DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO DEI CONTRATTI
Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXII
NUOVE FUNZIONI DELL’AFFITTO DI AZIENDA LE REGOLE E L’ESPERIENZA
Settore disciplinare
IUS/04 DIRITTO COMMERCIALE
Presentata da: dott. avv. Xxxxxxx Xxxxx di Xxxxxxx Coordinatore Dottorato: Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx Relatore: Prof.ssa Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Esame finale a.a. 2010-2011
INDICE SOMMARIO | pag. | |
- | INTRODUZIONE. L’affitto di azienda nel quadro dei rapporti economici e imprenditoriali | |
4 | ||
- | CAPITOLO PRIMO. L’affitto di azienda nell’ambito dei feno- meni circolatori degli apparati produttivi | |
1. | Considerazioni generali sull’azienda e sulla circolazione d’a- zienda …………………………………………………………. | |
8 | ||
2. | La circolazione negoziale dell’azienda. Vendita, usufrutto e affitto. Conferimento di azienda e cessione ai creditori. Pat- to di famiglia e disposizioni testamentarie. In particolare: il leasing di azienda …………………………………………. | |
25 | ||
3. | La circolazione dell’azienda a fonte non negoziale. Usu- capione, espropriazione forzata e trasferimenti coattivi di azienda ………………………………………………………… | |
41 | ||
- | CAPITOLO SECONDO. Il contratto di affitto di azienda | |
1. | Nozione e causa del contratto ……………………………….. | 47 |
1.1. | La nozione di affitto di azienda. Il problema della disciplina applicabile e la specificità dell’oggetto del contratto. La rilevan- za del ramo di azienda ………………………………………… | |
47 | ||
1.2. | La duttilità della funzione del contratto di affitto di azienda: dalla mera redditività al passaggio generazionale di impresa | |
57 | ||
2. | Contenuto e oggetto dell’accordo ……………………………. | 63 |
2.1. | Caratteri e disciplina del contratto di affitto di azienda …….. | 63 |
2.2. | L’azienda, l’avviamento e la clientela. Il problema delle licenze amministrative dell’imprenditore ……………………………... | |
70 | ||
2.3. | Affitto di azienda e differenze con la locazione commerciale | 78 |
3. | Effetti ed esecuzione dell’accordo. I diritti e gli obblighi delle parti contraenti ………………………………………………… | |
82 | ||
4. | La cessazione del contratto di affitto di azienda ……………… | 84 |
5. | L’affitto di azienda e il fallimento ……………………………. | 90 |
5.1. | Il fallimento del concedente ed il fallimento dell’affittuario | 91 |
5.2. | L’affitto di azienda concluso dalla curatela fallimentare | 93 |
5.3. | La prelazione dell’affittuario in caso di trasferimento del- l’azienda da parte della curatela fallimentare …………….. | |
98 | ||
6. | Il contenzioso in materia di affitto di azienda ……………….. | 000 |
- | XXXXXXXX XXXXX. Il contratto di affitto di azienda nelle ope- razioni economiche complesse | |
1. | Lo sviluppo di strutture commerciali complesse come opera- zione economica ……………………………………………… | |
105 | ||
1.1. | La regolamentazione dell’ingresso e della permanenza degli operatori all’interno della struttura integrata. Il contratto di orga- nizzazione e promozione ……………………………………… | |
110 | ||
1.2. | (segue): Il rapporto negoziale tra imprese partecipanti e la società immobiliare proprietaria. L’affitto di ramo d’azienda … | |
130 | ||
- | CONCLUSIONI …………………………………………………… | 173 |
- | APPENDICE CONTRATTUALISTICA | |
SCHEMA 1.1. – Il contratto di organizzazione e promozione ………….. | 186 | |
SCHEMA 1.2. – Il contratto di affitto di ramo d’azienda ……………….. | 209 | |
- | BIBLIOGRAFIA ………………………………………………… | 246 |
INTRODUZIONE
L’affitto di azienda nel quadro dei rapporti economici e imprenditoriali
La presente indagine, relativa alle tecniche di impiego ed utilizzo del contratto di affitto di azienda nelle pratiche di sviluppo commerciale, prende le mosse da una determinata ipotesi di lavoro.
Se, cioè, la discussione del caso concreto di un’organizzazione imprendi- toriale che, nel volgere di pochi anni, ha realizzato un’iniziativa economica capace di promuovere lo sviluppo di un fiorente distretto commerciale nella zona del cagliaritano possa fornire delle indicazioni utili circa il proficuo impiego della programmazione negoziale per la realizzazione di grandi ope- razioni economiche e lo sviluppo delle attività produttive in tempi di scarsità di risorse e di contrazione dell’economia.
L’affitto di azienda, del resto, ha da sempre rappresentato (ed è stato così anche nel caso della Policentro Domus de Janas s.p.a.) un’eccellente tecnica contrattuale per lo sviluppo dell’iniziativa economica, se solo si considera come tale figura consenta ad un tempo al concedente di ottenere una rendita dalla cessione in godimento di tutta o parte della propria attività produttiva ed all’affittuario (generalmente, sprovvisto di ingenti capitali iniziali di ri- schio da investire) di mettersi alla prova sul mercato ed intentare l’avvio della propria attività professionale.
Con questo obiettivo l’indagine si svilupperà in tre capitoli.
Dopo un primo capitolo che mira ad inquadrare l’affitto di azienda nel- l’ambito dei fenomeni circolatori degli apparati produttivi, è con il secondo che l’analisi si concentrerà sul piano più propriamente contrattuale.
Si proverà così a ripercorrere l’evoluzione, che nel corso del tempo è intervenuta sia in dottrina che in giurisprudenza, sulla ricostruzione della stessa nozione di affitto di azienda, sull’individuazione della disciplina ap-
plicabile, sulla rilevanza del c.d. ramo di azienda e sulla centralità del con- cetto di avviamento ai fini della descrizione del tipo negoziale.
Senza mancare di fare cenno peraltro alle implicazioni che l’utilizzo di tale contrattualistica comporta sul piano processuale, con l’inserimento della figura da parte del legislatore nel novero delle materie da decidersi con il
c.d. rito locatizio, ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., da una parte, e soggette al- la condizione di procedibilità dell’esperimento della c.d. media-conciliazio- ne di cui al d.lgs. n. 28/2010, dall’altra.
Ma il vivo della trattazione sarà costituito dall’analisi, nell’ambito del terzo capitolo, della contrattualistica utilizzata dalla Policentro Domus de Janas s.p.a. per lo sviluppo delle proprie strutture commerciali e dall’esame, in particolare, della sequenza negoziale predisposta per la realizzazione del- l’operazione economica di c.d. commercializzazione delle superfici.
Tale sequenza, che può eventualmente prendere avvio con la conclusio- ne di un contratto preliminare di affitto ed evolversi fino alla vendita delle superfici affittate, esprime giocoforza le proprie maggiori specificità con riferimento alla conclusione del c.d. contratto di organizzazione e promozio- ne e del vero e proprio contratto di affitto di ramo di azienda.
Con il primo dei due negozi le parti intendono dare un fondamento all’operazione economica e regolare tutti gli aspetti relativi all’avviamento ed all’ingresso dell’operatore in una struttura commerciale integrata.
Con il secondo, invece, assume un’importanza strategica, come si vedrà, la scelta di concedere in godimento le superfici attraverso una tipologia contrattuale di affitto di ramo di azienda e non invece di affitto di azienda, né di locazione di immobile ad uso commerciale.
L’obiettivo finale è, in conclusione, quello di comprendere le peculiarità ed i confini di applicazione del modello elaborato dalla Policentro e la sua eventuale esportabilità a progetti di sviluppo commerciale diversi da quello analizzato.
Per la chiara possibilità che strumenti negoziali come l’affitto di azienda concedono di mobilità dei capitali e di superamento dei freni all’iniziativa economica costituiti dalla diffidenza dei proprietari a rischiare imprendito- rialmente in momenti di recessione e dalla restrizione alla concessione del credito al sistema produttivo da parte degli istituti bancari.
CAPITOLO PRIMO
L’AFFITTO DI AZIENDA NELL’AMBITO DEI FENOMENI CIRCOLATORI
DEGLI APPARATI PRODUTTIVI
1. Considerazioni generali sull’azienda e sulla circolazione d’azienda
Il codice civile del 1942 detta, per la prima volta nella storia d’Italia, una disciplina giuridica dell’azienda, recependo così alcuni esiti dell’elabora- zione dottrinale operata sotto il vigore del codice di commercio del 1882 ed in particolare nel primo quarantennio del XX secolo (1). L’abrogato codice infatti ignorava completamente il concetto di azienda, conoscendo solo quello di impresa e la ragione dell’imponente fioritura di studi sull’azienda, in assenza di una specifica previsione legislativa della nozione, è da attribuire proprio alla necessità di colmare le lacune del diritto positivo (2).
Il codice vigente dedica all’azienda il titolo VIII del libro V e lo suddivide in tre capi, relativi rispettivamente alle disposizioni generali, a ditta e insegna e al marchio.
All’azienda si fa riferimento anche in altre norme del codice, oltre che nella Costituzione (art. 46), ed in numerose leggi speciali. Non di rado però il legislatore è incorso in errori terminologici e letterari, scambiando inop- portunamente i due termini impresa e azienda (3). L’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (4), stabilendo in questo modo la relazione intercorrente tra i concetti distinti di imprenditore, di impresa e di azienda (5).
(1) Cfr. COLOMBO G.E., L’azienda, in Tratt. Xxxxxxx, III, 1979, 1 e XXXXXXXX L., L’unità produttiva nel profilo delle vicende circolatorie, 1982, 16 s.
(2) Cfr. XXXXXXXX X., L’unità produttiva, cit., 5 s.; XXXXXX R., L’impresa nel sistema del diritto commerciale, 1966, 462; COLOMBO G.E., L’azienda, cit.
(3) Cfr. XXXXXXXX L., L’unità produttiva, cit., 18.
(4) La definizione di azienda mancava nel progetto preliminare di codice di commercio del 1940 (Progetto Asquini), comparendo in termini simili a quelli attuali solo nell’art. 51 delle “seconde bozze provvisorie” del libro Dell’impresa e del lavoro del codice civile. Cfr. COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 2 (nota 3).
(5) L’impresa invero è l’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (arg. ex art. 2082); l’imprenditore invece è il soggetto operante
e l’azienda lo strumento e l’oggetto dell’attività. Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda (Le imprese commerciali), in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. Xxxxxxxx, X, 1, Torino, 1986, ristampa, 63; FERRI G., Manuale di diritto commerciale, 1993, 225, osserva che la nozione
È possibile che l’imprenditore, vale a dire il titolare dell’impresa, sia per- sona diversa dal titolare dell’azienda che è ciò che accade proprio nei casi di cessione in godimento dell’azienda, come l’usufrutto e l’affitto di azienda, che realizzano ipotesi di interposizione gestoria nei quali l’imprenditore è in vero gestore di un’azienda altrui.
giuridica di azienda, presupponendo quella di impresa, costituisce una nozione derivata. La dottrina prevalente respinge le cc.dd. teorie oggettive dell’impresa che considerano l’azienda e l’impresa come due aspetti dello stesso fenomeno (Xxxxxxxxx) o due successive fasi dell’evoluzione giuridica (Rotondi) o come sinonimi (Mossa) o come appartenenti rispettivamente alla fase statica e dinamica del diritto (Carnelutti) o l’una (l’impresa) species dell’altra (Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx). Sul punto, cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 63 ss.; XXXX G., L’azienda. Rilevanza giuridica dell’articolazione: stabilimento, sede, zona, ramo, Rimini, 1983, 12 (nota 17); VANZETTI A., Trent’anni di studi sull’azienda (parte I), in Riv. dir. comm., 1958, I, 37 ss. Per una critica puntuale cfr. XXXXXXXX D., L’impresa, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1987, 13 ss.; XXXXXXXX V., Impresa (diritto privato), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 582 ss. La giurisprudenza accoglie la definizione codicistica, sovente riportandola letteralmente: cfr. Cass., 20 marzo 1972, n. 862; Cass., 9
novembre 1971, n. 3167; Cass., 25 ottobre 1965, n. 2239.
(6) Cfr. FERRARI G., Azienda (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 685, che li denomina rispettivamente elemento materiale oggettivo ed elemento formale finalistico. In dottrina si fronteggiano sostanzialmente due tesi sul significato da attribuire al termine bene. Una tesi restrittiva, che, riallacciandosi alla lettera dell’art. 810 c.c. (“sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”) comprende “fra i beni aziendali le cose corporali e le entità immateriali, escludendo ogni altro oggetto di rapporti giuridici, come i servizi” dei collaboratori; cfr. XXXXXXX N., Locazione di immobile ed affitto di azienda. Contributo allo studio della teoria giuridica dell’azienda, Napoli, 1969, 8 s. Una seconda tesi estensiva, prevalente, che include nei beni aziendali ogni oggetto di “rapporti reali ed obbligatori sorti nel e per l’esercizio dell’impresa”; cfr. FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 686; XXXXXXXX L., L’unità produttiva, cit., 22 (nota 42). Come sarà esaminato a suo tempo, la tesi estensiva è diffusissima in giurisprudenza, cfr., in senso critico, COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 22 (nota 79). In giurisprudenza, cfr. Cass., 9 giugno 1981, n. 3723; Cass., 22 gennaio 1972, n. 171; Cass., 29 ottobre 1966, n. 2714.
I beni componenti l’azienda possono essere classificati in mobili e immobili (art. 812 c.c.), fungibili e infungibili, fruttiferi e infruttiferi, consumabili e inconsumabili, divisibili e indivisibili, materiali e immateriali, presenti e futuri. Si può inoltre distinguere fra beni destinati in maniera stabile all’organizzazione produttiva, costituenti il capitale fisso (impianti, macchinari, arredi, locali, ecc.) e beni destinati alla trasformazione e all’alienazione, costituenti il capitale circolante (merci, materie prime, semilavorati e prodotti finiti). In tal senso CASANOVA M., Azienda, in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., II, Torino, 1987, 78 s.; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, I, 1983, 195 ss.; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 685. La distinzione tra capitale fisso e capitale circolante ha però un fondamento economico più che giuridico, così come quella tra beni
Un complesso di beni eterogenei può costituire un’azienda soltanto quando essi siano organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. In altri termini l’organizzazione costituisce l’elemento coagulante del com- plesso dei beni aziendali per “la loro utilizzazione unitaria e coordinata al fine dell’esercizio dell’attività economica imprenditoriale” (7).
A questi vanno in ogni caso aggiunti, come noto, l’avviamento e la clientela.
Il codice civile non conosce una definizione di avviamento, ma ne presuppone il concetto in alcune norme che, se pur dirette a salvaguardare altri interessi, tutelano indirettamente e di riflesso l’avviamento: basti pensare alle disposizioni sui segni distintivi (artt. 2563 ss.), a quelle sulla concorrenza sleale (artt. 2598 ss.) (9) e soprattutto all’art. 2557 c.c. che pone per un periodo di cinque anni il divieto di concorrenza a carico del cedente l’azienda in proprietà o in godimento a vantaggio del cessionario.
principali e beni accessori, o tra beni attuali e beni prospettivi: cfr. FERRI G., Manuale, cit., 229.
(7) TEDESCHI G.U., Le disposizioni generali sull’azienda, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, XXXXX, 0, Xxxxxx, 0000, 10. Conforme COTTINO G., Diritto commerciale, I, 1986,
220. Secondo XXXXXXXXX X., L’imprenditore, 1966, 122, l’organizzazione consta di due attività: una di ideazione (a sua volta costituita da un’attività di previsione e da una di decisione) ed una di attuazione. Cfr. anche GRECO P., Azienda, in Comm. de Xxxxxxx, V, 1, 1974, 12, il quale invece considera l’organizzazione un elemento psicologico essenziale alla nozione di azienda; DE MARTINI A., Corso, cit., 196 ss., la qualifica come un particolare bene immateriale tutelato dalle norme repressive della concorrenza sleale e indirettamente anche dalle disposizioni sulla concorrenza in generale e sui consorzi.
(8) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, a cura di Xxxxx Xxxxxxxxxx, 6ª ed., Torino, 2008, 141.
(9) Cfr. FERRI G., Manuale, cit., 227.
Una tutela diretta dell’avviamento commerciale è invece riconosciuta dall’art. 34 della L. 27 luglio 1978, n. 392, che prevede che il locatore di un immobile utilizzato per l’esercizio di un’impresa debba un compenso all’im- prenditore conduttore uscente a seguito della cessazione del rapporto di locazione: compenso calcolato in un multiplo dei canoni di locazione e dovuto per l’aumento di valore apportato all’immobile in conseguenza del- l’attività imprenditoriale, un compenso cioè per la perdita dell’avviamento.
È ormai tradizionale la distinzione tra avviamento oggettivo (o reale) e avviamento soggettivo (o personale): il primo deriva dall’organizzazione dei beni, il secondo dalle capacità e qualità personali dell’imprenditore (10). Non manca però chi preferisce piuttosto parlare di fondamento soggettivo o oggettivo dell’avviamento (11) e chi invece non accetta proprio la distinzione, ritenendo che a rigore l’avviamento sia sempre e unicamente oggettivo e che il cosiddetto avviamento soggettivo sia “l’impulso dato dal titolare dell’azienda all’avviamento oggettivo” (12) e quindi costituisca “una qualità dell’imprenditore piuttosto che ... dell’azienda” (13), qualità econo- micamente valutabile solo come prezzo per l’astensione dalla concorrenza, ai sensi dell’art. 2557 c.c. (14).
(10) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 24 novembre 1970, n. 2498.
(11) Cfr. FERRI G., Manuale, cit., 227.
(12) TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 10.
(13) XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, III, 1, L’impresa e le società, Xxxxxx, 0000.
(14) Cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, 3ª ed., Milano, 1962, 341; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 98; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 20.
(15) Altre classificazioni dell’avviamento (ricompensabile e non, imputabile all’azienda o
all’imprenditore) vengono suggerite da qualcuno con l’avvertenza di non incorrere nell’er- rore di credere che si tratti di diverse specie di avviamento, rappresentando piuttosto le diverse prospettive in cui è possibile porsi nel considerare il problema delle conseguenze del trasferimento di azienda sull’avviamento. Cfr. XXXXXXX X., Avviamento, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 636.
Tra i fattori dell’avviamento un particolare rilievo assume la clientela, che rappresenta “l’abitualità di un flusso di acquirenti di servizi o beni prodotti grazie all’azienda” (16).
In realtà, per lungo tempo la dottrina commercialistica ha identificato
l’avviamento di un’azienda con la sua clientela, secondo il modo di vedere
(16) Cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit., 340 ss., il quale annovera tra le cause da cui discende o può discendere l’avviamento “la efficiente coordinazione funziona- le dei vari beni materiali, i servizi di abili collaboratori, la felice scelta e la notorietà del marchio, il prestigio del suo titolare, la indovinata localizzazione, la notorietà derivante dallo stesso suo esercizio da molti anni, (...) la modernità delle macchine, la felice disposizione dei locali dello stabile, (...) la stessa anzianità di esercizio, l’incremento demografico della città”. E volendo continuare ad esemplificare si potrebbero considerare ancora i rapporti con fornitori, collaboratori e sovventori dell’impresa, la qualità e funzio- nalità di impianti e macchinari, la speciale tecnica produttiva, il particolare stile commer- ciale, l’efficiente approvvigionamento delle materie prime. Cfr. XXXXXXXX X., Azienda, cit., 79; XXXX X., Profili di studio sulla teoria giuridica dell’azienda, Genova, 1975, 3; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 19; VINCI C. – XXXXXXXXX M., L’affitto d’azienda (casi pratici in materia civile, amministrativa e tributaria), 7ª ed., Milano, 1992, 20. I suddetti coefficienti di avviamento si possono ovviamente distinguere in oggettivi e soggettivi, a seconda che siano legati ai beni aziendali o all’abilità dell’imprenditore. Quanto alla natura giuridica dell’avviamento, in linea di massima si possono individuare tre posizioni differenti: quelle di Vivante, di Carnelutti e di Ascarelli. Il primo identifica l’avviamento con la clientela, ritenendolo un elemento essenziale dell’azienda, cfr. AULETTA G., Avviamento commerciale: I) Diritto commerciale, in Enc. Giur., IV, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da X. Xxxxxxxx, Roma, 1988, 5. Xxxxxxxxxx invece lo considera un’opera dell’ingegno e quindi un bene immateriale, cfr. XXXXXXXX A., Trent’anni di studi sull’azienda, cit., 57. Per Ascarelli, infine, l’avviamento costituisce una qualità dell’azienda, ossia l’attitudine della stessa a produrre utili, cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit., 339. Precisa, inoltre, XXXXXXXXX G., L’imprenditore, cit., 142, che si tratta di una qualità non essenziale ed eventuale, non bastando organizzare dei beni per produrre un plusvalore. In questo senso cfr. anche, in giurisprudenza, Cass., 28 aprile 1982, n. 2645; Cass., 26 luglio 1978, n. 3754; Cass., 17 ottobre 1969, n. 3404. La tesi di Xxxxxxxxx è seguita dalla prevalente dottrina e dalla quasi totalità della giurisprudenza: cfr. XXXXXXX X., Avviamento, cit., 634; XXXXXXXX M., Azienda, cit., 78 s.; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 29; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 695; FERRI G., Manuale, cit., 227; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 97; LEVI G., L’azienda, cit., 56; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 20; in giurisprudenza, Cass., 6 giugno 1972, n. 1752; Cass., 26 gennaio 1971, n. 174; Cass., 23 luglio 1969, n. 2774. Non mancano, tuttavia, sentenze che giudicano l’avviamento un bene immateriale: cfr. x. Xxxx., 0 ottobre 1975, n. 3178; Cass., 29 agosto 1963, n. 2391; Cass., 26 luglio 1963, n. 2065. Sono, infine da registrare, seppure isolate, la lettura di BRACCO R., L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1966, ristampa, 511, che considera l’avviamento un poten-ziale di energia e quella di DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 199, che qua-lifica l’avviamento, per lui consistente nell’organizzazione, allo stesso tempo come bene immateriale ed elemento essenziale dell’azienda.
D’altra parte, la clientela, oltre ad apparire come una causa dell’avvia- mento, può essere considerata come un suo effetto, il risultato cioè di tutti gli altri suoi fattori (19). Ciò non comporta necessariamente un rapporto di proporzionalità diretta fra avviamento e clientela, anche se il collegamento tra i due fenomeni costituisce la norma. Potrebbe, difatti, darsi il caso che la clientela non sia espressione dell’avviamento, cioè di una migliore organiz- zazione dell’azienda: basti pensare ad un imprenditore sprovveduto che, senza accorgersene, venda sottocosto le proprie merci (20).
Con una definizione immediata potremmo dire che la clientela sia rappresentata dall’insieme delle persone che usano fruire dei servizi o acquistare i beni prodotti dall’azienda o, più precisamente, sia costituita dall’insieme (id est, dal numero) dei clienti che durante un certo periodo di tempo si rivolgono all’azienda (21). Si è anche definita la clientela come un
(17) Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 327.
(18) Sulla distinzione fra clientela e avviamento cfr., XXXXXXXXX T., Corso di diritto commerciale, cit., 342; XXXXXX R., L’impresa, cit., 513; XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, 2ª ed., Milano, 1982, 103. In giurisprudenza, cfr. Cass., 5 luglio 1968, n. 2258; Cass., 21 luglio 1967, n. 1889; Cass., 17 gennaio 1966, n. 237.
(19) Cfr. XXXXXXXXX X., Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxxx, xxx., 000; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 695. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 329, definisce la clientela come una delle possibili manifestazioni dell’avviamento. XXXX X., Profili di studio, cit., 4,
sottolinea che il disposto dell’art. 2557 cod. civ. potrebbe indurre nell’errore di credere che il legislatore abbia voluto identificare l’avviamento con la clientela.
(20) Cfr., sul punto, COTTINO G., Diritto commerciale, cit., 221; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 695.
(21) Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 328.
rapporto di fatto tra acquirenti ed impresa, dal quale dipende il profitto del- l’imprenditore (22).
Almeno in linea teorica ed approssimativa si può qualificare la clientela in oggettiva e soggettiva, a seconda che sia attratta dalle qualità dei beni aziendali e dalla loro organizzazione, dall’avviamento oggettivo cioè, o dalla capacità e abilità personale dell’imprenditore, ossia dall’avviamento soggettivo (24). È interessante anche la distinzione fra clientela libera, che autonomamente e di volta in volta sceglie i beni e i servizi di un’impresa preferendola alle altre, e clientela vincolata, legata a una certa impresa con vincolo economico (monopolio di fatto) o giuridico (monopolio legale) (25).
In realtà, vale anche per la clientela ciò che, più in generale, si considera per l’avviamento, se si aderisce all’opinione dominante secondo la quale esso si risolve in una qualità dell’azienda: l’avviamento, cioè, non essendo un bene autonomo, non può circolare indipendentemente dall’azienda e così è anche per la clientela (27).
(22) Cfr. GRECO P., Azienda, cit., 26.
(23) Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 328.
(24) Cfr. XXXXXXX X. – SALANITRO N., Diritto commerciale, 9ª ed., Milano, 1994, 44.
(25) Cfr., per tale distinzione, GRECO P., Azienda, cit., 24.
