ACCORDO DI LUGLIO 1993 E STRUTTURA DEI SALARI, Seminario AISRI–AIEL
ACCORDO DI LUGLIO 1993 E STRUTTURA DEI SALARI, Seminario AISRI–AIEL
Bergamo 18 giugno 2004
Salari e mercato del lavoro italiano dopo la “concertazione”
Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx*
Versione provvisoria, da non citare
Abstract
La fase di politica dei redditi durata in Italia dal 1992 alla fine del decennio e conosciuta come “concertazione” ha determinato un significativo cambiamento nella dinamica delle retribuzioni e nella strut- tura della contrattazione. Innanzitutto ha definitivamente sostituito il meccanismo di indicizzazione automa- tica dei salari che, sul terreno macro, si era mostrato incapace a contenere la spirale prezzi-salari e aveva am- plificato gli effetti degli shock rendendoli persistenti, mentre, sul piano micro, aveva determinato una cre- scente compressione dei differenziali salariali e sottratto quasi tutto lo spazio alla contrattazione collettiva. Con l’accordo del luglio 1993 (l’effettiva data di nascita della concertazione, anche se va sottolineata l’importanza “maieutica” dell’accordo del luglio precedente) si sostituì il vecchio meccanismo backward looking con un’impostazione forward looking che dava ampio spazio alla contrattazione, con una virtuosa divisione di compiti tra livello nazionale e livello aziendale. Al livello nazionale era affidato il compito (ma- cro) di gestire la dinamica delle retribuzioni minime contrattuali, con l’obiettivo di difenderne il valore reale assumendo come riferimento il tasso di inflazione programmato in modo da minimizzare gli impulsi di am- plificazione dell’inflazione. Al livello aziendale erano affidati i compiti (micro) di accrescere il grado di fles- sibilità di retribuzioni e occupazione rispetto all’andamento economico delle imprese, a ridurre lo schiaccia- mento retributivo e redistribuire parte degli incrementi di produttività.
Per alcuni anni la concertazione ha funzionato in modo sostanzialmente corrispondente agli obiettivi per quanto riguarda la contrattazione nazionale. Per quanto riguarda invece la contrattazione aziendale va se- gnalata innanzitutto la sua scarsa diffusione (limitata alle imprese più grandi soprattutto nel Centro-Nord). Questo ha comportato che gran parte dei lavoratori sia stata esclusa dalla distribuzione dei guadagni di pro- duttività, anche se ciò è stato parzialmente compensato dalla diffusione di aumenti retributivi concessi uni- lateralmente dalle imprese, anche in forme incentivanti. Più positivo appare il giudizio per quanto riguarda i temi normativi: il nuovo clima di relazioni industriali ha favorito la diffusione di meccanismi capaci di gene- rare una flessibilità "buona" (maggiore efficienza aziendale non associata a maggiore precarietà dei lavorato- ri) attraverso la sperimentazione di nuove forme dei rapporti di lavoro che hanno aperto la strada alle riforme legislative.
Nel nostro lavoro si analizzano anche i principali motivi dell’iniziale successo della concertazione e quelli che ne hanno provocato, alla fine degli anni novanta, il rapido declino. Tra i primi vanno segnalati il rallentamento ciclico dei primi anni novanta, l’impennata del debito pubblico e l’irrigidimento del tasso di cambio nell’ultimo periodo dello Sme. Tra i secondi vanno segnalati (i) il carattere fortemente dualistico e squilibrato (sotto il profilo territoriale e sotto quello della dimensione delle imprese) del mercato del lavoro italiano, (ii) l’incapacità della concertazione di garantire un adeguato equilibrio della distribuzione del red- dito, (iii) la mancanza di compensazioni sul terreno del welfare e (iv) la recente incapacità di crescere dell’economia italiana. Questi elementi hanno fatto sì che una fase di riforma decisamente promettente, sotto il profilo della modernizzazione e del recupero di efficienza del mercato del lavoro italiano, si interrompesse e lasciasse il posto alla ripresa di un clima di divisione e di conflittualità latente tra le pareti sociali e tra gli stessi sindacati. Forse solo adesso si sta assistendo a un’inversione di tendenza e al ritorno di un clima coope- rativo tra le parti sociali.
* Rispettivamente del Servizio Studi della Banca d’Italia; del Ministero dell’Economia; dell’Università di Roma “La Sapienza”. I giudizi espressi sono strettamente personali e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza.
1. Nel lessico gergale della politica e di chi si occupa di mercato del lavoro, la parola “concertazione” è un’espressione sintetica usata per rappresentare quella fase di gestione delle rela- zioni industriali che inizia con gli accordi del luglio 1992 e che si caratterizza per un atteggiamento cooperativo tra governo e parti sociali (politica dei redditi, ma, come vedremo, anche molto altro). Questa nuova fase, che sarebbe durata, sia pure con alterne vicende, fino alla fine del decennio, ha sostituito gradualmente la struttura della contrattazione ereditata dagli anni precedenti, una struttura che appariva ormai in profonda crisi. Il senso delle novità comportate dalla concertazione può esse- re compreso meglio se, appunto, si dà prima un rapido sguardo alle principali caratteristiche del si- stema di relazioni industriali che l’ha preceduta.
2. Concentrandoci sui temi legati al wage setting, segnaliamo innanzitutto l’enorme rilevanza dei meccanismi di indicizzazione automatica delle retribuzioni. Come è noto, questi meccanismi preve- devano che sin dalla metà degli anni settanta l’adeguamento salariale rispetto all’inflazione fosse uguale per tutti i lavoratori (essi si basavano, cioè, sul cosiddetto “punto unico di scala mobile”). Ne conseguiva che le qualifiche più basse potevano essere addirittura iperindicizzate, mentre la coper- tura per quelle più alte era via via decrescente. Il risultato era una crescente compressione dei diffe- renziali salariali. Un altro importante inconveniente di questi meccanismi era costituito dalla sua in- capacità a contenere la dinamica di prezzi e salari per un dato obiettivo di salario reale (si veda il GRAFICO 1). Questa inefficienza generava, a sua volta una rilevante amplificazione e persistenza de- gli effetti degli shock sulla dinamica delle retribuzioni e sull’andamento dell’economia. In risposta a queste inefficienze, le imprese negli anni ottanta hanno operato la “grande ristrutturazione”, riorga- nizzando l’attività produttiva in senso marcatamente capital intensive, una scelta strategica gravida di conseguenze nel lungo periodo.
Il secondo elemento rilevante che caratterizzava la struttura della contrattazione salariale che prece- de la svolta del 1992 era rappresentato dallo spazio decisamente ridotto che la prevalenza dei mec- canismi di indicizzazione lasciava alla contrattazione collettiva, cui si associava, oltretutto, un coor- dinamento piuttosto carente tra settori e tra livelli della contrattazione: i contratti nazionali duravano tre anni (una durata maggiore di quella che si registrava negli altri paesi europei); vi era una forte sovrapposizione tra i contratti nazionali di settore e quelli aziendali; a livello aziendale mancava ogni istituzionalizzazione del confronto tra le parti e ogni prassi di codeterminazione.1 In altre pa- role, quel poco spazio che veniva gestito dalla contrattazione collettiva, soffriva le conseguenze di un diffuso atteggiamento non coperativo tra le parti sociali, che si rifletteva in un’ampia diffusione di contrasti, scioperi e crisi aziendali. Un’altra conseguenza di questo stato di cose era il graduale ma significativo calo della presenza sindacale all’interno delle imprese, cui corrispondeva, simme- tricamente, una progressiva riappropriazione da parte di queste ultime di un controllo unilaterale sulle variabili rilevanti per la formazione della produttività.2
Il terzo elemento che caratterizzava la struttura degli anni ottanta era costituito dalla sostanziale as- senza di un ruolo attivo del governo. Esso appariva decisamente carente nel compito di fornire alle
1 Per quanto riguarda la situazione della contrattazione decentrata alla fine degli anni ottanta, meritano di essere segna- lati i seguenti punti: (a) la contrattazione aziendale copriva una quota molto piccola di lavoratori, concentrati nelle im- prese industriali più grandi; (b) i contratti aziendali spesso non venivano rinnovati alla scadenza, anche per diversi anni;
(c) le imprese non coperte da questi contratti concedevano unilateralmente alla generalità dei lavoratori incrementi sala- riali collettivi, soprattutto in corrispondenza dei picchi ciclici, ma in modo molto irregolare e per ammontari ridotti; (d) questi premi collettivi non contrastavano, ma riproducevano lo schiacciamento salariale per qualifica indotto dalla parti- colare forma di indicizzazione; (e) l’unica voce che contrastasse lo schiacciamento salariale, premiando i lavoratori più qualificati, era quella dei pagamenti ad personam; (f) tutte le voci salariali erano in “cifra fissa”, entrando definitiva- mente a far parte della parte stabile della retribuzione; ma appunto l’elevata inflazione ne riduceva rapidamente il valore reale.
2 Questa tendenza ha portato, per esempio, ad accrescere le ore effettivamente lavorate per addetto nell’industria di ol- tre il 10 per cento cumulativamente tra il 1985 e il 1991, a parità di normativa e di orario contrattuale.
parti sociali un quadro di riferimento chiaro per quanto riguarda la definizione degli scenari macro- economici. Inoltre appariva piuttosto “indifferente” per quanto riguardava gli effetti sistemici della sua politica di gestione delle retribuzioni dei dipendenti pubblici. E naturalmente, questa indifferen- za introduceva nel mercato complessivo del lavoro un’ulteriore elemento di amplificazione sulle pressioni salariali in atto, già fortemente alimentate dall’inefficienza dei meccanismi di indicizza- zione e dal mood non cooperativo delle parti sociali.
Nonostante ciò, una struttura così sbilanciata e carica di inefficienze ha continuato a funzionare per un periodo di tempo relativamente lungo. Gli elementi che ne hanno garantito, se non la vitalità, per lo meno la sopravvivenza erano sostanzialmente due: innanzitutto la seconda metà degli anni ot- tanta è stata un periodo di alta congiuntura, sia per l’economia italiana che per quelle dei nostri principali partner commerciali europei (sono gli anni successivi al controshock petrolifero); il se- condo elemento, altrettanto se non più importante, era costituito da una politica economica accomo- dante del tasso di cambio, che ricostituiva periodicamente gli spazi erosi della dinamica dell’inflazione. Si trattava, chiaramente, di due elementi entrambi esterni al sistema delle relazioni industriali.3 Essi, però, contribuivano a determinare un ambiente in cui le parti sociali potevano tro- vare più facilmente un equilibrio, soddisfacente per loro anche se inefficiente a livello sistemico.
