Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927
Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927
Il divieto del c.d. patto leonino posto dall’art. 2265 c.c. (ed estensibile a tutti i tipi sociali, attenendo alle condizioni essenziali del tipo «contratto di società») presuppone una situazione statutaria - costitutiva dei diritti e degli obblighi di uno o più soci nei confronti della società ed integrativa della loro posizione nella compagine sociale - caratterizzata dalla esclusione totale e costante di uno o di alcuni soci dalla partecipazione al rischio di impresa e dagli utili, ovvero da entrambe; pertanto, esulano dal divieto le pattuizioni regolanti la partecipazione alle perdite e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi (situazione di rischio attenuato), sia che condizionino in alternativa la partecipazione, o la non partecipazione, agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti; peraltro, il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni.
Fatto
Sulla base di un accordo stipulato in data 1 settembre 1980 con i xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx (soci titolari del capitale sociale della
s.p.a. Laminatoio di Buttrio), la s.p.a. Friulia (finanziaria regionale) aveva acquisito una partecipazione azionaria di L. 100.000.000 della società predetta (10%). Nell’accordo era previsto l’obbligo dei soci di svolgere un programma di riorganizzazione e di sviluppo della società (clausola n. 5), programma comprendente:
a) il completamento di investimenti per L. 70.000.000;
b) l’impiego di 56 unità lavorative;
c) il raggiungimento ed il conseguimento di un fatturato almeno di 13.000.000.000 di lire nel 1982.
In caso di inadempimento a dette condizioni (clausola n. 13) era previsto che la s.p.a. Friulia potesse esigere che i Galotto riacquistassero le azioni della società vendute alla Friulia, al prezzo dalla stessa esborsato e maggiorato dell’interesse semplice del 7% annuo.
Nel caso, invece, di esito favorevole del programma, era previsto per i Galotto il diritto di riscattare dalla s.p.a. Friulia le azioni della s.p.a. Laminatoio di Buttrio, e ciò a prezzo predeterminato ed entro certo termine.
L’accordo predetto era riconfermato, anche negli obiettivi, con atto in data 5 ottobre 1982, in occasione dell’aumento di capitale della s.p.a. Laminatoio di Buttrio e dell’entrata in vigore nella compagine di un azionista tedesco (Xxxxxxxxx Xxxxxxxx OHG), a sua volta sottoscrittore dell’accordo, con la previsione dell’impiego di almeno 50 unità lavorative ed il raggiungimento del fatturato consolidato di 10-12 miliardi entro il 1983.
Con ricorso in data 7 novembre 1985 la s.p.a. Friulia chiedeva ed otteneva dal Presidente del Tribunale di Trieste ingiunzione di pagamento di L. 136.150.685 contro i Galotto sul presupposto che, dopo aver raggiunto le finalità fissate nell’accordo, la s.p.a.
Laminatoio di Buttrio non aveva continuato l’attività e con delibera assembleare del 5 luglio 1985 aveva deciso la cessazione dell’attività produttiva e la rottamazione degli impianti al fine di fruire del contributo statale previsto dall’art. 2 della L. n. 193-84 in favore delle imprese siderurgiche.
Su opposizione dei signori Galotto il Tribunale di Trieste pronunciava con sentenza 18 marzo 1987 la revoca del D.I., sul presupposto, ritenuto, dell’insussistenza del credito in coerenza con l’accertata natura di “lettera di patronage” dell’atto in contestazione in relazione alle obbligazioni assunte dai soci; in relazione al fatto che da una lettera di patronage può nascere solo una responsabilità aquiliana, e non contrattuale e che detta responsabilità nella specie non era sorta in quanto le promesse erano state mantenute per quanto atteneva al raggiungimento del fatturato preventivato, mentre la Friulia non aveva manifestato il suo dissenso per la cessazione dell’attività, tanto che, quale socio partecipante ad altra società (la s.p.a. Acciaierie Weissenfels) aveva in assemblea espresso voto favorevole a che il contributo conseguente alla cessazione della s.p.a. Laminatoio di Buttrio venisse reimpiegato nell’aumento di capitale della Weissenfels.