(26) Cfr. GRECO P., Azienda, cit., 25. La teoria di Xxxxx è stata efficacemente criticata da Xxxxxxxxxx, secondo il quale non possono essere oggetto di un diritto di proprietà i soggetti di diritto (clienti dell’azienda), gli atti giuridici (attività volte ad attirare i clienti) e i rapporti giuridici (relazioni, di fatto o di diritto, esistenti tra clienti e azienda) in cui si risolve il fenomeno clientela.
(27) Per l’inalienabilità della clientela e dell’avviamento separatamente dall’azienda cfr. Cass., 24 giugno 1968, n. 2110; Cass., 21 luglio 1967, n. 1889; Cass., 26 luglio 1963, n. 2065. Con riferimento solo all’avviamento cfr. Cass., 3 aprile 1973, n. 896; Cass., 13
febbraio 1969, n. 486. In dottrina, cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit.,
Il fatto è che l’avviamento può avere e normalmente ha un prezzo che il cedente aspira a realizzare e che il cessionario è disposto a pagare (28): que- sti aspetti sono, dunque, regolati dalle parti in sede di trattativa, ove trovano del resto la loro naturale sistemazione. A nulla vale, dunque, oramai consi- derare se l’avviamento o la clientela rappresentino o meno dei beni distinti ed autonomi rispetto all’azienda intesa nella sua universalità, poiché si tratta di argomenti che sono stati superati sul piano della elaborazione giuridica e che, inoltre, non hanno alcuna corrispondenza pratica nell’ambito dei feno- meni circolatori dell’azienda, in seno ai quali le parti rendono oggetto di ac- cordo la remunerazione dovuta dal cessionario al cedente con riferimento al trasferimento anche dell’avviamento e della clientela riferibile all’azienda.
È chiaro che su questi aspetti si riflettono, ancora oggi, le incertezze relative alla ricostruzione della stessa natura giuridica dell’azienda che di fatto non sono state risolte dal legislatore nel passaggio dall’abrogato codice di commercio del 1882 all’attuale codificazione e che hanno dato luogo nel corso del tempo, sia prima che dopo l’entrata in vigore del codice civile, ad un vivace dibattito (29).
Non potendo in questa sede ripercorrere l’evoluzione degli orientamenti che si sono succeduti, appare comunque opportuno darne sinteticamente conto nell’ambito di queste considerazioni generali sulla circolazione dell’a- zienda.
339 e 345, il quale afferma che al più l’avviamento può essere frazionato in rapporto alle sue distinte cause.
(28) Cfr., nello stesso senso, XXXXXXXXX T., Corso di diritto commerciale, cit., 339.
(29) Cfr. XXXXXXXXX X., Contributo alla teoria dell’azienda come oggetto di diritti (azienda e proprietà), Milano, 1986, 14; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 187. Pur avendo esplicitamente qualificato l’azienda come universitas rerum nella Relazione separata al libro V del lavoro del codice civile (n. 228), il legislatore ha omesso ogni riferimento alla natura giuridica dell’azienda nella Relazione unificata all’intero codice (n. 1030).
Fondamentalmente si possono distinguere tre concezioni sull’azienda:
soggettive, oggettive e miste (30).
Le prime, di origine tedesca, ritengono che l’azienda sia un soggetto autonomo di diritti e le attribuiscono una vera e propria personalità giuridica (cc.dd. teorie della personalità) oppure la configurano come un patrimonio autonomo o un patrimonio di destinazione, quasi personificati (cc.dd. teorie patrimonialistiche) (31).
Le concezioni oggettive considerano invece l’azienda come oggetto di diritti. Esse si possono suddividere in cc.dd. teorie unitarie (o organiche), teorie atomistiche (o antiunitarie o dell’unità negoziale dell’azienda) e teo- rie relativistiche (o intermedie) (32).
Le dottrine miste, infine, risalenti al xxxxxxxx Xxxxxx, individuano due aspetti nell’azienda: uno oggettivo, costituito dal complesso dei beni orga- nizzati (fonds de commerce) ed uno soggettivo, composto dall’insieme delle persone (maison de commerce) (33).
Con particolare riferimento alle concezioni oggettive dell’azienda, si può affermare che i sostenitori delle cc.dd. teorie organiche ammettono, sia pure attraverso ricostruzioni di volta in volta diverse, che l’azienda costituisca un’entità unitaria, avente un’autonoma rilevanza per il diritto, dando vita, secondo alcuni, ad un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la
(30) Cfr. DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 185. È poco utile, invece, la distinzione proposta da proposta da TABELLINI T., Il concetto d’azienda, Napoli, 1966, 3 ss., ma anche da VANZETTI A., Trent’anni di studi sull’azienda, cit., 41 ss., fra teorie materialistiche (suddivisibili in atomistiche ed universalistiche) e teorie immaterialistiche.
(31) In Italia un seguace delle teorie patrimonialistiche è stato certamente Mossa che parla di “patrimonio autonomo di scopo”. Sulle concezioni soggettive cfr. FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 681; GRECO P., Azienda, cit., 26 ss.; XXXXXXXXX R., Contributo alla teoria dell’azienda, cit., 38 s.; XXXXXXX N., Locazione di immobile ed affitto di azienda, cit., 38 s.
(32) Cfr. DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 185 ss.; TABELLINI T., Il
concetto d’azienda, cit., 3 ss.
(33) Cfr. DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 185 ss.; XXXX G., L’azienda, cit., 66 ss.
compongono (34). Al contrario, i fautori delle cc.dd. teorie atomistiche
negano che l’azienda configuri un nuovo bene, considerandola una semplice
(34) In verità, sono state molteplici le opinioni che possono sinteticamente ricondursi alle cc.dd. teorie unitarie o organiche. (A) La teoria dell’universitas facti, che definisce l’azien- da una universalità di fatto, ossia una pluralità di beni ridotti ad unità per volontà dell’im- prenditore e come tale riconosciuta, non creata, dalla legge, è sostenuta dalla dottrina tradizionale e dalla prevalente giurisprudenza. In dottrina, cfr. CAIAFA A., L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi d’impresa, Xxxxxx, 0000, 26 ss.; COTTINO G., Diritto commerciale, cit., 222 ss.; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 189 ss.; XXXXX G., Manuale, cit. 226; XXXX G., L’azienda, cit., 87 s. In giurisprudenza, cfr. Cass., 11 agosto 1990, n. 8219; Cass., 9 giugno 1981, n. 3723; Cass., 10 marzo 1980, n. 1584. (B) La teoria dell’universitas iuris, che ritiene l’azienda una universalità di diritto, una pluralità cioè di rapporti giuridici ridotti ad unità, e perciò creata, dalla legge. In dottrina è stata argomentata, tra gli altri da Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx; per una disamina cfr. XXXXXX R., L’impresa, cit., 446; XXXXXXX G.E., L’azienda, cit., 4; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 186; RUBINO D., La compravendita, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da
X. Xxxx, X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, XXIII, 2ª ed., Milano, 1962, 151 s. (C) La teoria dell’universitas iurium, formulata da Xxxxx e Bensa, che considera l’azienda una universa- lità di diritti (iurium) e non di cose (rerum). Per una disamina cfr. XXXXXX X., L’impresa, cit., 446. Sottolinea CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 337 che con riferimento alle tre teorie testé ricordate sono state grave e frequenti nel tempo le confusioni terminologiche e concettuali, dovendo comunque ammettersi che in effetti la distinzione fra universitas facti e universitas iuris non è univoca, essendosi sovrapposte nei secoli diverse classificazioni: tra universitas corporea (o corporalis) ed incorporea (o corporum et iurium) e tra universitas facti (o hominis) e iuris. (D) Le teorie immaterialistiche, enunciate con varietà di formulazioni, hanno in comune la configurazione dell’azienda come bene immateriale, costituito dall’organizzazione dei vari beni (Pisko), dall’idea organizzatrice (Isay), da un risultato del lavoro umano (Xxxxxx-Xxxxxxx). Elaborate e sostenute da scrittori di lingua tedesca, tali teorie, pur rimanendo minoritarie, sono state accolte in Italia da autori quali Xxxxxx, Xxxxxx, Xxxxxxxxxxxxx, Xxxxxxx xx., Xxxxxxxx e Balletta. Per una disamina cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 704; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 186; GRECO P., Azienda, cit., 28; LEVI G., L’azienda, cit., 52; XXXXXXXXX R., Contributo alla teoria dell’azienda, cit., 34; VANZETTI A., Trent’anni di studi sull’azienda, cit., 60; XXXXXXX N., Locazione di immobile ed affitto di azienda, cit., 42. Cfr., inoltre, BALLETTA A., La tutela dell’avviamento nel contratto di locazione, nota a Cass., 3 ottobre 1968, n. 3083, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 00 xx.; XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 108; PUGLIESE G., Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. Xxxxxxxx, IV, 5, 2ª ed., Torino, 1972, 695 ss. Alle teorie del bene immateriale si possono ricondurre anche le impostazioni di Carrara, secondo cui l’azienda è un negozio giuridico, di Bracco, per il quale l’azienda è energia e di Nicolò che configura l’azienda come oggetto di un unitario “diritto d’impresa”. Cfr. XXXXXX R., L’impresa, cit., 500, 506; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 15 (nota 57). (E) La teoria della cosa composta funzionale, elaborata da Xxxxxxx, secondo la quale i singoli elementi aziendali, pur conservando ognu- no la propria rilevanza ed individualità giuridica ed economica, sono uniti non da un vinco- lo fisico-materiale come nella cosa composta (corpus ex cohaerentibus), bensì da un vinco- lo funzionale dato dall’organizzazione. Cfr., infatti, XXXXXXX D., Il sistema del diritto privato, 2ª ed., a cura di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxx, Torino, 1993, 134. (F) La teoria dell’organizzazione, ideata da Xxxxxxx, che colloca l’azienda nella categoria logica autonoma dell’organizzazione, intesa come collegamento funzionale di beni. Dal suo stesso Autore
pluralità di beni (35). I seguaci delle teorie relativistiche si pongono invece in un’area intermedia fra le teorie unitarie e quelle atomistiche, asserendo che se il legislatore alcune volte disciplina l’azienda organicamente, altre volte si limita a dar rilievo ai singoli beni che la costituiscono (36).
Ebbene, a differenza del c.d. Progetto Xxxxxxx, che dedicava alla circola- zione dell’azienda una circostanziata disciplina (artt. 54-80), il codice civile del 1942 detta al riguardo poche e scarne disposizioni (artt. 2556-2562).
In questo senso, dunque, la circolazione dell’azienda viene considerata come un fenomeno che annovera ogni ipotesi di trasferimento del comples- so dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, avvenga esso volontaria- mente o coattivamente, per atto tra vivi o mortis causa, a titolo definitivo o
essa è qualificata come intermedia fra le teorie universalistiche e quelle immaterialistiche. Cfr. XXXXXXX N., Locazione di immobile ed affitto di azienda, cit., 51 ss.
(35) Secondo l’indirizzo atomistico, proposto per la prima volta da Scialoja e prevalente nella dottrina più recente l’azienda costituisce “una semplice pluralità di beni collegati alla persona dell’imprenditore in forza di diritti eventualmente diversi (proprietà, diritti reali limitati, diritti personali di godimento) e tra loro in fatto coordinati per l’esercizio
dell’attività d’impresa”, così COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 16. Cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit., 321 ss.; AULETTA G., Note in tema di circolazione dell’azienda, in Riv. soc., 1963, 462 ss.; CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 145 ss.; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 691; ; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 82; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda. Notazioni esegetiche e sistematiche, Napoli, 1970, 19; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 14.
(36) Quanto al c.d. indirizzo relativistico, i suoi esponenti (ad es. Xxxxx, La Lumia, Xxxxxxxx, Ghidini e Rubino) in linea di massima (non Messineo) prendono spunto dalla teoria di Xxxxxxx secondo la quale l’universitas non è una “categoria ontologica”, bensì una “categoria logica” (principio della relatività dell’universitas), per giungere a conclusioni intermedie fra quelle atomistiche e quelle unitarie, nel senso cioè che il legislatore non ha
preso decisamente posizione per le une o per le altre. Cfr. FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 692; LEVI G., L’azienda, cit., 83; VANZETTI A., Trent’anni di studi sull’azienda, cit., 45.
(37) Cfr. XXXXXXXX X., Impresa e azienda, cit., 728, che critica la concisione dei compila- tori.
Il primo problema che così si pone in relazione al fenomeno della circolazione dell’azienda è quello del suo preciso inquadramento: quello, cioè, di discernere le operazioni economiche comportanti un effettivo tra- sferimento, definitivo o pro tempore, dell’azienda da quelle che realizzano un trasferimento di beni aziendali disaggregati, ossia non collegati tra di loro funzionalmente.
Accade spesso, infatti, che le parti contraenti ricorrano ad operazioni economiche o a negozi giuridici, quando non a veri e propri espedienti (quali il frazionamento in più atti separati della cessione dell’azienda a uno stesso soggetto), per ragioni di carattere fiscale o per eludere gli effetti conseguenti ex lege al trasferimento dell’azienda (39).
(38) Per garantire chiarezza al prosieguo del discorso, non è forse superfluo sottolineare che sia da parte di autorevole dottrina (Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Xx Xxxxxxx, Messineo, ecc.), che da parte di gran parte della giurisprudenza il diritto sul complesso aziendale è ricondotto al concetto di proprietà. Di proprietà dell’azienda parlano del resto esplicitamente l’art. 2556
c.c. e l’art. 670 c.p.c., mentre l’art. 2557 c.c., disciplinando vendita, usufrutto ed affitto di azienda, presuppone un diritto di proprietà sull’azienda, rispettivamente da parte dell’alie- nante, del concedente e del locatore. È stato però dimostrato con notevoli argomenti sistematici, quali la possibilità che l’imprenditore abbia la disponibilità dei beni aziendali a titolo diverso (oltre che proprietà, anche affitto, usufrutto, leasing, ecc.) e quindi la difficoltà di coordinare un diritto di proprietà globale sull’azienda con i diversi rapporti che legano il titolare dell’azienda ai singoli elementi che la compongono, che il termine proprietà è tecnicamente improprio se riferito alla realtà aziendale. È cioè preferibile parlare di appartenenza dell’azienda ad un soggetto, intendendo per appartenenza il rapporto sussistente tra una cosa ed il patrimonio del soggetto, per cui questi ne dispone o gode a qualsiasi titolo, non necessariamente a titolo di proprietà.
(39) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 150; PETTITI D., Considerazioni in tema di trasferimento d’azienda, in Riv. dir. ind., 1967, I, 22 (nota 27). In giurisprudenza, cfr. Cass., 25 ottobre 1965, n. 2239.
(40) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 150.
La dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato dei criteri per risolvere, con un certo margine di certezza, i casi dubbi di trasferimento dell’azienda. Così alcuni ritengono decisiva la volontà contrattuale (criterio soggettivo) (41); altri invece fanno riferimento alla oggettiva destinazione dei beni trasferiti alla gestione dell’azienda (criterio oggettivo) (42); altri ancora, infine, combinano i due criteri precedenti, considerando sia la consistenza obiettiva dei beni dedotti nel trasferimento, sia l’intenzione comune delle parti (criterio oggettivo-soggettivo) (43).
Secondo quest’ultimo orientamento, il criterio oggettivo pone un limite a quello soggettivo, nel senso che la volontà dei contraenti e quindi la qualifi- cazione giuridica data all’atto è solo parzialmente rilevante, non potendo in realtà privare della natura di azienda un insieme di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa ovvero, viceversa, non potendo attribuire tale quali- ficazione ad un complesso di beni non funzionali ad un fine produttivo.
Al momento del trasferimento le parti sono sovrane nel determinare eventuali modifiche alla composizione dell’azienda: in particolare, è ammis- sibile una sua riduzione attuata con l’esclusione di alcuni beni o la scissione in più rami, ciascuno autonomamente organizzato.
L’importante è che venga trasferito quel minimum di beni indispensabili perché possa affermarsi l’esistenza di un’azienda, i cc.dd. beni essenziali (44).
(41) Cfr. XXXXXXXXX X., Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxxx, xxx., 000; FERRARA JR. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 340; XXXXXX X., Il trasferimento di impresa nella sistematica delle leggi di nazionalizzazione, in Riv. dir. comm., 1969, I, 278. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 25 ottobre 1965, n. 2239; Cass., 20 marzo 1964, n. 629; Cass., 5 marzo 1963, n. 513.
(42) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 151. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 17 luglio 1986, n. 4620.
(43) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 134; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 26; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 703 s.; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 189 ss.; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 26. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 13 gennaio 1981, n. 301.
(44) Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 742; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 32;
XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 86. Secondo FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 703, è possibile escludere dal trasferimento gli elementi essenziali surroga- bili. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 16 giugno 1967, n. 1416.
In dottrina non sono mancati i tentativi tesi ad individuare gli elementi essenziali dell’azienda, che sono stati di volta in volta identificati nell’av- viamento, nella clientela o nei corredi aziendali.
In realtà non è possibile stabilire a priori, in via generale ed astratta, quali siano e/o debbano essere i beni da ritenere essenziali ai fini della individuazione e della qualificazione della nozione di azienda, dovendo essi più opportunamente essere identificati di volta di volta in relazione allo specifico tipo di impresa in esame ed essendo quindi concretamente deter- minabili solo con riferimento al caso concreto (45).
In ogni caso, accedendo a questa lettura, dovrà ritenersi che qualora anche un solo bene aziendale essenziale non si possa trasferire, l’azienda risulterà intrasferibile (46): un esempio potrebbe essere, in questo senso, fornito, dall’art. 21, L. 11/1971, che nel disciplinare l’affitto di fondi rustici vieta “il subaffitto, la cessione del contratto di affitto ed in generale ogni forma di subconcessione dei fondi rustici”, impedendo così il trasferimento dell’azienda agricola gestita dall’affittuario del fondo.
Secondo alcuni, perché si verifichi un trasferimento dell’azienda è neces- sario che i contraenti facciano riferimento, sia pure implicitamente, all’av- viamento (47). In verità, pur essendo l’integrità dell’avviamento tutelata dalla disciplina del trasferimento di azienda, ed in particolare dall’art. 2557 c.c., occorre considerare che l’avviamento è configurato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti come una qualità dell’azienda, non essenzia-
(45) Cfr. XXXXXXXX M., Impresa e azienda, cit., 742; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 33; XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 341; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 703; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 185; TOMMASINI R., Contributo alla teoria dell’azienda, cit., 127.
(46) Cfr., in dottrina, COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 33; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 27; contra PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 183, secondo il quale, più semplicemente, tale bene non farebbe parte dell’azienda. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 28 marzo 1980, n. 2058.
(47) Cfr., CAIAFA A., L’azienda, cit., 133; CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 732;
XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 340; RUBINO D., La compravendita, 153; contra COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 29; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 190 ss.; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 27.
le ed eventuale, e che pertanto non appare necessario il riferimento ad esso delle parti perché si possa ritenere realizzato il trasferimento del complesso aziendale.
Accade nella prassi negoziale che l’atto di trasferimento dell’azienda sia di regola molto preciso sul contenuto e sull’oggetto del trasferimento e vengono spesso redatti appositi bilanci e dettagliati inventari, con riguardo agli elementi aziendali trasferiti.
Non impedisce il trasferimento dell’azienda il fatto che la legge preveda per il suo esercizio un’autorizzazione o una concessione amministrativa, le quali, essendo personali, sono intrasmissibili: l’avente causa non deve far
(48) Cfr., XXXXXXXX M., Impresa e azienda, cit., 743 s.; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 704.
(49) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 152; FERRARI G., Azienda (diritto privato), cit., 705; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 85; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 28.
(50) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 134; CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 742;
COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 26; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 189; contra cfr., in giurisprudenza, Cass., 21 novembre 1968, n. 3780; Cass., 16 giugno
1967, n. 1416.
altro che ottenerne una nuova per proprio conto dalla P.A. di riferimento (51).
Nella descrizione dei fenomeni circolatori è forse opportuno distinguere terminologicamente l’alienazione dalla cessione di azienda.
Per alienazione dell’azienda si intende, infatti, il trasferimento per atto tra vivi della proprietà del complesso dei beni organizzati dall’imprenditore: essa può avere per titolo giuridico la vendita, la permuta e la donazione (52).
Quando si parla invece di cessione di azienda si suole più precisamente far riferimento al solo schema del contratto di vendita (53).
A un fenomeno particolare danno luogo le cc.dd. cessioni improprie, consistenti nel passaggio dell’azienda da un ente societario a terzi, attuato trasferendo le quote o le azioni in cui è suddiviso il capitale sociale. Ad esse si ricorre soprattutto quando la società proprietaria dell’azienda sia iscritta in appositi albi o registri a cui l’ordinamento riconosce un particolare valore. Occorre, però, per poter considerare avvenuto un effettivo trasferimento dell’azienda, che la cessione riguardi tutte le quote o le azioni della società (54).
Secondo alcuni si potrebbe invece applicare la disciplina di cui agli artt. 2556 ss. c.c. anche nell’ipotesi di cessione pro quota di azienda, purché la quota dovuta venga dedotta come quota ideale, incidente cioè universal- mente sull’intero organismo aziendale (55).
(51) Cfr., in dottrina, XXXXXXXXX X., Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxxx, xxx., 000; BIANCA C.M., La vendita e la permuta, in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. Xxxxxxxx, VII, 1, Torino, 1972, 193 s.; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 30. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 21 ottobre 1971, n. 2955.
(52) Cfr., sul punto, XXXXXXXX M., Azienda, cit., 88.
(53) Cfr. ZATTI P. – COLUSSI V., Lineamenti di diritto privato, 3ª ed., Padova, 1991, 647, i quali intendono per cessione di azienda un fenomeno complesso comprendente due momenti: “la successione nell’azienda e l’esercizio dell’impresa ad essa corrispondente”.
(54) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 147.
(55) Cfr. VINCI C. – XXXXXXXXX M., Il trasferimento di azienda, Milano, 1988, 9.
Bisogna stare attenti a non confondere il concetto di ramo di azienda con quello di sede (luogo in cui si svolge la principale attività), di stabilimento (immobile ove si esercita l’impresa), filiale (stabilimento dotato di parziale autonomia rispetto alla sede principale) e succursale (stabilimento non auto- nomo, totalmente dipendente dalla sede principale): questi ultimi, infatti, costituiscono dei punti di riferimento dell’attività, ossia il suo aspetto geo- grafico organizzativo (58).
La dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono, infine, che il trasfe- rimento dell’azienda non comporti una successione nell’impresa ad essa relativa (59).
In effetti, tecnicamente, la successione è un fenomeno consistente nel mutamento del soggetto di uno o più rapporti giuridici, caratteristico degli acquisti a titolo derivativo.
Non è quindi possibile succedere nell’impresa, che è un’attività e non un rapporto giuridico: in ogni trasferimento di azienda, definitivo o temporaneo che sia, si ha cioè una soluzione di continuità fra l’impresa dell’alienante (o
(56) Il problema è dibattuto in dottrina, specie in relazione all’applicabilità degli artt. 2557, 2558 e 2562 c.c. Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 151 (nota 2); COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 31 s., il quale ammette un’applicazione diretta della normativa sul trasferimento di azienda ad eccezione del divieto di concorrenza.
(57) Cfr., in senso conforme, LEVI G., L’azienda, cit., 90 ss.
(58) Cfr., contra, XXXXXX D., La compravendita, cit., 154.
(59) Cfr., COTTINO G., Diritto commerciale, I, 1986, 232; DE MARTINI A., Corso di diritto commerciale, cit., 252 s.; FERRI G., Manuale, cit., 229; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, cit., 86; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 194; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 30. In giurisprudenza, cfr. Cass., 22 gennaio 1983, n. 623. Cfr. altresì, contra, CASANOVA M., Azienda, cit., 88; XXXXXXX E., Il trasferimento delle imprese elettriche nella sistematica della circolazione dell’azienda e della successione nell’impre- sa, in Riv. soc., 1964, 340 ss.
concedente in godimento) e quella del cessionario (o titolare di un diritto, reale o personale, di godimento), dovuta all’avvicendamento di due distinte imprese aventi ad oggetto la medesima azienda.
2. La circolazione negoziale dell’azienda. Vendita, usufrutto e affitto. Conferimento di azienda e cessione ai creditori. Patto di famiglia e disposizioni testamentarie. In particolare: il leasing di azienda
L’azienda può costituire l’oggetto di qualsiasi negozio giuridico, inter vivos o mortis causa, traslativo o obbligatorio, compatibile con la sua parti- colare natura. Peraltro le parti contraenti sono libere di trasferire o concede- re in godimento il complesso aziendale attraverso contratti tipici (come la vendita e l’affitto) o atipici (nei limiti previsti dall’art. 1322, comma 2, c.c.) (60).
Si può osservare in particolare che l’azienda circola autonomamente non solo attraverso i negozi giuridici che ne trasferiscono la titolarità (ad es. la donazione e la permuta), ma anche mediante quelli specificamente preposti ad attribuirne il godimento (come l’affitto e il comodato).
Questi negozi (cc.dd. di gestione) trasferiscono all’avente causa il potere di gestire l’azienda, determinando di regola una temporanea dissociazione fra titolarità e gestione dell’azienda (61).
In dottrina si è rilevato che l’interazione tra la disciplina ordinaria relativa ai singoli negozi giuridici traslativi inter vivos, aventi ad oggetto l’azienda, e quella speciale di cui agli artt. 2556 ss. c.c., va risolta applican- do integralmente quest’ultima nei negozi a titolo oneroso, rimanendo dei
(60) Cfr. XXXXXXXX L., L’unità produttiva, cit., 24.