Proprio il graduale, ma sempre più deciso irrigidimento del regime di cambi fissi, caratteristico de- gli ultimi anni del Sistema Monetario Europeo, va considerato uno degli elementi che contribuì a mettere in crisi la vecchia struttura della contrattazione. A esso si accompagnava, con importanza via via crescente, il deterioramento dei conti della finanza pubblica, l’altro grande canale da cui erano affluite, negli anni precedenti, le risorse che avevano facilitato la composizione delle tensioni endemiche associate all’atteggiamento non cooperativo delle parti sociali. Da un lato il progressivo inaridimento di quel canale, dall’altro il crescente allarme sulle cifre del disavanzo e sulla dinamica tendenziale del debito pubblico (che era arrivato nella primavera del 1992 a una situazione che po- teva quasi essere definita di crisi latente), determinavano un quadro complessivo in cui tutti i nodi irrisolti del mercato del lavoro stavano arrivando rapidamente al pettine.
3. Il nodo principale era rappresentato, ovviamente, dal meccanismo di indicizzazione automatica. Di riformare la scala mobile si discuteva ormai da qualche anno, con proposte di predeterminazione degli scatti, di allungamento del periodo e anche di abolizione definitiva. Tuttavia, il dibattito sulle varie proposte non aveva trovato uno sbocco per la presenza di resistenze incrociate. Solo alla fine del 1991, in una fase di marcato rallentamento ciclico, e sotto la pressione del rischio di una possi- bile crisi per l’eccessivo peso del debito pubblico, il meccanismo di indicizzazione salariale venne temporaneamente congelato.
La svolta decisiva si verificò, però, l’anno successivo, nel luglio del 1992, quando un primo, sof- ferto, accordo tra governo e parti sociali abolì l’indicizzazione e introdusse un virtuale blocco dei salari per i successivi 18 mesi. Più precisamente, in quell’accordo, in attesa di una futura riforma complessiva del sistema di contrattazione, si stabilì quanto segue: (i) di abolire l’indicizzazione; (ii) di bloccare ogni incremento salariale aziendale sino alla fine del 1993; (iii) di concedere soltanto un pagamento una tantum, non differenziato per qualifica, pari allo 0.7 per cento della retribuzione to- tale, da ricevere nel mese di gennaio del 1993. L’accordo di luglio non bastò per evitare una pesante
3 Va aggiunto, naturalmente, un tipico elemento di sopravvivenza di natura interna. Esso è costituito, secondo la cosid- detta “logica dell’azione collettiva” (Xxxxx 1971), dall’inerzia che caratterizza ogni sistema, e che determina un bias a favore dello status quo. Secondo tale logica un accordo tende a sopravvivere a se stesso, anche quando è divenuto lar- gamente insoddisfacente, tutte le volte che i contraenti ritengono di aver troppo da perdere dalla ricerca di un accordo di cui non sono sufficientemente chiare le caratteristiche e le implicazioni (più per i contraenti stessi che per i loro rappre- sentati).
svalutazione del cambio della lira nel settembre di quell’anno.4 Tuttavia ebbe una notevole efficacia per frenare la dinamica salariale. In conseguenza del blocco, infatti, il tasso di crescita delle retribu- zioni contrattuali nel settore privato, ancora superiore al 9 per cento all’inizio del 1992, scese sotto il 2 per cento all’inizio del 1994.
L’accordo del luglio 1992 aveva ancora la natura di un’operazione temporanea e di emergenza. Es- so stabiliva, in sostanza, la sospensione del precedente meccanismo di indicizzazione, affidando per un anno e mezzo la dinamica delle retribuzioni nominali a un solo adeguamento di cui venivano de- cise, a priori, la data e l’ammontare. Un adeguamento – va sottolineato – indipendente dall’inflazione che sarebbe maturata nel frattempo. Si trattava di un modo rozzo, energico e brutale di interrompere il meccanismo della spirale tra salari e prezzi. Un modo, tra l’altro, che congelava la struttura esistente dei differenziali salariali. Ciononostante l’accordo ebbe una notevole efficacia ri- spetto all’obiettivo che si prefiggeva: riuscì infatti a non far ripartire la spirale prezzi-salari in una situazione particolarmente precaria e delicata, visto che in quel periodo il potenziale inflazionistico proveniente dalla svalutazione del cambio era enorme (si veda ancora il GRAFICO 1).
Tuttavia l’importanza di quell’accordo va molto al di là dei risultati di breve periodo ottenuti sul ter- reno del disinnesco della componente salariale della dinamica dei prezzi, al punto che esso può a ragione essere considerato come l’effettivo punto di partenza dell’esperienza della concertazione. È vero che i suoi contenuti innovativi (essenzialmente la fine della spirale tra prezzi e salari) avevano una validità solo nel breve periodo ed erano ben lontani dal disegnare una struttura alternativa della contrattazione, del resto esplicitamente rinviata a un accordo successivo, tutto da scrivere. Ma la fa- se di “interregno” che esso apriva, in cui appunto non valeva più la vecchia struttura e non ce ne era ancora una nuova, rappresentava in un certo senso la condizione permissiva ideale perché le parti sociali (e il governo) potessero cominciare a pensare al disegno di un nuovo sistema di relazioni in- dustriali, capace di superare quello precedente che era andato in crisi. Insomma, l’accordo del luglio 1992, facendo tabula rasa, sia pure provvisoriamente, di gran parte delle istituzioni precedenti, metteva le parti sociali (di nuovo secondo la “logica dell’azione collettiva”) nelle condizioni ideali per cercare un accordo su come ridisegnare le regole della contrattazione.
4. Questo nuovo disegno ha preso corpo, almeno sulla carta, nell’accordo sottoscritto dalle parti so- ciali nel luglio del 1993. Da esso emergeva innanzitutto un consenso per quanto riguardava le fina- lità delle nuove regole di contrattazione (o, se si vuole, i vincoli che esse dovevano rispettare). Sul piano macroeconomico, il consenso riguardava la necessità di ridurre immediatamente la conflit- tualità, di imporre una moderazione salariale, e di sterilizzare gli effetti di impatto degli shock sulle ragioni di scambio derivanti dalla dinamica dei prezzi internazionali e dalla svalutazione del cam- bio. Ma vi erano anche finalità condivise che riguardavano aspetti microeconomici di lungo perio- do. Si riconosceva cioè l’opportunità di accrescere il grado di flessibilità delle retribuzioni rispetto all’andamento economico delle imprese; di ridurre il grado di “schiacciamento retributivo” ereditato dal passato; di sostenere l’occupazione anche attraverso l’utilizzo di contratti di lavoro più flessibili del tradizionale contratto a tempo indeterminato.
Il sistema prefigurato dagli accordi del luglio 1993 persegue gli obiettivi macro accantonando defi- nitivamente il vecchio meccanismo di indicizzazione automatica basato sull’andamento dell’inflazione passata. Si sceglie cioè di passare da un sistema backward looking, basato preva- lentemente sugli automatismi, a uno forward looking, basato sostanzialmente sulla contrattazione. Inoltre viene stabilita una gerarchia, una sorta di specializzazione tra livelli contrattuali, con gli obiettivi della stabilità macroeconomica che vengono assegnati al livello dei contratti nazionali,
4 Nel settembre del 1992, in occasione della crisi del Sistema Monetario Europeo, la lira venne svalutata di più del 20 per cento nei confronti del xxxxx xxxxxxx. La sostenibilità dell’onere del debito pubblico fu seriamente messa in dubbio e venne imposto un pesante pacchetto fiscale di emergenza.
mentre gli obiettivi dell’efficienza microeconomica e della redistribuzione del reddito vengono as- segnati ai contratti aziendali.
Per quanto riguarda i contratti nazionali di categoria (Cn) gli accordi prevedono che essi abbiano durata quadriennale per gli aspetti normativi e biennale per quelli economici. Il contemperamento dell’obiettivo della difesa del potere d’acquisto dei salari con quello della stabilità macroeconomica viene perseguito assumendo, come termine di riferimento per la definizione degli incrementi retri- butivi concordati dalla contrattazione tra le parti sociali, il tasso di inflazione programmato (Tip).5 Quest’ultimo può essere considerato una variabile di controllo di politica economica fissata dal go- verno, che ne accresce in modo decisivo il ruolo (come anche quello della Banca centrale) nel gui- dare le aspettative di inflazione e nel coordinare la dinamica delle retribuzioni a livello nazionale. Il Tip è esplicitamente depurato dagli effetti sull’inflazione provocati dal cambio e dai prezzi delle materie prime, e anche da quelli associati a shock stagionali di breve periodo.6 Ne consegue che es- so fornisce una misura dell’inflazione che, date le condizioni di partenza del nostro paese, doveva essere sistematicamente inferiore all’inflazione effettiva, quasi per costruzione. Questo fatto apre un ulteriore spazio alla contrattazione, nel senso che a essa sono affidati gli eventuali recuperi degli scarti tra inflazione effettiva e programmata.
Riguardo alla questione del possibile recupero, ex post, dello scarto tra l’inflazione effettiva e quella programmata gli accordi di luglio parlano, in modo un po’ vago, di una clausola di salvaguardia, su cui appunto le parti sociali dovrebbero accordarsi. La mancanza di una chiara formulazione sul re- cupero di questa inflazione “non programmata” ha favorito inizialmente la sigla degli Accordi, al- largando lo spazio di manovra a disposizione delle parti, anche se in seguito la concreta gestione del problema del recupero avrebbe suscitato alcuni conflitti. Un’analoga indeterminatezza riguardava la considerazione degli effetti di mutamenti nella tassazione. Per esempio, essi non dicevano nulla sul trattamento delle variazioni dell’Iva, in teoria escluse dagli indicatori di core inflation, né sulle mo- difiche del cuneo fiscale e di quello contributivo, di cui le parti sociali reclamavano a gran voce le riduzioni. L’elemento è rilevante, perché il grado di “resistenza” dei salari reali rispetto a mutamenti fiscali è uno dei parametri chiave per determinare gli effetti del sistema contrattuale stesso.
