserirebbe un elemento tutto sommato superfluo rispetto a una tutela basata interamente sulla scientia. Senza contare che, se la posizione dei quidam potrebbe giustificarsi in una fase formativa del concetto di dolus (come immagina l’a.), diviene difficile comprendere come essa possa essere ancora seguita da Xxxxxxxx nel II sec. d.C., dopo l’affermazione della nozione di dolus come simulatio a partire da Xxxxxxx Xxxxx e Xxxxxx.
dei questi rimedi si siano trasferiti a quello dei iudicia stricti iuris, nei quali invece non poteva menzionarsi senz’altro la bona fides, perché altrimenti il giudizio sarebbe divenuto bonae fidei93.
In contemporanea con queste trasformazioni94, il dolus e il metus ricevettero una tutela autonoma – ossia non assorbita entro altre azioni tipiche – in via di azione.
Tra il 79 e il 78 a.C.95, viene proposta la cd. formula Xxxxxxxxx, ossia il primo nucleo dell’actio quod metus causa, che tutela i negozi realizzati con violenza che non siano protetti da iudicia bonae fidei.A
ben vedere, le situazioni in cui l’azione è concessa e i suoi effetti coin-
93 È questa l’ipotesi che presento in FIORI, Eccezione di dolo generale ed editto asiatico di Xxxxxx Xxxxx, cit., 89.
94 L’espressione formulae de dolo di Cic. off. 3, 60, al plurale, deve essere intesa a mio avviso come un rinvio all’actio e all’exceptio (così PERNICE, Labeo2, cit., II.1, 198, seguito da X. XXXXXX, La problematica del dolo processuale nell’esperienza ro- mana, I, Milano, 1973, 128 nt. 1, con ulteriore bibliografia e discussione; contra, cfr. da ultimo TALAMANCA, La bona fides, cit., 136, 158 e nt. 437, 171, per il quale nell’e- spressione non dovrebbe essere ricompresa l’exceptio doli, posto che nelle fonti ro- mane il termine ‘formula’ si contrappone all’exceptio come il tutto a una sua parte). In realtà può anche sostenersi che per formula de dolo si intenda una formula in cui comunque – a titolo di actio o exceptio – opera il dolo; altrimenti l’unico modo per spiegare il plurale sarebbe quello di immaginare una pluralità di soluzioni formulari per l’actio de dolo, secondo quanto proposto da XXXXX, Das Edictum Perpetuum, cit., 115 nt. 1, ma ciò non esclude che vi fossero, nel medesimo periodo, soluzioni edit- tali diversificate, come ad es. l’exceptio inserita da M. Calpurnio Bibulo, proconsole della Siria del 51 a.C., nel suo editto (cfr. Cic. Att. 6, 1, 15), che doveva svolgere una funzione analoga ma anche avere caratteri di originalità rispetto all’exceptio doli, con la quale altrimenti Xxxxxxxx l’avrebbe di sicuro posta in relazione (cfr. XXXXX, Ecce- zione di dolo generale ed editto asiatico di Xxxxxx Xxxxx, cit., 63 e nt. 38). Accogliendo l’espressione formulae de dolo nel senso proposto, la genesi dell’exceptio doli sarebbe connessa ad Xxxxxxx Xxxxx che fu pretore nel 66 a.C. (per l’introduzione delle formu- lae in coincidenza con la pretura del giurista cfr. X. XXXXXX, La iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954, 108 s., seguito da BRUTTI, op. cit., 135 nt. 11; per F. D’IPPO- LITO, Sulla data dell’actio de dolo, in «Labeo», XLI, 1995, 247 ss., si dovrebbe invece pensare a una data precedente l’80 a.C.). La genesi dell’exceptio metus è più incerta: l’ipotesi più probabile è che essa esistesse già al tempo di Xxxxxxxx, essendo nata forse addirittura in contemporanea con il primo nucleo dell’actio quod metus causa, la cd. la formula Octaviana (79-78 a.C.): cfr. sul punto, con letteratura, FIORI, op. ult. cit., 66 ss. e ntt. 51-54.
95 Sulla datazione cfr. per tutti X. XXXXXXX, In integrum restitutio und vindicatio
utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, Berlin-New York, 1974, 158 nt. 170.
cidono ampiamente con quelli connessi ai giudizi di buona fede. In- nanzitutto, l’actio è concessa quando il metus è iustus, così come, nei iudicia bonae fidei in cui sia fatta valere la violenza, la causa timoris deve essere iusta96, ossia oggettivamente rilevante per una persona che nella trattazione dell’actio metus viene descritta come homo constan- tissimus97, e che nei giudizi di buona fede è naturalmente il bonus vir. In secondo luogo, l’actio quod metus causa può portare – come i iudi- cia bonae fidei – all’annullamento sostanziale del negozio, perché l’unico modo che il convenuto ha di evitare l’onerosa condanna al quadruplum è quello di liberare il debitore obbedendo al iussum de restituendo del giudice che precede la condanna pecuniaria: una ca- ratteristica questa – dovuta alla cd. clausola arbitraria, che costituiva una condizione negativa della condanna98 – che amplia i poteri del giudice99 in forme parzialmente analoghe a quanto avveniva nei iudi- cia bonae fidei100.
Forse qualche anno dopo101, Xxxxxxx Xxxxx propone anche un’ac- tio a protezione dal dolo (e forse ammette un’exceptio doli nei iudicia stricti iuris), che viene concessa in via residuale tutte le volte che il comportamento doloso non sia già tutelato da altre azioni, e che è an- ch’essa un iudicium arbitrarium102.
96 Alf. 2 dig. D. 19, 2, 27, 1, su cui cfr. (in espressa connessione con la nozione di metus) X. XXXXXX, Causa timoris e migratio inquilinorum in un responso serviano, in «Index», V, 1974-1975, 49 ss. e, più di recente, FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 101 ss.
97 Gai. 4 ad ed. prov. D. 4, 2, 6: metum autem non vani hominis, sed qui merito et in homine constantissimo cadat, ad hoc edictum pertinere dicemus. Sul rapporto tra fides e constantia cfr. supra, § 9.1; questo rapporto induce a escludere l’interpola- zione, spesso sostenuta (cfr. per tutti A. S. XXXXXXXX, Der Zwang im römischen Pri- vatrecht, Amsterdam, 1971, 27 ss.), dell’espressione gaiana.
98 Cfr. per tutti LENEL, Das Edictum Perpetuum, cit., 112; TALAMANCA, Processo civile, cit., 67 nt. 473; X. XXXXX - X. XXXXX, Das römische Zivilprozessrecht2, Xxx- xxxx, 1996, 336 nt. 9.
99 Per il procedimento cfr. XXXXX - XXXXX, Das römische Zivilprozessrecht2, cit., 335 ss.
100 Cfr. supra, nt. 56.
101 Cfr. supra, nt. 94.
102 LENEL, Das Edictum Perpetuum, cit., 115; TALAMANCA, Processo civile, cit., 67 nt. 473; XXXXX - XXXXX, Das römische Zivilprozessrecht2, cit., 336 nt. 9.
Accanto a queste trasformazioni, che coinvolgono sia il ius civile sia il ius honorarium, ma che sono sempre interne alla iurisdictio del pretore, si colloca la tutela edilizia delle compravendite di schiavi e animali realizzate nei mercati. È questa una protezione onoraria di fattispecie pienamente civilistiche, alternativa alla tutela di ius civile.
La tutela edilizia riguardava, come è noto, solo le compravendite di determinati beni – mancipia e iumenta – inizialmente solo quando realizzate nei mercati103, e in due casi104: (a) quando schiavi o animali avessero vitia corporis o alcuni vitia animi (schiavo fuggitivo, vaga- bondo, ecc.105) non espressamente denunciati dal venditore – è questa verisimilmente la fattispecie più antica, certamente precedente il I sec. a.C.106; (b) quando il venditore avesse espressamente affermato (dic- tum et promissum) caratteristiche in realtà assenti107 – ipotesi più re- cente, comunque introdotta in età repubblicana108. In questi casi109 al- l’acquirente spettavano – in tendenziale alternativa tra loro110 – un’a-
103 X. XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, Padova, 1955, 133 ss.
104 Per il testo dell’editto cfr. Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 1 e Ulp. 2 ad ed.
aed. cur. D. 21, 1, 38 pr., nonché LENEL, Das Edictum Perpetuum, cit., 555 e 565.
105 Un’analisi delle diverse ipotesi in XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit.,
7 ss.
106 Status quaestionis in X. XXXXXXX, La tutela del compratore tra actiones aedi-
liciae e actio empti, Milano, 2004, 40 ss.
107 XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 26 ss.
108 Cfr. ancora XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 71 ss.
109 Per la stratificazione storica dell’editto cfr. XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 90 ss. (ma cfr. infra, nt. 112 sull’actio de dolo).
110 Iul. 51 dig. D. 44, 2, 25, 1; Ulp. 2 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 38 pr., su cui X. XXXX, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, I, Berlin, 1918, 28 ss.; XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 231 ss. Poiché la ratio di questa alternativa è che l’actio quanti minoris può giungere sino alla completa re- stituzione del prezzo (Xxxx. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 43, 6 e XXXXXXXXXXX, op. cit., 204 ss.), così da determinare una sostanziale sovrapposizione dei due rimedi (cfr. in particolare il passo di Xxxxxxxx sopra richiamato: nam posterior actio [sc. quanti mi- noris] etiam redhibitionem continet, si tale vitium in homine est, ut eum ob id actor empturus non fuerit), può giustificarsi, senza pensare a una interpolazione (così in- vece XXXX, op. cit., 134; XXXXXXXXXXX, op. cit., 233), la regola di Pomp. 23 ad Sab. D. 21, 1, 48, 2, secondo la quale l’attore che si sia visto opporre l’exceptio sex mensum allorché ha agito con l’actio redhibitoria, possa successivamente esperire l’actio quanti minoris (verisimilmente per un ammontare diverso dall’intero prezzo, altri- menti si sarebbe potuta opporre l’exceptio rei iudicatae).
zione di restituzione (actio redhibitoria) o di riduzione (actio quanti minoris) del prezzo, da esperire rispettivamente entro sei mesi o un anno111. A queste azioni l’edictum de mancipiis vendundis aggiungeva un’actio de dolo redhibitoria esperibile anche in casi diversi dalle fatti- specie indicate nell’editto, quando comunque fosse ravvisabile un do- lus malus del venditore112.
Al riguardo, è improprio parlare di una responsabilità oggettiva per i vizi in capo al venditore113, perché egli sarebbe stato assolto non solo quando nel contratto fosse presente una clausola espressa di
111 Sui termini delle azioni, cfr. fonti e discussione in XXXXXXXXXXX, L’editto de- gli edili curuli, cit., 227 ss., e XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 144 ss.
112 Ad esempio, quando una pronuntiatio vitii fosse stata fatta, ma in modo oscuro; oppure allorché l’esaltazione della res da parte del venditore, pur non inte- grando un dictum et promissum, avesse comunque lo scopo di ingannare l’acquirente (testo edittale in Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 1: hoc amplius si quis adversus ea sciens dolo malo vendidisse dicetur, iudicium dabimus; una sua applicazione in Ulp. 44 ad Sab. D. 4, 3, 37). Che si tratti di una differente modalità di impiego dell’actio redhibitoria è stato sostenuto in modo convincente da XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 30 ss. (cfr. ibid., 188), e sembra preferibile all’ipotesi di chi pensa a una vera e propria actio de dolo edilizia (cfr. ad es. X. XXXXX, Unlautere Warenan- preisungen beim römischen Kauf, in Festschrift H. Demelius, Wien-Mainz, 1973, 127 ss. = Ausgewählte Schriften, II, Napoli, 1976, 313 ss.; altra dottrina più risalente in XXXXXXXXXXX, op. cit., 30 ss. e XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 268 ss.). Non mi sembrano in proposito convincenti le obiezioni di XXXXXXX, op. cit., 194 ss. (spec. 199) e 268 ss., secondo la quale, qualora davvero fosse esistita una simile actio, non si spiegherebbero i passi in cui, data l’inapplicabilità delle azioni redhibitoria e quanti minoris, si concede l’actio empti dell’editto del pretore, cosicché occorrerebbe pensare piuttosto a una replicatio doli. In realtà, i frammenti in cui si concede l’actio empti riguardano fattispecie in assoluto escluse dall’editto, perché la res non è vitiosa (Ofil. ad ed. praet. et aed. fr. 18 LENEL = Ulp. 2 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 38, 7; Gai. 1
ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 3; Xxxxxx. fr. 9 LENEL = Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 9-
11; Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 4, 4; Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13, 1) o casi in cui non è ravvisabile un dolus del venditore (Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13, 3). Sulla datazione di questa actio redhibitoria de dolo si può concordare con XXXXXXXXXXX, op. cit., 97, circa il fatto che essa deve essere successiva alle formulae de dolo di Xxxxxxx Xxxxx, ma non è necessario pensare che debba essere l’ultima, in senso temporale, tra quelle stabi- lite nell’edictum de mancipiis vendundis: data la sua natura residuale (hoc amplius
…), è chiaro che – sistematicamente – doveva stare alla fine, e che eventuali aggiunte all’elenco delle fattispecie tutelate dovevano comunque essere inserite prima di essa. 113 Così XXXXXXXX, Der Kauf nach gemeinem Recht, cit., III.2, 111; PERNICE,
Labeo2, cit., II.1, 118 ss.; XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 19.
esclusione generale114 o specifica115 della garanzia per vizi (è infatti sempre possibile pacisci contra edictum aedilium curulium116), ma an- che allorché fosse riuscito a dimostrare che il vitium era noto all’emp- tor o comunque xxxxxx000. Sarebbe però errato anche ipotizzare una presunzione di dolo118, perché quand’anche il venditore avesse pro- vato la propria ignorantia sarebbe stato egualmente condannato.
In realtà, la responsabilità del venditor è sì oggettiva, ma non ri- spetto all’esistenza dei vitia, bensì rispetto alla deceptio: se v’è stata una volontaria o involontaria induzione in errore dell’emptor, che non dipenda a sua volta dal fatto di quest’ultimo, ne risponderà il venditore. Emerge chiaramente, in questa prospettiva, lo scopo della tutela edilizia: non tanto sanzionare l’inganno compiuto dal vendi- tore, quanto proteggere la minore esperienza e capacità di valutazione dell’acquirente rispetto a un venaliciarius professionista119.
La medesima ‘oggettività’ si ravvisa rispetto alle garanzie assunte dal venditore a seguito di dichiarazioni o promesse (dicta et pro- missa)120. Qui, infatti, poiché l’alienante si è gravato di un obbligo ri- levante per il diritto civile – in quanto le dichiarazioni e le promesse si inseriscono o nella stessa emptio venditio o in una autonoma stipu- latio –, l’emptor potrà agire indifferentemente con l’azione civile o
114 Pomp. 23 ad Sab. D. 21, 1, 48, 8; Lib. Syro-Romanus, 39 e 113a (FIRA, II,
771 e 793).
115 Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 14, 9.
116 Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 2, 14, 31.
117 Pomp. 23 ad Sab. 21, 1, 48, 4; Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 6; Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 14, 10 (su questi passi cfr. per tutti XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 22 ss. e, da ultima, XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 263 ss.)
118 XXXXXX, La garantie contre les vices cachés, cit., 40 ss.
119 Non si pone in contrasto con questa prospettiva l’ipotesi che la giurisdi- zione edilizia sia nata come sviluppo del potere coercitivo degli edili curuli connesso
– rispetto all’editto de mancipiis vendundis e al più tardo de iumentis vendundis – alla
cura annonae (XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 122 ss.): può ipotizzarsi che il venditore fosse originariamente punito per non aver ottemperato all’ordine dell’edile di denunciare i vizi, ma poiché quest’ordine era finalizzato a evitare l’in- duzione in errore del compratore, dovette presto – se non subito – ritenersi che l’e- sigenza fosse comunque soddisfatta nei casi di vizio palese o noto.
120 Sulla distinzione mi sembra corretta l’analisi che di Xxx. 1 ad ed. aed. cur.
D. 21, 1, 19 pr. compie XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 27.
con quella edilizia121: ma mentre nel primo caso il venditore sarà ve- risimilmente assolto se prova la propria ignorantia (almeno nel iudi- cium empti: forse all’actio ex stipulatu poteva opporsi una exceptio doli), nel secondo la semplice pronuncia dei dicta et promissa renderà responsabile il venditore.
Come si vede, non c’è una diversità di fattispecie sostanziali cui corrisponda una differente protezione processuale: alla diversa tutela, pretoria o edilizia, non corrispondono cioè due tipi diversi di emptio venditio, ma la medesima compravendita può essere tutelata innanzi all’edile o innanzi al pretore, con differenti azioni che hanno esiti e presupposti peculiari. Da un lato, infatti, l’actio empti subordina la condanna del venditore al sussistere di una violazione della bona fides, identificata nella scientia, mentre le azioni edilizie mirano a tutelare l’emptor a prescindere dalla posizione soggettiva del venditore122, fosse o meno sciens. Dall’altro l’actio empti ha una portata talmente ampia che nel quidquid dare facere oportet ex fide bona possono rientrare sia l’adempimento che la rescissione o la risoluzione del rapporto, così come il semplice risarcimento dei danni; l’actio redhibitoria ha invece effetti solo rescissori, cosicché il periculum è sopportato dal venditore e non dall’acquirente123, ma l’emptor, per riottenere il pretium124, deve restituire oltre alla res tutti i frutti che ne abbia tratto125.
121 In questo senso deve essere letto, ad es., Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13, 4, nel quale nulla fa pensare ad un riferimento alle azioni edilizie: la fattispecie è tutta in- terna all’editto del pretore. Cfr., in generale, XXXXX, Das Edictum Perpetuum, cit., 269 nt. 1; XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 26 e 29; XXXXX, Fault in the Forma- tion of Contract, cit., 31.
122 Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 1, 2: … neque enim interest emptoris, cur fal- latur, ignorantia venditoris an calliditate. A ben vedere, l’unico momento di interfe- renza tra le due logiche si ha con l’actio de dolo edilizia, che però – al di là della poca chiarezza che regna intorno alla sua esistenza e alla sua funzione – costituisce co- munque una forma estrema e residuale di tutela, nella quale effettivamente si deter- mina una ‘concorrenza’ delle due iurisdictiones, almeno rispetto ai presupposti (il dolo) benché, in età repubblicana, non ancora sul piano degli effetti (la restituzione del prezzo come richiesta diretta dell’emptor).
123 Naturalmente, tranne il caso di colpa dell’acquirente o di un membro della sua familia o del suo procurator: cfr. per tutti XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 142 s. e 153 ss.
124 Oltre agli interessi ed eventualmente alle spese necessarie sostenute dall’ac- quirente: cfr. ancora XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 152 s.
125 Cfr. per tutti XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 147 s. Il giudizio re-
D’altronde, la piena sovrapponibilità tra strumenti edilizi e pre- tori è ulteriormente dimostrata dall’esistenza dell’actio de dolo redhi- bitoria, ossia di uno strumento residuale rispetto alle normali azioni edilizie che copre tutti i casi di dolus malus imputabile al venalicia- rius126, ossia casi in cui il venditore non soggiace a una responsabilità oggettiva ma risponde per il dolus in contrahendo: quest’azione, resi- duale rispetto al ‘microsistema’ dell’editto edilizio, è perfettamente coincidente con l’actio empti esperita per la violazione (del dolo as- sorbito nel più ampio raggio) della buona fede127.
La prospettiva è dunque completamente rimediale: la medesima compravendita può portare a effetti differenti a seconda dell’interesse dell’attore, che potrà di volta in volta preferire la tutela più limitata
stitutorio prevede anche un onere di collaborazione del venditore alla rescissione del negozio prima della sentenza, che se non assolto determina una condanna al du- plum: cfr. Gai. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 45. Rispetto a questo passo, mi sembra pre- feribile l’interpretazione della dottrina pre-interpolazionistica, riproposta per l’e- poca giustinianea da XXXXXXXXXXX, op. cit., 128 xx. x 000 xx. (xxx, al di là della data- zione, mi sembra resista alle critiche di Ph. MEYLAN, Recensione di XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., in «Labeo», II, 1956, 117 s.; X. XXXXX, Die Jurisdiktion der kurulischen Ädilen, in Mélanges Ph. Xxxxxx, X, Lausanne, 1963, 183 e ntt. 54 e 56;
X. XXXXXXXX, Studi sull’azione redibitoria, Padova, 2000, 22 ss.; XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 315 ss.). I passi da cui si dovrebbe dedurre una condanna al sim- plum non hanno infatti nulla a che vedere con il rifiuto del venditore di restituire il prezzo: Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 23, 8 e 31 pr. riguardano il rifiuto del vendi- tore di risarcire i danni causati dallo schiavo, nel qual caso egli è condannato al sim- plum ma in più non riottiene lo schiavo; da Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 25, 10, si deduce solo la necessità, per l’emptor, di compiere tutte le restituzioni che gli com- petono per poter riottenere il prezzo, mentre Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21, 1, 29, 2 concerne il problema dell’estensione della condemnatio ad accesiones e usurae.È pos- sibile che la condanna al duplum costituisca lo sviluppo storico di un ordine di re- stituzione totale o parziale che faceva le veci della multa che l’edile avrebbe potuto irrogare al venditore in virtù dei poteri di polizia che gli derivavano dalla cura an- nonae (ciò, seguendo l’ipotesi presentata in modo convincente da XXXXXXXXXXX, op. cit., 122 ss.).
126 In questo senso, è importante notare che «il diritto edilizio è di natura spe- ciale, da sistema a sé» (XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 134): una normale actio de dolo non sarebbe esperibile – in quanto residuale – laddove fosse comunque concessa un’actio empti: ma è invece ammessa nel ‘microsistema’ edilizio quando le altre azioni edilizie sono escluse.