(61) Cfr. FERRARI G., Azienda, cit., 735.
margini di incertezza per quelli a titolo gratuito (specie con riguardo agli artt. 2557-2559 c.c.) (62).
Secondo alcuni i negozi giuridici aventi ad oggetto l’azienda rientrereb- bero nella categoria dei negozi misti, per la presenza di obbligazioni non corrispondenti al tipo negoziale proprio della prestazione principale, ponen- dosi di conseguenza di volta in volta un problema di coordinamento fra le norme relative rispettivamente alla prestazione principale, alle singole pre- stazioni accessorie ed ai negozi sull’azienda (63).
Autorevole dottrina ha osservato che, sotto il profilo causale, l’alienazio- ne dell’azienda s’inserisce nello schema della vendita quando sussista un corrispettivo pecuniario (64).
Naturalmente il prezzo deve essere determinato o determinabile (anche mediante la decisione dell’arbitratore ex art. 1349 c.c.).
La vendita, contratto consensuale di scambio ad effetti reali, è senza dubbio la forma giuridica più comunemente adottata per trasferire l’azienda. Essa può essere conclusa con immediato passaggio della proprietà o con patto di riservato dominio; è possibile anche una vendita parziale di azienda, ossia di un suo ramo particolare, e una vendita di azienda parzialmente o
interamente altrui (artt. 1478 ss. c.c.).
Alla vendita di azienda si applicano le norme generali sul contratto di compravendita di cui agli artt. 1470 ss. c.c., in quanto compatibili con la disciplina speciale sull’azienda: basti pensare alle norme sulla garanzia contro l’evizione e contro i vizi occulti della cosa (artt. 1483 ss. e 1490 ss. c.c.).
(62) Cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit., 318 e 361; AULETTA G., Azienda: I) Diritto Commerciale, in Enc. Giur., IV, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da X. Xxxxxxxx, Roma, 1988, 9; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 51; FERRARA JR. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 338; FERRARI G., Azienda, cit., 735; PETTITI D., Considerazioni, cit., 6.
(63) Cfr. XXXXXXXXX X., Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxxx, xxx., 000; FERRARI G., Azienda, cit., 702 s.
(64) Cfr. XXXXXX X.X., La vendita e la permuta, cit., 195.
Pur presentando differenze sostanziali, sia l’usufrutto che l’affitto di azienda realizzano un trasferimento temporaneo del complesso aziendale dal suo titolare ad altra persona, determinando per ciò stesso una provvisoria dissociazione della figura del proprietario da quella dell’imprenditore (usufruttuario o affittuario) che gode dell’azienda.
Nel nostro ordinamento quando la locazione ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile, si individua la figura dell’affitto di cui all’art. 1615 c.c. che, da un punto di vista sistematico, è un contratto consensuale di scambio che realizza un do ut facias.
La dottrina e la giurisprudenza riconoscono unanimemente la possibilità di affittare l’azienda, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa.
Importante, ai fini dell’applicazione delle cc.dd. leggi vincolistiche (L. 27 gennaio 1963, n. 19 e L. 27 luglio 1978, n. 392), è la distinzione fra l’affitto d’azienda comprendente un immobile e la locazione commerciale di immo- bile, riferendosi tale normativa invero soltanto a questa seconda categoria di contratti.
La prima ipotesi si verifica quando il contratto riguardi un insieme di beni organizzati, tra i quali è ricompreso l’immobile adibito all’esercizio dell’impresa; la seconda invece quando l’immobile assuma, nell’intenzione
(65) Cfr. XXXXXXXX X., Azienda, cit., 94; TEDESCHI G.U., Le disposizioni, cit., 65.
delle parti, una funzione prevalente rispetto agli altri beni oggetto della loca- zione, considerati come accessori (66).
Il principale problema in tema di affitto di azienda deriva dal coordina- mento fra l’art. 2561 c.c., al quale rinvia l’art. 2562 c.c., e la disciplina gene- rale dell’affitto (artt. 1615 ss. c.c.).
Si tratta di volta in volta di individuare la disciplina più adatta al caso concreto, come si avrà modo di considerare più diffusamente nel prosieguo della trattazione (67), ma ciò che certamente si può fin d’ora affermare è che l’affittuario deve in ogni caso gestire l’azienda senza modificarne la destina- zione e salvaguardandone la produttività (68).
A differenza dell’affitto di azienda, derivante sempre da un contratto, l’usufrutto di azienda può costituirsi oltre che per atto tra vivi anche con disposizione testamentaria (a favore dell’erede o del legatario).
Il contenuto del diritto può riassumersi nel potere di gestione “parallelo a quello che spetta al titolare del diritto più ampio sull’azienda” (69): se si fa rientrare quest’ultimo diritto nello schema della proprietà, l’usufrutto di azienda corrisponde al comune diritto reale di godimento (artt. 978 ss. c.c.); in caso contrario diverge dall’usufrutto ordinario nella misura in cui si fa divergere il diritto sull’azienda dal genus della proprietà.
Dalla dottrina è stato, inoltre, ritenuto possibile ammettere all’interno del nostro ordinamento la figura del c.d. leasing di azienda, cioè di quel con-
(66) Cfr., in dottrina, MUNARI A., Trasferimento e affitto dell’azienda in relazione all’evolu- zione della giurisprudenza della Cassazione, nota a Cass., 15 gennaio 1990, n. 123, in Giur. comm., 1991, II, 231 ss. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 30 marzo 1982, n. 1986; Cass., 27 gennaio 1982, n. 546.
(67) Cfr., infra, Cap. 2, § 1.
(68) Cfr. XXXXXXX X., Azienda, cit., 33; XXXXXXX G.E., L’azienda, cit., 288; VINCI C. – XXXXXXXXX M., L’affitto d’azienda, cit., 4 ss.
(69) Cfr. PUGLIESE G., Usufrutto, uso e abitazione, cit., 704.
(70) Cfr. XXXXXXXX X., Azienda, cit., 88; PUGLIESE G., Xxxxxxxxx, uso e abitazione, cit., 703.
tratto socialmente tipico attraverso il quale un soggetto concede in godimen- to ad un altro un complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa contro un determinato canone periodico con il riconoscimento della facoltà di acquisto dell’azienda al termine del rapporto dietro il versamento di un prezzo finale per il suo riscatto (71).
Si è, infatti, osservato che il leasing di azienda, per un verso, è coerente con gli interessi riconosciuti meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., in relazione alla figura della locazione finanziaria, mentre, per altro verso, appare certamente compatibile con la disciplina dettata dal legislatore in materia di circolazione dell’azienda.
Pertanto, sebbene quest’ultima regoli solo le ipotesi di trasferimento della titolarità dell’azienda (cessione) ovvero di concessione in godimento dell’a- zienda stessa (usufrutto e affitto), nulla vieta, proprio ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., che la separazione fra la titolarità del complesso aziendale ed il potere di gestione del medesimo possa essere l’effetto di una contrattazio- ne finalizzata non solo a consentirne il godimento temporaneo, ma anche l’eventuale trasferimento in capo all’utilizzatore, alla scadenza del contratto. Con la precisazione che, se poi tale trasferimento non si perfezioni e l’azienda torni nella piena disponibilità del proprietario, lo schema negozia- le in esame assolve comunque alla funzione di consentire una certa mobilità
dei capitali ed il finanziamento dell’impresa (72).
Del resto, è stato in questo senso rilevato come l’usufrutto e l’affitto di azienda non possono considerarsi le forme esclusive di separazione fra la titolarità ed il potere di gestione del complesso produttivo, ma al contrario costituiscono unicamente il paradigma normativo di tutte le possibili ipo- tesi negoziali, ancorché non espressamente regolate (73).
(71) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing d’azienda, in Banca, borsa, tit. credito, 1, 2010, 1 ss.
(72) Cfr. CLARIZIA R., I contratti per il finanziamento delle imprese, in Tratt. dir. civ. comm., fondato da X. Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 378.
(73) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 2.
Sotto questo profilo, appare certamente opportuno sottolineare in che mo- do l’operazione di leasing viene realizzata nella comune esperienza.
Generalmente accade che il soggetto interessato all’acquisto in godimen- to dell’azienda si rivolga ad una società specializzata nella realizzazione dell’operazione e che quest’ultima non sia ancora, al momento della richie- sta da parte del potenziale utilizzatore, proprietaria del complesso produtti- vo. Xxxx, assai spesso è lo stesso soggetto interessato all’operazione che individua il fornitore e pattuisce i termini e le condizioni dell’acquisto, che sarà però poi effettuato dalla società di leasing.
Esaurita questa fase di negoziazione, viene quindi dapprima sottoscritto il contratto di leasing tra la società specializzata e l’utilizzatore interessato e successivamente la concedente procederà all’acquisto dell’azienda dal forni- tore così da non essere soggetta ad alcuna alea in relazione all’allocazione del bene (74).
In questo modo, si realizza una doppia fase di circolazione: (a) con la prima, la concedente acquista l’azienda dal fornitore, secondo lo schema tipico della compravendita, con la sola differenza che la consegna è fatta direttamente nelle mani dell’utilizzatore e vi è pertanto il trasferimento in capo a quest’ultimo dei rischi per i vizi e per il perimento del bene (75); (b) con la seconda, l’utilizzatore acquista dalla società di leasing un diritto di godimento dell’azienda dietro il pagamento di un canone e tale situazione può evolversi o meno nell’acquisto a titolo definitivo dell’azienda goduta, alla scadenza del contratto.
Va da sé che, con riferimento alla disciplina da ritenere applicabile alla figura in esame, assume rilievo la distinzione elaborata dalla giurisprudenza tra il c.d. leasing traslativo ed il leasing di godimento (76).
(74) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 2.
(75) Cfr. BUSSANI M., Contratti moderni. Factoring. Franchising. Leasing, in Tratt. dir. civ., diretto da X. Xxxxx, IV, 3ª ed., Torino, 2004, 263 ss.
(76) Cfr., da ultimo, Cass., 28 agosto 2007, n. 18195; Cass., 2 marzo 2007, n. 4969; Cass., 14 novembre 2006, n. 24214. In senso critico sulla distinzione cfr., in dottrina, BONFANTE
Il primo si avrebbe quando i beni oggetto del contratto conservano, alla scadenza, un valore residuale superiore al prezzo di riscatto, così da rendere altamente probabile l’esercizio di tale diritto, e viene pertanto assimilato nel trattamento normativo alla vendita con riserva della proprietà.
Il secondo, invece, si configurerebbe allorché i beni oggetto del rapporto abbiano perso alla scadenza del contratto tutto o gran parte del loro valore, così che l’esercizio del diritto di riscatto risulti una scelta antieconomica per l’utilizzatore che ha dunque scarsa probabilità di verificarsi. In quest’ipotesi, la disciplina del leasing è assimilata a quella della locazione.
Ebbene, in considerazione della natura espansiva della disciplina di cui agli artt. 2556 ss. c.c., che appare idonea a regolare ogni ipotesi di trasferi- mento del potere di utilizzo del complesso aziendale, non vi è alcuna diffi- coltà a riconoscerne l’applicabilità anche al leasing di azienda.
È però da considerare che tale disciplina è solo in parte unitaria, mentre si differenzia, sotto diversi aspetti, a seconda che la circolazione concerna la titolarità dell’azienda o il mero potere di godimento della stessa.
Pertanto, nel caso del leasing, l’interprete si trova di fronte ad una dupli- ce opzione.
Secondo un primo orientamento, sulla base della considerazione che nel- la fase iniziale del rapporto il contenuto del diritto dell’utilizzatore sarebbe sostanzialmente identico a quello dell’affittuario, mentre nella fase successi-
S., Nuovi orientamenti della Cassazione in tema di locazione finanziaria, in Giur. it., 1990, I, 1, 379 ss.; XXXXXXXXX V., Cassazione e leasing: riflessioni sulla giurisprudenza dell’ultimo quinquennio, in Contr. Impresa, 1994, 156 ss.; ID., La locazione finanziaria, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da X. Xxxx e X. Xxxxxxxx e continuato da X. Xxxxxxx, Milano, 2008, 122 ss.; XXXXXXXX D., L’art. 1526 c.c. non è applicabile al contratto di leasing, in NGCC, 1995, 732 ss.; CLARIZIA R., I contratti, cit., 314); DENOZZA F., La Cassazione e la risoluzione del leasing, in Giur. comm., 1991, II, 845 ss.; DI NELLA L., Le Sezioni Unite e (i) leasing, in Rass. dir. civ., 1995, 295 ss.; LUPI R., Disciplina applicabile al leasing finanziario, in Società, 1993, 773 ss.; MUNARI A., La Cassazione e il Sig. Xxxxx, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, II, 705 ss.; XXXXXXXX A., Leasing di godimento e leasing traslativo, in Contr., 1999, 692 ss.; VISENTINI G., Osservazioni sulla giurisprudenza della Cassazione del 1989 in merito all’applicabilità dell’art. 1526 x.x. xxxx xxxxxxxxx xxxxxxxxxxx, xx Xxx. xx. leasing, 1990, 289 ss. In giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 1° aprile 2004.
va ed eventuale, se acquista l’azienda, egli si troverebbe nella medesima si- tuazione del compratore, si propone che siano applicate, in successione dia- cronica, dapprima le norme che disciplinano l’affitto di azienda e poi quelle che ne regolano l’alienazione (c.d. teoria degli effetti).
Secondo una diversa impostazione, invece, sulla base del tasso di consu- mabilità del complesso aziendale, si dovrebbe poter considerare il leasing come un contratto traslativo o come un contratto di godimento e, conse- guentemente, poter applicare la disciplina dell’alienazione ovvero quella dell’affitto in maniera alternativa e non successiva (c.d. teoria funzionale).
Ciascuna delle due opzioni non appare in ogni caso risolutiva, perché, se la prima finisce per appiattire la figura del leasing su quella dell’affitto di azienda con opzione di acquisto, la seconda non tiene comunque conto del fatto che la distinzione giurisprudenziale tra leasing traslativo e leasing di godimento è stata in realtà elaborata per l’applicazione alternativa di norme in una fase patologica del rapporto di leasing (ed in particolare per com- prendere quale destinazione riservare ai canoni già corrisposti in caso di risoluzione per inadempimento del contratto) e non per regolarne dunque una fase operativa (77).
È stato così proposto da altra parte della dottrina di procedere con un metodo casistico, che consenta di analizzare le caratteristiche del singolo ca- so concreto per valutare di volta in volta l’opportunità di applicare le norme in materia di vendita piuttosto che quelle in tema di affitto di azienda (78).
(77) Peraltro, il criterio distintivo tra le due figure, dato dal maggiore o minore valore residuale del bene al termine del rapporto (tale da rendere più o meno probabile l’esercizio del diritto di riscatto), non è di facile applicazione rispetto all’intero complesso produttivo, con riferimento al quale l’obsolescenza anche di un elemento essenziale dell’azienda non rende automaticamente svantaggioso l’esercizio del diritto di riscatto: potrebbe darsi, infat- ti, in determinati casi che la somma del valore di scambio dei beni singoli superi quello del complesso nel suo insieme, rendendo comunque vantaggioso il pagamento del prezzo fina- le. Cfr., a questo proposito, l’art. 105 l.fall., che prevede l’alienazione dei singoli beni aziendali come alternativa di eventuale maggior vantaggio per i creditori.
(78) In particolare, per quanto concerne la posizione dell’utilizzatore rispetto al complesso aziendale, non appare in dubbio che essa debba considerarsi modellata su quella dell’affittuario: sia sotto il profilo dei poteri, che ricomprendono il diritto di disposizione
Un profilo di particolare interesse assume, in relazione alla fattispecie, la regolamentazione del divieto di concorrenza.
A tal proposito, va in primo luogo considerato che la durata dell’obbligo di non concorrenza deve essere in questo caso parametrata alla durata del leasing, così come accade, ai sensi dell’art. 2557, comma 4, c.c., nell’ipotesi di affitto di azienda. Il concedente non potrà pertanto esercitare alcuna atti- vità concorrente con quella dell’azienda ceduta in leasing per tutta la durata del contratto.
È, però, da dire che nel caso di specie la concorrenza che può insidiare in concreto l’utilizzatore non è in realtà quella della società concedente, bensì quella del precedente titolare dell’azienda.
Occorre, pertanto, differenziare due ipotesi.
Nel caso di leasing di durata inferiore ai cinque anni, l’utilizzatore bene- ficia del divieto di concorrenza stabilito dall’art. 2557, comma 0, x.x., xx xx- xx xx venditore ed a favore della società concedente e al termine del rappor- to cessa comunque di essere portatore di un interesse meritevole di tutela.
Se, infatti, sceglie di restituire l’azienda, viene meno la ragione del divie- to di concorrenza, così come previsto dall’art. 2557, comma 4, c.c.
Se, al contrario, decide di riscattare l’azienda, pur dovendo andare incontro a delle difficoltà di consolidamento della clientela per avere eserci- tato l’azienda sotto la ditta preesistente, ciò costituirà al più un elemento di valutazione circa la convenienza o meno del riscatto, ma non si dovrà ritene- re il presupposto per la decorrenza di un nuovo termine di soggezione della concedente o del venditore al divieto di concorrenza.
Nel caso, invece, di leasing di durata superiore ai cinque anni, l’utilizza- tore, pur permanendo tutte le ragioni che sono alla base del disposto di cui all’art. 2557, comma 4, c.c., non sarebbe più protetto dalla concorrenza del
del capitale circolante, così come quello di sostituzione del capitale fisso; sia sotto il profilo dei doveri, come quello di gestire l’azienda senza mutarne la destinazione economica ed utilizzando la ditta preesistente.
xxxxx causa della sua concedente per il periodo eccedente il quinquennio, essendo cessati gli effetti dell’art. 2557, comma 1, c.c.
In questo caso, se l’utilizzatore decida di restituire l’azienda, non gli sarà comunque imputabile, in ragione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, la perdita di avviamento dovuta all’eventuale inizio di attività concorrente da parte del dante causa della società concedente successiva- mente alla scadenza del quinquennio, ai fini del conguaglio in denaro.
Se invece l’utilizzatore scelga di riscattare l’azienda, non decorrerà in ogni caso un nuovo termine di soggezione della concedente o del suo dante causa al divieto di concorrenza.
Si deve invece ritenere che, così come avviene in seguito alla cessazione dell’usufrutto o dell’affitto di azienda (79), in tutti i casi di restituzione del- l’azienda alla concedente l’utilizzatore sia soggetto al divieto di concorren- za, anche in ragione del fatto che (in questo caso) la società concedente non mira a ritornare all’esercizio dell’impresa (che non ha mai svolto), ma alla ricollocazione dell’azienda sul mercato che potrebbe essere pregiudicata dalla concorrenza del precedente utilizzatore (80).
Un ulteriore profilo di interesse è poi rappresentato dall’applicabilità al leasing di azienda dell’art. 2558 c.c., che stabilisce che l’avente causa succede nei contratti conclusi dal suo dante causa per l’esercizio dell’azien- da che non abbiano carattere personale e salvo in ogni caso patto contrario.
Il terzo contraente può recedere entro tre mesi dalla notizia della conclu- sione del negozio di circolazione, se sussiste una giusta causa, salva l’even- tuale responsabilità del cedente.
(79) Cfr. XXXXXXX X., Azienda, cit., 62; CIPOLLA O., Cessione, affitto, restituzione di azienda: brevi note sulla sorte di debiti e contratti, in Giur. it., 2005, 81 ss.; ID., Note in tema di cessazione del contratto di affitto di azienda e di successione nei contratti da parte del locatore, in Giur. it., 2004, 1204 ss.; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 211 ss.; XXXXXXX E., Note in tema di affitto e divieto di concorrenza dell’affittuario receduto, in Giur. it., 2005, 2301 ss. In senso contrario, cfr., in giurisprudenza, Cass., 7 novembre 2004, n. 16724 per l’ipotesi in cui la restituzione dell’azienda avvenga a seguito di risoluzione del rapporto per inadempimento dell’affittuario.
(80) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 8.
Per espressa previsione normativa, le stesse disposizioni si applicano alla cessione, così come all’usufrutto e all’affitto di azienda.
Non assume, dunque, rilievo in questo caso la distinzione giurispruden- ziale tra leasing traslativo e leasing di godimento, ricorrendo in entrambe le ipotesi la necessità di consentire al nuovo gestore dell’azienda di avvalersi dei contratti in corso di esecuzione senza dover sottostare al consenso del contraente ceduto.
L’unica particolarità è data dal fatto che, mentre nelle figure tipiche di circolazione dell’azienda (cessione, usufrutto e affitto) la modificazione soggettiva del rapporto contrattuale è fin dall’inizio definitiva o temporanea, nel caso del leasing questo aspetto resta incerto fino al momento in cui matura il diritto al riscatto del bene (81).
Tale incertezza non incide in ogni caso sul termine per l’esercizio del recesso da parte del terzo contraente, che comincerà a decorrere dal momen- to in cui il terzo ha avuto conoscenza del leasing e non certo dal momento in cui ha avuto conoscenza del riscatto: a ragionare diversamente si consenti- rebbe, infatti, al terzo contraente di attuare un comportamento contrario alla correttezza ed alla buona fede contrattuale.
Allo stesso modo, si deve ritenere anche che, in relazione ai contratti stipulati dall’utilizzatore, il terzo contraente abbia facoltà di recedere entro tre mesi dalla cessazione del contratto di leasing in caso di mancato esercizio del riscatto: sebbene, infatti, si sia registrata un’opinione contraria sul punto (82), si deve in ogni caso considerare che la disciplina di cui all’art. 2558 c.c. si applica anche alla c.d. circolazione di ritorno dell’azienda, che da comunque luogo ad un nuovo mutamento nel potere di gestione del com- plesso produttivo (83).
(81) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 9.
(82) Cfr. PLASMATI M., Il leasing d’azienda, in Contr. Impresa, 2007, 600 ss.
(83) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 9.
A tal fine la società concedente, per non trovarsi esposta verso i terzi contraenti con l’utilizzatore, dovrebbe opportunamente ricorrere alla preven- tiva esclusione pattizia della successione nei contratti in corso alla cessazio- ne del rapporto, in caso di mancato esercizio del diritto di riscatto.
Va ancora considerata l’applicabilità al leasing di azienda della disciplina prevista per i crediti (art. 2559 c.c.) e per i debiti (art. 2560 c.c.) aziendali.
Quanto ai primi, in considerazione del mancato richiamo dell’art. 2559, comma 2, c.c. alla figura dell’affitto di azienda, torna ad assumere rilievo la distinzione giurisprudenziale tra leasing traslativo e leasing di godimento, potendosi certamente considerare applicabile al primo la disciplina di cui all’art. 2559 c.c. e dovendosi, invece, escludere l’applicabilità di tale dispo- sizione al leasing di godimento.
Con la conseguenza che per il leasing traslativo la cessione dei crediti aziendali avrà affetto nei confronti dei terzi solo a seguito dell’iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2559, comma 1, c.c. (84), mentre per il leasing di godimento varrà la disciplina generale di cui agli artt. 1264 e 1265 c.c., che prevede la notifica o l’accettazione della cessione da parte del debitore ceduto.
Quanto ai debiti aziendali, invece, la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento non appare invero concretamente rilevante, se solo si considera che la ragione dell’accollo esterno ex lege previsto dall’art. 2560, comma 2, c.c. consiste nell’assicurare ai creditori risultanti dai libri contabili obbligatori la garanzia offerta dalla titolarità del complesso aziendale in
(84) Secondo alcuni, peraltro, la fattispecie di cui all’art. 2559 c.c. realizzerebbe un’ipotesi di cessione ex lege dei crediti aziendali. Per questa impostazione cfr., in dottrina, CORSI F., Diritto dell’impresa, 2ª ed., Milano, 2003, 71; XXXXXXX F., Diritto commerciale, I, 1, L’imprenditore. Impresa. Contratti di impresa. Titoli di credito. Fallimento, 12ª ed., Bologna, 2008, 51; XXXXXXX V., Impresa e società di persone, Milano, 2004, 63; PRESTI
G. - XXXXXXXX M., Corso di diritto commerciale, I, Impresa. Contratti. Titoli di credito. Fallimento, 3ª ed., Bologna, 2007, 55. Per questi Autori, pertanto, la mancanza della pubblicità presso il registro delle imprese del leasing traslativo, così come prescritta dalla norma, si rifletterebbe non solo sull’opponibilità ai terzi della intervenuta cessione dei crediti, ma anche sulla stessa titolarità dei crediti in capo all’utilizzatore per tutto il periodo antecedente all’esercizio del diritto di riscatto.
capo all’avente causa e che tale disposizione è difatti, non a caso, inapplica- bile alla costituzione di un mero diritto di godimento sull’azienda.
Ebbene, sia nel leasing di godimento che nel leasing traslativo, la titolari- tà dell’azienda è acquistata dall’utilizzatore solo al momento del riscatto: deve, pertanto, ritenersi inapplicabile alla figura in esame la disciplina previ- sta dal legislatore in materia di debiti aziendali, così come del resto viene considerato con riferimento al contratto di affitto di azienda (85).
I debiti contratti, invece, dall’utilizzatore durante lo svolgimento del rap- porto di leasing restano esclusivamente a suo carico, sia nel caso in cui suc- cessivamente eserciti il diritto di riscatto, sia nell’ipotesi di restituzione del- l’azienda.
