Contract
IL NUOVO CONTRATTO A TERMINE: profili critici e interpretativi
Il D.L. n. 34/2014 (Jobs Act) è stato convertito in legge n. 78 del 19 maggio 2014. Il disposto normativo rivisita significativamente la disciplina del contratto a termine, introducendo alcune importanti novità. In primo luogo, scompare il “causalone”: sin da ora il datore di lavoro può stipulare un contratto a termine fino a 36 mesi senza apporre alcuna giustificazione. Tuttavia il legislatore introduce un tetto all'utilizzo di tali contratti, che viene fissato nel 20%, riferito «al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione». Per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è comunque concesso stipulare un contratto a termine. La violazione di tale obbligo (è questa la modifica più importante) non comporta più l’assunzione automatica con contratto a tempo indeterminato, bensì obbliga i datori a pagare una multa pari al 20% della retribuzione (per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro) se la violazione coinvolge un solo lavoratore. La sanzione aumenta fino al 50% della retribuzione se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore ad uno. Di rilievo sono anche le modifiche apportate alla disciplina delle proroghe. Ora il datore di lavoro potrà operare fino a cinque proroghe, a prescindere dal numero dei rinnovi, senza apporre alcuna giustificazione, sempre nel rispetto dell’arco dei 36 mesi.
Acausalità: la novità di maggior rilievo contenuta nella Legge Poletti è quella riferita all’estensione generalizzata dell’acausalità per tutti i contratti a termine, nell’arco temporale definito dei 36 mesi. Il datore dunque non ha più l’obbligo di apporre alcuna giustificazione, evitando così il rischio di vedersi annullato lo stesso contratto qualora l’indicazione della causale fosse considerata insufficiente dal giudice in sede di contenzioso. Restano tuttavia in vita alcune specifiche ipotesi nelle quali, pur non essendo richiesta una vera e propria causale, la motivazione per cui si stipula il contratto è ancora necessario: per ragioni sostitutive, per esigenze di carattere stagionale, per i lavoratori over55 e per tutte le altre ipotesi previsti dall’art. 10 co. 7 del d. lgs. 368/2001. A fronte di questa sorta di liberalizzazione della disciplina, il legislatore ha previsto però un limite massimo al ricorso dei contratti a termine: questi ultimi non possono essere più del 20% rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione. Nel nuovo sistema dunque, sembra che il legislatore abbia sì sacrificato la “causalità” del contratto a termine , garanzia per il lavoratore e fonte di contenzioso per il datore di lavoro, ma allo stesso tempo abbia posto, come contrappeso, un rigido limite numerico al ricorso degli stessi contratti a termine acasuali.
Limite quantitativo del 20%: come detto in precedenza, il datore di lavoro che superi il limite del 20% del ricorso ai contratti a termine acausali incorre in una sanzione pari al 20% della retribuzione, che sale al 50% se i lavoratori in eccedenza sono più di uno. La norma in questo
punto non brilla per chiarezza, poiché il legislatore lascia invariato l’art. 10 co. 7 del d. lgs. 368/2001, vale a dire la disposizione che permette alla contrattazione collettiva di stabilire liberamente un contingentamento all’utilizzo dei contratti a termine, in peius o in melius. In questa ottica, sembrerebbe che il tetto del 20% possa essere modificato – ridotto oppure aumentato – dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Questa pare essere la interpretazione prevalente, che però stride con quanto stabilisce, in seguito, il legislatore nelle disposizioni transitorie, quando sancisce che “il datore che alla data di entrata in vigore del presente decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale (…) è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale ..” Questo passaggio della norma pare non lasciar spazio invece ad interpretazioni creative, in quanto si asserisce perentoriamente che il datore di lavoro che superi il limite del 20% dei contratti a termine, entro il 31 dicembre 2014 deve rientrare inderogabilmente nel predetto limite. Dunque, non appare inequivoca la possibilità da parte dell’autonomia collettiva di poter alzare il suddetto limite del 20% così come la portata dello stesso regime transitorio: infatti, va chiarito se lo stesso si applichi esclusivamente ai datori di lavoro che applichino Xxxx che non regolamentano già l’onere di contingentamento così come se – in detto arco temporale – l’apparato sanzionatorio sia escluso oppure no.