127 Su questo rimedio cfr. M. F. CURSI, Il ruolo dell’azione di dolo edilizia nella dialettica tra editto degli edili e tutela pretoria, in Studi A. Metro, II, Milano, 2010, 1 ss.
ma maggiormente garantista delle azioni edilizie, oppure quella più ampia ma meno semplice da ottenere dei iudicia bonae fidei.
4.7. Gli sviluppi posteriori. – Il quadro sin qui delineato è sostan- zialmente confermato nei frammenti della giurisprudenza del princi- pato, le cui riflessioni si presentano come sviluppi coerenti del si- stema repubblicano.
Ulpiano128, ad esempio, non solo ribadisce129 il principio secondo il quale il venditore cui fosse nota una servitù gravante sul bene è re- sponsabile quando la sua esistenza non fosse conosciuta dall’acqui- rente130, trattandosi di comportamento contra bonam fidem. Ma ag- giunge che ai medesimi effetti si perviene se il venditore abbia (non solo falsamente affermato, non solo taciuto, ma anche) negato l’esi- stenza della servitù131; se abbia inserito clausole contrattuali per limi-
128 Ulp. 28 ad Sab. D. 19, 1, 1, 1: venditor si, cum xxxxxx xxxxxx, servitutem cela- vit, non evadet ex empto actionem, si modo eam rem emptor ignoravit: omnia enim quae contra bonam fidem fiunt veniunt in empti actionem. sed scire venditorem et celare sic accipimus, non solum si non admonuit, sed et si negavit servitutem istam deberi, cum esset ab eo quaesitum. sed et si proponas eum ita dixisse: ‘nulla quidem servitus debetur, verum ne emergat inopinata servitus, non teneor’, puto eum ex empto teneri, quia servitus debebatur et scisset. sed si id egit, ne cognosceret emptor aliquam servitutem deberi, opinor eum ex empto teneri. et generaliter xxxxxxx, si improbato more versatus sit in celanda servitute, debere eum teneri, non si securitati suae pro- spectum voluit. haec ita vera sunt, si emptor ignoravit servitutes, quia non videtur esse celatus qui scit neque certiorari debuit qui non ignoravit. Per le ipotesi di interpola- zione, basti rinviare alle efficaci valutazioni di XXXXX, Fault in the Formation of Con- tract, cit., 11.
129 Forse traendolo da Sabino: X. XXXX, Xxxxxxxx (88), in «RE», V.1, Stuttgart, 1903, 1443, seguito da Fr. XXXXXX, Xxxxxxx-Fragmente in Ulpians Sabinus-Commen- tar, Halle, 1906, 64; XXXXXX, Concealing a Servitude. II, cit., 238; X. XXXXXXX, I libri tre iuris civilis di Sabino2, Padova, 2001, 234 (che però ibid., 118, ferma la citazione sa- biniana a ignoravit).
130 Lungi dall’essere affermazione ovvia – e dunque indice di interpolazione, anche secondo XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 11 – questo rilievo è il risultato di una conquista interpretativa quale quella descritta da Xxx. off. 3, 67 (cfr. supra, § 4.1), e viene giustamente riportato da Xxxxxx e Xxxxxxx (così anche TALA- MANCA, La bona fides, cit., 192 nt. 548; non mi sembra invece necessario ipotizzare con XXXXXX, Concealing a Servitude, cit., 134 ss.; ID., Concealing a Servitude. II, cit., 238 s., che vi fossero dubbi al riguardo: cfr. infra, nt. 135).
131 Potrebbe apparire strano che quest’ultima ipotesi sia fatta seguire alla reti-
xxxxx, posto che negare l’esistenza della servitù potrebbe apparire nulla più che una
tare la propria responsabilità alle servitù conosciute, quando queste fossero effettivamente esistenti e a lui note132; e inoltre133 se abbia ope- rato (egit) – al di là, cioè, di dichiarazioni verbali o reticenze134 – in modo tale da impedire all’emptor di venire a conoscenza della loro esistenza. E conclude rilevando che, in generale, il venditore è respon- sabile se abbia celato una servitù in modo scorretto (improbato more), ma non se abbia agito solo per tutelarsi; e che comunque tutte queste regole valgono solo se l’emptor non conosceva l’esistenza della ser- vitù, perché altrimenti non può dirsi esserci stato inganno135, e il ven- ditore non sarà responsabile.
variazione della falsa affermazione della sua inesistenza, mentre l’ordine con cui viene presentata la materia sembrerebbe presupporre una gerarchia di gravità (così ad es. XXXXXXXXX, La bona fides, cit., 193 s., che parla di «incertezza nella scala dei valori»). Ma occorre tener conto del concreto svolgersi dell’interpretatio, che ag- giunge nuove ipotesi alle precedenti, cosicché l’ordine fra le diverse ipotesi non è – verisimilmente – logico o gerarchico, ma semplicemente cronologico, ossia legato al concreto emergere delle soluzioni nel tempo (così anche XXXXXX, Concealing a Ser- vitude. II, cit., 240 s.). In questo ulteriore senso appare persuasiva l’ipotesi di Jörs (cfr. supra, nt. 129) di attribuire la prima parte del frammento (venditor … in empti actionem) al testo di Xxxxxx che Xxxxxxx commenta.
132 Th. MOMMSEN [- X. XXXXXXX] (ed.), Digesta Iustiniani Augusti, I, Berolini,
1870, 544, propone di emendare quia in si qua: forse non è necessario, ma non mi sembra «unacceptable», come ritiene XXXXXX, Concealing a Xxxxxxxxx. II, cit., 242, perché il senso della frase è senz’altro che la responsabilità c’è solo se esiste una ser- vitù nota al venditore. Solo questo, d’altronde, può essere il senso del puto usato dal giurista: egli presenta la soluzione come una propria opinione, perché poteva anche formalisticamente sostenersi che il venditore avesse escluso la propria responsabilità rispetto a servitù che fossero inaspettate per il solo emptor, a prescindere dal fatto che fossero o meno note al venditore.
133 Il testo recita sed si, ma già l’Haloander aveva proposto di emendare in sed et si (MOMMSEN [- XXXXXXX] [ed.], Digesta Iustiniani Augusti, cit., I, 544).
134 TALAMANCA, La bona fides, cit., 194. Cfr. anche XXXXXX, Concealing a Servi- tude. II, cit., 243, il quale però ingiustificatamente identifica il comportamento con l’inserimento della clausola di esonero dalla responsabilità riportata poco sopra (ibid., 244 s.).
135 Secondo XXXXXX, Concealing a Servitude. II, cit., 239 s., nel testo celare sa- rebbe usato in due sensi differenti: per ‘occultare (la servitù)’ in celare servitutem, e per ‘ingannare (l’acquirente)’ in non videtur esse celatus qui scit. Questa differenza sa- rebbe indice di un ampliamento interpretativo, per cui la regola originaria sarebbe
quella della responsabilità per il semplice fatto di occultare la servitù, cui successiva- mente si sarebbe aggiunta quella dell’inganno. Ma in latino celare regge all’accusa- tivo anche la persona che è ingannata (cfr. W. XXXXXXXXX, Celo, in Thesaurus linguae
Simili princìpi, che costituiscono l’ultima propaggine dell’in- terpretatio compiuta sulla materia civilistica a parte dalla normazione decemvirale, sono ripetuti in diversi passi136. Ma nel principato si rea- lizzano novità più rilevanti, almeno in materia di compravendita, al- lorché i giuristi recepiscono137 nella tutela dell’actio empti le regole delle azioni edilizie138.
Latinae, III, Lipsiae 1906-1912, 767; J. B. XXXXXXX - X. XXXXXXX, Lateinische Gram- matik. II. Lateinische Syntax und Stilistik, Xxxxxxx, 0000, 43), e dunque non c’è mo- tivo di ritenere che la frase al passivo sia un’aggiunta posteriore.
136 Cfr. Gai. 10 ad ed. prov. D. 18, 1, 35, 8; Pap. 3 resp. D. 19, 1, 41; Xxxx. 33 ad ed. D. 19, 1, 21, 1, sul principio della responsabilità contrattuale del venditore sciens per gli oneri gravanti sul bene; Iul. 15 dig. fr. 252 LENEL = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13,
6, sulla regola della nullità della clausola con cui il venditore abbia limitato la pro- pria responsabilità o abbia dolosamente creato una responsabilità in capo all’acqui- rente; Gai. 10 ad ed. prov. D. 18,6, 9, sulle modificazioni subìte dal bene nel tempo intercorrente tra l’inspectio compiuta dall’emptor e l’acquisto, ove queste modifica- zioni fossero note al venditore e non all’acquirente.
137 Mi riferisco qui a una recezione di regole, non a una recezione di azioni o del diritto onorario in quello civile, come proponeva Wlassak: cfr. FIORI, Ius civile, ius gentium, ius honorarium, cit., 165 ss.
138 Sembrano oggi doversi abbandonare le posizioni degli inizi del Novecento,
secondo le quali i passi in cui ciò risulta ammesso siano da ricondurre a interpola- zioni giustinianee (cfr. per tutti X. XXXXXX, La garantie contre les vices cachés dans la vente romaine, Paris, 1930, 131 ss.; X. XXXXXXXXXX, Das Alter der aedilizischen actio quanti minoris, in «ZSS», LXIX, 1952, 330 s.; XXXXXXXXXXX, L’editto degli edili curuli, cit., 244 ss., 271 ss.; X. XXXXXXX-XXXX, La compravendita in diritto romano, II, Napoli, 1956, 397 ss.; XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 19; A. M. XXXXXX, The History of the Aedilitian Actions from Roman to Roman-Dutch Law, in Studies X. Xx Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 157). I due principali argomenti addotti in tal senso sono una presunta impossibilità, per il giudice dell’actio empti, di ordinare all’attore la restitu- zione della cosa viziosa (MONIER, op. cit., 131) e l’idea che una simile estensione sa- rebbe stata possibile solo con «la fusione totale del diritto edilizio onorario con il ci- vile» (XXXXXXXXXXX, op. cit., 271), allorché le diverse azioni avrebbero condiviso la medesima causa petendi e il medesimo petitum, e conseguentemente avrebbero po- tuto condividere anche gli stessi termini brevi. In realtà, da un lato il iudex del iudi- cium bonae fidei era senz’altro in condizione di valutare in compensazione il valore della cosa viziosa non restituita dall’attore, così da spingerlo alla restituzione; dal- l’altro, sempre in virtù dell’ampio officium iudicis previsto nei iudicia bonae fidei – non sembra necessario attendere il superamento della distinzione tra ius civile e ius honorarium per immaginare una estensione di regole dal secondo al primo. Cfr. per tutti, a difesa della classicità dei testi, D. MEDICUS, Id quod interest. Studien zum rö- mischen Recht des Schadenersatzes, Köln-Graz, 1962, 140 ss.; XXXXXXX, La tutela del compratore, cit., 221 ss., e già X. XXXXXXX, Zur Geschichte der negotiorum gestio, Jena, 1879, 170 ss.
Ciò non avviene tanto rispetto alla possibilità di ottenere gli ef- fetti restitutori anche nell’azione civile di compravendita, perché l’e- sito della restituzione era già pienamente compatibile con la normale operatività dei iudicia bonae fidei. Nel iudicium empti, come abbiamo già osservato, la restituzione è implicita nella logica stessa del iudi- cium bonae fidei, nel quale il convenuto può evitare la condanna re- stituendo la cosa esattamente come avviene nelle cd. actiones arbitra- riae: non a caso i giuristi si limitano a constatare come l’effetto redi- bitorio sia ricompreso nel iudicium empti139, il che naturalmente permetteva di chiedere la rescissione o il riequilibrio del sinallagma non solo nelle vendite di mancipia e iumenta, ma in ogni ipotesi di compravendita.
Quel che differenziava davvero i due rimedi era la responsabilità del venditor, che nell’actio empti era sempre subordinata alla sua scientia. Nel II sec. d.C. anche questo baluardo viene superato, come mostra un brano di Xxxxxxxx000 che riporta un responso del giurista repubblicano Xxxxxxxx Xxxxx e le precisazioni formulate su questo da Xxxxxxxx. Per Trebazio l’emptor che ignorans avesse acquistato dei ve- stiti rammendati come se fossero nuovi, aveva diritto al pagamento dell’id quod interest: nel brano non viene detto se il venditore fosse o meno sciens ma – essendo improbabile che Xxxxxxxx assoggettasse il venditor a una responsabilità oggettiva, estesa a ogni perdita patrimo- niale subìta dall’acquirente – è verisimile che la fattispecie cui si rife- riva il responso riguardasse un’ipotesi di scientia del venditore. Per Xxxxxxxx, invece, bisogna distinguere due ipotesi: se il venditore è ignorans, dovrà pagare solo il valore della cosa; se è sciens, sarà tenuto per ogni danno che l’acquirente abbia subìto.
139 Cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 11, 3: redhibitionem quoque contineri empti iudicio et Xxxxx (fr. 289 LENEL) et Xxxxxxx (fr. 93 LENEL) putant et nos probamus.
140 Marcian. 4 reg. D. 18, 1, 45: Labeo libro posteriorum (fr. 238 LENEL) scribit, si vestimenta interpola quis pro novia emerit, Xxxxxxxx (fr. 22 LENEL) placere ita emptori praestandum quod interest, si ignorans interpola emerit. quam sententiam et Pompo- nius (fr. 850 LENEL) probat, in qua et Xxxxxxxx (15 dig. fr. 251 LENEL) est, qui ait, si qui- dem ignorabat venditor, ipsius rei nomine teneri, si sciebat, etiam damni quod ex eo contingit: quemadmodum si vas aurichalcum pro auro vendidisset ignorans, tenetur, ut aurum quod vendidit praestet.
La novità è considerevole, perché in tal modo l’azione di buona fede offre una tutela anche contro il venditore ignorans: e poiché l’o- portere rispetto al quale si chiede la condanna con l’actio empti resta un oportere ex fide bona, questo passaggio implica un ampliamento della portata della buona fede.
Che possa trattarsi di una svolta del II sec. d.C., attribuibile a Xxxxxxxx, parrebbe confermato dal fatto che anche Xxxxxxx, allo stesso proposito, cita il medesimo parere xxxxxxxxx000. Tuttavia, a ben vedere, la distinzione di Xxxxxxxx muove dalle medesime premesse che – come vedremo – hanno portato Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxx e la sua scuola ad affermare che in una locatio conductio, se si determina uno squilibrio non imputabile ad alcun contraente in termini di dolo o colpa, si risolverà il contratto o si ridurranno proporzionalmente le prestazioni, mentre se vi sia culpa o dolus si risponderà per tutti i danni cagionati all’altra parte. Ed è questa, in fondo, anche la logica delle azioni edilizie che, da un lato, facilitano l’emptor non xxxxxx- dendo la prova della scientia del venditor ma, dall’altro, si indirizzano solo alla rescissione del negozio, senza guardare ai danni ulteriori sopportati dall’emptor.
In altre parole, la bona fides va oltre la scientia e diviene parame- tro puramente oggettivo di equilibrio contrattuale: il venditore deve non solo risarcire l’id quod interest in caso di false dichiarazioni o di scientia, ma anche restituire all’acquirente la somma da questi pagata allorché la cosa avesse difetti, per quanto ignoti al venditore. Si nota
141 Ulp. 32 ad ed. D. 19, 1, 13 pr.: Xxxxxxxx libro quinto decimo inter eum, qui sciens quid aut ignorans vendidit, differentiam facit in condemnatione ex empto: ait enim, qui pecus morbosum aut tignum vitiosum vendidit, si quidem ignorans fecit, id tantum ex empto actione praestaturum, quanto minoris essem empturus, si id ita esse scissem: si vero sciens reticuit et emptorem decepit, omnia detrimenta, quae ex ea emp- tione emptor traxerit, praestaturum ei: sive igitur aedes vitio tigni corruerunt, aedium aestimationem, sive pecora contagione morbosi pecoris perierunt, quod interfuit idonea venisse erit praestandum (il passo è collocato da X. XXXXX, Palingenesia iuris civilis, Xxxxxxx, 0000, I, 360, nel fr. 251 di Xxxxxxxx insieme a D. 18, 1, 45). Le ipotesi di in- terpolazione del passo (cfr. per tutti XXXXX, Fault in the Formation of Contract, cit., 23 ss., con riferimenti) si basano sull’erronea convinzione che le regole edilizie sareb- bero state estese a tutte le compravendite solo dai compilatori, mentre è chiaro che, una volta recepite nell’emptio venditio, esse dovevano applicarsi a ogni compraven- dita.
in ciò un’influenza della tutela edilizia su quella accordata dal pretore nei iudicia bonae fidei: ma la logica sottesa alla innovazione è sempre legata alla centralità dell’obligatio ossia – nei contratti a prestazioni corrispettive – dell’equilibrio del sinallagma.
4.8. Conclusioni. – La prospettiva romana è rimediale. A seconda del tipo di processo che si intendeva incardinare, i romani individua- vano strumenti processuali specifici. Ciò comportava inevitabilmente degli apparenti ‘doppi’, che nella visione moderna si fatica a com- prendere.
Nei iudicia stricti iuris era necessario eccepire il dolus o il metus
e, quando non fossero tipicamente considerati da altre azioni, dolo e violenza potevano trovare espressione in azioni specifiche, come l’ac- tio de dolo e l’actio quod metus causa.
Questi strumenti non erano invece necessari quando il rapporto fosse riconducibile a un iudicium bonae fidei: qui la latitudine del giu- dizio era talmente ampia da ricomprendere ogni comportamento scorretto della controparte, e anzi l’attore era estremamente facilitato nel proprio compito dal fatto che per ottenere la condanna del con- venuto era sufficiente provare la violazione della bona fides,e non ad- dirittura il dolo o la violenza.
Ancora più semplice era la posizione dell’attore per le compra- vendite realizzate nei mercati, dove il venditore rispondeva per i vizi della cosa anche quando non avesse avuto alcuna contezza degli stessi, senza che però gli fosse interdetta la possibilità di agire con la normale azione civile innanzi al pretore.
È importante sottolineare l’impostazione rimediale romana per- ché tutti questi strumenti sono stati ereditati dalla tradizione civili- stica e sono stati accolti nei codici essendo però presentati come tra loro alternativi: il che ha imposto non solo di interrogarsi sul rap- porto tra la buona fede formativa dell’art. 1337 cod. civ. e il dolo cd. negoziale degli artt. 1439 e 1440 cod. civ. nonché la violenza dell’art. 1435 cod. civ.142.
Ma è anche importante notare che non vi è, nel diritto romano, alcun legame necessario tra buona fede e tutela risarcitoria: la con-
142 Status quaestionis in FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 143 ss.
danna pecuniaria è una caratteristica di tutto il processo formulare, e poteva essere evitata in tutti i iudicia bonae fidei dal comportamento spontaneo (adempimento o restituzione) del convenuto; inoltre, il processo poteva condurre anche alla conclusione del rapporto in forme che oggi potremmo considerare di rescissione o annullamento, oppure di risoluzione.
5. La bona fides esecutiva nella scuola di Servio: eventi sopravvenuti e adattamento negoziale nei contratti di durata.
5.1. Premessa: apparenti regole e apparenti eccezioni. – Nei fram- menti di Xxxxxx e del suo allievo Xxxxxx non si trova alcun accenno alla bona fides. Tuttavia la scuola serviana ha avuto un ruolo fonda- mentale nell’elaborazione di alcune regole dei contratti tipici tutelati da iudicia bonae fidei: regole che non sono, nei testi, espressamente connessi alla bona fides ma che possono spiegarsi solo in connessione con il ruolo di questo principio, perché solo nei iudicia bonae fidei è attribuito al giudice un potere così ampio da consentirne la valorizza- zione143.
Delle tre funzioni che l’attuale dottrina civilistica attribuisce alla buona fede – integrativa, limitativa e correttiva144 – Servio e la sua scuola sembrano concentrarsi sulla terza, che al giurista moderno ap- pare come la più controversa, e in particolare sul problema dell’adat- tamento negoziale.
143 Concordo sul punto con C. H. XXXXXX, Xxxxxxxxxxxxx bei der locatio con- ductio. Miete, Pacht, Dienst- und Werkvertrag im Kommentar römischer Juristen, Pa- deborn-München-Wien-Zürich, 2002, 42 ss.; X. XXXXXXXX, Sopravvenienza e pericoli contrattuali, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 28 = Bona fides tra storia e sistema2, Torino 2010, 205; ID., La buona fede come principio di diritto dei contratti: diritto romano e America Latina, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., II, 338 ss. = Bona fides tra storia e sistema2, cit., 59 ss.; P. J. XX XXXXXXX, A history of re- missio mercedis and related legal institutions, Rotterdam, 2003, 9; P. PICHONNAZ, De la clausula rebus sic stantibus au hardship. Aspects d’une évolution du rôle du juge, in Le droit romain d’hier à aujourd’hui. Collationes et oblationes. Liber amicorum X. Xx- nard, Bruxelles, 2009, 159.
144 Cfr. ancora FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 174 ss.
Per comprendere il valore delle testimonianze serviane è neces- sario ricordare che la communis opinio dei romanisti, condizionata dalla prospettiva volontaristica propria del positivismo giuridico, ha da un lato limitato l’incidenza degli eventi sopravvenuti ai temi della risoluzione – per impossibilità della prestazione o per eccessiva one- xxxxxx – e ha dall’altro ‘cancellato’ dalle fonti il tema dell’adattamento negoziale, con la sola eccezione della remissio mercedis nella locatio conductio145. Questa prospettiva, a ben vedere, è coerente con l’impo- stazione di quei codici moderni – come quello italiano – che in caso di eventi sopravvenuti ammettono, in linea generale, rimedi unica- mente risolutori, salvo poi consentire strumenti di adattamento in ipotesi determinate, tutte riconducibili a contratti di durata come la locazione, l’affitto, l’appalto, il contratto di trasporto, il contratto di assicurazione146.