Non si può, infatti, ritenere che la società concedente possa ritenersi obbligata all’adempimento dei debiti sorti tra la conclusione del contratto di leasing e l’esercizio del riscatto, ai sensi dell’art. 2560, comma 1, c.c., atteso che tale disposizione costituisce un’applicazione dell’art. 1273 c.c. e si rife- risce pertanto ai debiti sorti necessariamente in capo all’alienante e non in capo ai terzi, seppure in relazione all’esercizio dell’azienda ceduta (86).
È possibile inoltre che l’azienda sia conferita, in proprietà o in godimen- to, in società di persone o di capitali, ai sensi dell’art. 2247 c.c.
Tra le ipotesi di circolazione negoziale dell’azienda va inoltre considera- to il caso dell’imprenditore indebitato che, per evitare la procedura esecuti-
(85) Ovviamente, stante il disposto dell’art. 2112 c.c. che estende la responsabilità solidale dell’acquirente anche alle ipotesi di usufrutto e di affitto di azienda, la responsabilità esterna per i debiti nei confronti dei lavoratori dipendenti si applica anche all’utilizzatore nel caso di leasing di azienda.
(86) Cfr. XXXXXXXXX F., Il leasing, cit., 10.
(87) Cfr. VINCI C. – XXXXXXXXX M., Il trasferimento di azienda, Milano, 1988, 17; ZATTI P.
– COLUSSI V., Lineamenti di diritto privato, cit., 646.
va, ceda la propria azienda ai creditori perché essi o alcuni di essi la liquidi- no per poi ripartire il ricavato per il soddisfacimento dei loro crediti.
Tale ipotesi rientra nello schema della cessio bonorum di cui agli artt. 1977 ss. c.c., configurata dalla prevalente dottrina come un mandato in rem propriam.
In merito, al di là della rilevanza assunta dall’affitto di azienda nell’ambi- to della materia fallimentare, a seguito delle riforme degli ultimi anni, va sottolineato come, ai sensi dell’art. 160, comma 1, lett. b), della Legge Fallimentare, sia anche possibile una cessione dell’azienda ai creditori a mezzo di concordato preventivo.
Infine, poco studiate in dottrina, poiché raramente praticate, seppur concretamente configurabili sono le ipotesi di circolazione negoziale dell’a- zienda quali la permuta, cui si applicano le norme sulla vendita se ed in quanto compatibili (art. 1555 c.c.), il comodato (artt. 1803 ss. c.c.), l’associazione in partecipazione (artt. 2549 ss. c.c.), la rendita, perpetua o vitalizia (artt. 1861 ss. e 1872 ss. c.c.) e la donazione (artt. 769 ss. c.c.).
Costituisce una novità introdotta nel nostro ordinamento dalla L. 14 febbraio 2006, n. 55 il patto di famiglia che, pur prevedendo uno schema negoziale idoneo a programmare il passaggio intergenerazionale dell’impre- sa, rappresenta comunque certamente un negozio traslativo inter vivos e non mortis causa, capace di assicurare il trasferimento dell’azienda di famiglia da una generazione di imprenditori a quella successiva (88).
(88) Cfr., in argomento, AA. VV., Patti di Famiglia per l’impresa. I quaderni della Fonda- zione Italiana per il Notariato, Milano, 2006; IEVA M., Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. not., 1997, I, 1371 ss.; XXXXXXXXX E. (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario alla legge 14 febbraio 2006, n. 55, Milano, 2006; OBERTO G., Lineamenti essenziali del patto di famiglia, in Fam. e dir., 2006, 4, 148; XXXXXXXX G., La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notariato, 2006, LX, 416; XXXXXXXXX F., Il Patto di Famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali. I quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 2006; ZOPPINI A., Il patto di famiglia. Linee per la riforma dei patti sulle successioni future, in Riv. dir. priv., 1998, IV, 255 ss.
Quanto, invece, alla circolazione negoziale dell’azienda per causa di morte, è pacifico che il complesso aziendale possa costituire oggetto di successione mortis causa, sia a titolo universale (eredità) che a titolo particolare (legato) (89).
Il legislatore non regola esplicitamente tali ipotesi: a riguardo si applica- no in via prioritaria i principi generali sulle successioni ma si pone il proble- ma dell’applicazione analogica della disciplina dei trasferimenti inter vivos (90): in caso di legato, ad es., l’azienda va consegnata al legatario nelle con- dizioni in sui si trovava al momento della morte del testatore, unitamente agli utili conseguiti da allora (artt. 667 e 669 c.c.).
In caso di successione ereditaria, testamentaria o ab intestato, si verifica la confusione dei beni del defunto e dell’erede in un unico patrimonio, salvo che l’accettazione dell’eredità venga fatta con beneficio d’inventario (artt. 470 e 490 c.c.).
Qualora più persone succedano ad un unico imprenditore, ciò determinerà una comunione incidentale, suscettibile di conversione in società previo consenso, espresso o tacito, di tutti i coeredi alla prosecuzione in comune dell’esercizio dell’impresa ereditata, allo scopo di dividerne gli utili: tale società potrà rimanere di fatto o essere costituita adottando uno degli schemi previsti dalla legge.
Naturalmente sia l’erede che i coeredi potranno cedere l’azienda o concederla in godimento a terzi o liquidarla; i coeredi potranno anche dividerla o continuare l’impresa del de cuius ciascuno per proprio conto.
La circolazione mortis causa dell’azienda riguarda in particolare le imprese di dimensioni minori, poiché le aziende delle medie e delle grandi imprese, assumendo queste generalmente la forma delle società di capitali,
(89) Cfr., in dottrina, CAIAFA A., L’azienda, cit., 151 ss.; CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 87 s.; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 52; COTTINO G., Diritto commerciale, cit., 202. Cfr., in giurisprudenza, Cass., 12 maggio 1982, n. 2960.
(90) Cfr. XXXXXXX X., Azienda, cit., 9; CAIAFA A., L’azienda, cit., 152.
sono trasferite attraverso la successione nella titolarità delle relative azioni o quote (91).
Con riferimento, infine, alla forma ed alla pubblicità dei negozi di tra- sferimento dell’azienda, va osservato innanzitutto che il nostro ordinamen- to non prevede una forma e una legge di circolazione unitaria ed autonoma dell’azienda.
L’art. 2556, comma 1, c.c., infatti, prescrive la forma scritta ad probatio- nem tantum per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda (di un’impresa soggetta a registrazione), facendo salve le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni azien- dali e per la particolare natura del contratto.
È pertanto necessario osservare la forma scritta ad substantiam (atto pub- blico o scrittura privata) per l’alienazione, l’usufrutto e la locazione ultrano- vennale dei beni immobili aziendali (art. 1350, nn.1, 2 e 8, c.c.) e trascrivere i relativi contratti ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti ed ai creditori pignoranti (artt. 2643 s. e 2914, n. 1, c.c.) (92).
Occorre anche rispettare le norme sulla trascrizione dei beni aziendali mobili registrati (navi, galleggianti, aeromobili e autoveicoli: art. 2683 c.c.), dei marchi e dei brevetti per invenzioni industriali (artt. 117 ss. e 185 ss., d.lgs. 30/2005, c.d. codice della proprietà industriale) (93).
Inoltre bisogna ricorrere all’atto pubblico per donare un’azienda (art. 782 c.c.) e per conferirla in una società di capitali (artt. 2328, 2464 e 2475 c.c.) ed è necessario altresì osservare le forme stabilite per il testamento (artt. 601 ss. c.c.) se si vuole attribuire l’azienda a titolo di eredità o di legato. Sarà,
(91) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 154.
(92) Cfr., XXXXXXXX M., Impresa e azienda, cit., 755 ss.; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 36; contra, con riguardo alla locazione ultranovennale, PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 32, il quale applica al caso l’art. 2558 c.c.
(93) Cfr. CASANOVA M., Impresa e azienda, cit., 758; COLOMBO G.E., L’azienda, cit., 40. Cfr. anche XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, cit., 350, il quale reputa invece
inutili le trascrizioni quando insieme all’azienda si trasferisca la ditta che la contraddistin- gue, a cui siano intestati beni immobili, mobili registrati e brevetti, bastando l’iscrizione nel registro delle imprese.
infine, d’uopo redigere per iscritto l’atto di vendita dell’azienda ereditata (art. 1543 c.c.) e l’atto di cessione di un’azienda ai creditori (art. 1978 c.c.).
L’art. 2556, comma 2, c.c. dispone il deposito dei contratti (in forma pubblica o per scrittura privata autenticata) con cui si dispone dell’azienda per l’iscrizione nel registro delle imprese, a cura del notaio rogante o autenticante entro trenta giorni. Tale iscrizione ha valore di pubblicità dichiarativa, essendo utile ai fini dell’opponibilità del negozio ai terzi (94).
3. La circolazione dell’azienda a fonte non negoziale. Usucapione, espropriazione forzata e trasferimenti coattivi di azienda
L’azienda può circolare oltre che volontariamente, vale a dire attraverso negozi giuridici, anche per usucapione (secondo alcuni) o coattivamente.
Si definiscono coattivi i trasferimenti di azienda attuati a prescindere dalla volontà del titolare del diritto su di essa, per il conseguimento di un fine pubblico: essi avvengono in virtù di atti conclusivi di un procedimento dell’autorità giudiziaria o amministrativa oppure in forza di provvedimenti normativi.
Secondo alcuni si può acquistare per usucapione l’azienda nella sua globalità; altri al contrario ritengono che per usucapione si acquistino solo i singoli elementi aziendali (95).
Tale divergenza costituisce la naturale conseguenza della diversità di impostazione, rispettivamente unitaria e atomistica, seguita in sede di ricostruzione sistematica dell’azienda.
Il profilo più interessante rispetto a questo tema non è certo l’ipotesi marginale dell’usurpazione, legata al possesso viziato da violenza o clande- stinità, bensì “quella del mancato acquisto dell’azienda per difetto di titolari-
(94) Cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, cit., 152.
(95) Cfr. ASCARELLI T., Corso di diritto commerciale, cit., 321; AULETTA G., Note in tema di circolazione dell’azienda, cit., 475 s.
tà del dante causa o per difetto del titolo traslativo ed il successivo acquisto per usucapione” (96).
Quanto all’espropriazione forzata dell’azienda, la disciplina del pro- cesso di esecuzione prevista dal codice civile, agli artt. 2910-2933, e dal co- dice di procedura civile, agli artt. 474-632, non si preoccupa invero di salva- guardare, con riferimento a tali vicende il plusvalore del complesso azienda- le.
In effetti, non solo è impossibile attuare un’espropriazione forzata del- l’intera azienda (97), ma normalmente il creditore non riesce a far ricompren-dere nell’oggetto espropriato tutti gli elementi essenziali dell’azienda ed an-che se eccezionalmente ciò gli riuscisse, non sarebbero applicabili le norme di favore disposte per la circolazione negoziale, rimanendo in ogni caso sacrificata ogni soluzione unitaria.
Con riferimento, invece, al trasferimento di azienda nel fallimento, sono state rilevanti le novità introdotte dalle riforme che si sono succedute dalla seconda metà degli anni Duemila. Mettendo conto di tornare sull’argomento nel prosieguo della trattazione (99), può in ogni caso fin d’ora sottolinearsi come sia cambiata da parte del legislatore la filosofia di fondo che guida la vicenda fallimentare.
Come in generale può dirsi per l’istituto fallimentare e delle procedure concorsuali, così il trasferimento dell’azienda non è più concepito come una
(96) Cfr. XXXXXXX X., Azienda, cit., 16; DE XXXXXXX A., Xxxxx, cit., 251, che sottolinea come il problema del possesso e dell’usucapione d’azienda si è posto durante la guerra e le persecuzioni razziali.
(97) Cfr., in senso conforme, Cass., 10 marzo 1980, n. 1584.
(98) Cfr., in particolare, AULETTA G., Azienda, cit., 16.
(99) Cfr., infra, Cap. 2, § 5.
fattispecie estintiva dell’impresa malata che turba il sistema economico, bensì come un’esperienza che può potenzialmente tramutarsi nel ritorno dell’imprenditore all’interno del sistema produttivo ed in ogni caso in una gestione attenta del periodo di crisi in virtù dei rilevanti interessi diffusi che la procedura coinvolge.
In vero, la giurisprudenza, in specie quella giuslavoristica, più sensibile agli interessi socialmente rilevanti (come la tutela dei posti di lavoro), già prima delle riforme era stata portata a superare l’impostazione tradizionale sul fallimento, come esperienza fondamentalmente sanzionatoria per l’im- prenditore incapace di stare sul mercato, e a considerare possibile la soprav- vivenza dell’azienda alla dichiarazione di fallimento e la sua cessione in blocco attraverso la vendita fallimentare.
È chiaro che la vendita dell’azienda nel fallimento costituisce una vendita giudiziaria (anche se effettuata con trattativa privata) e coattiva, dato che si innesta su un processo esecutivo concorsuale e tende a realizzare la finalità espropriativa.
Da un punto di vista dogmatico, essa è stata inquadrata dalla dottrina dominante nella categoria delle vendite forzate, che comprende anche le vendite collegate ad esecuzione individuale.
Soltanto in seguito ad un’indagine di fatto si può accertare, dunque, caso per caso se l’ufficio fallimentare abbia trasferito un’azienda e non piuttosto un coacervo di beni non collegati funzionalmente.
Sono in conclusione da considerare i trasferimenti coattivi di azienda a fonte normativa ovvero attuati sulla base di provvedimenti amministrativi.
(100) Cfr., BOZZA G., La vendita dell’azienda nel fallimento, in Fallim., 1987, I, 283 ss.; PETTITI D., Il trasferimento volontario d’azienda, cit., 110.
Il caso più importante fra i trasferimenti coattivi a fonte normativa fu rappresentato a suo tempo dalla c.d. nazionalizzazione delle imprese eser- centi l’attività di produzione di energia elettrica, realizzata, in forza dell’art. 43 Cost., dalla L. 1643/1962, istitutiva dell’Enel.
La prevalente giurisprudenza e parte della dottrina hanno ricondotto il fenomeno previsto dal legislatore come trasferimento di impresa alla figura del trasferimento di azienda, ponendo di conseguenza il problema dell’appli- cazione analogica degli artt. 2556 ss. c.c. (101).
Invece, fra i trasferimenti di azienda determinati da atti amministrativi debbono menzionarsi la requisizione d’azienda e l’estinzione della conces- sione di servizi per riscatto.
Come è noto, la requisizione è un procedimento ablatorio in forza del quale l’autorità amministrativa, verificandosi un’esigenza straordinaria ed imprevedibile e non potendo provvedere in base ai normali procedimenti per l’acquisizione dei beni, dispone il trasferimento coattivo in suo favore della proprietà privata dietro concessione al proprietario di una indennità.
La giurisprudenza ha ritenuto applicabile alla requisizione d’azienda la disciplina di cui agli artt. 2556 ss. c.c. quando alla base dell’intervento ablatorio vi sia lo scopo di utilizzare il complesso aziendale per lo scopo produttivo suo proprio (102).
Qualcuno, pur ammettendo l’estinzione dell’azienda in seguito alla revoca o alla scadenza della concessione (essendo questa un elemento
(101) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 161 ss.; DI SABATO F., Espropriazione di azienda e nazionalizzazione delle imprese elettriche, 1974, 32; XXXXXXX E., Il trasferimento delle imprese elettriche, cit., 349 ss.; contra XXXXXX, Il trasferimento di impresa, cit., 276, che evidenzia la atipicità della fattispecie prevista dal legislatore del ’62.
(102) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 158 s.
(103) Cfr. Cass., 17 febbraio 1987, n. 1719; Cass., 15 maggio 1980, n. 3218.
essenziale dell’azienda di servizi), sostiene che si verifichi un trasferimento dell’unità aziendale quando l’amministrazione concedente, dopo aver riscattato la concessione, gestisca direttamente il servizio utilizzando gli stessi beni strumentali impiegati dal concessionario.
(104) Cfr. CAIAFA A., L’azienda, cit., 160.
CAPITOLO SECONDO
IL CONTRATTO DI AFFITTO DI AZIENDA
1. Nozione e causa del contratto di affitto d’azienda
1.1. La nozione di affitto di azienda. Il problema della disciplina applicabile e la specificità dell’oggetto del contratto. La rilevanza del ramo di azienda.
L’affitto d’azienda è il contratto con il quale un soggetto concede ad un altro il godimento di un complesso di beni organizzati e finalizzati allo svolgimento di un’attività produttiva verso un determinato corrispettivo (c.d. canone d’affitto) (105).
Il primo soggetto è definito affittante, concedente o locatore, il secondo affittuario o conduttore. Questi assume l’impegno di non modificare la destinazione dell’azienda e di conservare l’efficienza dell’organizzazione e dei beni che la costituiscono e le normali dotazioni di scorte.
La figura è espressamente prevista dall’art. 2562 c.c., che non fornisce tuttavia una definizione normativa del tipo negoziale, ma si limita a stabilire
(105) Sull’affitto di azienda cfr., in dottrina, AMATISTA A., Il contratto di affitto di azienda. Aspetti giuridici ed interpretazioni dottrinarie. Caratteristiche e funzioni. Aspetti particolari, in Dir. fall., 1992, I, 807 ss.; XXXXXXXX D., L’affitto d’azienda, Milano, 2010; BRONZINI M., Affitto di azienda, in Riv. dott. comm., 1980, 1 ss.; XXXXXXX G.E., Usufrutto e affitto di azienda, in Tratt. dir. comm. pubbl. econ., diretto da X. Xxxxxxx, XXX, Xxxxxx, 0000; DE TILLA M., Individuazione dei presupposti dell’affitto di azienda, in Riv. giur. edil., 2003, 6, 1, 1477 ss.; ID., Responsabilità del conduttore per ritardato rilascio e messa in mora del locatore, in Riv. giur. edil., 2003, 6, 1, 1481 ss.; DE CUPIS A., L’affitto di opificio industriale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 465 ss.; FORCHIELLI P., Il minimum del concetto di azienda e la distinzione tra affitto di azienda e locazione di immobile non abitativo, in Riv. dir. civ., 1980, 515 ss.; MECHELLI A., La stima del valore congruo del canone di locazione nell’ipotesi di affitto d’azienda, in Riv. dott. comm., 2007, 5, 861 ss.; XXXXXX A., Trasferimento e affitto dell’azienda in relazione all’evoluzione della giurisprudenza della Cassazione, nota a Cass., 15 gennaio 1990, n. 123, in Giur. comm., 1991, II, 231 ss.; XXXXXX M.P., L’affitto di azienda, Milano, 2010; XXXXX M., Godimento del bene produttivo e impresa, Milano, 1998; XXXXX C. – XXXXXXXXX M., L’affitto d’azienda (casi pratici in materia civile, amministrativa e tributaria), 7ª ed., Milano, 1992; XXXXXXX N., Locazione di immobile ed affitto di azienda. Contributo allo studio della teoria giuridica dell’azienda, Xxxxxx, 0000.
La ricostruzione della disciplina e della stessa nozione di affitto di azienda resta pertanto affidata all’interprete, la cui opera viene impegnata, per un verso, nel coordinamento di un rilevante numero di norme che astrattamente concorrono a disciplinare l’istituto e, per altro verso, nell’attenta definizione caso per caso dell’oggetto del contratto, comunque costituito da un bene produttivo.
Quanto al primo aspetto, basti in questa sede rilevare come la regolamentazione dell’affitto d’azienda possa derivarsi dal concorso di almeno tre gruppi di norme.
Se si ha riguardo al tipo negoziale in esame, vengono anzitutto in considerazione le disposizioni di cui agli artt. 1571 ss. c.c., dettate dal legislatore in materia di locazione in generale, e ancora più precisamente quelle di cui agli artt. 1615 ss. c.c. che regolano quel particolare sottotipo negoziale della locazione che è rappresentato dall’affitto di una cosa produttiva (107).
È pacificamente riconosciuta all’interprete la possibilità di individuare la disciplina dell’affitto d’azienda attraverso il ricorso a tale gruppo di norme, trattandosi in verità di fattispecie che hanno identica natura giuridica e che si pongono reciprocamente tra loro in un progressivo rapporto di genus ad speciem, nell’ambito del quale la locazione è la fattispecie più generale
(106) Sull’usufrutto di azienda cfr., in dottrina, COLOMBO G.E., Usufrutto e affitto di azienda, cit.; DE MARTINI A., L’usufrutto d’azienda, Milano, 1950. In relazione alla configurazione come usufrutto in senso tecnico, cfr. XXXXXXX X., Azienda: I) Diritto Commerciale, in Enc. Giur., IV, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da X. Xxxxxxxx, Roma, 1988, 1 ss.; FERRARI G., Azienda (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 680 ss. Su altri aspetti caratterizzanti dell’istituto cfr. anche COTTINO G., L’imprenditore. Diritto commerciale, I, 1, 4ª ed., Padova, 2000, 257 s. (obblighi e poteri dell’usufruttuario); XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, 2ª ed., Milano, 1982, 397 ss.; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, III, 1, L’impresa e le società, Padova, 1990, 98 ss. (contratti, crediti e debiti).
(107) Sulla locazione e l’affitto in generale, cfr. XXXXXXX C., La locazione: l’affitto, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, XX, 0, Xxxxxx, 1984, 645 ss.
mentre l’affitto d’azienda è la figura più particolare che si differenzia dalle altre per il suo specifico oggetto.
Se si ha riguardo invece al richiamo operato dall’art. 2562 c.c. all’usufrutto d’azienda, assumono rilevanza anche le disposizioni di cui agli artt. 978 ss. c.c., dettate dal legislatore in materia di usufrutto in generale. Questo perché, una volta stabilita con norma positiva espressa l’applicabilità dell’art. 2561 c.c. all’affitto d’azienda, sarà possibile per l’interprete di volta in volta valutare l’applicabilità al contratto in esame non solo di tale specifica disposizione, ma più in generale delle regole previste dalla legge in materia di usufrutto. Nonostante, infatti, la diversa natura giuridica delle fattispecie considerate, in questo caso è il legislatore che consente tale risultato esegetico per il tramite del disposto di cui all’art. 2561 c.c. (108).
Se, infine, si ha riguardo alla collocazione sistematica data dal legislatore all’art. 2562 c.c., vengono in considerazione le disposizioni di cui agli artt. 2556 ss. c.c. dettate in materia di cessione dell’azienda in generale, la cui applicabilità alla fattispecie che ci occupa può essere stabilita nel caso concreto poiché, pur non traducendosi l’affitto di azienda in una vicenda traslativa del complesso produttivo, esso implica tuttavia una cessione pro tempore del godimento dell’azienda ed in quanto tale può all’occorrenza trovare nelle norme citate la disciplina di alcuni aspetti problematici della fattispecie.
È chiaro che la scelta di privilegiare nelle diverse ipotesi concrete una soluzione interpretativa rispetto ad un’altra comporterà necessariamente differenti conseguenze in ordine alla regolamentazione dell’istituto.
La disciplina del caso concreto dipenderà, così, sostanzialmente dal criterio interpretativo adottato nella singola ipotesi ed, in particolare, dalla
(108) Ciò non toglie che, nonostante la valutazione effettuata dal legislatore in via generale xx xxxxxxxx, rimanga per l’ermeneuta il problema di giustificare caso per caso il risultato interpretativo raggiunto: su questi aspetti si tornerà di volta in volta nel prosieguo della trattazione.
preferenza accordata al c.d. criterio di prevalenza di un gruppo di norme su un altro gruppo di norme ovvero al c.d. criterio di compatibilità delle regole stabilite da differenti gruppi di norme.
Nel primo caso, le norme generali dettate dalla legge in materia di locazione e/o di affitto di una cosa produttiva saranno considerate in ogni caso prevalenti su ogni altra disposizione astrattamente applicabile ai fini della disciplina della fattispecie concreta. Ad esse si farà dunque esclusivo ricorso, salvo che per i casi non espressamente regolati, rispetto ai quali si ammetterà il ricorso anche ad altre disposizioni normative speciali.
Secondo il criterio della compatibilità, invece, il ricorso alle norme generali in materia di locazione e/o di affitto di una cosa produttiva sarà ritenuto possibile solo se e in quanto tali disposizioni siano compatibili con le norme speciali applicabili al caso concreto.
Si prenda, ad esempio, il caso dell’inadempimento dell’affittuario alle proprie obbligazioni.
Se, nonostante il richiamo dell’art. 2562 c.c. alla disciplina prevista dal- l’art. 2561 c.c., si considereranno prevalenti sulle norme stabilite dalla legge in tema di usufrutto le disposizioni dettate in materia di affitto in generale, ne discenderà l’applicazione all’inadempimento dell’affittuario dell’art. 1618 c.c. e, conseguentemente, il locatore d’azienda potrà considerarsi legittimato a chiedere alla parte inadempiente la risoluzione del contratto di affitto (109).
Se, invece, secondo il criterio della compatibilità, si riterrà che la disciplina dell’affitto di una cosa produttiva sia applicabile solo se ed in quanto compatibile con le norme speciali dettate dal legislatore in materia di usufrutto ed espressamente richiamate dalla disposizione di cui all’art. 2562 c.c., ne conseguirà l’applicazione al caso in esame dell’art. 2561, comma 3, c.c.
(109) Cfr. XXXXXXX G.E., Usufrutto e affitto di azienda, cit., 289; FERRARI G., Azienda, cit., 739.