Su appello della finanziaria regionale, e nel contraddittorio dei soci Galotto, pronunciava la Corte d’appello di Trieste con sentenza n. 309-89 confermativa di quella di primo grado, ancorché con diversa motivazione.
In particolare la Corte di merito, escluso che nella specie fosse individuabile una lettera di “patronage”, secondo una delle ipotesi standardizzate dalla prassi delle lettere di conforto, ed esaminando i patti parasociali, i partecipanti dei quali, almeno per il secondo accordo, erano tutti soci della s.p.a. Laminatoio di Buttrio, riteneva che assumessero rilievo, non tanto gli impegni assunti dai Galotto, pur inquadrabili nell’ambito della “promessa del fatto del terzo”, quanto il regime stabilito per il caso di inadempimento, nel caso che la società fosse rimasta al di sotto di un certo livello di fatturato.
Ed invero, l’obbligo dei precedenti soci di riacquistare la quota venduta alla Friulia in caso di inadempienza, e l’obbligo della Friulia di vendere a condizioni predeterminate ai vecchi soci in caso di inadempimento sottraeva la socia Friulia alternativamente alle perdite ed ai profitti societari, configurando sotto entrambi gli aspetti un “patto leonino” contrario al precetto dell’art. 2265 c.c.
Né detto patto, così configurando, troverebbe giustificazione alcuna nel fatto che la s.p.a. Friulia era una finanziaria regionale istituita in base alla legge regionale 5 agosto 1966 n. 18 con la finalità di promuovere lo sviluppo economico della regione non solo con l’assistenza finanziaria e tecnico-amministrativa, ma anche mediante la partecipazione a società per azioni. Riteneva la Corte del merito che detta partecipazione dovesse avvenire in conformità a legge, conformità non ravvisabile nella specie per il contrasto con il ricordato art. 2265 c.c.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione la s.p.a.
Friulia sulla base di due motivi, integrati da memoria; si costituivano con controricorso i xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx.
Diritto
I ) Con il primo mezzo di cassazione la ricorrente deduce la falsa applicazione dell’art. 2265 c.c in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., sostenendo, sul ritenuto patto leonino, che l’intera motivazione svolta dalla Corte del merito era basata su assiomi, non essendo stato riguardato il complesso dei patti, né sotto il profilo soggettivo, né sotto quello oggettivo. Sostiene la ricorrente che se la Corte del merito avesse valutato il complesso delle clausole delle pattuizioni in esame, anziché limitarsi ad isolare le sole ipotesi conseguenti all’inadempimento, avrebbe rilevato che la Friulia era entrata nella compagine sociale come “socio d’impulso”; la Friulia, cioè, non era entrata nella s.p.a. Laminatoio di Buttrio per finanziarla con l’acquisto di azioni, ma per assisterla dal di dentro con le proprie capacità (non esclusivamente, ma anche finanziarie) e concorrere a risollevarne la condizione economica di impresa, unitamente agli altri soci.
In questa prospettiva, che è coerente con la finalità della finanziaria regionale secondo la legge regionale di previsione, le clausole esaminate dalla Corte non avrebbero costituito patto leonino, ma clausola “penale” a favore di una parte in caso di inadempimento e clausola “premiale” per l’altra parte in caso di adempimento. In questa prospettiva né l’una né l’altra clausola costituirebbero patto leonino. Non la prima perché non si esclude la sopportazione di perdite da parte della Friulia, in caso di gestione negativa per cause diverse dall’inadempimento. Non la seconda che conferma il diritto della Friulia, finché socia, alla percezione degli utili, la cui detrazione opera soltanto in funzione della determinazione del prezzo della eventuale cessione delle azioni ai soli soci Galotto.
II) Con il secondo mezzo la ricorrente deduce la violazione (mancata applicazione) degli art. 1381 e 1382 c.c. ed omessa motivazione, sotto il profilo dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
La ricorrente, richiamando le proprie difese dei gradi di merito, sostiene che la fattispecie deve essere inquadrata nella promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.) ove oggetto della promessa era la realizzazione di un programma di riorganizzazione e sviluppo aziendale, promittenti erano i Galotto nel 1980 nonché i Galotto e la Xxxxxxxxx Xxxxxxxx OHG nel 1982, quali azionisti di maggioranza della società; promissaria era la Friulia; terza la s.p.a.