È stata già rilevata la derivazione della ‘teoria generale’ delle so- pravvenienze, e in particolare della risoluzione per eccessiva onero- sità, dalla cd. clausola rebus sic stantibus147. Quest’ultima in diritto ro- mano aveva una portata assai limitata, essendo rinvenibile solo in materia di stipulatio, come condizione tacita della stessa. Ma i testi ro- mani contenevano, per i loro interpreti posteriori, una serie di spunti che favorivano una lettura ‘volontaristica’ del problema, conducendo alla regola della risoluzione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. Nella stipulatio – che peraltro costituiva un modello privilegiato per la moderna concezione del contratto come accordo e dell’obbliga- zione come mero effetto dello stesso – il contenuto obbligatorio è tutto espresso nei verba dei contraenti, e dunque qualunque aggiunta interpretativa non può che essere concepita (nella medesima logica dei verba) come tacita. In un simile contesto è necessario, affinché il mutamento delle circostanze possa incidere sul contratto, che esso in- cida sull’accordo, poiché in una logica volontaristica un mutamento
145 Su cui cfr. per tutti XX XXXXXXX, A history of remissio mercedis, cit., e L. CA- POGROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis. Una storia tra logiche di sistema e autorità della norma, Napoli, 2005.
146 Cfr. FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 193 ss.
147 CARDILLI, Sopravvenienza e pericoli contrattuali, cit., 2 ss. (= 176 ss.). Cfr. an- che PICHONNAZ, De la clausula rebus sic stantibus au hardship, cit., 149 ss.
del contenuto obbligatorio che prescinda da un mutamento dell’ac- cordo è ritenuto impossibile: il mutamento dell’accordo, però, può essere solo frutto di una spontanea volontà delle parti di modificare il contratto, altrimenti l’unica possibilità è quella di ritenere non più valido il consenso, ossia il contratto, e di risolverlo. Di qui la fortuna, a partire dal diritto canonico medievale sino al positivismo giuridico, della clausola rebus sic stantibus148.
Accanto a questa regola, però, in diritto romano trovava spazio un altro sistema di gestione delle sopravvenienze149, in particolar modo in relazione al contratto di locatio conductio, ed è da questo si- stema di regole che si è sviluppato, in relazione ai singoli contratti, quel ‘regime speciale’ che abbiamo ricordato sopra parlando dei co- dici moderni, non a caso legato a contratti che sono la derivazione storica della locazione romana. Senonché negli studi di diritto ro- mano, il ‘regime speciale’ è stato analizzato in particolare rispetto alla remissio mercedis della locazione di res150, ma esso coinvolge tutte le differenti forme di locatio conductio: nella concezione romana la loca- tio conductio è infatti un contratto unitario, consistente nello scambio di merces e uti frui, che si articola in modelli negoziali distinti sulla base del diverso atteggiarsi del godimento (uti frui per il godimento realizzato su una res; opera per quello su una persona; opus quando le operae sono coordinate verso un risultato)151. Benché espressa casisti- camente in relazione a concrete fattispecie, è dunque possibile enu- cleare dai testi una regola secondo cui, nella locatio conductio, ogni modificazione nel godimento di una parte non può che riflettersi sulla posizione economica dell’altra parte: se nel sinallagma merces- uti frui si determina una modificazione nell’uti frui, non può che conseguirne una modificazione nella merces.
148 Sto seguendo, con integrazioni, CARDILLI, Sopravvenienza e pericoli contrat- tuali, cit., 1 ss. (= 175 ss.). Sulla vicenda storica della clausola cfr. la dottrina ricordata da XXXXXXXXXX, Bona fides, cit., 90 nt. 167 cui adde, benché un po’ rapido, D. XXXXXXXX, La genèse de la clausula rebus sic stantibus, in Le droit romain d’hier à aujourd’hui. Col- lationes et oblationes. Liber amicorum X. Xxxxxx, Bruxelles, 2009, 267 ss.
149 Cfr. ancora CARDILLI, Sopravvenienza e pericoli contrattuali, cit., 1 ss. (= 175 ss.) e PICHONNAZ, De la clausula rebus sic stantibus au hardship, cit., 149 ss.
150 Cfr. i lavori richiamati supra, nt. 145.
151 Cfr. ancora FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., spec. 285 ss.
Non solo. Occorre ricordare che in diritto romano la locazione conduzione non si riferisce a un assetto di interessi specifico, ma co- stituisce uno schema obbligatorio amplissimo, che coincide con l’u- nico contratto tipico di durata a prestazioni corrispettive, entro cui ricadono una quantità di negozi diversificati, tutte le volte che siano riconducibili a una concessione di godimento a titolo oneroso: dalla locazione propriamente detta all’affitto, al contratto di lavoro subor- dinato, al contratto d’opera, al contratto di trasporto, all’appalto, alla regìa, ecc., oltre che tutte le ipotesi di mandato, deposito, comodato onerosi152. Ci accorgiamo allora che l’elaborazione di Servio e della sua scuola costituisce una regola di adattamento negoziale che il di- ritto romano elabora per tutti i contratti di durata a titolo oneroso153. Il rapporto di eccezione e regola che nel diritto civile italiano ca- ratterizza il confronto tra il regime speciale di alcuni contratti e la teoria generale in materia di eventi sopravvenuti154, si disegna invece in diritto romano come un’alternativa tra (almeno) due ‘regole’ diffe-
renziate in relazione al tipo contrattuale:
1) da un lato, la cd. clausola rebus sic stantibus che si riferisce a contratti a esecuzione differita o continuata versati in un negozio for- male, con obbligazioni a carico di una sola parte, come la stipulatio;
2) dall’altro l’adattamento negoziale che si applica ai contratti si- nallagmatici di durata, ossia alla locatio conductio.
5.2. La regola serviana. – Il frammento più importante in mate- ria è riportato da Xxxxxxx:
Serv. fr. 27 Lenel = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 2, 15, 2: si vis tem- pestatis calamitosae contigerit, an locator conductori aliquid prae- stare debeat, videamus. Servius omnem vim, cui resisti non potest, dominum colono praestare debere ait, ut puta fluminum graculo- rum sturnorum et si quid simile acciderit, aut si incursus hostium fiat: si qua tamen vitia ex ipsa re oriantur, haec damno coloni esse, veluti si vinum coacuerit, si raucis aut herbis segetes corruptae sint.
152 Sul problema della distinzione tra la locazione e questi rapporti nella giu- risprudenza tardo-classica cfr. FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 261 ss. 153 X. XXXXX, Tipicità contrattuale e teoria generale del contratto. Alcuni problemi
di storia e dogmatica, in «Roma e America», XXII, 2006, 111 ss.
154 FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 193 ss.
sed et si labes facta sit omnemque fructum tulerit, damnum coloni non esse, ne supra damnum seminis amissi mercedes agri praestare cogatur. sed et si uredo fructum oleae corruperit aut solis fervore non adsueto id acciderit, damnum domini futurum: si vero nihil extra consuetudinem acciderit, damnum coloni esse. idemque di- cendum, si exercitus praeteriens per lasciviam aliquid abstulit. sed et si ager terrae motu ita corruerit, ut nusquam sit, damno domini esse: oportere enim agrum praestari conductori, ut frui possit.
Ragionando sui casi in cui il conduttore può agire nei confronti del locatore, Xxxxxxx passa a considerare l’ipotesi in cui il godimento sia reso impossibile dall’intervento di una evenienza dannosa, e ri- porta il pensiero di Xxxxxx. Il parere del giurista repubblicano può es- sere diviso in due parti155.
Innanzitutto viene posta una distinzione generale, corredata di esempi. Il locatore sopporta i danni verificatisi a causa di una forza esterna irresistibile (vis cui resisti non potest): ad esempio la vis dei fiumi, delle cornacchie, degli uccelli, oppure di una incursione ne- mica. Il colono sopporta invece i rischi naturalmente connessi all’at- tività agricola (vitia ex ipsa re): così se il vino si sia inacidito, o le messi siano state rovinate dai vermi o dalle erbe cattive. La conse- guenza pratica della regola è la seguente: se è il conduttore a soppor- tare il rischio, egli dovrà pagare l’intera merces anche se il godimento ricevuto non è pieno; se invece è il locatore a subire il damnum, egli riceverà dal conduttore una merces ridotta nell’ammontare in propor- zione alla riduzione dell’uti frui.
Poi questa regola viene declinata kaτa’ лspι’στaσιν in relazione a singole ipotesi di vis. Ricade sul locatore il damnum derivante da una frana che abbia distrutto i frutti (non si può porre sulle spalle del co- lono, oltre alla perdita dei semi, anche l’onere della mercede); ma an- che la perdita dei frutti dell’olivo causata da una malattia della pianta o dall’inconsueto calore del sole. Se invece non sia accaduto nulla che ecceda la normalità, il danno è del conduttore; e lo stesso avviene quando un esercito indisciplinato, passando, abbia portato via qual- cosa. Se infine un terremoto rovini il campo al punto di distruggerlo
155 Cfr. anche X. XXXXX, Periculum locatoris, in «ZSS», LXXIV, 1957, 169.
completamente, la perdita deve essere sopportata dal locatore, perché viene completamente meno l’uti frui che egli deve garantire al con- duttore.
In questa sede non è necessario affrontare nel dettaglio i nume- rosi problemi esegetici posti dal passo156, ed è sufficiente concentrarci sui profili ai nostri fini più importanti.
Innanzitutto, com’è stato acutamente rilevato157, il problema della cd. ‘ripartizione del rischio’ – per usare le categorie invalse – appare interamente assorbito nella prestazione, parlandosi di vim praestare: ciò non significa che il tema del rischio si trasformi in un problema di responsabilità, ma piuttosto che il rischio, così come la responsabilità, non sono rappresentati come ulteriori rispetto al- l’oportere, ma vi rientrano pienamente, mostrando quanto sia impro- pria, per descrivere l’esperienza romana, la distinzione tra ‘Schuld’ e ‘Haftung’. A ciò si deve aggiungere che, come abbiamo già notato158, la richiesta contenuta nell’intentio formulare è sempre la stessa, essendo riferita all’oportere, sia che si tratti di domanda di adempimento (rife- xxxx cioè al debito) sia che si tratti di risarcimento (riferita cioè alla re- sponsabilità) sia che, riferendosi alla ripartizione del rischio, essa si collochi in uno spazio in cui le due categorie dell’adempimento e del risarcimento appaiono difficili da distinguere.
In altre parole, la categoria romana dell’oportere sembra assor-
bire entro il concetto di obbligazione non solo – per usare le catego- rie moderne – il dovere di prestazione, ma anche il dovere risarcitorio e la sopportazione di tutti i danni connessi al rapporto. Ciò non si- gnifica, naturalmente, che tra le diverse situazioni i romani non di- stinguessero: la condanna derivante da culpa è più onerosa di quella relativa alla sopportazione di una vis, essendo parametrata all’id quod interest159. Ma questa differente prospettiva implica che le distinzioni
80 ss.
156 Per la mia analisi rinvio a FIORI, La definizione della locatio conductio, cit.,
157 C. A. Xxxxxxx, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano,
in «Iura», XLIII, 1992, 70 s.; CARDILLI, L’obbligazione di ‘praestare’, cit., 233 ss.
158 Cfr. supra,§ 2.
159 Ad esempio, accanto alla ‘serie’ costituita da Xxx. 2 dig. D. 19, 2, 27 pr.-1 e Xxx. 3 dig. a Paulo epit. D. 19, 2, 30, 1 in cui si affronta il problema della sopporta- zione della vis, si collocano testi come Xxx. 3 dig. a Paulo epit. D. 19, 2, 30 pr.; D. 19,
usuali per il giurista moderno non possono essere utilizzate in modo netto: nell’oportere rientra tutto ciò che a qualunque titolo sia dovuto nel rapporto (quidquid ob eam rem dare facere oportet).
Tutto ciò ha due importanti conseguenze. La prima è che per i romani l’obbligazione non concide solo con il contenuto del con- tratto ‘voluto’ dalle parti, ma comprende oggettivamente ogni dovere a qualunque titolo riferibile al rapporto. La seconda è che nei con- tratti sinallagmatici i doveri di adempimento, di risarcimento, di sop- portazione del rischio si imperniano, in quanto tutti rientranti nell’o- portere, sull’equilibrio tra le prestazioni: nel frammento di Servio, ad esempio, una simile ‘onnicomprensività’ dell’oportere risulta chiara- mente dall’ultima frase – oportere enim agrum praestari conductori, ut frui possit – che mostra come la ripartizione del rischio si leghi all’e- secuzione della prestazione di uti frui da parte del locatore, e che la remissione totale o parziale della merces è una diretta conseguenza della diminuzione di uti frui.
La distinctio è stata applicata dalla stessa scuola di Servio a ipo- tesi diverse dalle locazioni agrarie160. Si afferma così che gli habitato- res di caenacula non possano statim pretendere una deductio ex mer- cede ogniqualvolta vi sia una qualche diminuzione nell’uti, ma solo quando – accaduto un evento che abbia costretto il dominus a com- piere dei lavori – l’incommodum derivato al conduttore non sia esi- guo, bensì abbia ridotto notevolmente l’usus del caenaculum161. Ed esplicitando ancor più chiaramente il rapporto proporzionale tra pa- gamento della merces e tempo di non-uso, si sostiene che se un edile
2, 30, 2; D. 19, 2, 30, 4, Serv. fr. 28 LENEL = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 2, 19, 1, in cui si pone un problema di responsabilità per culpa di una delle parti e la condanna è all’id quod interest (sui passi cfr. FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 86 ss., 103 ss.). 160 Sui passi che seguono cfr. per tutti FIORI, La definizione della locatio con- ductio, cit., 99 ss. e CAPOGROSSI COLOGNESI, Remissio mercedis, cit., 16 ss., 30 s., 37 ss.
Cfr. anche Alf. 2 dig. D. 19, 2, 27, 1.
161 Alf. 2 dig. D. 19, 2, 27 pr.: habitatores non, si paulo minus commode aliqua parte caenaculi uterentur, statim deductionem ex mercede facere oportet: ea enim con- dicione habitatorem esse, ut, si quid transversarium incidisset, quamobrem dominum aliquid demoliri oporteret, aliquam partem parvulam incommodi sustineret: non ita tamen, ut eam partem caenaculi dominus aperuisset, in quam magnam partem usus habitator haberet.
ha preso in conduzione dei balnea affinché i cittadini potessero lavarsi gratuitamente, ma tre mesi dopo i bagni vengono distrutti da un in- cendio, potrà agirsi ex conducto contro il locatore affinché restituisca la porzione di mercede ricevuta in proporzione al tempo in cui lava- tionem non praestitisset162.
Ancora più ampia è l’applicazione del principio nei giuristi po- steriori. Esso viene adottato non solo nella locazione di immobili163, ma anche in altre forme di locatio rei, nella locazione di operae, nella locazione di opus. E, soprattutto, esso viene impiegato per risolvere non solo casi di diminuzione di valore di una delle prestazioni, ma anche ipotesi di aumento di valore.
Così, in un frammento di Cervidio Scevola164, ricondotto allo schema della locatio navis un assetto di interessi potenzialmente com- plesso165, si afferma che se un tale ha preso in conduzione una nave,
162 Alf. 3 dig. a Paulo epit. D. 19, 2, 30, 1: aedilis in municipio balneas conduxe- rat, ut eo anno municipes gratis lavarentur: post tres menses incendio facto respondit posse agi cum balneatore ex conducto, ut pro portione temporis, quo lavationem non praestitisset, pecuniae contributio fieret.
163 Sulla regola rispetto alle locazioni agrarie cfr. per tutti CAPOGROSSI COLO-
XXXXX, Remissio mercedis, cit., 71 ss.
164 Cfr. Scaev. 7 dig. D. 19, 2, 61, 1: navem conduxit, ut de provincia Cyrenensi Aquileiam navigaret olei metretis tribus milibus impositis et frumenti modiis octo mi- libus certa mercede: sed evenit, ut onerata navis in ipsa provincia novem mensibus re- tineretur et onus impositum commisso tolleretur. quaesitum est, an vecturas quas con- venit a conductore secundum locationem exigere navis possit. respondit secundum ea quae proponerentur posse.
165 Come avevo già rilevato (FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 146 s. nt. 64), la precisazione del giurista circa il fatto che il suo responsum si lega al modo in cui è stata posta la quaestio induce a ipotizzare che egli avesse qualche esi- tazione nella ricostruzione dell’assetto di interessi, che invece appare a X. XXXXX, Considerazioni in tema di risoluzione del contratto per impossibilità della prestazione e di ripartizione del rischio nella locatio conductio, in Iuris vincola. Studi in onore di Ma- rio Talamanca, VIII, Napoli, 2001, 285 nt. 73 (seguita da X. XXXXXX, La responsabilità per fatto di ausiliari nel diritto romano, Padova, 2008, 320 nt. 60) una semplice loca- tio navis. Le esitazioni di Scevola derivavano probabilmente dai termini usati nella formulazione della quaestio, che sono più compatibili con un contratto di trasporto che con una locazione di nave: il riferimento contenuto nella lex contractus alla de- stinazione e al carico (ut de provincia Cyrenensi Aquileiam navigaret olei metretis tri- bus milibus impositis et frumenti modiis octo milibus); la precisazione della confisca delle merci (… et onus impositum commisso tolleretur); l’uso del termine vectura per indicare la merces. È chiaro infatti che se lo scopo della locazione entra nel contenuto
ma per un ordine dell’autorità – verisimilmente legato a un problema di pagamento di dazi, imposte o diritti gravanti sul conduttore166 – si impedisce alla nave di partire e le merci vengono scaricate e confi- scate, la merces è egualmente dovuta167.
Nella locazione di operae, in una ideale ripetizione della distin- zione serviana tra vis cui resisti non potest e vitia ex ipsa re, da un lato
Xxxxxxxx rileva che il conduttore è tenuto a pagare in proporzione al tempo in cui ha goduto del bene o delle operae, mentre non è tenuto se il bene è divenuto inutilizzabile, come ad esempio nel caso di un’insula bruciata168; dall’altra Paolo169 scrive che, se la mancata frui-
del contratto – anche se ciò non giunga a integrare un contratto di trasporto, nel quale vi è addirittura un’obbligazione del nauta a giungere a destinazione –, tuttavia non può più parlarsi di mera locazione della nave, e nel valutare l’incidenza dei ri- schi ci si deve interrogare sul ‘fondamento negoziale’ – per usare una terminologia moderna – del contratto. Inoltre, poiché oltre alla locazione della (intera) nave, era possibile la locazione di singoli spazi della stessa, rispetto ai quali la regola era che si pagava solo per quelli effettivamente utilizzati (cfr. il commento di Xxxxx in Lab. 1 pith. a Paulo epit. D. 14, 2, 10, 2, su cui FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 139 ss. e ID., Forme e regole dei contratti di trasporto marittimo in diritto romano, in «Riv. dir. nav.», XXXIX, 2010, 158 ss.), e poiché nella fattispecie il carico era stato sequestrato, cosicché non vi era stato uso dei loca, era possibile interrogarsi sull’esi- gibilità della merces da parte del locatore. La soluzione finale però è certamente nel senso della locazione della nave.
166 FERCIA, La responsabilità per fatto di ausiliari, cit., 320 nt. 60, con bibliogra- fia. Il mancato pagamento nel passo non è ricondotto a una negligenza del condut- tore (come invece proponevano Th. XXXXX-XXXX, Locatio conductio. Eine Untersu- chung zum klassischen römischen Recht, Wien, 1956, 198 e X. XXXXX, Das Problem der Xxxxxxxxxxxxx im Bereich des römischen Dienst- und Werkvertrages, in «SDHI», XXXIV, 1968, 219), e in effetti non rileva ai fini della quaestio, posto che non ci si sta ponendo il problema di un inadempimento del conduttore ma solo dell’essere o meno dovuta la merces.
167 Sul rapporto tra questo responso e il principio elaborato da Servio per i vitia ex ipsa re, cfr. esattamente, FERCIA, La responsabilità per fatto di ausiliari, cit., 320 s.
168 Marc. 6 dig. fr. 77 LENEL = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 2, 9, 1: hic subiungi potest, quod Xxxxxxxxx libro sexto digestorum scripsit: si fructuarius locaverit fundum in quin- quennium et decesserit, heredem eius non teneri, ut frui praestet, non magis quam in- sula exusta teneretur locator conductori. sed an ex locato teneatur conductor, ut pro rata temporis quo fruitus est pensionem praestet, Xxxxxxxxx quaerit, quemadmodum praestaret, si fructuarii servi operas conduxisset vel habitationem? et magis admittit te- neri eum: et est aequissimum.
169 Xxxx. l. sing. reg. D. 19, 2, 38 pr.: qui operas suas locavit, totius temporis mer- cedem accipere debet, si per eum non stetit, quo minus operas praestet.
zione non è dipesa dal lavoratore170, questi ha diritto a ottenere il compenso per l’intera durata del contratto171.