Tutte queste considerazioni mostrano chiaramente come, in linea di principio, il sistema di gestione della contrattazione sul salario prefigurato dagli accordi del luglio 1993 sia molto diverso da quello degli anni ottanta. Inoltre, poiché il nuovo sistema promette di rendere permanente l’interruzione della spirale prezzi-salari e quindi di riportare la dinamica salariale su un terreno non completa- mente schiacciato sulla rincorsa dell’inflazione, si apre un grosso spazio anche per la contrattazione aziendale. A quest’ultima è affidato il compito di scambiare una maggiore flessibilità sulle variabili rilevanti per la formazione della produttività, con la distribuzione di parte dei frutti ai lavoratori, tramite incrementi retributivi non inflazionistici. Proprio per questo essa costituisce la seconda struttura portante degli accordi di politica dei redditi del luglio 1993. Notiamo che, almeno per quanto riguarda la crescita della produttività, l’accordo sembra aver dato buoni risultati (cfr. il GRAFICO 2). Vedremo più avanti che questi risulteranno decisamente più modesti per quanto riguar- da la sua distribuzione ai lavoratori (cfr. sempre il GRAFICO 2).
La terza struttura portante è rappresentata dal ruolo attivo del governo cui sono assegnate di fatto
5 Secondo gli accordi del 1993, i futuri Cn devono fissare gli incrementi nominali, per i successivi due anni, delle sole retribuzioni minime contrattuali, in modo da garantire, appunto, incrementi percentuali pari al tasso di inflazione pro- grammato per il successivo biennio. Gli incrementi sono generalmente suddivisi in due tranches di importo simile pa- gate a distanza di 12 mesi.
6 A rigore, il Tip è al netto dell’inflazione importata quando la svalutazione e/o il rialzo delle materie prime sono noti o pienamente anticipati. Per come è costruito, inoltre, dovrebbe essere al netto dei rialzi di breve periodo dell’inflazione, e funzionare, pertanto, come una sorta di indicatore dalla core inflation attesa. Assumerlo come riferimento per l’adeguamento delle retribuzioni consente di evitare che rialzi di breve periodo dei prezzi vengano incorporati stabil- mente nella dinamica di medio termine dei costi delle imprese.
due funzioni principali: quella di formulare il quadro delle compatibilità macroeconomiche (fissa- zione del Tip, politica dei salari pubblici, dinamica degli aggregati di finanza pubblica) e quella di promotore e garante degli accordi (politica degli ammortizzatori sociali). Nel primo di questi due compiti, il governo viene affiancato e sostenuto dalla Banca d’Italia, il cui interesse a monitorare i risultati delle contrattazione salariale è funzionale anche per la politica di fissazione dei tassi di inte- resse, nel nuovo regime di cambi fluttuanti che si è affermato dopo la crisi dello Sme nell’autunno del 1992.
5. Per vedere all’opera la concertazione e per valutarne gli effetti nel corso degli anni novanta dob- biamo percorrere sia pure sommariamente la storia della contrattazione in questo periodo. Questa storia non inizia subito dopo gli accordi del 1993 ma solo dopo la fine del regime di sostanziale mo- ratoria che era stato stabilito nell’accordo precedente. Di fatto, perciò, per trovare la prima ondata di rinnovi contrattuali nazionali stipulati nel nuovo regime (con vigenza economica biennale e anco- raggio all’inflazione programmata) dobbiamo attendere il 1994, quando appunto, tra marzo e di- cembre, vennero stipulati numerosi contratti. Essi tuttavia, proprio per essere i primi, non rappre- sentano una prova significativa dell’efficacia del nuovo regime.
Da questo punto di vista, molto più importanti sono stati i risultati dei rinnovi contrattuali del bien- nio successivo: nel novembre del 1995 viene rinnovato il Cn dei lavoratori del commercio; nel gen- naio del 1996 quello dei metalmeccanici; nel corso di quell’anno altri contratti vengono rinnovati in rapida successione. In questo periodo il nuovo sistema sembra funzionare piuttosto bene; o, per lo meno, fornisce risultati coerenti con gli obiettivi macroeconomici stabiliti nell’accordo del luglio 1993. In questi Cn, infatti, la dinamica delle retribuzioni contrattuali aggiunge al 4.5 per cento del Tip relativo al biennio 1995-96 soltanto due punti percentuali circa di recupero, a parziale compen- sazione delle ingenti perdite reali subite nel 1992-94. Si tratta di un andamento retributivo che sem- bra rispecchiare adeguatamente le finalità dell’accordo del luglio 1993.
Certamente, proprio perché è passato qualche anno, questa seconda tornata di rinnovi dei Cn (ap- punto quelli del biennio 1995-96) è più significativa della precedente. Tuttavia, basarsi solo su que- sta fase di rinnovi contrattuali nazionali per valutare l’efficacia della concertazione e del nuovo re- gime di relazioni industriali che essa prefigurava non fornisce ancora un’informazione adeguata e completa. Questo, innanzitutto, a causa della presenza di elementi di “turbativa” esterni: nel 1995 si era avuta l’ultima fase di debolezza del cambio; anche nel 1996 si erano manifestate tensioni nei mercati delle valute che avevano segnalato una potenziale debolezza della nostra moneta. In altre parole, neanche il biennio 1995-96 può essere considerato un periodo di “normalità”, sicché la con- creta gestione dei rinnovi dei Cn non poteva non esserne condizionata.7
Per questo motivo valutare se e quando la concertazione abbia determinato un break nella dinamica complessiva delle retribuzioni non è agevole. Non sembra, in particolare, che tale break si sia veri- ficato immediatamente, ossia nel periodo 1992-93, quando il rallentamento della dinamica salariale potrebbe essere integralmente spiegabile come effetto della pesante recessione di quegli anni. Per quel periodo, cioè, non si riesce a separare gli effetti della recessione da quelli della politica dei redditi. Il discorso cambia, invece, dopo il 1995, quando appunto sembra possa essere identificato un effetto dovuto alla moderazione salariale, dato che in questo periodo la svalutazione si accoppia con una fase di forte ripresa produttiva. Anche alcune applicazioni del modello econometrico della Banca d’Italia (Fabiani et al. 1998) identificano gli elementi costitutivi di un nuovo regime di fissa- zione delle retribuzioni a partire dal 1995-96.
Esistono però, al di là dell’econometria, evidenze di altro tipo. La prima è che il Tip ha effettiva-
7 Questa della “anormalità” dell’ambiente macroeconomico in cui si svolge la vicenda della concertazione è una co- stante di tutti gli anni novanta. Per esempio, la successiva fase di rinnovi contrattuali, quella del biennio 1997-98 non poteva non essere influenzata dall’approssimarsi delle scadenze previste per l’avvio del regime di moneta unica.
mente funzionato come punto di ancoraggio per la contrattazione nazionale. Tenendo conto dei meccanismi di recupero ex post, la crescita cumulata tra il 1992 e il 2002 delle retribuzioni contrat- tuali nel settore privato è stata solo di 5 punti superiore a quella del Tip. Essa è stata inferiore di 3.6 punti all’inflazione effettiva nello stesso periodo, distanza che può essere attribuita alla sterilizza- zione delle ragioni di scambio.8 C’è una certa evidenza, insomma, che il Tip sia stato accettato dalle parti sociali. Non tanto come indicatore credibile dell’inflazione attesa, cosa che non è mai stato,9 ma come un tasso di crescita di consenso per le retribuzioni minime nella specifica fase economica.
Mentre l’accettazione di un riferimento così squilibrato da parte delle imprese appare ovvia, visto che il tasso di inflazione programmato rappresentava un evidente aiuto per frenare la dinamica spontanea del costo del lavoro, sono più complesse le ragioni alla base del consenso fornito al Tip dai sindacati. Un primo motivo, in parte già anticipato, è costituito dal condizionamento esterno do- vuto al susseguirsi di ripetute situazioni di emergenza. In aggiunta vi è, però, un rilevante motivo politico, soprattutto a partire dal 1996, legato al reciproco investimento del sindacato sul governo e del governo sul sindacato, che si traduceva nella disponibilità del primo a fornire compensazioni su altri terreni (ammortizzatori sociali) e nella disponibilità del secondo ad allungare l’orizzonte tem- porale della propria funzione-obiettivo. Probabilmente, però, l’elemento che più ha contato nel sen- so di configurare un cambiamento permanente di strategia è quello per cui l’accettazione del Tip era un modo per sostituire definitivamente una gestione della dinamica salariale troppo schiacciata sui meccanismi automatici con una in cui lo spazio per la contrattazione fosse crescente, tanto più se si considera che uno dei meriti indubbi dell’accettazione dell’ancoraggio a un indicatore forward looking della dinamica di prezzi era proprio quello di interrompere la spirale salari-prezzi. Aggiun- giamo pure che, probabilmente, questo riconquistato spazio permetteva una miglior modulazione dei differenziali salariali e consentiva di gestire meglio i problemi legati ad altre funzioni del sala- rio, come quelle di incentivazione e di redistribuzione del reddito. Tutti questi ultimi obiettivi pote- vano, nello spirito dell’accordo del 1993, trovare spazio nella contrattazione aziendale; ed è questo l’ultimo motivo per cui il sindacato aveva interesse a “credere” in un tasso di inflazione esplicita- mente “non credibile”.
6. L’evoluzione della contrattazione aziendale racchiude in sé sia gli aspetti relativamente più delu- denti, che riguardano i temi retributivi – con una insufficiente distribuzione dei guadagni di produt- tività e un gran numero di lavoratori esclusi – sia gli aspetti più promettenti, che coinvolgono la diffusione della flessibilità, su cui ha influito, potremmo dire, prima e meglio della normativa. Il grado di copertura della contrattazione aziendale, inizialmente molto ridotto, è aumentato con note- vole lentezza, sicché siamo ancora ben lontani da quella diffusione capillare degli accordi a livello di impresa che era richiesta dall’applicazione sostanziale degli accordi del 1992-93.