Base di computo del 20%: Il limite del 20% dell’organico complessivo è calcolato quale somma dei lavoratori a tempo indeterminato presenti all’inizio dell’anno di riferimento, a prescindere dalle unità produttive dell’azienda. Preliminarmente, si può affermare con sicurezza che il calcolo basato sull’organico complessivo a prescindere delle unità produttive non offre maggior flessibilità ed efficienza, piuttosto penalizza la possibilità di assumere. Infatti, ben può verificarsi che un datore possa avere una unità produttiva con 80 dipendenti e altre due con 10 lavoratori ognuna. In questo caso, essendo il tetto fissato a 20 assunzioni a termine (20% di 100), la unità produttiva maggiore (quella di 80) potrebbe assumere fino a 20 lavoratori a tempo determinato (superando così ampiamente il limite previsto), e in aggiunta, priva le due unità minori della possibilità di assumere, seppure ne abbiano diritto. In secondo luogo, più di una perplessità è generata dal fatto che il legislatore non abbia specificato quali siano i contratti a tempo indeterminato da considerare nella base di computo. In chiave ermeneutica, si desume che i dirigenti debbano essere inclusi, così come gli apprendisti, visto che secondo il T.U. n. 167/2011 questi ultimi sono considerati lavoratori a tempo indeterminato. Non concorrono al raggiungimento della soglia, invece, i contratti stipulati per ragioni sostitutive, quelli per esigenze stagionali, per l’avvio di nuove attività e quelli siglati. Anche i contratti part-time, a prescindere dal numero di ore, sono considerati
nella base di computo. Questo principio “quantitativo” più che “qualitativo” – in discontinuità con il passato (basti pensare al calcolo degli stessi part-time nello Statuto dei Lavoratori, o nella legge n. 68 del 1999) - complica ulteriormente la possibilità di assumere a termine con la nuova disciplina.
Infine, per quanto riguarda l’esatta determinazione del numero di contratti a termine da poter stipulare, più di una criticità può configurarsi nell’ipotesi in cui il tetto del 20% corrisponda ad un numero decimale (es. il 20% di 19 dipendenti è pari 3,8): in tali casi deve tenersi conto unicamente della parte intera della cifra (nel nostro esempio 3 dipendenti) oppure arrotondare per eccesso a 4? Forse sarebbe stato opportuno fissare un limite numerico non in termini percentuali ma per classi dimensionali (es: da 1 a 9 dipendenti = 2 lavoratori a termine; da 10 a 19 dipendenti = 4 lavoratori etc). In tal senso si auspica un chiarimento ministeriale diretto ad una migliore interpretazione della norma.
Datori e non più imprese: in sede di conversione in legge del D.L. n. 34 si rileva come il legislatore abbia sostituito la locuzione “imprese” con quella di “datori di lavoro”, riconoscendo così la possibilità di stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato anche agli studi professionali sotto i 5 dipendenti.