170 Sull’ampio valore di per eum non stetit in D. 19, 2, 38 pr., cfr. per tutti MÜL- LER, Xxxxxxxxxxxxx bei der locatio conductio, cit., 97 s., con letteratura. Delle clausole contenute nelle tavolette di Transilvania – in cui il lavoratore non solo si obbliga a prestare operae sanae et valentes, evidentemente assumendosi il rischio della malattia (così esattamente RÖHLE, Das Problem der Xxxxxxxxxxxxx, cit., 195), ma accetta una merces pro rata se la sua prestazione sia impedita da una inondazione della miniera (fluor: sul significato del termine cfr. per tutti RÖHLE, op. cit., 185 s.): CIL, III, 948 n. 10 = FIRA, III, 150a, ll. 7-8: [quod si] | fluor impedierit, pro rata computare debebi[t]
– è stata ipotizzata a ragione la natura vessatoria: cfr. X. XXXXXXXXXX, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Xxxx Xxxx, 0000, 386.
171 Cfr. anche Pap. 4 resp. D. 1, 22, 4 (e Ulp. 32 ad ed. D. 19, 2, 19, 10), ove si afferma che il comes ha diritto all’intera mercede anche in caso di morte del legatus Caesaris, tranne il caso in cui abbia prestato le proprie operae a terzi; e Ulp. 32 ad ed.
D. 19, 2, 19, 9, nel quale si riporta un rescritto imperiale nel quale stabilisce che, qua- lora sia morto il conductor operarum di uno scrivano, quest’ultimo ha diritto alla merces per l’intero periodo stabilito nel contratto, in quanto il mancato godimento delle opere non rientra nella sfera del locatore (cum per te non stetisse), purché que- sti le abbia effettivamente messe a disposizione, non avendo lavorato per altri. Non mi sembra che rispetto a questi testi possa parlarsi di soluzioni equitative eccezionali motivate dal fatto che il locator che non abbia prestato le proprie attività a terzi si troverebbe senza retribuzione (VACCA, Considerazioni in tema di risoluzione del con- tratto per impossibilità della prestazione e di ripartizione del rischio nella locatio con- ductio, cit., 291 ss.), ma dell’applicazione del principio generale per cui ciascuna parte ha diritto al corrispettivo se ha compiuto la propria prestazione (cfr. infra) – il che è escluso quando l’opera (ossia la giornata lavorativa) sia stata prestata a terzi. Non mi sembra neanche si possa ritenere con X. XXXXXXX, Sul problema del rischio contrattuale nel diritto romano, in Studi E. Betti, III, Milano 1962, 718; X. XXXXXXXXX, Le conseguenza della morte del conductor operarum sul rapporto di lavoro, in «SDHI», XXX, 1964, 284 ss. e VACCA, op. ult. cit., 292, che in queste ipotesi non si ponga un problema di periculum ma di trasmissibilità ereditaria dell’obbligazione: comunque, se così fosse, significherebbe che il principio del periculum era talmente accettato da non essere neanche discusso. Né che possa ritenersi che la regola espressa da Xxxxx e nei passi qui riportati sia riferibile a un mutamento di indirizzo determinatosi nella prassi dei rescritti (così XXXXX, Das Problem der Xxxxxxxxxxxxx, cit., 186, seguito da
X. XXXXXX, Die Arbeitsverträge in den siebenbürgischen Wachstafeln, in «RIDA», 3e s., XXXVIII, 1991, 129) perché la regola espressa da Xxxxx risponde a una logica co- mune a tutte le ipotesi di locatio conductio (cfr. infra). Cfr. anche Ulp. 8 omn. trib. D. 50, 13, 1, 13 e Xxxx. sing. reg. D. 19, 2, 38, 1, che ripetono lo stesso principio in ma- teria di retribuzione degli advocati; la fattispecie in Ulp. 38 ad ed. D. 38, 1, 15 pr. po- trebbe non essere rilevante, riferendosi non a un’ipotesi di locatio conductio, ma di promissio liberti. Su questi passi come testimonianze di regole in materia di pericu- lum cfr., oltre alla dottrina citata, XXXXX, Periculum locatoris, cit., 194 ss.; I. XXXXXX,
Nella locazione di opus, e precisamente in un contratto di tra- sporto, Xxxxxxx precisa che non è dovuta la vectura per gli schiavi morti a bordo, ossia non portati a destinazione dal conductor172 – mentre, trattando di una conductio navis, aveva affermato che si paga per la capacità di trasporto della nave, e dunque è dovuta l’intera merces anche se non giungono a destinazione tutte le anfore173. In ma- teria di appalto, è regola indiscussa per la giurisprudenza del princi- pato174 che fino al collaudo – o comunque fino al momento in cui si sarebbe potuto realizzare il collaudo e non è stato compiuto per fatto del locatore – il conductor risponde del periculum legato alla sua sfera di controllo ma non dei casi di vis maior legati al terreno, che rica- dono sul locator175.
Xxxxxxxxxxxxx beim römischen Dienst- und Werkvertrag, in «Labeo», XXI, 1975, 26 ss.; X. XXXXX, Periculum conductoris. Eine gleichlaufende Gefahrtragungsregel bei den Verträgen der locatio conductio, in Festschrift X. Xxxxx, Xxxxxxxxx-Xxxxxx-Xxxx, 0000, 86 ss.
172 Lab. 1 pith. a Paulo epit. D. 14, 2, 10 pr., su cui FIORI, La definizione della lo- catio conductio, cit., 131 ss.
173 Lab. 1 pith. a Paulo epit. D. 14, 2, 10 2, su cui FIORI, La definizione della lo- catio conductio, cit., 139 ss.
174 Cfr. Sab. fr. 96 LENEL = Iav. 5 Lab. post. D. 19, 2, 59; Xxx. 0 xx Xxxx. X. 00, 0,
00; Afr. 8 quaest. D. 19, 2, 33; Flor. 7 inst. D. 19, 2, 36.
175 Problematico è Lab. 1 pith. a Paulo epit. D. 19, 2, 62 (su cui FIORI, La defi- nizione della locatio conductio, cit., 134 nt. 27, con altre indicazioni bibliografiche), che attribuisce il periculum al conduttore quando un xxxxxx xxxxx prima della proba- tio: si rivum, quem faciendum conduxeras et feceras, antequam eum probares, labes corrumpit, tuum periculum est; credo però che il testo debba tener conto delle carat- teristiche tipiche dei frammenti dei pithana, e cioè una certa tendenza all’astrazione rispetto al caso concreto e l’assenza di ogni motivazione – peculiarità, quest’ultima, che fa assumere al responso la veste di ‘massima’, ossia di regola ‘probabile’ (лιqa- νo’ν) rispetto alla singola fattispecie, che però non deve vincolare il giurista, qualora esistano i presupposti per una soluzione diversa (cfr. per tutti X. XXXXXXXXX, I ‘pithana’ di Xxxxxxx e la logica stoica, in «Iura», XXVI, 1975, 35 ss.). In questa pro- spettiva, Xxxxxxx sembrerebbe prescindere dalla qualificazione della labes come vis maior (così invece XXXXX, Periculum locatoris, cit., 188 ss.; X. XXXXXX, Periculum loca- toris, in «ZSS», LXXXI, 1964, 186 s.; XXXXX, Das Problem der Xxxxxxxxxxxxx, cit., 206) o come culpa (cfr. per tutti C. ALZON, Los risques dans la locatio conductio, in «La- beo», XII, 1966, 331 nt. 66; X. XXXXX, Labeo zur Xxxxxxxxxxxxx im Bauvertrag, in AA.VV., L’homme dans son environnement - Xxxxxx und Xxxxxx, Xxxxxxxx, 0000, 134 ss.) e abbia invece ritenuto di ricondurre il periculum al conduttore in conside- razione del fatto che terreno e opus erano nella sua sfera di controllo tecnico (così
Il fatto che le medesime regole transitino da un modello nego- ziale all’altro, mostra che nell’attribuzione del periculum al locatore o al conduttore il criterio non è il differente assetto di interessi176 o la proprietà delle cose coinvolte177, ma il fatto che gli eventi abbiano in- ciso direttamente sulla prestazione di una parte o solo sulla possibilità per l’altra di avvantaggiarsene:
a) il primo caso si verifica quando venga dato in locazione un
bene o un’attività che per un evento sopravvenuto ed esterno diven- gano meno produttivi, come nel caso di una frana che riduca il rac- colto, un incendio che distrugge o rovina la casa, ecc.: in simili ipotesi si ritiene che la prestazione non sia stata ricevuta e ciò legittima l’a- dattamento contrattuale;
b) il secondo caso si ha quando l’evento non incide sulla presta-
zione, nel senso che il bene o l’attività sono in sé produttivi, ma rende impossibile il godimento, come quando la nave venga bloccata nel porto o per qualche motivo, non riconducibile al locatore, il conduc- tor operarum non riesca a fruire delle operae: in questo secondo caso si ritiene che la prestazione del locatore sia stata adempiuta, ma che l’evento abbia inciso sulla gestione del bene in capo al conduttore.
Per dirla in una frase, potremmo dire che il conduttore non è te- nuto a pagare la merces se l’evento ha inciso sulla locatio, ossia sulla prestazione del locatore, ma deve pagare se l’evento ha inciso sulla
S. D. XXXXXX, The Roman Jurists and the Organization of Private Building in the Late Republic and Early Empire, Bruxelles, 1989, 90 ss., spec. 92; J. M. XXXXXX, Zur locatio conductio: Der Bauvertrag, in «ZSS», CIX, 1992, 518 ss., spec. 523; cfr. CARDILLI, L’ob- bligazione di ‘praestare’, cit., 337 ss.; XXXXX, Periculum conductoris, cit., 60 ss., spec. 74).
176 È questa, in sostanza, la posizione di RÖHLE, Das Problem der Gefahrtra- gung, cit., 183 ss. Xxxxxxx a un periculum conductoris nella locatio operarum F. M. DE XXXXXXXX, I rapporti di lavoro nel diritto romano, Milano 1946, 148; XXXXX-XXXX, Lo- catio conductio, cit., 182; PROVERA, Sul problema del rischio contrattuale, cit., 694.
177 Così XXXXX, Periculum locatoris, cit., 198 ss., con la sola eccezione della lo- catio operarum, dove si applicherebbe una soluzione analoga a quella della ‘Sphä- rentheorie’ sviluppata dalla giurisprudenza tedesca. Cfr. anche XXXXX, Periculum con- ductoris, cit., 59 ss. Per chiarezza, a fronte del rilievo di CARDILLI, Sopravvenienza e pericoli contrattuali, cit., 22 s. nt. 59 (= 199 nt. 59), preciso che con l’espressione «ti- tolarità della sfera economica entro cui ricade il damnum» (FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 111) non intendevo riferirmi al criterio del dominium, ma proprio a quello della ‘Sphärentheorie’.
conductio, ossia sull’amministrazione di un bene in astratto utilizza- bile.
Se così è, però, si comprende che per i prudentes il tema delle so-
pravvenienze si colloca interamente entro quello del sinallagma: il problema dei giuristi non è se non strumentalmente quello di com- prendere chi debba sopportare le conseguenze dannose degli eventi – ossia un problema che oggi qualificheremmo come ‘rischio’ – quanto di verificare se vi sia stato pieno adempimento o se invece, per le ca- renze o gli esuberi di una prestazione, debba essere rideterminata an- che l’altra. Più che con il tema dell’impossibilità della prestazione, cui questi problemi vengono per lo più collegati178, ma che come ab- biamo visto riguarda piuttosto le obbligazioni di dare certam rem, ci troviamo dinanzi a fattispecie che potrebbero essere vicine a quella dell’eccessiva onerosità sopravvenuta – quantomeno se quest’ultima viene fondata sulla necessità di mantenere l’equilibrio del sinallagma e vi si fa rientrare anche il caso dello svilimento della contropresta- zione179. Lo dimostra il fatto che – come ho anticipato – troviamo im- piegate le medesime regole sia quando diminuisce in modo imprevi- sto ed eccessivo il valore della prestazione dell’altra parte, sia quando si verifica invece un inaspettato e sproporzionato incremento di va- lore della propria180.
In un passo di Labeone, l’impostazione di Servio181 viene infatti estesa a fattispecie di eccessiva onerosità sopravvenuta:
178 Cfr. ad es. VACCA, Considerazioni in tema di risoluzione del contratto per im- possibilità della prestazione e di ripartizione del rischio nella locatio conductio, cit., 260 nt. 18.
179 Riferimenti in FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 196 s.
180 Non mi sembra si possa seguire TAFARO, Xxxxx fede ed equilibrio degli inte- ressi nei contratti, cit., 567 ss., nel riferire al problema dell’adattamento negoziale Xxxx. 5 quaest. D. 19, 1, 43, nel quale si pone la questione della restituzione delle spese sostenute da un compratore per l’istruzione di uno schiavo, nel caso queste siano divenute molto maggiori di quanto il venditore potesse immaginare al mo- mento della conclusione del contratto: nella fattispecie, il contratto non resta in vita
– che è il caso dell’adeguamento negoziale – né viene risolto perché eccessivamente oneroso, ma al contrario si pone il problema di quanto sia dovuto al venditore al momento della risoluzione.
181 Che egli accoglie in pieno: cfr. Lab. 4 post. epit. a Xxx. X. 00, 0, 00; 5 post. a Iav. epit. D. 19, 2, 60 pr.
Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19, 2, 60, 8: vehiculum conduxisti, ut onus tuum portaret et secum iter faceret: id cum pontem transi- ret, redemptor eius pontis portorium ab eo exigebat: quaerebatur, an etiam pro ipsa sola reda portorium daturus fuerit. puto, si mu- lio non ignoravit ea se transiturum, cum vehiculum locaret, mulio- nem praestare debere.
La fattispecie da cui origina il responso è complessa, sembrando combinare il noleggio di un veicolo con un contratto di trasporto182. Il proprietario di alcune merci (Tu) ha preso in locazione un vehicu- lum allo scopo di farvi trasportare il suo carico fino ad una certa de- stinazione. Dovendo essere attraversato un ponte, il concessionario (redemptor) del ponte esige dal mulio vehicularius il pagamento di un pedaggio. La quaestio posta al giurista è se – posto che il pedaggio si riferisce in primo luogo alle merci – una parte della spesa costituita dal portorium sia riferibile al solo vehiculum, cosicché anche il pro- prietario di questo debba contribuire. Xxxxxxx risponde che il mulio è tenuto a pagare se, al momento della conclusione del contratto, era a conoscenza del fatto che sarebbe passato su quel ponte.
Come si vede, Xxxxxxx rifiuta di seguire, nel suo responso, la lo- gica puramente proprietaria sottesa alla quaestio. Per decidere se il proprietario del veicolo deve pagare il portorium non rileva la frazio- nabilità del pedaggio in una parte dovuta per le merci e un’altra do- vuta per il carro. Ciò che importa è invece la prevedibilità della spesa, espressa dal riferimento alla scientia: se la spesa era imprevista e dun- que non poteva essere inclusa nella valutazione economica effettuata al momento della conclusione del contratto – ossia nell’equilibrio tra prestazione e controprestazione –, essa sarà sopportata per intero dal proprietario delle merci; altrimenti, se il mulio sapeva della necessità del transito sul ponte soggetto a pedaggio, anche il proprietario del veicolo dovrà contribuire.
Ricondurre questa fattispecie a un mero rimborso delle spese, in quanto tale estraneo all’oportere, è altrettanto arbitrario che riferire
182 Sul passo cfr. FIORI, La definizione della locatio conductio, cit., 145 s. Sul pro- blema di questi assetti di interessi complessi, cfr. ibid., 142 ss. e ID., Forme e regole dei contratti di trasporto marittimo in diritto romano, cit., 160 ss.
l’ipotesi delle perdite al problema della ripartizione del rischio. Anche in questo caso, come in quello di diminuzione del valore della con- troprestazione, il problema è un altro, e cioè il bilanciamento delle prestazioni tenendo conto sia dell’evento sopravvenuto (cum pontem transiret, redemptor eius pontis portorium exigebat), sia dell’accordo iniziale tra le parti (cum vehiculum locaret). Così come il colonus sa che potrà andare incontro a una serie di eventi incerti nella coltiva- zione che però – in quanto normali – vengono considerati nell’ac- cordo e dunque anche nell’equilibrio economico tra le prestazioni, allo stesso modo il mulio che sappia della maggiore spesa costituita dal portorium potrà tenerne conto al momento della conclusione del contratto.
È, a ben vedere, la medesima logica che si applica – pur se entro il diverso schema dell’obbligazione solo eventuale – ad altri rapporti di durata, quali il deposito, il comodato e il mandato, che in diritto romano classico erano contratti gratuiti ma prevedevano la possibi- lità, per il depositario, il comodatario e il mandatario, di ottenere dalla controparte il ristoro delle spese e dei danni eventualmente sop- portati attraverso il cd. iudicium contrarium. Anche in questo caso, potrebbe ridursi il tutto al semplice rimborso o risarcimento, ma l’at- tore chiede che gli sia riconosciuto ciò che è dovuto a titolo di obbli- gazione contrattuale (oportere), cosicché l’obbligazione da unilaterale diviene bilaterale. D’altronde, che non si debba porre eccessiva enfasi sulle etichette teoriche elaborate dalla tradizione civilistica è mostrato dal fatto che nel diritto civile italiano le regole codicistiche di gestione della maggiore onerosità nel contratto di appalto – il ‘regime speciale’ di cui abbiamo parlato sopra – sono rappresentate in termini di rim- borso spese183.
5.3. Conclusioni. – Comprendiamo a questo punto che la stessa categoria ‘ripartizione del rischio’ appare riduttiva se intesa come mera distribuzione delle perdite – come avviene soprattutto, ma non solo, nell’analisi economica del diritto – perché la regola serviana giunge al cuore della logica sinallagmatica del contratto. I prudentes non si
183 X. XXXXX, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, 361 s.
preoccupano di distinguere tra impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità o altre sopravvenienze, ma sono interessati a verificare se l’e- vento abbia permesso o meno l’adempimento delle prestazioni e se vi sia stata alterazione dell’equilibrio contrattuale. Quando ciò si verifi- chi, la modificazione di una prestazione non può che riverberarsi sul- l’altra, avendo come effetto l’adeguamento del contratto184.
E poiché l’obbligazione non è il ‘voluto’ dalle parti, ma l’insieme dei doveri del rapporto, questo risultato è raggiunto senza risolvere il contratto né pretendere che la sua modificazione passi per una nuova manifestazione di volontà delle parti: non si pone alcun vincolo di ri- negoziazione, ma si ammette un potere giudiziale – che come ab- biamo detto deve ritenersi fondato sulla buona fede, perché solo nei iudicia bonae fidei può configurarsi – di intervenire sulle prestazioni per ristabilire l’equilibrio contrattuale185. Né si propone come unica soluzione quella della risoluzione del contratto: la regola della clau- sola rebus sic stantibus trova spazio solo in quei contratti, come la sti- pulatio, in cui il contenuto del vincolo è individuato esclusivamente dalla promessa, cosicché per mutare il programma contrattuale è ne- cessaria una nuova promessa.
La soluzione romana ci aiuta così a comprendere quanto le mo- derne teorie della risoluzione e addirittura della rinegoziazione siano condizionate dalla concezione volontaristica che esse apparentemente condannano186: per i romani, poiché il contratto non è un accordo produttivo di effetti obbligatori, ma una obbligazione basata sul con- senso, l’accordo non deve essere tutelato in sé, come principio di li- bertà e di dominio dei propri atti, ma costituisce il momento in cui viene assunto un vincolo. Perciò quando il vincolo ha natura sinallag- matica, l’alterazione del sinallagma comporta la necessità di un auto- matico riequilibrio, ma non richiede una nuova manifestazione di vo- lontà: il iudex che riequilibra il rapporto non interviene sulla volontà delle parti, ma permette al vincolo nato dall’accordo di mantenere la
184 Cfr. CARDILLI, Sopravvenienza e pericoli contrattuali, cit., 20 ss. (= 196 ss.).
185 Sui problemi posti dai rimedi per l’adattamento negoziale – dovere di rine- goziazione o intervento giudiziale – nel diritto attuale cfr. FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 204 ss.
186 Cfr. FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 216.
sua logica interna, cosicché in qualche modo il giudice si limita a ga- rantire la corretta esecuzione del contratto in accordo con la volontà iniziale delle parti.
6. Labeone: la bona fides come regola di struttura contrattuale e l’a- xxxx praescriptis verbis come azione generale di buona fede.
6.1. La bona fides come criterio dell’interdipendenza delle obbliga- zioni nei contratti a prestazioni corrispettive. – Benché le discussioni sin qui ricordate si muovano in tutta evidenza nella peculiare logica processuale dei iudicia bonae fidei, coem abbiamo detto nei testi ri- cordati non si menziona esplicitamente la bona fides. Tuttavia, che sia questa alla base delle regole in materia di equilibrio contrattuale è di- mostrato incontestabilmente da un notissimo brano di Labeone187:
Lab. 4 post. a Iav. epit. D. 19, 1, 50: bona fides non patitur, ut, cum emptor alicuius legis beneficio pecuniam rei venditae debere desisset antequam res ei tradatur, venditor tradere compelletur et re sua careret. possessione autem tradita futurum est, ut rem venditor aeque amitteret, utpote cum petenti eam rem petitor ei neque ven- didisset neque tradidisset.
Non è certo possibile, in questa sede affrontare tutte le implica- zioni esegetiche del testo. Ai nostri fini è sufficiente rilevare il ruolo assunto dalla bona fides nella logica complessiva del responso.