Pertanto, se l’affittuario d’azienda non adempia ai propri obblighi di gestione ovvero cessi arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si esporrà alle conseguenze previste dall’art. 1015 c.c. (110) e non sarà così ritenuta legittima la domanda del locatore di risoluzione del contratto di affitto di azienda, ma l’autorità giudiziaria potrà, secondo le circostanze, ordinare che l’affittuario presti garanzia in ordine all’adempimento delle proprie obbligazioni ovvero anche disporre che l’azienda goduta venga locata a terzi o sia posta sotto amministrazione a spese dell’affittuario medesimo, o ancora il giudice potrà valutare che l’azienda torni nel possesso del proprietario (rectius, dell’affittante) e questi sia obbligato a pagare annualmente una somma determinata all’affittuario per la durata del contratto di affitto di azienda (arg. ex art. 1015, comma 2, c.c.). Al verificarsi di queste ipotesi, peraltro, i creditori dell’affittuario potrebbero intervenire nel giudizio per conservare le proprie ragioni e a tal fine è attribuita loro anche la facoltà di offrire il risarcimento dei danni subiti dall’affittante o di prestare garanzia per l’avvenire dell’adempimento delle obbligazioni da parte dell’affittuario (arg. ex art. 1015, comma 3, c.c.).
Le ipotesi tendono a moltiplicarsi ed ognuna di esse verrà analizzata nel prosieguo della trattazione.
Quanto può forse fin d’ora rilevarsi, al di là dei singoli aspetti coinvolti dalla ricostruzione di una nozione di affitto d’azienda, è il fatto che con l’art. 2562 c.c. il legislatore sembrerebbe non avere inteso disciplinare una autonoma figura contrattuale, ma voler riconoscere su base positiva un sottotipo negoziale di un altro contratto, la locazione appunto, distinguen- dolo da questa per il suo particolare e specifico oggetto, costituito da un bene produttivo: l’azienda.
Se così è, la nozione di contratto di affitto d’azienda può forse trarsi dal combinato disposto di cui agli artt. 1571 e 1615 c.c., il primo dei quali
(110) Cfr., in questo senso, COTTINO G., L’imprenditore, cit., 264 s.
definisce appunto la locazione mentre il secondo tratta invece dei particolari caratteri dell’affitto di una cosa produttiva.
L’affitto d’azienda finirebbe, così, per identificarsi con l’accordo attraverso il quale una parte si obbliga a far godere quel particolare bene produttivo che è rappresentato dall’azienda, mentre l’altra si impegna a versare un determinato canone d’affitto e a curare la gestione della cosa locata, sì da non modificarne la destinazione economica e badando a salvaguardare l’efficienza dell’organizzazione e l’interesse alla produzione.
Le conseguenze di una siffatta ricostruzione della nozione di affitto di azienda possono immediatamente apprezzarsi proprio con riferimento all’oggetto del contratto.
Va così, in primo luogo, osservato che oggetto del contratto potrà essere non solo un bene capace di produttività naturale, ma ogni bene idoneo ad essere destinato alla produzione, purché questa sia condotta attraverso l’opera dell’uomo (111).
Inoltre, ai fini della qualificazione del negozio dovrà essere di volta in volta valutata l’integrità dell’unità economica aziendale della cosa locata. L’azienda deve, cioè, essere in ogni caso considerata come quella universitas rerum che ricomprende cose materiali ed immateriali (debiti, crediti, rapporti di lavoro) funzionalmente organizzate dall’imprenditore in un complesso unitario destinato ad un unico fine produttivo. Così che per aversi affitto d’azienda non è necessario che concorrano tutti gli elementi che costituiscono il complesso aziendale e che normalmente ne integrano il concetto, ben potendo alcuni di essi anche mancare, purché dal loro difetto non venga in ogni caso compromessa l’unità economica aziendale (112). La
(111) Su questi aspetti cfr., xxxxxxx, § 2.
(112) Cfr. Cass., 16 giugno 1967, n. 1416. Nello stesso senso, Cass. 17 dicembre 1984, n. 6617, secondo la quale perché si abbia affitto di azienda non è necessaria la presenza di tutti gli elementi, specie quelli immateriali, che la costituiscono, potendo alcuni di essi mancare senza che ne risulti compromessa l’unità economica aziendale. Cfr. anche Cass., 6 aprile 1983, n. 2420, secondo la quale alla configurabilità dell’affitto di azienda non è di ostacolo la circostanza che, al momento del contratto, non siano presenti tutti gli elementi occorrenti
stessa giurisprudenza ritiene necessario che nel complesso dei beni ceduti in godimento dal concedente possa apprezzarsi quel residuo di organizzazione dei fattori della produzione che dimostri l’attitudine del complesso ceduto allo svolgimento dell’attività di impresa, sia pure con la successiva integrazione da parte dell’affittuario (113).
Quanto alla produttività del complesso aziendale, anche questa – si badi
– viene considerata come produttività potenziale dell’azienda e non invece come sua produttività attuale: non è necessaria, in altre parole, la sussistenza della produttività aziendale come realtà oggettiva al momento della stipulazione del contratto, ma è sufficiente che il complesso dei beni organizzati risulti anche solo potenzialmente idoneo al raggiungimento del fine produttivo al quale è destinato (114).
È ancora la giurisprudenza a considerare che l’affitto d’azienda, traducendosi nella cessione del godimento di un complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’attività di impresa, postula la potenziale attitudine di tale complesso a realizzare la finalità economica cui è destinato, e non anche dunque l’esistenza di una concreta produzione in atto, né la qualità di imprenditore del concedente (115).
Pertanto, alla configurabilità dell’affitto d’azienda non è di ostacolo, ad esempio, il fatto che il concedente non abbia mai utilizzato il complesso aziendale in una propria attività imprenditoriale o che l’esercizio dell’impre- sa debba essere iniziato dall’affittuario ovvero ancora che il complesso aziendale sia, al momento della conclusione del contratto, temporaneamente inattivo (116).
per il funzionamento del complesso aziendale ovvero che questo sia temporaneamente inattivo.
(113) Cfr., in questo senso, Cass., 17 dicembre 2004, n. 23496.
(114) Cfr., sul punto, Cass., 5 ottobre 1957, n. 3613; Cass., 23 aprile 1959, n. 1223; Cass., 8 agosto 1964, n. 1779; Cass., 16 giugno 1967, n. 1416, cit.; Cass., 7 ottobre 1975, n. 3178; Cass., 25 agosto 1977, n. 3861.
(115) Cfr., in questo senso, in particolare, Cass., 25 agosto 1977, n. 3861, cit.
(116) Cfr., in dottrina, XXXXXXXX E., Economicità e impresa, Torino, 1999, passim; SPADA P., Impresa, voce in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., VII, Torino, 1992, 60 s. Cfr., in
In sintesi, la figura dell’affitto d’azienda ricorre sia nel caso in cui il complesso aziendale sia stato dedotto in contratto nella sua c.d. fase statica, sia invece che sia stato ceduto quando è già stata avviata la c.d. fase dinamica dell’impresa e non rileva a tal fine che la produttività sussista in concreto al momento dell’accordo (117).
Da tali premesse muove il dibattito circa la deducibilità in contratto non dell’intero complesso produttivo, ma anche eventualmente di un solo ramo d’azienda.
L’ipotesi è quella della cessione in godimento di parte del complesso aziendale utilizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa e si ritiene generalmente verificata al ricorrere di due condizioni.
La prima è che la parte dei beni organizzati che viene ceduta deve risultare comunque idonea ad integrare i requisiti di cui all’art. 2555 c.c. e deve perciò mantenere una certa autonomia funzionale e operativa, così da consentire all’affittuario l’esercizio dell’impresa in maniera del tutto autosufficiente in relazione alle esigenze della produzione.
La seconda condizione è che devono comunque residuare in capo al concedente ulteriori beni tra quelli ricompresi nel complesso aziendale fino al momento della cessione in affitto.
È poi discusso se i beni che restano in capo al concedente debbano a loro volta costituire o meno un complesso produttivo organizzato, ai sensi dell’art. 2555 c.c.
La questione ha una rilevanza sia teorica che pratica.
giurisprudenza, Cass., 28 marzo 2003, n. 4700; Cass., 26 luglio 1986, n. 4809; Cass., 9
marzo 1984, n. 1640; Cass., 25 agosto 1977, n. 3861; Cass., 7 ottobre 1975, n. 3178; Cass.,
16 giugno 1967, n. 1416; Cass., 8 agosto 1964, n. 1779; Cass., 23 aprile 1959, n. 1223;
Cass., 5 ottobre 1957, n. 3613.
(117) Per l’orientamento giurisprudenziale che ritiene sufficiente che la produttività aziendale sia conseguenza anche meramente potenziale prevista dalle parti nel contratto cfr., in particolare, Cass., 9 marzo 1984, n. 1640. Ma anche: Cass., 28 luglio 1964, n. 2140; Cass., 11 gennaio 1974, n. 91; Cass., 25 agosto 1977, n. 3861, cit.; Cass., 11 giugno 1979, n. 3287; Cass., 24 novembre 1980, n. 6243.
Secondo i sostenitori della c.d. tesi estensiva non vi è alcuna necessità che i beni esclusi dalla cessione in affitto costituiscano, a loro volta, un complesso di beni organizzati ai sensi dell’art. 2555 c.c., così che si potrà ipotizzare che si abbia affitto di ramo di azienda, ad esempio, quando un imprenditore conceda in affitto l’intero complesso aziendale con la sola esclusione dell’immobile strumentale all’esercizio dell’impresa, il quale divenga oggetto di un autonomo contratto di locazione. Allo stesso modo, potrà qualificarsi affitto di ramo di azienda la cessione del godimento dell’intero complesso aziendale con esclusione del solo marchio di produzione, che resti magari nella piena disponibilità dello imprenditore concedente.
Se invece si accede alla tesi restrittiva, per la quale può aversi ramo di azienda solo quando si concede in affitto un complesso di beni che non esauriscono il patrimonio aziendale del proprietario ed i beni esclusi costituiscono, a loro volta, un complesso organizzato, ai sensi dell’art. 2555 c.c., si dovrà ipotizzare che si abbia affitto di azienda, e non di semplice ramo, quando viene meno il secondo dei due requisiti: come negli esempi fatti, nei quali sono esclusi dall’affitto uno o più beni (immobile, marchio) comunque non idonei a costituire un complesso organizzato, ai sensi dell’art. 2555 c.c., sebbene rilevanti sul piano economico anche in relazione al valore dei beni oggetto dell’affitto.
(118) Sembra comunque preferibile ritenere, in ossequio al principio di autonomia privata di cui all’art. 1322, comma 1, c.c. che, almeno ai fini civilistici, le parti possano liberamente stabilire l’inerenza o meno al ramo di azienda di ciascun bene, contratto, credito ed anche debito, senza che tale loro valutazione possa essere messa in discussione da parte di terzi, salvi gli specifici rimedi concessi a tutela dei creditori ove la determinazione delle parti medesime sia lesiva del credito.
Accogliendosi questa seconda impostazione, non sarà più possibile per le parti decidere liberamente, per gli effetti di cui all’art. 2558, comma 3, c.c. quali contratti sono inerenti al complesso di beni affittato, e quindi trasferiti, e quali invece non lo sono: ogni contratto in corso di esecuzione al momento dell’affitto si considererà automaticamente trasferito ex art. 2558, comma 0, x.x., xx xxxx all’affittuario, senza necessità di alcuna valutazione di inerenza, salva soltanto la possibilità che le stesse parti si attivino caso per caso (119) per escludere il trasferimento di specifici contratti che rientrerebbero nella definizione normativa.
In conclusione, deve anche sottolinearsi che perché si abbia affitto di azienda è considerata rilevante sul piano soggettivo la qualità di imprendi- tore soltanto della parte affittuaria, mentre è ritenuto del tutto irrilevante il possesso dei relativi requisiti da parte del concedente (120).
(119) La giurisprudenza di legittimità ha per la verità stabilito che l’esclusione dell’effetto di cui all’art. 2558 x.x., xx xxxxx xxx xxxxx 0, xxxxx altresì avvenire in blocco, per tutti i contratti diversi da quelli espressamente menzionati come oggetto di trasferimento.
(120) Cfr. Cass., 22 gennaio 1983, n. 623; Cass., 6 aprile 1983, n. 2420, cit.; Cass., 26 luglio 1986, n. 4809; Cass., 6 maggio 1997, n. 3950. Esiste, tuttavia, un’espressa eccezione
prevista in materia alberghiera dall’art. 1, comma 9 septies, d.l. 12/1985, conv. in l. 118/1985, il quale dispone che: “si ha locazione di immobile e non affitto di azienda in tutti i casi in cui l’attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore”. Cfr., su questo aspetto, Cass., 29 settembre 1999, n. 10767; Cass., 4 gennaio 1991, n. 30; Cass., 2 luglio 1991, n.
7253.
(121) Cfr., in dottrina, , COLOMBO G.E., Usufrutto e affitto di azienda, cit, È minoritaria la tesi di coloro i quali sostengono che non si possa avere affitto di azienda che non comporti
anche la successione nell’esercizio dell’impresa. Tra questi, cfr. DE CUPIS A., L’affitto, cit., 465; XXXXXXXXXX P., Il minimum, cit.. In giurisprudenza, cfr. Cass., 24 ottobre 1960, n. 287.
1.2. La duttilità della funzione del contratto di affitto d’azienda: dalla mera redditività al passaggio generazionale di impresa.
È opinione condivisa, sia tra i teorici che tra gli operatori del diritto, che l’affitto di azienda rappresenti uno strumento negoziale particolarmente duttile e idoneo a regolare un vasto numero di situazioni, per ognuna delle quali può concretamente individuarsi una specifica funzione economica che tale figura consente di perseguire (122).
Si osserva dunque, in primo luogo, come la funzione paradigmatica dell’affitto di azienda sia quella di consentire al proprietario di un comples- so produttivo di ottenerne una certa redditività, ricavando un corrispettivo dall’esercizio dell’impresa da parte dell’affittuario.
Si parla in questo senso di affitto a scopo di mera redditività, che rappresenta un’applicazione pratica molto diffusa della figura in esame.
È il caso, ad esempio, dell’imprenditore che abbia deciso di ritirarsi dall’attività per sopravvenuta età pensionabile, ma non intenda dismettere il complesso produttivo e voglia ricavarne una fonte di reddito. Egli ha già svolto l’attività di impresa relativamente alla stessa azienda e decide di con- cederla in godimento all’affittuario.
È il caso, altresì, degli eredi di un imprenditore o del socio di controllo di una società che non ritengano di potere o di volere intraprendere in proprio l’attività già svolta dal de cuius: in tale ipotesi i concedenti hanno acquistato l’azienda a causa di morte ma non hanno mai svolto tramite essa alcuna attività e decidono di concederla in godimento a terzi, così da ottenerne una
(122) Sui rilevanti profili pratici relativi alla tecnica redazionale, alle formalità necessarie, al contenuto ed alla struttura delle clausole del contratto di affitto di azienda cfr. XXXXX X., Il contratto di affitto di azienda, in Notariato, 4, 2000, 351 ss.; DE XXXXXXX X., Problemi redazionali della cessione e dell’affitto d’azienda, in Cessione ed affitto di azienda alla luce della più recente normativa. Atti. Milano, 22 ottobre 1994, Milano, 1995, 151 ss.; XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda tra norme di legge e clausole di autonomia privata, in Notariato, 5, 2010, 531 ss. Sulla causa in concreto del contratto di affitto di azienda, cfr., meno recentemente, AMATISTA A., Il contratto di affitto di azienda, cit., 835 ss.
fonte di reddito senza dover affrontare i rischi e sopportare i costi della attività esercitata in precedenza dal proprio xxxxx causa.
Diversa è invece l’ipotesi dell’affitto in funzione del trasferimento che viene perfezionato per preparare un futuro, eventuale ma non ancora certo trasferimento d’azienda (123).
Vi sono realtà aziendali infatti che richiedono una fase sperimentale rispetto alla quale l’affitto d’azienda rappresenta senza dubbio l’istituto giuridico più adeguato, poiché spesso vi è un’impossibilità oggettiva per l’acquirente di rendersi conto delle caratteristiche del complesso produttivo in forza di una preventiva due diligence eseguita solo sulla carta ed in questi casi può essere opportuna la previsione da parte dei contraenti di una sorta di periodo di prova che consenta al futuro acquirente di perfezionare la propria volontà di acquisto.
Tale periodo può essere programmato come affitto dell’azienda così che il futuro acquirente possa verificare la sostenibilità della propria gestione, una volta che non potrà più confidare sull’avviamento soggettivo del precedente gestore.
(123) In concorrenza con l’affitto di azienda, relativamente a tale specifica funzione, potrebbe porsi il contratto di comodato di azienda (per la cui ammissibilità cfr. COLOMBO G.E., Xxxxxxxxx e affitto di azienda, cit., 295 ss., ove si osserverà altresì, alla nota 236, che “nella pratica il comodato è stato talora utilizzato come rapporto temporaneo e provvisorio in attesa della precisa formulazione delle clausole di un contratto di affitto, al fine di consentire al futuro affittuario di iniziare immediatamente la gestione”), che però espone il comodante proprietario dell’azienda al rischio di un pregiudizio economico ove il comodatario non proceda poi all’acquisto.
(124) Xxxxxx parlano di rischio che l’azienda venga infettata. Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 531.
In genere, viene però previsto un canone di affitto adeguato a coprire tale specifico rischio e sono introdotte alcune clausole in contratto fortemente limitative della libertà di impresa del conduttore.
Si consideri in ogni caso come le parti ricorrano a questo tipo di accordo quando il trasferimento è oramai prossimo nel tempo e all’interno del contratto sia comunque prevista una opzione di vendita dell’azienda a tutela del concedente.
Vi è poi l’ipotesi dell’affitto di azienda concluso per la gestione di una crisi di impresa, che ricorre nei casi in cui si renda necessario l’affidamento temporaneo della gestione dell’impresa ad un soggetto diverso dal conce- dente, sia questi un familiare del concedente stesso ovvero anche un sogget- to professionale, che sia capace di invertire il trend negativo della gestione in atto (125).
Il che si può verificare, anzitutto, in considerazione di particolari situa- zioni soggettive dell’imprenditore proprietario d’azienda, che sia ad esem- pio temporaneamente impedito ad esercitare l’impresa per malattia ovvero sia in un dato momento impegnato nello svolgimento di altre iniziative economiche che assorbono la maggior parte delle sue energie.
(125) Sulle ipotesi di crisi di impresa e di fallimento dell’imprenditore, cfr. BOZZA G., La vendita dell’azienda nel fallimento, in Fallim., 1987, I, 283 ss.; CAIAFA A., L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi d’impresa, Xxxxxx, 0000; CENSONI P.F., La sorte dei rapporti pendenti nel fallimento nel caso di affitto di azienda, in Giur. comm., 2003, 3, 333 ss.; XXXXX A., Affitto di azienda e usufrutto di azioni e quote. Leve strategiche per il superamento di situazioni di crisi, Torino, 2005; XXXXX A., Le crisi d’impresa. Il fallimento, in Tratt. dir. priv., a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Milano, 2000; RIVOLTA G.C.M., L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973; TRONTI M., Contratto d’affitto d’azienda e liquidazione della società conduttrice, in Giur. comm., 2000, 1, 2, 60 ss.; VIGO R., Effetti del fallimento del locatore sull’affitto di azienda, in Giur. comm., 1998, 1, 79 ss. Con riferimento alla funzione al vaglio si consideri come l’affitto di azienda, presupponendo tipologicamente il pagamento di un corrispettivo da parte dell’affittuario, possa astrattamente concorrere con la figura dell’appalto di servizi prevista dagli artt. 1655 ss. c.c., potendo la prestazione dell’appaltatore consistere proprio nella gestione temporanea dell’azienda in crisi dietro corrispettivo (motivo per il quale egli stesso assume, peraltro, a pieno titolo la qualità di imprenditore). Sotto questo profilo cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 531 s.
Ma è ciò che accade anche in relazione a situazioni oggettive del merca- to, nei casi ad esempio di crisi di un determinato settore o comparto ovvero nelle ipotesi di c.d. stretta creditizia da parte degli istituti di credito, i quali pretendano come interlocutore bancario un gestore d’impresa più esperto, più capace o comunque più affidabile di quello in attività.
Va da sé che la situazione di crisi dell’impresa deve necessariamente distinguersi dalla situazione di insolvenza dell’imprenditore.
Questo perché, se dovesse essere avviata una procedura concorsuale successivamente alla conclusione dell’affitto dell’azienda, in primo luogo detto contratto sarebbe certamente travolto dagli effetti caducatori di una eventuale azione revocatoria fallimentare ed inoltre tale operazione potreb- be essere astrattamente valutata dal giudice per accertare eventuali profili di rilevanza penale della fattispecie ai sensi della legge fallimentare (126).
L’affitto di azienda potrebbe inoltre concludersi in funzione di un passaggio generazionale d’impresa (127).
Si tratta in questo caso dell’ipotesi in cui l’affitto di azienda viene impiegato per preparare e permettere un passaggio generazionale nella gestione dell’impresa di famiglia, ma con logica invertita rispetto all’affitto concluso in funzione del successivo trasferimento nel caso in esame è più frequente che sia il proprietario attuale dell’azienda ad avere l’interesse a valutare la gestione in prova dell’impresa da parte della nuova generazione di imprenditori (128).
È conosciuta dalla prassi anche l’ipotesi di c.d. affitto d’azienda intra- gruppo.
Si tratta del caso in cui l’affitto d’azienda viene impiegato per imputare temporaneamente la gestione dell’impresa ad una diversa società del gruppo
(126) Cfr. l’ipotesi di bancarotta fraudolenta c.d. per distrazione di cui all’art. 216 l. fall.
(127) Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 532.
(128) Ad ogni modo, avverte la dottrina che anche in tal caso sarà opportuno che il contratto preveda clausole fortemente limitative della libertà di impresa da parte dell’affittuario, che circoscrivano dunque i rischi dell’imprenditore-proprietario durante il periodo di gestione dell’affittuario/potenziale successore. Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 532.
Infine, una parte della dottrina, particolarmente sensibile alle istanze provenienti dalla prassi, ha anche indagato la possibilità per le parti di concludere, in determinate ipotesi, l’affitto di una quota indivisa del- l’azienda (130).
Si prenda il caso di un imprenditore individuale, che eserciti la propria attività professionale insieme ad uno dei due figli, poiché l’altro ha deciso di intraprendere una attività completamente diversa.
Ebbene, a seguito del decesso dell’imprenditore, in mancanza di un accordo in tempi rapidi dei due eredi circa la divisione del patrimonio, appare certamente opportuno, se non necessario, assicurare la continuità nella gestione dell’impresa per onorare gli impegni relativi ai contratti in corso e garantire la prosecuzione dell’attività produttiva.
Poiché, però, solo uno dei figli potrebbe di fatto continuare in questo caso la gestione dell’attività del padre, nell’attesa di un accordo tra gli eredi per la divisione del patrimonio ereditario, potrebbe dunque risultare opportuno ricorrere ad un appropriato contratto di affitto di azienda per garantire ad un tempo sia l’interesse del coerede capace di proseguire la gestione dell’impresa, sia l’interesse patrimoniale dell’altro coerede.
Il coerede imprenditore diverrebbe in questo caso affittuario della quota indivisa dell’azienda che dovrebbe astrattamente attribuirsi all’altro al momento della divisione ereditaria ed il canone dell’affitto da corrispondere
(129) In tal caso, occorrerà che il corrispettivo dell’affitto, pur tenendo conto del valore ag- giunto che la nuova gestione è in grado teoricamente di offrire e dei vantaggi compensativi che l’appartenenza delle due società al medesimo gruppo può determinare, sia congruo al fine di evitare indebite forme di c.d. transfer pricing. Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 532.
(130) Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 533. Il caso pratico analizzato, tratto
dall’esperienza professionale dell’A., si riferisce alla successione nell’impresa individuale di costruzioni del padre di uno dei due figli, dedito alla medesima attività di impresa, mentre il secondo è impegnato invece in una diversa attività professionale. Sono evidenti in una tale ipotesi le esigenze dei cantieri in corso da proseguire e gli impegni contrattuali di vendita dei singoli immobili da onorare.
al coerede concedente dovrebbe ammontare ad un importo ritenuto adeguato in considerazione del valore attuale dell’azienda e del rischio di perdita di valore in caso di mala gestio da parte dell’affittuario ed essere sottoposto alla condizione sospensiva della emergenza al termine dell’affitto di una minusvalenza di inventario, ai sensi dell’art. 2561, comma 4, c.c. (131).
Del resto, nulla osterebbe sul piano teorico all’assoggettamento a condizione sospensiva del solo elemento del corrispettivo, come è espressa- mente consentito dall’art. 1353 c.c., dal momento che l’eventualità che il corrispettivo sia dovuto è sufficiente affinché il contratto sia qualificabile come affitto di azienda piuttosto che come comodato, mentre l’eventualità che il corrispettivo risulti ex post non dovuto determinerà come unica conseguenza che il contratto sarà qualificabile come aleatorio e dovranno, dunque, considerarsi ad esso applicabili le norme sulla rescissione (art. 1448, comma 0, x.x.) x xxxxx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxx (xxx. 1469 c.c.) (132).