Proroghe, stop and go e prosecuzione di fatto: le nuove disposizioni non toccano, almeno in via diretta, la disciplina della prosecuzione di fatto del contratto a termine, tantomeno quella dello stop and go. Viene riformata invece la regolamentazione della proroga. Quest’ultima non è più condizionata dalla sussistenza di specifiche ragioni (c.d. acasuale), e inoltre, il numero delle proroghe ammesse cresce fino ad un massimo di 5 (nel D.L. erano addirittura 8), fermo restando l’obbligo di rispettare il tetto massimo di durata pari a 36 mesi. In sede di conversione, bene ha fatto il legislatore a precisare che il tetto delle proroghe si applica indipendentemente dal numero di rinnovi, prevenendo dunque una pratica elusiva che poteva essere rappresentata da contratti a termine di brevissima durata, che ad ogni rinnovo offrivano la possibilità di prorogare lo stesso contratto per 8 volte. Ciò detto, una considerazione, tuttavia, deve essere avanzata: la nuova disciplina delle cinque proroghe acausali rappresenta un inevitabile ridimensionamento ed aggiramento della rigorosa regolamentazione della successione dei contratti a termine. Infatti, a titolo esemplificativo, il datore di lavoro potrebbe stipulare un contratto a termine della durata iniziale di un anno e poi procedere a proroghe semestrali e quadrimestrali, rimanendo comunque nell’arco temporale definito dei 36 mesi, ma evitando l’obbligo di rispettare gli intervalli di tempo (10 e 20 giorni) imposti dalla disciplina dello stop and go.
Regime sanzionatorio: il regime sanzionatorio viene in parte modificato. La normativa previgente disponeva che qualora il contratto a termine fosse irregolare per via della causale, o per il superamento dei limiti quantitativi previsti dalla contrattazione collettiva, il rapporto doveva essere convertito a tempo indeterminato, completato da un sistema indennitario (vd. Collegato Xxxxxx) che consisteva in una somma aggiuntiva oscillante tra le 2,5 e le 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita. La legge n. 78, invece, modifica l’impianto, stabilendo una sanzione unicamente pecuniaria al superamento del limite del 20%. In ragione delle tanto numerose quanto vibranti critiche a questa norma, è opportuno però precisare che non cambia il regime sanzionatorio in caso di violazione del tetto dei 36 mesi (in tal caso rimane in vigore la conversione a tempo indeterminato), ma a cambiare è soltanto la sanzione in caso di superamento del predetto 20%. Infine, si rileva che, nonostante sia chiara la volontà riformatrice del legislatore, la norma non risulta precisa, poiché manca una disposizione che direttamente escluda l’applicabilità della sanzione relativa sia alla conversione a tempo indeterminato sia al sistema indennitario previsto del Collegato Lavoro prima richiamato.
Diritto di precedenza per le lavoratrici madri: il Jobs Act rafforza inoltre il diritto di precedenza delle donne in congedo di maternità. Più nel dettaglio, ai fini dell’integrazione del limite minimo di 6 mesi di durata del rapporto a termine (durata minima che la normativa vigente richiede per il riconoscimento del diritto di precedenza in eventuali assunzioni a tempo indeterminato) devono computarsi ora anche i periodi di astensione obbligatoria per le lavoratrici in congedo di maternità. Dunque, a titolo esemplificativo una lavoratrice a termine che al quarto mese di lavoro beneficia del congedo di maternità, maturerà comunque il diritto di precedenza così come previsto dal d. lgs. n. 368 del 2001. Tuttavia, pare che il legislatore si sia premurato oltremodo di tutelare la predetta categoria, allorquando aggiunge – in sede di conversione - che il diritto di precedenza non vale solo per le assunzioni a contratto a tempo indeterminato (come già previsto dalla normativa vigente), ma anche per le assunzioni a tempo determinato effettuate dal medesimo datore di lavoro. Trattasi di una norma fortemente penalizzante per il datore di lavoro, poiché egli, ove intenda procedere ad assunzioni a termine nei 12 mesi successivi, tra gli altri obblighi deve rispettare anche quello di assumere una lavoratrice che abbia gia beneficiato dell’astensione obbligatoria per maternità, e che probabilmente usufruirà successivamente anche del congedo facoltativo, senza trascurare quello relativo alla malattia del bimbo.
Non convince, d’altra parte, il resto della disposizione nella misura in cui, stabilendo che il diritto di precedenza prima richiamato debba essere riportato nella lettera di assunzione, nulla dice in merito ad una eventuale sanzione in caso di omissione.