La fattispecie è senza dubbio peculiare. Una lex aveva sciolto il
compratore dal dovere di pagare il prezzo. Il provvedimento è per noi
187 Il passo è stato sottoposto a una accuratissima esegesi da X. XXXXXXXXX, Xxx ed interpretatio in Lab. 4 post. a Iav. epit. D, 19, 1, 50, in Nozione formazione e in- terpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche X. Xxxxx, Na- poli 1997, 353 ss., con indicazione della letteratura precedente, cui adde almeno X. XXXXX, A proposito di ‘aeque’ in D. 19.1.50: un giudizio con comparazione sottesa, in
«SDHI», LXVI, 2000, 1 ss.; 331 ss.; Fr. STURM, Labeo 4 post a Iav. epit. D. 19, 1, 50 und kein Ende, in Iurisprudentia Universalis. Festschrift Th. Xxxxx-Xxxx, Xxxx-Xxxxxx- Xxxx 0000, 759 ss.; X. XXXXXXX, Il gusto dell’esegesi: D. 19, 1, 50, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., II, 266 ss.; X. XXXXX, Buona fede e sinal- lagma contrattuale, in XXXXXXXX (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., IV, 331 ss.; XXXXXXXX, La buona fede come principio di diritto dei contratti, cit., 335 ss. (= 55 ss.); XXXXXX XXXXXXXXX, La buena fe, cit., 312 ss.
di difficile identificazione, ma l’ipotesi più probabile è che esso mi- rasse a favorire l’acquisto a titolo gratuito di terre da parte dei vete- rani delle guerre civili, ponendo rimedio a un iniziale progetto di cor- rispondere ai veterani contribuzioni pubbliche per l’acquisto: rivela- tesi tali contribuzioni troppo onerose per l’erario, limitatamente ai contratti già conclusi si sarebbe spostato l’onere economico a carico dei venditori188. Entro questo scenario, Xxxxxxx afferma che, se è stata effettuata la traditio, il compratore ha diritto a trattenere la cosa, op- ponendo alla rei vindicatio del venditore – ancora evidentemente do- minus ex iure Quiritium, non essendo stata effettuata la mancipatio del fondo – l’exceptio rei venditae et traditae189; se invece non vi è an- cora stata traditio, la bona fides non tollera (non patitur) che, venuto meno l’obbligo dell’emptor, sopravviva quello del venditor190.
Il dato più rilevante è, a mio avviso, che – a quel che sembra – in nessun caso le parti possono utilizzare l’actio empti.
A ben vedere, se la lex è intervenuta a estinguere l’obbligazione del compratore di pagare il prezzo quando è già stata effettuata la tra- ditio, non vi sono più obbligazioni da adempiere all’interno del con- tratto. La prestazione del venditore è stata infatti eseguita e l’obbliga- zione del compratore è venuta meno per beneficium legis, ossia se- condo una precisa volontà del legislatore191: la lex non ha annullato la vendita, ma solo estinto l’obbligazione del compratore192. Il venditore
188 TALAMANCA, Lex ed interpretatio, cit., 383 ss.
189 Il segmento utpote … tradidisset, in sé incomprensibile, deve forse essere integrato con MOMMSEN [- XXXXXXX] (ed.), Digesta Iustiniani Augusti, cit., I, 557 (cfr. anche TALAMANCA, Lex ed interpretatio, cit., 372 ss.), sulla base dei manoscritti della Vulgata: utpote cum petenti eam rem <emptor exceptionem rei venditae et traditae op- ponere possit nec perinde sit, quasi eam rem> petitor ei neque vendidisset neque tradi- disset.
190 Rispetto alle ipotesi avanzate in dottrina di una interpolazione della frase bona fides non patitur e di un rimaneggiamento compilatorio che avrebbe distinto in due ipotesi una risposta di Xxxxxxx che non distingueva tra l’essere la lex interve- nuta prima o dopo la traditio, è sufficiente rinviare a TALAMANCA, Xxx ed interpreta- tio, cit., 358 ss. (sul riferimento alla bona fides, 359 nt. 20).
191 Cosicché, se il beneficium avesse deteminato il venir meno del contratto, non vi sarebbe stato in effetti alcun beneficium, e la lex sarebbe stata disapplicata: XXXXXXXXX, Lex ed interpretatio, cit., 362.
192 TALAMANCA, Lex ed interpretatio, cit., 388 s., seguito da VACCA, Buona fede e sinallagma contrattuale, cit., 344.
non avrebbe perciò potuto chiedere ex empto né il pagamento del prezzo né, per le stesse ragioni, la restituzione della res193: non vi è stata alcuna violazione della buona fede da parte del compratore, il cui mancato pagamento avviene iure, cosicché il giudice non po- trebbe mai ritenere che egli sia tenuto a quidquid dare facere oportet ex fide bona. Addirittura, poiché la vendita si è perfezionata ed è stata eseguita, anche qualora il venditore avesse voluto far ricorso a un’a- zione diversa da quella contrattuale, come la rei vindicatio, si sarebbe visto opporre l’exceptio rei venditae et traditae.
Se invece la lex è intervenuta prima che sia stata effettuata la tra- ditio, l’obbligazione del venditore di trasmettere la cosa è ancora esi- stente. Il venditore avrebbe, sulla base dell’accordo iniziale, il dovere di dare esecuzione al contratto ma, se non lo fa spontaneamente, il compratore non può costringerlo perché, in assenza di una contro- prestazione, il venditore ex fide bona non è tenuto ad adempiere: evi- dentemente la buona fede è avvertita come la base dell’interdipen- denza funzionale delle prestazioni194, cosicché qualora tale interdi- pendenza sia venuta meno – anche se per motivi legittimi – per quanto gli effetti già prodottisi sul piano reale non siano reversibili, non può dirsi che sul piano obbligatorio il negozio sia attualmente vincolante.
Si noti che sul piano del bilanciamento tra le posizioni delle parti la fattispecie è molto diversa da quella dell’impossibilità soprav- venuta della prestazione, perché in quest’ultima l’impossibilità investe di regola un interesse economico dell’obbligato (ad es. il perimento della res, la publicatio del fondo), e il problema che si pone all’inter- prete è se le conseguenze negative dell’evento debbano ricadere sul debitore o sul creditore della prestazione. In questo caso, invece, l’e- vento mira a creare un vantaggio per l’obbligato195.
193 E ciò, a prescindere dal problema della proponibilità dell’azione contrat- tuale a fini di restituzione già all’epoca di Labeone: cfr. XXXXXXXXX, Lex ed interpre- tatio, cit., 399 ss. e XXXXX, A proposito di ‘aeque’, cit., 17 e 24 s.
194 XXXXXXXXX, Lex ed interpretatio, cit., 396 e 408; XXXXX, A proposito di ‘ae- que’, cit., 22.
195 È questo, a mio avviso, il motivo per cui non possono applicarsi al caso
specifico le regole del sinallagma condizionale. Non mi sembra invece abbia rilievo la distinzione tra fatto giuridico e naturale, che invece appare dirimente a X. XXXXX,
È a questo punto che interviene la buona fede: essa non può im- pedire l’applicazione della legge, e perciò se il bene è in bonis dell’ac- quirente, non è possibile chiedere (ex vendito) il pagamento del prezzo o la restituzione della res, perché non vi è in tal senso un opor- tere dell’acquirente. Ma se l’emptor chiede al venditore l’adempi- mento, la bona fides a sua volta elimina l’oportere – o, per meglio dire, non è dato ravvisare un oportere ex fide bona del venditore196.
Ci troviamo qui dinanzi a un uso della buona fede come ‘limite’ analogo a quello che avevamo rintracciato nella praescriptio di Q. Mucio (§ 3): venuto meno il sinallagma, del quale la bona fides costi- tuisce il parametro di razionalità, non può dirsi che ex fide bona sia dovuto qualcosa197. Si noti però che non è necessario immaginare, al riguardo, un’opposizione tra la legge di Xxxxxxx e l’impiego labeo-
Synallagma e conventio nel contratto, I, Torino, 1992, 220 e ID., A proposito di ‘aeque’, cit., 24 s. e, nella sostanza, a TALAMANCA, Lex ed interpretatio, cit., 436 s., il quale mo- tiva l’inapplicabilità della regola del sinallagma condizionale da parte di Labeone nel responso con l’affermazione che «Labeone non sentiva, o non voleva sentire, come naturale o normale, il factum principis, al quale – come un avvenimento straordina- rio – non si estendeva, né poteva estendersi automaticamente la soluzione relativa all’operatività del sinallagma condizionale nel periculum rei venditae» determinato dal perimento della cosa «che rientrava normalmente nel naturale – ancorché di rara o, eventualmente, eccezionale verificazione – svolgersi delle cose». In realtà – come nota lo stesso XXXXXXXXX, op. cit., 380 nt. 97, nel criticare Xxxxx – può darsi anche una impossibilità sopravvenuta solo giuridica, e dunque in quanto tale non ricon- ducibile al naturale svolgersi delle cose, come nel caso della publicatio del fondo.
196 Ciò, dunque, secondo una regola differente da quella del sinallagma condi- zionale (come invece vorrebbe XXXXX, A proposito di ‘aeque’, cit., 22 ss.), perché se si applicasse questa, bisognerebbe risolvere il rapporto anche effettuata la traditio (TA- LAMANCA, Lex ed interpretatio, cit., 435).
197 Benché possa apparire meno persuasiva dell’ipotesi di integrazione propo- sta da Mommsen nell’editio maior dei Digesta (ut rem <et pecuniam> venditor aeque amitteret) sulla base di Tip. 19, 8, 50 (sιj ds’ лapadw’σh/, kaι’ τo’ τι’µhµa oujk ajлaιτsι` kaι’ лpa’gµaτoç sjkлι’лτsι; l’integrazione è accettata anche da XXXXXXXXX, Lex ed in- terpretatio, cit., 370 con altra bibliografia in nt. 60), non mi sentirei di escludere del tutto che l’avverbio aeque nel testo debba essere letto, invece che nel senso di ‘egual- mente’ – interpretazione che impone di accettare l’integrazione di Xxxxxxx – in quello di ‘in conformità all’aequitas’ (GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 215 ss.; ID., A proposito di ‘aeque’, cit., 1 ss.), intendendo sottolineare il profilo dell’equiva- lenza – e dunque dell’interdipendenza – delle prestazioni nella logica dell’emptio venditio, come si è detto basato sulla bona fides.
niano del principio di buona fede, eventualmente ricordando l’avver- sione del giurista verso la politica del principe198.
Da un lato, è chiaro che la lex mirava a risolvere un problema
contingente – il fatto che mancassero i fondi per finanziare l’acquisto da parte dei veterani nelle compravendite già realizzate tra le parti – e non certo a provvedere in generale all’attribuzione di terre ai sol- dati199, cosicché non è da escludere che la soluzione labeoniana – ben- ché certamente non espressamente prevista dal legislatore, altrimenti non si spiegherebbe la necessità del responso – potesse essere per così dire integrativa della lex, limitandone sul piano interpretativo l’appli- cazione ai casi in cui la possessio fosse già stata trasmessa e così con- tribuendo a risolvere il problema determinato dalla mancanza di con- tribuzioni200.
Dall’altro è altrettanto chiaro che nel responso la buona fede non costituisce uno strumento equitativo contrapposto a una regola (che potremmo impropriamente definire) di ‘stretto diritto’, ma rap- presenta piuttosto il criterio che garantisce la coerente applicazione della logica interna del contratto di compravendita: nel ragionamento di Labeone non è la bona fides a ‘correggere’ il diritto, ma casomai la lex, che interviene sulla struttura del contratto in modo del tutto ec- cezionale, creando una regola basata sul principio di autorità, e non su quello di razionalità. Si noti, oltretutto, che il modo in cui Xxxxxxx
198 Così invece XXXXXXXXX, Xxx ed interpretatio, cit., passim e spec. 397 s.
199 Come sembrerebbe affermare F. DE VISSCHER, Labéon et les ventes forcées de terres xxx xxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxxx, xx «XXXX», 0x ser., I, 1954 = Études de droit ro- main public et privé, III, Milano, 1966, 301 (cfr. nt. seg.): tali problemi sarebbero stati risolti assai più efficacemente con una espropriazione di terre e con la successiva at- tribuzione: è chiaro che dopo la legge nessuno avrà più ‘venduto’ alcun terreno ai ve- terani, sapendo di non poter pretendere alcun pretium.
200 È il mio, per certi versi, un recupero dell’idea di DE VISSCHER, Labéon, cit., 297 ss., su cui si fonda – differenziandosene maggiormente – anche XXXXXXXXX, Xxx ed interpretatio, cit., 390 ss. Non concordo però con de Visscher – e seguo invece Ta- lamanca – su alcuni punti: che la lex mirasse a risolvere «les innombrales questions laissées ouvertes à la suite des assignations de terres au vétérans» (op. cit., 301), per- ché è verisimile che la lex riguardasse la fattispecie specifica delle vendite (TALA- MANCA, op. ult. cit., 391); che il responso fosse stato reso su richiesta formale di Au- gusto (DE XXXXXXXX, op. cit., 302), circostanza rispetto alla quale non abbiamo alcun elemento (TALAMANCA, op. ult. cit., 392).
si esprime sembrerebbe presupporre che un simile valore della buona fede sia consolidato nella iuris prudentia: il che da un lato si accorda con i risultati della nostra analisi sulla giurisprudenza repubblicana, dall’altro fa comprendere come il giurista xxxxxxxx non intenda pro- porre un intervento ‘di coscienza’ a correzione della regola giuridica, ma piuttosto contrapporre una tradizione stabile e coerente a un provvedimento occasionale dettato da logiche politiche.
6.2. L’agere praescriptis verbis come azione generale di buona fede a tutela dei doveri accessori autonomi. – Se il responso conservato in
D. 19, 1, 50, pur con tutte le peculiarità del caso specifico, si colloca in una linea di continuità con la giurisprudenza precedente, fortemente innovativo è invece l’impiego labeoniano dell’agere praescriptis ver- bis201.
201 In Lab. fr. 29 LENEL = Ulp. 10 ad ed. D. 3, 5, 5, 6,e in Lab. fr. 38 LENEL = Ulp. 11 ad ed. D. 4, 3, 11, 1, il riferimento alla bona fides è ulpianeo (cfr. per tutti TALA- MANCA, La bona fides, cit., 264 ss. e 292 s.).
202 Cfr. X. XXXXXXX, Actio civilis in factum, actio praescriptis verbis e praescrip- tio, in Studi X. Xxxxxxxxxx, XX, Xxxxxx, 0000, 683 ss. = Scritti minori, I, Torino, 2009, 257 ss., sulla base dello scolio di Xxxxxxx, µaqw`ν, a B. 11, 1, 7 (SCHELTEMA, B I, 188 = XXXXXXXX, X, 000 s.). La variante di questa teoria proposta da XXXXXXX, Ricerche sulla praescriptio, cit., 131 ss., il quale identifica la praescriptio dell’agere praescriptis verbis con una praescriptio pro actore, non appare condivisibile, basandosi sull’indimo- strato presupposto che il termine praescriptio indichi un vero e proprio ‘istituto’, ne- cessariamente eguale a se stesso in tutte le sue manifestazioni, e non semplicemente un discorso premesso alla formula che può avere funzioni e contenuti differenziati. Altrettanto non condivisibile è la diversa ipotesi di X. XXXXXX, Agere praescriptis ver- bis, Berlin 2002, 46 ss., di una praescriptio non sostitutiva della demonstratio, ma ad essa premessa: non solo l’ipotesi si pone in contrasto con quanto testimoniato dallo scolio di Xxxxxxx – ove si afferma che nell’actio praescriptis verbis il fatto (τo’ лpa`gµa) è descritto «come in una demonstratio» (wJç sjν dsµoνστpaτι’wνι), dunque evidente- mente in alternativa alla demonstratio – ma, mantenendo la demonstratio con il suo riferimento a un contratto tipico, non consente di risolvere i problemi di tutela cui l’agere praescriptis verbis è preposto. Non mi sembra possa accogliersi neanche la proposta di inserire la descrizione ‘fattuale’ dell’accordo nella demonstratio, come suggerisce C. A. XXXXXXX, L’actio civilis in factum, in «Iura», LVII, 2008-2009, 24: sia perché ciò potrebbe giustificare la denominazione di actio civilis in factum, ma non quella di agere praescriptis verbis (che pure l’a. fa coincidere), che allude evidente- mente a una (almeno iniziale) collocazione dei verba prima della formula vera e propria; sia perché, se è possibile costruire una demonstratio in factum rispetto a rap-
L’uso che fa Labeone di questo particolare modo di agere – con- sistente, secondo l’ipotesi maggiormente probabile, nel premettere a una intentio civilis incerta una praescriptio al posto di una demonstra- tio, così da non vincolare il giudice nella qualificazione del rap- porto202 – è solitamente posto in relazione con un suo supposto ruolo ‘fondativo’ nella tutela dei cd. contratti innominati.
Una lettura dei passi di Xxxxxxx in materia mostra tuttavia che egli non si occupa in nessun caso di convenzioni atipiche, ma svi- luppa invece per primo un impiego dell’agere praescriptis verbis a tu- tela di obblighi accessori emersi in contratti tipici le cui obbligazioni principali non sono – per una ragione o per l’altra – divenute efficaci. Il giurista augusteo ritiene evidentemente che in questi casi non sia possibile utilizzare l’azione tipica ma, sopravvivendo un oportere (ex fide bona), giudica possibile garantire una tutela atipica al contratto (tipico) attraverso l’agere praescriptis verbis. Esaminiamo brevemente i testi203.
Un primo frammento riguarda l’acquisto di una bibliotheca con- dizionato a un secondo negozio, e cioè alla vendita, a favore del me- desimo acquirente, dell’area in cui collocare la bibliotheca. Poiché la condizione è mista204, essendo subordinata a una attività dell’acqui- rente, il mancato avveramento della condizione determina una re- sponsabilità di quest’ultimo per essere divenuta la prima vendita de-
porti cd. atipici, assai più difficile è fare lo stesso in casi in cui – come in quelli che analizzeremo – non vi è dubbio che il contratto sia tipico, ma sia pericoloso utiliz- zare le azioni tipiche, come accade ad es. in Pap. 8 quaest. D. 19, 5, 1, 1 (su cui cfr. M.
F. CURSI - X. XXXXX, Le azioni generali di buona fede e di dolo nel pensiero di Xxxxxxx,
§ 2, in corso di pubblicazione in «BIDR», CV, 2011).
203 Un esame più accurato in CURSI - FIORI, Le azioni generali di buona fede e di dolo nel pensiero di Xxxxxxx, cit., §§ 3-7, cui rinvio.
204 GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 194: «una condizione mista, della
quale nel testo è preso in considerazione il momento potestativo». La condizione è potestativa per X. XXXXXXX, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in La- beone, in AA.VV., Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano 1987), I, Milano 1988 = X. XXXXXXX (a cura di), Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, Padova, 2006, 129, e ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 72 e nt. 32, ma alla condizione potestativa semplice non è verisimilmente riferibile la cd. finzione di avveramento.
finitivamente inefficace. Al di là di chi fosse l’interesse alla conces- sione del locum – non è da escludere, infatti, che esso fosse del vendi- tore, qualora egli avesse voluto esser sicuro che la bibliotheca ottenesse una adeguata collocazione205 – vi era comunque un interesse del ven- ditore almeno all’avveramento della condizione:
Lab. ad ed. fr. 36 Lenel = Ulp. 11 ad ed. D. 18, 1, 50: Labeo scribit, si mihi bibliothecam ita vendideris, si decuriones Campani locum mihi vendidissent, in quo eam ponerem, et per me stet, quo minus id a Campanis impetrem, non esse dubitandum, quin prae- scriptis verbis agi possit. ego etiam ex vendito agi posse puto quasi impleta condicione, cum per emptorem stet, quo minus impleatur.
È questa un’ipotesi che oggi ricondurremmo alla violazione della buona fede in pendenza della condizione: il principio di correttezza serve a evitare che l’assetto di interessi possa dar spazio a comporta- menti arbitrari nel segmento potestativo206. Ed è chiaro che, per quanto l’obbligazione principale sia sospesa sino all’avveramento della condizione, simili doveri – in quanto finalizzati a garantire che il comportamento delle parti sia corretto proprio durante tale so- spensione – devono essere attuali207.
Anche nella fattispecie descritta da Xxxxxxx è verisimile che il dovere accessorio, inserendosi all’interno di una compravendita, ossia di un rapporto in cui sorgeva un oportere ex fide bona, fosse configu- rato in termini di buona fede208. Senonché, mentre Ulpiano propende
205 Non mi sembra possa affermarsi con certezza, con X. XXXXX, Condition pre- vented from materializing, in «TR», XXVIII, 1960, 284, che il venditore non aveva in- teresse all’avverarsi della condizione, ma solo all’efficacia del contratto.
206 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Pendenza della condizione e comportamento secondo buona fede (art. 1358 c.c.), Milano, 1975, 57 ss. Sulla natura di tali doveri cfr. M. FAC- CIOLI, Il dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale, Padova, 2006, 76 ss.
207 Diverso è il problema della loro esigibilità in pendenza della condizione: la esclude X. XXXXXXXXX, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974, 220 ss., mentre la ammette la maggioranza degli autori: cfr. per tutti BRUSCUGLIA, Pendenza della condizione, cit., 106; XXXXXXXX, Il dovere di comportamento secondo buona fede, cit., 130 ss.
208 Cfr. anche ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 79, pur se all’interno di una differente ricostruzione della formula, su cui cfr. supra, nt. 202.
per ammettere anche l’actio venditi, in applicazione del principio della finzione di avveramento della condizione209, Labeone parrebbe ritenere doversi utilizzare l’agere praescriptis verbis210: una scelta che potrebbe essere stata determinata dal non essersi ancora affermata la regola della finzione di avveramento e, conseguentemente, dall’impossibilità di utilizzare le azioni del contratto di compraven- dita211.
Se così è, non è però possibile pensare che Xxxxxxx intendesse la fattispecie come convenzione atipica212: una compravendita sottopo- sta a condizione sospensiva, per quanto divenuta inefficace, non si trasforma per ciò stesso in un novum negotium213.