In conclusione, dunque, la duttilità del contratto di affitto di azienda può tanto più apprezzarsi quanto più l’interprete è disposto a considerare duttile la stessa nozione di azienda e, relativamente a ciascuna delle funzioni che possono essere perseguite attraverso di esso, considerare il fatto che lo stes- so contratto può altresì avere ad oggetto non solo l’intera azienda o un ramo di essa, ma addirittura configurarsi, come si è visto, anche in relazione all’affitto di una quota indivisa della azienda stessa.
(131) Cfr. XXXXXXXXX F., L’affitto d’azienda, cit., 533.
(132) La questione è la medesima che si pone per la c.d. vendita a rischio e pericolo, o emptio spei, ove la dottrina dominante, seppure non pacifica, ritiene che il contratto resti ad ogni altro effetto di legge disciplinato dalle norme previste in materia di vendita.
2. Contenuto e oggetto dell’accordo
2.1. Caratteri e disciplina del contratto di affitto di azienda
Come tradizionalmente si insegna, l’affitto di azienda è un contratto consensuale, ad effetti obbligatori, sinallagmatico, a prestazioni corrispetti- ve e ad esecuzione continuata e periodica, avente ad oggetto il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per la produzione di beni e servizi.
È un contratto consensuale, in quanto il diritto di godimento dell’azien- da per un determinato periodo di tempo nasce in capo all’affittuario per effetto del solo consenso legittimamente manifestato dalle parti: la consegna dell’azienda rappresenta, in questo senso, solo un atto di adempimento della principale obbligazione del locatore in esecuzione dell’accordo.
È un contratto a prestazioni corrispettive, poiché una parte è obbligata a concedere in godimento all’altra l’azienda e questa invece si obbliga a versare alla prima il canone di locazione.
È peraltro sinallagmatico perché le prestazioni rispettivamente a carico di una parte ed a vantaggio dell’altra sono legate da un nesso di reciprocità e di interdipenza.
Ancora è un contratto ad esecuzione continuata ed inoltre periodica, generalmente prevedendo la corresponsione del canone convenuto in rate periodiche di uguale importo.
Infine, è un contratto ad effetti obbligatori, non producendo alcun effetto traslativo sull’azienda e/o sui beni che la compongono, ma semplicemente obbligando le parti all’adempimento delle prestazioni stabilite.
Quanto alla forma del contratto, è discusso se ad esso si applichi o meno il disposto di cui all’art. 2556, comma 1, c.c., che con riguardo alle imprese soggette a registrazione prescrive che i contratti aventi per oggetto il godi- mento dell’azienda devono essere provati per iscritto.
Secondo una parte della dottrina, infatti, la norma si riferirebbe soltanto ai contratti con i quali si costituiscono diritti reali di godimento, come ad esempio l’usufrutto di azienda, mentre non troverebbe applicazione con riferimento ai contratti con i quali si concedono diritti personali di godimento, come l’affitto (133).
La forma scritta è richiesta, del resto, al solo fine di provare in giudizio l’esistenza e il contenuto del contratto e la sua mancanza comporterà unicamente per l’interessato l’incapacità di fornire altrimenti detta prova, ostandovi l’operatività dei limiti dell’esperimento della prova testimoniale previsti dall’art. 2725 c.c.
Facendo salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento di singoli beni che compongono l’azienda o per la particolarità del contratto, l’art. 2556, comma 1, impone comunque la forma scritta ad substantiam ed anche la trascrizione nel caso in cui il contratto sia stipulato per una durata superiore a nove anni e comprenda anche beni immobili di proprietà del locatore (art. 1350, comma 1, n. 8; art. 2643, comma 1, n. 8).
L’art. 2556, comma 2, c.c. dispone inoltre che il contratto di affitto di azienda, redatto in forma pubblica o per scrittura privata autenticata debba essere depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese, entro trenta giorni, a cura del notaio rogante o autenticante. Le parti contraenti possono,
(133) XXXXXXX XX. F., La teoria giuridica dell’azienda, 2ª ed., Milano, 1982, 424.
(134) CASANOVA M., Impresa e azienda (Le imprese commerciali), in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. Xxxxxxxx, X, 1, Torino, 1986, ristampa, 750; TEDESCHI G.U., Le disposizioni generali sull’azienda, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, XXXXX, 0, Xxxxxx, 0000, 65 ss.
altresì, provvedere personalmente ad effettuare il deposito, qualora il notaio non adempia entro il termine di legge.
In mancanza di iscrizione presso il registro delle imprese, l’atto non è opponibile ai terzi, salvo che si dimostri che il terzo ne abbia avuto in altro modo effettiva conoscenza. La pubblicità in esame ha, dunque, valore dichiarativo secondo la regola generale di cui all’art. 2193 c.c. (135).
Particolare importanza assumono, inoltre, ai fini della disciplina della figura in esame, le disposizioni di cui agli artt. 2557 ss. c.c., dettate in mate- ria di cessione di azienda, ma considerate applicabili, in quanto compatibili, anche al contratto di affitto di azienda.
Con riferimento, dunque, in primo luogo, al divieto di concorrenza, l’art. 2557, comma 4, c.c. dispone che nel caso di affitto di azienda il divieto ha effetto, nei confronti del locatore, per tutta la durata dell’affitto (136).
Tale disposizione trova il suo fondamento nell’esigenza di tutelare il soggetto che subentra nella gestione dell’azienda: il conduttore, infatti, corrisponde periodicamente un canone d’affitto per il godimento del com-
(135) L’affitto di azienda, che comprenda anche beni immobili, per essere opposto oltre il novennio dall’affittuario al terzo acquirente dell’azienda deve essere stato reso pubblico mediante trascrizione, ai sensi dell’art. 2643, comma 1, n. 8, da considerare applicabile anche a tale ipotesi.
(136) Sui profili della concorrenza e sui rapporti con il contratto di affitto di azienda, cfr. XXXXXXX X., Alienazione dell’azienda e divieto di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, II, 1223 ss.; FERRARI G., Affitto d’azienda e divieto di concorrenza a carico dell’ex affittuario, nota a App. Firenze, 3 aprile 1965, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000 xx.; XXXXX G.,
Patto di concorrenza, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 507 ss.; FLORIDIA G., Cessione dell’azienda in fase organizzativa e divieto di concorrenza, nota a Cass., 5 marzo 1963, n. 513, in Riv. dir. civ., 1964, II, 543 ss.; XXXXXXXXXXXXX V., Pizza e concorrenza (richiami in tema di divieto di concorrenza e cessione di azienda), nota a App. Genova, 29 giugno 1978, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000 xx.; XXXXXXX G., La concorrenza, in Tratt. dir. comm. pubbl. econ., diretto da X. Xxxxxxx, IV, La concorrenza e i consorzi, Padova, 1981, 1 ss.; ID., Restrizioni negoziali della concorrenza: profili di diritto interno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, 978 ss.; XXXXXXXXXXXXX GIA., Limiti negoziali della concorrenza, Padova, 1961; E XXXXXXXXXXXX GIO., Xxxxxxxxxxx, in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., III, Torino, 1988, 300 ss.; XXXXXXXXX G., Concorrenza e consorzi, in Tratt. dir. civ., diretto da X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, VI, 7, 2ª ed., Milano, 1965, 127 ss.; RICOLFI T., Patti di non concorrenza e circolazione dell’azienda, in Giur. comm., 2007, 4, 2, 800 ss.; XXXXXXX DI XXXX X., Divieto di concorrenza e retrocessione dell’azienda, nota a App. Genova, 17 dicembre 1993, in Dir. ind., 1994, 453 ss.; VERDIRAME G., Successione nei contratti e divieto di concorrenza al termine dell’affitto d’azienda, nota a Cass., 20 dicembre 1991, n. 13762, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 4 ss.
Naturalmente viola il divieto di concorrenza solo la nuova impresa avviata dopo la conclusione del contratto di affitto di azienda, mentre non è impedito al concedente di continuare ad esercitare un’attività già in essere prima dell’affitto, anche se in concorrenza con quella oggetto dell’azienda concessa in godimento.
Quanto alla successione nei contratti da parte dell’affittuario, l’art. 2558, comma 3, c.c. espressamente dispone che si applichino nei suoi con- fronti, per tutta la durata dell’affitto, le disposizioni relative al passaggio automatico dei contratti stipulati per lo svolgimento dell’attività di impresa.
Per effetto, dunque, della conclusione dell’affitto di azienda, ai sensi dell’art. 2558, comma 1, c.c., se non è pattuito diversamente, l’affittuario subentra automaticamente in tutti i contratti stipulati dal concedente per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale.
Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto, ai sensi dell’art. 2558, comma 2, x.x., xxxxx xxx xxxx xxxxx xxxxxxx xxx xxxxxxxx dell’affittuario nella posizione del concedente, sempre che sussista una giusta causa di recesso e salva in ogni caso l’eventuale responsabilità del concedente nei confronti dell’affittuario.
(137) Cfr., su questo aspetto, Cass., 20 dicembre 1991, n. 13762; Cass., 23 settembre 1995,
n. 10105, secondo la quale l’art. 2557 c.c. si applicherebbe anche al momento della scadenza dell’affitto di azienda, vincolando al rispetto del divieto di concorrenza anche l’affittuario, salva espressa pattuizione contraria.
Non è invece disciplinata dal legislatore la successione nei crediti
relativi all’azienda da parte dell’affittuario.
L’art. 2559, comma 1, c.c., infatti, espressamente prevede che la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, dal momento dell’iscrizione della cessione d’azienda nel registro delle imprese ed inoltre stabilisce che il debitore ceduto sia in ogni caso liberato dal proprio obbligo se paga in buona fede al cedente il proprio debito.
Il 2° comma dell’articolo provvede ad estendere le stesse regole anche al caso di usufrutto di azienda, se questo comprenda anche crediti relativi all’azienda medesima, ma nessun cenno viene fatto da tali disposizioni all’affitto di azienda.
Ebbene, dalla lettura delle norme appare dubbia l’applicabilità delle regole previste in materia di cessione e usufrutto di azienda anche all’affitto di azienda e più verosimilmente deve, dunque, ritenersi che nel caso di affitto del complesso aziendale non si verifica in realtà il passaggio automatico dei crediti relativi all’azienda in capo all’affittuario, ma sia
(138) Cfr. Cass., 14 maggio 1997, n. 4242; Trib. Milano, 21 ottobre 1993, in Foro pad., 1994, I, 58, secondo il quale con l’affitto di azienda si verifica una successione ope legis dell’affittuario nei contratti stipulati dal xxxxx causa e relativi all’esecuzione dell’impresa; in queste ipotesi non è, dunque, applicabile l’art. 1406 c.c., che richiede il consenso dell’altro contraente per la cessione del contratto, in quanto il subentro nei contratti in corso da parte dell’affittuario non è soggetto al consenso del contraente ceduto al fine della sua efficacia e della liberazione del concedente. Il corollario rispetto a tali principi è la respon- sabilità esclusiva dell’affittuario, dal momento dell’affitto, per l’inadempimento dei contrat- ti già stipulati dal suo dante causa senza che a quest’ultimo possano imputarsi le conseguenze dell’eventuale inadempimento contrattuale. Cfr., su questi aspetti, anche Xxxx., 16 giugno 2004, n. 11318, secondo la quale il subingresso dell’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale è effetto naturale dell’affitto di azienda e può essere escluso solo in presenza di una specifica opposizione da parte dell’altro contraente. Cfr, ancora, Cass., 29 gennaio 2003, n. 1278; Cass., 2 marzo 2002, n. 3045; Cass., 12 aprile 2001, n. 5495; Cass., 7 marzo 2001, n. 3312.
all’uopo necessaria una pattuizione espressa tra le parti per la realizzazione di tale effetto contrattuale.
In ogni caso, qualora le parti prevedano espressamente il subentro dell’affittuario nei singoli crediti facenti parte del complesso aziendale troveranno applicazione, non le disposizioni di cui all’art. 2559 c.c., ma la disciplina generale sulla cessione dei crediti di cui agli artt. 1260 ss. c.c., con la conseguenza, fra l’altro, che la cessione dei crediti diviene opponibile ai debitori per effetto della notifica ai debitori ceduti ovvero dell’accetta- zione della cessione da parte di questi, ai sensi dell’art. 1264, c. 1, c.c.
Tra le disposizioni relative alla cessione di azienda è, infine, necessario valutare l’applicabilità al contratto di affitto dell’art. 2560 c.c., che discipli- na l’ipotesi della successione nei debiti relativi all’azienda ceduta.
In particolare, mentre il 1° comma dell’art. 2560 c.c. prevede che il cedente continui a rispondere dei debiti aziendali anteriori al trasferimento, se non risulti che i creditori abbiano prestato il proprio consenso alla libera- zione del cedente medesimo, il 2° comma della stessa norma stabilisce inve- ce che il cessionario di un’azienda commerciale risponda dei debiti aziendali anteriori al trasferimento dell’azienda, solo se questi risultino iscritti nei libri contabili obbligatori al momento della cessione.
È necessario, dunque, capire se la disciplina di cui all’art. 2560 c.c., ed in particolare quella di cui al 2° comma di tale articolo, sia applicabile anche nell’ipotesi di affitto di azienda.
Va così, in primo luogo, considerato che la responsabilità del cessionario per debiti contratti dal cedente anteriormente al negozio di cessione costituisce una forma di responsabilità nei rapporti esterni per debiti altrui ed ha quindi carattere eccezionale.
La norma non menziona altre ipotesi di applicazione della disciplina dettata, al di fuori della cessione, così che la conseguenza necessaria pare, dunque, che tale disposizione non si applichi alle ipotesi di usufrutto e di affitto di azienda.
Pertanto, sembrerebbe potersi concludere che l’affitto di azienda non comporta per l’affittuario la responsabilità per i debiti sorti anteriormente alla stipula del contratto di affitto, sebbene iscritti nei libri sociali obbliga- tori, e gli stessi rimarranno ad esclusivo carico del concedente; mentre per i debiti contratti successivamente alla conclusione dell’affitto di azienda sarà obbligato il solo affittuario, salvo che, previo accordo tra le parti dell’affitto, i creditori abbiano acconsentito all’accollo dei debiti da parte del conceden- te, ai sensi dell’art. 1273 c.c. (c.d. accollo esterno) (139).
Nel caso di cessione di azienda, d’altra parte, la responsabilità solidale del cessionario per il pagamento dei debiti anteriori al trasferimento e regolarmente iscritti nei libri contabili è giustificata anche dal fatto che con il trasferimento dell’azienda il cedente ha diminuito la propria capacità patrimoniale ed abbia così esposto ad un possibile pregiudizio i suoi creditori, mentre con l’affitto di azienda i beni rimangono pur sempre nella titolarità del concedente ed in tal modo restano aggredibili da parte dei suoi creditori.
In conclusione, sarebbe dunque opportuno, sul piano della tecnica redazionale, che nel caso di affitto di azienda anche i profili della successione nei debiti fossero oggetto di apposita pattuizione contrattuale: le parti potrebbero alternativamente convenire il subentro dell’affittuario in nessuno dei debiti aziendali o in tutti i debiti ovvero solo in parte di essi, mediante accollo in capo all’affittuario.
(139) Cfr., sul punto, Cass., 3 luglio 1958, n. 2386, secondo la quale la disposizione di cui all’art. 2560, comma 2, c.c. non è applicabile ai contratti aventi ad oggetto il trasferimento del diritto di godimento dell’azienda, quali l’usufrutto e l’affitto di azienda. La cessazione dell’affitto di azienda, in ogni caso, e la sua restituzione al concedente non importano anche responsabilità del concedente stesso per i debiti contratti dall’affittuario. In questo senso, cfr. anche Cass., 14 maggio 1997, n. 4242 e Cass., 8 giugno 1994, n. 5534.
2.2. L’azienda, l’avviamento e la clientela. Il problema delle licenze amministrative dell’imprenditore
Pur avendo parzialmente affrontato i problemi relativi alla specificità dell’oggetto con riferimento alla ricostruzione di una nozione di affitto di azienda, appare ora necessario soffermarsi su alcuni tratti che caratterizzano il negozio in esame nell’esperienza concreta.
Si tratta della regolamentazione dei profili relativi alla corretta valutazione dell’avviamento dell’azienda dedotta in contratto ed alla c.d. voltura delle licenze amministrative dell’imprenditore.
(140) Si ritiene applicabile al contratto di affitto di azienda anche l’art. 2112 c.c. che disciplina analiticamente la sorte dei rapporti di lavoro subordinato pendenti nel caso di trasferimento del complesso aziendale. È evidente che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., l’affittuario subentra nei rapporti di lavoro subordinato relativi ai dipendenti che svolgono la propria attività all’interno dell’azienda ed è evidente altresì che tale disciplina sia però sottratta all’autonomia delle parti, che ad essa non potranno pertanto derogare. Non sarà, dunque, possibile per i contraenti introdurre una facoltà in favore del concedente e/o dell’affittuario di recesso dai contratti di lavoro, in ragione della conclusione dell’affitto di azienda, né sarà possibile inserire alcuna pattuizione che deroghi al subentro automatico e necessario dell’affittuario nei contratti di lavoro stipulati dal concedente. Cfr. art. 47, L. 428/1990, che disciplina il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali e le tutele riconosciute ai lavoratori nel caso in cui un soggetto intenda effettuare il trasferimento di un’azienda nella quale sono complessivamente occupati più di 15 lavoratori.
(141) Sull’azienda in generale e sulla nozione di avviamento, cfr. XXXXXXX X., Azienda: I) Diritto Commerciale, in Enc. Giur., IV, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da X. Xxxxxxxx, Roma, 1988, 1 ss.; ID., Avviamento commerciale: I) Diritto commerciale, in Enc. Giur., IV, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da X. Xxxxxxxx, Roma, 1988; ID.,
Avviamento, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 630 ss.; ID., Azienda. Opere dell’ingegno e invenzioni industriali. Concorrenza, in Commentario del codice civile, a cura di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxx, Libro V, Del lavoro, Artt. 2555-2601, Bologna – Xxxx , 0000, ristampa; BALLETTA A., La tutela dell’avviamento nel contratto di locazione, nota a Cass., 3 ottobre
In tema, dunque, l’art. 2555 c.c. offre la nozione normativa di azienda, stabilendo che essa costituisce “il complesso dei beni organizzati dall’im- prenditore per l’esercizio dell’attività di impresa”, quest’ultima da intendersi a sua volta, ai sensi dell’art. 2082 c.c., quale “attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi”.
In altre parole, l’azienda costituisce l’apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale per lo svolgimento e l’esercizio della propria attivi- tà di impresa.
L’azienda, quindi, non è soggetto giuridico a sé stante, distinto dall’im- prenditore, ma solo l’oggetto di un particolare diritto di quest’ultimo, altro e distinto dai diritti spettanti sui singoli beni che concorrono a formarla.
Ebbene, la pur sintetica definizione normativa di azienda consente di trarre due corollari fondamentali.
In primo luogo, perché un complesso di beni possa venire definito azienda deve evidentemente sussistere fra i vari elementi che lo compon- gono un rapporto di complementarietà e di reciproca funzionalità (142), sì
1968, n. 3083, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 00 xx.; ID., Teorie materialistiche e teorie immaterialistiche dell’azienda, in Riv. dir. comm., 1967, II, 425 ss.; XXXXXXXX M., L’avviamento commerciale, in Riv. dott. comm., 1979, 336 ss.; XXXXXXXX M., Azienda, in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., II, Torino, 1987, 75 ss.; ID., Impresa e azienda (Le imprese commerciali), in Tratt. dir. civ. it., diretto da X. Xxxxxxxx, X, 1, Torino, 1986, ristampa, 842 ss.; ID., Teoria dell’impresa e teoria dell’azienda in un trattato di diritto dell’economia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 333 ss.; XXXXXXX A., La natura giuridica dell’azienda, in Nuova rass., 1965, II, 1836 ss.; XXXXXXX G.E., L’azienda, in Tratt. dir. comm. pubbl. econ., diretto da X. Xxxxxxx, III, L’azienda e il mercato, Padova, 1979, 706 ss.; XXXXXXXX N., La «proprietà commerciale» nella dinamica dell’azienda, Milano, 1966; FERRARA JR. F., La teoria giuridica dell’azienda, 2ª ed., Milano, 1982; FERRARI G., Azienda (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 680 ss.; LEVI G., L’azienda. Rilevanza giuridica dell’articolazione: stabilimento, sede, zona, ramo, Rimini, 1983; SIRI L., Profili di studio sulla teoria giuridica dell’azienda, Xxxxxx, 0000; TABELLINI T., Il concetto d’azienda, Napoli, 1966; TEDESCHI G.U., Le disposizioni generali sull’azienda, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, XXXXX, 0, Xxxxxx, 0000; TOMMASINI R., Contributo alla teoria dell’azienda come oggetto di diritti (azienda e proprietà), Milano, 1986; VANZETTI A., Trent’anni di studi sull’azienda (parte I), in Riv. dir. comm., 1958, I, 32 ss.
(142) Cfr., sul punto, Cass., 29 settembre 1993, n. 9760, la quale ha peraltro affermato che il rapporto (forse, rectius, il vincolo funzionale) che lega i vari beni organizzati nell’azienda
è, in linea di principio, di assoluta parità, nel senso che, più precisamente, seppure un bene assuma, tra gli altri, la funzione di bene principale, non può ad ogni modo darsi il caso che gli altri beni siano destinati ad assumere un carattere meramente accessorio. Come si vedrà
che, almeno di norma, l’universalità dei beni funzionalmente collegati abbia, nella sua unitarietà, un valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che, in un dato momento, costituiscono l’azienda.
In secondo luogo, è del pari evidente che perché l’organizzazione dei beni possa essere qualificata come azienda debba sussistere un rapporto di strumentalità tra l’azienda, intesa come apparato di cui l’imprenditore si avvale per lo svolgimento della sua attività, e l’attività medesima preor- dinata al raggiungimento di un determinato fine produttivo (c.d. destinazio- ne unitaria dell’azienda ad uno specifico fine produttivo) (143).
In sintesi, può dunque affermarsi che per l’esercizio dell’impresa l’imprenditore opera necessariamente attraverso un complesso di beni che costituiscono lo strumento tecnico mediante il quale egli svolge la propria attività produttiva e che, unitariamente considerati, costituiscono l’azienda.
Ebbene, ai fini che ci occupano, nella descrizione dell’azienda e nella individuazione, dunque, dei suoi elementi costitutivi (144) acquista particolare importanza il problema dell’inquadramento del c.d. avviamento, definibile, in prima approssimazione, come l’attitudine del complesso
più avanti, la mera accessorietà di tutti gli altri beni rispetto all’immobile di proprietà dell’imprenditore qualifica e fonda la distinzione tra la locazione commerciale e l’affitto di azienda; cfr., infra, § 2.3.
(143) Cfr. Cass., 28 aprile 1998, n. 4319, secondo la quale, sulla base della nozione offerta dal legislatore, carattere precipuo dell’azienda è l’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa e, per il suo tramite, orientata al raggiungimento di un
determinato fine produttivo. In altre parole, nel sistema del codice la nozione giuridica di azienda rappresenterebbe una nozione derivata, dal momento che essa presuppone la nozione di impresa, della quale costituisce lo strumento di esercizio dell’attività. Cfr., CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, a cura di Xxxxx Xxxxxxxxxx, 6ª ed., Torino, 2008, 138; FERRI G., Manuale di diritto commerciale, a cura di
X. Xxxxxxxx x X.X. Xxxxx, 00x xx., Xxxxxx, 0000. Non distingue la nozione di impresa (intesa quale attività) da quella di azienda (quale organizzazione di beni) XXXXXXX-XXXXXXXXXX F., L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., I, 1942, 376, il quale anzi esclude che vi sia una differenza tra impresa ed azienda. Tuttavia, a conferma proprio della distinzione pratica, oltre che giuridica, delle due figure basti solo considerare come sia possibile distinguere, come accade proprio nei casi qui in discussione (dell’affitto di azienda, ma è lo stesso anche per l’usufrutto), di distinzione della situazione di titolarità dell’impresa, che rimane in capo al concedente, da quella di detenzione dell’azienda, che viene invece trasferita in godimento all’affittuario.
(144) Sugli elementi costitutivi dell’azienda cfr. CAMPOBASSO G.F., Diritto commerciale, I,
Diritto dell’impresa, a cura di Xxxxx Xxxxxxxxxx, 6ª ed., Torino, 2008, 140.
Più in particolare, si distinguono due tipi di avviamento.
L’avviamento oggettivo si identifica con la stessa organizzazione dei beni aziendali ed è in qualche modo ricollegabile a fattori oggettivi, suscettibili astrattamente di permanere anche se muta il titolare dell’azienda, poiché afferenti in realtà al coordinamento funzionale esistente tra i diversi beni del complesso aziendale: si pensi, ad esempio, alla capacità di un complesso industriale di consentire una produzione a costi competitivi sul mercato. Tale forma di avviamento si trasferisce automaticamente con l’azienda al momento della sua cessione.
L’avviamento soggettivo, invece, in qualche modo dipende dalle qualità personali e dall’abilità operativa dell’imprenditore: esso indica in vero la capacità di questi di utilizzare al meglio i mezzi di cui dispone, competendo con successo sul mercato e procacciandosi e conservando la propria clientela. Va da sé che tale elemento appaia, per sua natura, intrasferibile.