Laminatoio di Buttrio.
La conseguenza dell’inadempimento erano le situazioni risolutive e risarcitorie previste dalle clausole 13 dell’atto 1 settembre 1980 e 14 dell’atto 5 ottobre 1982. Rispetto alla promessa del fatto del terzo, dette clausole null’altro erano se non clausole penali sanzionanti l’inadempimento del patto.
I due motivi meritano una trattazione congiunta coinvolgendo un’unico problema visto sotto diversi punti di vista.
La controversia, quale emerge dal dibattito tra le parti, pone un quesito fondamentale e cioè: se l’omessa partecipazione alle perdite o agli utili integri la condotta negoziale vietata dall’art. 2265 c.c. per la società semplice ed estendibile a qualsiasi tipo sociale, quand’anche le relative clausole pattizie non siano parte del contratto sociale ma di patti parasociali e quand’anche il limite di partecipazione agli utili o alle perdite non sia assoluto, ma sottoposto a condizioni coordinabili con il perseguimento di una funzione, in
ipotesi meritevole di tutela giuridica a norma dell’art. 1322 c.c., ed espressione dell’autonomia negoziale.
La tesi rigoristica ed unitaria seguita dalla Corte di Trieste, uniformatasi a rilevanti voci di dottrina sul punto, merita opportuna considerazione, così come merita adeguato rilievo la tesi aperta a più ampie possibilità sostenuta dalla ricorrente nell’ipotesi in cui la limitazione del socio alla percezione degli utili ed alla partecipazione alle perdite sia parte di una più ampia negoziazione parasociale, che ha trovato riscontro in alcune voci di dottrina ed in alcune datate pronunce di questa Corte, che ben raramente ha avuto occasione di esprimersi sulla disciplina dell’art. 2265 c.c.
Innanzi tutto occorre individuare il caso di specie, nella sua configurazione negoziale, secondo le indicazioni emergenti dalla sentenza oggetto del ricorso e dai riferimenti incontroversi delle parti nel giudizio di legittimità.
La s.p.a. Friulia – Finanziaria Regionale Friuli Venezia Giulia – è una finanziaria regionale operante per scopi di pubblico interesse, volti a promuovere lo sviluppo economico regionale ed operante con la finalità di reintegrazione di condizioni di economicità di imprese in crisi, ovvero di promozione di nuove attività economiche, nella regione costituente l’ambito di esplicazione della sua attività.
In tale veste la Friulia, convenendo con i soci della s.p.a.
Laminatoio di Buttrio, responsabili dell’impostazione produttiva e della gestione aziendale un programma promozionale cui essa contribuiva finanziariamente (programma individuato mediante il conseguimento entro un certo termine di determinati risultati), aveva acquisito azioni per L. 100.000.000 convenendo con i soci stessi due ipotesi alternative, e cioè:
1) in caso di mancato conseguimento del risultato convenuto, la Friulia si riservava il diritto di rivendere ai soci le azioni allo stesso prezzo di acquisto, maggiorato dell’interesse del 7%;
2) in caso di raggiungimento e di consolidamento del risultato convenuto, i soci Galotto si riservavano il diritto di riscattare le azioni della Friulia al prezzo di acquisto.
La liquidazione della quota, quindi, nell’un caso e nell’altro, secondo la tesi espressa dalla Corte di Trieste, avrebbe neutralizzato la Friulia dalla partecipazione alle perdite nel primo caso e dalla partecipazione agli utili, nel secondo caso.