È impossibile tuttavia non notare che l’obbligo che viene tutelato
– che certamente consisteva in un oportere ex fide bona, essendo deri- vato da una (per quanto inefficace) compravendita – è per così dire ‘nudo’. Non nel senso che coincida con la nuda pactio di cui parla Ulp. 4 ad ed. D. 2, 14, 7, 4, perché il consenso era stato espresso rispetto a
209 Espresso dal medesimo giurista in Ulp. 77 ad ed. D. 50, 17, 161: in iure ci- vili receptum est, quotiens per eum, cuius interest condicionem non impleri, fiat quo minus impleatur, perinde haberi, ac si impleta condicio fuisset. quod ad libertatem et legata et ad heredum institutiones perducitur. quibus exemplis stipulationes quoque committuntur, cum per promissorem factum esset, quo minus stipulator condicioni pa- reret.
210 Sui problemi di genuinità del riferimento cfr. per tutti ARTNER, Agere prae- scriptis verbis, cit., 73 s. In realtà, Xxxxxxx non afferma esplicitamente che questa è l’unica soluzione, ma si limita ad sostenere che non si può dubitare che si possa agere praescriptis verbis – il che, in sé, non escluderebbe l’esperibilità, per quanto dubbia, dell’azione di vendita. Tuttavia, se così non fosse, l’aggiunta ulpianea sarebbe inutile, o al più dovremmo immaginare un fraintendimento da parte del giurista se- veriano.
211 GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 194 s. Sottolinea l’opposizione tra il pensiero di Xxxxxxx e Xxxxxxx anche DAUBE, Condition prevented from materializing, cit., 283.
212 Così invece BURDESE, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in La- beone, cit., 130; C. A. XXXXXXX, Contratto e causa nel diritto romano, in X. XXXXX (a cura di), Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica (Atti Palermo-Tra- pani 1995), Torino, 1997 = BURDESE (a cura di), Le dottrine del contratto nella giuri- sprudenza romana, cit., 194 s.; X. XXXXXXX, Le origini aristoteliche del σuνa’llagµa di Aristone, in X. XXXXXXXX (a cura di), La compravendita e l’interdipendenza delle ob- bligazioni nel diritto romano, I, Padova, 2007, 56 nt. 114.
213 Così, esattamente, GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 194.
una emptio venditio, ossia a un contratto tipico: l’azione atipica viene concessa semplicemente perché le azioni tipiche non sono utilizzabili, ma non viene creata alcuna ‘nuova’ figura contrattuale. Piuttosto, l’obbligo è ‘nudo’ perché, pur inserendosi in un accordo ‘vestito’, l’o- portere accessorio ex fide bona viene tutelato in sé, a prescindere dal tipo contrattuale di riferimento214.
Il dato, per il diritto romano, non è irrilevante. Nella moderna concezione del contratto come accordo di volontà l’inefficacia dell’obbligazione principale non fa venir meno la natura contrattuale del risarcimento, né il sistema aperto pone problemi di tipicità della tutela. In diritto romano invece, posta la sostanziale coincidenza tra contratto e obbligazione215, la definitiva inefficacia dell’obbligazione principale dovrebbe travolgere l’intero contratto. Un giurista romano, infatti, non comprenderebbe come possa ritenersi esistente un con- tratto definitivamente inefficace, da cui cioè non è nata un’obligatio216, perché per i prudentes un simile negozio è nullus217: non essendo sorta l’obligatio tipica, non è nato neanche un contratto tipico218 e dunque
214 Ciò non significa, naturalmente, che la tutela prescindesse dalle regole so- stanziali del tipo: il rispetto dell’oportere accessorio sarà verisimilmente valutato te- nendo conto delle regole dell’emptio venditio, pur non potendosi agire ex vendito.
215 Cfr. quanto scritto in X. XXXXX, Il problema dell’oggetto del contratto nella tra- dizione civilistica, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto pri- vato, Napoli, 2003, 176 ss.
216 Ed è per questa stessa ragione che un grande romanista come M. TALA-
MANCA, Inesistenza, nullità ed efficacia dei negozi giuridici nell’esperienza romana, in
«BIDR», CI-CII, 1998-1999, 1 ss., talmente compenetrato nella logica dei prudentes da non riuscire a spiegarsi l’impostazione moderna, scriveva che «la predicazione di esistenza di un atto giuridico senza che se ne siano verificati gli effetti è – dal punto di vista della logica del diritto, che del resto s’identifica qui con la logica in generale
– una contradictio in terminis» (ibid., 4; ma cfr. già ID., Osservazioni sulla struttura del negozio di revoca, in «Riv. dir. civ.», X, 1964, I, 150 ss. e spec. 158 ss.), e rilevava come
la produzione preliminare di effetti del negozio inefficace sia «una fattispecie diversa da quella del negozio che produce i suoi effetti tipici».
217 Cfr., con particolare riferimento all’ipotesi della condizione sospensiva non
avveratasi, i passi raccolti da XXXXXXXXX, Inesistenza, nullità ed efficacia, cit., 25 ss. (il quale rileva che nei testi romani il contratto sospensivamente condizionato non è detto né nullus né inutilis durante il periodo di pendenza della condizione: xxx. xxxx., 00 xx. 133 e 31).
218 L’aggettivo, come notava TALAMANCA, Inesistenza, nullità ed efficacia, cit., 16
s., «non equivale al nostro ‘nullo’, come aggettivo qualificativo, bensì al nostro ‘nes-
– se non interviene una qualche finzione – non sono utilizzabili azioni tipiche.
Tuttavia, allorché un oportere, per quanto non principale, so-
pravvive, si pone il problema della sua tutela. Il rapporto tipico inef- ficace non può certo trasformarsi in un contratto atipico, ma dal con- tratto tipico inefficace nasce un obbligo che, sopravvivendo al con- tratto cui inerisce, diviene autonomo rispetto al nomen contractus, al punto di non poter essere tutelato dall’azione tipica. Qualora il pre- tore attribuisse all’attore l’azione tipica per la tutela di questo opor- tere, pertanto, ciò porterebbe con certezza – all’epoca di Labeone: di- verso sarà per Xxxxxxx che ammetterà una finzione – a una sconfitta dell’attore. Si decide pertanto di ricorrere all’agere praescriptis verbis al fine di tutelare un oportere ex fide bona tipico, ma accessorio ri- spetto a un oportere principale inefficace.
In un secondo frammento è discussa la consegna di perle sti- mate, con l’accordo che l’accipiente restituisca le stesse o il loro prezzo; prima della vendita, le perle periscono, cosicché si pone il problema di chi debba sopportare il periculum e di quale azione debba essere utilizzata:
Lab. ad ed. fr. 99 Lenel = Ulp. 28 ad ed. D. 19, 5, 17, 1: si margarita tibi aestimata dedero, ut aut eadem mihi adferres aut pretium eorum, deinde haec perierint ante venditionem, cuius pe- riculum sit? et ait Xxxxx, quod et Xxxxxxxxx scripsit, si quidem ego te venditor rogavi, meum esse periculum: si tu me, tuum: si neuter nostrum, sed dumtaxat consensimus, teneri te hactenus, ut dolum et culpam mihi praestes. actio autem ex hac causa utique erit prae- scriptis verbis.
Xxxxxxx adotta quale criterio per l’attribuzione del periculum l’interesse al negozio e la conseguente iniziativa alla realizzazione del contratto, aggiungendo che, se nessuno ha assunto l’iniziativa ma vi è stato un accordo congiunto, il possibile acquirente è tenuto solo a ti-
suno’, usato come aggettivo indefinito», cosicché «nelle frasi in cui di qualcosa si pre- dica il nullum esse, si afferma che non esiste il soggetto – nel caso nostro la figura ne- goziale – cui si riferisce l’aggettivo». Cfr. anche, per la sostanziale coincidenza di si- gnificato con inutilis, ibid., 21 ss.
tolo di dolo o colpa. In ogni caso deve essere concessa un’actio prae- scriptis verbis.
Il rapporto provvisoriamente instauratosi tra le parti è stato letto da alcuni come contratto estimatorio219, da altri come vendita condi- zionata al gradimento (pactum displicentiae)220. Qualunque soluzione si accolga, il ricorso all’agere praescriptis verbis si giustifica sempre in relazione all’incertezza o all’impossibilità dell’uso di azioni tipiche.
Rispetto al contratto estimatorio, sappiamo che la relativa actio è stata inserita nell’editto per eliminare i dubbi sorti nella giurispru- denza, la quale a volte attribuiva l’actio venditi, sul presupposto che la res aestimata era stata data per essere venduta; altre volte l’actio locati, come se fosse stato affidato il compito di vendere la res; altre ancora l’actio conducti, come se fossero stati locati i servigi finalizzati alla vendita; oppure l’actio mandati, verisimilmente nella stessa logica con la quale si pensava a una locazione conduzione, ma rispetto ai casi di rapporto gratuito. È probabile però che all’epoca di Xxxxxxx l’actio aestimatoria fosse costruita nelle forme di un agere praescriptis ver- bis221: comprendiamo allora che la discussione tra i prudentes si svolge
219 X. XXXXX, Sul valore dogmatico della categoria ‘contrahere’ in giuristi procu- liani e xxxxxxxxx, in «BIDR», XXVIII, 1915, 31; P. VOCI, La dottrina romana del con- tratto, Milano, 1946, 257; X. XXXXXXXX, L’actio aestimatoria e i bonae fidei iudicia, in
«BIDR», LXIII, 1960, 135; X. XXXXXXXXX, La tipicità dei contratti romani tra conven- tio e stipulatio fino a Labeone, in AA.VV. Contractus e pactum. Tipicità e libertà nego- ziale nell’esperienza tardo-repubblicana (Atti Copanello 1988), Napoli, 1990 90; GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 197 ss. Altra bibliografia in X. XXXXXXXXXXX, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta nel diritto romano, Trento, 2011, 174 nt. 226.
220 Cfr. per tutti X. XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 119; XXXXXXX, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, cit., 130; ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 201 s. (ove anche altre indicazioni biblio- grafiche, in nt. 133); SCIANDRELLO, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta, cit., 170 ss.
221 Cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19, 3, 1 pr.: actio de aestimato proponitur tollendae du- bitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res aestimata vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an ex locato, quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas conduxissem, an mandati. xxxxxx xxxxxx vi- sum est hanc actionem proponi: quotiens enim de nomine contractus alicuius ambige- retur, conveniret tamen aliquam actionem dari, dandam aestimatoriam praescriptis verbis actionem: est enim negotium civile gestum et quidem bona fide. quare omnia et
tutta nel confronto tra contratti tipici, e che l’atipicità dell’azione non si lega neanche in questo caso a una atipicità del rapporto, ma solo a una difficoltà di qualificazione222.
Tuttavia contro l’ipotesi del contratto estimatorio si pongono due dati. Il primo è che il proprietario della res nel passo viene defi- nito venditor: ma ciò potrebbe giustificarsi in relazione al fatto che la res viene data in vista di una futura vendita223. Il secondo è che il re- gime del contratto estimatorio – per quel che ne sappiamo – poneva senz’altro il periculum a carico dell’accipiens224, mentre le soluzioni di Labeone e Xxxxxxxx, che parrebbero accolte anche da Xxxxxxx, of- frono un quadro più articolato, tenendo conto dell’interesse alla con- clusione del negozio225. Potrebbe allora propendersi per l’ipotesi che ravvisa nel rapporto una vendita sospensivamente condizionata al gradimento. Se però così fosse, certo non potrebbe parlarsi di con- tratto innominato226: ancora una volta, occorre ripetere che una ven- dita condizionata, per quanto inefficace, non trasforma il rapporto in una convenzione atipica.
Resta il problema di come intendere il richiamo labeoniano al- l’agere praescriptis verbis. Anche in questo caso, originando la pretesa dell’attore da una compravendita (inefficace) l’oportere doveva essere ex fide bona, e tenuto conto di quanto abbiamo detto circa la necessità
hic locum habent, quae in bonae fidei iudiciis diximus. Sul problema cfr. ora ampia- mente SCIANDRELLO, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta, cit., 132 ss. Sulla base di questi dati, qualora si riconducesse la fattispecie ad aestimatum, dovrebbe forse riferirsi l’ultima frase a Xxxxxxx e non a Ulpiano, come ritengono GALLO, Sy- nallagma e conventio, cit., I, 201; XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 120; BURDESE, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, cit., 130.
222 Cfr. anche XXXXXXX, L’actio civilis in factum, cit., 21 s.
223 GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 200 s. Sul problema vedi ora SCIAN-
DRELLO, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta, cit., 174 ss.
224 Ulp. 32 ad ed. D. 19, 3, 1, 1: aestimatio autem periculum facit eius qui susce- pit: aut igitur ipsam rem debebit incorruptam reddere aut aestimationem de qua con- venit.
225 XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 118 s. nt. 136 (con biblio- grafia precedente).
226 Così invece XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 120; BURDESE, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, cit., 129 s.; CARDILLI, L’obbligazione di praestare, cit., 377 ss.
di ricondurre alla tutela della bona fides anche i problemi di alloca- zione del rischio, non avremo difficoltà ad ammettere che anche in questo caso si agisce praescriptis verbis per tutelare un ‘nudo’ oportere ex fide bona.
Il passo successivo riguarda un pactum displicentiae stipulato per la vendita di cavalli: Ego li ha dati a Tu per acquistarli o per restituirli entro tre giorni, ma Tu, che è un corridore acrobata (desultor), dopo averli impiegati per partecipare a delle gare, che peraltro vince, si ri- fiuta di acquistarli:
Lab. inc. fr. 296 Lenel = Ulp. 32 ad ed. D. 19, 5, 20 pr.: apud Labeonem quaeritur, si tibi equos venales experiendos dedero, ut, si in triduo displicuissent, redderes, tuque desultor in his cucurreris et viceris, deinde emere nolueris, an sit adversus te ex vendito actio. et puto verius esse praescriptis verbis agendum: nam inter nos hoc ac- tum, ut experimentum gratuitum acciperes, non ut etiam certares.
Xxxxxxx si interroga se si possa dare a Ego un’actio venditi, evi- dentemente prendendo in considerazione anche altre possibilità; Ul- piano afferma di preferire l’agere praescriptis verbis: è possibile che con questa scelta egli si sia uniformato a una opzione già indicata da Labeone227, oppure che il giurista xxxxxxxx avesse in mente un’altra azione – si è pensato all’actio de dolo228.
Se si tiene conto dei passi già citati, e in particolare di D. 18, 1, 50, verrebbe da pensare che i dubbi di Labeone riguardassero appunto la scelta tra l’actio venditi e l’agere praescriptis verbis. Infatti, sulla base del confronto con gli altri testi, dovrebbe escludersi che il giurista augu- steo giudicasse utilizzabile l’actio venditi, poiché nella sua epoca il pac- tum displicentiae era inteso come condizione sospensiva e dunque l’emptio venditio sarebbe rimasta inefficace. È invece possibile che La-
227 XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 132 s.; XXXXXXXXX, La ti- picità dei contratti romani, cit., 88 s.; XXXXXXX, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, cit., 130.
228 X. XXXXXXXX, Xxxxxxx e la nascita dell’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in «Iura», XXXVIII, 1987, 62 ss.; ID., Actio civilis in factum e actio praescrip- tis verbis, in «SDHI», LXXII, 2006, 237 ss. 253; GALLO, Synallagma e conventio, cit., I, 202 ss.
beone seguisse l’opinione, testimoniata da Xxxxx, che in simili ipotesi riteneva necessaria un’actio proxima empti in factum229, verisimilmente da interpretare come agere praescriptis verbis230. In questo caso, po- trebbe ritenersi che l’apparente contraddizione tra Xxxxxxx e Xxxxxxx sia il frutto di un accorciamento compilatorio231.
Le ragioni di Xxxxxxx e di Ulpiano dovevano essere però diffe- renti.
Considerando che la motivazione finale (nam inter nos hoc ac-
tum, ut experimentum gratuitum acciperes, non ut etiam certares) è espressa da Xxxxxxx in una forma che parrebbe indicare un parere personale, è probabile che non fosse questa la ratio labeoniana, e che invece il giurista augusteo ragionasse sulla natura potestativa della condizione apposta alla vendita: questa, per non essere meramente potestativa, doveva conformarsi a una valutazione di razionalità eco- nomica, verisimilmente espressa dalla bona fides del negozio232, che viene violata dall’acquirente allorché questi, contro la palese bontà dei cavalli e in una sorta di venire contra factum proprium233, rifiuta di comprarli, mostrando di esser stato sin dall’inizio disinteressato al- l’acquisto. In tal modo, Xxxxxxx recuperava dal punto di vista risarci- torio ciò che la finzione di avveramento avrebbe più tardi determi- nato in termini di adempimento234.
229 Xxxx. 2 ad ed. D. 18, 5, 6: si convenit, ut res quae venit, si intra certum tem- pus displicuisset, redderetur, ex empto actio est, ut Sabinus putat, aut proxima empti in factum datur.
230 ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 180.
231 Così anche TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani, cit., 89.
232 Sotto un diverso profilo, rileva la possibilità di incidenza della bona fides
anche TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani, cit., 88 nt. 207.
233 Per il riferimento al venire contra factum proprium cfr. ARTNER, Agere prae- scriptis verbis, cit., 181 nt. 23.
234 È, sostanzialmente, il problema del rapporto tra violazione della buona fede ex art. 1358 cod. civ. e finzione di avveramento della condizione ex art. 1359 cod. civ., per i quali la dottrina civilistica e la giurisprudenza tendono a ravvisare un fondamento comune (mi limito a rinviare ai dati raccolti da X. XXXXXXXX, La condi- zione ‘elemento essenziale’ del negozio giuridico, Milano, 2000, 197 ss. e spec. 199 nt. 79;; X. XXXXXX, La buona fede in pendenza della condizione, Padova, 2006, 41 ss.; con- tra, XXXXXXXX, Il dovere di comportamento secondo buona fede, cit., 6 ss.). D’altronde, il raccordo è esplicito nella Relazione al Re sul codice civile (n. 620). In questo senso, può essere interessante notare che la dottrina civilistica tenda a superare l’idea
La motivazione di Ulpiano è parzialmente diversa. Ci si è chiesti per quale ragione egli non conceda l’actio venditi, posto che, come si è detto, nella sua epoca era ammessa la finzione di avveramento235, e la ragione deve essere vista – a mio avviso – nel fatto che, a differenza di D. 18, 1, 50, in questo caso la condizione è (non mista, bensì) po- testativa, il che poteva rendere dubbia l’applicabilità della cd. finzione di avveramento236. Poiché però, come si è detto, per non essere mera- mente potestativa la condizione doveva rispondere a parametri ogget- tivi di razionalità espressi dalla bona fides, è probabile che Xxxxxxx ri- tenesse che qualcosa fosse comunque dovuto al proprietario dei ca- valli con i quali era stata vinta la gara. Infatti si era convenuto tra le parti per un experimentum gratuitum, mentre è chiaro che un uso dei cavalli in una competizione sarebbe stato in generale oneroso. Perciò, anche tenendo conto del paragrafo immediatamente successivo – nel quale, in un’ipotesi analoga, era stata stabilita una merces per il caso in cui gli animali, pur utilizzati, non fossero stati poi acquistati237 – ri- terrei probabile che Ulpiano attribuisse l’agere praescriptis verbis per
dell’inapplicabilità del disposto dell’art. 1358 cod. civ. alle condizioni potestative: cfr. BRUSCUGLIA, Pendenza della condizione, cit., 57 ss.
235 TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani, cit., 90 e 213.
236 È quel che avviene per larga parte della dottrina e della giurisprudenza ita- liane: cfr. X. XXXXXXXXX, La finzione di avveramento della condizione, Padova, 1994, 73 ss.; XXXXXXXX, La condizione ‘elemento essenziale’ del negozio giuridico, cit., 290 ss. (benché una parte della dottrina abbia obiettato che la potestatività deve essere essa stessa valutata secondo buona fede, ossia secondo razionalità, e che per questo do- vrebbe ritenersi applicabile la finzione anche alle condizioni potestative: PECCENINI, op. cit., 74 ss.; XXXXXXXX, op. cit., 291 s. e nt. 92).
237 Ulp. 32 ad ed. D. 19, 5, 20, 1: item apud Melam quaeritur, si mulas tibi de- dero ut experiaris et, si placuissent, emeres, si displicuissent, ut in dies singulos aliquid praestares, deinde mulae a grassatoribus fuerint ablatae intra dies experimenti, quid es- set praestandum, utrum pretium et merces an merces tantum. et ait Mela interesse, utrum emptio iam erat contracta an futura, ut si facta, pretium petatur, si futura, mer- ces petatur: sed non exprimit de actionibus. puto autem, si quidem perfecta fuit emptio, competere ex vendito actionem, si vero nondum perfecta esset, actionem talem qualem adversus desultorem dari. La qualificazione del denaro come merces da parte di Xxxx potrebbe indicare che quest’ultimo pensasse, per l’ipotesi dell’emptio futura,a un’ac- tio locati; Xxxxxxx però la esclude e propende per l’agere praescriptis verbis, probabil- mente in considerazione del fatto che il negozio era finalizzato, in ultima istanza, a una compravendita, e non a una concessione di uso a titolo oneroso.
ottenere un risarcimento ex fide bona in relazione a un negozio ri- spetto al quale l’esperimento dell’actio venditi non avrebbe portato ad alcun risultato ma che, in quanto finalizzato all’acquisto e non all’uso, non poteva neanche essere ricondotto a locatio conductio.
Ancora una volta, la soluzione labeoniana (e ulpianea) si giusti- fica non ipotizzando la trasformazione di una compravendita ineffi- cace in un contratto atipico238, bensì postulando un impiego dell’a- xxxx praescriptis verbis per tutelare la buona fede in sé considerata239.