Ma vediamo meglio. La prima rilevante diffusione dei contratti aziendali di nuovo tipo si è avuta nel 1995-96.10 L’Indagine Istat sulla flessibilità stima che alla fine del 1996 circa il 40 per cento dei
8 Si noti che una dinamica di questo genere ha comportato una riduzione complessiva di oltre 6 punti percentuali delle retribuzioni contrattuali reali. Questo perché, se le retribuzioni minime nazionali sono una quota dell’85 per cento circa di quelle totali, e se crescono in linea con l’inflazione effettiva, il loro contributo alla dinamica delle retribuzioni reali totali è negativo in misura del 15 per cento del tasso di inflazione.
9 Il tasso di inflazione programmato ha sistematicamente sottostimato l’inflazione effettiva. Tra il 1992 e il 2002 l’errore di previsione un solo anno in avanti, è stato complessivamente dell’8.7 per cento (126.0 contro 134.7) e addi- rittura del 10.2 per cento per le previsioni a due anni. Nel medesimo periodo, invece, le previsioni di Xxxxxxxxx hanno solo lievemente sottostimato la reale dinamica inflazionistica (rispettivamente di 1.2 e di 3.2 punti percentuali, un anno e due anni in avanti). Per un’illustrazione degli errori di previsione del Tip si rinvia al GRAFICO 7.
10 Si rinvia a Rossi e Xxxxxxx (2000) per una rassegna storica della contrattazione aziendale in Italia e per una guida ra- gionata delle diverse fonti disponibili. Si veda, invece, Casadio (2003) per i recenti aggiornamenti dei dati di fonte Istat e Banca d’Italia.
lavoratori delle imprese con almeno 10 addetti fosse coperto da un contratto aziendale. Si trattava di circa 3.2 milioni di dipendenti, per metà concentrati nell’industria. La copertura era marcatamente crescente con la dimensione aziendale e col correlato tasso di sindacalizzazione, oltre a essere deci- samente bassa nel Sud. Dal 1997 c’è evidenza di un lieve incremento della copertura nei soli settori del credito e della grande distribuzione commerciale. L’Indagine della Banca d’Italia sulle imprese industriali11 (Invind) indica sino al 2001 un lieve aumento della già elevata copertura tra le imprese industriali oltre i 50 addetti, ma conferma anche una copertura molto ridotta tra le imprese indu- striali tra 20 e 49 dipendenti, oltre che in quelle localizzate al Sud (alcune cifre sono riportate nella TABELLA 1). Combinando le varie fonti disponibili, possiamo stimare che nel 2001 circa la metà dei lavoratori privati nelle imprese con almeno 20 addetti e praticamente tutti i dipendenti delle imprese di dimensioni ancora inferiori non erano coperti da alcun contratto aziendale. Questi lavoratori han- no verosimilmente subito nell’arco di un decennio delle non irrilevanti perdite reali, causate dalla somma tra insufficienti incrementi minimi nazionali e sporadici incrementi concessi unilateralmente dalle imprese.
7. Tra le imprese che hanno sottoscritto accordi aziendali, c’è stata una progressiva e molto ampia diffusione dei premi salariali variabili. La fase più dinamica è ancora una volta il biennio 1995-96,12 ma la diffusione prosegue negli anni successivi, anche per una sorta di “stato assorbente”, nel senso che chi introduce tali premi non torna indietro. L’Indagine Istat sulla flessibilità stima che nel 1995- 96 circa un quarto dei dipendenti dell’industria e un quinto di quelli dei servizi ricevesse a vario ti- tolo questi premi. Nel Sud la quota era del 7 per cento soltanto. Secondo l’Indagine della Banca d’Italia, la diffusione di tali premi è stata pervasiva tra le imprese industriali medio-grandi,13 ma molto contenuta in quelle più piccole (solo del 13 per cento nel 2001, per le imprese industriali tra 20 e 49 addetti). Nel 2001 i tradizionali “premi fissi” venivano ancora ampiamente concessi dalle imprese del Mezzogiorno (per oltre il 40 per cento) e dalle imprese con meno di 200 dipendenti (30 per cento). In complesso, alla fine del 2001, considerando solo le imprese manifatturiere con alme- no 20 addetti, circa 2 milioni di lavoratori ricevevano premi salariali legati in qualche forma alla performance dell’impresa. Dietro c’è un’autentica voglia di accordi e di dialogo, testimoniata dal fatto che, caso unico a livello internazionale, questi accordi si diffondono senza incentivi fiscali.14
La relazione tra esistenza o meno di un contratto aziendale e il pagamento di incrementi retributivi aggiuntivi ai livelli minimi nazionali non è automatica. Da un lato molte imprese dotate di contratti aziendali pagano premi in modo irregolare e condizionatamente a specifici obiettivi; dall’altro, an- che senza un formale contratto aziendale, vengono spesso pagati incrementi decisi unilateralmente dalle imprese. L’Invind analizza in dettaglio il settore dell’economia italiana con la più intensa dif-
11 Si veda Banca d’Italia (1996) per maggiori informazioni sull’Indagine annuale. Essa si basava, fino al 2001, su un campione rappresentativo di circa 1.000 imprese industriali con almeno 50 addetti; successivamente è stata estesa sino a coprire oggi circa 3.500 imprese industriali, di cui 1.200 tra 20 e 49 addetti.
12 Nel 1994-95, con la prima tornata di contratti aziendali associata al nuovo regime di concertazione, molte imprese hanno da subito introdotto premi salariali legati a parametri di performance aziendale, spesso aggiungendo qualche de- cimo di incremento allo 0.7 per cento pagato durante il virtuale blocco dei salari del 1994-94. In tal modo avviavano uno scambio contrattuale cooperativo coi lavoratori, facendo seguire nei successivi due anni degli “sciami di accordi aziendali”, per rinegoziare e monitorare i nuovi premi di performance.
13 Per un maggior dettaglio, per quanto riguarda la dimensione delle imprese, la loro localizzazione e il tipo di contratto, si veda il grafico 8. La quota di imprese con oltre 50 addetti che concede premi legati alla performance era irrilevante nel 1992, salendo al 21 per cento alla fine del 1994, e rispettivamente al 47 e al 63 per cento alla fine del 1996 e del 1999.
14 Gli incentivi, annunciati dal governo alla fine del 1997, sono stati formalmente introdotti nel 1999, ma implementati solo dal 2000. Le imprese con premi salariali variabili hanno diritto a sgravi contributivi pari alla somma dei premi stes- si, sino ad un massimo del 3 per cento della massa salariale. Nel 2000 questi incentivi alla contrattazione aziendale sono stati di circa 400 milioni di euro, stimati corrispondere a 650-800 mila dipendenti.
fusione di contratti aziendali (l’industria di dimensioni medio-grandi), trovando che i premi salariali aggiuntivi, anche se frequenti, non sono ancora pagati né con continuità, né per importi rilevanti.15 Ne deriva una insufficiente distribuzione ai lavoratori dei guadagni di produttività (cfr. GRAFICO 3).
Secondo l’Invind, l’incremento dei salari totali dovuto a premi fissati in azienda, sia contrattual- mente, sia unilateralmente, è stato di circa lo 0.3 per cento nel 1995, raggiungendo i picchi dell’1.3 per cento nel 1996 e dell’1.1 nel 1998, fluttuando poi attorno allo 0.8 per cento sino al 2003. In oc- casione dei due picchi, gli incrementi sono stati particolarmente elevati per le imprese con oltre 500 addetti, per quelle del Nord e per quelle che avevano introdotto i premi di risultato legati alla per- formance (cfr. GRAFICO 9). Anche in presenza di premi di risultato, l’entità degli incrementi è stata molto contenuta, se paragonata alla pur bassa dinamica della produttività.
È più complesso capire quale effetto hanno avuto cumulativamente i flussi degli incrementi prima citati sul livello delle retribuzioni complessive. Nel 2002-03, per le imprese interessate, si potrebbe stimare attorno al 4 per cento soltanto, e non oltre, la quota della retribuzione totale dovuta a premi salariali variabili.16 Sarebbe inoltre rimasto limitato, inferiore al punto percentuale, l’effettivo grado di flessibilità dei premi di risultato, anche verso il basso, contraddicendo un’altra prescrizione degli Accordi del luglio 1993. Questa ridotta variabilità deriva però da preferenze concordate tra imprese e lavoratori. I lavoratori, in particolare, hanno chiaramente mostrato avversione rispetto a quote va- riabili della retribuzione superiori al 5-6 per cento, che comporterebbero un’eccessiva assunzione del “rischio d’impresa”. Quindi spesso col rinnovo di un contratto aziendale ad obiettivi, la retribu- zione variabile dovuta al contratto precedente viene, almeno in parte, consolidata entro “voci fisse”. Analoga avversione è stata mostrata dai lavoratori verso un uso dominante dei parametri di profitta- bilità rispetto a quelli di produttività, che sono meglio riconducibili a obiettivi misurabili e attribui- bili a impianti, reparti e squadre produttive. Sulla profittabilità l’informazione è più scarsa e asim- metrica; contano molto le più rischiose scelte finanziarie delle imprese, su cui raramente i lavoratori sono informati o consultati. Nel caso italiano non si tratta quindi generalmente di meccanismi di profit sharing, ma più generalmente di incentivi alla produttività di squadra. Spesso i premi incen- tivano le presenze, la qualità dei prodotti e i tempi di percorrenza tra l’arrivo degli ordinativi e la consegna ai clienti.
8. È importante analizzare il ruolo svolto dalle diverse voci retributive, sia in termini di incentivi, sia per le conseguenze sui differenziali retributivi che ne derivano. Negli anni ottanta, l’indicizza- zione aveva prodotto un enorme effetto di schiacciamento dei differenziali salariali per categoria, che nell’ultimo decennio si sono riaperti, non per effetto dei nuovi premi di risultato, ma per l’ac- cresciuto peso delle preesistenti voci pagate unilateralmente e ad personam dalle imprese. In detta- glio, nell’ultimo decennio, l’insieme dei premi effettivamente contrattati in azienda ha teso a (i) ri- durre la dispersione salariale all’interno delle imprese; (ii) allargare moderatamente i differenziali tra lavoratori di qualifica simile, appartenenti a imprese con diversa produttività o profittabilità; (iii) allargare moderatamente, quindi, i differenziali salariali tra le imprese localizzate al Centro-Nord e quelle localizzate al Sud (cfr GRAFICO 8).