Già da questi dati fondamentali, peraltro, emerge che la neutralizzazione della quota societaria acquisita dalla Friulia rispetto alla partecipazione agli utili ed alle perdite non era caratteristica assoluta né costante, quanto meno secondo il dato testuale delle clausole richiamate. Ed invero, sotto il primo profilo (quello delle perdite) la Friulia, con il diritto di rivendere agli altri soci le azione allo stesso prezzo di acquisto oltre ad interessi convenzionali (diritto convenuto solo nel caso di mancato adempimento da parte dei soci, esprimenti in maniera determinante l’amministrazione e la gestione dell’impresa sociale, all’obbligazione di fare conseguire alla società partecipata determinati risultati), avrebbe avuto in tale ipotesi indubbiamente il potere di scaricare le perdite sulle quote patrimoniali degli altri soci e non sulla quota rappresentata dalle azioni a mani della Friulia. L’esclusione dalle perdite, peraltro, si sarebbe verificata solo in tale ipotesi, collegata al diritto della rivendita delle azioni a condizioni preconcordate. Nel caso
pertanto che, pur con il conseguimento di quei risultati (individuati non con riferimento ad un utile di bilancio, né esclusi dalla sussistenza di una perdita, ma ragguagliati ad entità di aumento di capitale, di fatturato e di mano d’opera impiegata) la società fosse stata comunque in perdita, ovvero il mancato conseguimento dei risultati convenuti non fosse ascrivibile a responsabilità colposa degli altri soci, La Friulia non avrebbe avuto il potere di rivendere le azioni alle condizioni predeterminate ad essa avrebbe dovuto subire, come qualsiasi altro socio, la perdita sul valore delle proprie azioni, perdita che si sarebbe quantificata sia nell’ipotesi di vendita delle azioni, sia nella eventuale fase di liquidazione della società.
Ed ancora, sotto il secondo profilo, la mancata partecipazione della Friulia agli utili, secondo l’illustrazione della Corte del merito, sarebbe collegata al potere, da parte degli altri soci, di riscattare le azioni della Friulia a condizioni predeterminate. Ciò è vero, però, solo in parte; è vero, in particolare, per gli utili non distribuiti e cumulati con il capitale; non è vero per gli utili che fossero stati distribuiti con i bilanci annuali durante il periodo di titolarità delle azioni da parte della finanziaria regionale, utili distribuiti che nessuna incidenza avrebbero potuto avere sul valore del capitale e delle azioni.
In conclusione, vi era indubbiamente la possibilità concreta che la Friulia, per la quota sociale acquisita non rispondesse di perdite, né percepisse utili, ma ciò non come situazione costante caratterizzante comunque la sua partecipazione sociale, ma come situazioni alternative, ricorrenti in presenza di determinate condizioni, e non sussistenti in altre, Ciò, quanto meno, secondo la letteralità delle clausole del patto parasociale.
Tanto premesso in ordine alla situazione in discussione, occorre puntualizzare in linea di diritto che il precetto vincolante dell’art. 2265 c.c., indubbiamente estensibile a tutti i tipi sociali in quanto attinente alle condizioni del tipo “contratto società” è, secondo la fattispecie derivante dalla norma, caratterizzata da due situazioni, e cioè:
a) il patto leonino nullo sussiste quanto un socio viene escluso, in via alternativa, da “ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, ed a maggior ragione quando venga escluso da entrambe le forme di partecipazione indicate;
b) il patto, in via di normalità, costituisce parte del contratto sociale, individuando la posizione di un socio nell’ambito societario e nella compagine sociale.
In ordine alla caratteristica sub a), di conseguenza, il patto leonino non caratterizza la posizione di un socio che pur possa partecipare alle perite ed agli utili, in misura non coerente all’entità delle azioni possedute; la mancata rispondenza, nell’entità percentuale rispetto al capitale sociale, tra poteri corporativi e diritti o rischi patrimoniali, è situazione che esula dal precetto dell’art. 2265 c.c. ed in esso rientra sol quando la mancata rispondenza tra poteri, da un lato, diritti e rischi dall’altro, riduca questi ultimi a nulla, caratterizzando in tale senso la posizione del socio “leo”.
È opportuno ricordare, per il tipo “società per azioni” richiamabile nella specie, la disciplina dell’art. 2351 c.c. che, nella previsione delle azioni privilegiate, raggruppa in modo indifferenziato tutte le azioni munite di diritti patrimoniali maggiorati di quelli normalmente attribuiti dalla partecipazione sociale, lasciando all’autonomia negoziale (statutaria) la determinazione dell’entità e del modo d’essere del privilegio, con l’unico
limite dell’art. 2265 c.c. senza che giochi nel sistema un’esigenza di bilanciamento tra la componente patrimoniale e quella amministrativa dell’azione.