A prima vista, una fattispecie di novum negotium parrebbe in- vece risultare da
Lab. ad ed. fr. 100 Lenel = Ulp. 31 ad ed. D. 19, 5, 19 pr.: ro- gasti me, ut tibi nummos mutuos darem: ego cum non haberem, dedi tibi rem vendendam, ut pretio utereris. si non vendidisti aut vendidisti quidem, pecuniam autem non accepisti mutuam, xxxxxx est ita agere, ut Labeo ait, praescriptis verbis, quasi negotio quo- dam inter nos gesto proprii contractus.
Tu chiede a Ego del denaro a mutuo; Xxx, non avendone a di- sposizione, gli dà una res da vendere per usarne il prezzo. Se Tu non
238 Così invece XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 123 ss. Cauto sulla riconducibilità allo schema delle convenzioni atipiche è questa volta GALLO, Sy- nallagma e conventio, cit., I, 202 ss.
239 Analoghe considerazioni potrebbero farsi per il passo che segue, talmente
legato a quello appena discusso da essere inserito dal Xxxxx nel medesimo fram- mento di Labeone (inc. fr. 296 LENEL): Ulp. 32 ad ed. D. 19, 5, 20, 2: si, cum emere ar- gentum velles, vascularius ad te detulerit et reliquerit et, cum displicuisset tibi, servo tuo referendum dedisti et sine dolo malo et culpa tua perierit, vascularii esse detrimentum, quia eius quoque causa sit missum. certe culpam eorum, quibus custodiendum perfe- rendumve dederis, praestare te oportere Xxxxx ait, et puto praescriptis verbis actionem in hoc competere. Tu vuole comprare dell’argento, e un vascularius glielo porta e glielo lascia per decidere se acquistarlo. Tu non gradisce l’argento e manda un pro- prio servo per riportarlo: se l’argento perisce senza dolo o colpa di Tu, il danno è sopportato dal vascularius, perché lo schiavo era stato mandato anche nel suo inte- resse. Xxxxxxx però precisava che si è tenuti per la culpa di coloro ai quali viene af- fidato un bene in custodia o per il trasporto, e Xxxxxxx afferma di ritenere che in si- mili casi competa l’actio praescriptis verbis. È forse da seguire l’opinione di TALA- MANCA, La tipicità dei contratti romani, cit., 90 nt. 211, nel ritenere che anche Xxxxxxx avrebbe concesso la medesima azione, ma non abbiamo al riguardo alcuna certezza: XXXXX, Synallagma e conventio, cit., I, 208, pensa a un’azione nossale.
la vende oppure, avendola venduta, non ha ricevuto il denaro in pre- stito, secondo Xxxxxxx è più sicuro agere praescriptis verbis, come se fra le parti fosse stato realizzato un qualche negozio riferibile a un proprius contractus240.
La fattispecie appare più complessa del contratto estimatorio, nonostante la collocazione palingenetica ipotizzata dal Lenel, nella rubrica de aestimato241. A quel che sembra, le parti vogliono raggiun- xxxx il risultato economico attraverso due contratti:
a) il primo, che coincide con lo scopo finale dell’operazione eco-
nomica, è dichiaratamente un mutuo, e il dato si accorda con ciò che sappiamo da altre fonti circa la riconduzione a tale contratto di fatti- specie analoghe242;
b) il secondo, che al primo è finalizzato, consiste nell’incarico di
vendere, e può essere configurato alternativamente:
b1) come un contratto estimatorio affine al mandato243, posto che la richiesta di nummi da parte di Tu costituisce un parametro pe- cuniario cui corrisponde la scelta di Ego di fornire una res evidente- mente stimata proporzionale alla richiesta, cosicché l’aestimatio ri- sulta per facta concludentia dalla stessa struttura del negozio244;
240 Per la genuinità del testo cfr. per tutti XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 135 s.
241 LENEL, Palingenesia iuris civilis, cit., I, 514; critico XXXXX, Sul valore dogma- tico della categoria ‘contrahere’, cit., 31 s.
242 Cfr. Ulp. 26 ad ed. D. 12, 1, 11 pr.: xxxxxxx me, ut tibi pecuniam crederem: ego cum non haberem, lancem tibi dedi vel massam auri, ut eam venderes et nummis ute- reris. si vendideris, puto mutuam pecuniam factam; sul rapporto tra i passi cfr. SAN- TORO, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 136 ss. e ARTNER, Agere praescriptis ver- bis, cit., 82 s. ntt. 81 e 87; cfr. anche X. XXXXXXXXX, Si certum petetur. Dalla condictio dei veteres alle condictiones dei giustinianei, Milano, 2002, 408 (ibid., 392 ss. sulla dif- ferente soluzione di Afr. 8 quaest. D. 17, 1, 34 pr.).
243 Sappiamo che al contratto estimatorio si è giunti per le difficoltà di quali-
ficazione che abbiamo ricordato; tuttavia, essendo finalizzato a un mutuo, si tratterà verisimilmente di un contratto gratuito, il che esclude la confusione con l’emptio venditio e la locatio conductio, lasciando il mandato come unica possibilità.
244 Con questa considerazione si può forse superare la prima delle obiezioni di XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 137 s. (seguito da SCIAN- DRELLO, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta, cit., 191 s.) all’ipotesi del con- tratto estimatorio. L’a. aggiunge altri due argomenti: (a) che, qualora vi fosse stata
b2) senz’altro come mandato, benché in questo secondo caso, es- sendo la vendita finalizzata alla concessione del mutuo a favore di Tu, potrebbe anche sostenersi che, in quanto tua gratia, il mandato fosse invalido245.
La complessità del negozio, scisso in due contratti, è però ulte- riormente complicata dal fatto che il mutuo non si è realizzato per un fatto riconducibile a Tu, il quale non ha fatto venire ad esistenza la pe- cunia vendendo la res, oppure ha venduto la res ma non ha preso in prestito la pecunia246. Quale tutela ha Ego?
Xxxxxxx, opportunamente, non distingue tra il caso in cui la vendita della res si sia compiuta o meno: si perviene infatti a esiti non differenti.
Se la res non è stata venduta vi è stato inadempimento del man- dato o del contratto estimatorio, tutelati (rispettivamente) con un’actio mandati o un agere praescriptis verbis, che in entrambi i casi avrebbero portato a una condanna a un incertum computato su un oportere ex fide bona, comprensivo degli interessi eventualmente con- venuti sulla somma che si sarebbe ottenuta dalla vendita, qualora realizzata, e che sarebbe stata oggetto di mutuo. Ma limitatamente al
un’aestimatio, si sarebbe immediatamente determinato un mutuo, come in C. 4, 2, 8: ma in questo testo la res sostituisce la pecunia inizialmente chiesta, non essendoci nessun incarico di venderla, mentre nel nostro caso oggetto del mutuo non è la res, ma la pecunia che se ne ricaverà; (b) che nel passo non si dice che l’incaricato potrà tenere a un titolo diverso dal mutuo il denaro risultato dalla vendita eventualmente eccedente la somma prevista dalle parti: in realtà, i passi da cui risulta che l’incari- cato poteva trattenere il surplus risultante dalla vendita rispetto al pretium certum predeterminato dalle parti (Ulp. 30 ad Sab. D. 19, 5, 13 pr. e 31 ad ed. D. 17, 2, 44) non parlano di aestimatio, e parrebbero costituire ipotesi particolari, tutelate da agere praescriptis verbis; sembrerebbe che la dottrina deduca la natura di contratto estimatorio del rapporto solo dal tipo di tutela (cfr. ad es. XXXXXXXX, L’actio aestima- toria, cit., 133), ma non pare lecito desumere da questi passi un dato strutturale del contratto: non è forse casuale che i due testi si trovino, palingeneticamente, in se- zioni dedicate alla societas (rispettivamente, frr. 920 e 2747 LENEL).
245 Così TALAMANCA, La tipicità dei contratti romani, cit., 87 e 98; ARTNER, Agere
praescriptis verbis, cit., 83; XXXXXXXX, Actio civilis in factum e actio praescriptis verbis, cit., 252.
246 Non vi è alcun motivo di ritenere interpolata l’ultima parola del passo (mu- tuam; riferimenti in XXXXXXX, Il contratto nel pensiero di Xxxxxxx, cit., 135 nt. 171; ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 81 nt. 76).
recupero della res, ossia qualora non fossero stati previsti interessi, sarebbe stata una valida alternativa anche la condictio, la cui natura di azione generale di restituzione non richiedeva che fosse integrato il mutuo.
Se la res è invece stata venduta, ma non è nato il mutuo perché
Tu non ha preso la pecunia come mutua, non vi è stato inadempi- mento del mandato o del contratto estimatorio. Tuttavia, qualora fos- sero stati previsti degli interessi, Tu sarebbe stato verisimilmente ob- bligato a corrisponderli a Ego: infatti, essendo l’operazione economica a favore di Tu, non potrebbe in questo caso sostenersi che sia conforme alla bona fides che gli interessi siano trattenuti dal manda- tario247; Ego avrebbe dunque nuovamente potuto agire con un’actio mandati oppure praescriptis verbis. E ancora una volta, qualora non fossero stati previsti interessi, si sarebbe comunque potuta usare la condictio per chiedere la cosa – ottenendo la somma ricavata dalla vendita248 – benché questa non sia divenuta oggetto di mutuo.
Xxxxxxx ritiene però tutius agire praescriptis verbis: egli, eviden-
temente, non vuole escludere la possibilità di altre azioni – e cioè l’a- zione ‘tipica’ di mandato o l’azione generale e parzialmente ‘atipica’ costituita dalla condictio – ma ritiene che sia maggiormente ‘protet- tivo’ per l’attore l’impiego dell’agere praescriptis verbis. Ciò, probabil- mente, perché questa modalità di azione poteva da un lato garantire risultati più ampi della condictio, e dall’altro superare i dubbi di qua- lificazione giuridica dell’incarico di vendere, anche in considerazione della struttura del mandato costruito dalle parti, pericolosamente vi- cino a un mandatum tua gratia.
È in questa logica che deve essere spiegata, a mio avviso, la frase finale quasi negotio quodam inter nos gesto proprii contractus – che
247 Come invece si fa in Lab. fr. 96 LENEL = Ulp. 31 ad ed. D. 17, 1, 10, 8, su cui
X. XXXXXXXX, Il periculum e le usurae nei giudizi di buona fede, in X. XXXXXX (a cura di),
L’usura ieri e oggi (Atti Foggia 1995), Bari, 1997, 19 ss.
248 Nella condictio si chiede (nell’intentio) la cosa sinché questa è esistente, an- che se è stata venduta e anche se si otterrà solo il pretium (ossia il valore pecuniario della cosa chiesto nella condemnatio): solo quando la cosa non esiste più oggetto della condictio sarà direttamente il pretium (cfr. ad. es. Afr. 2 quaest. D. 12, 1, 23; Xxxx. 17 ad Plaut. D. 12, 6, 65, 6).
non vi è motivo né di ritenere interpolata o ulpianea249 né di inten- dere come un riferimento alla distinzione tra contratti tipici e ati- pici250 – nella quale Xxxxxxx afferma che (bisogna agire praescriptis verbis) ‘come se fosse stato tra noi realizzato un negozio unitario’251 dal quale è verisimilmente nato un oportere ex fide bona, posto che se così non fosse sarebbero del tutti privi di sanzione i comportamenti contrari a buona fede del mandatario.
Come abbiamo detto all’inizio, il collegamento dei doveri acces- sori sopravvissuti a un negozio inefficace e della loro tutela praescrip- tis verbis con la bona fides è per alcuni versi indiziario. Esso si basa sul rilievo che i passi labeoniani riguardano rapporti tutelati da iudicia bonae fidei nei quali si dava rilievo alla presenza di doveri accessori; che – come vedremo tra breve – nella giurisprudenza di poco succes- siva questi doveri accessori saranno espressamente legati alla bona fi- des; che ancora nelle fonti giurisprudenziali del III secolo si affermerà che l’actio praescriptis verbis ex bona fide oritur252.
Tuttavia, è estremamente probabile che la formula con prae- scripta verba posta a tutela dei obblighi accessori – legati, come si è detto a contratti tutelati da iudicia bonae fidei – contenesse anch’essa una intentio costruita all’oportere ex fide bona, ossia che si ritenesse che anche i doveri accessori non dipendenti da un dovere principale efficace fosse ricondotto alla buona fede.
Xxxxxxx è il primo a fornire una tutela a questi doveri, il che po- trebbe far pensare – considerando che la giurisprudenza precedente appare concentrata sulle prestazioni principali e sul loro equilibrio – che soprattutto con lui si sia posto il problema di una loro tutela. Certo è che da questo momento in poi troviamo continue testimo- nianze di un ruolo della buona fede nella materia dei doveri accessori.
249 Entrambe le ipotesi in ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 85 nt. 96; la se- conda in XXXXXXXX, Xxxxxxx e la nascita dell’idea di contratto, cit., 48.
250 Il problema è affrontato con maggiore ampiezza in CURSI - FIORI, Le azioni generali di buona fede e di dolo nel pensiero di Xxxxxxx, xxx., § 0.
000 Xxx xxxxxx (xxxxxxxx) di proprius come ‘in sé consistente’ cfr. I. XXXXX, pro- prius, in Thesaurus linguae Latinae, X.2, Xxxxxxx-Xxxxxxx, 0000, 2105 ss.
252 Ulp. 71 ad ed. D. 43, 26, 2, 2, su cui ARTNER, Agere praescriptis verbis, cit., 234 s.
7. Buona fede e obblighi di protezione in Sabino.
Tra le testimonianze più antiche a noi pervenute in materia di buona fede e doveri accessori troviamo un frammento di Masurio Sa- bino conservato da Ulpiano:
Ulp. 41 ad Sab. D. 16, 3, 11: Quod servus deposuit, is apud quem depositum est servo rectissime reddet ex bona fide: nec enim convenit bonae fidei abnegare id quod quis accepit, sed debebit red- dere ei a quo accepit, sic tamen, si sine dolo omni reddat, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit. denique Xxxxxxx (fr. 74 Lenel) hoc explicuit addendo: ‘nec ulla causa intervenit, quare putare possit dominum reddi nolle’. Hoc ita est, si potuit suspicari, iusta scilicet ratione motus: ceterum sufficit bonam fidem adesse. sed et si ante eius rei xxxxxx fecerat xxxxxx, si tamen ignoravit is apud quem de- posuit vel credidit dominum non invitum fore huius solutionis, li- berari potest: bona enim fides exigitur. non tantum autem si rema- nenti in servitute fuerit solutum, sed etiam si manumisso vel alie- nato, ex iustis causis liberatio contingit, scilicet si quis ignorans manumissum vel alienatum solvit. idemque et in omnibus debito- ribus servandum Pomponius (19 ad Sab. fr. 670 Lenel) scribit.
Il passo può essere diviso in tre parti.
a) Nella prima (quod servus … id quod quis accepit) Xxxxxx af- ferma – forse, compiendo una digressione all’interno della trattazione del furto compiuto dal falsus creditor253 – che, qualora un deposito sia stato effettuato da un servus, è conforme a buona fede che il deposi- tario restituisca al servus (rectissime reddet ex bona fide): non è infatti conforme a buona fede – commenta il giurista – negare la restitu- zione di ciò che si è ricevuto, ma si dovrà restituire a colui dal quale si è ricevuta la cosa. Conseguentemente, deve ritenersi che il deposi- tario, restituendo al servus, abbia adempiuto.
b) Nella seconda parte (sed debebit reddere … reddi nolle) si pre- cisa che può ritenersi vi sia stato adempimento solo se nel restituire al
253 Questo, almeno, è il contesto ulpianeo (fr. 2869 LENEL) e pomponiano (19 ad Sab. fr. 670 LENEL); che fosse anche quello di Xxxxxx è un’ipotesi formulata dubi- tativamente da LENEL, Palingenesia iuris civilis, cit., II, 198 nt. 1 e accolta da ASTOLFI, I libri tre iuris civilis di Sabino2, cit., 255.
xxxxxx non sia ravvisabile in capo al debitore omnis dolus, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit: in altre parole – spiega ulteriormente Xxxxxx – che non vi siano elementi (causa) per ritenere che il domi- nus non volesse che fosse effettuata la restituzione allo schiavo.
c) Nella terza parte (hoc ita est … Xxxxxxxxx scribit) si spiega meglio il principio e lo si declina nella casistica: (c1) si chiarisce che se non sussiste una iusta ratio che abbia potuto indurre il debitore al so- spetto, è sufficiente che egli abbia compiuto l’atto secondo buona fede (ceterum sufficit bonam fidem adesse); (c2) e si rileva che, anche se il servus aveva rubato la cosa o non è più nella proprietà del dominus, il debitore deve ritenersi liberato quando è ignorans.
Sulla base dell’errato presupposto che la formula di buona fede del deposito sarebbe nata solo più tardi dell’età di Sabino254, una parte della dottrina ha ritenuto che i riferimenti alla bona fides non possano essere attribuiti al giurista dell’età di Xxxxxxx000. Tuttavia, non solo la bona fides svolge un ruolo centrale nel ragionamento, cosicché diviene difficile giustificare la sua espunzione256, ma a ben vedere il te- sto riproduce una regola di buona fede che emergeva già nel de officiis di Xxxxxxxx.
Quest’ultimo, in 3, 95, ossia in una sezione dell’opera struttural- mente corrispondente a off. 3, 65-67257, aveva infatti affrontato il pro- blema del rapporto tra il dovere di buona fede di restituire al deposi- tante la res depositata, e la necessità di adattare tale dovere alle circo- stanze (temporibus, ossia kaτa’ лspι’στaσιν): se qualcuno ha depositato un gladio mentre era sano di mente, e lo richiede quando è impazzito, è officium del depositario di non restituirlo; e se qual- cuno che abbia depositato del denaro muovesse guerra alla patria, la
254 Contra, X. XXXXXXXX, Il deposito nella problematica della giurisprudenza romana, Milano, 1976, 89, per il quale sarebbe esistita già nella prima metà del I sec. a.C.
255 Tra gli ultimi esempi cfr. X. XXXXXXX, Consenso del dominus e l’elemento in- tenzionale nel furto, in «BIDR», XCI, 1988, 401, con bibl. in nt. 39.
256 ASTOLFI, I libri tre iuris civilis di Sabino2, cit., 163.
257 Su cui cfr. supra, §§ 4.2-3 nonché più diffusamente sulla corrispondenza strutturale tra le parti, FIORI, Bonus vir, cit., 255 s.
xxxxx non va restituita, perché la res publica deve essere al primo posto nella gerarchia degli affetti258. E poiché è verisimile che anche in questo caso Xxxxxxxx – come nel caso della sententia Xxxxxxx che ab- biamo esaminato sopra – abbia attinto a posizioni giurisprudenziali, possiamo supporre che già alla fine della repubblica si fosse affermata sia la regola che lega la buona fede al rispetto del contenuto dell’ac- cordo, sia l’idea che però – sempre ex fide bona: è questo il contesto entro cui si muove il discorso ciceroniano – tale regola debba essere modificata in relazione alle circostanze, sino ad essere addirittura di- sattesa.
Anche Xxxxxx muove dalla regola, descritta nella parte sub a),
per poi passare alla variante kaτa’ лspι’στaσιν sub b). Più problema- tico appare ricondurre al giurista anche la terza parte del frammento (sub c), in genere attribuita a Ulpiano259, ma in questo senso può es- sere di aiuto una stretta corrispondenza tra il passo qui discusso e un frammento di Xxxxxx:
Alf. 2 dig. a Xxxx. epit. D. 46, 3, 35: Quod servus ex peculio suo credidisset aut deposuisset, id ei, sive venisset sive manumissus esset, recte solvi potest, nisi aliqua causa interciderit, ex qua intel- legi possit invito eo, cuius tum is servus fuisset, ei solvi. sed et si quis dominicam pecuniam ab eo faeneratus esset, si permissu domini servus negotium dominicum gessisset, idem iuris est: videtur enim voluntate domini qui cum servo negotium contraheret et ab eo accipere et ei solvere.
Al di là dei riferimenti alla bona fides, assenti in Alfeno, il testo corrisponde a quello di Xxxxxx in modo così preciso260 da lasciar in-
258 Cic. off. 3, 95: (…) et promissa non facienda nonnumquam neque semper de- posita reddenda. si gladium quis apud te sana mente deposuerit, repetat insaniens, red- dere peccatum sit, officium non reddere. quid? si is, qui apud te pecuniam deposuerit, bellum inferat patriae, reddasne depositum? non credo, facies enim contra rem publi- cam, quae debet esse carissima. sic multa, quae honesta natura videntur esse, tempori- bus fiunt non honesta. facere promissa, stare conventis, reddere deposita commutata utilitate fiunt non honesta. (…)
259 LENEL, Palingenesia iuris civilis, cit., II, 197; ASTOLFI, I libri tre iuris civilis di Sabino2, cit., 163; cfr. anche TALAMANCA, La bona fides, cit., 118 nt. 330.
260 Cfr. Xxxxxx: quod servus deposuit, is apud quem depositum est servo rectis- sime reddet ex bona fide … nec ulla causa intervenit, quare putare possit dominum
tendere che il secondo giurista stava lavorando sul primo261, e ciò può essere di aiuto per ricostruire l’estensione del frammento di Xx- xxxx.
