LE “TRAPPOLE” (DA EVITARE) DEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
LE “TRAPPOLE” (DA EVITARE) DEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
( A cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx * e Avv. Xxxxxxxxx Xxxxxx** )
Come accade sempre più spesso negli ultimi anni, la riforma legislativa operata con il Jobs Act e, in particolare, con il D. lgs. 25/2015 è stata accolta con sfavore dalla dottrina giuslavoristica e vista come un notevole “arretramento” rispetto ai livelli di tutela che erano assicurati dalla disciplina previgente. La maggior parte dei commentatori, quindi, si sta orientando verso un'esegesi dichiaratamente orientata a “limitare i danni”, ossia a ridimensionarne la portata innovativa. Orientamento interpretativo che poi finirà per influenzare inevitabilmente le pronunce della giurisprudenza.
Questo contrasto fra l’orientamento del legislatore e quello degli interpreti più qualificati rappresenta un problema gravissimo per gli operatori professionali (imprenditori e loro consulenti) i quali, nell’applicare quelle leggi, sono costretti a fare anche un po' da indovini, per tentare di prevedere i problemi che ne potrebbero derivare e per evitare di esporsi a rischi anche molto elevati.
Vediamo allora di comprendere quali “sorprese” potrebbero emergere in sede interpretativa, rivelandosi vere e proprie “trappole” micidiali per imprese e consulenti; lo faremo tenendo conto del dibattito già emerso nei primi convegni scientifici svoltisi sul tema.
1) La trasformazione dei contratti a termine preesistenti: rischio eccesso di delega
Come noto, l'art. 1, comma 2, del D. Lgs. 23/2015 prevede che la disciplina del cd. contratto a tutele crescenti si applichi anche ai rapporti derivanti dalla conversione a tempo indeterminato di contratti a termine o di apprendistato stipulati anche prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo.
Ebbene, in alcune delle prime analisi in sede scientifica, è stata da più parti ipotizzata una illegittimità costituzionale della nuova disciplina poichè il decreto legislativo, sul punto, avrebbe ecceduto la delega di cui alla L. 183/2014; questa, all'art. 1, comma 7, lett. c), si riferisce, infatti, alle “nuove assunzioni” e non consentirebbe, quindi, di intervenire su contratti già stipulati prima della sua entrata in vigore. Diciamo subito che una simile interpretazione della legge delega appare piuttosto discutibile in quanto il riferimento operato dal legislatore alle “nuove assunzioni” pare riferirsi chiaramente ai contratti a tempo indeterminato e non certo alle varie forme di rapporti precari che in essi potrebbero convertirsi. A ciò si aggiunga che scopo evidente della riforma pare proprio quello di incentivare la sostituzione dei contratti precari con quelli stabili e non si vede perché tale incentivo non dovrebbe operare anche nei confronti dei contratti precari già costituiti.
A questo punto, però, indipendentemente dalla fondatezza o meno della questione, poiché le aziende hanno la possibilità di scegliere se operare la conversione dei contratti a termine e di apprendistato ovvero far cessare il rapporto per poi stipulare un nuovo contratto a tempo indeterminato, non pare proprio il caso di correre il rischio ed è consigliabile adottare la seconda soluzione. Qualora, infatti, la questione venisse effettivamente sollevata e la Corte la accogliesse, magari a distanza di anni, ne deriverebbe l'applicazione della disciplina generale sui licenziamenti a quei contratti che si era creduto di stipulare “a tutele crescenti”.
2) L’illusione della liberalizzazione dei licenziamenti disciplinari.