È pur vero che quale criterio informatore del sistema, emerge un’esigenza che alla compressione della componente amministrativa debba necessariamente corrispondere un rafforzamento quantitativo di quella patrimoniale (esempio ne sono le azioni a risparmio). Peraltro nel nostro ordinamento quell’esigenza è recepita soltanto quando l’autonomia statutaria interviene a comprimere i diritti amministrativi e, in particolare il diritto di voto; non è vero, però, il contrario (quando alla pienezza dei diritti amministrativi corrisponda una compressione di quelli patrimoniali), in quanto il contenuto patrimoniale dell’azione è modellabile dagli statuti senza alcun vincolo di equilibrio con le altre componenti (come emerge dall’art. 2351 comma 2 c.c. che consente, ma non impone, la limitazione del diritto di voto spettante alle azioni privilegiate), che non sia il patto leonino.
Al fine di individuare la sussistenza, o non, di un patto statutario contrario al precetto dell’art. 2265 c.c. quindi, non è sufficiente individuare uno squilibrio tra poteri corporativi e poteri patrimoniali privilegiati per alcuni soci e compressi per altri (quando i primi non siano a loro volta compressi), né assume rilievo una mera graduazione statutaria del rischio di impresa, ma assume rilievo l’individuazione dell’eliminazione del rischio di impresa, nella duplice, ed alternativa, previsione della esclusione “da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”.
Ciò che la legge, con il precetto dell’art. 2265 c.c. pone come limite invalicabile all’autonomia statutaria, non è il mancato bilanciamento tra poteri amministrativi e poteri patrimoniali (che pur costituisce l’ipotesi di normalità in base alla disciplina dell’art. 2263), né una graduazione della ripartizione dei rischi e degli utili dell’impresa sociale difforme dalla quota di partecipazione sociale, ma l’esclusione in modo assoluto e sostanziale dai rischi della perdita e dal diritto agli utili per alcuni dei soci rispetto ad altri.
Come è stato rilevato in dottrina, rapportando il divieto in questione alla nozione di capitale sociale, la ragione per cui la legge ha imposto non solo la costituzione di una patrimonio sociale, ma anche la formazione ad opera di tutti i soci, è da ricercare nella volontà di rendere tutti i membri del gruppo partecipi del rischio d’impresa conseguente all’attività svolta al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri. La possibilità di perdere, infatti, il valore economico rappresentato dal proprio conferimento, dovrebbe costituire un sufficiente stimolo a spingere il socio ad astenersi da operazioni eccessivamente aleatorie ed a prodigarsi per il favorevole esito dell’impresa. Coerentemente con questa impostazione, la legge, vietando l’esclusione dalle perdite ha voluto che il socio fosse partecipe del rischio sociale per ragioni di politica economica, in quanto colui che non partecipasse al rischio, ma solo all’utile, non porterebbe nella formazione della volontà sociale il medesimo interesse degli altri soci, ponendosi in conflitto di interessi rispetto agli stessi che possono sia perdere che guadagnare. In situazione omologa e contraria, l’esclusione dagli utili si ricollega alla necessità di impedire che un socio possa partecipare alla gestione in difetto di interesse alla stessa. Conseguentemente partecipazione agli utili e partecipazione alle
perdite, in relazione al conferimento eseguito, costituiscono elementi essenziali ed inscindibili della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato.
Peraltro, perché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c. sussista è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Xxxxxxxx perché riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società.
Pertanto, l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe. Quando, per contro, sussista una regolamentazione della partecipazione al rischio ed agli utili in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame. E la regolamentazione del rischio, che esuli “da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”, può essere anche integrata dalla previsione di ipotesi (purché coerenti ad interessi rilevanti), in cui il socio partecipi ad utili ed a perdite in alternativa ad ipotesi in cui detta partecipazione sia esclusa, e pertanto non integrante una esclusione totale e costante.