Negli anni ottanta i tradizionali premi collettivi concessi dalle imprese (superminimi collettivi) era-
15 La quota di dipendenti dell’industria che, in un singolo anno, riceve premi salariali aggiuntivi fissati in azienda, dal 1996 ha fluttuato attorno al 65-70 per cento delle imprese più grandi e nelle regioni del Nord; è rimasta tra il 25 e il 40 per cento delle imprese con meno di 200 addetti e tra quelle del Sud. Rispetto alla tipologia di contratto aziendale adot- tato, la probabilità di ricevere in un dato anno un incremento retributivo addizionale si è mossa tra il 60 e il 75 per cento nelle imprese con contratti legati alla performance; si è mantenuta tra 35 e 50 per cento per il lavoratori coperti da con- tratti aziendali di vecchio tipo a “cifra fissa”, mentre è stata in media del 20 per cento per i lavoratori non coperti da al- cun contratto aziendale, mostrando in tal caso una spiccata ciclicità (per un maggiore dettaglio cfr. TABELLA 1).
16 Un’analoga valutazione effettuata nel 1999 ha registrato un generale consenso attorno alla quota del 3 per cento (Convegno AIEL sulla contrattazione aziendale in Cattolica a Milano, poi pubblicato su Lavoro e Relazioni Industriali).
no pagati ex-post, quando la produzione era andata bene, riproducevano il ventaglio retributivo dei Cn e divenivano una componente fissa della retribuzione. L’inflazione ne erodeva rapidamente il potere d’acquisto. Nel periodo della concertazione i premi di risultato contrattati in azienda sostitui- scono questi superminimi, svolgendo sostanzialmente un ruolo simile. I premi di risultato sono in- fatti spesso del medesimo ammontare per tutti i lavoratori, o al massimo sono poco differenziati per categoria, per la necessità di incentivare la produttività di squadra dell’insieme dei lavoratori (per un approfondimento cfr i GRAFICI 9 e 10).
Il ruolo di incentivare selettivamente i lavoratori più qualificati è stato invece svolto dagli incre- menti concessi unilateralmente dalle imprese, tra i quali si registra una rilevanza crescente delle componenti individuali. Si noti che la mancanza di un contratto aziendale non implica necessaria- mente essere pagati ai minimi nazionali, perché dei pagamenti unilaterali e ad personam sono sem- pre esistiti; essi riguardano però un numero esiguo di dipendenti. Il peso reale delle componenti sa- lariali individuali all’interno delle retribuzioni italiane è spesso sottostimato, soprattutto nella lette- ratura internazionale, per la difficoltà di trovare dati affidabili. Una specifica eccezione è costituita dal settore metalmeccanico, per il quale disponiamo di dati di lungo periodo, ben dettagliati per de- terminante, che mostrano notevoli mutamenti di composizione avvenuti durante il periodo della concertazione. In questo settore, la quota dei salari fissata dal contratto nazionale è scesa dal 79 per cento del 1991 al 75 del 2000. Il restante 25 per cento, deciso in azienda, è formato prevalentemente da superminimi, che si compongono di due parti molto diverse in quanto a incentivi e differenzia- zione che incorporano. I superminimi individuali tendono ad ampliare selettivamente i differenziali interni all’impresa, mentre i superminimi collettivi riproducono la compressione salariale incorpo- rata nei contratti nazionali (cfr. GRAFICO 11). Sulla base di alcune ipotesi semplificatrici è possibile stimare un marcato incremento nei superminimi individuali degli ultimi sei anni, che nel 2000 co- stituiscono ben il 15 per cento circa dell’intera retribuzione metalmeccanica. Dal 1992 l’incidenza dei premi di risultato legati alla performance è cresciuta, in linea coi dettami degli Accordi di politi- ca dei redditi, ma soltanto di tre punti percentuali circa, e interamente a spese dei superminimi col- lettivi. Quindi un più efficiente e variabile strumento di incentivazione di squadra ne ha sostituito uno precedente, più rigido; ma entrambi tendono a mantenere inalterati i differenziali salariali inter- ni all’impresa, mostrando che nell’ultimo decennio la politica degli incentivi nel settore metalmec- canico non si è poi modificata molto.
Gli incrementi retributivi pagati a livello di impresa hanno contribuito ad ampliare i differenziali territoriali, non tanto per scelte effettivamente legate al territorio, ma come conseguenza delle di- namiche settoriali, dimensionali e della produttività, che svantaggiano le imprese localizzate nel Mezzogiorno. In particolare, l’Indagine della Banca d’Italia mostra che, dal 1995 al 2003, tra le im- prese industriali con oltre 50 addetti, l’incidenza totale dei pagamenti decisi in azienda è stata al Sud di circa lo 0.4 per cento all’anno inferiore rispetto al Centro-Nord. Cumulativamente, negli ul- timi otto anni, il drift salariale per le imprese del Sud sarebbe quindi stato di quasi 3.5 punti per- centuali inferiore che nelle altre regioni del paese. Questa non piccola differenza, riflette sia una minor crescita della produttività, sia effetti di composizione settoriale e dimensionale.
Quindi, anche se solo su un orizzonte temporale medio-lungo, creare nuovo spazio per la contratta- zione aziendale ha favorito un apprezzabile allargamento dei differenziali salariali territoriali. Noi interpretiamo questo risultato auspicandone la continuazione, tanto più che il risultato viene otte- nuto “spontaneamente”, e senza ridurre il potere di acquisto al Sud. Una futura ripresa produttiva dovrebbe di per sé far crescere maggiormente le retribuzioni al Centro-Nord, specie se la copertura dei contratti aziendali si estendesse, assieme alla predisposizione di proporzionati premi salariali va- riabili, legati a obiettivi incentivanti sulla produttività.
9. Uno degli elementi più fecondi dell’esperienza della concertazione è costituito dal rilevante ruolo che la contrattazione, soprattutto a livello aziendale ha avuto nella diffusione di specifiche forme flessibili, ritagliate sulle esigenze dell’impresa, agendo, in questo, “prima e meglio” della
normativa. Le rappresentanze dei lavoratori dal 1995 al 2000 hanno spesso concesso varie forme di flessibilità, ottenendo in cambio sia il riconoscimento esplicito di un ruolo nella gestione di questi processi, sia incrementi retributivi a contenuto incentivante, ma anche assicurativo.
L’Indagine della Banca d’Italia individua nel 1995 un salto nell’utilizzo dei contratti a termine, an- cora più evidente se escludiamo i contratti di apprendistato e di Formazione e Lavoro, utilizzati per- ché meno costosi. La normativa, già dal 1987, aveva regolamentato in modo più ampio il lavoro a termine, per il cui utilizzo i contratti nazionali di lavoro fissavano dei tetti percentuali ampiamente sottoutilizzati. Dopo le massicce riduzioni di manodopera attuate tra il 1992 e il 1994, le imprese percepirono come altamente incerta e temporanea la forte ripresa ciclica del 1995. Il desiderio di ri- spondere mediante strumenti flessibili e reversibili fu assecondato dai sindacati. Nei contratti nazio- nali del periodo essi consentirono (i) di ampliare i tetti quantitativi all’utilizzo del lavoro a termine;
(ii) di estendere le motivazioni ammissibili per il ricorso a tali contratti, sino a includere di fatto an- che i picchi produttivi; (iii) di rimandare esplicitamente ai contratti aziendali di nuovo tipo per ulte- riori ampliamenti in deroga ai tetti nazionali. In tal senso, all’interno del quadro della concertazione, l’esistenza di premi salariali variabili con la performance, più che incidere per la reale flessibilità dei salari, segnalava una gestione collaborativa nel complesso.
Spesso, in risposta a picchi ciclici o stagionali di domanda, i lavoratori concessero la disponibilità a svolgere turni produttivi aggiuntivi festivi e notturni, oppure a far variare l’intensità di utilizzo dell’orario standard di lavoro.17 Soprattutto i turni aggiuntivi, che coinvolgevano assieme i dipen- denti permanenti dell’impresa e i nuovi assunti temporanei, comportarono un innalzamento repenti- no della produzione massima potenziale, senza che venissero effettuati costosi investimenti in mac- chinari. Come novità per il nostro paese, il ricorso ad un lavoro più flessibile e meno costoso indus- se una sostituzione all’indietro, con minor intensità di capitale per addetto. Va sottolineata la natura particolarmente flessibile di questi contratti a termine, la cui durata modale è molto breve, tre- quattro mesi contro, ad esempio, i quattro anni della Spagna. Proprio la breve durata comporta una enorme rilevanza dei flussi di assunzioni e cessazioni in corso d’anno, mentre rende più difficile che si cumulino rilevanti quote di occupati a termine sullo stock degli occupati totali.18
Si potrebbe pensare che la contrattazione aziendale, soprattutto nelle forme sviluppatesi nel biennio 1995-96, erodesse in azienda il potere di interdizione degli insider, comportando l’opposizione di un sindacato forte rispetto all’utilizzo sistematico del lavoro temporaneo. Il meccanismo di paga- mento dei premi di risultato ha invece favorito l’accordo cooperativo. L’organizzazione produttiva che riduceva il livello dell’occupazione fissa, tarandolo sulle fasi basse del ciclo, affidando consen- sualmente all’impiego di forme flessibili esterne il compito di gestire le fluttuazioni della forza la- voro durante le fasi espansive, aveva un doppio vantaggio per gli insider: i) diminuire la probabilità di perdere il posto; (ii) partecipare in misura prevalente alla distribuzione dei guadagni di produtti- vità. La percezione di aver operato per ridurre le conseguenze individuali dell’incertezza esterna, rafforzava l’atteggiamento cooperativo dei sindacati in azienda. Al contempo, gli orari di lavoro in- dividuali venivano stabilizzati su livelli molto elevati e tendevano a rimanere costanti. In sintesi, per rispondere alle variazioni cicliche si usavano sempre meno le oscillazioni delle ore lavorate pro ca- pite, e sempre più i lavoratori temporanei.