È stata oggetto di vivace dibattito, sia in dottrina che in giurisprudenza, la natura giuridica dell’avviamento ed, in particolare, ci si è chiesti se esso debba essere qualificato come un bene facente parte del complesso azien-
(145) È interessante quanto afferma, in una risalente pronuncia, resa a Sezioni Unite, la Suprema Corte di Cassazione. Cfr. Cass., S.U., 21 luglio 1967, n. 1889, secondo la quale, in verità: “l’avviamento è l’attitudine dell’azienda a funzionare ed a produrre utili; esso, quindi, non può essere concepito al di fuori dell’azienda, né può essere considerato o trasferito separatamente da questa. La sua cessione è accompagnata necessariamente dalla cessione dell’azienda, della quale non è un elemento ma una qualità”. Cfr. anche, nello stesso senso, Cass., 6 dicembre 1995, n. 12575, secondo la quale, poiché l’avviamento rappresenta una qualità dell’azienda, il maggiore valore economico che esso fa acquisire agli elementi che la compongono compete a chi li abbia organizzati ai fini della produzione di beni o servizi.
xxxx, al pari di tutti gli altri in esso ricompresi, oppure se debba piuttosto essere inteso come una qualità, cioè un attributo, dell’azienda (146).
Per la dottrina prevalente, invece, così come per la giurisprudenza di legittimità, l’avviamento non può essere considerato come un autonomo e distinto bene, poiché in realtà esso non è suscettibile di un autonomo trasferimento (148). Pertanto, esso costituisce piuttosto una semplice qualità dell’azienda, seppure sia dotato di un proprio distinto valore economico e sia oggetto persino di una, pur parziale, tutela giuridica.
Secondo tale orientamento, quindi, l’avviamento non si identifica (e non può semplicisticamente identificarsi) con la clientela, ma è il risultato del concorso di vari elementi che caratterizzano la vita d’impresa, quali, ad esempio, i rapporti con i fornitori, il grado di capacità e di professionalità dei lavoratori dipendenti e/o dei collaboratori dell’impresa, l’organizzazione della produzione, l’ubicazione dell’azienda, l’abilità gestoria dell’imprendi- tore (che riguarda anche, ma non solo, la capacità di formarsi, conservare ed accrescere la stessa clientela), e così via.
La clientela, dunque, che potremmo forse più opportunamente descrivere come la domanda costante di beni o servizi prodotti dall’azienda, è certa- mente il veicolo necessario attraverso il quale l’imprenditore realizza il suo profitto; tuttavia, essa è solo una delle componenti che definiscono l’avvia-
(146) In questo senso, letteralmente, cfr. Cass., 6 dicembre 1995, n. 12575.
(147) Cfr. GRECO P., La clientela commerciale come oggetto di diritti, in Studi di diritto commerciale in onore di Xxxxxx Xxxxxxx, I, Roma, 1931, 571 ss. Per la distinzione, invece, tra clientela ed avviamento, in giurisprudenza, cfr. Cass., 26 luglio 1963, n. 2065.
(148) Cfr., in particolare, Cass., 26 gennaio 1971, n. 174.
mento dell’azienda, sebbene possa essere riconosciuta senza dubbio come la più importante.
Quanto alla possibilità di attribuire un certo valore economico all’avviamento, essa è confermata dalla stessa disciplina dettata in materia contabile dagli artt. 2424, comma 1, e 2426, n. 6, c.c.
La prima disposizione, alla voce “attivo, A), 5)” richiede di indicare nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio il valore dell’avviamento, mentre la seconda indica i criteri di stima da seguire per la valutazione dell’avviamento stesso. In sostanza, entrambe le norme confermano la possibilità di attribuire all’avviamento un autonomo valore patrimoniale.
Pertanto, la circostanza che all’avviamento, inteso anche come capacità dell’azienda di produrre reddito in futuro, sia possibile attribuire un autono- mo valore, che risulta peraltro fondamentale ai fini della determinazione del valore complessivo dell’azienda, spiega il grande rilievo che esso acquista, nella pratica, quando si voglia trasferire il complesso aziendale.
(149) Sul valore dell’avviamento cfr. Cass., 3 ottobre 1995, n. 10893: “invero, l’avviamento costituisce una componente del valore dell’azienda, data dal maggior valore di scambio che il complesso aziendale unitariamente considerato presenta rispetto alla somma dei valori di scambio dei singoli beni che lo compongono. Appunto per questo di esso si deve tener conto nella determinazione del “valore venale” dell’azienda ceduta (art. 48, d.P.R. 26 ottobre 1972, n.634), senza che possano assumere rilievo circostanze contingenti (come i legami di parentela o di lavoro tra cedente e cessionario) che pure possono aver influito, nel caso concreto, sulla determinazione del corrispettivo”. L’avviamento non si trasferisce separatamente dall’azienda; cfr. Trib. Cagliari, 20 maggio 2003, in Riv. giur. sarda, 2004, 119, secondo il quale è nullo, per impossibilità dell’oggetto, il patto con il quale si trasferiscono l’avviamento ed il portafoglio clienti senza il contestuale trasferimento dell’azienda.
L’avviamento è peraltro fatto oggetto di specifica tutela da parte del legi- slatore, che in alcune disposizioni salvaguarda il plusvalore conseguito dal- l’azienda proprio in ragione dell’avviamento.
Potrebbe, in primo luogo, citarsi l’art. 2557 c.c., che pone il divieto di svolgere attività concorrenti a carico di colui che ceda un’azienda. Sebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento all’avviamento, la sua ratio sembrerebbe proprio quella di assicurare all’acquirente, all’usufruttuario o all’affittuario di azienda il godimento del c.d. avviamento soggettivo.
Le disposizioni più significative al riguardo sono in ogni caso quelle dettate a tutela delle ragioni del conduttore di immobile ad uso commerciale, sulle quali si tonerà più avanti.
Infatti, ai sensi dell’art. 34, L. 392/1978, al momento della cessazione della locazione, il conduttore ha diritto di essere compensato dal locatore per la perdita dell’avviamento derivante dalla conclusione del rapporto di loca- zione, con un’indennità pari a diciotto mensilità (che divengono ventuno per le attività alberghiere), purché il rapporto di locazione non si interrompa a causa di una inadempienza o in conseguenza dell’esercizio del recesso da parte del conduttore stesso. Tale indennità deve essere, peraltro, corrisposta a prescindere dalla prova dell’effettiva perdita dell’avviamento e, quindi, della sussistenza di un reale danno.
La norma ha la funzione di porre rimedio, almeno in parte, ai danni causati al locatore di immobile ad uso commerciale dalla perdita dell’avvia- mento, che risultano peraltro accentuati se l’immobile stesso dovesse essere successivamente adibito da altri all’esercizio della stessa attività o di attività incluse nella medesima tabella merceologica e/o comunque affini a quella già esercitata dal conduttore uscente. In quest’ultimo caso, infatti, ove il nuovo esercizio venga intrapreso entro un anno dalla cessazione di quello precedente il conduttore uscente ha diritto ad una ulteriore indennità di importo pari a quella prevista in xxx xxxxxxxx (xxx. 00, x. 0, X. 392/1978).
È, infine, di tipo indiretto la tutela che l’avviamento riceve attraverso la repressione della concorrenza sleale e la tutela dei segni distintivi.
Un tema a parte nella definizione del contenuto e dell’oggetto del contratto di affitto di azienda è costituito dalla regolamentazione dei profili relativi alle licenze amministrative necessarie per l’esercizio dell’impresa.
In particolare, va considerato che le c.d. autorizzazioni amministrative personali, cioè quelle rilasciate ad una persona fisica, ancorché titolare di un’impresa, non si considerano (né possono considerarsi) parte dell’azienda. Ne consegue che l’autorizzazione amministrativa all’esercizio di un’atti- vità, avendo carattere personale, sebbene possa essere oggetto, al pari del- l’avviamento, di un’autonoma valutazione economica, che le parti potreb- bero anche liberamente decidere di inserire in contratto, non è comunque
annoverabile tra i beni che compongono l’azienda.
Ciò comporta, ad esempio, che nel caso di affitto d’azienda, in mancanza di espresse pattuizioni, l’affittuario non è tenuto a rinunciare o a non opporsi al rilascio di una nuova autorizzazione al concedente, una volta terminato il rapporto di locazione, e va peraltro escluso che l’adempimento dell’obbligo di riconsegna dell’azienda da parte dell’affittuario al concedente possa ritenersi perfezionato soltanto quando questi abbia ottenuto il rilascio del- l’autorizzazione amministrativa già intestata all’affittuario.
In ragione di queste considerazioni, appare pertanto opportuno (ed è ciò che accade costantemente nella prassi) che le parti disciplinino tale aspetto
(150) Sulla tutela dell’avviamento commerciale in generale, cfr. XXXXXXXXXXXXX X., Imprese e imprenditori, 3ª ed., Milano, 1964, 124 ss.
in contratto, per esempio, prestando il più ampio consenso alla c.d. voltura delle licenze e delle autorizzazioni amministrative richieste dalla legge per l’esercizio dell’azienda
In tal modo, al momento della conclusione del contratto accadrà che il concedente consentirà alla voltura delle licenze in favore dell’affittuario per tutta la durata del rapporto di affitto che si andrà instaurando, mentre l’affittuario, a sua volta, presterà il proprio consenso, ora per allora, alla voltura delle autorizzazioni nuovamente in capo al concedente, una volta che sarà cessato il rapporto di affitto (151).
2.3. Affitto di azienda e differenze con la locazione commerciale
In primo luogo ed in via generale, si può dire che mentre la locazione di un immobile ha come scopo il godimento statico del bene locato, l’affitto di
(151) Cfr., sul punto, Cass., 6 febbraio 2004, n. 2240. Sugli aspetti relativi alla tecnica redazionale, cfr., amplius, Cap. 3, § 1.
(152) Appaiono evidenti le conseguenze sul piano della disciplina applicabile. L’eventuale qualificazione del contratto come locazione di immobile ad uso commerciale comporta, ad
esempio, l’applicazione delle disposizioni garantistiche previste dalla L. 392/1978. Si pensi, allora, alla durata del contratto: mentre nell’affitto di azienda la determinazione della durata del contratto è rimessa all’autonomia delle parti, nel contratto di locazione di immobile ad uso commerciale la durata dell’accordo non può essere interiore a sei anni, con rinnovo obbligatorio per i sei anni successivi; se poi si tratti di immobile adibito ad albergo, la durata minima è di nove anni, con rinnovo per ulteriori nove anni. Si pensi, ancora, alla indennità di avviamento: mentre la disciplina delle locazioni prevede l’obbligo del locatore, alla cessazione del contratto, di corrispondere al conduttore un’indennità di avviamento pari a 18 mensilità dell’ultimo canone corrisposto, alla cessazione del contratto di affitto non è invece previsto il diritto dell’affittuario di ricevere alcuna indennità di avviamento da parte del concedente.
azienda ha ad oggetto un complesso di beni organizzato per la produzione e lo scambio di beni e servizi e pertanto si atteggia come una forma di godimento dinamico del bene locato.
In altre parole, nell’affitto di azienda l’oggetto del contratto è costituito da un complesso unitario di beni organizzati per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, così che l’immobile eventualmente ricompreso all’interno del complesso produttivo è da considerare solo come uno dei beni aziendali, sia pur rilevante, ma da osservare nel suo rapporto di complementarietà e di interdipendenza con gli altri (c.d. aspetto dinamico del bene).
Nella locazione di immobile con pertinenze, invece, l’oggetto del contratto è l’immobile stesso considerato nella sua specificità ed individua- lità giuridica, con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri beni, i quali hanno carattere accessorio e non sono collegati ad esso da un vincolo unitario a scopi produttivi (c.d. aspetto statico del bene) (153).
Vanno, poi, considerate due ulteriori sottoipotesi, e cioè che l’impren- ditore che decida di trasferire in godimento la propria attività può, alternati- vamente, essere titolare del diritto di proprietà sugli immobili nei quali viene esercitata l’impresa ovvero può, a sua volta, godere degli immobili a titolo di locazione ad uso commerciale.
Partendo dall’esame di questa seconda ipotesi, se l’imprenditore goda degli immobili a titolo di locazione e decida altresì di affittare la propria azienda, può anche cedere in godimento l’immobile adibito allo svolgi- mento dell’attività produttiva.
In particolare, si applica in questo caso l’art. 36, L. 392/1978, il quale stabilisce che il conduttore può sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché sia contestualmente locata l’azienda, dandone comunicazione al locatore mediante lettera racco- mandata con avviso di ricevimento.
(153) Cfr. Cass., 16 giugno 1998, n. 5986.
In altre parole, se viene contestualmente concluso un contratto di affitto di azienda, può aver luogo, nel rispetto delle formalità prescritte, il subentro automatico da parte dell’affittuario di azienda nel contratto di locazione di immobile adibito all’esercizio di quell’azienda, in deroga a quanto previsto in generale dall’art. 1406 c.c., che richiederebbe invece per la cessione del contratto di locazione il consenso del contraente ceduto.
Quanto, poi, all’ipotesi in cui l’imprenditore sia proprietario dell’immo- bile o degli immobili nei quali viene esercitata l’impresa e decida di trasferi- re ad altri il godimento del complesso dei beni aziendali, sorge il problema di stabilire se il contratto concluso debba essere qualificato come locazione di immobile ad uso commerciale ovvero come affitto di azienda.
Ebbene, sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire in più occasioni che tale fattispecie debba essere qualificata come locazione di immobile ad uso commerciale se l’immobile concesso in godimento sia specificamente considerato dalle parti, nell’economia complessiva del contratto, come l’oggetto principale dell’accordo stipulato, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri beni, i quali assumano carattere di accessorietà rispetto ad esso.
Al contrario, la concessione in godimento dell’immobile nel quale viene esercitata attività di impresa deve essere qualificata come affitto di azienda quando l’oggetto del contratto non sia identificabile con l’immobile stesso, ma sia rappresentato da un complesso più ampio ed organico di beni, coordinati ad un fine produttivo e capaci di realizzare una certa finalità economica, rispetto ai quali l’immobile ceduto in godimento costituisca una componente, sia pure rilevante, ma legata agli altri beni ed elementi dell’azienda da un rapporto di complementarietà e di interdipendenza.
In questo caso, i locali aziendali vengono concessi in affitto non con un separato contratto di locazione, ma quale parte integrante del complesso aziendale e, più precisamente, del complesso dei beni organizzati dall’im- prenditore rilevante ai sensi dell’art. 2555 c.c., di modo che nella determina-
zione della misura del corrispettivo per l’affitto di azienda si debba tenere conto anche della presenza all’interno di essa di tali cespiti immobiliari (154). In altre parole, se le parti intendano concludere un contratto di affitto di azienda ed all’interno di questa sia ricompreso anche l’immobile di proprietà del concedente, detto bene non dovrà essere considerato nella sua individualità giuridica e materiale, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per il raggiungimento del fine produttivo: ciò che, in concreto, rappresenterà il vero oggetto
dell’accordo stipulato dalle parti.
In questo caso, dunque, non si applicherà la disciplina vincolistica prevista dalla L. 392/1978 ed, in particolare, le citate disposizioni in materia di durata del rapporto contrattuale e di corresponsione dell’indennità di avviamento, né le regole sul diritto di prelazione.
L’affittuario deve, quindi, autonomamente tutelare la propria posizione contrattuale in sede di programmazione negoziale, non potendo beneficiare delle disposizioni di favore previste dalla legge in materia di locazione, e sarà dunque opportuno che, a fini di chiarezza, venga in contratto precisato che del complesso aziendale concesso in affitto fa parte anche l’immobile in cui viene esercitata l’attività di impresa e che al caso di specie non sono applicabili le norme vincolistiche di cui alla legge n. 392 del 1978.
(154) Cfr., in giurisprudenza, ex multis, Cass., 17 aprile 1996, n. 3627; Cass., 6 maggio 1997, n. 3950; Cass., 8 marzo 2001, n. 3392.
(155) Cfr. Cass., 1° agosto 1995, n. 8388; Cass., 23 aprile 1999, n. 4044. Risalente è la pronuncia resa da Cass., 29 marzo 1949, n. 697, la quale, con riguardo al contratto di affitto di azienda paralberghiera (campeggio), ha affermato che: “il contratto di affitto di azienda
3. Effetti ed esecuzione dell’accordo. I diritti e gli obblighi delle parti contraenti
Dal contratto di affitto di azienda scaturiscono diritti ed obblighi reciproci per i contraenti, previsti in parte dal codice ed in parte stabiliti dall’accordo tra le parti.
In particolare, sono a carico del concedente:
a) l’obbligo di consegnare l’azienda in condizioni tali da poter servire all’uso pattuito;
b) l’obbligo di provvedere alle riparazioni straordinarie, ai sensi dall’art. 1621 c.c.;
c) in caso di azienda diretta all’esercizio del commercio, l’obbligo di cooperare al fine di consentire il rapido e positivo espletamento delle pratiche necessarie per l’intestazione delle autorizzazioni amministra- tive in favore dell’affittuario;
d) l’obbligo di non concorrenza previsto dall’art. 2557 c.c. Sono, invece, a carico dell’affittuario:
a) l’obbligo di non modificare la destinazione dell’azienda (arg. ex art. 2562, che richiama l’art. 2561 c.c.): esso si sostanzia nella necessità di esercitare l’attività già svolta dal concedente ovvero, in ogni caso, quella indicata in contratto; non è consentito, invece, utilizzare l’affitto di azienda per procurarsi un’azienda da destinare allo
paralberghiera si distingue da quello di locazione di immobile adibito a campeggio per il fatto che, nel primo caso, oggetto del contratto è un complesso organico preesistente alla pattuizione delle parti e comprendente una serie di servizi, di attrezzature e di impianti organizzati per l’esercizio di una impresa turistica recettiva già funzionante, con una sua precisa denominazione, e dotata delle relative scritture contabili, non – quindi – solamente un terreno destinato all’attendamento ed al parcheggio delle roulottes e corredato delle sole attrezzature indispensabili per tale destinazione”. Non è escluso, ovviamente, che quando il titolare di un’impresa, proprietario anche dei beni immobili in cui l’attività è esercitata, decida di cederne il godimento ad uno o più soggetti, si stipulino due diversi contratti: un contratto di affitto di azienda per la cessione in godimento del complesso produttivo aziendale ed un separato contratto di locazione degli immobili destinati ad ospitare l’attività di impresa per destinarli, quindi, ad uso commerciale, al quale ultimo si applicherà pertanto la disciplina di cui alla L. n. 392/1978.
svolgimento di un’attività qualsiasi, rimessa alla discrezionalità dell’affittuario. Tutto ciò in ragione delle caratteristiche proprie del contratto di affitto che comporta solo la concessione temporanea del diritto di godimento dell’azienda, la quale, nel momento in cui viene retrocessa al concedente, deve essere idonea all’esercizio dell’attività da questi esercitata fino al momento della conclusione del contratto di affitto;
b) l’obbligo di esercitare l’attività sotto la ditta del concedente, finalizzato a mantenere integro l’avviamento dell’azienda, che continua così ad essere identificata con la figura del concedente. In realtà, però, benché tale obbligo sia espressamente previsto dall’art. 2561 c.c., che viene richiamato dal precedente art. 2562 c.c., la possibilità di esercitare l’attività sotto la stessa ditta del concedente è in concreto condizionata al consenso di quest’ultimo, sicché non sussiste effettivamente in capo all’affittuario alcun obbligo se tale consenso non sia stato espressamente prestato in sede contrattuale;
c) l’obbligo di gestire l’azienda con diligenza, custodire e fare buon uso dei beni ricompresi nel complesso aziendale e di non compiere atti intesi a danneggiare o pregiudicare la loro integrità;
d) l’obbligo di mantenere la normale efficienza dell’azienda;
e) l’obbligo di provvedere alla conservazione dell’efficienza dell’organizzazione e degli impianti, che consiste in sostanza nell’assunzione delle spese di manutenzione ordinaria, nonché delle spese sostenute per la sostituzione ed il rinnovo dei cespiti che siano necessari per mantenere la funzionalità dell’azienda;
f) l’obbligo, infine, di corrispondere il canone dovuto per il godimento dell’azienda, secondo le modalità ed i termini stabiliti nel contratto. L’affittuario non può subaffittare l’azienda, cedere il contratto di affitto ovvero concedere a terzi l’uso dei beni aziendali senza il consenso scritto del concedente (art. 1624 c.c.).
Accanto agli obblighi di legge vi sono poi gli obblighi che le parti possono liberamente stabilire in contratto.
È salva, infatti, la possibilità che le parti fissino contrattualmente le loro reciproche obbligazioni, derogando alle disposizioni di legge od integrandole con clausole che introducono obblighi specifici, che rispondono alla situazione concreta.
Naturalmente, la disciplina convenzionale del contratto di affitto deve pur sempre rispettare il carattere inderogabile di determinate obbligazioni, che sono essenziali alla stessa qualificazione del contratto come affitto, oltre che rispondere, in generale, ai criteri di liceità fissati dalla legge: si pensi all’obbligo del pagamento del canone periodico ovvero a quello di consegna dell’azienda da parte del concedente in condizioni di idoneità allo svolgimento dell’attività di impresa cui il complesso aziendale è deputato. Tali obblighi non possono certamente venire derogati in contratto, dovendosi altrimenti ritenere che le parti abbiano in realtà inteso stipulare un contratto diverso dall’affitto di azienda.
4. La cessazione del contratto di affitto di azienda
Il contratto di affitto di azienda può anzitutto cessare per una delle cause previste contrattualmente: scadenza della durata dell’affitto, morte dell’affit- tuario o del concedente, fallimento di uno dei contraenti; oppure per il veri- ficarsi di fatti imputabili ad una delle parti, che costituiscono un inadempi- mento delle obbligazioni assunte (156).
L’affitto si può estinguere, inoltre, anche per il verificarsi dell’evento dedotto in condizione risolutiva apposta al contratto oppure per l’esercizio dell’eventuale diritto di recesso attribuito convenzionalmente ad uno dei
(156) Cfr., in dottrina, sul punto QUATTROCCHIO L., La cessazione del contratto di affitto di azienda, in Contratti, 2002, 943.
contraenti, con il quale gli è data la facoltà di sciogliersi anticipatamente dal contratto con una semplice dichiarazione unilaterale.
Fattispecie del tutto peculiare, poi, è quella in cui il contratto di affitto di azienda è, nell’intenzione delle parti contraenti, solo uno strumento per dare la possibilità all’affittuario di verificare, durante il periodo di pendenza del contratto, se sia opportuno procedere all’acquisto dell’azienda affittata, prevedendosi un’opzione di acquisto a favore dell’affittuario alla scadenza del contratto, oppure, sempre a suo favore, una prelazione per l’acquisto (157). Nel caso in cui sia esercitata l’opzione di acquisto dell’azienda o, rispettivamente, sia fatto valere il diritto di prelazione l’affitto si estingue per confusione, ossia per riunione nella medesima persona delle qualità di creditore e di debitore della prestazione dedotta nel contratto.
(157) Cfr. quanto osservato sull’affitto in funzione di un successivo trasferimento al § 1.2.
(158) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 1° marzo 2000, n. 2306, secondo la quale la violazione da parte dell’affittuario dell’obbligo di restituzione al concedente dell’azienda per scadenza del termine da luogo a responsabilità a norma dell’art. 1591 c.c.: in mancanza, infatti, di una norma che regoli nella disciplina dell’affitto i danni per ritardata restituzione, la Corte ha ritenuto possibile applicare in via analogica una disposizione dettata in materia di locazione, attesa l’identità di ratio tra le due fattispecie. Cfr. quanto considerato sul punto al
§ 1.1.
(159) Cfr., in giurisprudenza, sul punto, Cass., 24 agosto 1998, n. 8364, secondo la quale, in tema di affitto di azienda, per il calcolo della differenza della consistenza di inventario deve
In altri termini, i beni eventualmente immessi nell’azienda da parte dell’affittuario vengono acquisiti dal dominus dell’azienda, mentre l’affittuario ha solo diritto alla differenza in denaro tra la consistenza dell’inventario all’inizio e al termine del rapporto, sulla base dei valori correnti a quest’ultima data (160).
farsi riferimento, a norma degli artt. 2561 e 2562 c.c., alla data di cessazione del contratto di affitto e non a quella di effettivo rilascio dell’azienda; Cass., 28 gennaio 2002, n. 993, secondo la quale nell’affitto dell’azienda la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio e al termine del rapporto di affitto è regolata in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto. Ai fini di detta verifica è necessaria, pertanto, l’esistenza in concreto di un inventario iniziale.
(160) È chiaro che le parti possano anche derogare espressamente al principio
dell’assorbimento automatico dei beni acquistati dall’affittuario alla sfera aziendale, stabilendo che i beni immessi nell’azienda dall’affittuario rimarranno di proprietà dello stesso e potranno essere asportati a sua cura e spese al termine della durata dell’affitto.
(161) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 20 dicembre 1991, n. 13762 e Cass., 23 settembre 1995,
n. 10105 in Notariato, 1996, 231 ss.
Il concedente, inoltre, subentra anche nella titolarità dei rapporti contrattuali già a suo tempo trasferiti al momento della conclusione del contratto di affitto ed ancora in vita alla sua cessazione, nonché nei rapporti contrattuali stipulati durante il periodo di godimento dell’azienda da parte dell’affittuario, salvo patto contrario (162). Si ritiene, infatti, pacificamente che il disposto di cui all’art. 2558 c.c. operi anche in caso di retrocessione dell’azienda (163), anche se non si esclude che le parti potrebbero regolamentare la sorte dei contratti pendenti individuando espressamente
(162) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 29 gennaio 1979, n. 632; Cass., 8 maggio 1981, n. 3027; Trib. Milano, 19 dicembre 1974, in Giur. Comm., 1976, II, 123. Sul punto cfr. anche, in dottrina, VERDIRAME G., Successione nei contratti e divieto di concorrenza al termine dell’affitto di azienda, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 4 ss.