Peraltro, tanto ritenuto in linea di principio, si rileva che l’esclusione, oggetto del divieto, deve individuarsi con un riferimento sostanziale alle situazioni giuridiche che dal patto possono derivare, non formale. Pertanto se la previsione di escludere dalle perdite o dagli utili, sia subordinata a limiti tali da rendere la partecipazione alle perdite o agli utili praticamente impossibile, si verterebbe sempre in una convenzione xxxxxxx xxxxxxxxx, soggetta al precetto dell’articolo in esame che ne sanziona la nullità.
La Corte del merito, quindi, che non ha ampliato l’analisi ad una concreta interpretazione delle clausole in esame, ritenendole senz’altro integranti un patto leonino in carenza di una disamina completa secondo i parametri che la fattispecie richiedeva, è chiamata ad un riesame della situazione sulla base dei principi sopra esposti, riesame volto ad individuare se le clausole in esame integrino, in quanto tali, o non, un patto leonino vietato. In caso di risposta negativa, ovviamente, sarebbe chiusa l’analisi senza ulteriore considerazione del fatto che nella specie le clausole controverse non facevano parte di un contratto di società, ma di un patto parasociale, in quanto se tali clausole non fossero nulle qualora comprese in un contratto sociale (che costituisce la fattispecie direttamente prevista dell’art. 2265 c.c.), a maggior ragione la loro validità non verrebbe posta in discussione, sotto il profilo indicato, qualora costituissero contenuto di un patto parasociale.
I principi cui la Corte del merito, nella nuova disamina, si atterrà sono i seguenti:
1) il divieto di cui all’art. 2265 c.c. integra una situazione statutaria, costitutiva dei diritti e degli obblighi di uno o più soci nei confronti della società ed integrativa della loro posizione nella compagine sociale, situazione caratterizzata dalla “esclusione totale e
costante” di alcuni soci dalla partecipazione al rischio di impresa e dagli utili, ovvero da entrambe;
2) esulano dal divieto le pattuizioni regolanti la partecipazione al rischio ed agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione del singolo socio, costituenti espressione dell’autonomia statutaria, che nelle società per azioni trovano riscontro nella previsione delle azioni privilegiate, sia che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi (situazioni di rischio attenuato), sia che condizionino in alternativa la partecipazione, o la non partecipazione, agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti;
3) Il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite, deve essere riguardata in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste, anche in presenza di una delle ipotesi del precedente numero 2), quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni, con la costanza ragguagliata al periodo di partecipazione del socio in posizione dominante. L’analisi delle clausole contrattuali, per valutarne la concreta corrispondenza ad una o ad altre delle situazioni indicate nei principi enunciati, rientra nella funzione del giudice del rinvio, pur rilevando che già dall’enunciazione delle clausole riportate nella sentenza oggetto di ricorso, emerge sotto il profilo formale che l’esclusione dalle perdite e dagli utili non è, nel caso di specie, né totale né costante.
Qualora la Corte del rinvio giungesse a ravvisare nelle clausole in esame la sussistenza del c.d. patto leonino, occorrerebbe valutare la diversa posizione indicata sub b) nell’impostazione di premessa.
Occorre valutare, vale a dire, se abbia, o non, incidenza il fatto che le clausole in esame non erano espressione di autonomia statutaria, ma di un patto parasociale intervenuto tra i soci della s.p.a. Laminatoio di Buttrio e la finanziaria regionale s.p.a.
Friulia, in un primo tempo non socia, quindi essa stessa socia della società operativa in occasione della conferma dei patti dopo l’entrata del socio straniero.
È ovvio, innanzi tutto, che se il patto parasociale avesse la funzione essenziale di eludere il divieto dell’art. 2265 c.c., esso diverrebbe un negozio in frode non meritevole di autonoma tutela ed incorrente a sua volta nella previsione di nullità dell’articolo citato, in quanto, come è stato rilevato in dottrina, se la legge ha sottoposto un rapporto a norme imperative, ed ha imposto degli obblighi ai contraenti, non è certo perché questi debbano rispettarli come parti del contratto sociale, ma possano al tempo stesso contraddirli come terzi.