10. Nel complesso, già nel 1995-96 appariva fuorviante l’impressione, su cui tanto a lungo si è di- scusso, negli anni successivi, nel dibattito di politica economica, che sarebbe comunque stato posi- tivo un rilevante incremento della flessibilità sul mercato del lavoro, in ognuna delle dimensioni
17 Almeno nel periodo 1995-99 vi è stata ampia complementarità tra le diverse forme di flessibilità occupazionale, ora- ria e retributiva, come mostrato in Casadio e D’Aurizio (2002). Più in generale, la flessibilità ha favorito anche il mu- tamento organizzativo delle imprese.
18 Si noti che la brevissima durata prevaleva già prima dell’introduzione del lavoro interinale, frammentario per natura.
coinvolte. Al contrario, anche grazie alla collaborazione dei sindacati, era stato invece individuato sperimentalmente un menu abbastanza ampio e articolato di strumenti di flessibilità che lasciava ad imprese dalle diverse caratteristiche tecnologiche e organizzative la possibilità di sperimentare so- luzioni che fornivano loro forme di flessibilità nell’uso della forza lavoro, senza che ciò comportas- se un aumento dell’incertezza e della variabilità salariale a carico dei lavoratori. La collaborazione a livello aziendale tra dirigenza, sindacati e maestranze stava riuscendo, appunto, a realizzare una flessibilità “buona”, che garantiva l’efficienza aziendale senza che ciò comportasse un significativo aumento della precarietà per i lavoratori.
In termini di policy il problema era quello di istituzionalizzare e cercare di diffondere i frutti miglio- ri per le imprese di questo scambio virtuoso tra le parti, limitandone invece le conseguenze che po- tevano risultare più negative per i lavoratori. È in questa chiave che va interpretato il Pacchetto Treu del giugno 1997. Esso, infatti ha l’obiettivo di recepire il meglio di quanto sperimentato in azienda, tentando di far emergere forme di lavoro sommerso, di introdurre forme tutelate di lavoro a termine, come l’interinale, continuando a lasciare alla contrattazione i margini di discrezionalità e di mano- vra per definire i contenuti esatti dei provvedimenti. Ancora, nel Pacchetto Treu, con l’estensione di misure tampone per il Sud, come quelle sui “lavori socialmente utili”, si evidenzia la coscienza di quelle difficoltà che già stavano emergendo e che avrebbero bloccato la concertazione qualche anno dopo (cfr. infra, par. 11). È infatti molto negativo, per la stessa sostenibilità sociale della politica dei redditi, che tutti i buoni frutti della flessibilità, almeno dal 1995 al 1998, siano andati al Nord, men- tre la più rilevante flessione dei redditi reali si sia concentrata al Sud (per quanto riguarda la diffor- mità dei risultati in tema di occupazione e disoccupazione si vedano i GRAFICI 5 e 6).
Proprio la volontà di promuovere forme di flessibilità “buona”, e di scoraggiare al contempo quelle di flessibilità “cattiva”, quelle associate cioè al lavoro precario e all’economia sommersa, unita- mente con la preoccupazione che lo sviluppo di questa flessibilità “cattiva”, particolarmente diffusa nel Mezzogiorno, accentuasse le segmentazioni sul mercato del lavoro e creasse trappole dei bassi salari per gli occupati a termine, è stata all’origine di un altro insieme di misure di intervento pub- blico nel mercato del lavoro. Le più importanti di tali misure riguardarono gli incentivi per l’occupazione aggiuntiva a tempo indeterminato, un esperimento introdotto alla fine del 2000, e che si rivelò di notevole efficacia per far crescere il numero di occupati con contratti di lavoro standard, in gran parte impiegati, in precedenza, proprio in forme di lavoro precario e nell’economia xxxxxx- sa (soprattutto al Sud). Va detto, d’altra parte, che questo esperimento fu probabilmente troppo ge- neroso con le imprese19 e, soprattutto, arrivò quando ormai la parabola della concertazione volgeva al termine.
11. Possiamo tentare, a questo punto, una valutazione complessiva dell’esperienza della concerta- zione e dei suoi effetti sul mercato del lavoro italiano. Innanzitutto proviamo a tirare le fila della massa di informazioni che abbiamo presentato nelle pagine precedenti. Continuiamo a concentrare l’attenzione soprattutto sulla problematica della determinazione dei salari. A nostro avviso, sotto il quadro degli accordi di politica dei redditi degli anni novanta, l’evoluzione dei meccanismi di de- terminazione dei salari ha evidenziato due rilevanti tendenze. La prima riguarda l’alternativa tra il ricorso agli automatismi o alla contrattazione. In questi anni, il peso dei primi è quasi scomparso la- sciando uno spazio crescente all’autonomia delle parti. La seconda tendenza riguarda invece il gra- do di centralizzazione della contrattazione. In questi anni la contrattazione salariale si è andata gra- datamente spostando dal livello nazionale verso quello aziendale e da quest’ultimo verso quello in- dividuale. Infine va registrato, col passare degli anni che ci separano dall’inizio della concertazione, come si sia passati da una fase fortemente cooperativa tra le parti sociali a una in cui si è assistito al
19 Xxxxxxxxx & Xxxxxx (2003) mostrano che gli incentivi concessi erano troppo generosi; spesso poi le imprese non han- no accresciuto la propria forza lavoro, attuando solo delle trasformazioni da altre forme occupazionali.
riemergere di forme di conflittualità e di divisione. Ma vediamo con un maggiore dettaglio questi tre punti.
Dagli automatismi alla contrattazione. Di fatto i compiti in precedenza affidati alla scala mobile vengono attribuiti alla contrattazione nazionale. Tuttavia, per lo meno a questo livello, l’autonomia delle parti risulta ancora fortemente limitata. Ci riferiamo al mantenimento dei ventagli retributivi per categoria, al riferimento stretto al Tip, allo scorporo dell’inflazione importata e al recupero ex post degli scarti con l’inflazione effettiva. Dove invece – come abbiamo visto – la discrezionalità delle parti è decisamente maggiore è al livello della contrattazione aziendale. Prima di esprimere una valutazione su questo mix che vede la compresenza di un livello nazionale relativamente vin- colato e di un livello aziendale relativamente “libero”, dobbiamo però dire qualcosa sulla seconda tendenza.
Centralizzazione e coordinamento. La teoria economica distingue almeno due assi su cui misurare l’efficacia della contrattazione: il grado di centralizzazione e quello di coordinamento. C’è una certa evidenza empirica basata su confronti internazionali (Calmfors & Driffil 1988) secondo cui tra il grado di centralizzazione del sistema contrattuale e la sua performance esisterebbe una relazione a U rovesciata. A un estremo i sistemi molto centralizzati sarebbero virtuosi perché capaci di interna- lizzare nella funzione di preferenza dei sindacati il peso di variabili macroeconomiche come il tasso di disoccupazione, quello di inflazione e la competitività esterna delle imprese. All’estremo oppo- sto, anche i sistemi altamente decentrati sarebbero virtuosi, perché sensibili al risultato economico delle imprese di appartenenza. In effetti nel regime degli anni ottanta, quello appunto sostituito dalla concertazione, l’Italia veniva classificata proprio con quel grado di centralizzazione intermedio, che appunto non garantiva alcuno dei vantaggi presenti nei due casi polari, e che anzi era sensibile agli inconvenienti di facilitare comportamenti di free riding da parte dei partecipanti alle singole con- trattazioni.
In seguito alla spinta imposta dalla concertazione, il quadro si modifica, nel senso che il sistema della contrattazione in Italia tende a polarizzarsi verso i due estremi, oltretutto con un sensibile au- mento del grado di coordinamento, e di divisione dei compiti, tra i diversi livelli contrattuali, carat- teristiche che – come abbiamo visto – mancavano quasi completamente nel regime degli anni ot- tanta. Sotto questo profilo, l’esperienza della concertazione va considerata in modo positivo. Essa ha consentito di accrescere l’efficienza del sistema complessivo della contrattazione. Un giudizio più sfumato va dato, invece, per quanto riguarda la crescita di peso della contrattazione individuale. Finché il coordinamento di quest’ultima con gli altri livelli della contrattazione rimane elevato, essa svolge un’utile funzione complementare. Se invece questo livello tende a sostituirsi agli altri, emer- ge il rischio che alcune funzioni del salario finiscano col prevalere a scapito di altre altrettanto im- portanti (cfr. infra), che si verifichi una rottura nell’equilibrio dei rapporti di forza tra le parti socia- li.20
Forse il rischio principale è proprio quello che si alteri il mix tra livello nazionale e livello aziendale della contrattazione che era emerso nella seconda metà degli anni novanta. A nostro avviso, esso si era rivelato in larga misura corretto, forse con un tocco di eccessiva rigidità relativamente al Tip a livello nazionale, e un corrispondente difetto di carenza di formalizzazione a livello di impresa. Per esempio, non vengono previste sanzioni in assenza di contratto aziendale. Semplicemente non suc- cede nulla: non ci sono sedi di confronto istituzionalizzate, né prassi incoraggiate per favorire una maggiore codeterminazione delle decisioni. Considerando la parziale diffusione della contrattazione aziendale nel nostro paese, non si tratta di un difetto di piccolo conto.
Il ritorno della conflittualità. Come abbiamo visto, la fase più “propositiva” della concertazione è
20 Il rischio non è peregrino se si vanno a vedere alcune tendenze recenti della legislazione in tema di mercato del lavo- ro. Xxx. Xxxxxxx & Xxxxxx 0000.
quella del biennio 1995-96. In quel periodo la dinamica delle retribuzioni contrattuali segue la guida del tasso di inflazione programmato e contribuisce a disinnescare definitivamente i meccanismi di amplificazione e persistenza dell’inflazione imputabili ai salari. In quello stesso periodo la contrat- tazione aziendale, anche se continua a interessare solo una parte relativamente piccola dei lavorato- ri, si sviluppa secondo un elevato coordinamento con la contrattazione nazionale, ma mostra anche una elevata capacità innovativa, esprimendo le sue potenzialità più virtuose, soprattutto sul piano normativo. Successivamente, però, la spinta propulsiva delle concertazione si indebolisce. Il Tip viene avvertito, soprattutto da parte sindacale, come un indicatore sempre meno credibile dell’inflazione futura; e succede così che le parti sociali finiscano col trovarsi coinvolte all’interno di un commitment che non le soddisfa più e che talvolta cominciano a contestare apertamente.