Nel testo del D.Lgs. 23/2015 compare una rilevante novità rispetto a quello dell’art. 18, L. 300/70 derivato dalla cd. Riforma Fornero. Nel delineare le ipotesi in cui esclude, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, la sanzione della reintegrazione, la nuova norma, infatti, non menziona più quella in cui il contratto collettivo o il codice disciplinare aziendale puniscano il fatto contestato con una sanzione meno grave del licenziamento. Xxxxxxxx, invece, l'esclusione della tutela reale solo nelle ipotesi in cui sia stato provato in giudizio il fatto materiale contestato, precisando, però,
che nessuna rilevanza dovrà attribuirsi, a questo scopo, alla valutazione di proporzionalità della sanzione-licenziamento rispetto all'inadempimento. Da una lettura della norma strettamente legata al dato testuale si potrebbe, quindi, ricavare la convinzione che la reintegrazione resti esclusa anche in presenza di inadempimenti piuttosto lievi, sempre che il fatto materiale contestato sia stato provato in giudizio (e sempre che esso costituisca un inadempimento contrattuale). A titolo di esempio si può pensare a un ritardo di mezz'ora nell'inizio del lavoro che costituisce certamente un inadempimento alle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ma rispetto al quale la sanzione del licenziamento non potrebbe certo considerarsi proporzionata; d'altro canto, un lieve inadempimento del genere è sicuramente sanzionabile secondo CCNL e codice disciplinare con una sanzione di tipo conservativo. Ai sensi dell'art. 18, L. 300/70 (come modificato dalla L. 92/2012) esso comporterebbe l'applicazione della tutela reale di cui al IV comma. Secondo il nuovo decreto, invece, la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto all'inadempimento non può più assumere rilevanza ma la norma consente neanche di far riferimento al CCNL e al regolamento aziendale. Si potrebbe quindi pensare, appunto, che la riforma escluda l'applicabilità della tutela reale anche in ipotesi di inadempimento minimale, con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria (che, come noto, nei primi anni di lavoro comporta il versamento di indennizzi irrisori). Da questo tipo di lettura, ripetiamo apparentemente del tutto conforme al testo legislativo, qualche imprenditore potrebbe quindi essere indotto a utilizzare con leggerezza il licenziamento disciplinare.
In realtà, le prime e più qualificate analisi critiche hanno evidenziato che una simile lettura della norma difficilmente potrebbe passare il vaglio della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia Europea. Si stanno, invece, ipotizzando altre interpretazioni che mirino a rendere il testo legislativo più conforme ai principi generali dell'ordinamento. In particolare, ci pare plausibile pensare che il legislatore abbia eliminato il riferimento alla contrattazione collettiva solo perchè lo ha ritenuto inutile o comunque eccessivo considerando quanto già dispone in merito l'art. 30, comma 3, della L. 183/2010, che prevede: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti … (omissis).” In effetti, il riferimento operato dalla riforma Fornero alle “previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” appariva alquanto discutibile sia perchè si sovrapponeva irrazionalmente alla norma del collegato lavoro, sia perchè finiva per rendere vincolanti per il giudice (e per le parti) disposizioni contenute in contratti collettivi di natura privatistica o addirittura in non meglio definiti codici disciplinari (che di solito sono unilateralmente determinati del datore di lavoro). Molto più razionale appare, invece, il meccanismo normativo previsto dal collegato lavoro che non rende vincolanti le norme del CCNL ma impone solo al giudice di “tenerne conto” estendendo poi tale riferimento ai contratti individuali (in pratica a regolamenti disciplinari concordati fra le parti) purchè certificati nelle forme di legge.
È possibile (anzi probabile), quindi, che l'eliminazione nel D. lgs. 23 del riferimento regolamenti disciplinari sia solo apparente e che il giudice continuerà ad applicare la tutela reale non solo quando manchi la prova del fatto materiale ma anche quando quel fatto sia punito con sanzioni minori nell'ambito delle norme disciplinari (collettive o individuali) legittimamente fissate.
3) Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Anche su questo argomento un apparente alleggerimento della tutela potrebbe, in realtà, tradursi nel suo esatto contrario.
Nella riforma, infatti, è stato rimosso ogni riferimento al licenziamento per superamento del periodo di comporto che nell'art. 18 è sanzionato con la cd. tutela reale parziale (reintegrazione più risarcimento fino a 12 mensilità). Ne deriva una forte incertezza sulla sanzione applicabile e qualcuno potrebbe essere indotto confidare in quella, meramente obbligatoria, prevista per il licenziamento economico.
In realtà, nei primi interventi della dottrina l'orientamento prevalente appare esattamente opposto e, quindi, ancor più severo poichè si tende ad applicare la sanzione della nullità per contrasto con l'art. 2110 cod. civ.. Una tesi che appare convincente, attesa la rilevanza dei beni tutelati dalla disciplina violata e anche alla luce del consolidato orientamento interpretativo secondo cui il licenziamento per comporto costituisce un terzium genus rispetto alla tradizionale distinzione fra giustificato motivo soggettivo ed oggettivo. Essa potrebbe quindi facilmente affermarsi in giurisprudenza.
La nullità del licenziamento ex art. 1428 cod. civ. significa ovviamente totale inefficacia dello stesso e diritto del lavoratore licenziato al pagamento di tutte le retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto, con i relativi contributi, maggiorati di sanzioni per evasione. Il licenziamento per superamento del periodo di comporto va utilizzato quindi con estrema e, anzi, maggiorata prudenza.
* Presidente Nazionale ANCL-S.U.
* * Avvocato Componente Ufficio Legale ANCL