Diversa, però, potrebbe essere la situazione qualora il negozio costituente patto parasociale, pur contenendo una clausola di esclusione da rischi e da utili che verrebbero caricati agli altri contraenti (i quali siano a loro volta soci), abbia una sua autonoma funzione meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c. In tale senso si è espressa una datata sentenza di questa Corte sotto la vigenza del precedente codice (Cass. 14 giungo 1939 n. 2475) che, distinguendo tra contratto e patto parasociale, ammetteva la validità della convenzione in quanto integrante un accordo causalmente separato dal contratto sociale (un autonomo contratto di garanzia). Nella stessa linea, ancorché in diversa
fattispecie, si può richiamare Xxxx. 22 giugno 1963 n. 1686 che aveva escluso il patto leonino in una convenzione che importava il pagamento di una somma quale corrispettivo del godimento di diritti temporalmente trasmessi da un gruppo di soci ad altro gruppo di soci, ed inoltre Xxxx. 25 marzo 1966 n. 787, per quanto riferita a diversa fattispecie.
Si consideri che l’esclusione dalle perdite e (non “o”) dagli utili (come si verificherebbe nel caso di specie qualora di ravvisasse il patto leonino nella previsione esaminata sub a)), lascia al socio privilegiato soltanto i poteri corporativi.
La figura del soggetto che possa disporre di azioni al solo fine di esercitarne i poteri amministrativi, ancorché in relazione ad una funzione meritevole di tutela, non è estranea al nostro ordinamento societario, solché si consideri la fattispecie del pegno di azioni (art. 2352 c.c.), in cui al creditore fruente del pegno spetta il diritto di voto, ancorché la funzione di garanzia dell’obbligazione possa sfumare, assumendo invece funzione essenziale l’attività di controllo esercitabile mediante la partecipazione all’organo deliberante assembleare. Si pensi all’ipotesi del pegno di azioni a garanzia di un credito fatto alla stessa società, partecipata con dette azioni; è evidente che il valore delle azioni non sarà superiore a quello del patrimonio sociale, per cui il credito insoddisfatto verso la società per incapienza patrimoniale non potrà trovare maggiore soddisfazione nella vendita delle azioni, che dello stesso patrimonio sono rappresentative; ciò malgrado la funzione di controllo dell’andamento sociale attraverso l’esercizio del diritto di voto è espressione dell’interesse del creditore al buon andamento della società, ed all’esplicazione di attività societaria per il suo conseguimento, quanto meno ai fini satisfattori delle sue ragioni creditorie.
Lo stesso risultato, conseguibile mediante il rapporto di costituzione in pegno delle azioni a garanzia di obbligazioni della società partecipata, può perseguirsi in via indiretta, ma ciò malgrado non meno meritevole di tutela, mediante l’acquisizione di azioni (ovviamente dagli altri soci) della società al cui buon andamento economico e funzionale si abbia interesse, e nel contempo privando lo status di socio (mediante contratto parasociale con gli stessi soci alienanti delle azioni), dei poteri e dei rischi patrimoniali; poteri e rischi che permangono negli altri soci contraenti, lasciando persistere per l’acquirente solo i poteri corporativi.
Come in precedenza rilevato, la ragione del divieto dell’art. 2265 c.c., deve ravvisarsi nel fatto che la partecipazione agli utili ed al rischio dell’esercizio dell’impresa costituiscono il migliore incentivo all’esercizio avveduto e corretto dei poteri amministrativi; essi costituiscono, inoltre, nella compagine societaria ed in virtù della funzione del contratto di società, l’unico ed essenziale incentivo all’esercizio, in un senso produttivo, in altro senso non avventato, dei poteri corporativi, e giustificano una scelta di politica legislativa nel senso indicato dall’art. 2265 c.c. Ciò non toglie che l’esercizio degli stessi poteri possa essere conferito, con un rapporto che presuppone il contatto sociale ma che con esso non si confonde (per l’appunto un contratto parasociale), a soggetti che pur non partecipano alle perdite o agli utili, traggano l’incentivo all’esercizio produttivo, e nel contempo corretto ed avveduto, dei poteri amministrativi, da una serie di interessi rilevanti di altra natura che al buon esito dell’andamento dell’impresa sociale siano connessi, In tale caso, analogamente a quanto avviene con la costituzione in pegno delle
azioni, un contratto parasociale avente una funzione causale autonomamente meritevole di tutela e non volta unicamente alla violazione del disposto dell’art. 2265 c.c., ma espressione di un interesse alla buona gestione dell’impresa, può rientrare in una valutazione di validità, non essendo espressione di quelle ragioni di politica economica che sono alla base del precetto dell’art. 2265 c.c.