(163) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 14 febbraio 1979, n. 969, secondo la quale: “la
successione dell’acquirente, dell’usufruttuario e dell’affittuario di azienda, prevista dall’art. 2558 c.c., salvo patto contrario, nei contratti a prestazioni corrispettive stipulati dal dante causa e non ancora interamente eseguiti, sempre che di tratti di contratti non a carattere personale, inerenti all’esercizio dell’impresa e non soggetti a diversa specifica disposizione di legge, deve ritenersi operante, in applicazione estensiva del citato art. 2558 c.c., in ogni altra ipotesi in cui si verifichi sostituzione di un imprenditore all’altro, nell’esercizio dell’impresa, come conseguenza diretta della volontà delle parti, ovvero di un fatto dalle medesime espressamente previsto; pertanto, nel caso in cui l’esercizio dell’azienda si ritrasferisca dall’affittuario al locatore, per effetto di cessazione del rapporto di affitto, l’indicata successione si verifica nei confronti del locatore, solo se si tratti di cessazione del rapporto per causa negozialmente contemplata, come il termine finale e la condizione risolutiva, e non anche, quindi, nella diversa ipotesi in cui la cessazione medesima sia conseguenza diretta di un fatto non negoziale, ancorché ricollegabile, ma solo in via mediata, ad una fattispecie negoziale; da tanto deriva che il locatore non subentra nei contratti stipulati dall’affittuario, pur se presentanti le caratteristiche sopra specificate, qualora riacquisti il godimento dell’azienda prima della scadenza del contratto, in conseguenza della sua risoluzione per inadempimento dell’affittuario, sia essa pronunciata dal giudice ovvero disposta dalla determinazione di un arbitro irrituale designato dalle parti”; Cass., 16 giugno 2004, n. 11318, secondo la quale il subingresso automatico nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale si verifica anche in caso di restituzione dell’azienda al locatore, a seguito della cessazione del rapporto, sempre che questa si ricolleghi direttamente alla volontà delle parti o ad un fatto espressamente previsto dal contratto di affitto. La successione non si verifica per contro nel caso di risoluzione del contratto di affitto di azienda per inadempimento. In tale ultimo senso cfr. anche: Xxxx., 7 novembre 2003, n. 16724, secondo la quale il locatore dell’azienda che ne riacquisti il godimento prima della scadenza del termine pattuito nel contratto di affitto dell’azienda, in conseguenza della risoluzione di questo per inadempimento dell’affittuario, non succede nei rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive ancora pendenti sorti da contratti conclusi dall’affittuario. Cfr., in dottrina, sul punto, XXXXXXXXXX D., L’affitto di azienda, Milano, 2002, 53. Mentre, in senso contrario, rispetto all’art. 2558 c.c., in caso di retrocessione dell’azienda dall’affittuario al locatore cfr. CHIOMENTI F., Se l’art. 2558, comma 1, sia applicabile nella ipotesi di risoluzione del contratto di affitto di azienda, in Riv. dir. comm., 1982, II, 145.
quelli nei quali è previsto il subingresso (automatico) da parte del concedente al momento della cessazione del rapporto.
La cessazione dell’affitto dell’azienda e la sua restituzione al concedente non comportano per quest’ultimo la responsabilità ex art. 2560 c.c. per i debiti contratti dall’affittuario durante l’esercizio dell’attività di impresa: questi debiti rimangono a carico esclusivo dell’affittuario (164).
Un’autorevole dottrina, in particolare, ha affermato che il concetto di trasferimento di cui all’art. 2112 c.c. avrebbe un significato atecnico molto ampio, non circoscritto al mero passaggio di proprietà, ma comprensivo di
(164) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 8 maggio 1981, n. 3027, secondo la quale la cessazione dell’affitto di azienda e la sua restituzione al concedente non comportano a carico di quest’ultimo fuori dalle ipotesi diversamente regolate dalla legge la responsabilità ex art. 2560 c.c. per i debiti contratti dall’affittuario, non essendo siffatta ipotesi riconducibile ad alcuna delle vicende traslative in relazione alle quali la norma è posta. Così anche Xxxx., 20 aprile 1985, n. 2644 e Cass., 7 luglio 1992, n. 8252.
(165) Cfr. BONAJUTO A., Il trasferimento dell’azienda e del lavoratore, Padova, 1999, 30 ss.
ogni negozio giuridico dal quale sorga la legittimazione all’esercizio del potere di gestione aziendale; ed in tale nozione rientrerebbe certamente anche l’ipotesi di retrocessione dell’azienda nella disponibilità del concedente, in seguito alla cessazione del contratto di affitto di azienda.
In conclusione, il rapporto di lavoro continua sia in caso di trasferimento dell’azienda dal concedente all’affittuario, al momento della conclusione del contratto di affitto, sia quando l’azienda viene retroceduta dall’affittuario al concedente, al termine dell’affitto; e sull’affittuario, prima, e sul concedente, dopo, grava la responsabilità solidale per i debiti di lavoro. Resta salva, in ogni caso, la possibilità delle parti di prevedere una clausola contrattuale che tuteli la posizione del concedente, stabilendo per esempio la risoluzione dei contratti di lavoro stipulati dall’affittuario medio tempore, o una clausola che in caso di continuazione dei rapporti alla scadenza dell’affitto preveda l’impegno eventualmente garantito da fideiussione da parte dell’affittuario di adempiere a tutti gli obblighi contributivi e
(166) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 7 luglio 1992, n. 8252, secondo la quale la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. si applica anche nell’ipotesi di restituzione dell’azienda dall’affittuario al concedente; Cass., 20 aprile 1985, n. 2644, secondo la quale la cessazione dell’affitto di azienda, ancorché a causa di risoluzione del contratto per inadempimento, ed il conseguente ritrasferimento dell’azienda medesima dall’affittuario al concedente configurano una vicenda traslativa riconducibile nell’ambito della previsione dell’art. 2112 c.c., che comprenderebbe ogni caso in cui il complesso aziendale, quale entità unitaria di beni e rapporti giuridici, continui ad essere utilizzato in funzione dell’esercizio della stessa attività imprenditoriale, nonostante il mutamento dell’imprenditore. Ne deriva la responsabilità solidale in capo al concedente per tutti i debiti dell’affittuario verso i dipendenti correlati al rapporto di lavoro.
Al termine dell’affitto sono a carico dell’affittuario il logorio e il deperimento delle immobilizzazioni; viceversa, l’affittuario non ha diritto, per opinione consolidata della giurisprudenza, ad un compenso per l’incremento derivante in forza della sua gestione all’avviamento dell’azienda: nulla gli spetta per l’eventuale plusvalore assunto dall’organizzazione aziendale per effetto della sua attività e del suo denaro (168). È salva la facoltà per le parti di attribuire pattiziamente all’affittuario un’indennità per l’incremento del valore dell’avviamento, eventualmente sulla base di parametri predeterminati ovvero con devoluzione della relativa determinazione ad un terzo.
5. L’ affitto di azienda e il fallimento
L’affitto di azienda può venire in considerazione rispetto al fallimento almeno sotto due diversi profili.
In primo luogo, si pone il problema della sorte del contratto di affitto di azienda già posto in essere al momento della dichiarazione di fallimento di una delle parti. Può alternativamente accadere che fallisca l’affittuario di azienda ovvero il concedente che abbia ceduto a terzi la propria azienda.
(167) Cfr., in dottrina, sul punto, COTTINO G., Restituzione dell’azienda al locatore, nuova concessione in affitto e responsabilità per i debiti di lavoro, in Riv. dir. lav., 1961, II, 261 ss. Mentre, in giurisprudenza, cfr. Cass., 29 gennaio 1979, n. 632.
(168) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 29 gennaio 1955, n. 242; Cass., 9 luglio 1957, n. 2709; Cass., 4 dicembre 1963, n. 3084, secondo la quale l’avviamento, una volta cessato il contratto di affitto di azienda, rientra nel patrimonio del titolare dell’azienda medesima; Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, secondo la quale l’avviamento dell’azienda, rappresentandone una qualità essenziale, non può farsi rientrare tra le consistenze che
costituiscono invece elementi materiali o immateriali della sua struttura e non fruisce perciò della indennizzabilità prevista dall’art. 2561, ult. comma, c.c. solo per gli incrementi prodotti dall’affittuario; Cass., 20 marzo 1976, n. 1007. Nel senso della riconoscibilità di un indennizzo per l’avviamento, cfr., invece, Cass., 3 febbraio 1969, n. 486 e Cass., 19 settembre 1968, n. 2956.
In secondo luogo, viene in rilievo la possibilità che il contratto di affitto di azienda sia stipulato dal curatore fallimentare durante la procedura concorsuale.
5.1. Il fallimento del concedente ed il fallimento dell’affittuario
Quando interviene la dichiarazione di fallimento di un’impresa, pendono quasi sempre rapporti contrattuali in corso tra il soggetto fallito e i terzi, con effetti non ancora esauriti. Nella pratica, uno dei principali problemi è dunque individuare la sorte dei contratti in corso di esecuzione.
La legge fallimentare (di cui al R.D. n. 267/1942), nel testo anteriore alla riforma realizzata con la L. n. 5/2006, non prevedeva una disciplina generale relativa alla sorte dei contratti in corso di esecuzione. Tuttavia, dettando talune regole per alcuni di essi, come ad es. la vendita o la locazione, permetteva alla dottrina e alla giurisprudenza di ricavare per analogia la disciplina per tutti gli altri negozi giuridici.
In particolare, con riguardo all’affitto di azienda, in mancanza di una norma espressa, la giurisprudenza e la dottrina ritenevano applicabile per analogia la disciplina delle locazioni commerciali prevista dall’art. 80 l. fall. (169). Quindi, in caso di fallimento del concedente, il curatore subentrava automaticamente nel contratto nella stessa posizione del concedente; in caso, invece, di fallimento dell’affittuario, al curatore era data la facoltà di optare per lo scioglimento ovvero per il subentro nel contratto (170).
(169) Cfr., in giurisprudenza, Cass., 28 aprile 1993, n. 5012.
(170) Cfr. ancora Cass., 28 aprile 1993, n. 5012, cit.; ed anche Trib. Como, 3 marzo 1987, in Fallimento, 1987, 882. Nel caso in cui il curatore avesse optato per lo scioglimento del contratto, per la giurisprudenza si verificavano (schematicamente) i seguenti effetti: a) i crediti e i debiti che facevano capo all’affittuario non passavano al fallimento; b) i contratti in corso che l’affittuario aveva stipulato con terzi proseguivano con il curatore, solo se: si trattava di contratti non eccedenti la potenzialità produttiva dell’azienda o i poteri di gestione attribuiti pattiziamente all’affittuario; la restituzione dell’azienda si collegava direttamente alla volontà delle parti o ad un fatto che queste avessero espressamente
Con la riforma del 2006 sono state introdotte rilevanti novità. Si è, infatti, anzitutto prevista una norma generale applicabile a tutti i contratti non diversamente ed appositamente regolati (art. 72, l. fall.), secondo la quale se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, sia dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiari di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo (comma 1). È data così al curatore la possibilità di avere il tempo per valutare quale sia la decisione migliore da adottare circa la sorte dei contratti in corso relativi all’impresa fallita. Nel contempo si prevede che il contraente può mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende sciolto (comma 2), sì da offrire comunque al privato uno strumento per porre fine entro tempi ragionevoli alla situazione di incertezza sulla sorte del contratto di cui è parte.
Inoltre, si sono riscritte od aggiunte apposite norme dettate per singoli contratti molto utilizzati nella pratica commerciale. Tra questi, il contratto di affitto di azienda, in ordine al quale l’art. 80 bis l. fall., prevedendo per la prima volta in modo espresso la disciplina degli effetti del fallimento in materia di contratto di affitto di azienda, stabilisce che il fallimento non è causa di scioglimento del contratto, ma che entrambe le parti possono recedere entro un termine di sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo, che nel dissenso delle parti è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. Il credito per l’equo indennizzo è inserito tra quelli prededucibili, ai sensi dell’art. 111, n. 1, l. fall.
previsto, quel termine finale, condizione, risoluzione; c) i rapporti di lavoro si scioglievano. Cfr. Cass., 29 gennaio 1979, n. 632.
5.2. L’affitto di azienda concluso dalla curatela fallimentare
Il contratto di affitto di azienda può essere stipulato dal curatore anche dopo la dichiarazione di fallimento, quale strumento per assicurare, sia pure indirettamente, la continuazione dell’attività di impresa, in vista della futura liquidazione dell’azienda.
Già prima della riforma del 2006, pure in mancanza di un dato normativo espresso, si ammetteva la possibilità che il curatore, dopo il fallimento, potesse cedere ad un imprenditore il godimento dell’azienda fallita in cambio del pagamento dei canoni periodici.
Si riteneva di poter accedere a siffatta interpretazione sulla base del disposto di cui all’art. 3, comma 4, L. n. 223/1991, che, riconoscendo un diritto di prelazione all’affittuario dell’azienda del fallito in occasione della liquidazione dell’impresa fallita, implicitamente presupporrebbe dunque la possibilità dell’affitto di tale azienda.
In particolare, la giurisprudenza ammetteva il ricorso a tale strumento da parte della curatela fallimentare come mezzo per la conservazione del complesso aziendale in vista di una successiva vendita in blocco o di una sua migliore collocazione sul mercato, evitando inoltre ai creditori il danno che può derivare dall’improvvisa interruzione dell’attività di impresa.
L’operazione doveva, dunque, essere finalizzata a consentire di realizzare nel modo migliore possibile la liquidazione del complesso aziendale. Così, per esempio, essa poteva utilizzarsi nel caso in cui fosse temporaneamente non opportuno vendere l’azienda per le cattive condizioni di mercato; in questo caso, infatti, l’affitto costituiva (e costituisce) lo strumento per consentire la gestione temporanea dell’azienda, evitandone il depaupera- mento, con accollo di tutte le responsabilità a carico dell’affittuario,
In assenza di una disciplina espressa, si era comunque delineata una prassi applicativa che permetteva di stabilire, per grandi linee, quale fosse il percorso da seguire per giungere alla conclusione del contratto di affitto, quale dovesse essere il suo contenuto e quale la sua disciplina.
Il legislatore della riforma, tenendo conto di questa prassi, ha ritenuto opportuno colmare il vuoto legislativo preesistente, dedicando un’apposita disciplina all’affitto di azienda stipulato dal curatore, con ciò dando ulteriore prova dell’utilità di questo contratto al fine di salvaguardare la redditività dell’azienda, a tutela dei creditori e dei posti di lavoro. Tale novità normativa risponde del resto pienamente allo spirito della nuova disciplina del fallimento, considerato oramai non più esclusivamente come uno strumento per eliminare dal sistema economico un’impresa insolvente, ma anche come un mezzo per cercare di recuperare e conservare una struttura economica, a salvaguardia di tutti gli interessi che possono essere coinvolti.
Ebbene, l’art. 104 bis l. fall., introdotto a seguito della riforma, stabilisce anzitutto che anche prima della presentazione del programma di liquidazione, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza l’affitto di azienda del fallito a terzi, anche limitatamente a specifici rami quando appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti della stessa (comma 1).
La disposizione, quindi, disciplina il procedimento da seguirsi perché il curatore possa ottenere l’autorizzazione ad affittare l’azienda fallita. Confermando la prassi già seguita prima della riforma, si prevede dunque
(171) Cfr., Trib. Napoli, 6 maggio 1999. Il ricorso all’affitto di azienda costituisce, inoltre, un valido strumento alternativo alla gestione provvisoria dell’azienda da parte del curatore, in quanto, a differenza di quelle assunte dall’affittuario, le obbligazioni contratte dal curatore per la continuazione dell’esercizio dell’impresa costituiscono debiti della massa, da soddisfare in prededuzione (art. 111, n. 1, l. fall.); la continuazione dell’attività può, perciò, comportare l’assorbimento di larga parte dell’attivo da parte dei nuovi creditori, con grave pregiudizio per i creditori concorsuali, anche privilegiati.
che l’affitto può essere autorizzato, su proposta del curatore, dal giudice delegato dopo la redazione dell’inventario ed anche prima della presentazione da parte dello stesso curatore del programma di liquidazione dell’attivo. In tale programma il curatore deve indicare l’opportunità dell’esercizio provvisorio o dell’affitto di azienda (art. 104 ter, l. fall.).
L’unica differenza procedurale rispetto al passato sta nel fatto che per il rilascio dell’autorizzazione è necessario il preventivo parere favorevole (vincolante) del comitato dei creditori.
Va ricordato che l’affitto di azienda presenta per il fallimento un vantaggio considerevole rispetto all’esercizio provvisorio dell’impresa, dal momento che il rischio della prosecuzione dell’attività commerciale ricade non sui creditori e quindi sul fallimento, ma solo sul terzo affittuario; il curatore, quindi, si libera dell’onere di curare la gestione dell’impresa e, nel contempo, permette l’acquisizione al fallimento del corrispettivo convenuto. L’art. 104 bis, comma 2, l. fall. fissa i criteri che debbono essere seguiti nella scelta dell’affittuario, stabilendo che questa debba essere effettuata dal curatore sulla base della stima del valore dell’azienda, assicurando la massima informazione e partecipazione da parte degli interessati con adeguate forme di pubblicità. La scelta dell’affittuario deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto
riguardo anche alla conservazione dei livelli occupazionali.
Quindi, la scelta dell’affittuario è effettuata dal curatore, in base al valore di stima dell’azienda o del ramo di azienda, tramite procedure competitive, come ad es. un’asta o una gara, assicurando con adeguate forme di pubblicità la massima partecipazione ed informazione degli interessati. La disposizione chiarisce, altresì, che la scelta dell’affittuario non deve tenere conto solo dell’ammontare del canone, ma anche delle garanzie offerte e dell’attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, con riguardo ai livelli occupazionali, obiettivo quest’ultimo che si aggiunge
dunque a quello del conseguimento di un maggior vantaggio con l’affitto per i creditori concorsuali.
I commi 3 e 4 dell’art. 104 bis, poi, danno indicazioni circa la forma, il contenuto minimo e la durata del contratto, prevedendo che: “il contratto di affitto, stipulato dal curatore nelle forme previste dall’art. 2556 del codice civile, deve prevedere il diritto del curatore di procedere all’ispezione dell’azienda, la prestazione di idonee garanzie per tutte le obbligazioni dell’affittuario derivanti dal contratto o dalla legge, il diritto di recesso del curatore dal contratto che può essere esercitato, sentito il comitato dei creditori, con la corresponsione all’affittuario di un giusto indennizzo da corrispondere ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1”; ed, inoltre, che: “la durata dell’affitto deve essere compatibile con le esigenze della liquidazione dei beni”.
Il contratto di affitto, dunque, è stipulato secondo le forme di cui all’art. 2556 c.c., ossia distinguendosi tra forma scritta ad probationem tantum, forma scritta ad substantiam (nel solo caso di affitto ultranovennale, ai sensi dell’art. 1350, comma 1, n. 8) e forma necessaria per il deposito del contratto presso il registro delle imprese, a fini di pubblicità. Il curatore si costituisce in atto come concedente, preventivamente autorizzato dal giudice delegato con decreto e dopo avere sentito il comitato dei creditori, e deve assicurarsi che nel contratto siano previsti:
a) il suo diritto ad ispezionare l’azienda affittata, al fine di verificare che l’affittuario rispetti le prescrizioni e si attenga ad una corretta gestione imprenditoriale;
b) apposite garanzie idonee a coprire tutte le obbligazioni dell’affittuario derivanti dal contratto;
c) il suo diritto di recesso, che può essere esercitato, una volta sentito il comitato dei creditori, con la corresponsione all’affittuario di un equo indennizzo.
La durata del contratto, infine, deve tenere conto delle esigenze di liquidazione dei beni, considerato che tale contratto è concluso nell’ambito della procedura concorsuale di fallimento.
In altre parole, deve essere il curatore a valutare preventivamente come si svolgerà la fase liquidatoria e a stabilire quale sarà la sua durata approssimativa, al fine di stipulare un contratto di affitto che non abbia durata superiore alla data presunta di chiusura della liquidazione.
Quanto alla disciplina applicabile all’affitto di azienda, vale forse la pena di sottolineare che, contrariamente a quanto dispone l’art. 2557, comma 4,
c.c. che estende il divieto di concorrenza al concedente per tutta la durata dell’affitto, tale divieto non opera nei confronti dell’ufficio fallimentare ed il curatore ben può decidere di concedere in affitto a terzi altre aziende già appartenute al fallito oppure di continuare l’esercizio provvisorio di altre imprese, ai sensi dell’art. 104 l. fall.
Non sopravvivono e, quindi, non si trasferiscono all’affittuario i contratti stipulati nell’esercizio dell’impresa, che per effetto del fallimento si siano sciolti automaticamente, mentre si trasferiscono in capo a questi i contratti inerenti all’esercizio dell’impresa, nei quali il curatore abbia deciso di subentrare.
I debiti e i crediti relativi all’azienda concessa in affitto non passano all’affittuario, ma sono acquisiti al fallimento. L’affittuario subentra nei rapporti di lavoro, ai sensi dell’art. 2112 c.c., ma non assume la responsabilità solidale per i crediti pregressi dei lavoratori occupati nell’azienda.
Il legislatore si è preoccupato, poi, di regolare espressamente gli effetti derivanti dalla retrocessione dall’affittuario alla procedura concorsuale dell’azienda, disponendo all’art. 104 bis, comma 6, l. fall. che: “la retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile”.
Si è stabilito, quindi, che una volta scaduto l’affitto, il fallimento non è responsabile per i debiti relativi all’azienda maturati nel corso del rapporto di affitto; di essi resta responsabile il solo affittuario. La ratio di una tale norma è stata individuata nel bisogno di assicurare i creditori del fallimento da eventuali condotte dissennate tenute dall’affittuario.
Per i rapporti pendenti, relativi all’azienda affittata ed esistenti ancora al momento della retrocessione, l’ultima parte del comma 6 dell’art. 104 bis l. fall. rinvia alla disciplina prevista per i contratti pendenti al momento del fallimento ed, in particolare, dunque all’art. 72 l. fall.
Ciò significa che per i contratti stipulati dall’affittuario dell’azienda il curatore potrà scegliere tra il subingresso della procedura nel rapporto contrattuale ovvero lo scioglimento del rapporto stesso. Gli effetti del singolo contratto rimarranno pertanto in sospeso fino a quando il curatore non abbia effettuato tale scelta.
5.3. La prelazione dell’affittuario in caso di trasferimento dell’azienda da parte della curatela fallimentare
È previsto che, ai sensi dell’art. 3, comma 4, L. 223/1991, l’imprenditore che a titolo di affitto, abbia assunto la gestione, anche parziale, di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a procedure concorsuali, possa esercitare il diritto di prelazione nell’acquisto delle medesime.
Una volta esperite, pertanto, le procedure previste dalle norme vigenti per la determinazione del prezzo di vendita dell’azienda, l’autorità che ad essa proceda, provvede a comunicare entro dieci giorni il prezzo così stabilito all’imprenditore cui sia riconosciuto il diritto di prelazione.
Tale diritto deve, poi, essere esercitato entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione.
Ci si chiede se il diritto di prelazione spetti solo a chi abbia affittato l’azienda dalla curatela fallimentare oppure debba essere riconosciuto anche
all’affittuario che abbia gestito l’azienda in forza di un contratto di affitto stipulato con l’imprenditore in bonis.
In giurisprudenza, tuttavia, considerata l’eccezionalità della disciplina che pone limiti all’autonomia contrattuale, si ritiene che della disposizione debba essere data un’interpretazione letterale e, quindi, restrittiva (172).
Si osserva, inoltre, che se l’affitto è stato stipulato dalla curatela fallimentare con riguardo ad uno specifico ramo del complesso aziendale più ampio, la prelazione non potrà esercitarsi per tutta l’azienda, ma solo con riguardo all’oggetto del contratto di affitto.
Infine, ci si chiede che cosa succeda se non si da all’affittuario la possibilità di esercitare il diritto di prelazione di cui alla disposizione citata.
Ma, al di là della tutela riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità nell’ambito della procedura fallimentare, si è ulteriormente posto il dubbio se possa riconoscersi all’affittuario il diritto di riscattare l’azienda venduta a terzi in violazione del suo diritto di prelazione.
La legge in proposito nulla dice e ciò potrebbe indurre a pensare che essa non abbia voluto riconoscere un tale diritto all’affittuario.
Tuttavia, è pur vero che la differenza tra le prelazioni legali e le prelazioni volontarie è proprio il c.d. jus retractionis, il diritto cioè di recuperare la cosa alienata in violazione dello jus prelationis nei confronti di qualunque terzo.
Alla luce di ciò, ai fini del possibile riconoscimento di un diritto di riscatto in capo all’affittuario, l’unico problema che rimane da risolvere sembrerebbe quello del termine entro il quale tale diritto dovrebbe essere esercitato dall’affittuario.
(172) Xxx. Xxxx. Xxxxx, 0 ottobre 1991, in Fallimento, 1992, 512.
(173) Cfr., in tale senso, Cass., 13 maggio 1998, n. 4794.