Il fatto che Xxxxxx applichi il ragionamento non solo a un con- tratto tutelato da iudicium bonae fidei (depositum) ma anche a un rapporto protetto da iudicium stricti iuris (creditum), precisando che la regola vale pure se il servus sia stato manomesso o venduto, mostra che anche la parte sub c) del passo ulpianeo – ove si rinviene la me- desima precisazione – è almeno in parte da attribuire a Sabino. È però abbastanza probabile una utilizzazione di Xxxxxxxx più estesa della citazione finale: nel corpo del testo compare un incomprensibile rife- rimento al creditum (vel credidit), che è forse da riferire a Xxxxxxxx posto che è a questo giurista, e non a Sabino, che Xxxxxxx – il quale evidentemente non ha presente il frammento di Xxxxxx, non citato dalle sue fonti – attribuisce l’estensione ai iudicia stricti iuris. Benché sia probabile che il passo sia stato accorciato dai compilatori, pos- siamo dunque ritenere che Xxxxxx si sia limitato al solo esempio del deposito, e che Xxxxxxxx abbia riaffermato la riferibilità della regola anche ai iudicia stricti iuris262.
Il confronto con Xxxxxx chiarisce meglio il senso dell’enfasi po- sta da Xxxxxx sulla bona fides.
Xxxxxx aveva scritto che deve considerarsi recte liberato il debi- tore, quando restituisca al servus ciò che ha ricevuto dal peculio di questi, a titolo di credito o di deposito, anche se lo schiavo è stato suc- cessivamente venduto o manomesso. Ciò solo se non intervenga al-
reddi nolle; Xxxxxx: quod servus ex peculio suo credidisset aut deposuisset, id ei … recte solvi potest, nisi aliqua causa interciderit, ex qua intellegi possit invito eo, cuius tum is servus fuisset, ei solvi. Queste corrispondenze – rilevate anche da X. XXXXXXX, Xx un discusso riferimento alla culpa in tema di deposito, in Atti del seminario sulla proble- matica contrattuale in diritto romano, I, Milano, 1988, 211 – inducono anche a re- spingere le ipotesi di interpolazione formulate in passato e richiamate da I. BUTI, Studi sulla capacità patrimoniale dei servi, Napoli 1976, 41 s. nt. 68.
261 Benché la collocazione palingenetica del brano di Xxxxxx sembrerebbe es- sere in tema di peculio legato (fr. 47 LENEL): ma è chiaro che Xxxxxx poteva discutere la fattispecie anche in altri contesti.
262 Interpreta così il riferimento a omnibus debitoribus anche TALAMANCA, La bona fides, cit., 120 nt. 339, il quale tuttavia non richiama il passo di Alfeno.
cun elemento (causa) per intuire ritenere che il dominus non volesse che fosse effettuata la restituzione allo schiavo. Lo stesso deve ritenersi quando quando la pecunia provenga dalla res domini dietro autorizza- zione del padrone, perché allora si deve presumere che il dominus, nell’autorizzare il negozio, abbia autorizzato non solo la dazione ma anche la restituzione del denaro al servus.
La soluzione di Xxxxxx, come si vede, si incentra esclusivamente sull’interpretazione della voluntas domini: quando non vi sono ele- menti che possano indirizzare verso una colontà contraria, si pre- sume che il dominus sia d’accordo con la restituzione allo schiavo.
Nella soluzione di Xxxxxx, invece, la volontà del dominus diviene solo il punto di partenza per individuare il vero cuore del ragiona- mento, e cioè la bona fides.
Non a caso egli unifica le due ipotesi individuate da Xxxxxx, del negozio stipulato dal servus a seguito della concessione del peculium e di quello effettuato sulla base di un iussum: ciò che legittima il debi- tore a restituire al servus non è il fatto che questi voluntate domini ab- bia ottenuto un peculio o realizzato il negozio, ma il dovere – per così dire, strutturale – che bisogna (non tanto rispettare l’accordo263, nel quale in teoria potrebbe anche essere intervenuto il dominus dando il suo permesso, ma) restituire la res alla stessa persona che, consegnan- dola, ha fatto nascere l’obligatio.
E ancora non a caso, mentre il giurista repubblicano afferma che la liberazione del debitore avviene recte – un avverbio che, lo si è no- tato da tempo, compare spesso nel suo linguaggio264 – in Sabino la li- berazione avviene rectissime perché si restituisce ex bona fide265. L’en- fasi è probabilmente dovuta al desiderio di sottolineare una maggiore doverosità: sia nel senso che la restituzione al servus e non al dominus
263 Come afferma XXXXXXXXX, La bona fides, cit., 121.
264 Cfr. X. XXXXXXX, Intorno ai Digesti di Xxxxxx Xxxx, in «BIDR», IV, 1891 =
Opere, II, Milano, 1929, 178.
265 In passato ritenuto interpolato (cfr. ad es. X. XXXXXXX, L’estinzione dell’obbli- gazione nel diritto romano2, Napoli, 1935, 26), ma il confronto con Xxxxxx dimostra la sua genuinità. L’alfeniano recte ritorna in Xxxx. 9 ad ed. D. 46, 3, 51: dispensatori, qui ignorante debitore remotus est ab actu, recte solvitur: ex voluntate enim domini ei solvitur, quam si nescit mutatam, qui solvit liberatur.
è non solo lecita, ma come si è detto anche doverosa ex fide bona; sia nel senso che è la stessa buona fede a esigere che il debitore si consi- deri liberato quando non vi fossero motivi per dubitare della volontà del dominus266.
Ancora una volta dobbiamo rilevare che – come già abbiamo vi- sto in materia di buona fede formativa – i iudicia stricti iuris non sono rigidamente formalistici ma spesso pervengono per altra via a risultati analoghi, se non identici, a quelli dei iudicia bonae fidei. E che, nell’esperienza romana, criteri ermeneutici apparentemente di- versi – che possono ricordare la nostra distinzione tra l’interpreta- zione secondo la volontà dei contraenti e l’interpretazione secondo buona fede, e le difficoltà di una netta demarcazione tra le due267 – si sono sviluppati in forma alternativa non per una differenza (diciamo così) ‘ontologica’, ma per ragioni squisitamente processuali.
Tuttavia occorre tener presente che l’operatività di queste due re- gole potrebbe essere nei differenti iudicia alquanto diversa. Mentre in un iudicium stricti iuris ci si sarebbe potuti interrogare solo sul pro- blema della liberazione del debitore, in un iudicium bonae fidei pote- vano essere individuati dal iudex veri e propri doveri accessori basati sulla bona fides, che grazie all’ampiezza dell’oportere ex fide bona po- tevano essere oggetto di risarcimento: non solo il dovere del debitore di non causare inutili difficoltà al creditore, ma anche il dovere del creditore di accettare come efficace il pagamento.
266 Poiché, come si è detto, l’uso di recte è frequente in Alfeno, la scelta dell’av- verbio potrebbe spiegarsi con una semplice opzione espressiva e non suscitare parti- colari rilievi, così come l’impiego di rectissime da parte di Xxxxxx, il quale aveva cer- tamente dinanzi agli occhi il passo del giurista repubblicano. Tuttavia è difficile sfug- gire alla suggestione – del tutto indimostrabile, per quel che posso vedere – che Xxxxxx avesse presente quanto Xxxxxxxx scrive in fin. 3, 59, allorché afferma che de- positum reddere è un officium (nel senso di officium medium, ossia nell’etica stoica un µs’σoν kaqh`koν) proprio anche dell’insipiens, ma che quando l’azione è com- piuta da un sapiens, ossia secondo iustitia (iuste), allora diviene un officium perfec- tum (ossia un τs’lsιoν kaqh`koν), che è recte factum. Considerando le oscillazioni, nel linguaggio ciceroniano, tra sapiens e bonus vir (su cui cfr. FIORI, Bonus vir, cit., 125 ss.), potrebbe anche pensarsi che nel recte di Xxxxxx si intenda far riferimento, in modo un po’ generico, al comportamento pienamente corretto del bonus vir, recu- perando implicitamente il rinvio alla bona fides che poi sarà esplicitato da Xxxxxx.
267 Riferimenti in FIORI, Bona fides (Parte prima), cit., 218 ss.
Proprio il maggior accento posto sulla bona fides ha probabil- mente indotto Xxxxxx a sviluppare il profilo dei criteri di responsabi- lità, assente in Alfeno.
Trattandosi di deposito – ossia di un contratto in cui la respon- sabilità del debitore è limitata al dolo – la frase si sine dolo omni red- dat, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit non può che essere pro- blematica. Si è infatti spesso pensato ad essa come a un’aggiunta po- steriore268, ma – al di là del fatto che ciò non fa altro che spostare in avanti il problema dell’interpretazione della frase269 – non si è ade- guatamente riflettuto sul fatto che il periodo – nec ulla causa interve- nit, quare putare possit dominum reddi nolle –, certamente attribuibile a Sabino, è esplicativo (explicuit) della лspι’στασιç, e non della regola: dunque anche la frase si sine dolo … suspicio sit deve essere riferita al giurista più antico270. Non solo, ma essa deve essere attribuita a Sa- bino per intero, e non limitatamente al riferimento al dolo271, perché, come vedremo tra breve, il passo non prevede in alcun modo una estensione della responsabilità del depositario alla culpa.
Posta la genuinità del passaggio, occorre spiegarne il senso.
Non possono essere a mio avviso accolte quelle ipotesi che rife- riscono il dolus al depositario e la culpa allo schiavo – nel senso che il depositario avrebbe dovuto sospettare una responsabilità del servus
268 Riferimenti in X. XXXXXX, Sulla responsabilità del depositario nel diritto bizan- tino, in «BIDR», LXXIV, 1971, 202 ss.; X. XXXXXXXXXX, Culpa, in «SDHI», XXXVIII,
1972, 164 s. nt. 112; ID., Dolus in the Law of the Early Classical Period (Labeo - Cel- sus), in «SDHI», LII, 1986, 272 nt. 89; e più di recente in X. XXXXXXXXX, La diligen- tia quam suis del depositario dal diritto romano alle codificazioni nazionali, Milano, 2006, 113 nt. 235; xxxx XXXXXXX, I libri tre iuris civilis di Sabino2, cit., 163 (che ipo- tizza dubitativamente l’aggiunta postclassica di hoc est … sit).
269 Così, giustamente, SITZIA, Sulla responsabilità del depositario, cit., 202, il quale però in sostanza rinuncia a spiegare l’uso di culpa, concludendo – sulla scia di XXXXXXX, L’estinzione dell’obbligazione2, cit., 26 nt. 3 – che si debba trattare di «uno sciatto glossema postclassico che i compilatori recepirono in seguito ad una svista» (l’a. lascia aperta la possibilità di intendere il riferimento alla culpa nel senso voluto da de Xxxxxxxx [cfr. infra, nt. 278], ma afferma che un simile uso sarebbe gravemente scorretto per il diritto giustinianeo: cfr. ibid., 201 e 203 nt. 67).
270 La considera genuina, ma riferendola a Ulpiano, X. XXXXXX, Regula e ius an- tiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale, I, Bari 1984, 252.
271 Come propone, ad es., ASTOLFI, I libri tre iuris civilis di Sabino2, cit., 163
(cfr. nt. 268).
per avere, ad esempio, rubato la res272 – perché in tal modo si limita eccessivamente il dolo del depositario a una responsabilità delittuale del servus, il che non risulta né dal principio generale riferito in a), né dall’esemplificazione contenuta in c). Né può ritenersi che la suspicio culpae si riferisca alla «scientia del depositario della condizione di schiavo del depositante»273, perché una simile eventualità avrebbe determinato una responsabilità sostanzialmente oggettiva del deposi- tario tutte le volte che non avesse preventivamente consultato il do- minus – il che è il contrario di quel che dice Xxxxxx. Né che – sulla base del confronto con il passo di Alfeno – anche Xxxxxxx parlasse in generale di ogni debito, e non solo di quello nascente dal deposito274, perché se così fosse non si spiegherebbe la ragione per cui solo alla fine del passo il giurita xxxxxxxxx avrebbe precisato che la regola è stata estesa da Xxxxxxxx a estendere la regola a tutti i debitori275.
Né infine mi sembra vi siano nel passo elementi per ipotizzare che Xxxxxx abbia anticipato la posizione di Xxxxx, condivisa da Xxxxx figlio, allorché questi assimila la culpa latior al dolo, e che perciò la re- sponsabilità del depositario si sarebbe estesa all’ignoranza colposa della contraria volontà del dominus276.
272 XXXXXXXXXX, Culpa, cit., 164 (ma contra ID., Xxxxx, cit., 272 s.) e F. M. DE
XXXXXXXX, La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione, I, Bari, 1983, 164 ss. (che corregge la propria precedente impostazione, su cui cfr. nt. 278).
273 TALAMANCA, La bona fides, cit., 118 nt. 333; cfr. anche ibid., 122 nt. 342.
274 XXXXXXX, Xx un discusso riferimento alla culpa, cit., 212.
275 Non solo. Come si è detto, questa parte di testo deve essere necessariamente attribuita a Xxxxxx, e quest’ultimo di sicuro – lo mostra la citazione di Xxxxxxxx da parte di Xxxxxxx – limitava il proprio discorso al deposito.
276 MAGANZANI, La diligentia quam suis, cit., 114 s. Peraltro, non mi sembra che una simile estensione risulti da Ulp. 30 ad ed. D. 16, 3, 1, 22, dove si afferma sempli-
cemente che il rifiuto di restituire la cosa non importa necessariamente il dolo – ben potendosi dare casi in cui il depositario è per fatti oggettivi impossibilitato a resti- tuire o in cui esercita un diritto: quando la res sia distante o custodita in horrea che non si ha la facoltà di aprire o ancora quando vi fosse una condizione non realizza- tasi – ma senza che si menzioni in alcun modo la culpa, estranea anche alle fattispe- cie richiamate; oppure da Ulp. 30 ad ed. D. 16, 3, 7 pr., dove sembrerebbe parlarsi di una fattispecie di dolo eventuale (il sequestratario che, mosso da misericordia, libera lo schiavo in catene che poi fugge) ma nuovamente non si accenna alla culpa. Par- lano di «dilatazione» della responsabilità per dolo del depositario anche TAFARO, Re- gula e ius antiquum, cit., 254 ed X. XXXXXX, Bonae fidei interpretatio, Napoli, 2004, 158 nt. 78.
A me sembra che vi siano alcuni punti fermi. Innanzitutto – come mostra sia la frase successiva (si potuit suspicari) oltre che il commento dei Basilici277 – il soggetto della suspicio è il depositario. In secondo luogo, la suspicio culpae è utilizzata per spiegare in termini di sostanziale identità (hoc est) non semplicemente il dolus, ma omnis dolus. In terzo luogo, la suspicio culpae non è la culpa, perché se si so- spetta che il proprio comportamento sia riprovevole – anche solo sul piano della negligenza – e non si tiene conto di questo sospetto, non si è in colpa, ma in dolo: non magari un dolo specifico di nuocere, ma almeno un dolo eventuale. Il valore di culpa nel passo è dunque più vicino a quella di generica imputabilità che a quello preciso di negli- genza278.
Se le causae non giustificano la suspicio, se cioè non vi era scien- tia da parte del depositario della possibilità di nuocere al dominus, sufficit bonam fidem adesse. Qui la buona fede è certamente opposta al dolo, ma non bisogna trarre dall’ipotesi specifica considerazioni di carattere generale279: a ben vedere, la vera opposizione è tra bona fides e scientia – esattamente come nei passi che abbiamo analizzato in tema di compravendita – ma nel deposito la scientia rileva solo come dolo (o al più, per i giuristi successivi, come culpa lata), perché è solo a questo titolo che si ha responsabilità. Solo dunque in questo limi- tato senso si può dire che l’assenza di dolo coincide con la buona fede. Non solo, ma per gli stessi motivi non può affermarsi che la bona fides nel testo contenga delle sfumature di soggettività280, quan- tomeno, non più di quanto normalmente accada281: se non vi è scien-
277 Bas. 13, 2, 11: τw/` лαpαqsµs’νw/ µoι dou’lw/ αjлodι’doµι kαlh`/ лι’στsι s[νqα µh’ sjστιν αjµslsι’αç uJлo’νoια.
278 Parzialmente in questo senso F. M. DE ROBERTIS, La disciplina della respon- sabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, Bari, 1964, II, 384 s. (cfr., in generale su questo valore, op. cit., I, Bari, 1962, 47). Nel senso di negligenza è però intesa da Bas. 13, 2, 11, ove si parla di αjµslsι’ (cfr. nt. prec.).
279 Come sembrerebbe fare TALAMANCA, La bona fides, cit., 121 s. nt. 342.
280 X. XXXXX, Xxxxxxxx decidendi. Entscheidungsbegründungen bei den älteren römischen Juristen bis Labeo, Aalen, 1969, 219 (che intende la bona fides nel passo nel senso di «guter Glaube»); TALAMANCA, La bona fides, cit., 121 s. nt. 342, seguito da XXXXXX, Bonae fidei interpretatio, cit., 158 nt. 78.
281 Cfr. supra,§ 1.
xxx, può parlarsi di bona fides perché ex fide bona c’è stato adempi- mento, ossia sono stati rispettati tutti quei doveri che sono imposti dalla buona fede. Ciò è mostrato soprattutto dall’affermazione che quando non vi sia scientia la bona fides – la buona fede in sé, non la buona fede soggettiva del depositario – impone (exigitur) che si con- xxxxxx liberato il debitore282.
La bona fides del depositario, come già in Xxxxxxxx, viene così ar- ricchita di nuovi profili. L’oportere ex fide bona nel deposito non è li- mitato al restituire a chi ha consegnato, ma implica dei doveri di pro- tezione verso il dominus della res e verso lo stesso debitore. Per valutare se tali doveri siano stati rispettati, si impiega il criterio di responsabi- lità proprio del singolo tipo contrattuale – nel caso del deposito, il dolo. Comprendiamo allora che la buona fede opera su un piano dif- ferente rispetto ai criteri di responsabilità, avendo piuttosto il compito di individuare l’estensione dell’oportere: la sua sfumatura di soggetti- vità si determina per opposizione a tali criteri, nel senso che non vi è adempimento dell’oportere ex fide bona quando ricorrano i presuppo- sti per la responsabilità del debitore (dolo, colpa o custodia).
Per quanto riguarda la natura dei doveri accessori di cui tratta il brano di Xxxxxx, occorre tuttavia prestare attenzione. Benché il fram- mento ulpianeo – e forse, come detto, quello di Xxxxxx e di Pompo- nio – si inserisca in una trattazione sul falsus creditor e sul falsus pro- curator283, nell’unità del discorso dei prudentes si devono distinguere due ipotesi che danno luogo a conseguenze molto diverse.
Se il servus al momento dell’adempimento non è più nella pro- prietà del dominus – che è il caso oggetto dell’ampliamento di Ul- piano – quest’ultimo non riceve il pagamento, ma deve preoccuparsi di recuperare la cosa presso un terzo (il servo, se liberato, o il nuovo dominus). Quest’ipotesi si avvicina a quella prevista dall’art. 1189 cod. civ. sul pagamento al creditore apparente, nella quale si prevede che il debitore che esegua il pagamento «a chi appare legittimato a riceverlo
282 Al contrario, per TALAMANCA, La bona fides, cit., 121 s. nt. 342, qui sarebbe
«ancora più evidente che si tratta di bona fides soggettiva».
283 Ulp. 41 ad Sab. fr. 2869 LENEL è composto da D. 47, 2, 43 pr.-3; D. 46, 3, 18;
D. 16, 3, 11.
in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede»284: la buona fede – che nella norma codicistica assume un valore soggettivo – dà vita a un obbligo accessorio consistente nel do- vere di non causare al creditore un’inutile sacrificio patrimoniale nel dover riottenere la cosa dal terzo.
Se invece il servus è, al momento dell’adempimento, nella pro-
prietà del dominus – che è il caso che sembrerebbe esser stato discusso da Xxxxxx – quest’ultimo riceve comunque il pagamento, benché in forme che non vorrebbe (entrando la res, verisimilmente, nel peculio dello schiavo). L’ipotesi non è dunque assimilabile a quella prevista del pagamento al rappresentante apparente del creditore, perché que- sta – benché comporti la liberazione del debitore quando il creditore abbia ingenerato un affidamento – presuppone come esito la neces- sità che il creditore si adoperi per ottenere la cosa dal rappresentante apparente285. La buona fede opera qui piuttosto nel senso di creare in capo al dominus un dovere di protezione nei confronti del debitore, in un senso analogo a quello individuato dalla giurisprudenza italiana allorché ha affermato che nelle obbligazioni pecuniarie – quando il creditore non abbia più volte manifestato la propria contrarietà a una specifica forma di pagamento, perché in tal caso apparirebbe dubbia la buona fede del debitore286 – non rileva il modo in cui venga effet- tuato il pagamento se il rifiuto del creditore appaia contrario alle re- gole della correttezza287.
284 Art. 1189 cod. civ. Pagamento al creditore apparente: «1. Il debitore che ese- gue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. 2. Chi ha ricevuto il pagamento è te- nuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripeti- zione dell’indebito».
285 L’ipotesi costituisce un ampliamento dell’art. 1189 cod. civ.: Cass. 29 aprile
1999 n. 4299, in «Giur. it.», 2000, 932; 13 agosto 2004 n. 15743, in «Foro it.», 2004,
I, 3318; 3 settembre 2005, n. 17742; 12 gennaio 2006 n. 408, in «Contratti», 2006, X,
894; 5 giugno 2009 n. 12990.
286 Cass. 25 settembre 1998 n. 9595, in «Giur. it.», 1999, 1378.
287 Cass. 10 febbraio 1998 n. 1351, in «Corriere giur.», 1998, IV, 406; Cass. 7 lu- glio 2003 n. 10695, in «Contratti», 2004, II, 174. In altre sentenze si è sostenuto che questa forma di pagamento, benché il suo rifiuto sia contrario a correttezza, escluda solo la mora, ma non integri adempimento: cfr. Cass. 21 dicembre 2002 n. 18240, in
«Arch. civ.», 2003, 1096.