Possono giocare in tale senso la funzione di impulso e di controllo che una finanziaria a finalità pubblicistiche, coerente al proprio oggetto sociale ed alla disciplina normativa regionale inerente alla sua istituzione, abbia dedotto come oggetto del contratto parasociale a garanzia dell’impegno, anche finanziario, da essa impiegato per risollevare le sorti di un’impresa ovvero per incentivarne la costituzione e lo sviluppo; gioca in tale senso la deduzione espressa nel contratto parasociale della funzione incentivante allo sviluppo di imprese regionali, rispetto alla quale le responsabilità degli altri soci, aventi funzione preponderante nella determinazione della gestione di impresa, ovvero l’attribuzione a detti soci in via esclusiva degli utili della gestione, costituiscono l’indice di clausole contrapposte penali o premiali, che non qualificano il disinteresse della finanziaria regionale alla gestione dell’impresa, ma che al contrario possono qualificare detto interesse e realizzarlo mediante l’apporto coordinato dell’attività incentivante e finanziaria della società regionale e l’attività gestoria degli altri soci, che ad una buona gestione sono a loro volta indotti proprio dalla funzione di garanzia e promozionale delle clausole penali e premiali.
Non sarebbe sufficiente addurre, quindi, che comunque, l’accollo di tutte perdite da parte degli altri (nel caso che in tale senso volgesse l’indagine sostanziale del giudice del rinvio sul punto indicato sub a) e la riserva agli stessi di tutti gli utili, delineerebbe comunque la mancanza di interesse ad un corretto uso dei poteri amministrativi da parte della Friulia, carenza di interesse che è alla base, come già rilevato, del divieto dell’art. 2265 c.c., potendosi individuare, in senso opposto, che l’esistenza di detto interesse può costituire l’oggetto principale dedotto espressamente nel contratto parasociale, delineato attraverso la indicazione di parametri economici da perseguire; potrebbe rilevarsi che l’interesse della società partecipante sul piano finanziario è atto ad assumere tale rilievo da indurre, con clausole penali e premiali, gli altri soci (costituenti la assoluta maggioranza dalla quale dipendeva in modo assoluto la gestione dell’impresa) ad attivarsi utilmente in quella stessa direzione, onde evitare l’adagiarsi si situazioni di comodo assistenzialismo pubblicistico.
Una volta quindi ammesso, come la Corte di Trieste ha ammesso, sia pure im via meramente concessiva, che il contratto parasociale esprima una promessa del fatto del terzo, la funzione del negozio parasocile (ancorché comporti in via di ipotesi la sottrazione della Finanziaria regionale dalla partecipazione alle perdite ed agli utili), è tutt’altro che irrilevante, dovendosi accertare se detta sottrazione abbia una finalità meramente elusiva del divieto dell’art. 2265 c.c. (ed in tale caso cadrebbe nella previsione di nullità di detto articolo), ovvero integri una funzione autonomamente meritevole di tutela, validamente deducibile in un contratto distinto dal contratto sociale, ancorché presupponga un contratto sociale, e non in contrasto con le ragioni fondamentali che sono alla base del divieto dell’art. 2265 c.c.. In tale caso, si impone un’analisi
particolareggiata devoluta al giudice del merito che, se svolta nel senso delle meritevolezza di tutela della funzione perseguita col singolo contratto, non esclude la validità dello stesso validità che potrebbe essere affermata.
Detta analisi, svolta secondo i criteri normativi di ermeneutica negoziale ed in coerenza con la disciplina dell’art. 1322 c.c., non è stata fatta dal giudice di secondo grado e deve essere svolta dalla Corte del rinvio, cui è pure demandato, infine, di accertare, a seconda dell’esito delle analisi indicate, se sussista, o no, la situazione creditoria dedotta in controversia originariamente dalla s.p.a. Friulia.
Alla Corte del rinvio è devoluta anche la decisione in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M
La Corte, accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’Appello di Trieste.