Così, per esempio, alcuni settori della Confindustria provano a forzare verso un sistema di con- trattazione “à la carte”, basato su livelli alternativi invece che complementari: o solo quello nazio- nale, oppure solo quello aziendale. L’idea sottesa a questo atteggiamento era di poter contenere la dinamica delle retribuzioni sui minimi contrattuali, oppure di derogare anche in basso rispetto ai minimi nazionali correnti approfittando della scarsa diffusione, in gran parte del territorio e delle aziende, di adeguate controparti sindacali. Sul versante opposto, anche alcuni settori del sindacato avanzano proposte che cercano di aprire dei varchi nella rete stretta della concertazione. Ne è un esempio l’ipotesi di reintrodurre una scala mobile “carsica”. Ne è un altro esempio l’ipotesi di ri- portare entro la contrattazione nazionale di categoria anche (parte degli) incrementi dovuti alla pro- duttività.
Nell’ultima parte del decennio, insomma, la concertazione sopravvive stancamente a se stessa, cristallizzata in un meccanismo di cui le parti sociali avvertono sempre meno le implicazioni virtuo- se e che sopportano a stento, ma che non osano denunciare apertamente a causa del succedersi di continue emergenze esterne. Alla concertazione succede, con un singolare parallelismo storico, qualcosa di analogo a quel che era successo alla scala mobile degli anni settanta e ottanta. Nata co- me soluzione di emergenza per contrastare una situazione di crisi, e successivamente istituzionaliz- zata, era diventata un istituto inamovibile, anche se nelle mutate situazioni i suoi inconvenienti co- minciavano a divenire largamente superiori ai vantaggi.
12. Nonostante quel che si è appena detto, il giudizio complessivo sul meccanismo di contrattazione che stava emergendo dalla prima fase della concertazione va considerato complessivamente positi- vo. Per giustificare questa nostra affermazione possiamo prendere le mosse da una considerazione di carattere generale, ossia dal fatto, riconosciuto da tempo nella letteratura economica, che il mer- cato del lavoro presenta una spiccata peculiarità, che lo distingue fortemente dalla massa dei mer- cati delle altre “merci”. In altri termini, sulla compra-vendita della forza-lavoro e sul suo prezzo, il salario, si scaricano diverse funzioni, difficilmente compatibili tra loro, le quali si aggiungono alla tipica funzione allocativa (l’incontro tra la domanda e l’offerta) svolta da tutti i prezzi. Alcune di queste funzioni interessano alle imprese. Esse sono la funzione informativa, tipica di tutte le situa- zioni in cui è rilevante l’informazione asimmetrica, e la funzione incentivante anche essa tipica di queste situazioni. In altre parole il livello del salario viene utilizzato dall’impresa come strumento di screening delle caratteristiche dei dipendenti; e viene usato anche come artificio disciplinare, per indurre i dipendenti a prestare il livello adeguato di effort e per fidelizzarli all’impresa stessa. Altre due funzioni, invece, interessano i lavoratori: il salario svolge una funzione assicurativa, ossia rea- lizza un decoupling tra il reddito del lavoratore e l’andamento economico dell’impresa; è infine il principale strumento usato dai lavoratori per ottenere una redistribuzione del reddito (cfr. Xxxxxxx & Rodano 2004).
Se questi sono i problemi che, in generale, un regime di relazioni industriali deve essere in grado di affrontare, il sistema che stava emergendo dalla concertazione appariva abbastanza promettente. In- nanzitutto, come abbiamo visto, si affermava una pluralità di livelli contrattuali con una precisa di-
stinzione di compiti. In particolare il livello nazionale serviva a garantire una soglia minima per tutti i lavoratori compresi quelli appartenenti ad imprese non sindacalizzate, grazie alla copertura erga omnes fornita dalla contrattazione collettiva (funzione assicurativa). Quest’ultima poteva essere ge- stita indirettamente anche da un altro aspetto del livello nazionale della contrattazione, quello ap- punto per cui esso doveva garantire le compatibilità macroeconomiche.
Le altre principali funzioni, da quella allocativa a quella redistributiva potevano venire riservate a una opportuna modulazione dei livelli di contrattazione aziendale. Un altro aspetto vantaggioso dal punto di vista di una adeguata gestione della pluralità di compiti indicati sopra era costituito dal ri- levante peso che il sistema attribuisce al sindacato, visto come alternativa sia alla contrattazione in- dividuale sia agli automatismi. In questo modo, infatti, possono essere garantite sia le esigenze di flessibilità complessiva del sistema (capacità di reagire in tempi ragionevoli agli shock e alle inno- vazioni), sia una sufficiente articolazione dei differenziali salariali (pesantemente schiacciati dai meccanismi automatici dal precedente decennio), sia infine un riequilibrio dei rapporti di forza tra lavoratori e imprese altrimenti sbilanciato dalla presenza del potere di monopsonio di cui sono do- tate numerose imprese. Al tempo stesso, anche il rischio di un eccesso di potere degli insider è tem- perato dai compiti assegnati dalla concertazione al livello nazionale della contrattazione.
Ai fini dell’equilibrio complessivo del sistema di relazioni industriali, va sottolineato, infine, il ruolo di garanzia attribuito al governo. Un altro elemento importante del sistema di relazioni che si andava configurando negli anni della “spinta propulsiva” della concertazione era proprio costituito dai compiti affidati alle istituzioni pubbliche, sia nel senso di guidare il sistema lungo il sentiero stretto della politica dei redditi (ossia della costanza delle quote distributive), sia nel senso di predi- sporre quel sistema di ammortizzatori sociali che è condizione necessaria perché tutto il sistema complessivo risulti credibile e riceva un adeguato consenso. Per tutti questi motivi la strada aperta dalla concertazione verso un’evoluzione in chiave moderna, equa ed efficiente del sistema delle re- lazioni industriali appariva promettente.
13. Questa evoluzione si è interrotta. Come abbiamo visto, dopo un biennio in cui il sistema sem- brava incamminarsi in quella direzione, le cose hanno cominciato ad andare diversamente. Quali sono i motivi di questa mancata evoluzione? A nostro avviso se ne possono individuare almeno quattro. Il primo è costituito dal fatto che il sistema produttivo italiano, e di conseguenza anche il mercato del lavoro, non è omogeneo. Non lo è se lo esaminiamo dal punto di vista della dimensione delle imprese; non lo è se lo esaminiamo dal punto di vista della presenza sindacale; non lo è se lo esaminiamo dal punto di vista territoriale. È il tema fin troppo noto del carattere dualistico dell’economia italiana. Esso può essere illustrato con poche eloquenti cifre. Esse mostrano come i sindacati siano concentrati in poche grandi imprese al nord e siano molto meno presenti e diffusi altrove. Esse mostrano come la situazione del mercato del lavoro sia fortemente disomogenea, nel senso che si passa da aree in cui si registra un sostanziale pieno impiego, o addirittura un eccesso strutturale di domanda di lavoro, a situazioni in cui si deve lamentare una presenza di tassi di disoc- cupazione molto elevati e di lunga durata. Basti dire che mentre il tasso di disoccupazione non mai salito sopra il 7 per cento nelle regioni del Nord Est, neanche durante la recessione del 1992-93, all’opposto, nel Sud il tasso non è mai sceso sotto il 15 per cento negli ultimi venti anni (si vedano ancora i GRAFICI 5 e 6).
Il secondo motivo consiste, a nostro avviso, nel fatto che i numeri della dinamica salariale non era- no compatibili, né a livello aggregato né a livello disaggregato, con quanto è richiesto da una politi- ca dei redditi capace di garantire una crescita bilanciata nel medio e nel lungo periodo. Le cifre parlano infatti di una tendenza alla diminuzione della quota distributiva del lavoro. Negli ultimi an- ni cioè si registra a livello aggregato una sostanziale stabilità dei salari reali.21 Ciò significa che,
21 Nel settore privato, tra il 1992 e il 2003 le retribuzioni pro capite reali lorde sarebbero cresciute dello 0,3 medio an- nuo; sarebbero invece rimaste stazionarie quelle al netto delle imposte.
sempre a livello aggregato, tutto l’incremento medio di produttività è stato incamerato dal sistema delle imprese. È possibile che questo risultato derivi dal fatto che la situazione di partenza fosse lontana dalle condizioni di uno sviluppo equilibrato; ma resta il fatto che questa dinamica, anche a livello aggregato, appare fuori equilibrio (cfr. GRAFICO 4). Se poi si passa al livello disaggregato, incorporando nel discorso gli effetti asimmetrici della contrattazione aziendale, essendo questa con- centrata – come abbiamo visto – solo in una parte delle imprese, ne consegue che la costanza dei salari reali a livello aggregato, si articola in una parte di lavoratori che hanno ottenuto un incre- mento del salario reale (quelli che hanno usufruito della contrattazione aziendale) e in una parte che, invece, ha dovuto registrare una perdita del potere d’acquisto delle proprie retribuzioni. Data questa evoluzione era inevitabile che l’equilibrio delle retribuzioni mancasse anche a livello micro. E que- sto non solo per un’insufficiente dispersione dei livelli salariali, ma anche per problemi di carattere più propriamente distributivo.
Poche parole sul terzo motivo. Esso consiste nel fatto che lo Stato si è rivelato largamente carente nel disegnare il sistema degli ammortizzatori sociali e degli altri istituti di welfare necessari a forni- re efficienza al sistema e a fornire ai lavoratori una compensazione per quanto venivano sacrifican- do sul terreno retributivo e distributivo. Nell’ultima parte degli anni novanta la mancata realizzazio- ne delle promesse può essere imputata, almeno in parte, a vincoli dovuti alle stringenti compatibilità macroeconomiche (ancora il tema dell’emergenza). Nei primi anni del nuovo secolo, si è aggiunta, da parte del nuovo governo, una crescente sfiducia nei meccanismi della concertazione, e una pro- pensione a sostituirla con meccanismi di regolazione del mercato del lavoro molto più market oriented.
Il quarto motivo rilevante, che però si è fatto sentire solo negli anni più recenti, è rappresentato dall’incapacità a crescere mostrata negli ultimi tempi dall’economia italiana. È chiaro infatti che in un’economia stagnante ogni processo di riforma, che comporta comunque ingenti riallocazioni delle risorse, diviene più difficile e problematico. Ma, come abbiamo visto, la stasi della spinta propulsi- va della concertazione aveva già cominciato a manifestarsi prima dell’attuale fase di ristagno. Ri- servandoci perciò di dire ancora qualcosa su questo punto in sede di conclusione, dobbiamo prima chiarire un po’ meglio in che modo questi motivi hanno influenzato la mancata evoluzione del si- stema di relazioni industriali che si era messo in moto attorno alla metà degli anni novanta.
La disomogeneità del sistema industriale, la struttura non di equilibrio (micro e macro) delle retri- buzioni, la mancanza di compensazioni sul terreno del welfare e della sicurezza caricavano la con- trattazione di un eccesso di compiti che questa non era in grado di assolvere. Tanto più se si consi- dera che per la maggioranza dei lavoratori l’unico livello di contrattazione disponibile restava quello nazionale, quest’ultimo risultava largamente sovraccarico. Ne conseguiva l’emergere di ten- sioni e soprattutto la scomparsa di un core, di un’area dove fosse possibile identificare ancora un accordo che coinvolgesse le parti sociali e il governo. Emergeva cioè una situazione in cui le istanze delle imprese e quelle dei sindacati diventavano sempre meno compatibili, in cui le strategie diver- gevano, in cui gli atteggiamenti cessavano di essere cooperativi per tornare a farsi conflittuali. La crescente difficoltà a realizzare accordi dai contenuti soddisfacenti per tutti e la mancanza di sponda da parte dell’azione governativa alimentavano spinte centrifughe. Queste cominciavano ad attraver- sare lo stesso movimento sindacale. Iniziarono perciò a emergere accordi separati.
Va detto, però, che la situazione non è esplosa subito. La concertazione è riuscita a sopravvivere per alcuni anni alla sua fase più creativa nonostante l’incapacità dei tre soggetti coinvolti di farle com- piere un nuovo salto di qualità, indubbiamente difficile e problematico. È sopravissuta accantonan- do i problemi, nascondendoli, per così dire, “sotto il tappeto”. Mentre le funzioni-obiettivo delle va- rie parti sociali evolvevano sempre di più verso direzioni sempre più divergenti, da parte politica si è tentato, alla fine degli anni novanta, di rilanciare la concertazione coinvolgendovi sempre più sog- getti: la Confcommercio, gli artigiani, le cooperative, le regioni, ecc. Si apriva così una fase a un tempo “barocca” e impotente della politica dei redditi. L’intuizione era giusta: il nuovo regime sta- va entrando in crisi perché doveva mediare tra troppe istanze e troppo disomogenee. La soluzione di
moltiplicare il numero dei soggetti coinvolti per cercare di fornire una rappresentanza a tutte quelle istanze era chiaramente inadeguata. Le cose hanno retto, sempre più stancamente, fintanto che il manifestarsi di qualche emergenza o la presenza di scadenze ravvicinate consigliavano la ricerca di un compromesso. Col cambio della maggioranza politica, le spinte centrifughe presero il soprav- vento, tanto più che il nuovo governo affermava a chiare lettere di preferire altre strade.
È soltanto oggi, quando le difficoltà economiche si fanno via via più pressanti, che le parti sociali stanno considerando seriamente, almeno loro, di riprendere il discorso interrotto sulla concertazio- ne.
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Grafico 1 - Inflazione al consumo e retribuzioni pro capite nel settore privato (1) (variazioni percentuali)
Inflazione al
consumo
Retr. Pro capite
Politica dei redditi
Politica dei redditi
30
25
20
15
10
5
0
1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004
Fonte: Istat, Conti Nazionali
(1) Settore privato al netto dell’agricoltura.
Grafico 2 - Retribuzioni reali pro capite e produttività nel settore privato (1) (indice 1990=100)
Produttività
Retribuzioni Reali
125
120
115
110
105
100
0000 0000 0000 1996 1998 2000 2002 2004
Fonte: Istat, Conti Nazionali
(1) Settore privato al netto dell’agricoltura.
Grafico 3 - Retribuzioni reali pro capite e produttività nei servizi privati e nell’industria
(indice 1970=100)
Salari Reali
Produttività
Politica dei redditi
Politica dei redditi
Industria
Servizi Privati
210
200
190
180
170
160
150
140
130
120
110
100
1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004
Fonte: Istat, Conti Nazionali
Grafico 4 - Quota del lavoro sul valore aggiunto al costo dei fattori (1) (valori percentuali)
Industria
Politica dei redditi
Servizi
Privati
Politica dei redditi
75
70
65
60
55
50
1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004
Fonte: elaborazioni da dati Istat, Conti Nazionali. – Nota: (1) Il Valore aggiunto al costo dei fattori non risente della discontinuità legata all’introduzione dell’IRAP per il 1998. Ne risentirebbe invece l’utilizzo del valore aggiunto ai prezzi di base.
Grafico 5 – Occupazione nel Centro-Nord e nel Sud
(indice 1991 = 100)
Sud
Centro-Nord
105
100
95
90
85
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
80
Fonte: Istat, Conti Nazionali, unità di lavoro standard.
Grafico 6 – Tasso di disoccupazione nel Centro-Nord e nel Sud
Sud
Centro-Nord
25
20
15
10
5
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
0
Fonte: Istat, Indagine sulle Forze di Lavoro
Grafico 7 – Errori di previsione del Tasso d’Inflazione Programmato e dell’Indagine del Con- sensus Forecast
(variazioni percentuali e le loro differenze)
Inflazione
Consensus Forecasts
Inflazione programmata
6 6
5 5
4 4
3 3
2 2
1 1
0 0
-1 -1
-2 -2
-3 1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003 -3
Fonte: Istat, DPEF, Consensus Forecast
Grafico 8 - Quota di addetti che riceve incrementi retributivi in aggiunta al contratto nazionale
(valori percentuali; Imprese manifatturiere con almeno 50 addetti)
a) Per dimensione d'impresa
80
70
60
50
40
30
20
10
0
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
50-199 Addetti 200-499 Addetti Oltre 500 Addetti
b) Per localizzazione
80
70
60
50
40
30
20
10
0
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Xxxx Xxxxx Xxxx Xxx Xxxxxx Xxx
00 c) Per tipo di contratto
70
60
50
40
30
20
10
0
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Senza contratto Contratti tradizionali Con premi variabili
Fonte: Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali
Grafico 9 - Incrementi retributivi nelle sole imprese che danno premi aggiuntivi al contratto nazionale
(valori percentuali; imprese manifatturiere con almeno 50 addetti)
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
a) Per dimensione di impresa
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
50-199 Addetti 200-499 Addetti Oltre 500 Addetti
b) Per localizzazione geografica
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
Nord Ovest Nord Est Centro Sud
c) Per tipo di contratto
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
Senza contratto Contratti tradizionali Con premi variabili
Fonte: Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali
Grafico 10 - Contributo alle retribuzioni medie dei premi concessi in aggiunta al contratto nazionale (valori percentualI; Imprese manifatturiere con almeno 50 addetti)
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
a) Per dimensione di impresa
50-199 Addetti 200-499 Addetti Oltre 500 Addetti
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
b) Per localizzazione geografica
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Nord Ovest Nord Est Centro Sud
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
c) Per tipo di contratto
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001
Senza contratto Contratti tradizionali Con premi variabili
Fonte: Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali
Grafico 11 - Quota e composizione dei salari fissati in azienda nel settore metalmeccanico
(Peso percentuale sul totale delle retribuzioni di fatto del settore)
Performance Related Pay
Traditional Production Premia
Collective Extra-minima
Individual Extra-Minima
30
25
20
15
10
5
0
1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000
Tabella 1 - Diffusione della contrattazione aziendale integrativa nell’industria
(percentuale di imprese e di addetti)
Tipo di contratto aziendale: | Alla fine | del 1994 | Alla fine | del 1996 | Alla fine | del 1999 |
Imprese | Occupati | Imprese | Occupati | Imprese | Occupati | |
a) Mancanza di contratto aziendale (1) | 14,1 | 7,6 | 10,2 | 5,7 | 11,6 | 5,2 |
b) Presenza di contratto aziendale integrativo | 85,9 | 92,4 | 89,8 | 94,3 | 88,4 | 94,8 |
(di cui) | ||||||
b1) Senza incrementi salariali | 0,0 | 0,0 | 0,0 | 0,0 | 0,0 | 0,0 |
b2) Con premi salariali tradizionali: | 64,9 | 35,0 | 42,7 | 26,9 | 25,3 | 19,7 |
- di importo prestabilito | 60,5 | 32,7 | 39,9 | 25,4 | 22,3 | 17,5 |
- legati a specifiche modifiche organizzative | 4,4 | 2,3 | 2,9 | 1,5 | 3,0 | 2,2 |
b3) Con premi variabili in funzione della performance: | 21,0 | 57,4 | 47,1 | 67,4 | 63,1 | 75,1 |
- dell'intera impresa | 16,8 | 47,9 | 39,0 | 50,0 | n.d. | n.d. |
- delle unità produttive | 4,3 | 9,5 | 8,1 | 17,4 | n.d. | n.d. |
oppure | ||||||
- parzialmente variabili | x.x. | x.x. | x.x. | x.x. | 00,0 | 35,3 |
- totalmente variabili | x.x. | x.x. | x.x. | x.x. | 00,0 | 39,8 |
Totale | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 |
Con almeno 50 addetti Tra 20 e 49 addetti
Alla fine del 2001
Imprese Occupati 66,4 66,4
33,6 33,6
10,1 | 10,1 |
9,9 | 9,9 |
8,8 | 8,8 |
1,1 | 1,1 |
13,6 | 13,6 |
x.x. | x.x. |
x.x. | x.x. |
0,0 | 5,5 |
8,1 8,1
100,0 100,0
Fonte: Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali
27